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AGGIORNAMENTO AL 31.12.2017 |
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IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il «Foia» apre l’accesso ai fogli presenze dei colleghi.
È possibile chiedere documenti e informazioni sull'attività
di un pubblico dipendente: lo
consente l'“accesso civico” (Dgs 33/2013 e 97/2016), applicato dal
TAR Campania-Napoli (Sez. VI,
sentenza
13.12.2017 n. 5901).
Il caso
Un privato intendeva visionare dati e fogli di presenza di un collega sul
luogo di lavoro relative ad alcuni mesi. L'amministrazione (una società
partecipata dalla Regione) e l'interessato avevano negato l'accesso: di qui
il contrasto, risolto dai giudici dando precedenza al controllo sulle
funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
Prevale la partecipazione finalizzata “al dibattito pubblico”, con un
controllo diffuso, anche su dati personali di determinati soggetti. Tutto
ciò perché nel sistema Foia (Freedom of information Act, Dlgs
97/2016) si intendono perseguire trasparenza, comprensibilità e
conoscibilità dell'attività amministrativa, per realizzare imparzialità e
buon andamento e per far comprendere le scelte di interesse pubblico.
Si raggiunge quindi l'accesso su singoli atti (legge 241/1990), l'accesso a
dati e documenti allo scopo (Dlgs 97/2016) di promuovere la partecipazione
degli interessati all'attività amministrativa, favorendo forme di controllo
sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo di risorse
pubbliche. L'unico limite sono le esigenze di riservatezza, segretezza e
tutela di interessi (economici e commerciali).
Inoltre, mentre l'accesso documentale (legge 241/1990) esige un rapporto
qualificato tra il richiedente e i documenti, l'accesso civico generalizzato
rende possibile conoscere l'organizzazione e l'attività della Pa, superando
singoli dati e documenti di pubblicazione obbligatoria, estendendosi a dati
ulteriori, senza dimostrare un interesse concreto.
I limiti
I limiti all'accesso, condivisi anche dall'Anac (linee guida 1309/2016),
sono quelli dell'identità personale e cioè i dati bancari, Isee, telefonici,
quelli del personale con funzioni ispettive, quelli sensibili (Dlgs 196/2003) su opinioni politiche, religiose, filosofiche, di adesione a partiti,
sindacati, stato di salute e vita sessuale.
Il Tar ha escluso dall'interferenza ingiustificata nell'altrui libertà, la
conoscenza delle presenze sul lavoro: al più, vanno omessi i dati
sull'assenza per malattie. L'accesso civico è stato utilizzato in una serie
di liti decise dal Tar Lazio: i commissari liquidatori di una società,
revocati dal ministero dello Sviluppo economico, hanno ottenuto di conoscere
i curricula dei commissari subentranti (sentenza 1335/2017); l'impresa
subappaltatrice ha avuto copia dei registi contabili di un società
committente, affidataria di lavori pubblici (10098/2017); i candidati hanno
potuto esaminare i test di accesso a facoltà universitarie (Tar Lazio
8814/2017), come alcuni utenti hanno potuto studiare l'organizzazione
capitolina del servizio di assistenza domiciliare (3906/2017) (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2017).
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MASSIMA
Il ricorso va accolto siccome fondato nei termini che di seguito saranno
esplicitati.
Il ricorrente con istanza di accesso presentata ai sensi dell’art. 5, comma
2, del d.lgs. 33/2013 ha chiesto di accedere ”ai dati e ai fogli di
presenza (i quali costituiscono atti pubblici) e/o i corrispondenti
strumenti, anche informatici, di rilevazione delle presenze sul luogo di
lavoro, del dott. Ib.Al.….” per il periodo dal 01.01.2017 al 17.02.2017.
Il Responsabile della Trasparenza dell’Ente ha ritenuto l’istanza non
accoglibile esclusivamente “per opposizione del controinteressato”.
Prima ancora di esaminare i motivi di ricorso e le questioni poste dalle
parti costituite appare opportuno al Collegio richiamare la disciplina
applicabile alla presente fattispecie, connotata certamente da rilevanti
profili di novità trattandosi di questione in tema di c.d.
accesso civico generalizzato, istituto entrato in vigore nel nostro
ordinamento solo il 23.12.2016.
L’accesso civico generalizzato è oggi un importante
strumento chiaramente finalizzato a realizzare la trasparenza amministrativa
e cioè la comprensibilità e la conoscibilità, dall’esterno, dell’attività
amministrativa, in particolare da parte dei cittadini; comprensibilità e
conoscibilità finalizzate, in particolare, a realizzare imparzialità e buon
andamento dell’azione amministrativa e a far comprendere le scelte rivolte
alla cura dell’interesse pubblico.
Dal punto di vista normativo, sin dai tempi della legge n. 241 del 1990, la
trasparenza si è posta, come un valore-chiave, in grado di coniugare
garanzie ed efficienza nello svolgimento dell’azione amministrativa, anche
se la trasparenza è stata inclusa espressamente tra i principi generali che
regolano l’attività amministrativa solo a partire dalla l. 15 del 2005, con
la modifica recata in tal senso all’art. 1 l. n. 241/1990.
La l. n. 241/1990 per anni è stata considerata, comunque, come la “fonte”
unica della regola generale della trasparenza amministrativa: sia perché
consentiva di conoscere i documenti e gli atti adottati nell’esercizio
dell’attività amministrativa mediante il riconoscimento del diritto all’accesso
documentale, sia perché introduceva norme improntate alla trasparenza
(in tema di partecipazione procedimentale dei privati e di obbligo di
motivare i provvedimenti amministrativi).
Sulla scia dei concetti introdotti dal d.lgs. n. 150 del 2009 in materia di
trasparenza e in attuazione della delega recata dall’art. 1, commi 35 e 36,
della l. 28.11.2012, n. 190, in tema di “Disposizioni per la prevenzione
e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica
amministrazione”, è stato adottato il d.lgs. 14.03.013,
n. 33 (da ora anche decreto
trasparenza), come modificato dal d.lgs. 97/2016, che ha
operato una importante estensione dei confini della trasparenza intesa oggi
come “accessibilità
totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo
scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione
degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di
controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo
delle risorse pubbliche”.
L’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza
dell’attività delle amministrazioni di cui al decreto 33/2013 resta
temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di
segretezza e di tutela di determinati interessi pubblici e privati (come
elencati nell’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla
regola, alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema FOIA
(l’acronimo deriva dal Freedom of Information Act, e cioè la legge
sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04.07.1966).
Va ancora ricordato in via preliminare che, nonostante
alcuni punti di contatto di tipo “testuale” tra la disciplina in tema
di accesso ai documenti e quella riferita all’accesso civico
generalizzato, questo si pone su un piano diverso rispetto all’accesso
documentale, caratterizzato, quest’ultimo, da un rapporto qualificato del
richiedente con i documenti che si intendono conoscere, derivante proprio
dalla titolarità in capo al soggetto richiedente di una posizione giuridica
qualificata tutelata dall’ordinamento.
La disciplina dell’accesso civico generalizzato
(art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33/2013), quale appunto ulteriore strumento di
trasparenza dell’azione amministrativa, si aggiunge, nel nostro ordinamento,
a quella che prevede gli obblighi di pubblicazione (articoli da 12 e
ss. del d.lgs. n. 33 del 2013) e alla più risalente disciplina di cui agli
articoli 22 e ss. della l. n. 241/1990 in tema di accesso ai documenti.
Con il d.lgs. n. 33 del 2013, infatti, viene assicurata ai
cittadini la possibilità di conoscere l’organizzazione e l’attività delle
pubbliche amministrazioni anche attraverso l’obbligo a queste imposto di
pubblicare sui siti istituzionali, nella sezione denominata “Amministrazione
trasparente”, i documenti, i dati e le informazioni concernenti le
scelte amministrative operate (artt. 12 e ss.), ad esclusione dei documenti
per i quali è esclusa la pubblicazione, in base a norme specifiche ovvero
per ragioni di segretezza, secondo quanto indicato nello stesso decreto.
L’accesso civico generalizzato è stato introdotto in Italia sulla
base della delega di cui all’art. 7, comma 1, lett. h), della cd. Legge
Madia, ad opera dell’art. 6 del d.lgs. 25.05.2016, n. 97 che ha novellato
l’art. 5 del citato decreto sulla trasparenza.
Il decreto 33/2013 non introduce una distinzione o una
diversa denominazione tra le due tipologie di “accesso civico”
che attualmente si rinvengono nel nostro ordinamento, per come
individuate al comma 1 e al comma 2, del menzionato art. 5, per cui
tenendo anche conto della distinzione operata con le linee guida dell’Anac
in materia di accesso civico
(determinazione
28.12.2016 n. 1309,
recante indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso
civico generalizzato, adottata dall’ANAC d'intesa con il Garante per la
protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata in base
all’art. 5-bis, comma 6, del decreto trasparenza) ci si
riferisce all’accesso civico “semplice”, con riguardo
all’accesso del cittadino rivolto ad ottenere la pubblicazione obbligatoria
nella sezione “Amministrazione trasparente” di dati e documenti e
all’accesso civico generalizzato con riferimento all’accesso inteso a
conoscere documenti “ulteriori” rispetto a quelli da pubblicare.
Alla luce del dettato normativo, si comprende bene la
rilevante differenza che esiste tra accesso ai documenti e accesso
civico che, pur condividendo lo stesso tipo di tutela processuale, non
possono considerarsi sovrapponibili: il primo è strumentale alla
tutela degli interessi individuali di un soggetto che si trova in una
posizione differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione della
quale ha il diritto di conoscere e di avere copia di un documento
amministrativo, il secondo è azionabile da chiunque, senza la previa
dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto per la
tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la
sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati che
sono considerati dalle norme come pubblici e quindi conoscibili.
Con particolare riguardo all’accesso civico
generalizzato, poi, l’art. 5, comma 2, del decreto 33/2013 prevede che i
cittadini possono accedere a dati e documenti (detenuti dalle
Amministrazioni) “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di
pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi
pubblici e privati individuati all’art. 5-bis del decreto, conoscenza che
deve servire a “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di
promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”.
Tale controllo è, quindi, funzionale a consentire la
partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico e finalizzato ad
assicurare un diritto a conoscere in piena libertà, anche dati “ulteriori”
e cioè diversi da quelli pubblicati, naturalmente senza travalicare i limiti
previsti dal legislatore e posti a tutela di eventuali interessi pubblici o
privati che potrebbero confliggere con la volontà di conoscere espressa dal
cittadino.
Non può non rimarcarsi, infine, che mentre la legge
241/1990 esclude espressamente l'utilizzabilità del diritto di accesso
per sottoporre l'amministrazione a un controllo generalizzato, il diritto di
accesso generalizzato è riconosciuto proprio «allo scopo di
favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni
istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la
partecipazione al dibattito pubblico».
Dalle menzionate linee guida dell’Anac si legge che “tenere
ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi
interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per
caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso
dell’accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in
profondità a dati pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato,
dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un
accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei
limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso
comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati,
documenti e informazioni”.
Per quanto concerne la procedura delineata dall’art. 5 del
d.lgs. 33/2013, che deve essere
richiamata in questa sede in ragione dei motivi di ricorso che evidenziano
la violazione della stessa, nel corso dell’iter procedimentale in concreto
seguito dall’Ente, la norma prevede che:
- il procedimento di accesso civico
deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta
giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione al richiedente
e agli eventuali controinteressati;
- il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso
devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti
dall'articolo 5-bis;
- nei casi di diniego parziale o totale all’accesso o in
caso di mancata risposta allo scadere del termine per provvedere,
contrariamente a quanto dispone la legge 241/1990, non si forma
silenzio-rigetto, ma il cittadino può attivare la speciale tutela
amministrativa interna davanti al Responsabile della prevenzione della
corruzione e della trasparenza (soggetto individuato in base all’art. 1,
comma 7, della L. 190/2012, come modificato dal d.lgs. 97/2016) formulando
istanza di riesame, rispetto alla quale il Responsabile adotta un
provvedimento motivato entro il termine di venti giorni;
- se l'accesso è stato negato o differito per tutelare dati
personali il suddetto Responsabile provvede sentito il Garante per la
protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di
dieci giorni dalla richiesta.
Per quanto concerne poi i limiti, l’art. 5-bis del decreto
33/2013 prevede che l’accesso civico generalizzato è rifiutato se il
diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli
interessi pubblici di cui al comma 1 e di uno dei seguenti interessi privati
di cui al comma 2: “a) la protezione dei dati personali, in conformità
con la disciplina legislativa in materia;
b) la libertà e la segretezza della corrispondenza;
c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica,
ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti
commerciali”.
La norma prosegue prevedendo che se i limiti (relativi agli
interessi pubblici e privati da tutelare) riguardano soltanto alcuni dati o
alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l'accesso agli
altri dati o alle altre parti.
Per meglio comprendere il quadro normativo di riferimento non possono non
considerarsi in questa sede anche le menzionate Linee Guida dell’Anac di cui
alla
determinazione 28.12.2016 n. 1309
contenenti indicazioni operative per i soggetti destinatari di richieste di
accesso generalizzato, con particolare riguardo all’attività di
valutazione delle istanze da decidere tenendo conto dello spirito della
norma, della necessità di motivare adeguatamente gli eventuali dinieghi e
della protezione da assicurare in caso di coinvolgimento di dati personali.
Come già chiarito sopra la regola della generale
accessibilità è temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di
interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla
diffusione generalizzata di talune informazioni. Le eccezioni previste
dall’art. 5-bis sono state classificate in assolute e in relative, al
ricorrere delle quali le amministrazioni devono o possono rifiutare
l’accesso.
Le eccezioni assolute sono quelle di cui all’art.
5-bis, comma 3, del decreto (che non vengono in rilievo in questa sede)
mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo
articolo. Nel caso delle eccezioni relative l’Anac ha chiarito nelle
Linee Guida che “Il legislatore non opera, come nel caso
delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di
esclusioni all’accesso generalizzato, ma rinvia a una attività
valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica
del bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse pubblico alla disclosure
generalizzata e la tutela di altrettanto validi interessi considerati
dall’ordinamento. L’amministrazione, cioè, è tenuta a verificare, una volta
accertata l’assenza di eccezioni assolute, se l’ostensione degli atti
possa determinare un pregiudizio concreto e probabile agli interessi
indicati dal legislatore.
Affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi
considerati dai commi 1 e 2 deve essere concreto quindi deve sussistere un
preciso nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio.
L’amministrazione, in altre parole, non può limitarsi a prefigurare il
rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma dovrà:
a) indicare chiaramente quale –tra gli interessi elencati all’art.
5-bis, co. 1 e 2– viene pregiudicato;
b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende
direttamente dalla disclosure dell’informazione richiesta;
c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un
evento altamente probabile, e non soltanto possibile.”
…..L’amministrazione è tenuta quindi a privilegiare la scelta che, pur non
oltrepassando i limiti di ciò che può essere ragionevolmente richiesto, sia
la più favorevole al diritto di accesso del richiedente. Il principio
di proporzionalità, infatti, esige che le deroghe non eccedano quanto è
adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito
(cfr. sul punto CGUE, 15.05.1986, causa C- 222/84; Tribunale Prima Sezione
ampliata 13.04.2005 causa T 2/03)”
(cfr. delibera Anac 1309/2016, pag. 11).
Con riferimento alle istanze di accesso generalizzato
aventi a oggetto dati e documenti relativi a (o contenenti) dati personali,
sempre secondo le citate linee guida, “l’ente destinatario dell’istanza
deve valutare, nel fornire riscontro motivato a richieste di accesso
generalizzato, se la conoscenza da parte di chiunque del dato personale
richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione
dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia…
In tale contesto, devono essere tenute in considerazione le motivazioni
addotte dal soggetto controinteressato, che deve essere obbligatoriamente
interpellato dall’ente destinatario della richiesta di accesso
generalizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 33/2013.
Tali motivazioni costituiscono un indice della sussistenza di un pregiudizio
concreto, la cui valutazione però spetta all’ente e va condotta anche in
caso di silenzio del controinteressato….”.
Le linee guida ricordano, infine, per quanto di interesse in questa sede che
“le comunicazioni di dati personali nell’ambito del
procedimento di accesso generalizzato non devono determinare
un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle
persone cui si riferiscono tali dati ai sensi dell’art. 8 della Convenzione
europea per la salvaguardai dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, dell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea e della giurisprudenza europea in materia.
Il richiamo espresso alla disciplina legislativa sulla protezione dei dati
personali da parte dell’art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013
comporta, quindi, che nella valutazione del pregiudizio concreto, si faccia,
altresì, riferimento ai principi generali sul trattamento e, in particolare,
a quelli di necessità, proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in
conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, del
Consiglio di Stato, nonché al nuovo quadro normativo in materia di
protezione dei dati introdotto dal Regolamento (UE) n. 679/20168….”.
Alla luce di tale contesto normativo e in ragione della novità che segna la
presente controversia che impone a questo giudice di verificare l’ampiezza “effettiva
e concreta” del diritto a conoscere del cittadino per come voluto dal
legislatore con la riforma della trasparenza amministrativa del 2016, appare
opportuno esaminare la fattispecie partendo dalle censure in tema di
violazioni procedimentali e di difetto di motivazione alla luce delle difese
delle parti resistenti, e ciò anche al fine di poter decidere in merito alla
richiesta di accertamento del diritto a conoscere inoltrata a questo giudice
dal ricorrente e al conseguente ordine da impartire all’amministrazione di
dare ostensione agli atti richiesti.
Va in primo luogo rilevato che sussiste il lamentato vizio di violazione
dell’art. 5, comma 7, nella parte in cui prevede che in caso di diniego
totale o parziale dell’accesso il richiedente “può presentare richiesta
di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della
trasparenza” (da ora anche RPCT). Tale procedura come è evidente si
discosta sia dalla norma che disciplina l’accesso ai documenti che non
prevede una procedura di tutela amministrativa interna con la possibilità di
chiedere il riesame a un altro soggetto appartenente alla stessa
amministrazione, sia dalla disciplina in tema di obblighi di pubblicazione
per i quali è espressamente previsto dall’art. 5, comma 3, lettera d), che
l’istanza vada inoltrata, già in prima battuta, direttamente al RPCT e non
come per l’accesso generalizzato all’Ufficio che detiene i dati, o all’URP o
ad altro ufficio indicato discrezionalmente dall’amministrazione sul sito
istituzionale (art. 5, co. 3, lettere a), b) e c).
Tale scelta si spiega in primo luogo perché, contrariamente a quanto
previsto nella disciplina sull’accesso ai documenti, a fronte del silenzio
dell’amministrazione non si realizza una fattispecie di silenzio-significativo di segno negativo (silenzio-rigetto); l’art. 5 del decreto
trasparenza impone, infatti, l’obbligo all’amministrazione di pronunciarsi
con provvedimento espresso e motivato, per cui l’eventuale “silenzio”
rappresenta “mera inerzia”, una ipotesi di silenzio-inadempimento che
obbliga, quindi, il cittadino a rivolgersi al giudice amministrativo
attivando il rito sul silenzio ex art. 117 c.p.a. (e successivamente, in
caso di diniego espresso ai dati o documenti richiesti, il rito sull’accesso
ex art. 116 c.p.a.).
Per consentire al cittadino di avere una risposta chiara e motivata e per
offrire allo stesso una opportunità di tutela più rapida e poco dispendiosa,
il legislatore, avendo come obiettivo la partecipazione del cittadino al
dibattito pubblico, ha previsto, per l’accesso civico generalizzato, anche
il riesame “interno” (nei casi di diniego totale o parziale
dell'accesso o di mancata risposta), a mezzo dell’intervento di un soggetto,
il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, che
svolge un ruolo fondamentale nell’ambito della disciplina di prevenzione
della corruzione e nell’attuazione delle relative misure, non potendo
tralasciarsi di considerare che la trasparenza amministrativa che si
realizza anche attraverso lo strumento dell’accesso civico generalizzato
rappresenta una delle misure più importanti di prevenzione della corruzione
nella pubblica amministrazione.
La norma prevede, inoltre, che in sede di riesame il Responsabile, se
l'accesso è stato negato o differito per tutelare dati personali “provvede
sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si
pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta”.
Nel caso che qui interessa non può non rilevarsi, in conclusione, la
violazione della disciplina indicata risultando la decisione sull’istanza di
accesso del ricorrente, direttamente adottata dal Responsabile della
trasparenza e senza neanche l’eventuale coinvolgimento del Garante per la
protezione dei dati personali.
Non pertinente appare, quindi, alla luce della speciale procedura prevista
dall’art. 5 invocare l’applicazione dell’art. 21-octies comma 2, primo
periodo della legge 241/1990 come fa l’ente resistente secondo cui,
trattandosi di atto di natura vincolata, il suo contento dispositivo non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La
vincolatività dell’atto a contenuto negativo deriverebbe, secondo la difesa
dell’ente, dalla circostanza che si trattava di richiesta afferente a “dati
personali”, non rivolta ad esercitare un “controllo diffuso”
sull’operato della P.A.
Deve infatti osservarsi che il limite della tutela del dato personale non è
un limite assoluto, quindi la conoscenza dello stesso non è esclusa in via
definitiva ma la norma prevede che l’accesso vada negato se l’ostensione dei
dati o documenti richiesta possa comportare “un pregiudizio concreto”
alla tutela della protezione dei dati personali.
Ciò vuol dire che la Società resistente, come esplicitato nelle linee guida
ANAC (del. 1309/2016) richiamate nella memoria difensiva dallo stesso Ente,
avrebbe dovuto effettuare una attività valutativa con la tecnica del
bilanciamento, ponderando gli interessi in gioco tra l’interesse pubblico
alla disclosure generalizzata e la tutela dei dati personali che
possono venire in evidenza. Poiché il legislatore con riguardo ai limiti da
salvaguardare di cui all’art. 5-bis, commi 1 e 2, fa riferimento al
pregiudizio “concreto” che deve rinvenirsi, l’amministrazione avrebbe
dovuto indicare il pregiudizio che l’ostensione del solo dato della presenza
al lavoro del controinteressato avrebbe comportato, anticipando fin da ora
che l’amministrazione avrebbe potuto/dovuto oscurare ogni altro riferimento
alle ragioni delle eventuali assenze dal lavoro.
Va, infatti, tenuto conto che il ricorrente ha chiesto di accedere “ai
dati e ai fogli di presenza (i quali costituiscono atti pubblici) e/o i
corrispondenti strumenti, anche informatici, di rilevazione delle presenze
sul luogo di lavoro, del dott. Ib.Al.….” per il periodo dal 01.01.2017
al 17.02.2017.
Considerando gli interessi in gioco e cioè il diritto a conoscere se un
dipendente di una società in controllo pubblico (assimilata a una pubblica
amministrazione ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di
prevenzione della corruzione e della trasparenza a norma dell’art. 2-bis del
d.lgs. 33/2013) e costituita con soldi pubblici, sia semplicemente presente
al lavoro in un determinato periodo e il diritto del controinteressato a che
non sia rivelata la presenza perché afferente a un dato personale, appare
certamente prevalente il diritto a conoscere del richiedente tenuto anche
conto che, come dichiarato dallo stesso ricorrente, l’amministrazione nel
fornire tale dato generico avrebbe potuto omettere tutte le informazioni che
emergevano dai documenti di presenza impattanti con il diritto alla
riservatezza del controinteressato, quali per esempio l’astensione dal
lavoro per malattia.
Ad avviso del Collegio, infatti, la documentazione dalla quale emergono i
rilevamenti delle presenze del personale in servizio rientra proprio
nell’ambito della possibilità di controllo sul perseguimento da parte di un
dato ente delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo da parte di questo
delle risorse pubbliche, finalizzato alla partecipazione al dibattito
pubblico; in concreto si hanno in gioco, da una parte, l’interesse a
conoscere se un dipendente della società è stato semplicemente assente o
presente in un determinato periodo, senza fornire altre informazioni, in
quanto rientrante nell’ambito del sinallagma che deriva dal rapporto di
lavoro, dall’altra l’esigenza di non dare questa informazione perché di
carattere personale in quanto afferente a un soggetto specificamente
individuato.
Tralasciando la circostanza per cui, in ragione dell’oggetto del ricorso
pendente davanti ad altro giudice, a cui si fa riferimento nella memoria del
13.10.2017, il ricorrente avrebbe potuto proporre anche istanza di accesso
documentale ex legge 241/1990, non si comprende dalla assai stringata
risposta dell’amministrazione in che termini questa informazione, possa
risultare, alla luce della disciplina recata dal Codice della privacy
(d.lgs. 196/2003) lesiva per l’immagine del controinteressato ovvero ledere
la sfera di riservatezza di questi, atteso peraltro che il relativo rapporto
di lavoro risulta instaurato con un soggetto le cui disponibilità
finanziarie sono pubbliche donde la sussistenza in capo al dipendente di
obblighi e doveri, fermo restando che rimane ben distinto il controllo che
solo l’Ente può svolgere relativamente alla validità delle ragioni di
astensione dal lavoro dal “controllo” previsto dalla legge
sull’accesso generalizzato che giammai legittimerebbe il “quisque de
populo” a sostituirsi alla stessa amministrazione.
Se, infatti, come si è detto sopra la valutazione in merito all’istanza di
accesso deve essere fatta in concreto da parte dell’amministrazione
competente e che vengono qui in gioco dati personali che non costituiscono
una limitazione assoluta, non si comprende in che modo il dato richiesto se
diffuso all’esterno (che comunque andrebbe utilizzato dal richiedente nel
rispetto del Codice della privacy) potrà ledere le libertà fondamentali
dell’interessato, la sua dignità, la riservatezza, l’immagine e la
reputazione o ancora esporlo a pericoli mentre diventa necessaria, nello
spirito della riforma sulla trasparenza, la conoscenza del dato preciso ed
esclusivo al fine di verificare se il soggetto dal 1° gennaio al 17.02.2017
è stato presente presso la società di appartenenza.
Risulta fondato anche il motivo con il quale il ricorrente lamenta il
difetto di motivazione relativamente al diniego ricevuto sulla sua istanza.
La risposta dell’Ente, facendo riferimento all’unica circostanza
dell’opposizione da parte del controinteressato, non consente di ricostruire
quel percorso fattuale e giuridico che l’amministrazione avrebbe dovuto fare
e la valutazione dalla stessa operata degli interessi in gioco, valutazione
che alla stessa compete, a maggior ragione allorquando c’è opposizione
all’ostensione da parte del controinteressato. Ciò perché il diritto a
conoscere dei cittadini deve essere assicurato dall’Amministrazione e non
può essere lasciato alla decisione del controinteressato il quale,
nell’ambito della partecipazione procedimentale allo stesso riservata, può
far emergere esigenze di tutela che ben possono orientare e rendere edotta
l’autorità decidente sulle ragioni della invocata riservatezza nell’assumere
la determinazione, che spetta comunque solo alla p.a..
Come d’altro canto affermato da questa Sezione
va comunque escluso che
l'amministrazione possa legittimamente assumere quale unico fondamento del
diniego di accesso agli atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa in materia di accesso agli atti,
lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che
li riguardino, rimette sempre all'amministrazione destinataria della
richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza della richiesta
stessa, anche in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai
controinteressati (cfr. sentenza n. 1380 del 09.03.2017).
Va invece respinto il motivo di ricorso secondo cui vi sarebbe stata da
parte della Società resistente una violazione dell’art. 16 del d.lgs.
33/2016 non risultando i dati richiesti pubblicati su “Amministrazione
trasparente”. Deve infatti considerarsi che il richiamato art. 16 impone
la pubblicazione dei dati relativi alla dotazione organica e al personale
effettivamente in servizio, dati questi che certamente non possono
ricomprendere anche le presenze quotidiane in servizio dei dipendenti,
trattandosi piuttosto di dati generici concernenti i dipendenti che
risultano in forza presso l’ente.
Alla luce delle esposte considerazioni il ricorso va accolto nei sensi e nei
limiti sopra illustrati, e per l’effetto, previo annullamento del diniego
impugnato, va ordinato alla Società resistente di dare ostensione al
ricorrente dei soli documenti dai quali risulta la presenza o meno in
ufficio del controinteressato dalla data del 01.01.2017 fino al 17.02.2017
nel termine indicato in dispositivo con omissione di ogni dato idoneo a
disvelare le ragioni delle assenze. |
GURI - GUUE -BURL
(e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
30.12.2017 n. 303, suppl. ord. n. 64, "Approvazione del modello unico di
dichiarazione ambientale per l’anno 2018" (D.P.C.M.
28.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 30.12.2017, "Disposizioni per la
promozione e lo sviluppo dei territori montani interessati da impianti di
risalita e dalle infrastrutture connesse e funzionali al relativo servizio" (L.R.
28.12.2017 n. 40). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 30.12.2017, "Disposizioni per
l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi
dell’articolo 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure
della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) -
Collegato 2018" (L.R.
28.12.2017 n. 37).
---------------
Si particolare interesse, si leggano:
● Art. 5 (Modifiche alla l.r. 18/2010) -
(Disciplina del Difensore regionale)
● Art. 19 (Modifica all’art. 43 della l.r. 12/2005) - (Legge per il governo
del territorio) |
APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI:
G.U. 29.12.2017 n. 302, suppl. ord. n. 62/L, "Bilancio di previsione
dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il
triennio 2018-2020" (Legge
27.12.2017 n. 205). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
G.U. 29.12.2017 n. 302 "Regolamento recante modalità per lo svolgimento
delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per
malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai
sensi dell’articolo 55-septies, comma 5-bis, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165" (Dipartimento Funzione Pubblica,
decreto 17.10.2017 n. 206). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2017, "Nono
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione
G.R. 21.12.2017 n. 16715). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Referendum, norme certe. Istituto
inapplicabile senza il regolamento. Tutte le
fasi della consultazione devono essere
chiaramente disciplinate.
Per dichiarare ammissibile una richiesta di
consultazione referendaria comunale, deve
considerarsi presupposto imprescindibile,
per l'attivazione della stessa, la
disciplina regolamentare di dettaglio, se
specificamente prevista dallo statuto
comunale?
L'eventuale approvazione del regolamento da
parte del Consiglio comunale, con la
previsione di norme transitorie per lo
svolgimento del referendum, potrebbe sanare
l'eventuale mancanza, ferma restando la
verifica dell'ammissibilità del quesito da
demandare all'esame di un organismo che
sostituisca l'abrogato difensore civico?
Il nostro ordinamento favorisce la
partecipazione diretta del cittadino nella
vita delle istituzioni locali. In tal senso,
è utile ricordare che l'Italia ha fatto
propri i principi della Carta europea
dell'autonomia locale a cui ha aderito
sottoscrivendo la relativa convenzione, poi
ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439
Gli istituti di partecipazione e gli
organismi consultivi del cittadino trovano
una loro concretizzazione nel dlgs n.
267/2000 e, indipendentemente dalla
dimensione demografica dell'ente, fanno
parte del contenuto necessario e non
meramente facoltativo dello statuto. Un
rinvio allo statuto è previsto dall'art. 8,
comma 3, del citato decreto legislativo n.
267/2000, circa la previsione di forme di
consultazione della popolazione, nonché
delle procedure per l'ammissione di istanze,
petizioni e proposte di cittadini singoli o
associati dirette a promuovere interventi
per la migliore tutela di interessi
collettivi con la determinazione delle
garanzie per il loro tempestivo esame. La
norma dispone che «possono» essere,
altresì, previsti referendum anche su
richiesta di un adeguato numero di
cittadini, che (comma 4) devono comunque
riguardare materie di esclusiva competenza
locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli
istituti di partecipazione, il referendum,
si configura, dunque, quale elemento
meramente eventuale e facoltativo dello
statuto comunale che una volta previsto
deve, però, essere compiutamente
disciplinato dal regolamento. Nel caso di
specie, lo statuto comunale rimanda ad
apposito regolamento comunale la disciplina
delle modalità operative del referendum,
fornendo peraltro una serie di indicazioni
di dettaglio che dovrebbero essere recepite
dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del
Consiglio di stato, sez. I, 8 luglio 1998,
n. 464 - reso, su richiesta del ministero
dell'interno, in relazione ad una
fattispecie analoga e il cui orientamento è
stato successivamente confermato dallo
stesso Consiglio di stato -sez. IV - con la
sentenza n. 3769/2008- si prospetta,
infatti, in funzione complementare e
integrativa rispetto alle previsioni
statutarie, tanto da rendere inapplicabile
l'istituto del referendum consultivo in
mancanza dello stesso. La giurisprudenza
amministrativa formatasi in materia ritiene,
infatti, che debba essere la fonte
regolamentare a «prevedere le varie fasi
nelle quali si articola la consultazione,
dall'iniziativa sino alla proclamazione dei
risultati» inclusi i sistemi con cui
sindacare l'ammissibilità della
consultazione. Pertanto, i cittadini
interessati all'approvazione del regolamento
dovranno sensibilizzare l'ente affinché
proceda al riguardo, poiché le previsioni
dello statuto non consentono alcun margine
discrezionale da parte dell'amministrazione.
Pur considerando ammissibile l'adozione di
un regolamento attuativo per consentire –con
specifiche norme transitorie– anche il
regolare espletamento della procedura già
avviata, deve essere comunque garantito ai
promotori l'effettivo esercizio entro i
termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da
adottare con le norme transitorie, in
assenza delle modifiche statutarie, devono
comunque essere coerenti con le disposizioni
di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett.
a), della legge 23/12/2009, n. 191, pur
avendo soppresso la figura del difensore
civico comunale, ha stabilito che le
relative funzioni possono essere attribuite,
mediante convenzione, al difensore civico
della provincia
(articolo ItaliaOggi del
29.11.2017). |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Richiesta ai Responsabili della prevenzione della corruzione e della
trasparenza sulla nomina del Responsabile dell’Anagrafe per la stazione
appaltante (RASA) (Comunicato
del Presidente 20.12.2017 - link a www.anticorruzione.it).
---------------
Richiesta agli RPCT sulla nomina del Responsabile
dell’Anagrafe per la stazione appaltante.
L’Anac ha constatato che il
numero dei Responsabili dell’Anagrafe per la stazione appaltante (RASA),
abilitati ad operare rispetto al totale di Stazioni Appaltanti attive nella
Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA), è risultato estremamente
esiguo.
Con il Comunicato del Presidente del 20.12.2017 ‘Richiesta ai
Responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza sulla
nomina del Responsabile dell’Anagrafe per la stazione appaltante (RASA)’
si richiamano gli RPCT a verificare che il RASA, indicato nel Piano
Triennale per la Prevenzione della Corruzione, si sia attivato per
l’abilitazione del profilo utente di RASA secondo le modalità operative
indicate nel Comunicato del 28.10.2013.
IL RPCT è tenuto altresì a comunicare tempestivamente all’Autorità gli
impedimenti che hanno determinato la mancata individuazione del RASA nel
PTPC ed il perdurare degli stessi . La nota di comunicazione deve indicare
nell’oggetto: RASA/IMPEDIMENTI. |
APPALTI:
Circolazione di atti falsi di diffida dell’Autorità (Comunicato
del Presidente 28.12.2017 - link a www.anticorruzione.it). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: 1.
In presenza di un appalto di lavori, servizi e forniture può
essere riconosciuto l'incentivo per le funzioni tecniche
effettivamente svolte:
(a) indipendentemente dal fatto che vi sia stata o meno attività di
programmazione, naturalmente escludendo la remunerazione per
le fasi non svolte?
(b) nel caso di aggiudicazione non affidata mediante lo svolgimento
di una procedura comparativa (vedi ad esempio interventi
realizzati in somma urgenza)?
NO. Sono esclusi, ai fini di
accantonamento del fondo, importi di lavori ed
altri investimenti attuati con procedure di somma urgenza o
ad affidamento diretto.
Tale esclusione appare proprio
funzionale alla finalità della norma, che mira a spingere
verso l’utilizzo sempre più esteso di procedure competitive,
ordinarie e programmate.
Le procedure eccezionali e non
competitive non sono escluse, ma sottratte
all’incentivazione.
...
2. Le funzioni effettivamente svolte in relazione a lavori
di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i
servizi manutentivi sono incentivabili -o meno- ai
sensi del citato art. 113?
NO. La Sezione ritiene, in assenza di
una norma esplicita, di allinearsi al prevalente
orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi
della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie
non espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs.
n. 50/2016.
...
3. A fronte di cause diverse di mancato riconoscimento
dell'incentivazione nei confronti dei dipendenti dell'ente,
vi sono anche effetti diversi sul fondo, oppure dalla legge
deriva l'obbligo di riduzione del fondo, con conseguente
riacquisizione nelle disponibilità di bilancio dell'ente, in
tutti i casi previsti al comma 3
dell’articolo 113 D.Lgs. n. 50/2016?
SI.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti,
commentando il meccanismo del fondo previsto dalla
previdente normativa ai sensi del dl 90/2014 con l’adozione
di apposito regolamento per il successivo riparto, così
interpretava l’intenzione del legislatore (deliberazione
13.05.2016 n. 18): “Dalla sintetica
ricostruzione normativa proposta,
appare chiaro come le disposizioni, introdotte dal dl
90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra
l’altro ad un obiettivo di razionalizzazione e di
contenimento della spesa, anche attraverso la subordinazione
dell’erogazione dell’incentivo al rispetto di alcuni
parametri collegati ai tempi ed ai costi previsti
inizialmente nel quadro economico del progetto esecutivo
dell’opera, il cui mancato rispetto, ai sensi della predetta
disciplina, può dar luogo anche alla riduzione delle risorse
destinate al fondo per la progettazione e l’innovazione”.
L’interpretazione appare ancora valida
anche per il nuovo codice degli appalti e perciò l’ente deve
previamente provvedere alla redazione del previsto
regolamento.
...
4. Le modalità di incentivazione devono seguire la norma in
vigore al momento dell'effettivo svolgimento dell'attività
(Direzione Lavori, Collaudi, ecc.) o, piuttosto, si deve
applicare, anche in materia di incentivazione, la
disposizione di cui all'art. 216 del D.Lgs. 50/2016, con la
conseguenza che l'art. 113 si applica esclusivamente a tutte
le procedure il cui bando o avviso sia stato pubblicato dopo
l'entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016?
L’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo Codice.
A ulteriore sostegno e rafforzativo di tale indirizzo
interpretativo, la Sezione regionale
controllo per il Piemonte nel suo già citato
parere 09.10.2017 n. 177 considera regolate dalla
normativa previgente (art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 come
modificato dalla L. n. 144/2014) perfino attività tecniche
svolte prima della entrata in vigore della nuova normativa
ma il cui relativo bando di gara sia stato pubblicato dopo
l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016.
---------------
Il Sindaco della Città Metropolitana di Firenze ha
inoltrato alla Sezione regionale di controllo per la
Toscana, tramite Consiglio delle Autonomie Locali, la nota
acquisita al protocollo con n. 7053 del 23.08.2017, con la
quale chiede un parere ex art. 7, comma 8, della l.
n. 131/2003 in riferimento alla disciplina inerente la
corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche ai
sensi dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016.
La richiesta di parere si articola in vari quesiti, e
precisamente:
1. “… se in presenza di un appalto di lavori, servizi e
forniture possa essere riconosciuto l'incentivo per le
funzioni tecniche effettivamente svolte:
(a) indipendentemente dal fatto che vi sia
stata o meno attività di programmazione, naturalmente
escludendo la remunerazione per le fasi non svolte;
(b) nel caso di aggiudicazione non affidata
mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (vedi
ad esempio interventi realizzati in somma urgenza)”;
2. “… se le funzioni effettivamente svolte in relazione a
lavori di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i servizi
manutentivi siano incentivabili o meno ai sensi del citato
art. 113”;
3. “… se a fronte di cause diverse di mancato riconoscimento
dell'incentivazione nei confronti dei dipendenti dell'ente
vi siano anche effetti diversi sul fondo, oppure se dalla
legge derivi l'obbligo di riduzione del fondo, con
conseguente riacquisizione nelle disponibilità di bilancio
dell'ente, in tutti i casi previsti al comma 3 (…)”;
4. “… se le modalità di incentivazione debbano seguire la
norma in vigore al momento dell'effettivo svolgimento
dell'attività (Direzione Lavori, Collaudi ecc.) o piuttosto
si debba applicare, anche in materia di incentivazione, la
disposizione di cui all'art. 216 del D.Lgs. 50/2016, con la
conseguenza che l'art. 113 si applichi esclusivamente a
tutte le procedure il cui bando o avviso sia stato
pubblicato dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016”.
...
6. Accertata dunque in via preliminare la ammissibilità sia
soggettiva che oggettiva della richiesta di parere, è ora
possibile trattare il merito, svolgendo prima un breve
excursus delle norme che nel corso del tempo si sono
succedute in materia di compensi incentivanti nell’ambito
dei contratti pubblici di appalto.
7. L’introduzione nell’ordinamento di detti incentivi risale
alla L. n. 109 del 1994 (c.d. Legge Merloni), il cui art. 18
-intitolato “Incentivi e spese per la progettazione”–
prevedeva la ripartizione tra determinati soggetti
(responsabile unico del procedimento, incaricati della
redazione del progetto, del piano della sicurezza, della
direzione dei lavori, del collaudo nonché loro
collaboratori) di un incentivo “per la progettazione”,
che la norma quantificava in una “somma non superiore
all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di
un'opera o di un lavoro”; detta somma era “…
ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità
ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione”,
tenendo conto “… delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. Le quote
parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che
non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate
a personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, costituiscono economie”.
Successivamente, con il D.Lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice
degli appalti), la materia degli incentivi trova il proprio
referente normativo nell’art. 92, commi 5 e 6, il cui
contenuto sostanzialmente riprende quello previgente, salvo
alcune innovazioni quali il tetto all’incentivo (fissato nel
rispettivo trattamento complessivo annuo lordo) e la
necessità, ai fini della concreta erogazione dell’incentivo,
del previo positivo accertamento della attività svolta.
Nel 2014, il legislatore interviene nuovamente in materia di
incentivi, stavolta ridisegnandone in maniera incisiva la
disciplina: con il D.L. n. 90/2014, vengono abrogati i commi
5 e 6 dell’art. 92 e vengono aggiunti una serie di commi
all’art. 93, fra cui il comma 7-bis, istitutivo di un
apposito fondo per la progettazione e innovazione, ed il
comma 7-ter, nel quale tra l’altro il legislatore ha cura di
precisare che nel riparto delle risorse si deve tener conto
“… delle responsabilità connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a
quelle effettivamente assunte e non rientranti nella
qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle
opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo
rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e
dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo”.
Come affermato dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei
conti nella
deliberazione 13.05.2016 n. 18: “… sotto il
profilo oggettivo, la novità rilevante della disciplina
introdotta dal D.L. n. 90/2014 è rappresentata dal fatto che
le risorse non sono più assegnate in riferimento alla
singola opera, in quanto non vi è più lo stretto
collegamento, prima esistente, fra opera e compenso, tale da
determinare una corrispondenza diretta fra attività svolta e
diritto alla percezione dell’incentivo, ma esse confluiscono
in un fondo, denominato, ai sensi del comma 7-bis, per la
progettazione e l’innovazione. In tal modo viene meno la
sinallagmaticità della prestazione oggetto di incentivazione
che caratterizza, invece, l’affidamento dell’incarico a
professionisti esterni all’amministrazione, nei limiti ed
alle condizioni dei cui al citato art. 90, comma 6, del
citato dlgs 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie nella pronuncia citata non manca
tuttavia di evidenziare anche gli aspetti di continuità
rispetto all’impostazione originaria della Legge Merloni: “…
pur nell’evoluzione normativa divanzi analizzata, non sembra
essere venuto meno il favor legislatoris per l’affidamento
di tali attività alle professionalità interne alla stessa
amministrazione, in un’ottica di valorizzazione delle figure
professionali in servizio e, al contempo di risparmio. Tali
obiettivi, tuttavia, vanno conseguiti evitando eventuali
aggravi di spesa derivanti non solo dal mancato rispetto di
tempi e costi preventivati, ma anche da un’esecuzione
dell’opera non a regola d’arte o non in linea con gli
standard qualitativi previsti nel progetto approvato”.
La Sezione delle Autonomie nella
deliberazione 23.03.2016 n. 10 mette in luce i
profili di discontinuità rispetto alla normativa previgente:
“… appare evidente, altresì, come le disposizioni
introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di
conversione, mirino non solo ad una finalità di contenimento
della spesa ma anche ad una sua razionalizzazione. In
quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la
finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione,
bensì alla progettazione ed all’innovazione, con
destinazione della quota del 20% alle dotazioni
infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo.
Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una
graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri
collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto
esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo
alla riduzione delle risorse destinate al fondo”.
Con tale pronuncia, peraltro, la Sezione aveva altresì avuto
modo di affermare che “la corretta interpretazione
dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce
delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri
individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso
dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di
qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra
manutenzione ordinaria o straordinaria”.
Recentemente la Sezione Abruzzo (deliberazione
22.12.2015 n. 358) ha invece messo in evidenza un
ulteriore profilo di rilievo, ossia il carattere eccezionale
e derogatorio della norma in commento: “In linea con i
principi di efficienza ed economicità, il legislatore mostra
un favor per l’affidamento a professionalità interne alle
amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in
prestazioni d’opera professionale, consentendo il
riconoscimento agli Uffici tecnici delle amministrazioni
aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, in deroga
ai due principi cardine del pubblico impiego: di
onnicomprensività della retribuzione e di definizione
contrattuale delle componenti economiche, sanciti,
rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo
art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr.
Sezione delle Autonomie deliberazione n. 7/2014)”.
Dall’analisi delle norme che si sono succedute emerge
chiaramente come si sia modificata nel tempo la posizione
del legislatore rispetto alla materia degli incentivi
nell’ambito degli appalti pubblici. L’originaria ratio
–rappresentata dalla volontà di spostare all’interno degli
uffici attività di progettazione e capacità professionali di
elevato profilo e basata su un nesso intrinseco tra opera e
attività creativa di progettazione, di tipo
libero-professionale (“prestazioni professionali
specialistiche offerte da soggetti qualificati” come
diceva la
deliberazione 04.10.2011 n. 51
delle Sezioni riunite della Corte dei conti)- è stata
gradualmente affiancata e poi sostituita con quella invece
rappresentata dalla volontà di accrescere efficienza ed
efficacia di attività tipiche dell’amministrazione,
passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura
in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e
di riduzione di varianti in corso d’opera.
La rimodulazione del meccanismo incentivante prevista dal
D.L. n. 90/2014 era infatti destinato ad avere una portata
ancor maggiore in prospettiva rispetto all’immediato,
laddove si ponga mente alla circostanza che la costruzione
normativa recata da detto decreto legge appare in effetti la
logica premessa dell’evoluzione che il legislatore in
effetti attua con la L. n. 11/2016 (legge delega) e con il
nuovo codice degli appalti pubblici e dei contratti di
concessione, ovvero il D.Lgs. n. 50/2016.
La L. n. 11 del 2016 all’art. 1, comma 1, lettera rr,
prescrive: “…al fine di incentivare l’efficienza e
l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e
dell’esecuzione a regola d’arte, nei tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera,
è destinata una somma non superiore al 2 per cento
dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare profilo dei tempi e dei costi,
escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 recepisce la legge delega,
indicando quali funzioni tecniche sono incentivabili e
mantenendo -rispetto alla previgente normativa- il
meccanismo indiretto di costituzione di un fondo e la
necessità dell’adozione di un apposito regolamento da parte
dell’amministrazione ai fini del riparto delle somme.
Come evidenziato dalla Sezione Veneto (parere
12.05.2017 n. 338): “Le attività enumerate …
sono state selezionate dal legislatore per la loro specifica
attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza
sulla spesa. Il raffronto dell’attuale dettato normativo con
quello previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di
una tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in esame
che ulteriormente ne definisce l’ambito con la finalità di
valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco
di attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle
varie fasi di esecuzione di un contratto pubblico …”.
Tale aspetto è evidenziato altresì dalla Sezione delle
Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7): “È infatti evidente
l’intento del legislatore di ampliare il novero dei
beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei
profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici,
all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di
beni e servizi) all’esecuzione del contratto”.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere
09.06.2017 n. 185) sottolinea altresì il
carattere eccezionale della disposizione: “… il suddetto
emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del
trattamento economico, può essere corrisposto solo in
presenza di una espressa previsione legislativa”.
8. Si può in conseguenza di quanto premesso far derivare per
logica deduzione e in termini generali quanto segue, ossia:
che solo in presenza di una procedura di gara o in generale
una procedura competitiva si può accantonare il fondo che
viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento
adottato dalla singola amministrazione.
Come ha sintetizzato la Sezione di controllo della Corte dei
conti per la Lombardia (parere
09.06.2017 n. 185):
“Peraltro, al riguardo, non sfugga nemmeno come la
disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede
l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull’importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia
una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale
requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n.
50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse e,
conseguentemente, la relativa distribuzione”.
E anche la Sezione Lombardia (parere
09.06.2017 n. 190) osserva: “La lettera della
legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del
fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso
riferimento all’”importo dei lavori (servizi e forniture)
posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le
sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati
mediante lo svolgimento di una gara. Si deve pertanto
concludere che gli incentivi in questione possano essere
riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a
contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la
legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o
il regolamento dell’ente, siano state affidate previo
espletamento di una procedura comparativa”.
Ne consegue che sono esclusi ai fini di
accantonamento del fondo in questione importi di lavori ed
altri investimenti attuati con procedure di somma urgenza o
ad affidamento diretto. Tale esclusione appare proprio
funzionale alla finalità della norma, che mira a spingere
verso l’utilizzo sempre più esteso di procedure competitive,
ordinarie e programmate. Le procedure eccezionali e non
competitive non sono escluse, ma sottratte
all’incentivazione.
Al quesito n. 1 del sindaco della
Città Metropolitana di Firenze, la risposta ai punti a) e
b), ad avviso di questa Sezione, non può che essere
negativa.
9. Nella sua richiesta di parere, il sindaco metropolitano
di Firenze, richiede altresì al punto n. 2 se
l’incentivazione per le funzioni tecniche di cui all’art.
113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 si possa riferire anche
ad appalti che abbiano ad oggetto “lavori di
manutenzione, ordinaria, straordinaria e servizi manutentivi”
ed afferma testualmente che “Numerose Sezioni regionali
di controllo in sede consultiva… si sono espresse in maniera
diversa in merito all’esclusione…”. Cita in proposito,
il
parere 26.04.2017 n. 51 della Sezione di
controllo per l’Umbria e il
parere 09.06.2017 n. 190
della Sezione di controllo per la Lombardia.
Ebbene, prima di analizzare funditus la
giurisprudenza in argomento, occorre tuttavia considerare
storicamente talune premesse della normativa previgente.
Il D.Lgs. n. 163 del 2006 disciplinava gli incentivi -alla
progettazione ed alle attività professionali connesse-
all’art. 93, comma 7; tale articolo venne poi profondamente
modificato con la L. n. 114 del 2014 (legge di conversione
del D.L. n. 90/2014), il cui art. 13-bis -introducendo il
comma 7-ter– poneva un divieto espresso di considerare le
attività di manutenzione come incentivabili. La norma
introduceva altresì l’obbligo di approvare un regolamento ai
fini del riparto tra gli aventi diritto del fondo per la
progettazione e l’innovazione: “… il regolamento
definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo,
tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche
prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a
quelle effettivamente assunte e non rientranti nella
qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle
opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo
rispetto, in fase della realizzazione dell’opera, dei tempi
e dei costi previsti dal quadro economico del progetto
esecutivo”.
L’espressa esclusione delle attività di manutenzione,
ordinarie e straordinarie, dall’attivazione degli incentivi
andava a porre un freno alla interpretazione estensiva della
norma patrocinata dalle amministrazioni e volta ad ampliare
le fattispecie incentivabili a beneficio dei propri
dipendenti. La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti
faceva stato di tale proibizione nella sua
deliberazione 23.03.2016 n. 10,
assunta dopo la promulgazione della legge delega n. 11 del
2016, ma prima della emanazione del D.Lgs. n. 50/2016 del il
18.04.2016, esprimendosi nel senso “… dell’esclusione
dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque
attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione
ordinaria o straordinaria”.
La Sezione delle Autonomie si riferiva all’art. 93, comma
7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, interpretandolo alla luce
delle disposizioni recate dal D.L. n. 90/2014 e dai criteri
individuati dalla legge delega n. 11/2016. Essa interpretava
la volontà del legislatore nel senso di restringere,
soggettivamente e oggettivamente, il riconoscimento
dell’incentivazione, in primo luogo “confinandolo
alle figure professionali espressamente individuate dalla
norma”; in secondo luogo, la Sezione delle
Autonomie osservava come la precedente introduzione di un
tetto individuale (per evitare che l’incentivo portasse a un
aumento della retribuzione annua del singolo dipendente
superiore al 100%) veniva ulteriormente ristretta,
stabilendo un tetto di incentivo riconoscibile massimo
individuale pari al 50% della retribuzione lorda annua.
La Sezione delle Autonomie proseguiva valutando il combinato
disposto tra D.Lgs. n. 163/2006, D.L. n. 90/2014 e legge
delega n. 11/2016 e osservava come le ultime disposizioni
normative mirassero “non solo ad una finalità di
contenimento della spesa, ma anche a una sua
razionalizzazione. In quest’ultima prospettiva si collocano,
infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera
incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione,
con destinazione della quota del 20% alle dotazioni
infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo.
Alle medesime finalità appare diretta la previsione di una
graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri
collegati anche ai tempi e costi previsti nel progetto
esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo
alla riduzione delle risorse destinate al fondo… La
disposizione vigente, con espressione inequivoca, esclude
dagli incentivi alla progettazione l’attività di
manutenzione, da intendersi ai sensi dell’art. 3 del DPR n.
207 del 05.10.2010, come combinazione di tutte le azioni
tecniche, specialistiche ed amministrative volte a mantenere
o a riportare un’opera o un impianto nella condizione di
svolgere la funzione prevista dal progetto. Tale esclusione
prescinde da eventuali differenziazioni fra manutenzione
ordinaria e straordinaria”.
Con l’emanazione il 18.04.2016 del D.Lgs. n. 50/2016,
l’espressa esclusione della attività manutentive introdotta
dalla L. 114/2014 nel D.Lgs. n. 163/2006 all’art. 93, comma
7-ter, non veniva riprodotta nel nuovo articolo sugli
incentivi. Da ciò, l’amministrazione richiedente sembra
desumere, nel silenzio della legge, la possibilità di una
ammissibilità delle attività manutentive all’incentivo.
La Sezione regionale di controllo per la Sardegna, con
parere 18.10.2016 n. 122, si pronunciava nel
senso di confermare l’esclusione delle manutenzioni dalle
attività incentivabili, ritenendo i principi affermati dalla
Sezione autonomie nella
deliberazione 23.03.2016 n. 10
tuttora validi: “Alla luce del quadro normativo vigente e
dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle
Autonomie, la Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività
escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la
progettazione e l’innovazione rientrino tutti i lavori di
manutenzione sia ordinaria che straordinari”.
Analizzando il nuovo impianto normativo del D.Lgs. n.
50/2016, la Sezione Sardegna derivava l’esclusione
dall’incentivo delle manutenzioni anche dal venir meno del
riferimento alla “progettazione” e dal passaggio alla
“programmazione”: “Dalla lettura della norma
emerge chiaramente che, nel nuovo quadro normativo
introdotto dal D.Lgs. n. 50/2016, il 2% dell’importo posto a
base di gara non è più destinato alla remunerazione della
fase della progettazione, bensì a beneficio delle fasi della
programmazione della spesa per investimenti, della
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei
lavori e dei collaudi, allo scopo di incentivare la
realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con
costi previsti dal progetto”.
In tale direzione, la giurisprudenza della Corte dei conti
proseguiva con il
parere 07.12.2016 n. 118 della Sezione regionale
di controllo per l’Emilia Romagna la quale affermava
l’orientamento secondo il quale, anche se le attività di
manutenzione non sono espressamente escluse dalla nuova
disposizione, tuttavia il carattere tassativo delle attività
incentivabili implica che il predetto emolumento non può
essere utilizzato per la remunerazione delle predette
attività (manutenzioni): “si evidenzia che l’avverbio
“esclusivamente” utilizzato dal legislatore nel comma 2
dell’articolo in esame per individuare le attività per lo
svolgimento delle quali può essere previsto un compenso
specifico e aggiuntivo deve essere interpretato nel senso
della tassatività delle attività incentivabili. Pertanto non
essendo stata espressamente ricompresa l’attività di
manutenzione, ne discende che non può essere prevista per la
stessa nessuna remunerazione ai sensi dell’articolo 113
d.lgs. 50/2016”.
Nello stesso modo si esprimevano la Sezione regionale di
controllo per la Puglia (parere
13.12.2016 n. 204 e
parere 24.01.2017 n. 5), e successivamente la
Sezione regionale di controllo per il Veneto che con il
parere 12.05.2017 n. 338 ne trae la seguente
conclusione: “Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. n.
163/2006, il legislatore ha sentito la necessità, rispetto
alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che
l’incentivo non fosse riconoscibile per nessuna attività di
manutenzione, con l’attuale art. 113, d.lgs. 50/2016, ha
ritenuto di dover circoscrivere la finalità “premiante”
degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche tassativamente
elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento
del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle
attività di progettazione contenuta nelle legge di delega.
Ammettere una tacita e contemporanea riespansione
dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di
attività, quali quelle manutentive, già espressamente
escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe
con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato,
della riforma del 2016”.
Il 26.04.2017 anche la Sezione regionale di controllo per
l’Umbria deliberava in questo senso (parere
26.04.2017 n. 51)
affermando che “da nessuno degli elencati commi dell’art.
113, del d.lgs. 50/2016, emerge uno spiraglio interpretativo
per inserire tra le “funzioni tecniche” da incentivare
l’attività manutentiva”.
Anche la Sezione regionale di controllo per la Lombardia,
che pure conclude non escludendo l’ammissione dei lavori
manutentivi, nel
parere 09.06.2017 n. 185 prende le mosse dal
principio secondo il quale “la disciplina degli
incentivi, derogatoria rispetto al principio di
onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di
stretta interpretazione e non suscettibile di estensione
analogica”. La Sezione Lombardia fonda il suo
orientamento favorevole all’estensione, espresso nei tre
pareri resi con
parere 09.06.2017 n. 185,
parere 09.06.2017 n. 190 e
parere 12.06.2017 n. 191, sul fatto che il
compenso incentivante previsto dall’art. 113 del d.lgs.
50/2016 “riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e
forniture”.
Nel
parere 09.06.2017 n. 190,
la stessa Sezione afferma la suggestiva interpretazione che
se da una parte l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal
legislatore deve ritenersi tassativo e non suscettibile di
interpretazione analogia, tuttavia tale esclusività non si
estenderebbe all’oggetto della procedura incentivata: “la
disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento dei contratti
aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
Più oltre la Sezione Lombardia trova un ulteriore spunto a
favore della estendibilità nell’art. 3 del D.Lgs. n.
50/2016: “Né può farsi discendere dalla formulazione
dell’art. 3 del d.lgs. 50/2016 in collegato disposto con
l’allegato I (al quale fa rinvio l’art. 3, comma 2, lettera
ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”)
l’espromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei
contratti pubblici. Da un lato, l’art. 3, comma 2, lettera
nn), ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui
all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto
tale. Lo stesso allegato I è organizzato per specifiche
attività che a seconda del complessivo lavoro affidato,
possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si
pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44
dell’Allegato I”.
Pur riconoscendo la suggestività delle ipotesi
interpretative sopraesposte, la scrivente Sezione ritiene
che l’impianto complessivo della norma di riforma, la palese
intenzione restrittiva del legislatore, appaiono chiare nel
loro orientarsi verso principi di tassatività ed esclusività
delle attività incentivabili, da non poter ammettere una
estensione in via interpretativa in assenza di una espressa
previsione di legge.
In primo luogo si può osservare che il comma 2 dell’art. 113
fa espresso riferimento al fatto che il fondo viene
costituito “ove necessario per consentire l’esecuzione
del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti”. Tale
necessità sembra presente solo per le attività
caratterizzate da una certa complessità, complessità che
risulta assente nelle attività di manutenzione, attività per
lo più semplici, che non necessitano di uno sforzo
supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i
documenti a base di gara, il progetto, i tempi e i costi. Di
conseguenza, non sussistendo tale necessità, la previsione
dell’incentivo per tali attività sarebbe illegittima.
Si segnala, in via meramente collaterale, che se in effetti
all’art. 3, comma 2, lettera nn, i “lavori” vengono
così definiti: “attività di costruzione, demolizione,
recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia,
sostituzione, manutenzione di opere”. Il legislatore
avrebbe potuto ripetere il riferimento anche all’art. 113,
ove avesse inteso estendere le fattispecie incentivabili. In
più, laddove si scorra l’elenco di specifiche attività di
cui all’allegato I, è pur vero che al punto 45.44 si citano
le “tinteggiature” ma lo si fa solo in abbinamento
con “la posa in opera di vetrate”, quasi a citare
attività conclusive di una edificazione o completamento di
complessa opera, tanto è vero che al numero seguente 45.45
si legge la denominazione “altri lavori di completamento
degli edifici”, chiarendo che si tratta non tanto di
manutenzioni, quando di attività di chiusura di un cantiere
di rilievo.
La Sezione ritiene dunque, in assenza di
una norma esplicita, di allinearsi al prevalente
orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi
della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie
non espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del
D.Lgs. n. 50/2016.
In tale senso si è pronunciata anche la Sezione regionale di
controllo per la Regione siciliana, con
parere 30.03.2017 n. 71.
10. Al punto n. 3 della lettera 17.08.2017, trasmessa
Dal Consiglio degli enti locali a questa Sezione con
trasmissione del 22 agosto, il sindaco metropolitano di
Firenze chiede dilucidazioni di carattere generale sul comma
3 dell’articolo 113 D.Lgs. n. 50/2016, in merito
all’articolato meccanismo di riduzioni da apportare al fondo
di cui al comma 2 nel caso di intervento nelle attività
ammissibili all’incentivazione di personale espressamente
escluso, in caso di ritardi nei tempi o aumenti dei costi
dell’opera, servizio o fornitura, in caso di superamento del
tetto individuale del 50% del trattamento economico
complessivo annuo lordo, in caso di attività affidate a
personale esterno, oppure non svolte.
In termini generali va rammentato che la normativa
riproposta all’art. 113, comma 3, in termini di riduzione
proporzionale in caso di ritardi o aumento di costi, risale
al D.L. n. 90/2014, che all’art. 13-bis introduceva, come
già ricordato, il comma 7-ter all’articolo 93 del D.Lgs. n.
163/2006, nel quale si prevedeva il meccanismo di riparto
del fondo “per la progettazione e l’innovazione”
affidandolo in parte a norme primarie in parte a un
regolamento previsto dal comma 7-bis.
In generale, va osservato che l’adozione del regolamento da
parte della singola amministrazione è “conditio sine qua
non” per attuare il riparto tra gli aventi diritto,
individuati sulla base del combinato disposto di norme
primarie e regolamentari, e quindi per l’effettiva
erogazione dell’incentivo. Tale impianto viene confermato
nel successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di
controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono
che l’adozione del regolamento è atto preliminare e
necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che
l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste
dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle.
Considerando quale elemento necessitante l’adozione del
regolamento, sono altresì prescrizioni di legge il riparto
del fondo costituito con art. 113, comma 1, del d.lgs.
50/2016 dell’80% a favore degli incentivi per funzioni
tecniche e del 20% a favore di accrescimento di dotazione
tecnologica, banche dati e tirocini di alta formazione; il
meccanismo di corresponsione dell’incentivo sulla base del
regolamento da parte del dirigente o responsabile del
servizio che accerti le specifiche attività svolte dai
singoli dipendenti; il tetto individuale per ciascun
dipendente che non può in ogni caso ricevere inventivi per
un importo superiore al 50% del trattamento economico
complessivo annuo lordo.
E’ altresì prescrizione di legge il fatto che il regolamento
debba prevedere un meccanismo di riduzione proporzionale del
montante dell’incentivo in caso di accertati ritardo o
aumenti di costi dell’opera, ma il merito del meccanismo
decurtativo è demandato al regolamento.
La decurtazione è
prevista dalla norma anche in caso di accertamento negativo
al momento di verificare le attività svolte. In questo caso
l’art. 113, comma 3, del d.lgs. 50/2016 prevede che le quote
parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte
–o perché affidate a personale esterno, o perché prive di
accertamento dirigenziale– vanno ad accrescere il montante
del fondo da ripartire. In questo senso, la nuova normativa
è più favorevole di quella precedente del dl. 90/2014, che
infatti prevedeva il passaggio ad economia di queste somme.
La norma conclude escludendo la sua applicazione al
personale con qualifica dirigenziale.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti,
commentando il meccanismo del fondo previsto dalla
previdente normativa ai sensi del dl 90/2014 con l’adozione
di apposito regolamento per il successivo riparto, così
interpretava l’intenzione del legislatore (deliberazione
13.05.2016 n. 18): “Dalla sintetica
ricostruzione normativa proposta,
appare chiaro come le disposizioni, introdotte dal dl
90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra
l’altro ad un obiettivo di razionalizzazione e di
contenimento della spesa, anche attraverso la subordinazione
dell’erogazione dell’incentivo al rispetto di alcuni
parametri collegati ai tempi ed ai costi previsti
inizialmente nel quadro economico del progetto esecutivo
dell’opera, il cui mancato rispetto, ai sensi della predetta
disciplina, può dar luogo anche alla riduzione delle risorse
destinate al fondo per la progettazione e l’innovazione”.
L’interpretazione appare ancora valida
anche per il nuovo codice degli appalti e perciò l’ente deve
previamente provvedere alla redazione del previsto
regolamento.
11. L’amministrazione della Città metropolitana di Firenze
richiede infine interpretazione in merito alla
decorrenza delle norme previste dall’art. 113 del D.Lgs. n.
50/2016, e in particolare a funzioni tecniche svolte
successivamente all’entrata in vigore dello stesso, ma
relative a contratti banditi in vigenza del D.Lgs. n.
163/2006.
In questo senso, soccorre la pronuncia della Sez. reg.
contr. Lombardia nel più volte citato parere di cui al
parere 12.06.2017 n. 191 che parte dalla
considerazione dell’art. 216 del Codice citato dalla stessa
amministrazione richiedente: “Il
legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di
diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione
dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime
previgente continui ad operare in relazione “alle procedure
e ai contratti per i quali i bandi e gli avvisi siano stati
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016.
Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti le disposizioni
introdotte dal d.lgs. 50/2016 si applicano solo alle
procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del
nuovo Codice, fatto salve le disposizioni speciali e
testuali di diverso tenore…
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta
nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino
una chiara volontà di escludere dall’operatività del
principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113,
ogni opzione ermeneutica che giunga alla conclusione di
applicare a queste ultime il principio della retroattività,
o comunque, la regola del tempus regit actum si rivela priva
di fondamento positivo e pertanto foriera di incertezze
interpretative e di confusione applicativa.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo Codice”.
A ulteriore sostegno e rafforzativo di tale indirizzo
interpretativo, la Sezione regionale
controllo per il Piemonte nel suo già citato
parere 09.10.2017 n. 177 considera regolate dalla
normativa previgente (art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 come
modificato dalla L. n. 144/2014) perfino attività tecniche
svolte prima della entrata in vigore della nuova normativa
ma il cui relativo bando di gara sia stato pubblicato dopo
l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016
(Corte dei Conti, Sez. Toscana,
parere
14.12.2017 n. 186). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: La
detrazione per infissi e interventi di
risparmio energetico cala al 50%.
Ridotta al 50% la detrazione per gli
interventi di risparmio energetico relativi
agli acquisti e posa in opera di finestre,
compresi gli infissi, di schermature solari
e di impianti di climatizzazione invernale
con caldaie a condensazione.
I commi da 344 a 349, dell'articolo 1 della
legge 296/2006 (Finanziaria 2007) avevano
introdotto una detrazione d'imposta, in
misura pari al 55% delle spese documentate,
sostenute entro il 31/12/2007, con
riferimento a determinati interventi volti
alla riqualificazione energetica degli
edifici esistenti.
Successivamente, per effetto di un
susseguirsi di proroghe e modifiche alla
originaria disposizione normativa, il
legislatore ha fissato, in relazione alle
spese sostenute dal 06/06/2013 al
31/12/2017, nella misura del 65% la detta
detrazione (legge di Bilancio 2017).
La detrazione in commento spetta alle
persone fisiche, agli enti e ai soggetti di
cui all'art. 5, dpr 917/1986 (Tuir), non
titolari di reddito d'impresa, che
sostengono le spese per l'esecuzione dei
previsti interventi sugli edifici esistenti,
su parti di edifici esistenti o su unità
immobiliari esistenti di qualsiasi categoria
catastale, anche rurali, posseduti o
detenuti, ma anche ai soggetti titolari di
reddito d'impresa che sostengono le spese
per l'esecuzione dei previsti interventi
sugli edifici esistenti, su parti di edifici
esistenti o su unità immobiliari esistenti
di qualsiasi categoria catastale, anche
rurali, posseduti o detenuti.
La legge di Bilancio 2018, nel confermare la
detrazione per gli interventi di efficienza
energetica per il prossimo anno, ritocca al
ribasso, la percentuale del 65% applicabile
alla generalità dei detti interventi, per
talune spese; restano impregiudicate tutte
le precisazioni già fornite e, soprattutto,
le modalità di sostenimento e di pagamento
(bonifici), nonché di comunicazione all'Enea
(90 giorni dalla fine dei lavori), mentre il
limite massimo di detrazione, a seconda
dell'intervento effettuato, deve essere
riferito all'unità immobiliare oggetto
dell'intervento e, di conseguenza, deve
essere suddiviso tra i soggetti detentori o
possessori dell'immobile che partecipano
alla spesa, in ragione dell'onere da
ciascuno effettivamente sostenuto.
La detrazione nella misura piena (65%)
spetta anche, e questa è una novità, per
l'acquisto e la posa in opera di
micro-cogeneratori, in sostituzione di
impianti esistenti, con un valore massimo
della detrazione pari a euro 100 mila,
sempreché gli interventi realizzino un
risparmio di energia primaria (Pes) entro
determinati valori.
L'aliquota ridotta del 50% si rende
applicabile, invece, per le spese sostenute
fino al 31/12/2018 relative agli interventi
di acquisto e posa in opera di finestre,
comprensive di infissi e di schermature
solari, di sostituzione di impianti di
climatizzazione invernale con impianti
dotati di caldaie a condensazione o dotati
di generatori di calore alimentati da
biomasse combustibili; la detrazione resta
ancora al 65% per gli interventi di
sostituzione di impianti di climatizzazione
invernale con impianti dotati di caldaie a
condensazione di efficienza pari almeno alla
classe «a» di prodotto, di cui al
regolamento 911/2013/Ue e contestuale
installazione di sistemi di termoregolazione
evoluti.
La detrazione, nella misura del 50%,
inoltre, è fruibile per le spese relative
all'acquisto e la posa in opera di impianti
di climatizzazione invernale con impianti
dotati di generatori di calore alimentati da
biomasse combustibili, per un ammontare
massimo di 30 mila euro.
Sono, inoltre, esclusi dalla detrazione
citata gli interventi di sostituzione di
impianti di climatizzazione invernale con
impianti dotati di caldaie a condensazione
inferiore alla classe «A» di prodotto, di
cui al regolamento 811/2013/Ue.
Con riferimento alle spese sostenute per gli
interventi di riqualificazione energetica
per le parti a comune nel periodo
intercorrente tra l'01/01/2017 e il
31/12/2021, il beneficiario «incapiente»,
di cui al comma 2, dell'art. 11 e della
lettera a), comma 1 e lettera a), comma 5,
dell'art. 13, dpr 917/1986 (Tuir) in luogo
della detrazione possono eseguire a terzi la
cessione del bonus.
Il nuovo comma 3-ter, inserito nell'art. 14,
dl 63/2013, prevede che, con uno o più
decreti interministeriali del ministero
dello sviluppo economico, congiuntamente con
il ministero dell'ambiente e delle
infrastrutture e dei trasporti, siano
definiti i necessari requisiti tecnici degli
interventi agevolati, indicati nel medesimo
articolo, nonché i massimali di spesa di
ogni singola tipologia.
In effetti, a differenza degli interventi di
ristrutturazione edilizia, il tetto di spesa
è, da sempre, variabile in base alla
tipologia dei vari interventi e quindi, la
detrazione, comunque da spalmare in dieci
annualità, può risultare di ammontare
diverso, pur mantenendo la stessa
percentuale di detrazione (50 o 65%)
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Copertura
a chi segnala reati. Lavoratori tutelati.
Nel settore pubblico e nel privato. Entra da
oggi in vigore la legge 179 del 2017 che
disciplina il whistleblowing.
Tutelati gli autori di segnalazioni di reati
o di irregolarità di cui siano venuti a
conoscenza nell'ambito di un rapporto di
lavoro pubblico o privato.
Entrano in vigore oggi, 29.12.2017, le
disposizioni contenute nella legge
30.11.2017, n. 179 con la quale è stato
introdotto un sistema «binario» in
ambito di whistleblowing.
Da un lato si prevedono, infatti, strumenti
di tutela per i lavoratori appartenenti al
settore pubblico e dall'altro per i
lavoratori appartenenti al settore privato
che denuncino reati o irregolarità di cui
siano venuti a conoscenza nell'ambito delle
proprie attività lavorative.
La legge 179, modificando il decreto
legislativo 08.06.2001, n. 231, introduce
tre nuovi commi all'art. 6, con cui si
richiede che i modelli di organizzazione e
gestione (Mog) prevedano degli adeguati
canali informativi volti a consentire le
segnalazioni dei dipendenti, idonei a
garantire la riservatezza del segnalante e
che contengano il divieto di atti di
ritorsione o misure discriminatorie nei
confronti del soggetto segnalante.
Per almeno 300 mila soggetti (banche,
intermediari, professionisti) già dal 4
luglio scorso opera un analogo obbligo di
dotarsi di sistemi interni di segnalazione
delle violazioni.
Lo prescrive l'articolo 48 del decreto
legislativo 231/2007, così come modificato e
integrato dal dlgs 90/2017 (attuativo della
Quarta direttiva europea in materia di
antiriciclaggio), prevedendo che i soggetti
obbligati adottino procedure per la
segnalazione al proprio interno da parte di
dipendenti o di persone in posizione
comparabile di violazioni, potenziali o
effettive, delle disposizioni dettate in
funzione di prevenzione del riciclaggio e
del finanziamento del terrorismo.
Tali procedure devono garantire:
a) la tutela della riservatezza dell'identità del segnalante e del
presunto responsabile delle violazioni,
ferme restando le regole che disciplinano le
indagini e i procedimenti avviati
dall'Autorità giudiziaria in relazione ai
fatti oggetto delle segnalazioni;
b) la tutela del soggetto che effettua la segnalazione contro
condotte ritorsive, discriminatorie o
comunque sleali conseguenti la segnalazione;
c) lo sviluppo di uno specifico canale di segnalazione, anonimo e
indipendente, proporzionato alla natura e
alle dimensioni del soggetto obbligato.
La nuova norma prevede che la presentazione
della segnalazione non costituisce, di per
sé, violazione degli obblighi derivanti dal
rapporto contrattuale con il soggetto
obbligato e che, in deroga a quanto previsto
dall'articolo 7, comma 2, del decreto
legislativo 30.06.2003, n. 196 (Codice
Privacy), l'identità del segnalante non
possa essere rivelata se non con il suo
consenso o quando la conoscenza sia
indispensabile per la difesa del segnalato.
Se a tale previsione si aggiunge poi l'ormai
«datato» provvedimento con il quale
Banca d'Italia nel luglio 2016 ha attuato
l'articolo 52-bis del Testo Unico Bancario
con il quale sono state introdotte norme a
tutela del dipendente bancario che segnali
violazioni delle norme bancarie e la
prossima entrata in vigore –dal 03.01.2018–
del provvedimento recante analoghe
disposizioni di tutela del segnalante
attuative della cosiddetta normativa MiFid2,
ben si comprende l'importanza che il
legislatore e il governo hanno attribuito
alla fattiva collaborazione dei dipendenti
delle aziende, pubbliche e private, nella
lotta al riciclaggio, alla corruzione ed in
generale ai reati, anche bancari, finanziari
e societari in genere.
Resta ora da capire come le aziende si
organizzeranno per gestire questo
whistleblowing a più facce o
multicanale; non fare nulla può costare
molto caro: le sanzioni, infatti, possono
arrivare, non solo dalla Magistratura ma
anche da Banca d'Italia, Consob e Ordini
professionali
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Le
contraddizioni del contratto di prestazione
occasionale.
Con l'articolo 54-bis del dl 24.04.2017, n.
50, inserito in sede di conversione della
legge 21.06.2017, n. 96, in vigore dal 24
giugno, nasce il contratto di prestazione
occasionale, con l'obiettivo di andare
adeguatamente a sostituire lo strumento del
voucher.
Quest'ultimo strumento normativo ha
rappresentato per anni la soluzione
flessibile veloce e soprattutto efficace per
inquadrare le prestazioni di lavoro
occasionale di tipo accessorio di modeste
entità. Al contrario l'attuale soluzione
normativa adottata, si connota chiaramente
per andare esattamente nella direzione
opposta a quella della flessibilità e
semplicità di utilizzo che
contraddistingueva il vecchio buono lavoro.
Oggi un committente che decidesse di
ricorrere a questo strumento normativo non
potrebbe farlo nella stessa giornata in cui
nasce l'esigenza organizzativa così come
invece era possibile fare con il vecchio
voucher lavoro, semplicemente per il fatto
che la sola procedura di inquadramento del
committente e soprattutto del riempimento
del portafoglio elettronico attraverso il
pagamento con delega F24 che consente di
acquistare la prestazione, così come precisa
l'Inps nella circolare 107 del 15/07/2017,
necessita di un minimo di sette giorni. Ma
anche dal punto di vista del prestatore il
discorso non cambia, di fatto se con il
vecchio strumento del buono lavoro lo stesso
poteva riscuotere il compenso dopo tre
giorni, con il contratto di prestazione
occasionale l'Inps provvederebbe a disporre
il bonifico del compenso il giorno 15 del
mese successivo.
Ora chiaramente provate a
immaginare il cameriere di un ristorante che
viene chiamato per un paio di sabati
all'inizio del mese per far fronte a un
picco di prenotazioni e si vedrebbe
corrispondere il compenso per due
prestazioni di qualche ora dopo oltre un
mese, compenso di una prestazione
occasionale che dovrebbe trovare la sua
connotazione naturale proprio nella quasi
immediata percezione dello stesso, e invece
costringe il prestatore ad attendere un
periodo decisamente troppo lungo soprattutto
in considerazione della stessa esiguità del
compenso da percepire.
Ma il vero elemento
di rigidità del nuovo strumento risiede
nella penalizzazione che ancora una volta
colpisce imprese e professionisti, infatti
per il contratto di prestazione occasionale
la retribuzione minima da conferire
giornalmente anche per una sola ora di
prestazione è di ben 36 euro, minimale che
rende lo strumento normativo quasi
inutilizzabile per la fattispecie per la
quale è stato creato. Ma quanto costerebbe
quello stesso cameriere dell'esempio
precedente al committente ristoratore se
inizia la propria prestazione alle 20 e
termina all'una di notte, visto che si parla
di minimale giornaliero da rispettare?
Ebbene la risposta dell'Inps a questo
quesito lascia chiaramente intendere a
un'interpretazione di tipo estensivo, ovvero
bisogna corrispondere al prestatore 72 euro
di compenso, quindi il rispetto di due
minimali retributivi giornalieri, di
conseguenza a quel ristoratore il cameriere
costerebbe quasi di 100 euro per cinque ore
di prestazione. Ricapitolando dunque il
prestatore riceverebbe quel compenso dopo
oltre un mese, il committente dovrebbe
sostenere un costo abbastanza più elevato
rispetto persino al normale lavoro
subordinato, e allora perché si dovrebbe
ricorrere a questo nuovo strumento?
La risposta è confermata dai dati recenti
forniti dall'Inps sull'utilizzo del
contratto di prestazione occasionale che non
possono far altro, soprattutto alla luce
delle considerazione appena fatte, che
confermare i numeri impietosi della grande
contraddizione che rappresenta questo
strumento normativo. Si pensi che dalla data
di entrata in vigore della norma sino ad
oggi sono stati registrati poco più di 30
mila contratti, ovvero una nullità rispetto
ai numeri prodotti dal vecchio lavoro
accessorio dei buoni lavoro, a conferma
della grande contraddizione di un contratto
che avrebbe dovuto garantire flessibilità ed
elasticità di utilizzo ma che in realtà è
esattamente il contrario di quello che si
propone di essere
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
TRIBUTI: MANOVRA
2018/ Blocco aliquote, fusioni escluse. Il
congelamento non si applica ai comuni
accorpati. L'obiettivo è consentire
l'armonizzazione dei prelievi sul
territorio.
Il (nuovo) blocco della fiscalità locale non
si applica ai comuni istituiti mediante
fusione, ma solo al fine di consentire, a
parità di gettito, l'armonizzazione delle
diverse aliquote applicate sul rispettivo
territorio.
È una delle novità introdotte nella legge di
Bilancio durante l'iter parlamentare.
Il
comma 37 estende al 2018 il divieto di
ritoccare all'insù i tributi di regioni,
enti di area vasta e comuni. La misura
risale alla legge di stabilità 2016 ed è
stata successivamente estesa al 2017 dalla
legge 232/2016. Nuovo stop, quindi, agli
incrementi delle aliquote (anche se già
deliberati), all'istituzione di nuovi
prelievi, ovvero alla cancellazione di
agevolazioni.
Rimangono fuori dal blocco
solo la Tari, l'imposta di soggiorno e il
contributo sbarco, oltre alle tariffe di
natura patrimoniale, come ad esempio quelle
relative alla tariffa puntuale, sostitutiva
della Tari, e il canone alternativo della
tassa per l'occupazione di spazi e aree
pubbliche (Tosap), vale a dire il canone di
occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap).
Dal punto di vista soggettivo, invece, la
manovra ha introdotto una nuova deroga, che
si aggiunge a quella già prevista a favore
degli enti in dissesto ed in pre-dissesto e
che interessa «i comuni istituiti a seguito
di fusione ai sensi degli articoli 15 e 16
del Testo unico di cui al decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267».
Ciò
però, come detto, solo «al fine di
consentire, a parità di gettito,
l'armonizzazione delle diverse aliquote». La
portata di tale inciso non è chiarissima,
perché in teoria il blocco è perfettamente
conciliabile con l'esigenza di
armonizzazione del prelievo sulle diverse
porzioni di territorio accorpate in un unico
municipio, essendo sufficiente applicare a
tutti i contribuenti le aliquote più basse
fra quelle introdotte dai comuni ante
fusione.
Inoltre, occorre ricordare che già il comma
132 della legge Delrio (56/2014) consente
ai comuni fusi di «mantenere tributi e
tariffe differenziati per ciascuno dei
territori degli enti preesistenti alla
fusione non oltre il quinto esercizio
finanziario del nuovo comune». C'è da
attendersi, quindi, che le nuova norma
susciterà qualche dubbio applicativo, che
dovrà essere affrontato a colpi di circolari
e risoluzioni dal Mef e di sentenze da parte
delle commissioni tributarie.
Nessuna
deroga, invece, è stata prevista per
eventuali interventi espansivi adottati in
sede di salvaguardia degli equilibri, come
in teoria prevedrebbe l'art. 193 del Tuel
con una norma che, però, è pacificamente
considerata inidonea a derogare al blocco
(si veda, da ultimo, la risoluzione del
Dipartimento finanze n. 1 del 29.05.2017).
La conseguenza è che molte amministrazioni
si troveranno costrette a intraprendere la
strada della procedura di riequilibrio
finanziario pluriennale, laddove non
riescano a ripristinare gli equilibri
mediante i soli tagli di spesa
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: MANOVRA
2018/ Gli oneri di urbanizzazione torneranno
vincolati.
Nuovo voltafaccia sugli
oneri di urbanizzazione. Non è passato,
infatti, l'emendamento alla manovra che
puntava a estendere al 2018 la disciplina
già applicata nel biennio 2016-2017,
consentendo ai comuni un utilizzo assai più
libero di tali entrate, che a questo punto
dal prossimo 1° gennaio diventeranno
vincolate.
Per comprendere la questione, è necessario
premettere che l'espressione «oneri di
urbanizzazione» indica in modo atecnico i
proventi di titoli abilitativi edilizi per i
quali il richiedente è chiamato a
compartecipare ai costi sociali delle opere
che intende realizzare, ad esempio per il
collegamento delle fognature, la
realizzazione di strade e marciapiedi, il
rafforzamento del sistema di illuminazione
pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal
fine, occorre versare all'ente competente
(in genere il comune) un somma correlata
all'incidenza di tali costi per la
collettività di riferimento, cui si aggiunge
un'ulteriore quota ragguagliata al costo di
costruzione e che si collega all'incremento
di capacità contributiva del titolare a
seguito dell'intervento autorizzato. Data la
natura degli «oneri», è naturale che il loro
utilizzo da parte del comune debba essere
coerente con le finalità cui sono destinati,
almeno per la prima quota (quella appunto
legata ai costi delle opere di
urbanizzazione). Ma finora non sempre è
stato così: spesso le difficoltà a quadrare
i conti hanno costretto i sindaci a
dirottarli su altre tipologie di spese, a
volte comunque di investimenti, più spesso
di natura corrente.
Ciò, come detto, sulla
base di una lunga serie di norme ad hoc, a
partire dall'art. 2, comma 8, della l
244/2007, che consentiva di utilizzare tali
entrate per finanziare per una quota non
superiore al 50%, spese correnti
indifferenziate e, per una quota non
superiore ad un ulteriore 25%, spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle
strade e del patrimonio comunale.
Negli anni
2016 e 2017, invece, la materia è stata
regolata dal comma 737 della l. 208/2015, che
ha permesso di spendere gli «oneri» anche
interamente per spese di manutenzione
ordinaria del verde, delle strade e del
patrimonio comunale, nonché per spese di
progettazione delle opere pubbliche. Dal
2018, invece, entrerà in vigore il comma 460
della legge n. 232/2016, che circoscrive le
spese finanziabili alla realizzazione e
manutenzione ordinaria e straordinaria delle
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
2018/ Turnover e stabilizzazioni, gli enti
tornano ad assumere.
Non c'è solo lo sblocco delle assunzioni
negli enti di area vasta e l'innalzamento
del turnover nei comuni da 3.000 a 5.000
abitanti. La manovra, infatti, prevede altre
importanti novità per il personale delle
amministrazioni locali. Il limite al
turnover sale al 100% anche per i comuni fra
3.000 e 5.000 abitanti con una spesa di
personale inferiore al 24% delle entrate
correnti medie dell'ultimo triennio.
In
precedenza, la maglie larghe interessavano
solo la platea fino a 3.000 residenti. Per
province e città metropolitane arriva lo
sblocco delle assunzioni a tempo
indeterminato con percentuali di turnover
pari al 100% per le amministrazioni con una
bassa incidenza della spesa di personale, al
25% per le altre. Via libera anche
all'utilizzo dei resti assunzionali del
triennio precedente. Sarà possibile anche il
reclutamento a tempo determinato, nei limiti
del 25% della spesa 2009. Ma altre norme
meritano di essere segnalate.
Il comma 812
conferma la disciplina di cui all'art. 4,
comma 6-quater, del dl 101/2013), che
consente ai comuni di stabilizzare, a
domanda, in via prioritaria rispetto
all'assunzione con procedura concorsuale, il
personale non dirigenziale assunto con
contratto di lavoro a tempo determinato,
sottoscritto a conclusione di una procedura
selettiva pubblica bandita ai sensi
dell'articolo 1, comma 560, della legge n.
296/20066, che abbia maturato, alla data del
01.09.2013, almeno tre anni di
servizio alle proprie dipendenze negli
ultimi cinque anni.
Il comma 1148,
modificando l'art. 22, comma 8, del dlgs n.
75/2017, proroga la possibilità, nelle
pubbliche amministrazioni, di utilizzare i
contratti di collaborazione coordinata e
continuativa fino al 01.01.2019 (invece
che al 01.01.2018).
Viene prorogata
fino al 31.12.2018 anche la
possibilità per gli uffici giudiziari di
continuare ad avvalersi dei servizi prestati
dal personale dei comuni già distaccato,
comandato o comunque specificamente
destinato (comma 467). Ciò, però, nel più
basso limite massimo complessivo del 10%
della dotazione ordinaria, per l'anno 2018,
del capitolo previsto nel bilancio statale.
Ancora, si stabilisce (al comma 200) che gli
ambiti territoriali possono effettuare
assunzioni di assistenti sociali con
rapporto di lavoro a tempo determinato
direttamente a valere (e nei limiti di un
terzo) sulla quota del Fondo Povertà ad essi
attribuita. Tali assunzioni potranno essere
effettuate in deroga ai vincoli di
contenimento della spesa di personale
previsti a legislazione vigente
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
locali senza obblighi. Facoltativa la
negoziazione annuale dei fondi decentrati.
Le novità del nuovo Ccnl per le funzioni
centrali che sarà modello per gli altri
comparti.
I contratti collettivi decentrati avranno la
facoltà e non l'obbligo di indicare di anno
in anno la destinazione delle risorse
decentrate.
E' una delle novità di maggior rilievo della
preintesa sul nuovo contratto di lavoro per
le «funzioni centrali», i comparti delle
amministrazioni statali, stipulata lo scorso
23 dicembre. Una novità che potrebbe
risolvere alcuni problemi rilevati, in
particolare, nel comparto regioni enti
locali, visto che il contratto delle
funzioni centrali sarà il modello generale
al quale faranno riferimento gli altri che
verranno stipulati in seguito.
Da sempre i contratti collettivi nazionali
di lavoro contengono la clausola della
cosiddetta ultrattività dei contratti
collettivi decentrati, che viene riproposta
anche dall'articolo 8, comma 7, della
preintesa: «i contratti collettivi
integrativi devono contenere apposite
clausole circa tempi, modalità e procedure
di verifica della loro attuazione. Essi
conservano la loro efficacia fino alla
stipulazione, presso ciascuna
amministrazione, dei successivi contratti
collettivi integrativi».
Nonostante la previsione risulti
sufficientemente chiara e sia stata sempre
presente nei contratti collettivi sia i
servizi ispettivi, sia la Corte dei conti
hanno di fatto negato effettività al
principio di ultrattività dei contratti
decentrati, pretendendo che di anno in anno
si desse corso alla contrattazione
decentrata di parte economica e considerando
produttiva di danno l'assenza dei contratti.
Le obiezioni sulla liceità del riferimento
indiretto alle previsioni dell'ultimo
contratto stipulato hanno sempre prodotto
solo contenziosi infiniti.
La preintesa del 23 dicembre appare
apprestare il rimedio a questa clamorosa
incongruenza e palese mancanza di rapporto
collaborativo tra istituzioni.
Per comprendere cosa cambia, è bene
richiamare la contrattazione nazionale ormai
scaduta, destinata ad essere sostituita
dalla nuova in corso di definizione. Ad
esempio, l'articolo 5, comma 1, ultimo
periodo, del Ccnl 01.04.1999 del comparto
regioni enti locali dispone, ai sensi del
quale «l'utilizzo delle risorse è
determinato in sede di contrattazione
decentrata integrativa con cadenza annuale».
Servizi ispettivi e magistratura contabile,
con una lettura rigorosa e non tesa a
coordinare questa previsione col principio
di ultratttività visto prima, ritengono che
sia un dovere immancabile appunto
determinare ogni anno la destinazione delle
risorse.
L'articolo 8, comma 1, della preintesa,
però, ha un contenuto diverso: «il contratto
collettivo integrativo ha durata triennale e
si riferisce a tutte le materie di cui
all'art. 7, commi 6 e 7. I criteri di
ripartizione delle risorse tra le diverse
modalità di utilizzo di cui all'art. 7,
comma 6, possono essere negoziati con
cadenza annuale».
Sembra evidente che alla possibilità di
considerare la negoziazione annuale come un
dovere, propria della scaduta tornata
contrattuale nazionale, si sostituisca una
mera facoltà di negoziazione con cadenza
annuale.
Il testo dell'articolo 8, comma 1, della
preintesa non pare lasci dubbi. Il
coordinamento tra principio di ultrattività
e dovere di negoziazione è totale: poiché i
contratti hanno durata triennale, spetta
alle amministrazioni scegliere se definire i
criteri di ripartizione delle risorse in
modo che valgano un triennio oppure
annualmente; nel primo caso, non si porrà
mai più il problema dell'assenza di una
negoziazione annuale di riparto delle
risorse. Ma, anche laddove le parti non
stipulino criteri espressamente di portata
triennale, la facoltà e non l'obbligo di
negoziare annualmente la ripartizione delle
risorse, consente senza alcun dubbio di
considerare vigenti ed applicabili i criteri
disposti l'anno prima.
Il tutto conferma che occorre svincolare il
processo della contrattazione dai numeri
concreti e dall'approvazione dei bilanci.
Se si ragiona davvero su criteri che poi
possano essere tradotti in formule per
calcolare le destinazioni delle risorse,
qualsiasi sia il concreto ammontare frutto
della loro costituzione, è possibile
stipulare sempre per tempo contratti che
consentano una gestione serena ed
efficiente.
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L'analisi. La
contrattazione integrativa non risulta
semplificata.
Il nuovo contratto collettivo nazionale di
lavoro per il comparto delle «funzioni
centrali» manca l'obiettivo di rendere più
semplice composizione e gestione delle
risorse contrattuali decentrate.
L'articolo 40, comma 4-bis, del dlgs
165/2001 ha dato mandato alla contrattazione
nazionale collettiva «di semplificare la
gestione amministrativa dei fondi destinati
alla contrattazione integrativa e di
consentirne un utilizzo più funzionale ad
obiettivi di valorizzazione degli apporti
del personale, nonché di miglioramento della
produttività e della qualità dei servizi»,
mediante il riordino, la razionalizzazione e
la semplificazione «delle discipline in
materia di dotazione ed utilizzo dei fondi
destinati alla contrattazione integrativa».
Tuttavia, l'obiettivo non pare sia
raggiunto.
È l'articolo 76 della preintesa del 23
dicembre a disciplinare la materia. Il comma
2 di tale norma stabilisce che «a decorrere
dall'anno 2018, nel Fondo risorse decentrate
confluiscono, in un unico importo
consolidato, tutte le risorse aventi
caratteristiche di certezza, stabilità e
continuità negli importi determinati per
l'anno 2017, come certificati dagli organi
di controllo interno di cui all'art. 40-bis,
comma 1, del dlgs n. 165/2001».
La disposizione risulta estremamente simile
a quelle del sistema negoziale ormai
scaduto, come ad esempio l'articolo 32,
comma 2, del Ccnl del comparto regioni-enti
locali 22/01/2004: «Le risorse aventi
carattere di certezza, stabilità e
continuità determinate nell'anno 2003
secondo la previgente disciplina
contrattuale, e con le integrazioni previste
dall'art. 32, commi 1 e 2, vengono definite
in un unico importo che resta confermato,
con le stesse caratteristiche, anche per gli
anni successivi».
Non si rinvengono elementi normativi nuovi e
diversi, tali da ottenere l'effetto voluto
dalla riforma Madia, cioè, appunto, il
riordino della dotazione. Manca totalmente
una formula matematica chiara, grazie alla
quale poter determinare in modo certo ed
incontrovertibile l'ammontare del fondo.
Fare riferimento alle risorse stabili
determinate nel 2017 non risolve nessuno dei
problemi atavici, più volte rilevati dai
servizi ispettivi, che hanno sovente
censurato il sistema col quale sono
determinate le risorse decentrate, proprio
per l'assenza storica di una formula di
calcolo chiara.
I contratti di quando in quando fanno
riferimento al concetto del «monte salari»,
per altro mai definito né normativamente, né
contrattualmente, come base per costituire i
fondi; per altro, si tratta di monte salari
riferito ad annualità spesso molto risalenti
nel tempo ed incrementati, negli anni, in
modo parziale, con percentuali mutevoli e
non sempre «a regime», ma solo per
determinate annualità.
Meccanismi stratificati e complessi, che
hanno contribuito al contenzioso estesissimo
sulla quantificazione delle risorse, che ha
portato ai tentativi di sanatoria come il dl
«salva Roma», per altro mai capaci di
chiudere realmente le questioni aperte.
A rendere le cose ancor più difficili, sono
quattro ulteriori fonti di incremento
eventuale delle risorse stabili. La prima
sono le percentuali di incremento, utili per
determinare quell'aumento medio (a decorrere
dal 2018) dei famosi 85 euro. Poi, sarà
possibile incrementarlo dell'importo
corrispondente alle retribuzioni individuali
di anzianità non più corrisposte al
personale cessato dal servizio, compresa la
quota di tredicesima mensilità a partire
dall'anno successivo alla cessazione dal
servizio in misura intera in ragione d'anno.
La terza componente saranno le indennità di
amministrazione o di ente non più
corrisposte al personale cessato dal
servizio e non riutilizzate in conseguenza
di nuove assunzioni. Infine, confluiranno
eventuali risorse riassorbite, a decorrere
dal 2018, ai sensi dell'art. 2, comma 3, del
decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Intricatissima resta anche la determinazione
delle risorse «variabili», il cui importo
muta annualmente. Le componenti in questo
caso sono numerose. Si va dalle entrate per
sponsorizzazioni alla quota di risparmi
conseguiti e certificati in attuazione dei
piani di razionalizzazione previsti
dall'articolo 16, commi 4, 5 e 6 del dl
98/2011, alle risorse derivanti da
disposizioni di legge, regolamenti o atti
amministrativi generali che prevedano
specifici trattamenti economici in favore
del personale, fino ai ratei di anzianità e
indennità di amministrazione del personale
cessato dal servizio nel corso dell'anno
precedente, calcolati in misura pari alle
mensilità residue dopo la cessazione,
computandosi a tal fine, oltre ai ratei di
tredicesima mensilità, le frazioni di mese
superiori a quindici giorni. Per concludere
con una ridda di risorse variabili in
funzione della tipologia degli enti
(ministeri o agenzie o autorità come Enac).
Conseguentemente, l'articolo 77 della
preintesa descrive in modo frastagliato e
complesso le possibili destinazioni delle
risorse, con una gestione che appare
tutt'altro che razionalizzata e semplificata
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Grandi
opere, pareri Ue per la p.a.. Enti
appaltanti: investire su digitale e
formazione. Proposta di Bruxelles per
offrire valutazioni preventive e consulenza
sull'attuazione norme europee.
Per gli appalti di grandi infrastrutture la
Ue propone l'istituzione di un servizio di
pareri della Commissione di Bruxelles su
base volontaria, a richiesta delle pubbliche
amministrazioni europee, per rendere più
efficienti le procedure di appalto;
necessari investimenti sulla formazione e
qualificazione delle stazioni appaltanti e
per la digitalizzazione del settore.
Sono questi alcuni dei contenuti di tre
comunicazioni della Commissione Ue (da cui
generalmente derivano poi direttive Ue), che
si occupano di appalti per i grandi progetti
infrastrutturali, di efficienza del settore
dei contratti pubblici in Europa e di
professionalizzazione degli appalti
pubblici.
Su questi ambiziosi documenti la commissione
ambiente della camera (relatrice Raffaella
Mariani) ha emesso prima della pausa
natalizia un parere positivo, peraltro
evidenziando in premessa che ancora
persistono a livello nazionale «incertezze
sul piano interpretativo, suscettibili di
determinare difficoltà dal punto di vista
operativo» imputabili anche
all'insufficiente livello di conoscenze e
competenze tecniche da parte delle pubbliche
amministrazioni.
Viene quindi valutata positivamente la
proposta della Ue di istituire un sistema di
valutazione preventiva su base volontaria
per aiutare a risolvere, attraverso
l'emissione di pareri dei servizi della
commissione europea, su richiesta delle
autorità pubbliche interessate, quesiti
sull'applicazione delle norme Ue in materia
di appalti pubblici per grandi progetti
infrastrutturali.
I parlamentari italiani chiedono però di
rendere applicabile questa proposta anche ad
appalti più piccoli per prevenire eventuali
contenziosi con riferimento ad appalti di
valore più contenuto, a vantaggio delle
stazioni appaltanti di minori dimensioni,
quali gli enti locali.
Occorrerà inoltre ridurre la durata massima
di tre mesi entro i quali i servizi della
Commissione europea sarebbero tenuti a
fornire risposte alle richieste di
chiarimento avanzate, in modo da evitare una
situazione di incertezza prolungata; così
come si suggerisce alla Commissione Ue di
chiarire in termini inequivoci il valore
giuridico delle pronunce adottate su
richiesta attraverso i pareri forniti,
riconducibili non alla Commissione in quanto
tale, ma soltanto ai servizi giuridici della
stessa.
Da valutare, inoltre, anche la possibilità
che l'eventuale integrale recepimento del
parere da parte del soggetto richiedente
metterebbe lo stesso al riparo da eventuali
successive procedure sanzionatorie per
violazione della normativa europea.
Andrà poi definito il rapporto fra la
procedura di valutazione ex ante prospettata
dalla Commissione europea e le eventuali
procedure di tipo preventivo degli appalti
pubblici vigenti in alcuni ordinamenti
nazionali come, ad esempio, quello italiano,
dove l'autorità nazionale anticorruzione
stipula accordi di vigilanza collaborativa
con le amministrazioni. Uno sforzo andrà poi
compiuto per «tradurre concretamente
l'obiettivo che la Commissione europea
prefigura di elevare la qualità
professionale e le competenze dei soggetti
che a vario titolo sono coinvolti nelle
procedure di appalto» anche mediante lo
sviluppo di adeguati programmi di formazione
e apprendimento permanenti.
Un'attenzione particolare andrà prestata
all'investimento di risorse e competenze
tecniche per promuovere una più rapida e
intensa digitalizzazione dell'intero sistema
degli appalti pubblici e per promuovere e
diffondere l'utilizzo di modelli standard,
basati sulle migliori pratiche, che possano
aiutare le amministrazioni, soprattutto di
minori dimensioni, a gestire gli appalti in
maniera più efficiente e meno problematica
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Nel nuovo contratto più flessibilità e giustificativo per le
entrate in ritardo.
Il contratto delle funzioni centrali, sottoscritto poche ore prima di
Natale, taglia il traguardo degli obiettivi indicati nell'atto di indirizzo
all'Aran del giugno scorso, in tema di maggiore flessibilità oraria,
introducendo una disciplina che concilia esigenze delle persone,
organizzative e quelle dell'utenza.
La valorizzazione degli strumenti che consentono di conciliare tempi di vita
e tempi di lavoro, si è realizzata attraverso l'armonizzazione, in un unico
quadro regolativo, delle discipline contrattuali dei diversi comparti di
provenienza, insieme a una nuova disciplina comune degli istituti del
rapporto di lavoro quali orario, ferie e permessi.
L'articolazione dell'orario di lavoro rimane esclusa dalla contrattazione
collettiva. In materia di contrattazione integrativa, infatti, continuano a
essere vigenti le limitazioni introdotte dal Dlgs 150/2009 che sottraggono
alla contrattazione collettiva le determinazioni per l'organizzazione degli
uffici e le misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro. Rimangono
pertanto escluse dalla contrattazione collettiva materie quali
l'articolazione dell'orario di lavoro, compresi turni, reperibilità, nonché
organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici.
Orario di lavoro: la flessibilità giornaliera
L'articolo 17 del nuovo contratto ribadisce che l'orario di lavoro è di 36
ore settimanali ed è funzionale all'orario di servizio e di apertura al
pubblico. Perde, rispetto alle formulazioni precedenti, la necessità di
essere articolato previo esame con le organizzazioni sindacali. Ciò che
riceve una più chiara definizione è lo spazio temporale entro il quale far
agire la flessibilità.
La formulazione letterale della norma vede il realizzarsi di un orario
flessibile, attraverso la previsione di fasce temporali entro le quali sono
consentiti l'inizio e il termine della prestazione lavorativa giornaliera.
Questo significa che l'esercizio della flessibilità di cui all'articolo 17,
comma 4, vuole il debito orario teorico giornaliero assolto.
Misure di conciliazione vita-lavoro: la flessibilità
bimensile
È il capo III del nuovo contratto che introduce e declina una nuova
flessibilità che agisce in un arco temporale diverso da quello della
giornata.
L'articolo 26, dedicato all’orario di lavoro flessibile, riprendendo la
definizione di flessibilità giornaliera, precisa che, nel rispetto di un
orario di lavoro che deve rimanere funzionale al servizio e quindi
compatibile, nella sua articolazione, alle esigenze di servizio, il
dipendente può avvalersi delle fasce di flessibilità sia in entrata che in
uscita. Questo significa che nel caso in cui il datore di lavoro abbia
definito in 30 minuti la fascia di flessibilità in entrata ed in uscita, il
dipendente può legittimamente entrare 30 minuti dopo l'inizio teorico
dell'orario di lavoro giornaliero, e uscire mezz'ora prima della fine
dell'orario della giornata, non assolvendo in questo modo al debito orario
teorico giornaliero.
Il comma 2 dell'articolo 26 indica il tempo massimo entro il quale, il
debito orario non assolto, deve essere recuperato. Il nuovo perimetro
tracciato, è quello del mese successivo a quello di riferimento. Questo
realizza la possibilità che un debito orario non assolto su base mensile non
rappresenti nessun mancato rispetto dell'orario di lavoro, bensì l'esercizio
legittimo di una flessibilità che consente di recuperare il debito orario
entro il mese successivo, secondo modalità e tempi concordati con il
dirigente.
Il diritto positivo chiede che il dipendente renda 36 ore settimanali,
unitamente alla possibilità che su base mensile ne renda meno, a condizione
che entro il mese successivo le recuperi.
Rilevazione dell'orario e ritardi
A integrazione degli istituti sull'orario di lavoro, declinati al capo II
del contratto, arriva la fattispecie del ritardo sull'orario in ingresso.
L'articolo 24, al comma 2, precisa che il ritardo sull'orario di ingresso al
lavoro comporta l'obbligo di recupero entro l'ultimo giorno del mese
successivo a quello in cui si è verificato il ritardo. La specifica
disposizione contrattuale lascia intendere che il ritardo in ingresso, è
inteso al netto della flessibilità in entrata, cioè quello che si colloca,
al di fuori delle fasce di flessibilità giornaliera tant'è che, ove lo
stesso ritardo non sia recuperato, va operata una proporzionale decurtazione
della retribuzione e del trattamento economico accessorio, fermo restando
quanto previsto in materia disciplinare, configurandosi in questo caso un
mancato rispetto dell'orario di lavoro.
A una prima lettura appare difficile definire il confine che traccia la fine
di una flessibilità bimensile non recuperata e il ritardo in ingresso non
recuperato, in quanto agiscono sul medesimo arco temporale. Trattandosi di
due istituti declinati in distinte norme, sembrano potersi cumulare nel loro
“utilizzo”, con l'attenzione di conservarne una rilevazione distinta.
Permessi orari a recupero
Gli istituti che consentono di giustificare un'entrata in ritardo introdotti
al capo I e sopra descritti, si sommano a un istituto preesistente che non
ha subito particolari stravolgimenti. Stiamo parlando dei permessi orari a
recupero disciplinati ora all'articolo 36 del capo V. Questi permessi
nascono con l'intento di sospendere o interrompere l'attività lavorativa,
pertanto, non vanno utilizzati in via sistematica, per giustificare
un'entrata in ritardo. Rimane pur vero che possono essere utilizzati e lo
sono stati fino ad oggi, per tale scopo; riprova ne è il fatto che possono
essere chiesti non oltre 1 ora dopo l'inizio della giornata lavorativa.
La ratio di questo istituto, tuttavia, non li vuole dedicati a giustificare
le entrate in ritardo, all'uopo sono stati infatti introdotti gli istituti
di cui non si disponeva prima dell'entrata in vigore di questo contratto e
sopra descritti.
Giova rammentare che questi permessi orari, agiscono in maniera molto
particolare sul debito orario settimanale.
Premesso che la fattispecie giuridica del debito orario non è rinvenibile
nel diritto positivo, rimane immutato l'obbligo di rendere 36 ore
settimanali da parte del lavoratore dipendente.
Nel caso in cui un lavoratore goda di un permesso orario a recupero, il
permesso non riduce il debito orario settimanale ed è in questo “agire” del
permesso che risiede il conseguente obbligo di recupero nel termine del mese
successivo a quello nel quale è goduto. Un mancato recupero in termini di
prestazione lavorativa resa, determina la proporzionale decurtazione della
retribuzione.
Detto in altri termini, il contratto legittima una prestazione lavorativa
inferiore a quella contrattualmente prevista, a condizione che si provveda
ad una proporzionale decurtazione della retribuzione nel rispetto del
principio secondo cui la retribuzione è ancorata alla prestazione resa. In
questo caso non si configura alcun mancato rispetto dell'orario di lavoro.
Ciò che va monitorato con attenzione è il rispetto del tetto massimo delle
36 ore annue, superato il quale, alla proporzionale decurtazione della
retribuzione devono attivarsi le procedure in materia disciplinare
(articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.12.2017). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Bando-tipo, clausola sociale a misura di regole Ue e contratti collettivi.
La clausola sociale deve essere inserita nelle regole di gara per gli
appalti di servizi, con esclusione delle procedure per quelli intellettuali
e per l'affidamento di forniture.
Il bando-tipo n. 1/2017 chiarisce le modalità di utilizzo della particolare
previsione che regola il riassorbimento del personale dell'appaltatore
uscente da parte di quello subentrante, nel rispetto dei principi
dell'ordinamento comunitario e dell'autonomia organizzativa dell'operatore
economico affidatario.
Il modello standard adottato dall'Anac precisa anzitutto come la clausola
sociale (prevista come obbligatoria dall'articolo 50 del codice dei
contratti pubblici dopo la modifica apportata dal Dlgs 56/2017) non debba
essere utilizzata per gli appalti di mera fornitura, per quelli che hanno a
oggetto servizi intellettuali e per quelli nei quali non ci sia un
appaltatore uscente (ad esempio, per un servizio esternalizzato per la prima
volta o per il quale il precedente appalto sia stato oggetto di risoluzione
con l'appaltatore).
Contratti collettivi
L'Autorità precisa nella nota illustrativa del bando-tipo che in base alla
nuova disciplina del codice, la stazione appaltante è tenuta in ogni caso a
inserire clausole sociali richiamando l'applicazione di contratti collettivi
di settore, relative al riassorbimento del personale impiegato dal
precedente aggiudicatario. Tuttavia l'Anac rammenta che per costante
giurisprudenza, questa clausola non deve essere intesa come un obbligo di
totale riassorbimento dei lavoratori del pregresso appalto, ma viceversa,
deve prevedere che le condizioni di lavoro siano armonizzabili con
l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze
tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto.
La clausola standard inserita nello schema di disciplinare prevede che al
fine di promuovere la stabilità occupazionale nel rispetto dei principi
dell'unione europea, e ferma restando la necessaria armonizzazione con
l'organizzazione dell'operatore economico subentrante e con le esigenze
tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto,
l'aggiudicatario del contratto di appalto è tenuto ad assorbire
prioritariamente nel proprio organico il personale già operante alle
dipendenze dell'aggiudicatario uscente, come previsto dall'articolo 50 del
codice, garantendo l'applicazione dei contratti collettivi di settore, di
cui all'articolo 51 del Dlgs 81/2015.
Regole Ue e autonomia dell’imprenditore
La formulazione della clausola sociale contenuta nel bando-tipo n. 1/2017
tiene conto della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato in
materia (in particolare dell'intervento della Sez. III, con la
sentenza
05.05.2017 n.
2078) secondo la quale la clausola stessa deve avere una
formulazione coerente con il quadro normativo comunitario e con l'autonomia
organizzativa dell'operatore economico, risultando altrimenti lesiva della
concorrenza, in quanto una differente impostazione scoraggerebbe la
partecipazione alla gara e limiterebbe la platea dei partecipanti, incidendo
sulla libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'articolo 41 della
costituzione.
Ammortizzatori sociali
I lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore
subentrante e che non possono essere ulteriormente impiegati
dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure
legislative in materia di ammortizzatori sociali.
La clausola sociale non può quindi comportare alcun obbligo per l'impresa
aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato e in
forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla
precedente impresa o società affidataria, salvo che questo non sia previsto
dal contratto collettivo applicato sia dall'uscente che dal subentrante.
Qualora, peraltro, in base al nuovo affidamento siano cambiate le condizioni
di esecuzione dell'appalto rispetto all'appalto stipulato con l'operatore
uscente, la clausola-tipo prevede che il personale da riassorbire sia
definito in esito ad una verifica congiunta tra stazione appaltante,
appaltatore e sindacati.
L'Anac precisa inoltre nella nota illustrativa come la mera accettazione di
obblighi di riassorbimento del personale non possa diventare criterio di
valutazione dell'offerta tecnica (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Stretta
sui certificati di malattia. Sanzionati i
medici che ignorano la trasmissione online.
Dall'Inps stop alle incoerenze sulla
gestione delle assenze. Rientro anticipato
da segnalare.
L'Inps adesso fa il duro con medici e
lavoratori sui certificati di malattia. I
medici che ignorano la trasmissione online
saranno segnalati all'Asl per le sanzioni
disciplinari, mentre i lavoratori che
omettano di presentare un nuovo certificato
per il rientro anticipato al lavoro saranno
sanzionati (dall'Inps) nella stessa misura
prevista per le assenze ingiustificate alle
visite di controllo. La novità, dunque, non
riguarda tanto gli adempimenti legati alla
malattia, perché in vigore da tempo, quanto
piuttosto le funzioni affidate all'Inps.
Lo promette nella
circolare
02.05.2017 n. 79:
d'ora in avanti non chiuderà più gli occhi
dinanzi alle «incoerenze» sulla gestione
delle assenze per malattia, punendo quanti
trasgrediscono. La questione ruota attorno
al certificato di malattia.
I certificati di malattia.
Il certificato
medico serve, al lavoratore, per avere il
riconoscimento del diritto a due tutele:
assenza da lavoro e indennità sostitutiva
della paga. Attualmente i certificati
viaggiano online: i medici, infatti, sono
tenuti a inviarli telematicamente all'Inps e
al datore di lavoro; soltanto in ipotesi
residuali (per esempio se c'è mancanza di
collegamento a internet), possono ancora
rilasciarlo su carta. Il lavoratore deve
farsi rilasciare il certificato di malattia
dal medico curante che provvede a
trasmetterlo telematicamente all'Inps.
È
responsabilità del lavoratore, inoltre,
controllare attentamente la correttezza dei
dati anagrafici e di domicilio per la
reperibilità inseriti dal medico nel
certificato, per non incorrere nelle
eventuali sanzioni in caso di assenza ai
controlli. Con il certificato trasmesso in
via telematico, il lavoratore è esonerato
dall'obbligo d'invio dell'attestato al
proprio datore di lavoro, il quale può
ottenerlo da sé e visualizzarlo tramite i
servizi telematici messi a disposizione
dall'Inps.
Qualora la trasmissione
telematica non sia possibile, il lavoratore
deve farsi rilasciare dal medico curante il
certificato di malattia redatto in modalità
cartacea. In tal caso egli deve, entro due
giorni dalla data del rilascio, presentare
oppure inviare per posta il certificato alla
sede territoriale Inps di competenza e
l'attestato al proprio datore di lavoro, per
non incorrere nelle sanzioni consistenti
nella perdita del diritto all'indennità di
malattia per ogni giorno di ingiustificato
ritardo nell'invio oltre il menzionato
termine dei due giorni.
Anche per i certificati di ricovero e di
malattia rilasciati da parte delle strutture
ospedaliere è previsto l'invio telematico.
Qualora, invece, i certificati siano redatti
in modalità cartacea, vanno presentati o
inviati, a cura del lavoratore, alla sede
Inps di competenza e al datore di lavoro
(privi dei dati di diagnosi) come sopra
ricordato. Nel caso dei certificati di
ricovero (ma non di quelli eventuali di
malattia post ricovero), la consegna può
avvenire anche oltre i due giorni dalla data
del rilascio, ma comunque entro il termine
di un anno di prescrizione della
prestazione. Le attestazioni di ricovero e
della giornata di pronto soccorso prive di
diagnosi non sono ritenute certificative, ai
fini del riconoscimento della prestazione
previdenziale.
Guarigione anticipata.
Il certificato
medico, come è obbligatorio per l'inizio o
il prolungamento di una malattia, è
altrettanto obbligatorio nell'ipotesi di
guarigione anticipata. Il lavoratore,
infatti, è tenuto a chiedere la rettifica
del certificato in corso, per documentare
correttamente il periodo d'incapacità
temporanea al lavoro. Nella circolare n.
79/2017, l'Inps precisa che la rettifica, a
fronte di una guarigione anticipata, è
adempimento obbligatorio del lavoratore nei
confronti dell'Inps (perché viene meno il
diritto all'indennità) e nei riguardi del
proprio datore di lavoro (ai fini della
ripresa anticipata del lavoro).
La comunicazione al datore di lavoro.
Tutti
i contratti collettivi di lavoro prevedono a
carico del lavoratore l'obbligo di
giustificare lo stato di malattia,
attraverso la tempestiva presentazione di un
certificato medico all'azienda,
eventualmente preceduto da una comunicazione
dell'evento, che potrà avvenire anche in una
maniera informale (ad esempio
telefonicamente).
Tale comunicazione, che
serve a giustificare il tempo necessario al
lavoratore ad attivarsi per ottenere la
certificazione (chiamare o recarsi il medico
ecc.), non può mai sostituire l'invio del
certificato che va fatto tempestivamente: in
via telematica (dal medico) ovvero a mano,
se il certificato è redatto su carta. Si
tenga conto, che l'obbligo non riguarda
soltanto la comunicazione dell'inizio della
malattia, ma anche ogni eventuale
continuazione e proroga.
L'indennità di malattia.
Il diritto
all'indennità di malattia decorre, per la
generalità dei lavoratori, dal quarto giorno
(i primi tre giorni sono c.d. di «carenza» e
se solo previsto dal Ccnl sono indennizzati
con onere a totale carico dell'azienda) e
cessa con la scadenza della prognosi (la
fine malattia). Per essere indennizzata la
malattia va attestata con uno o più
certificati. In via generale, ai lavoratori
assunti a tempo indeterminato l'indennità
spetta per massimo di 180 giorni nell'anno
solare; a quelli assunti a termine, per un
numero massimo di giorni pari a quelli
lavorati nei 12 mesi immediatamente
precedenti l'inizio della malattia, comunque
con minimo 30 e massimo di 180 giorni
nell'anno solare.
L'indennità è corrisposta
in misura del 50% della retribuzione media
giornaliera dal 4° al 20° giorno e del
66,66% dal 21° al 180° giorno di malattia.
Gli statali vanno meglio come i dipendenti
di laboratori di pasticceria: l'indennità
spetta all'80% per tutto il periodo di
malattia. Ai ricoverati che non hanno
familiari a carico l'indennità è ridotta ai
2/5 per tutto il periodo di degenza
ospedaliera, escluso il giorno delle
dimissioni.
L'Inps fa il duro: le nuove sanzioni.
L'Inps
lamenta non pochi casi d'inadempienza da
parte dei medici curanti, che cioè
rilasciano certificati su carta. Nel
ribadire che l'inosservanza dell'invio
telematico è, oltre che violazione della
normativa, una fattispecie d'illecito
disciplinare per i medici dipendenti da
strutture pubbliche o per quelli
convenzionati, invita le sedi territoriali
dell'istituto a segnalare alle aziende
sanitarie locali (Asl) di competenza le
inadempienze riscontrate. E ricorda che ai
sensi dell'art. 55-septies del dlgs n.
165/2001 l'inosservanza, se reiterata,
comporta a carico del medico il
licenziamento o la decadenza dalla
convenzione.
In secondo luogo, l'Inps prende di mira
l'ipotesi di ripresa anticipata del lavoro.
In tal caso è obbligo del lavoratore
richiedere la rettifica del certificato allo
stesso medico che ha redatto il certificato
con la prognosi più lunga. Poiché in molti
casi tale adempimento non è osservato, con
il rischio tra l'altro della duplicazione
dei pagamenti (sia l'indennità di malattia
Inps che la paga del datore di lavoro),
l'Inps annuncia nuove sanzioni: in caso di
ripresa anticipata del lavoro senza
certificato, saranno applicate le sanzioni
previste per le assenze ingiustificate a
visita di controllo. Si ricorda che tali
assenze comportano l'applicazione di
sanzioni con il conseguente mancato
indennizzo delle giornate di malattia per:
• un massimo di dieci giorni di calendario,
dall'inizio dell'evento, in caso di prima
assenza alla visita di controllo non
giustificata;
• il 50% dell'indennità nel restante periodo
di malattia, in caso di seconda assenza alla
visita di controllo non giustificata;
• il totale dell'indennità, dalla data della
terza assenza alla visita di controllo non
giustificata.
---------------
Il cambio indirizzo va
comunicato subito.
Può capitare la necessità, durante il
periodo di prognosi del certificato, di
dover cambiare il proprio indirizzo di
reperibilità. In tal caso, il cambio va
comunicato tempestivamente e con congruo
anticipo, oltre che al datore di lavoro,
all'Inps. La comunicazione all'Inps, che
serve ai fini anche della visita fiscale,
può avvenire con una delle seguenti modalità
(messaggio n. 1290/2013):
• inviando un'e-mail alla casella
medicolegale.nomesede@inps.it;
• inviando specifica comunicazione al numero
di fax indicato dalla struttura
territoriale;
• contattando il contact center al numero
verde 803.164
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
APPALTI: I
tecnici diplomati resteranno al lavoro.
I tecnici diplomati dei piccoli comuni
potranno proseguire la loro attività
nell'ambito dei lavori pubblici.
È quanto prevede il decreto correttivo al
codice appalti (dlgs n.56/2017) pubblicato
sulla Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio
scorso.
Il provvedimento, entrato in vigore
il 20 maggio, pone infatti un rimedio
all'evidente discrasia che si era venuta a
creare nell'ordinamento degli enti locali
con il primo testo del Codice appalti (dlgs
50/2016) che di fatto aveva estromesso dalla
propria posizione i tecnici che erano stati
assunti, ante 1993, con la richiesta del
solo titolo di studio di diploma di
geometra.
Per l'Anpci si tratta
dell'ennesimo battaglia vinta.
L'Associazione, fin dall'approvazione del
Codice, aveva segnalato i pericoli che una
norma del genere avrebbe potuto creare per
l'ordinaria amministrazione dei mini-enti.
Un grazie va ovviamente al ministro per gli
affari regionali, Enrico Costa, e al suo
staff che si sono subito attivati, con
successo, per accogliere le richieste dei
piccoli comuni
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2017). |
ENTI LOCALI: Videosorvegliati
a pagamento. Il comune deve presentare la
Dia e versare i contributi. Risposta del
ministero a un'interrogazione. Ma si sta
pensando a una forma di esenzione.
Per l'installazione degli impianti di
videosorveglianza i comuni, al pari dei
privati, devono presentare al ministero
dello sviluppo economico l'istanza per
ottenere l'autorizzazione e sono tenuti al
pagamento dei contributi. Tuttavia è allo
studio un'ipotesi di modifica della vigente
disciplina che preveda un regime speciale di
esenzione dal pagamento degli oneri.
Lo ha affermato l'11.05.2017 il
sottosegretario al ministero dello sviluppo
economico (Mise), Antonello Giacomelli,
nella IX commissione trasporti della camera
in risposta all'INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/11327
dell'on. Biasotti.
A inizio marzo le prefetture di Pordenone e
di Sondrio hanno diffuso i pareri del
ministero dello sviluppo economico, secondo
il quale le reti di videosorveglianza
finalizzate sia alla sicurezza che al
monitoraggio del traffico costituiscono, ai
sensi del decreto legislativo n. 259 del
01.08.2003 (Codice delle comunicazioni
elettroniche), un servizio di comunicazione
ad uso privato, soggetto all'autorizzazione
generale, previa dichiarazione di inizio
attività, e al pagamento dei contributi.
Successivamente, l'11.03.2017, la X
commissione del senato, nel corso dell'esame
del disegno di legge di conversione del
decreto legge sulla sicurezza urbana n.
14/2017, ha espresso alla commissione
referente il prescritto parere, invitandola
a evidenziare l'esigenza che i sistemi di
videosorveglianza, installati dalle
amministrazioni locali con le finalità di
ordine e sicurezza pubblica, siano esonerati
dall'obbligo di autorizzazioni, contributi e
canoni di concessione.
E pochi giorni dopo, il 16.03.2017, il
governo ha accolto come raccomandazione
l'ordine del giorno 9/4310-A/23 che lo
impegna a «chiarire la corretta
interpretazione della norma a favore degli
enti locali ed esonerare quest'ultimi da
contributi, oneri e/o canoni di concessione
o autorizzazione se questi sono destinati a
soddisfare esigenze e/o servizi di ordine
e/o sicurezza pubblica e/o urbana e/o a
consentire comunicazioni elettroniche
inerenti servizi di polizia statali o locali
ivi comprese le radiocomunicazioni».
Ciò nonostante, l'11.05.2017, in risposta
all'interrogazione parlamentare n. 5-11327,
il sottosegretario del ministero dello
sviluppo economico ha ribadito che nel caso
di collegamento via cavo chiunque (anche i
comuni) installi o metta in esercizio una
rete di comunicazione elettronica su
supporto fisico a uso privato per collegare
apparati di qualsiasi tipo attraversando il
suolo pubblico deve chiedere
un'autorizzazione al M, ai sensi dell'art.
104, c. 1, lett. b), del codice delle
comunicazioni elettroniche. E per conseguire
l'autorizzazione deve essere presentata, ai
sensi dell'art. 107, cc. 5 e 6, una
dichiarazione di inizio attività e versare i
contributi.
Secondo il sottosegretario del Mise, per
queste due prescrizioni (la presentazione
della Dia e il versamento dei contributi)
non è prevista alcuna forma di esonero.
In merito a queste precisazioni del
sottosegretario, occorre però osservare come
le disposizioni di legge richiamate stridano
con le misure di sicurezza previste dal
decreto legge n. 14/2017, convertito con
modificazioni dalla legge n. 48/2017, che
intende favorire, anche con incentivi
economici, un potenziamento dei sistemi di
videosorveglianza per la prevenzione e il
contrasto dei fenomeni di criminalità.
Peraltro, lo stesso sottosegretario del Mise
ha affermato che, ai fini dell'introduzione
di un'espressa esenzione dei comuni dal
pagamento dei contributi, è allo studio una
modifica della normativa vigente, della
quale si stanno verificando gli aspetti
tecnici e di copertura finanziaria
(articolo ItaliaOggi del
18.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Anche
per l’agibilità basta la dichiarazione del
tecnico. Moduli unici adeguati al nuovo
regime abilitativo.
Semplificazione. Addio al certificato che
prova igiene e salubrità degli immobili.
Con l’intesa tra Stato, Regioni ed enti
locali, raggiunta nella conferenza unificata
dello scorso 4 maggio sulla modulistica
“unica” e standardizzata per le attività
edilizie, va in archivio il certificato di
agibilità e al suo posto arriva la
segnalazione certificata per l’agibilità.
Finora era necessario aspettare il rilascio
da parte del Comune di un attestato sulla
sussistenza delle condizioni di sicurezza,
igiene, salubrità, risparmio energetico
degli edifici e degli impianti, previste
dalle normative in vigore per i diversi
settori, e sulla conformità dei lavori
eseguiti al progetto presentato agli uffici
tecnici. D’ora in avanti tutto questo sarà
oggetto di un’autodichiarazione di un
professionista, che in tutti gli 8mila
Comuni d’Italia dovrebbe essere compilata
utilizzando lo stesso modulo e fornendo le
stesse informazioni.
È uno dei risultati dell’applicazione delle
disposizioni contenute nel Dlgs 222/2016
(noto come decreto “Scia 2”), emanato in
base alla legge 124/2014 sulla
riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche, finalizzata all’accelerazione e
semplificazione delle procedure burocratiche
e di quelle per l’erogazione dei servizi
pubblici.
Per l’edilizia, lo snellimento dei regimi
amministrativi introdotti dal quel decreto
legislativo (e dal Dlgs 126/2016, cosiddetto
“Scia 1”) ha modificato alcune norme del Dpr
380/2001 (il Testo unico dell’edilizia),
relative sia all’individuazione dei regimi
abilitativi alla realizzazione degli
interventi edilizi, sia all’agibilità degli
edifici.
L’agibilità
È stato abrogato l’articolo 25 del Testo
unico e riscritto il 24, in cui sono state
tra l’altro trasferite alcune disposizioni
contenute nell’articolo cancellato.
La segnalazione certificata di agibilità
continua ad essere necessaria per le nuove
costruzioni, per gli interventi di
ricostruzione e sopraelevazione, totale o
parziale, e per la realizzazione di
interventi sugli edifici esistenti che
possono influire sulle condizioni di
sicurezza, salubrità e su tutti gli altri
aspetti relativi all’agibilità.
La segnalazione può riguardare anche
l’agibilità parziale di edifici singoli, o
parti di una costruzione funzionalmente
autonome o singole unità immobiliari, purché
ricorrano le condizioni per i singoli casi
specificate nel comma 4 dell’articolo 24 del
Dpr 380/2001.
Il termine per la presentazione è lo stesso
entro il quale in precedenza occorreva
presentare la richiesta del certificato: 15
giorni dall’ultimazione dei lavori di
finitura dell’intervento. Sgarrare può
costare una multa da 77 a 464 euro.
La segnalazione deve essere presentata dal
soggetto al quale è stato rilasciato il
permesso di costruire o che ha presentato la
Scia, che può essere sia una società sia una
persona fisica.
In ogni caso serve sempre l’aiuto di un
professionista. Bisogna rivolgersi
all’ingegnere, al geometra o all’architetto
che ha diretto i lavori, o che viene
appositamente incaricato, per
l’asseverazione della sussistenza delle
condizioni di agibilità dell’immobile.
Alla segnalazione devono essere, inoltre,
allegati il certificato di collaudo statico
(che, per i piccoli interventi, può essere
sostituito da una dichiarazione di regolare
esecuzione dei lavori) e una dichiarazione
di conformità delle opere realizzate alla
normativa sull’accessibilità e il
superamento delle barriere architettoniche.
Serve anche una dichiarazione dell’impresa
che ha installato gli impianti, attestante
il rispetto dei requisiti di sicurezza,
igiene, salubrità e risparmio energetico
previsti dalle normative di settore .
Non è però più necessario allegare la
richiesta di accatastamento dell’edificio,
ma è sufficiente indicare gli estremi
dell’avvenuta dichiarazione di aggiornamento
catastale.
Gli altri modelli
Sempre in attuazione del decreto legislativo
222/2016, con l’intesa del 4 maggio sono
stati approvati anche i
moduli unificati e
standardizzati per la presentazione della
segnalazione certificata di inizio attività
(anche in alternativa al permesso di
costruzione) della comunicazione di inizio
dei lavori asseverata e della comunicazione
di inizio lavori per le opere necessarie a
soddisfare esigenze temporanee.
Per la Scia si tratta di un aggiornamento
della modulistica già licenziata nel 2014,
quando fu approvato un modulo unico anche
per la richiesta del permesso di costruire.
I nuovi moduli, per ogni titolo abilitativo,
contengono anche il riferimento alle
attività descritte, e numerate
progressivamente,nel Dlgs 222/2016, per le
quali è consentito l’utilizzo.
I tempi
Ora la palla passa alle Regioni, che hanno
tempo fino al prossimo 20 giugno per
decidere se mantenere la modulistica così
come è, oppure se fare qualche
aggiustamento. In ogni caso, entro il 30
giugno i Comuni devono adeguare la
modulistica attuale ai nuovi schemi
(articolo Il Sole 24
Ore del 15.05.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
APPALTI SERVIZI: Applicazione
semplificata per gli appalti sanitari e
sociali. Contratti pubblici. Gli effetti del
decreto correttivo del Codice.
Le amministrazioni pubbliche possono
affidare appalti per alcune tipologie di
servizi sanitari e sociali con regole
semplificate per il percorso selettivo.
Il decreto correttivo del Codice dei
contratti pubblici ha definito un regime
particolare per l’aggiudicazione di appalti
che hanno a oggetto un ampio novero di
servizi alla persona, inserendo
nell’articolo 142 del decreto legislativo
50/2016 una disciplina specifica,
applicabile anche ai servizi di ristorazione
collettiva.
Le nuove disposizioni individuano anzitutto
l’ambito applicativo oggettivo del
particolare regime di affidamento, che
riguarda solo il novero dei servizi sanitari
e sociali (comma 5-bis) e che viene a essere
esteso, per quanto compatibile, anche ai
servizi di ristorazione collettiva,
dovendolo pertanto integrare con le
specifiche norme per essi stabilite
dall’articolo 144.
La classificazione dei servizi riporta le
definizioni del sistema di codificazione
comunitaria (il cpv), che non hanno un
livello di dettaglio comparabile a quello
del nomenclatore nazionale: è quindi
necessario che le stazioni appaltanti
inquadrino le loro attività da appaltare in
tali settori facendo particolare attenzione,
soprattutto per i servizi socio-educativi.
L’affidamento in regime particolare dei
servizi sanitari e sociali deve perseguire
specifici obiettivi in termini di garanzia
della qualità, continuità, accessibilità,
disponibilità e completezza dei servizi
stessi, nonché di attenzione per le esigenze
specifiche delle diverse categorie di utenti
e di promozione del coinvolgimento degli
utenti.
Le nuove norme prevedono che le
amministrazioni tengano conto della
legislazione settoriale (quindi del sistema
dei piani di zona definito dalla legge
328/2000 e dalle leggi regionali attuative)
sia in relazione alla programmazione dei
servizi e sia con riguardo alla gestione
mediante moduli aggregativi degli appalti
per tali servizi (ammettendo anche soluzioni
particolari definite da alcune leggi
regionali, come le gare gestite da Comuni
capofila per ciascun ambito).
L’affidamento con regime particolare dei
servizi sanitari e sociali deve avvenire con
le procedure previste dal decreto
legislativo 50/2016, dovendosi considerare
in questo novero sia quelle a maggior
evidenza pubblica (aperte e ristrette), sia
quelle negoziate (con riferimento alle
fattispecie specifiche previste
dall’articolo 63 e alle procedure
semplificate per il sottosoglia regolate
dall’articolo 36), nonché procedure
particolari come il partenariato per
l’innovazione (regolato dall’articolo 65),
che ha molti punti di contatto con la
co-progettazione.
Le procedure di aggiudicazione (salvo le
possibili deroghe sottosoglia) devono essere
attivate mediante bandi di gara e sviluppate
con l’applicazione di un numero di norme più
limitato rispetto al complesso della parte
II del codice dei contratti, nel quale sono
comprese quelle sulle specifiche tecniche,
sulle tempistiche per la gara, sui requisiti
di ordine generale e di capacità, nonché sui
criteri di aggiudicazione, con obbligo di
utilizzo del criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Tra le norme derogabili in tali appalti
risultano quindi disposizioni rilevanti,
come quelle inerenti l’applicazione dei
criteri ambientali minimi, la composizione e
il funzionamento della commissione
giudicatrice, l’avvalimento e le garanzie
(articolo Il Sole 24
Ore del 15.05.2017). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti,
beni e servizi più verdi. Obbligo di
acquistare ecoprodotti al 100%. Con deroghe.
Il decreto legislativo correttivo n. 56/2017,
in vigore dal 20 maggio, riformula le norme.
Pubblica amministrazione obbligata a
soddisfare il 100% del proprio fabbisogno
con eco-prodotti, ma con ampia facoltà di
agire in deroga per l'acquisizione di beni e
servizi di particolari tipologie o valore.
Queste le principali novità di diretto
interesse ambientale introdotte nel dlgs
50/2016 dal dlgs 56/2017, l'atteso decreto
recante «disposizioni integrative e
correttive» al neo Codice appalti.
Criteri di sostenibilità ambientale.
Il
Correttivo (G.U. dello scorso 5 maggio, in
vigore dal successivo giorno 20)
irrobustisce, salvo mirate eccezioni,
l'obbligo per le stazioni appaltanti di
contribuire al conseguimento degli obiettivi
del «Piano d'azione per la sostenibilità
ambientale dei consumi nel settore della
pubblica amministrazione» («Gpp», ex lege
296/2006) acquisendo beni e servizi che
rispondono a determinati standard
ambientali.
Con la modifica dell'art. 34 del dlgs
50/2016 viene imposto in linea generale alle
pubbliche amministrazioni che intendono
acquisire categorie di prodotti oggetto di
specifici «Cam» (i «criteri ambientali
minimi» stabiliti dal minambiente) di
soddisfare il 100% del proprio fabbisogno
con beni e servizi a tali eco-criteri
rispondenti.
L'obbligo di fondare gli appalti sui citati
eco-criteri viene infatti esteso all'intero
valore a base d'asta per gli affidamenti di
qualunque importo relativi a categorie di
forniture e di affidamenti di servizi e
lavori oggetto di «Cam»; e questo laddove il
pregresso quadro normativo (salvo eccezioni)
lo fissava nel 50%. Ad avviso dello
scrivente tale intervento legislativo appare
produrre l'abrogazione tacita del dm 24.05.2016, il regolamento che stabiliva un
incremento progressivo delle percentuali «Cam»
per alcune forniture (tra cui servizi di
pulizia, gestione di verde pubblico e
rifiuti urbani) portandole al 100% solo dal
01.01.2020.
Alla regola del 100% il Correttivo pone
tuttavia un'eccezione per alcune attività
edili, stabilendo che nell'ambito degli
appalti relativi a interventi di
ristrutturazione (inclusi demolizione e
ricostruzione) i citati e relativi Cam sono
(solo) «tenuti in considerazione, per quanto
possibile» in funzione della tipologia di
intervento e della localizzazione delle
opere da realizzare, sulla base di adeguati
criteri dettati dal ministero dell'ambiente
( )».
È ragionevole ritenere che tramite il
previsto atto del dicastero arriveranno le
deroghe all'applicazione degli attuali
criteri ambientali minimi relativi (appunto)
ai «servizi di progettazione e lavori per la
nuova costruzione, ristrutturazione e
manutenzione di edifici per la gestione dei
cantieri della pubblica amministrazione»
dettati dal dm Ambiente 24.12.2015 e
recentemente rivisitati dal dm 11.01.2017.
Garanzie per partecipazione a procedure.
Un'ulteriore spinta green arriva sul fronte
degli sconti sulle garanzie economiche
concessi alle aziende eco-certificate. Il dlgs correttivo allarga infatti la
cumulabilità delle decurtazioni sugli
importi delle garanzie finanziarie dovuti
per la partecipazione alle gare previsti dal
Codice appalti da parte di chi è in possesso
di attestazioni di qualità. Così, gli
operatori economici che adotteranno azioni
certificate di contrasto ai cambiamenti
climatici potranno sommare la relativa
riduzione del 15% a quelle previste, tra le
altre, per il possesso di sistemi di
eco-gestione Emas e Iso, marchi di qualità
ecologica di beni e servizi.
Criteri di aggiudicazione appalti.
Pur
mantenendo, in ossequio alla normativa Ue,
quale criterio principe quello dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (fondato su
un paragone tra costi e benefici, in base
anche a parametri ambientali) il Correttivo
allarga le ipotesi residuali nelle quali la
pubblica amministrazione può ricorrere al
puro criterio del «minor prezzo».
L'utilizzabilità del criterio residuale del
«minor prezzo», sarà infatti: consentita per
lavori di importo pari o superiore a 2
milioni di euro (in luogo dell'originario
milione), purché l'affidamento dei lavori
avvenga (tra le altre) ricorrendo a
procedure ordinarie e sulla base del
progetto esecutivo; comunque limitata a
servizi e forniture di importo fino a 40
mila euro, ma con la possibilità di
spingerla fino alle soglie di rilevanza
comunitaria (ex articolo 35) per lavori
caratterizzati da elevata ripetitività, a
eccezione di quelli tecnologici o
innovativi.
Upgrade anche per il criterio principe
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
laddove il suo utilizzo diventerà
obbligatorio per i servizi di
ingegneria/architettura e altri di natura
tecnica e intellettuale non solo superiori
ma anche solo «pari» a 40 mila euro.
Connesso ai criteri di aggiudicazione è il
nuovo obbligo per le aziende offerenti di
dare autonoma evidenza agli oneri aziendali
in materia di sicurezza e salute nei luoghi
di lavoro (a esclusione delle forniture
senza posa in opera, dei servizi di natura
intellettuale e degli affidamenti diretti
per contratti sotto soglia comunitaria).
La
disposizione, che impone di distinguere tali
oneri dai costi della manodopera, opera in
sinergia con la parallela novella apportata
all'articolo 32 dello stesso dlgs 50/2016 in
base alla quale nei contratti di lavoro e
servizi i costi della sicurezza dovranno
essere scorporati dall'importo
assoggettabile al ribasso d'asta. Altra
novità è quella relativa ai «criteri
premiali» che le p.a. possono indicare nei
bandi per attribuire un maggior punteggio a
determinate offerte, nell'ambito dei quali
esordiscono come «green» quelli della
filiera corta e del chilometro zero dei
prodotti.
Contratti sotto soglia.
Trasversale, negli
effetti, all'intera disciplina degli appalti
pubblici è la possibilità, nell'ambito di
lavori servizi e forniture di importi
inferiori ai 40 mila euro, di poter
ricorrere all'affidamento diretto (ex
articolo 35, in deroga dunque allo strumento
della gara) senza più l'obbligo di
consultare almeno due operatori economici;
ma con l'onere, precisa il dlgs 56/2017, di
rispettare comunque (ove esistenti) i
«criteri ambientali minimi»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
15.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Demolizioni
con giudizio. Prima gli ecomostri e gli
immobili pericolosi. Il ddl la prossima
settimana al voto del senato. Falanga:
nessun condono.
Criteri di priorità certi per l'esecuzione
degli ordini di demolizione delle opere
abusive da parte delle procure, a seguito di
sentenza penale di condanna per reati
edilizi. Si inizierà dagli immobili di
rilevante impatto ambientale o costruiti su
aree demaniali o in zona soggette a vincolo
ambientale, paesaggistico, sismico,
idrogeologico, archeologico o
storico-artistico.
Poi si passerà agli immobili che per
qualunque motivo rappresentano un pericolo
per la pubblica o privata incolumità, anche
nel caso in cui siano abitati o utilizzati.
Infine, agli immobili nella disponibilità di
soggetti condannati per reati di
associazione mafiosa o di soggetti colpiti
da misure prevenzione. Nell'ambito di
ciascuna tipologia, la priorità dovrà essere
attribuita agli immobili in corso di
costruzione o comunque non ancora ultimati
alla data della sentenza di condanna di
primo grado e agli immobili non stabilmente
abitati.
È questo il fulcro del disegno di legge
Falanga -
Atto Senato n. 580-B (che detta i
criteri per l'esecuzione di procedure di
demolizione di manufatti abusivi) che il
Senato approverà in via definitiva la
prossima settimana.
Il testo, già approvato in prima lettura da
palazzo Madama a gennaio 2014, è stato
significativamente modificato dalla camera
il 18.05.2016, «ma con interventi che non ne
hanno alterato lo spirito che è quello di
mettere ordine nella discrezionalità delle
procure», osserva il primo firmatario Ciro
Falanga (Ala). «Ad oggi infatti», spiega
Falanga, «non esiste un criterio di priorità
per i giudici nell'esecuzione delle sentenze
di abbattimento a seguito di condanna e ogni
procuratore si regola a suo modo, alcuni
utilizzando i criteri trasfusi nel ddl,
altri applicando rigidi criteri
cronologici».
Il provvedimento infatti trae origine
proprio dalle esperienze sperimentate in
alcune procure del Sud (Siracusa, Napoli,
Nola, Santa Maria Capua Vetere) dove i
giudici hanno individuato parametri
ulteriori rispetto all'ordine cronologico.
Parametri che però si sono diffusi a macchia
di leopardo determinando una situazione di
disparità di giudizio che non giova alla
certezza del diritto.
Falanga difende l'ordine di priorità
individuato dal ddl e rispedisce al mittente
le critiche di chi parla di un condono
mascherato. È il caso del professor Sandro
Simoncini, docente di urbanistica e
legislazione ambientale all'università La
Sapienza di Roma, particolarmente critico
sulla distinzione tra illecito di natura
speculativa e quello cosiddetto di necessità
e sulla norma che impone che gli edifici
costruiti abusivamente ma abitati vengano
abbattuti solo dopo che si sia provveduto a
demolire quelli in costruzione o comunque
senza residenti.
«Considerando le poche
centinaia di abbattimenti complessivi che
vengono effettuati ogni anno in Italia a
fronte di decine di migliaia di abusi, ciò
significa di fatto assicurare impunità a
quanti hanno costruito una casa in spregio
delle regole e, spesso, anche del buon
senso», ha osservato.
Per Falanga invece è giusto che il giro di
vite sia attuato soprattutto contro i grandi
speculatori edilizi «che spesso hanno
deturpato l'ambiente e il patrimonio
demaniale con veri eco-mostri». «Quanto
invece al presunto favor verso chi abita un
immobile, ancorché abusivo, ma come
abitazione principale», puntualizza il
senatore di Ala, «il ddl non fa altro che
ispirarsi a criteri di buon senso già
sperimentati dalle procure, senza che però
nessuno abbia mai accusato i magistrati di
voler mettere in atto condoni mascherati»
(articolo ItaliaOggi dell'11.05.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Al
lavoro in malattia? Si paga. Sanzioni a chi
rientra in anticipo senza nuovo certificato.
Pugno duro dell'Inps con medici e
lavoratori. L'ingresso in azienda a rischio
sicurezza.
Pugno duro dell'Inps con medici e lavoratori
sui certificati di malattia. I medici che
ignorano la trasmissione online, d'ora in
poi saranno segnalati alle Asl per
l'adozione dei provvedimenti disciplinari
(che arrivano al licenziamento). I
lavoratori che omettano di presentare un
nuovo certificato per il rientro anticipato
al lavoro saranno sanzionati come per le
assenze alle visite di controllo (50/100%
dell'indennità). Alle aziende, infine, solo
un avvertimento. Attenzione a far entrare in
azienda i dipendenti in malattia: si violano
le norme sulla sicurezza lavoro (T.u.).
È quanto si legge, tra l'altro, nella
circolare
02.05.2017 n. 79 emessa ieri dall'Inps.
Certificati di malattia.
Le istruzioni
riguardano i certificati di malattia e, in
particolare, l'ipotesi del rientro
anticipato al lavoro. Il certificato medico,
spiega l'Inps, serve per il diritto a due
tutele: assenza dal lavoro e diritto
all'indennità. Attualmente, i certificati
viaggiano online: i medici, infatti, sono
tenuti a inviarli telematicamente all'Inps e
al datore di lavoro, e solo in ipotesi
residuali (per esempio, mancanza di
internet) possono ancora rilasciarlo su
carta.
Medici denunciati.
Nonostante ciò, l'Inps
segnala non pochi casi d'inadempienza da
parte dei medici curanti, che cioè
rilasciano certificati su carta. Nel
ribadire che l'inosservanza dell'invio
telematico è, oltre che violazione della
normativa, una fattispecie d'illecito
disciplinare per i medici dipendenti da
strutture pubbliche o per quelli
convenzionati, l'Inps invita le sedi a
segnalare alle aziende sanitarie locali (Als)
di competenza le inadempienze riscontrate. E
ricorda che ai sensi dell'art. 55-septies
del dlgs n. 165/2001 l'inosservanza, se
reiterata, comporta a carico del medico il
licenziamento o la decadenza dalla
convenzione.
Guarigione anticipata.
Il certificato
medico, spiega ancora l'Inps, come è
obbligatorio per l'inizio o il prolungamento
di una malattia, è altrettanto obbligatorio
nell'ipotesi di guarigione anticipata. Il
lavoratore, infatti, è tenuto a chiedere la
rettifica del certificato in corso, per
documentare correttamente il periodo
d'incapacità temporanea al lavoro. La
rettifica, a fronte di una guarigione
anticipata, precisa l'Inps, è adempimento
obbligatorio del lavoratore sia nei
confronti dell'Inps (perché viene meno il
diritto all'indennità) e sia nei riguardi
del proprio datore di lavoro (ai fini della
ripresa anticipata del lavoro).
Le nuove sanzioni.
L'obbligo del lavoratore
nei confronti dell'Inps, spiega la
circolare, va osservato prima della ripresa
anticipata dell'attività lavorativa. E va
fatto richiedendo la rettifica del
certificato allo stesso medico che ha
redatto il certificato che riporta la
prognosi più lunga. La novità riguarda poi
le sanzioni: in caso d'inosservanza (cioè in
presenza di ripresa anticipata del lavoro
senza certificato), l'Inps applicherà quelle
previste per le assenze ingiustificate a
visita di controllo (si veda tabella).
Aziende avvertite.
Infine l'Inps dà un
consiglio ai datori di lavoro. In presenza
di certificato con prognosi ancora in corso,
spiega, non è possibile consentire al
lavoratore di riprendere l'attività, senza
violare la normativa sulla salute e
sicurezza dei posti di lavoro. L'art. 2087
del codice civile, infatti, impegna il
datore di lavoro ad adottare tutte le misure
necessarie a tutelare l'integrità fisica dei
prestatori di lavoro, che sono dettagliate
dal dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Pertanto, il dipendente assente per malattia
che, ritenendosi guarito, intenda riprendere
prima il lavoro rispetto alla prognosi del
proprio medico curante, può essere riammesso
in servizio soltanto se produce un
certificato medico di rettifica della
prognosi originariamente indicata
(articolo ItaliaOggi del
03.05.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Diritto
d'accesso sulla carta. Per sette richieste
su 10 rivolte alla p.a. nessuna risposta.
Rapporto sull'attuazione del Foia italiano,
la possibilità di informarsi su dati e
documenti.
Dalla fine del 2016 la pubblica
amministrazione italiana si è trasformata in
un casa di vetro... peccato però che le
finestre abbiamo bisogno di essere pulite
meglio, visto che non sono ancora del tutto
trasparenti. Grazie al Foia italiano (sulla
scia dell'omonimo Freedom of information act
statunitense del 1966) introdotto il 6
giugno dello scorso anno ed entrato
ufficialmente in vigore a fine dicembre, «i
cittadini hanno ora diritto di conoscere
dati e documenti in possesso della pubblica
amministrazione, anche senza un interesse
diretto», spiegava la ministra per la
semplificazione e la pubblica
amministrazione Marianna Madia ormai quasi
un anno fa.
A distanza di quattro mesi dalla nascita
effettiva della nuova norma però, i
risultati non sono incoraggianti: su 800
richieste di accesso alle informazioni, solo
136 sono state le risposte soddisfacenti.
Addirittura, entro i 30 giorni dalla
richiesta, così come prevede il decreto, il
73% delle istanze non hanno proprio ricevuto
risposta. A raccogliere questi dati è stata
l'associazione Diritto di Sapere che li ha
pubblicati nel suo rapporto
sull'applicazione del Foia italiano
intitolato non a caso «Ignoranza di Stato».
I volontari attivi nel monitoraggio si sono
infatti molto spesso scontrati con la scarsa
conoscenza, da parte di alcuni dipendenti
della p.a., del nuovo istituto giuridico.
Eppure, come scrive lo stesso rapporto, «se
applicato meglio e con meno discrezionalità
da parte delle amministrazioni, nei prossimi
anni il Foia potrebbe davvero contribuire a
rendere l'Italia un po' più trasparente».
Che cos'è il Foia e perché per l'Italia è
una conquista. Il Foia sancisce il nuovo
diritto di accesso generalizzato ai dati e
ai documenti delle pubbliche
amministrazioni, riconosciuto a livello
internazionale e collegato alla libertà di
espressione dell'individuo, a prescindere
dal requisito di cittadinanza.
Che si possa accedere e ricevere copia di
tutti i documenti della p.a. è essenziale
per far prendere parte ai cittadini al
processo di formazione dell'opinione
pubblica ed è considerato imprescindibile
anche nella lotta alla corruzione. Ecco
quindi perché dalla fine del 2016, il Foia
italiano ha fatto compiere un balzo storico
all'Italia nella graduatoria internazionale
dell'accesso alle informazioni stilata in
base all'analisi delle leggi sulla
trasparenza di oltre 100 Paesi. Prima
dell'entrata in vigore di questa misura,
l'unico strumento di accesso alle
informazioni era la legge 241 del 1990 (che
per l'esercizio del diritto di accesso
prevedeva alcuni requisiti necessari visto
che, di fondo, era il cittadino a dover
dimostrare la propria legittimazione e
fornire una motivazione) a cui si è aggiunto
poi l'«accesso civico» previsto dal decreto
33 del 2013.
Il 73% delle richieste resta senza risposta,
un rifiuto su tre è illegittimo. Sebbene con
la nuova norma sia stato eliminato il
silenzio amministrativo, le p.a continuano
però troppo spesso a tacere. Come evidenzia
il rapporto di Diritto di Sapere, ben il 73%
delle richieste Foia non ha ricevuto
risposta nei 30 giorni previsti dal decreto
e anche considerando le risposte arrivate in
ritardo, la frazione di pubbliche
amministrazioni che ignora le richieste si
attesta comunque oltre la metà: al 53%.
Il decreto trasparenza definisce poi una
serie di limiti ed eccezioni all'accesso
generalizzato che devono essere gli unici
motivi di diniego per le pubbliche
amministrazioni. Tuttavia, il 35% dei
rifiuti rilevati nel monitoraggio appartiene
alla categoria «dinieghi irregolari» in cui
l'accesso è stato negato per mancanza di
motivazione o utilizzando eccezioni non
previste dal decreto trasparenza.
Secondo il Rapporto, «si tratta di chiari
segnali di allarme che rivelano come la
nuova norma sia ancora poco conosciuta e
rispettata dalla Pubbliche amministrazioni».
Fra le p.a. meno propense a rispondere alle
richieste, pessimi segnali sono arrivati da
ospedali (90% di richieste ignorate), Asl
(70%) e ministeri (60%). Non si salvano
neppure Comuni e Prefetture, che in media
hanno ignorato una richiesta Foia su due. Un
risultato migliore viene invece dalle
regioni e dalle Forze dell'ordine che, pur
essendo poco rappresentative in quanto
oggetto di sole 8 richieste Foia, hanno
risposto nel 75% dei casi
---------------
L'intervista. Riesame o
ricorso al difensore civico in caso di
silenzio.
Per una concreta ed efficace applicazione
della norma sul Foia serve più tempo, ma
monitorare la situazione è sempre
importante. Anzi, è proprio così che emerge
il potenziale di successo di questa norma.
A
dirlo è Ernesto Belisario, avvocato,
specializzato in diritto amministrativo e
scienza dell'amministrazione.
Domanda.
Su 800 richieste inviate da Diritto di
Sapere solo 136 hanno ottenuto risposte
soddisfacenti, come commenta questi
risultati?
Risposta. La norma che introduce il Foia è
entrata in vigore solo poco più di quattro
mesi fa. Sarebbe stato ingenuo non
aspettarsi che una rivoluzione copernicana
come quella dell'accesso avesse bisogno di
tempo per produrre i benefici attesi ed
essere pienamente colta da cittadini e
amministrazioni.
Il profilo critico è quello della sua
concreta applicazione che presuppone un
necessario percorso di adeguamento, anche
organizzativo e culturale, da parte delle
amministrazioni. Un percorso che richiede
tempo: in Inghilterra, tra l'applicazione
del Foia e la sua entrata in vigore sono
passati cinque anni.
D. Il Foia italiano è comunque un traguardo,
perché se applicato bene funziona. Allora
perché questi primi dati, è ancora troppo
presto per un monitoraggio?
R. Innanzitutto, è bene rilevare come i
monitoraggi siano importantissimi: da
questi, infatti, si evince come la norma, se
applicata, funzioni. Questo emerge sia dal
rapporto di organizzazioni della società
civile come «Diritto di Sapere» sia dai
monitoraggi istituzionali. Questi ultimi
denotano un importante cambio di passo.
Della precedente legge sull'accesso (n.
241/1990) non era mai stato effettuato
nessun monitoraggio. Invece, per il Foia, il
Dipartimento della funzione pubblica ne ha
già condotto uno sul primo trimestre di
applicazione della norma (limitato in questa
fase ai soli ministeri) dal quale è emerso
che, su 205 istanze ricevute, la gran parte
è stata riscontrata nel termine di 30 giorni
e con esito positivo.
D. Se la pubblica amministrazione non
risponde, cosa può fare un cittadino per far
valere il proprio diritto all'accesso?
R. Una delle principali novità del diritto
di accesso generalizzato è che sono
disponibili dei rimedi stragiudiziali
gratuiti e veloci. Nei casi in cui le
amministrazioni non rispettino il loro
obbligo di risposta, il richiedente potrà
alternativamente rivolgere istanza di
riesame al responsabile di trasparenza
oppure presentare ricorso al difensore
civico. Nell'ipotesi in cui neanche la
decisione del difensore civico o del
responsabile della trasparenza dovesse
essere soddisfacente, si potrà sempre
rivolgere al Tar.
D. Tra le risposte ricevute dai volontari di
Diritto di Sapere, sono tanti anche i
dinieghi illegittimi, cosa significa?
R. La normativa sull'accesso generalizzato
prevede che l'amministrazione possa
rigettare le istanze solo se ricorre una
delle eccezioni o esclusioni tassativamente
stabilite. La nozione «dinieghi illegittimi»
fa quindi riferimento a ipotesi in cui le
p.a. abbiano rigettato le istanze per
motivazioni diverse da quelle previste dalle
norme. Anche in questo caso, era prevedibile
che l'interpretazione delle esclusioni
dall'accesso avrebbe potuto creare
difficoltà in sede di prima applicazione.
Per questo motivo, l'Autorità nazionale
anticorruzione ha adottato delle linee guida
rendere omogenea l'applicazione delle
esclusioni e dei limiti all'accesso
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'01.05.2017). |
ENTI LOCALI -
EDILIZIA PRIVATA:
Spettacoli all’aperto fino a 200
spettatori, basta la Scia e la dichiarazione
di un tecnico per la sicurezza.
Erano attesi all'indomani del Decreto «Scia
2» e sono arrivati puntuali i chiarimenti
del ministero dell'Interno su un'attività
che, specie nell'imminente periodo estivo,
fiorisce sensibilmente. Parliamo dei
pubblici spettacoli e intrattenimenti su
aree all'aperto (in particolar modo se
pubbliche) e/o a servizio di pubblici
esercizi di somministrazione di alimenti
bevande (bar e ristoranti) che, appunto,
nella bella stagione vengono organizzati per
incrementare l'offerta e intercettare i
consumi di avventori e turisti.
In molti casi, però, rivelandosi vere e
proprie discoteche o sale da ballo
all'aperto, con inevitabili problemi di
convivenza con i residenti o, più
semplicemente, di gestione del decoro e
della sicurezza pubblica. Tematica peraltro
interessata dalla recentissima legge di
conversione del decreto Minniti, la n. 48
del 18 aprile entrata in vigore lo scorso 22
aprile, che aumenta i poteri dei sindaci a
tutela dei propri territori.
Il Viminale ha diffuso in questi giorni una
nota (MiSE,
risoluzione
06.04.2017 n. 133759 di prot.),
rispondendo ad analoga istanza di
chiarimenti del ministero dello Sviluppo
economico, con cui ha chiarito i termini di
svolgimento di spettacoli e trattenimenti
presso locali e strutture o in aree
all'aperto, con capienza fino a 200 persone,
che utilizzino impianti soggetti a
certificazione di sicurezza (per esempio,
palchi, americane, carichi sospesi, tribune
eccetera) alla luce delle novità contenute
nel Decreto Scia 2, e cioè il Dlgs 222/2016,
che nella allegata tabella “A” elenca le
diverse autorizzazioni occorrenti per
ciascuna attività.
Basta la Scia ex articolo
68 del Tulps e non l'espressa autorizzazione
comunale fino a 200 spettatori
Il ministero dell'Interno, dopo aver ammesso
che il testo della novella legislativa non
brilla per chiarezza, asserisce il principio
per il quale l'autorizzazione che il Comune
deve rilasciare previa corrispondente
richiesta di parte, ai sensi degli articoli
68 o 69 del Tulps, per lo svolgimento di
eventi fino a 200 persone e che si
concludono entro le ore 24,00 del giorno di
inizio (dunque nel giro di poche ore) può
essere tranquillamente sostituita dalla
Scia, così come previsto dalle modifiche al
Tulps apportate dalla legge 112/2013.
Si tratta dunque di un difettoso
coordinamento del Decerto Scia 2 con la
pregressa normativa, che appunto già da
quattro anni aveva snellito i procedimenti
amministrativi autorizzativi nella materia.
Diversamente sarebbero tradite e
risulterebbero incomprensibili le finalità
di semplificazione per le quali è stato
approvato il Dlgs 222/2016.
Non è più obbligatorio
convocare preventivamente la commissione
comunale di vigilanza fino a 200 persone
Il Viminale interviene poi sul punto più
controverso della questione e cioè la
necessità o meno per il Comune -nel caso di
spettacoli con utilizzo di impianti soggetti
a certificazione di sicurezza- prima di
accogliere la Scia sostitutiva
dell'autorizzazione ex articolo 68 del Tulps
per la manifestazione, di convocare la
commissione comunale di vigilanza sui locali
di pubblico spettacolo incaricata di rendere
il preliminare parere di agibilità sulla
struttura e gli impianti ai sensi
dell'articolo 80 del Tulps.
In base al testo del Decreto Scia 2, risulta
evidente una contraddizione fra l'articolo
4, lettera c), che per eventi spettacolari
fino a 200 persone ritiene sufficiente una
relazione asseverata tecnica di un
professionista abilitato al posto del
parere, delle verifiche e degli accertamenti
sinora di competenza della commissione, e la
tabella “A” allegata allo stesso Decreto che
alle righe 78, 80, 81, invece, prevede
ancora l'obbligo per il Suap di trasmettere
la suddetta relazione alla commissione per
le verifiche. In sostanza: la Commissione va
convocata o no oggi, anche in presenza di
una relazione asseverata presentata da un
tecnico che attesti le condizioni di
sicurezza prima oggetto di parere e
sopralluogo della Commissione stessa?
Il ministero dice di no. In altre parole,
per pubblici spettacoli e intrattenimenti
fino a 200 persone, che utilizzino strutture
e impianti soggetti a certificazione di
sicurezza, è sufficiente che l'organizzatore
presenti al Suap la relazione asseverata del
tecnico abilitato che attesti le condizioni
di sicurezza e incolumità dell'evento, senza
che il Suap stesso convochi preliminarmente
la commissione per l'espressione del parere
di agibilità ex articolo 80 del Tulps.
Piuttosto il Suap, ricevuta e verificata la
completezza della relazione e della
documentazione del tecnico, sulla base di
questa rilascerà l'autorizzazione “reale” di
agibilità della struttura e l'autorizzazione
“personale” per lo svolgimento dell'attività
senza convocare preventivamente la
Commissione, alla quale tuttavia invierà
successivamente le autorizzazioni rilasciate
esclusivamente ai fini del controllo ex
post sul rispetto delle prescrizioni di
sicurezza. La disciplina vale non solo per
gli impianti stabili ma anche per quelli
occasionali, come per esempio concerti e
manifestazioni musicali all'aperto (anche
organizzate da bar e ristoranti) e circhi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
28.04.2017). |
ENTI LOCALI:
Telecamere in comune con la
convenzione
I comuni che vogliono condividere
le immagini degli impianti di
videosorveglianza urbana dei territori
limitrofi devono perlomeno convenzionarsi
tra di loro. Diversamente ciascun servizio
di polizia locale dovrà accontentarsi di
visionare solo i propri impianti.
Lo ha chiarito la Prefettura di Parma con la
circolare 24.03.2017 n. 11334 di prot..
Nella riorganizzazione complessiva degli
enti locali sono frequenti i matrimoni e i
successivi divorzi tra piccoli comuni. Come
nel caso dell'Unione dei comuni delle terre
Verdiane dove, fin tanto che era presente
una organizzazione amministrativa superiore,
non esisteva nessun problema per condividere
la disponibilità degli impianti tra enti.
Alla cessazione dall'Unione sono iniziati i
primi guai anche in relazione all'impiego
delle telecamere di sorveglianza municipale.
Specifica infatti la prefettura che dalle
linee guida in materia di videosorveglianza
urbana emerge il limite territoriale di
ciascun ente per l'accesso alle immagini
delle telecamere, «salvo che il servizio di
polizia municipale non sia inquadrato nel
contesto dell'unione dei comuni ovvero
condiviso attraverso specifica convenzione»
(articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Agli
statali si applica l'art. 18. Parere Cds.
Obbligo di reintegra per il dipendente
pubblico licenziato ingiustamente. Per gli
statali infatti il semplice indennizzo
economico non basta a tutelare «gli
interessi collettivi lesi da atti
illegittimi di rimozione». L'art. 18 dello
Statuto dei lavoratori continua, dunque, ad
applicarsi al pubblico impiego nel testo
originario, quello della legge 300/1970, e
non in quello riformulato dalla legge
Fornero (n. 92/2012).
A questa conclusione, già fatta propria
dalla Corte di Cassazione (seppur dopo
contrasti e oscillazioni giurisprudenziali)
con
con
la
sentenza 09.06.2016 n. 11868
e recepita dal governo nel dlgs di riforma
del pubblico impiego attuativo della delega
Madia (Atto
del Governo n. 393 - Schema di
decreto legislativo recante modifiche e
integrazioni al testo unico del pubblico
impiego, di cui al decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 ), approda anche il
Consiglio di stato che mette di fatto la
parola fine alla querelle.
Nel
parere 21.04.2016 n. 916 (Richiesta
di parere sullo schema di decreto
legislativo recante “Modifiche ed
integrazioni al Testo unico del pubblico
impiego, di cui al decreto legislativo
30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli
16, commi 1, lett. a), e 2, lett. b),c), d)
ed e) e 17, comma 1, lett. a), c), e), f),
g) h), l) m), n), o), q), s), e z), della
legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche"), diffuso ieri, palazzo Spada
condivide l'operato del governo. E
soprattutto la decisione di inserire nello
schema di dlgs una norma ad hoc (art.
21) per chiarire che i dipendenti pubblici
godono nei confronti dei licenziamenti
illegittimi di una «tutela reale»
(obbligo di reintegra e indennizzo non
superiore a 24 mensilità), ossia quella
cristallizzata dall'articolo 18 nella sua
versione ante legge Fornero. L'obiettivo,
osserva palazzo Spada, è chiaro ed è stato
espresso dal governo anche in sede
parlamentare: «Escludere l'applicazione
delle regole del lavoro privato a quello
pubblico per quanto attiene alla disciplina
del licenziamento».
La diversità di trattamento, secondo i
giudici, è da ricercarsi nelle parole della
Consulta che in una sentenza del 2008 (n.
351) si era così espressa: «A differenza
di quanto accade nel settore privato, nel
quale il potere di licenziamento del datore
di lavoro è limitato allo scopo di tutelare
il dipendente, nel settore pubblico il
potere dell'amministrazione di esonerare un
dirigente o un dipendente dall'incarico e di
risolvere il relativo rapporto di lavoro è
circondato da garanzie e limiti che sono
posti non solo e non tanto nell'interesse
del soggetto da rimuovere, ma anche e
soprattutto a protezione di più generali
interessi collettivi»
(articolo ItaliaOggi
del 22.04.2017). |
APPALTI: Appalti, nomine Rup nel caos.
Competenza dirigenziale o politica?
Pasticcio nel correttivo.
Il dlgs, revisionando il contenuto del
Codice, complica la vita alle stazioni
appaltanti.
Sovrapposizioni di competenze per attribuire
l'incarico di responsabile unico del
procedimento. Il correttivo al codice dei
contratti non fa un bel regalo alle
amministrazioni appaltanti, revisionando in
parte il contenuto dell'articolo 31 del dlgs
50/2016.
Il nuovo testo prevede che «per
ogni singola procedura per l'affidamento di
un appalto o di una concessione, le stazioni
appaltanti individuano nell'atto di adozione
o di aggiornamento dei programmi di cui
all'articolo 21, comma 1, ovvero nell'atto
di avvio relativo a ogni singolo intervento,
per le esigenze non incluse in
programmazione, un responsabile unico del
procedimento». Il testo precedente, invece,
disponeva che la nomina avvenisse «nel primo
atto relativo a ogni singolo intervento».
La
riforma apre una serie di equivoci operativi
di difficile soluzione. Prevedere, infatti,
che le stazioni appaltanti «individuino» il Rup nell'atto di adozione o aggiornamento
della programmazione triennale (per lavori)
o biennale (per forniture o servizi) ha una
conseguenza rilevante sul piano della
competenza a provvedere: l'individuazione
del Rup non può che spettare all'organo
competente ad approvare appunto la
programmazione. Che coincide con l'organo di
governo; negli enti locali è addirittura il
consiglio comunale.
Il correttivo pone in
essere una forte incoerenza con la
disciplina sia della legge 241/1990 sia del
lavoro pubblico. Il responsabile del
procedimento, ai sensi della legge sul
procedimento amministrativo, è nominato dal
dirigente o comunque dal soggetto preposto
alla direzione della struttura
amministrativa e l'atto relativo è da
considerare tipica espressione del potere
organizzativo del datore di lavoro, che
spetta in via esclusiva appunto ai vertici
delle strutture tecniche e non agli organi
di governo. Si potrebbe pensare, dunque, che
il correttivo introduca una specifica deroga
ai principi di divisione delle competenze e
funzioni tra politica e gestione.
Tuttavia,
la riscrittura dell'articolo 31, comma 1,
del codice dei contratti non coordina la
previsione vista sopra con quanto disposto
poco oltre, ove si stabilisce che «il Rup è
nominato con atto formale del soggetto
responsabile dell'unità organizzativa».
Disposizione, questa, coerente con le regole
della legge sul procedimento amministrativo
e con il dlgs 165/2001, ma che aggrava il
problema operativo di individuare, allora,
quale sia l'organo competente alla nomina.
Si potrebbe ritenere che la modifica del
testo assegni all'organo il potere di
«individuare» il Rup nella programmazione,
limitandosi a dare un'indicazione al
dirigente o responsabile di servizio.
Tale
individuazione, quindi, non sarebbe
sufficiente per incardinare il Rup e rendere
efficace l'incarico: allo scopo occorrerebbe
comunque il provvedimento dirigenziale di
nomina. Pertanto, la nomina potrebbe essere
inquadrata come una fattispecie a formazione
progressiva, con una prima indicazione del
Rup a cura dell'organo di governo e la
successiva assegnazione effettiva
dell'incarico quale espressione del potere
dirigenziale.
Simile ricostruzione non
appare, però, coerente con il principio di
separazione delle funzioni di indirizzo
politico da quelle gestionali, perché di
fatto l'individuazione condizionerebbe fin
troppo il provvedimento di nomina, ridotto a
mera formalizzazione di una decisione
adottata dall'organo politico. Tuttavia,
sempre il decreto correttivo inserisce nel
comma 1 dell'articolo 31 del codice la
previsione secondo la quale «la sostituzione
del Rup individuato nella programmazione di
cui all'articolo 21, comma 1, non comporta
modifiche alla stessa».
Questa indicazione
potrebbe essere utile per chiudere il
cerchio: essa svela che il dirigente o
responsabile di servizio può comunque
modificare la designazione inizialmente
fissata dall'organo di governo e, dunque,
nominare un Rup diverso da quello
individuato. Sicché, i principi di
separazione e le regole generali viste sopra
sarebbero comunque rispettate. Questa
conclusione appare la più corretta, ma se
così è ci si deve chiedere perché, allora,
riformare il testo dell'articolo 31, comma
1, del codice, complicandolo nella forma, ma
mantenendolo di fatto inalterato nella
sostanza
(articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017). |
INCARICHI PROGETTUALI: Appalti,
tariffe obbligate. P.a. sempre tenute a rispettare i minimi.
PROFESSIONI/ Le categorie tecniche sull'impatto del decreto
correttivo
Reintroduzione dei minimi tariffari per calcolare i compensi
dei professionisti. In tal modo le stazioni appaltanti, nel
calcolo degli importi a base delle gare di progettazione,
dovranno utilizzare le tabelle previste dal Decreto
parametri che diventeranno quindi un obbligo e non una
facoltà come adesso.
Lo prevede il decreto correttivo del Codice dei contratti
pubblici
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), 131 articoli che sostituiscono i 220 del dlgs
50/2016, approvato in via definitiva il 13 aprile scorso dal
consiglio dei ministri e ora in attesa di pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale (si veda ItaliaOggi di ieri).
«Tra le richieste che la Rete delle professioni tecniche ha
trasmesso al Governo», dichiara Francesco Peduto, presidente
del Consiglio nazionale dei geologi, «questa è certamente la
più importante. Un eccellente lavoro di squadra che ha
portato i suoi frutti, un impegno intenso e di grande
incisività, a difesa della dignità professionale e della
qualificazione della prestazione intellettuale, in cui i
geologi hanno svolto un ruolo di grande importanza».
«È
sicuramente da apprezzare la modifica dell'art. 24, comma 8,
del Codice, grazie alla quale le stazioni appaltanti, per
calcolare l'importo dei corrispettivi da porre a base di
gara negli affidamenti di servizi di architettura e
ingegneria, dovranno fare ricorso al cosiddetto Decreto
parametri e non potranno pertanto continuare a sottostimare
tali importi mortificando la qualità delle prestazioni
professionali e i più elementari principi della
trasparenza», fa eco il vicepresidente del Consiglio
nazionale degli architetti, Rino La Mendola.
«A questo
proposito», aggiunge, «va ricordato che le procedure per
l'affidamento variano con il variare dell'importo posto a
base di gara, per cui le stazioni appaltanti, senza alcuna
regola chiara, rischiavano costantemente di sottostimare
tale importo, ricorrendo a procedure di affidamento errate».
Le immediate ricadute del correttivo sono gare più veloci e
maggiore impulso ai piccoli cantieri, sottolineano poi i
geologi, affermando che il testo «al tempo stesso introduce
maggiori garanzie di trasparenza e imparzialità
nell'assegnazione degli appalti, con l'obbligatorietà, da
parte della stazione appaltante, di nomina del presidente di
commissione tra esperti segnalati dall'Autorità
Anticorruzione. La modifica dell'art. 24, comma 8, del dlgs
50/2016», prosegue il presidente Peduto, «costituisce un
importante correttivo a una normativa che fino ad oggi ha
mostrato diverse criticità, quali procedure in palese
contrasto con i principi di trasparenza, e sottostima del
giusto compenso per prestatori di opera intellettuale. Un
successo da condividere tra tutti i professionisti
costituenti la Rete delle professioni tecniche che
continuerà ad operare a favore del territorio e
dell'economia del Paese»
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Marche
da bollo digitali. Parte il servizio
entrate-agid.
Inizia l'era digitale per la marca da bollo da apporre sui
documenti rilasciati dalle pubbliche amministrazioni. I
cittadini potranno pagarla direttamente online attraverso i
metodi di pagamento del sistema PagoPa, con addebito in
conto, carta di credito o prepagata.
L'annuncio in una
nota pubblicata ieri dall'Agenzia delle
entrate, che comunica l'operatività del servizio @e.bollo,
elaborato dalle Entrate stesse e dall'Agenzia per l'Italia
digitale (AgId). Il servizio permette di versare l'imposta
di bollo con modalità telematiche sulle richieste trasmesse
alle Pubbliche Amministrazioni.
I tempi tecnici.
Da ieri è partita la sperimentazione del servizio in alcuni
comuni lombardi (Legnano, Monza, Pavia, Rho e Voghera) e
veneti (Treviso e Vicenza). Successivamente il servizio
verrà ampliato ai 750 comuni accreditati al servizio PagoPa,
per poi riguardare progressivamente altre amministrazioni.
La prima marca da bollo online è stata acquistata il 12
aprile a Rovigo da un'impresa del settore agroalimentare,
che ha usufruito del servizio in anticipo, agendo come
utente pilota La marca era applicata a un istanza inviata
dall'impresa allo sportello Unico per le attività produttive
del comune di Treviso.
Come acquistarla.
Per acquistare la marca da bollo digitale, i cittadini
potranno scegliere il Prestatore di Servizi di Pagamento (Psp)
tra coloro che hanno aderito al sistema e hanno stipulato
un'apposita convenzione con l'Agenzia delle entrate.
L'elenco dei Psp è disponibile sul sito dell'Agenzia.
Successivamente, saranno attivate anche le procedure di
pagamento della marca da bollo digitale direttamente presso
gli intermediari abilitati, per le richieste e per i
relativi atti scambiati via posta elettronica tra cittadini
e amministrazioni.
I commenti.
Il primo intermediario abilitato a utilizzare @e.bollo è
l'Istituto di pagamento di Infocamere (www.icontocamere.it)
tramite cui, con addebito diretto per i titolari di conto
corrente dell'istituto di Infocamere, (e a seguire anche con
carta di credito per i non correntisti), è possibile
acquistare velocemente, con pochi click, la marca da bollo
digitale.
Secondo il direttore generale Paolo Ghezzi: «le
camere di commercio hanno fatto della digitalizzazione una
vera e propria missione, per rispondere concretamente
all'esigenza delle imprese di un dialogo veloce, certo ed
efficiente con la Pa. Siamo particolarmente soddisfatti che
l'Istituto di pagamento di Infocamere sia il primo
intermediario abilitato a utilizzare il nuovo servizio».
Per
le due agenzie coinvolte «la marca da bollo digitale è una
realtà che punta a semplificare e a velocizzare le procedure
a vantaggio dei cittadini e delle imprese che si
interfacciano con la pubblica amministrazione. La novità
elimina infatti uno dei principali vincoli alla completa dematerializzazione di documenti e procedure, portando
definitivamente sul pc dei cittadini anche i servizi che
prevedono il pagamento del bollo»
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2017). |
APPALTI: Appalti
semplificati per ripartire. Al via la riforma-bis del
codice: modificati 131 articoli su 220 - Salvi i vecchi
progetti.
Aiuti alle Pmi, norma
«salva-progetti», qualificazione più facile per migliaia di
costruttori alle prese con la crisi, compensi certi per i
progettisti.
Il Governo schiude
il sipario sul secondo atto della riforma degli appalti
pubblici, con l’ok al decreto correttivo arrivato ieri in
Consiglio dei ministri
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50). Dopo la «moralizzazione» è arrivato
il tempo della spinta agli investimenti, provando e fare
piazza pulita delle strozzature che hanno indotto le
amministrazioni a tenere nei cassetti i bandi di gara. Senza
rinunciare ai presidi di trasparenza.
Per individuare e superare le criticità il Governo ha aperto
una lunga fase di consultazione esaminando oltre 700
proposte di modifica avanzate da mercato e istituzioni.
Importanti contributi sono poi arrivati dal Consiglio di
Stato e dal lavoro svolto dalle due Camere insieme all’Anac
di Raffaele Cantone che ha contribuito a “raddrizzare” in
corsa diverse norme a rischio di aumentare le “zone grigie”
del mercato.
La prova che non tutto è andato liscio nei primi mesi di
applicazione della riforma non è solo nei numeri in pesante
flessione dei bandi di gara (anche per colpa della crisi),
ma anche nelle dimensioni assunte dal provvedimento
cresciuto fino a 131 articoli,destinati a impattare con
centinaia di correzioni su un codice che ne conta 220. Con
tutta probabilità non sarà peraltro questa l’ultima
occasione per intervenire sulla riforma. Parlamento e
Governo hanno convenuto sull’opportunità di prevedere un
altro tagliando tra due anni.
Molte le novità che diventeranno subito operative. Una delle
più attese riguarda l’accelerazione delle fasi di gara per
appaltare i piccoli interventi sotto i due milioni. Sotto
questa fascia (che ora si ferma a un milione) imprese e
Comuni hanno chiesto di poter tornare a utilizzare il
massimo ribasso con il «metodo antiturbativa». Cioè
l’esclusione automatica delle offerte che presentano
percentuali di ribasso inferiori o superiori alla media,
sorteggiando in gara il criterio matematico per
individuarle. Un modo per evitare le «combine», accorciando
però di molto tempi (e costi) delle procedure. Inserita
all’ultimo momento nella bozze di entrata, questa norma è
rimasta in bilico, con i tecnici di governo al lavoro fino a
tarda sera.
Confermate invece le misure di favore per la qualificazione
al mercato pubblico dei costruttori (requisiti calcolati su
10 anni anziché 5) . Così come un pacchetto di aiuti alle
Pmi, tra cui uno sconto del 50% sulle garanzie per
partecipare alle gare. E (almeno nel testo di entrata) anche
una riserva del 50% dei posti nelle procedure negoziate
sotto al milione. In questa fascia arriva anche una norma a
favore della maggiore concorrenza. Sale da a 5 a 15 il
numero minimo delle imprese da invitare alle procedure
negoziate per i lavori (con doppio scaglione di 10 e 15
imprese in base agli importi nei servizi).
Sul fronte della progettazione, il correttivo sblocca gli
interventi rimasti «incagliati» a causa dell’entrata in
vigore del nuovo codice ad aprile 2016. Le Pa potranno
rimetterli in gara nei prossimi 12 mesi. Il divieto di
appalto integrato cade anche per le opere ad alto contenuto
tecnologico e per le manutenzioni. I progettisti incassano
l’obbligo per le Pa di calcolare i compensi sulla base dei
parametri del ministero della Giustizia (ora è solo una
facoltà). Mentre salta la norma mirata a imporre
l’iscrizione all’albo per i progettisti interni alle
amministrazioni.
Il rischio di una procedura di infrazione Ue, ventilato da
una lettera inviata al Governo da Bruxelles, non è bastato a
far cadere i vincoli sul subappalto. Chi vincerà l’appalto
non potrà subaffidare ad altre imprese più del 30% del
valore complessivo del contratto. Resta invariato il sistema
«80-20» che tra 12 mesi imporrà ai concessionari
autostradali di mandare in gara l’80% dei lavori,
conservando in house una quota limitata al 20 per cento. Ppp
e concessioni potranno contare sull’innalzamento dal 30% al
49% del tetto al contributo pubblico. Mentre arriva il
divieto di affidare a general contractor opere inferiori a
150 milioni. Prevista anche una stretta sui pagamenti delle
Pa e penali per i ritardi nella realizzazione delle opere.
Il rating di impresa viene confermato. Ma accogliendo le
richieste dell’Anac verrà rilasciato su base volontaria.
Compie il giro inverso la clausola sociale per gli appalti
ad alta intensità di mandopera, che da facoltativa diventa
obbligatoria. A meno di sorprese dell’ultima ora l’Anac
dovrebbe incassare l’autonomia organizzativa (e la
disciplina economica) sul proprio personale, insieme
all’aiuto dell’Istat per la definizione dei costi standard
delle opere pubbliche (articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2017
- tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Comuni,
lavori più semplici. Appalto integrato ok. Mini enti, meno
paletti ai progettisti. Il consiglio dei ministri ha
approvato in via definitiva il decreto correttivo del
Codice.
Appalto integrato per le opere con netta prevalenza di
contenuti tecnologici o innovativi. Meno vincoli per i
progettisti dei piccoli comuni. Subappalto con limite al 30%
per tutte le lavorazioni e obbligo di prevedere una terna di
subappaltatori per gli appalti oltre la soglia Ue.
Qualificazione Soa delle imprese di costruzioni valutando
gli ultimi dieci anni. Mantenuto l'obbligo per i
concessionari autostradali di affidare in gara l'80% delle
attività. Obbligo di stima degli affidamenti di ingegneria e
architettura con il «decreto parametri», oggi facoltativo e
divieto di subordinare il pagamento del progettista
all'ottenimento del finanziamento dell'opera.
Sono alcune delle numerose novità contenute nel decreto
correttivo del codice dei contratti pubblici (di cui
risultano «ritoccate» 130 norme), approvato ieri in via
definitiva dal consiglio dei ministri
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Un tema
delicatissimo, sul quale molto si è discusso in sede
parlamentare durante le audizioni del ministro delle
infrastrutture Graziano Delrio e del presidente dell'Anac
Raffaele Cantone, era quello del subappalto. Alla fine il
governo ha scelto di lasciare la situazione così come è oggi
non recependo le indicazioni fortemente liberalizzatrici
dell'Unione europea e quindi lasciando il limite del 30% su
tutte le lavorazioni di cui si compone l'opera e non (come
era previsto nella versione approvata in via preliminare)
sulla sola categoria prevalente. Rimane obbligatoria anche
l'indicazione della terna di subappaltatori in sede di
offerta, ma soltanto per appalti di importo superiore alle
soglie Ue (5,2 milioni di euro per lavori e 209.000 euro per
servizi e forniture) e, sempre, per attività esposte a
rischio di infiltrazione mafiosa.
Un altro tema delicato era quello della deroga
all'affidamento dei lavori sulla base del progetto
esecutivo. Il testo, dopo avere confermato il principio
generale dell'obbligo di appaltare i lavori sulla base del
progetto esecutivo, prevede alcune deroghe. La prima è
quella che sblocca i progetti definitivi non affidati al
momento dell'entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016). Adesso le stazioni appaltanti, a condizioni che
pubblichino il bando entro 12 mesi dall'entrata in vigore
del decreto correttivo, potranno affidare i lavori sulla
base del progetto definitivo (chiedendo all'impresa il
progetto esecutivo e la realizzazione dell'opera), in caso
di netta prevalenza di contenuti tecnologici o innovativi
dell'appalto.
Nella determina a contrarre le amministrazioni
dovranno però indicare «in modo puntuale la rilevanza dei
presupposti tecnici e oggettivi che consentono il ricorso
all'affidamento congiunto e l'effettiva incidenza sui tempi
della realizzazione delle opere in caso di affidamento
separato di lavori e progettazione». Altra esclusione
dall'obbligo di affidare lavori sulla base del progetto
esecutivo viene introdotta per i casi di «locazione
finanziaria, nonché delle opere di urbanizzazione a
scomputo» e per i lavori di manutenzione sulla base del
progetto definitivo (e poi di una progettazione semplificata
quando sarà in vigore il decreto ministeriale sui livelli
progettuali), con esclusione degli interventi di
manutenzione che prevedono il rinnovo o la sostituzione di
parti strutturali delle opere. Non è invece passata, a causa
del rilievo del Consiglio di stato, la possibilità di
utilizzare l'appalto integrato per ragioni di urgenza.
Per
la qualificazione delle imprese si innalza a dieci anni
l'arco temporale di riferimento per ottenere la
qualificazione dalle Soa (la disciplina di dettaglio della
qualificazione verrà prevista poi da un decreto ministeriale
su proposta dell'Anac). Sulla disciplina del contraente
generale il testo prevede una soglia minima di applicazione
pari a 100 milioni di euro (anche se il comunicato stampa di
palazzo Chigi parla di 150 milioni ndr) per il ricorso
all'affidamento a contraente generale (oggi senza alcun
limite), per evitare che il ricorso all'istituto per soglie
minimali concretizzi una elusione del divieto di appalto
integrato. Il provvedimento interviene anche sul tema delle
varianti integrando la disciplina della variante per errore
progettuale, specificando che essa è consentita solo entro
limiti quantitativi minimi.
Viene poi precisato che il
dibattito pubblico sarà effettuato sui progetti di
fattibilità tecnica economica e non sui documenti delle
alternative progettuali come nel testo approvato in via
preliminare. Importante l'intervento sulla norma relativa al
costo della manodopera di cui si prevede una specifica
individuazione ai fini della determinazione della base
d'asta e l'esclusione per i servizi aventi natura
intellettuale. Per le regole in materia di collaudi è stato
inserito l'obbligo, per le amministrazioni, di scegliere i
collaudatori da un apposito albo, i soggetti esterni saranno
sempre scelti con procedura ad evidenza pubblica.
Per la
progettazione una importante novità riguarda l'obbligo di
applicazione del cosiddetto «decreto parametri» ai fini del
calcolo dell'importo a base di gara per gli affidamenti di
servizi di ingegneria e architettura; ad oggi le stazioni
appaltanti lo potevano utilizzare se i parametri fossero
ritenuti «adeguati», diversamente potevano stimare anche con
riduzioni del 20/30%.
Sempre sul fronte dei corrispettivi
dei progettisti il decreto contiene due importanti novità:
il divieto di subordinare il pagamento dei corrispettivi
all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata e il
divieto di prevedere forme di sponsorizzazioni e di rimborsi
per affidamento di servizi di ingegneria e architettura
(inserita un'esclusione per i beni culturali), una prassi
spesso utilizzata per non pagare l'affidatario. Per le
commissioni giudicatrici ammessa, fino a un milione di euro
possibile la nomina di alcuni commissari interni alla
stazione appaltante con esclusione del presidente della
commissione di gara.
Soddisfazione per le modifiche apportate al correttivo
appalti è stata espressa dal presidente dell'Anci Antonio
Decaro. «La possibilità di servirsi dello strumento
dell'appalto integrato per determinate opere rappresenta una
risorsa essenziale per noi amministratori, sempre affannati
nel tentativo di ridurre i tempi di progettazione e
soprattutto di realizzazione delle opere», ha spiegato Decaro.
«Inoltre la correzione della norma che, obbligando i
tecnici all'abilitazione agli albi per poter firmare
progetti avrebbe paralizzato gli investimenti, garantisce
soprattutto l'operatività ai piccoli comuni. Un altro
aspetto importante del correttivo è la semplificazione dei
livelli di progettazione per le manutenzioni ordinarie».
Positivo anche il giudizio di Confartigianato. «Si tratta di
modifiche positive che consentono agli artigiani e alle
piccole imprese di cogliere le opportunità del mercato degli
appalti pubblici», ha commentato il presidente Giorgio
Merletti.
In cima alla lista delle novità più gradite dagli
artigiani c'è la possibilità per le stazioni appaltanti di
riservare la partecipazione alle micro, piccole e medie
imprese che abbiano sede legale e operativa nel territorio
regionale di esecuzione dei lavori per una quota non
inferiore al 50% del totale delle aziende partecipanti
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni,
più margini e regole. Cresce il turn-over, ma anche il numero
di norme ad hoc. Le novità in materia di personale del
pacchetto enti locali della manovra correttiva.
Nelle amministrazioni locali aumentano i margini per
assumere, ma anche la complessità delle regole e delle
percentuali, che sono differenziate a seconda del tipo di
ente, della relativa popolazione, della maggiore o minore
virtuosità finanziaria e dell'inquadramento (dirigenziale o
non dirigenziale) del nuovo personale.
Il pacchetto enti locali della manovra correttiva, approvata
nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri (sia pure
ancora con la formula «salvo intese», che lascia aperta la
strada a ulteriori modifiche, oltre a quelle che potrà
apportare il parlamento in sede di conversione, come ha
lasciato intendere il sottosegretario alla presidenza Maria
Elena Boschi) incrementa al 75% la percentuale di turn-over
anche per i comuni con popolazione superiore a 10 mila
abitanti, allineandoli a quelli più piccoli che già possono
applicare la percentuale più elevata purché rispettino il
rapporto dipendenti/popolazione imposti agli enti
strutturalmente deficitari.
In attesa di vedere il testo definitivo, si ritiene che tale
condizione verrà imposta anche ai municipi medio-grandi. Per
gli enti che non rispettano tali parametri, il turnover
dovrebbe restare fissato al 25%.
Nulla dovrebbe cambiare per i comuni con meno di 1.000
abitanti, che potranno continuare ad assumere un nuovo
dipendente per ogni cessazione intervenuta nell'anno
precedente (turn-over per teste).
I mini-eni, inoltre, possono cumulare tutti i resti
assunzionali maturati dal 2007 in avanti, mentre per gli
altri valgono solo quelli del triennio anteriore all'anno
precedente: nel 2017, quindi, è disponibile la parte non
spesa dei budget relativi agli anni 2014-2015-2016,
calcolati sulle rispettive cessazioni degli anni
2013-2014-2015; rispetto al 2016, quindi, sono persi gli
eventuali resti del 2013, derivanti dalle cessazioni del
2012. E così via negli anni successivi.
Sempre il decreto legge appena licenziato dal governo porta
dal 75% al 90% il turnover per gli enti virtuosi nella
gestione degli spazi finanziari per investimenti. Si tratta
delle amministrazioni (tutte, a prescindere dalla propria
dimensione demografica) che, grazie ad una buona
programmazione, riusciranno a non realizzare un overshooting
rispetto al pareggio di bilancio superiore all'1% delle
entrate finali accertate nel medesimo anno. Tale novità,
però, si applicherà solo dal 2018.
Regole ancora diverse valgono per le unioni di comuni e per
i comuni istituiti a decorrere dall'anno 2011 a seguito di
fusione: in tal caso, è possibile scegliere il regime più
favorevole fra quello del turnover «per teste» al 100%
quello basato sulla spesa dei cessati nell'anno precedente,
ma anche qui con percentuale totalitaria (100%).
Infine, l'ultima variabile: tutto quanto detto in precedenza
vale solo per il personale non dirigenziale. Per i
dirigenti, laddove previsti, valgono le percentuali fissate
dall'art. 3, comma 5, del dl 90/2014, ovvero 80 e 100% dal
2018.
Rimane possibile anche il c.d. cumulo triennale diretto al
futuro, che consente di programmare le assunzioni sommando
nel piano del fabbisogno triennale i budget derivanti dalle
cessazioni attese. Per la programmazione 2017-2019, quindi,
si possono considerare i budget 2018 e 2019, quantificati in
base alle cessazioni ipotizzate nel 2017 e nel 2018.
Naturalmente, l'ente potrà esperire i concorsi ma le
assunzioni dovranno rispettare le regole del turn-over, per
cui avverranno solo nell'anno successivo a quello in cui le
cessazioni ipotizzate si sono effettivamente verificate e
nei limiti di budget effettivamente disponibili
(articolo ItaliaOggi del 14.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione
paesaggistica meno severa. Procedure
edilizie. Uno studio dell’Anci riassume il nuovo regime per
i lavori e i permessi dopo il Dpr 31/2017.
Il nuovo regolamento
sugli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata è oggetto
di uno studio dell’ Anci che sintetizza le principali novità
introdotte dal Dpr 31/2017. Il quaderno operativo, oltre
alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento,
allinea le procedure edilizie, ormai sempre più
autocertificate, con le autorizzazioni necessariamente
espresse e preventive richiesta dalla disciplina di tutela
dei vincoli paesaggistici.
Alla luce della novità normativa, il
documento Anci
(IL D.P.R. 13.02.2017 N. 31 - LA SEMPLIFICAZIONE DEI
PROCEDIMENTI DI TUTELA PAESAGGISTICA - IL RACCORDO CON I
PROVVEDIMENTI EDILIZI)
individua i 31 casi in cui l’autorizzazione paesaggistica
non è necessaria. Si tratta di una serie di interventi
eterogenei, accomunati principalmente dalla mancanza di
impatto sull’aspetto esteriore degli edifici: è quindi il
caso di opere strettamente interne comunque denominate
(anche ove comportanti mutamento della destinazione d’uso),
o ancora di interventi su prospetti o coperture degli
edifici qualora rispettino le caratteristiche esistenti, o
di installazione di pannelli solari, se posti su coperture
piane e se non visibili dagli spazi pubblici esterni, o, ad
esempio, di tende parasole su terrazze o spazi pertinenziali
ad uso privato.
Il quaderno Anci richiama quindi gli interventi soggetti al
procedimento autorizzatorio semplificato. Si tratta di
interventi di adeguamento alla normativa antisismica o per
l’efficientamento energetico, ove comportino innovazioni
alle caratteristiche tipologiche, ai materiali o alle
finiture esistenti. Le maggiori innovazioni in chiave di
semplificazione prevedono la possibilità di convocare una
conferenza di servizi, con termini dimezzati, nel caso in
cui siano necessari atti di assenso ulteriori rispetto
all’autorizzazione semplificata. In caso contrario, sarà la
stessa amministrazione procedente a valutare la
compatibilità dell’intervento che, se valutata
positivamente, porterà a una proposta di accoglimento che
dovrà passare il vaglio della Soprintendenza
(silenzio-assenso dopo venti giorni).
Dopo aver ricordato la
procedura ordinaria per il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica (che si snoda dall’acquisizione del parere
della locale Commissione per la qualità architettonica e il
paesaggio da parte dell’Amministrazione competente
all’emanazione del successivo parere del Soprintendente, per
concludersi con il rilascio dell’autorizzazione entro il
termine di 20 giorni dalla ricezione di quest’ultimo), lo
studio si concentra sul raccordo tra le procedure per la
formazione o il rilascio dei titoli edilizi e le
disposizioni per la tutela dei valori paesaggistici.
Ne emerge come la disciplina italiana che regola l’attività
edilizia sia sulla carta efficiente. La sensazione diffusa è
che, però, la ristrutturazione di un edificio o più
semplicemente la volontà di realizzare una tettoia piuttosto
che una nuova finestra siano soggette a procedure dall’esito
incerto, soprattutto nei tempi sia in ragione di piani
regolatori e regolamenti edilizi locali complicati sia
perché tutte le opere che modificano l’aspetto esteriore
degli edifici vanno preventivamente autorizzate (articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2017). |
APPALTI: Piccole
gare, massimo ribasso a 2 milioni. Codice appalti. Oggi l’ok
finale del Consiglio dei ministri al decreto correttivo.
Gare più semplici
per l’assegnazione dei lavori pubblici di taglia
medio-piccola.
È la novità
dell’ultima ora per la bozza di decreto correttivo al codice
degli appalti (Dlgs 50/2016) che oggi sarà sul tavolo del
Consiglio di ministri per l’ok finale
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Dopo un defatigante iter -che ha coinvolto anche Conferenza
unificata, Consiglio di Stato e Commissioni parlamentari-
questa mattina il decreto affronta l’ultimo passaggio. Per
non superare la scadenza fissata dalla delega il varo
definitivo del provvedimento con la pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale (o quanto meno la firma del Capo dello
Stato, segnalano i giuristi) deve avvenire entro il 19
aprile. Lungo il percorso il decreto ha acquistato sempre
maggiore mole. Ora siamo a quota 131 articoli, con centinaia
di modifiche apportate a un codice che ne conta in tutto 220
e che è entrato in vigore giusto un anno fa.
Tra queste, quella più attesa da imprese e Comuni è proprio
quella sulla gestione delle piccole gare. Uno dei maggiori
indiziati dell’inceppamento del motore degli appalti -in
realtà pure prima piuttosto ingolfato- in seguito
all’entrata in vigore della riforma. Per rendere più rapide
le procedure di aggiudicazione e, dunque, passare in fretta
dalle gare ai cantieri, alle Infrastrutture hanno deciso di
raddoppiare da uno a due milioni la soglia di utilizzo del
criterio del prezzo più basso per assegnare le opere. Ma a
precise condizioni.
La prima è che l’appalto venga assegnato
sulla base di un progetto esecutivo, dunque senza
possibilità di intervento sul progetto da parte dei
costruttori, che dovranno limitarsi a eseguire i lavori. La
seconda è che entri in campo il «metodo antiturbativa», cioè
l’esclusione automatica delle offerte che presentano
percentuali di ribasso inferiori o superiori alla media,
sorteggiando solo in corso di gara il criterio matematico
per individuarle.
Con questo accorgimento si dovrebbe
evitare il rischio di formazione di cartelli, accelerando di
molto le procedure (e riducendo i costi) di assegnazione
degli appalti. Le amministrazioni verrebbero infatti
alleggerite dall’obbligo di dover valutare altre variabili
oltre al prezzo: una scelta poco sensata, dicono imprese e
comuni, quando in gara c’è un progetto esecutivo di lavori medio-piccoli. Mentre l’esclusione automatica delle «offerte
anomale» evita la procedura di valutazione di congruità
delle proposte in contraddittorio con le imprese a rischio
di esclusione. Per le opere sotto al milione, in presenza di
più di 10 offerte, l’utilizzo di questa formula diventa anzi
obbligatorio per assegnare i lavori.
Non è questa l’unica novità che riguarda i criteri di
aggiudicazione degli appalti. Un’altra riguarda i parametri
da valutare quando si guarda alla qualità della prestazione
oltre che al semplice ribasso di gara («offerta
economicamente più vantaggiosa»). In questi casi, come
proposto dal Parlamento (i cui rilievi sono stati tutti
accolti dalle Infrastrutture), la stazione appaltante non
potrà attribuire più del 30% del punteggio all’impresa che
offre il prezzo più basso. Il resto dei punti andranno
assegnati sulla base degli elementi di valutazione tecnica.
Tornando ai piccoli appalti, viene accolta nel testo anche
la proposta di alzare a un minimo di 15 il numero delle
imprese da invitare alle procedure negoziate di importo
compreso tra 150mila euro e un milione.
Infine una nota sui partenariati pubblico privati.
Nonostante il parere contrario del Consiglio di Stato, Porta
Pia ha deciso di tenere duro sull’innalzamento del tetto al
contributo pubblico: la bozza licenziata dal Mit conferma
il passaggio dal 30% al 49 per cento (articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I
comuni tornano ad assumere. Turnover al 75%. Si riapre la
partita sul rinnovo del Ccnl.
MANOVRA CORRETTIVA/ Alle province 210 milioni. Zone franche
nelle regioni terremotate.
I comuni tornano ad assumere. Grazie all'innalzamento della
soglia di turnover dall'attuale 25% al 75%, i sindaci
potranno svecchiare gli organici immettendo in ruolo le
risorse umane necessarie a gestire nuove competenze e a far
ripartire gli investimenti.
Il pacchetto enti locali della manovra correttiva, varata
martedì dal cdm, è stato benevolo verso gli enti locali,
forse al di là di ogni loro ragionevole previsione, visto
che sembrava praticamente certo che l'innalzamento del
turnover si sarebbe fermato al 50% e in pochi scommettevano
che il governo sarebbe stato così magnanimo.
«Sono state
riconosciute le nostre ragioni e ora possiamo dire che
abbiamo fatto bene a insistere», ha commentato il delegato Anci al personale e sindaco di Chieti, Umberto Di Primio. «I
comuni potranno ora assumere giovani, motivati e formati per
far fronte alle nuove sfide. E potranno dare una speranze
all'esercito di 180 mila idonei che da anni bussa alle porte
della pubblica amministrazione». Le cui graduatorie,
tuttavia, saranno valide solo fino al 31.12.2017.
A fare felici i sindaci sul fronte del turnover non c'è solo
la manovrina, ma anche il decreto legge sicurezza (dl
n. 14/2017) convertito definitivamente in legge ieri dal
senato (si veda altro pezzo a pagina 30) che all'art. 7
prevede un incremento delle capacità assunzionali di
personale della polizia locale, in modo da far fronte ai
maggiori poteri in materia di sicurezza e ordine pubblico
attribuiti ai comuni dal decreto.
Lo sblocco non sarà per tutti, ma solo per i municipi
virtuosi, ossia quelli che hanno rispettato il pareggio di
bilancio. Nel 2017 chi è in regola con i conti potrà
assumere personale di polizia locale a tempo indeterminato
nel limite dell'80% della spesa sostenuta per i vigili che
hanno lasciato il lavoro nell'anno precedente. Dall'anno
prossimo il limite sarà del 100%.
Come precisato anche da palazzo Chigi, l'innalzamento della
percentuale di turnover al 75% riguarderà i comuni con più
di 10.000 abitanti. Questo perché sotto i 10.000 abitanti il
turnover è già al 75% (al 100% per i mini-enti sotto i mille
abitanti) ma solo per le amministrazioni che hanno un
rapporto medio dipendenti-popolazione inferiore a quello
previsto per gli enti in dissesto.
Altra novità introdotta dalla manovrina riguarda il premio
in termini di sblocco delle capacità assunzionali per gli
enti che rispettano il pareggio di bilancio senza tuttavia
sprecare spazi finanziari (il cosiddetto overshooting). Il
meccanismo premiale scatterà di fatto dal 2018, perché pur
essendo previsto dalla legge di bilancio di quest'anno, non
potrà andare a regime prima che si conoscano i dati
ufficiali sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica
da parte dei comuni.
I municipi che abbiano un rapporto
dipendenti/popolazione inferiore a quello individuato per
gli enti in dissesto e che abbiano centrato l'obiettivo del
pareggio di bilancio senza lasciare spazi finanziari
inutilizzati superiori all'1% degli accertamenti delle
entrate potranno applicare un turnover del 90% (prima era
del 75%).
La stagione contrattuale.
Lo sblocco del turnover e la prospettiva dell'avvio di una
nuova stagione di assunzioni riaccende inevitabilmente
l'attenzione sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego
che, in ossequio all'intesa sottoscritta tra governo e
sindacati lo scorso 30 novembre dovrebbe portare in dote
aumenti medi mensili di 85 euro. L'auspicio dei comuni è che
il governo trovi quanto prima le risorse per finanziare gli
aumenti, «fermo restando che non si può credere di scaricare
tutti gli oneri dei nuovi contratti sugli enti locali», ha
osservato Di Primio.
Il Comitato di settore si riunirà a breve per elaborare il
nuovo atto di indirizzo all'Aran anche se l'impressione è
che i comuni vogliano prima attendere il varo definitivo dei
decreti Madia (riforma del T.u. sul pubblico impiego e della
legge Brunetta sulla valutazione). «Restano ancora alcuni
nodi critici come quelli sul salario accessorio, dove
servono norme chiare che non suscitino dubbi intepretativi,
e sul recupero delle sanzioni scaturite dalle sanzioni Mef»,
ha spiegato Di Primio.
Le altre misure finanziarie per gli enti
locali. Si
modifica il correttivo statistico stabilito dalla legge di
bilancio 2017 per la definizione degli importi spettanti a
ciascun comune a valere sul Fondo di solidarietà comunale,
accogliendo in tal modo la richiesta avanzata dall'Anci.
A favore delle province della regione Sardegna e della città
metropolitana di Cagliari si prevede un contributo pari a 10
milioni di euro per l'anno 2017 e 20 milioni di euro annui a
decorrere dall'anno 2018.
Per le province delle regioni a statuto ordinario, la
manovrina prevede (si veda ItaliaOggi di ieri) un contributo
pari a 110 milioni per l'anno 2017 e a 80 milioni annui a
decorrere dall'anno 2018 per la salvaguardia degli equilibri
di bilancio. Inoltre, come l'anno scorso, anche per il 2017
vengono stanziati 100 milioni per la manutenzione delle
strade.
Novità anche per le regioni a cui per la prima volta
verranno applicati i criteri dei fabbisogni standard e della
capacità fiscale ai fini del riparto tra le regioni stesse
del concorso alla finanza pubblica. La manovrina, inoltre,
distribuisce gli spazi finanziari pari a 500 milioni
previsti per le regioni dalla legge di bilancio 2017.
Interventi in favore delle zone
terremotate. È
istituito un Fondo specifico di 1 miliardo di euro per
ciascun anno del triennio 2017-2019 finalizzato a consentire
l'accelerazione delle attività di ricostruzione.
Tra le
misure viene istituita una zona franca urbana nei comuni
delle regioni Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo colpiti dagli
eventi sismici del 2016 e 2017. A beneficiarne saranno le
imprese aventi la sede principale o l'unità locale
all'interno della stessa zona franca e che abbiano subìto
una contrazione del fatturato a seguito degli eventi
sismici.
Tali imprese potranno beneficiare, in relazione ai
redditi e al valore della produzione netta derivanti dalla
prosecuzione dell'attività nei comuni colpiti dal sisma, di
una esenzione biennale Ires e Irpef (fino a 100 mila euro di
reddito), Irap (fino a 300 mila euro di valore della
produzione netta) e Imu, nel rispetto dei limiti e delle
condizioni stabiliti dai regolamenti «de minimis»
(articolo ItaliaOggi del 13.04.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
il nuovo turn-over triplica le assunzioni.
Enti locali. Con il 75% delle sostituzioni negli
enti con più di 10mila abitanti possibili almeno 7mila
ingressi in più - Aiuti da 200 milioni alle Province,
sblocco degli avanzi e bilancio annuale per le Città.
Dopo anni di
magra caratterizzati dai vincoli al turn-over prima e dal
blocco poi per riassorbire gli esuberi di Province e Città
metropolitane si riaprono le porte per i nuovi ingressi di
personale nei Comuni, con un cambio di rotta che può portare
nei municipi circa 7mila assunzioni in più rispetto alle
5mila scarse permesse dalle regole attuali.
Si tratta di un
cambio di rotta deciso, dopo che quasi un decennio di
“austerità” sugli organici ha portato intorno a quota
400mila i dipendenti comunali in Italia, con un taglio del
16 per cento rispetto al 2007: «Un grande successo e
un’occasione per i sindaci», commenta il presidente dell’Anci
Antonio Decaro.
Nel decretone approvato ieri insieme a Def e Pnr, con la
formula «salvo intese» aperta quindi a eventuali correzioni
che però non dovrebbero interessare questo capitolo, la
novità principale (anticipata sul Sole 24 Ore di domenica)
arriva nei Comuni con più di 10mila abitanti, che hanno in
organico i tre quarti dei dipendenti comunali complessivi e
potranno sostituire il 75% degli usciti invece del 25%
concesso dalle regole in vigore fino a oggi.
Negli enti più
piccoli rimangono invece le regole attuali, che fra mille e
9.999 abitanti permettono la sostituzione di tre usciti ogni
quattro quando l’ente rispetta i vincoli di finanza pubblica
e non supera il rapporto dipendenti/popolazione previsto per
i Comuni in dissesto, mentre fino a mille residenti il turn-over è pieno. Cambia il premio previsto dal 2018 per chi
rispetterà i vincoli di finanza pubblica senza lasciare
inutilizzati spazi finanziari superiori all’1% delle entrate
correnti: per loro il turn-over sarà del 90%, e non del 75.
Il cambio di regole offre nuove chance anche a chi si è
collocato nelle graduatorie dei vecchi concorsi, la cui
validità è stata allungata a inizio anno dal Milleproroghe,
ma impone agli amministratori di fare i conti prima di
mettere mano alle assunzioni. Insieme all’elenco dei
dipendenti, infatti, in questi anni si sono alleggerite
anche le spese per il personale, che si fermano oggi sotto i
14,5 miliardi contro i 16,3 del 2008 (-11%), ma la
riapertura delle porte arriva alla vigilia di un rinnovo
contrattuale che promette di essere costoso anche per i
Comuni: l’obiettivo di arrivare a 85 euro medi di aumento,
scritto nell’intesa fra governo e sindacati del 30 novembre
e rilanciato dal Def, dovrebbe aumentare i costi fissi di
personale nei Comuni di 4-500 milioni.
Per le Regioni viene tradotta in legge l’intesa di febbraio
che prevede l’applicazione dei fabbisogni standard nella
distribuzione del contributo alla finanza pubblica e si
stabilizzano i meccanismi del fondo per il trasporto
pubblico locale.
Nel capitolo del decretone dedicato agli enti locali entrano
poi i sostegni alle Province e alle Città metropolitane, che
anche nel 2017 potranno scrivere bilanci annuali e non
triennali in attesa di tempi migliori. Alle Province vengono
offerti sostegni aggiuntivi per circa 200 milioni, tra fondi
Anas dirottati nuovamente agli enti di area vasta per la
manutenzione delle strade e risorse aggiuntive, mentre per
le Città metropolitane arriva la replica della possibilità
di utilizzare gli avanzi di amministrazione, senza però che
questa mossa (vale circa 50 milioni, e aiuta soprattutto
Torino, Milano e Roma) possa andare in aiuto dei calcoli sul
pareggio di bilancio.
Le misure di sostegno agli enti
locali, infatti, non possono modificare la struttura della
legge sul pareggio, la 243/2012, che essendo attuativa di
una norma costituzionale è una legge “rafforzata”: contro lo
stesso ostacolo ha sbattuto il tentativo di prorogare la
possibilità di rispettare il pareggio solo a consuntivo (articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017). |
APPALTI: Subappalti,
in house e Ppp: restano i vincoli del Codice. Contratti
pubblici. Il decreto correttivo in Cdm giovedì.
Nessuna modifica sostanziale alla
disciplina dei subappalti, dei lavori in house delle
concessionarie autostradali e anche delle operazioni di
project financing.
Rispetto alla bozza
varata in prima battuta a fine febbraio il Governo è pronto
a fare marcia indietro su alcune delle correzioni di
maggiore impatto rispetto alla riforma appalti varata l'anno
scorso, adeguandosi ai rilievi mossi dal Parlamento e dal
Consiglio di Stato.
Il decreto correttivo è alle ultime
limature in vista dell'approvazione finale
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50). Avrebbe dovuto
essere esaminato già nella seduta del Consiglio dei ministri
di ieri, ma l’eccezionale "carico" di provvedimenti legato
al varo contestuale di "manovrina" e Documento di
programmazione economica (Def) ha consigliato di spostarne
l’esame a una nuova seduta in programma già domani. Slittare
ancora significherebbe di fatto rischiare di andare oltre il
termine imposto dalla legge delega che scade il 19 aprile.
Dopo le ultime revisioni dei tecnici di Porta Pia, la nuova
bozza del decreto legislativo oggi sarà in mano al
Dipartimento affari legislativi di Palazzo Chigi per
l’ultimo esame. Finora la scelta di fondo è stata quella di
adeguare il testo a tutte le richieste di modifica che sono
arrivate dal Parlamento, oltre alle prescrizioni di Palazzo
Spada.
Sul subappalto, allora, uno dei punti più "controversi"
dell'intero provvedimento, tutto dovrebbe rimanere come
adesso. Nessuna «liberalizzazione» dei subaffidamenti come
ha chiesto la Commissione europea in risposta a un esposto
presentato dai costruttori. Il tetto per i subaffidamenti
rimane ancorato al 30% da calcolare sull’intero importo
dell’appalto (invece che sulla sola categoria prevalente,
come prevedeva la bozza di febbraio). Il rischio - paventato
nella lettera inviata pochi giorni fa dalla Dg Mercato
interno di Bruxelles - è quello di andare incontro a una
procedura di infrazione. Ma sul punto per ora pesano di più
le «condizioni» messe nero su bianco da Camere e Palazzo
Spada.
Per lo stesso motivo resterà inalterata anche la disciplina
dei lavori delle autostrade. Tra 12 mesi il «sistema 80-20»
che obbliga i concessionari a mandare in gara l'80%dei
lavori entrerà in vigore senza gli sconti previsti dalla
prima bozza per le opere di semplice manutenzione. Sul Ppp
torna nel cassetto la proposta di innalzare dal 30% al 49%
il tetto massimo al contributo pubblico su cui si era speso
personalmente anche il ministro Graziano Delrio.
Seguendo lo
stesso ragionamento qualche limatura arriverà anche sul
fronte della progettazione. Le deroghe al divieto di appalto
integrato verranno ridimensionate, eliminando la possibilità
di appaltare insieme progetto e lavori nei casi di urgenza e
riducendo da 18 a 12 mesi la riapertura del termine per
mandare in gara i progetti definitivi già approvati alla
data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016).
Va verso la conferma, invece, la possibilità di affidare
insieme progetto e lavori nel caso di interventi ad alto
tasso di tecnologia.
Sul Correttivo oggi si farà sentire anche la voce delle
imprese. In vista dell’approvazione finale il tavolo
unitario che riunisce la filiera delle costruzioni (Ance,
artigiani, coop, piccole imprese e società di ingegneria
dell’Oice) diffonderà un documento in cui si ricorda al
Governo che esistono almeno sette «criticità» di mercato da
risolvere con il decreto.
Tra queste: semplificare
l’aggiudicazione dei piccoli interventi (applicando il
metodo anti-turbativa fino a 2,5 milioni), rendere meno
rigidi i vincoli sul subappalto, eliminare il sorteggio per
la scelta delle imprese da invitare alle procedure
negoziate, varare regole più stringenti contro la prassi dei
ritardati pagamenti, precisare che per autorizzare l’appalto
integrato la componente tecnologica deve superare il 70% del
valore dell’appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
facoltativo escluso. Per i papà.
Stop al congedo facoltativo per i padri lavoratori
dipendenti. La misura non è stata prorogata e, pertanto,
quest'anno potranno eventualmente essere fruiti soltanto i
giorni relativi a parti, adozioni e affidamenti avvenuti nel
2016.
Lo precisa l'Inps nel
messaggio 10.04.2017 n. 1581 (OGGETTO:
Chiarimenti in merito al messaggio Hermes n. 828/2017
relativo al congedo facoltativo per i padri lavoratori
dipendenti di cui all’art. 4, comma 24, lettera a), della
legge 92/2012).
Il congedo facoltativo. Dava l'opportunità al padre
lavoratore dipendente (e continua a darla, limitatamente
agli eventi dello scorso anno) di fruire di uno o due giorni
di astensione dal lavoro, anche in maniera continuativa. Il
congedo era subordinato alla scelta dell'altro coniuge (cioè
la madre), anch'essa lavoratrice, di non fruire di
altrettanti giorni (uno o due) del proprio congedo di
maternità, con conseguente anticipazione del termine finale
del periodo post partum di astensione obbligatoria.
Lo
«scambio», in ogni caso, poteva essere fatto entro cinque
mesi di vita del figlio (il termine entro cui la madre
fruisce dell'astensione obbligatoria).
Stop dal 2017.
La misura, introdotta in via sperimentale
dalla riforma Fornero (la legge n. 92/2012) è stata
prorogata per l'anno 2016 dalla legge Stabilità dell'anno
scorso (legge n. 208/2015); invece, non ha ricevuto proroga
per l'anno in corso.
Pertanto, l'Inps ha stoppato la
fruizione di nuovi congedi. Nel messaggio, precisa che il
congedo può essere fruito nei primi mesi del corrente anno,
entro il consueto termine di cinque mesi dalla nascita o
dall'adozione/affidamento, solo per eventi parto, adozione e
affidamento avvenuti nell'anno 2016.
Un esempio.
Per la nascita avvenuta il 01.12.2016,
senza che la madre abbia fruito della flessibilità del
congedo di maternità così da aver diritto a un mese prima e
a quattro mesi post partum, ossia fino al prossimo 30
aprile, il papà può decidere di fruire di uno o due giorni
del congedo facoltativo, a patto che la madre anticipi la
fine del suo congedo di maternità della stesa misura (uno o
due giorni).
Il papà può decidere di fruire di entrambi i
giorni entro il 1° maggio, giorno in cui il neonato compie i
primi cinque mesi di vita
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: No
all'affidamento fiduciario ai legali. L'Anac
sull'assegnazione dei servizi.
Gli incarichi agli
avvocati non possono essere assegnati
intuitu personae per via fiduciaria, né se
si tratti della difesa in giudizio, né se si
tratti di altri servizi legali, come le
consulenze. Inoltre, la circostanza che un
servizio possa essere configurato come
prestazione d'opera individuale non può
essere sufficiente per escludere
l'applicazione dei principi del diritto
comunitario, che ispirano le regole
contenute nel codice dei contratti.
L'Anac, con il documento sui servizi legali
posto in consultazione sul suo sito allo
scopo di emanare uno specifico atto di
regolazione, interviene in maniera chiara e
definitiva sull'annosa questione
dell'assegnazione dei servizi legali.
Secondo l'Autorità «non può più considerarsi
attuale» la teoria, sostenuta anche dal
Consiglio di stato con la sentenza della
Sezione V, 11.05.2012, n. 2730 secondo
cui si dovrebbe distinguere il conferimento
di un singolo incarico di patrocinio legale
dall'attività di assistenza e consulenza
giuridica. Il primo caso era sottratto alla
disciplina del dlgs. n. 163/2006 in quanto.
Secondo tale teoria, la difesa in giudizio
sarebbe un «contratto d'opera
intellettuale», nell'ambito del quale il
legale opera in via principalmente personale
e con lavoro proprio senza organizzazione
imprenditoriale, sicché sfuggirebbe alla
qualificazione di «appalto». Invece,
l'attività di assistenza e consulenza
giuridica, comprendente l'organizzazione di
una serie di servizi legali tra cui plurime
difese in giudizio, in quanto caratterizzata
dalla complessità dell'oggetto e dalla
predeterminazione della durata, sarebbe un
appalto e, quindi soggetta alle regole codicistiche.
Il documento posto in consultazione dall'Anac
è tranciante nel negare che col dlgs 50/2016
tale distinzione (molto dubbia anche nel
precedente regime normativo) sia
ulteriormente applicabile e che, quindi, si
possano affidare gli incarichi di difesa in
giudizio per via fiduciaria. L'Anac insiste
sulla circostanza che il codice dei
contratti recepisce le direttive
comunitarie, a loro volta espressione di un
ordinamento che offre dell'appalto
un'accezione lata e molto più ampia di
quella definibile dall'ordinamento
civilistico interno e tale da ricomprendere,
nella sostanza, ogni prestazione di servizi,
anche se resa da persone fisiche con lavoro
proprio. Dunque, le «prestazioni d'opera
intellettuale» finiscono per restare
attratte nella disciplina dei contratti.
In particolare, spiega l'Anac, la difesa in
giudizio non può essere regolata dal codice
civile, ma dall'articolo 17 del dlgs
165/2001. Pertanto, la difesa in giudizio è
da considerare senza alcun dubbio come
«appalto di servizi», anche se escluso
dall'applicazione delle regole puntuali
procedurali previste dal codice e, dunque,
soggetto solo ai principi enunciati
dall'articolo 4 del codice. L'attuazione dei
quali impone comunque una scelta motivata,
trasparente e competitiva.
Il documento in consultazione propone
un'interessante definizione dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, il rispetto dei
quali impedisce affidamenti intuitu personae.
In particolare, il principio di imparzialità
fa sì che «la stazione appaltante maturi la
sua decisione finale da una posizione di
terzietà rispetto a tutti i concorrenti,
senza essere indebitamente influenzata nelle
sue decisioni da interessi politici di
parte»: il che esclude radicalmente gli
affidamenti fiduciari.
L'Anac suggerisce di raccogliere
manifestazioni di interesse degli avvocati
ad essere iscritti in albi sempre aperti, ai
quali attingere nel rispetto dei criteri di
rotazione per attivare una competizione
concorrenziale. La procedura selettiva dovrà
rispettare criteri qualitativi, ma anche
inevitabilmente economici: l'Anac considera
inevitabile, nel rispetto del principio di
economicità, chiedere anche un ribasso sulla
base di gara, determinabile in base
all'esame di incarichi analoghi conferiti
dalle p.a. o dalle tariffe professionali
vigenti.
Molte amministrazioni si mostrano restie a
procedure selettive per i legali,
soprattutto perché preoccupate da non
infrequenti casi nei quali occorre procedere
con urgenza. L'Anac evidenzia che ciò non
crea alcun problema: l'urgenza può
consentire un affidamento diretto tramite
estrazione a sorte dall'albo eventualmente
costituito dalla singola pubblica
amministrazione o una scelta diretta ma
motivata (del resto, è applicabile anche
l'articolo 63 del codice). Per questi
affidamenti, l'Anac ritiene indispensabile
verificare i requisiti generali dei legali,
in applicazione dell'articolo 80 del codice,
sia pure in forma attenuata.
Gli «altri
servizi legali», tra i quali i servizi di
certificazione o di consulenza, sono
indicati dall'allegato IX e, pertanto, sono
ricompresi nella disciplina del codice, con
una soglia comunitaria di 750.000 euro, in
quanto si applicano gli articoli da 140 e
144 del codice, se sopra soglia. Si può
applicare l'articolo 32, invece, se sotto
soglia
(articolo ItaliaOggi
del 12.04.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comuni,
turn-over al 75%. Alle province 100 mln. Il
pacchetto enti locali.
Sblocco del turnover al 75% per i comuni sopra i 10 mila
abitanti. E 100 milioni per la viabilità delle province e
delle città metropolitane che, come l'anno scorso, potranno
contare su fondi Anas aggiuntivi per far fronte alla
manutenzione delle strade e su misure sblocca-investimenti
per l'edilizia scolastica.
Il capitolo enti locali del decreto legge che contiene la
manovra correttiva dei conti pubblici, oltre a misure per lo
sviluppo e a favore dei territori colpiti da eventi sismici,
fa di sicuro felici i sindaci dell'Anci che avevano posto
l'innalzamento del limite al turn-over del personale (oggi al
25% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente) come
condizione irrinunciabile per la crescita dei territori e
per lo svecchiamento degli organici.
Ad annunciare le misure nella conferenza stampa successiva
al consiglio dei ministri che ha varato il decreto legge è
stata il sottosegretario, Maria Elena Boschi. La quale ha
detto chiaramente che le norme sugli enti locali contenute
nel provvedimento, approvato «salvo intese» dal cdm,
rappresentano solo «una prima parte del lavoro», lasciando
intendere che molto possa essere ancora fatto nel cammino
parlamentare del decreto.
Per il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decaro,
l'annuncio dello sblocco del turnover «è un grande successo
dei sindaci» che con personale nuovo e dipendenti più
giovani potranno «adoperarsi con più energie per il rilancio
del Paese». «I progetti e perfino le risorse, l'abbiamo
detto molte volte, non sono sufficienti se non si dispone di
personale che li porti avanti. I comuni hanno già dato
molto, tagliando il costo del personale molto di più di
tutte le altre articolazioni dello Stato. È finalmente
arrivato il tempo in cui ci si restituisce qualcosa», ha
concluso il presidente Anci.
L'innalzamento della soglia di turnover al 75% dovrebbe
riguardare i comuni con più di 10 mila abitanti che ad oggi
potevano assumere solo un nuovo dipendente ogni quattro
lavoratori fuoriusciti.
Per gli enti con meno di 10 mila abitanti, infatti, il
turnover è già al 75% ma solo se il rapporto medio
dipendenti-popolazione è inferiore a quello stabilito per
gli enti in dissesto. Per questi municipi, l'Anci aveva
chiesto che il decreto enti locali portasse in dote un
innalzamento della soglia al 100%, riconoscendo quindi una
capacità assunzionale piena di cui oggi godono pochissimi
enti, ossia quelli sotto i 1.000 abitanti, le unioni e i
comuni istituiti a seguito di fusione.
Per capire se ci sarà
anche questo nel decreto legge, e quindi se i sindaci
potranno festeggiare due volte, bisognerà leggere il testo
della manovra
(articolo ItaliaOggi del 12.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Recupero
dei seminterrati, contano epoca e livello. Le norme
regionali considerano data di costruzione e struttura dei
locali.
Urbanistica. Oltre alla Lombardia, sette Regioni regolano il
riuso a fini abitativi o commerciali.
La Lombardia è
l’ottava regione a disciplinare il recupero dei vani e dei
locali seminterrati. Con la legge regionale 10.03.2017
n. 7 essa si aggiunge a Basilicata, Calabria, Friuli
Venezia Giulia, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.
La
motivazione ricorrente delle normative regionali approvate
su questa materia è che dell’utilizzo di questi spazi è un
modo per contenere il consumo di suolo, che si avrebbe,
altrimenti, con la costruzione di nuovi edifici. A questa
giustificazione di base in qualche caso se ne aggiungono
altre. La legge lombarda si propone anche di favorire
l’installazione di impianti tecnologici, il contenimento dei
consumi energetici (obiettivi condivisi anche con la
normativa pugliese), e delle emissioni in atmosfera.
Le leggi delle Regioni che per prime intervennero sulla
materia furono tutte approvate nei primi anni 2000, con una
forte concentrazione tra il 2005 e il 2010. Dalla loro
entrata in vigore, alcune di esse sono state, però, soggette
a più di un intervento di manutenzione, anche recente, con
modifiche relative ai vincoli e ai requisiti necessari per
poter fruire degli interrati e dei seminterrati come
abitazioni o per lo svolgimento di attività terziarie e
commerciali.
In Basilicata, Calabria, Puglia e Sicilia gli ultimi
interventi di restyling sono stati fatti nel 2016, mentre in
Molise sulla legge del 2008 si sono rimesse le mani
all’inizio di quest’anno.
I locali recuperabili
Le leggi regionali in alcuni casi (Basilicata Calabria e
Puglia) consentono il recupero dei volumi di locali posti
sia ai piani seminterrati sia a quelli interrati. In altre
invece (Lombardia) è possibile recuperare solo i
seminterrati.
La definizione di cosa debba intendersi per piano interrato
o seminterrato è dettagliata in misura differente da Regione
a Regione. Nella legge lombarda l’individuazione di piano
seminterrato è generica: è quello il cui pavimento si trova
in parte sotto la quota del terreno posto in aderenza
all’edificio e il cui soffitto si trova sopra tale quota.
In altre la collocazione dei piani è più dettagliata. In
Calabria, Puglia, Molise e Basilicata, per esempio, è
considerato seminterrato il piano la cui superficie laterale
è contro terra per una percentuale non superiore ai due terzi
della superficie laterale totale; superata questa
percentuale il piano è considerato interrato.
La distinzione è importante nei casi in cui la legge
regionale fa distinzione tra le destinazioni d’uso dei
locali recuperati. In Calabria, per esempio, possono
diventare abitazioni solo i seminterrati, mentre possono
essere utilizzati per ospitare attività commerciali sia i
semi che gli interrati.
La costruzione dell’immobile
Uno dei vincoli più frequenti fissati dalle leggi riguarda
la data in cui l’edificio deve risultare esistente affinché
si possa ampliare l’uso dei locali che sono stati realizzati
totalmente o in parte sottoterra. È uno dei paletti più
importanti per disegnare i confini entro cui si possono
applicare benefici previsti dalle norme regionali.
Fatta eccezione per la Calabria, le altre Regioni che negli
anni scorsi hanno disciplinato il recupero dei seminterrati
inizialmente fecero coincidere la data di esistenza
dell’immobile con quella di entrata in vigore delle
rispettive leggi. Nel tempo però questo termine è stato
spostato in avanti.
La Basilicata lo ha portato al 31.12.2013 e la Puglia
al 30 giugno di quello stesso anno. La legge di bilancio
della regione Molise l’ha fissato al 31.12.2016 purché
a quella data risultasse ultimata l’intera struttura
portante dell’edificio, e fosse regolarmente certificata e
realizzata nel rispetto delle normative vigenti oppure fosse
stata preventivamente sanata.
La Calabria ha disciplinato il recupero dei vani interrati e
seminterrati con la legge sul piano casa del 2010. Per il
recupero non sembra, però, aver posto alcun limite legato
alla data di costruzione , come invece ha fatto per gli
interventi di demolizione e ricostruzione agevolati.
Infine, la legge della Lombardia consente il recupero dei
vani e locali seminterrati esistenti o per i quali sia stato
ottenuto il titolo abilitativo entro il termine (120 giorni
dall'entrata in vigore della legge) concessi ai Comuni per
limitare l'applicazione delle norme. Ma le date che verranno
fuori nei singoli Comuni non delimiteranno definitivamente
gli ambiti di applicazione. La legge, infatti, si applicherà
anche agli immobili costruiti successivamente a tali date
dopo che saranno decorsi cinque anni dall'ultimazione dei
lavori (articolo Il Sole 24 Ore del 10.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: È
responsabilità solidale bis. Subito causa al committente
invece che all'appaltatore. Lo
prevede il dl n. 25/2017 (decreto che ha abrogato i voucher)
in vigore dal 17 marzo.
Ritorno al passato per la responsabilità solidale negli
appalti. Che vuol dire, però, più tutele a favore dei
lavoratori. Dal 17 marzo committenti e appaltatori sono di
nuovo sullo stesso piano nei confronti dei lavoratori che
vantino diritti non riconosciuti per il lavoro prestato in
un appalto (mancato pagamento di paghe e contributi): i
lavoratori possono immediatamente far causa al committente,
invece che all'appaltatore, cosa restata impossibile fino al
16 marzo (occorreva prima chiamare in giudizio l'appaltatore
e solamente se non c'era soddisfacimento della pretesa si
poteva denunciare il committente).
La novità è prevista dal dl n. 25/2017, in vigore dal 17
marzo.
La responsabilità solidale.
È una speciale forma di garanzia dei diritti dei lavoratori
dipendenti occupati nell'ambito di appalti, disciplinata in
generale dal codice civile (art. 1676) e nel particolare dal
dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi del lavoro). L'ambito di
applicazione della responsabilità solidale è oggi, però, più
ampio e comprende anche i compensi e gli obblighi
contributivi e assicurativi dovuti nei confronti dei
lavoratori titolari di contratti di lavoro autonomo
parasubordinato (co.co.co. ecc.).
Le regole fino al 16 marzo.
La disciplina particolare rimasta vigente fino al 16 marzo
(art. 29, comma 2, del citato dlgs n. 276/2003) prevedeva,
quale forma di tutela dei lavoratori, l'obbligazione
solidale tra il committente, imprenditore o datore di
lavoro, e l'appaltatore, nonché di ciascuno degli eventuali
subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, in relazione alle retribuzioni (comprese le
quote di trattamento di fine rapporto lavoro, tfr), ai
contributi e ai premi assicurativi dovuti in relazione al
periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Per le eventuali sanzioni civili, invece, risponde solo il
responsabile dell'inadempimento. Tale disciplina stabiliva,
tra l'altro, che il committente fosse chiamato in giudizio
per il pagamento assieme all'appaltatore ed eventuali
subappaltatori, il quale (committente) poteva eccepire a
propria difesa il beneficio della preventiva escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori. In tal caso il giudice accertava la
responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione
esecutiva poteva essere intentata nei confronti del
committente soltanto dopo l'infruttuosa escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali
subappaltatori.
Le regole dal 17 marzo.
Il dl n. 25/2017 (è lo stesso decreto che ha abrogato il
lavoro accessorio, i voucher), all'art. 2, modifica la
disciplina della responsabilità solidale abrogato all'art.
29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 le norme che disponevano:
a) la possibilità, per i contratti collettivi, di derogare al
principio della responsabilità solidale tra committente e
appaltatore, qualora la contrattazione collettiva avesse
individuato delle procedure di controllo e verifica della
regolarità complessiva degli appalti (comma 1, lett. a);
b) il beneficio della preventiva escussione del patrimonio
dell'appaltatore, in base al quale, (ferma restando la
responsabilità solidale per cui sono comunque chiamati in
giudizio in via congiunta), la possibilità di intentare
l'azione esecutiva nei confronti del committente era
esercitabile solo dopo l'infruttuosa escussione del
patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori
(comma 1, lett. b).
In pratica, la modifica normativa aumenta le tutele dei
lavoratori. Infatti, nel caso non abbiano ricevuto il
corretto pagamento di paghe e/o contributi, possono decidere
liberamente di agire anche subito nei confronti del
committente, senza avere l'obbligo (vigente fino al 16
marzo) di passare per la previa escussione dell'appaltatore
o subappaltatore.
---------------
Quattordici anni di passi avanti e passi
indietro da parte del legislatore
La disciplina
della responsabilità solidale è stata oggetto di particolare
attenzione e cura da parte del legislatore. Si parte
dall'art. 29, comma 2, del decreto di riforma Biagi (dlgs n.
276 del 2003), il cui testo originario sanciva l'obbligo
solidale, tra committente (imprenditore o datore di lavoro)
e l'appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione
dell'appalto, alla corresponsione ai lavoratori dei
trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali
dovuti. Ma in questi quattordici anni sono numerose le
modifiche. Vediamo:
a) l'art. 6, comma 1, del dlgs 251/2004 introduce la possibilità di
derogare alla responsabilità solidale da parte dei contratti
collettivi (stipulati da associazioni dei datori e
prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative);
b) l'art. 1, comma 911, della legge n. 296/2006 dispone che la
responsabilità solidale opera entro il limite di due anni
dalla cessazione dell'appalto, e che la stessa vale anche
per ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori (non
solo quindi nei confronti del committente imprenditore o
datore di lavoro e dell'appaltatore). Oltre a ciò, sopprime
il riferimento a eventuali diverse previsioni contenute nei
contratti collettivi;
c) l'art. 21, comma 1, del dl n. 5/2012 specifica: 1) che le
retribuzioni da corrispondere ai lavoratori s'intendono
comprensive delle quote di trattamento di fine rapporto; 2)
che oltre ai contributi previdenziali devono essere
corrisposti anche i premi assicurativi dovuti in relazione
al periodo di esecuzione del contratto di appalto; 3) che
resta escluso qualsiasi obbligo solidale per le sanzioni
civili, di cui risponde pertanto solo il responsabile
dell'inadempimento;
d) l'art. 1 della legge n. 35/2012 (di conversione del predetto dl
n. 5/2012) prevede che, se chiamato in causa per il
pagamento assieme all'appaltatore, il committente
imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima
difesa, il beneficio della preventiva escussione del
patrimonio dell'appaltatore medesimo. In tal caso, il
giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli
obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei
confronti del committente imprenditore o datore di lavoro
soltanto dopo un'infruttuosa escussione del patrimonio
dell'appaltatore. L'eccezione può essere sollevata anche se
l'appaltatore non è stato chiamato in giudizio, ma in tal
caso il committente imprenditore o datore di lavoro deve
indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore su cui il
lavoratore può agevolmente soddisfarsi. Il committente
imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il pagamento
può esercitare l'azione di regresso nei confronti del
coobbligato;
e) l'art. 4, comma 31, della legge n. 92/2012 (la c.d. riforma
Fornero) dispone che: 1) la responsabilità solidale vale,
salva diversa previsione delle norme della contrattazione
collettiva, nell'ambito di metodi e procedure di controllo e
di verifica della regolarità complessiva degli appalti; 2)
il committente (imprenditore o datore di lavoro) è sempre
convenuto in giudizio unitamente all'appaltatore; 3)
l'eccezione di preventiva escussione esercitata da parte del
committente (come in precedenza previsto) deve riguardare
non solo il patrimonio dell'appaltatore, ma anche quello di
eventuali subappaltatori; 4) in ogni caso il committente non
è tenuto (come in precedenza previsto) a indicare i beni del
patrimonio dell'appaltatore su cui il lavoratore può
soddisfarsi; 5) l'azione esecutiva può essere intentata nei
confronti del committente non solo dopo l'infruttuosa
escussione del patrimonio dell'appaltatore (come in
precedenza previsto), ma anche dopo l'infruttuosa escussione
di quello di eventuali subappaltatori;
f) l'art. 28, comma 2, del dlgs n. 175/2014 stabilisce l'obbligo,
per il committente che ha effettuato il pagamento, di
assolvere gli obblighi del sostituto d'imposta ai sensi
delle disposizioni del dpr n. 600/1973
(articolo ItaliaOggi Sette del 10.04.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento
acustico all'angolo. Due decreti
pubblicati ieri in Gazzetta Ufficiale.
Una stretta contro l'inquinamento acustico. Sulla Gazzetta
Ufficiale n. 79 di ieri sono stati pubblicati due decreti
legislativi in materia.
Si tratta del dlgs 17.02.2017,
n. 41 «Disposizioni per l'armonizzazione della normativa
nazionale in materia di inquinamento acustico con la
direttiva 2000/14/Ce e con il regolamento (Ce) n. 765/2008,
a norma dell'articolo 19, comma 2, lettere i), l) e m) della
legge 30.10.2014, n. 161» e del dlgs 17.02.2017,
n. 42 «Disposizioni in materia di armonizzazione della
normativa nazionale in materia di inquinamento acustico, a
norma dell'articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e),
f) e h) della legge 30.10.2014, n. 161».
Ambedue
entreranno in vigore il 19 aprile prossimo con l'obiettivo
di armonizzare la normativa nazionale con la relativa
disciplina dell'Unione europea. Il decreto di armonizzazione
della normativa nazionale in materia di inquinamento
acustico (articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e),
f) e h)) punta a ridurre le procedure di infrazione
comunitaria aperte nei confronti dell'Italia in materia di
rumore ambientale, operando una razionalizzazione della
tempistica riguardante la trasmissione delle mappe acustiche
e dei relativi piani d'azione, assicurando nel contempo
anche l'informazione del pubblico.
L'intervento normativo,
inoltre, risolve, come spiega una nota di Palazzo Chigi, in
modo definitivo alcune criticità, riguardanti in particolare
l'applicazione dei valori limite, il coordinamento tra i
vari strumenti di pianificazione, nonché la valutazione
dell'impatto acustico nella fase progettuale delle
infrastrutture, al fine del contenimento dell'inquinamento
derivante dal rumore perla salvaguardia della popolazione.
Infine si prevede una specifica disciplina delle attività
fonte di rumore ambientale, fino ad oggi escluse dalla
normativa, quali gli impianti eolici, le aviosuperfici, le
elisuperfici, le idrosuperfici, le attività e discipline
sportive e le attività di autodromi e piste motoristiche. Il
decreto di armonizzazione della normativa nazionale in
materia di inquinamento acustico con la direttiva 2000/14/Ce
e con il regolamento Ce n. 765/2008 razionalizza invece la
disciplina sulle macchine rumorose operanti all'aperto, con
particolare riguardo a quelle importate da Paesi
extracomunitari e poste in commercio nella distribuzione di
dettaglio, affidando la responsabilità in materia agli
importatori presenti sul territorio comunitario.
Il
provvedimento mira anche a raggiungere obiettivi di
semplificazione nei procedimenti di autorizzazione e di
certificazione, anche con una revisione dei requisiti
richiesti agli organismi di certificazione. Viene infine
rafforzata la disciplina sanzionatoria, conferendo ad Ispra
maggiori poteri di accertamento e verifica
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Commissioni
di gara fai-da-te. La nomina continua a essere di competenza
delle p.a.. Cantone: albo e
regolamento in stand-by in attesa del correttivo al codice
appalti
La nomina delle commissioni giudicatrici nelle gare
d'appalto continua ad essere di esclusiva spettanza delle
pubbliche amministrazioni. Questo almeno fino a quando non
sarà entrato a regime l'Albo dei commissari di gara previsto
dal Codice appalti (art. 78 del dlgs n. 50/2016), a sua
volta congelato fino all'emanazione dell'apposito
regolamento Anac, pure questo messo in stand-by fino
all'approvazione definitiva del decreto correttivo del
codice.
Insomma, un congelamento a catena che lascia, per il
momento, tutto come prima.
Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale
anticorruzione, ha sentito il bisogno di predisporre un
apposito comunicato a seguito delle numerose richieste di
chiarimenti giunte proprio sull'iscrizione all'Albo dei
commissari.
Nel comunicato, approvato dal Consiglio dell'Anac
nell'adunanza del 22 marzo e depositato il 3 aprile, Cantone
sgombra il campo da ogni dubbio e chiarisce a beneficio
delle amministrazioni e degli operatori pubblici e privati
che «la nomina della commissione aggiudicatrice continua a
essere di esclusiva spettanza delle p.a. secondo regole di
organizzazione, competenza e trasparenza preventivamente
individuate».
Come si ricorderà, lo scorso 16 novembre sono state emanate
(con determinazione n. 1190 pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale del 03/12/2016, n. 283), le linee guida Anac (n.
5/2016) per la scelta dei commissari di gara e l'iscrizione
degli esperti nell'Albo nazionale dei componenti delle
commissioni giudicatrici. In quella sede l'Anac ha chiarito
che l'entrata in vigore dell'Albo è stata rinviata
all'adozione del Regolamento che dovrà disciplinare le
procedure informatiche per garantire la casualità della
scelta dei commissari, la corrispondenza delle
professionalità richieste, la rotazione degli esperti,
nonché le modalità di comunicazione tra l'Autorità, le
stazioni appaltanti e i commissari di gara.
Ad oggi però tale regolamento non è stato adottato e le
ragioni, ammette l'Anac, vanno ricercate anche nel fatto che
l'istituto è tra quelli oggetto di correzione ad opera del
decreto correttivo. Che infatti modifica in modo
significativo l'art. 78 del Codice prevedendo che l'Albo
venga articolato su base regionale. Il dlgs correttivo
prevede inoltre che, accanto alle sedute pubbliche, che
restano la modalità di funzionamento ordinaria per le
commissioni giudicatrici, possano essere previste anche
sedute riservate «per la valutazione delle offerte
tecniche e per altri eventuali adempimenti specifici»
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Commissione
Ue: subappalti senza nessuna limitazione.
Nessuna limitazione al subappalto perché sarebbe
incompatibile con la normativa europea.
Lo afferma la direzione generale Mercato interno della
Commissione europea rispondendo all'esposto presentato
dall'Ance, l'Associazione nazionale dei costruttori edili, e
indirizzato al segretario generale della Commissione,
Alexander Italianer.
La risposta di Bruxelles giunge nel
pieno del dibattito parlamentare sullo schema di decreto
correttivo del codice appalti che a sua volta modifica
l'articolo 105 del decreto 50/2016 oggetto dell'esposto. Il
correttivo prevede, ad esempio, che il limite del 30% alla subappaltabilità delle lavorazioni non si applichi più a
tutte le lavorazioni, ma sia limitato alla cosiddetta
«categoria prevalente», così come era previsto nel «codice
De Lise» del 2006.
Ed è proprio sulla questione dei limiti
che si sofferma Lowri Evans, direttore della Dg mercato
interno, rilevando che la «Corte di giustizia, interpretando
le disposizioni appena descritte (in particolare l'articolo
71 della direttiva 2014/24, ndr) ha ripetutamente censurato
i limiti imposti dagli Stati membri al subappalto» chiarendo
che «le restrizioni al subappalto per l'esecuzione di parti
essenziali del contratto sono consentite soltanto quando
l'amministrazione aggiudicatrice non è stata in grado di
controllare le capacità tecniche e finanziarie dei
subappaltatori in occasione della valutazione delle offerte
e della selezione del miglior offerente».
La Commissione
ricorda quindi che in un caso in cui si discuteva di un
limite minimo del 25% all'esecuzione da parte
dell'appaltatore con mezzi propri la giurisprudenza europea
aveva affermato che è incompatibile con le direttive europee
sugli appalti pubblici «una clausola che impone limitazioni
al ricorso a subappaltatori per una parte dell'appalto
fissato in maniera astratta in una determinata percentuale
dello stesso e ciò a prescindere dalla possibilità di
verificare le capacità di eventuali subappaltatori».
Nella
lettera si evidenzia che l'articolo 105 dell'attuale Codice
«sembra creare un sistema in cui il subappalto è in generale
vietato» per cui la Direzione generale evidenzia che «tali
meccanismi sono prima facie molto preoccupanti» e «in netto
contrasto con le norme e con la giurisprudenza Ue sopra
esposte».
In sostanza la disciplina italiana andrebbe a
cozzare («sono in contraddizione») con alcuni obiettivi
perseguiti dalle direttive europee fra cui, si legge nella
lettera di Evans, quelli in tema di libera prestazione dei
servizi, libera circolazione delle merci e di libertà di
stabilimento, oltre che di favor alla partecipazione agli
appalti pubblici da parte delle piccole e medie imprese.
Anche la norma sul limite di ribasso del 20% per le
prestazioni affidate in subappalto (comma 14 dell'articolo
105) non mancano critiche: «La disposizione rischia di
generare irregolarità in fase applicativa e sarebbe
opportuno chiarirne la formulazione intervenendo nel testo»
(articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: Videosorveglianza
in casa non soggetta alla privacy.
Il privato che installa un impianto di videosorveglianza per
finalità esclusivamente personali non è soggetto alle
disposizioni del codice privacy. Purché gli impianti non
riprendano anche le aree pubbliche in maniera
indiscriminata.
Lo ha chiarito il Garante della privacy con il
parere
07.03.2017 n.
113990 di prot. (tratto da
www.dirittoegiustizia.it).
Un comune ha ricevuto un esposto da parte di un cittadino
con tanto di immagini di un reato accadute sulla pubblica
via. A seguito del conseguente sopralluogo per gli
accertamenti del caso la polizia municipale ha inoltrato una
richiesta di chiarimenti al garante circa l'applicazione del
codice privacy ed eventuali irregolarità nella gestione
delle telecamere da parte del privato cittadino.
Nel richiamare il provvedimento generale dell'autorità
08.04.2010, in corso di aggiornamento, il garante ha
innanzitutto evidenziato che «se l'installazione di
sistemi di videosorveglianza viene effettuata da persone
fisiche per fini esclusivamente personali, la disciplina del
codice non trova applicazione qualora i dati non siano
comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi,
risultando comunque necessaria l'adozione di cautele a
tutela dei terzi».
In buona sostanza, prosegue il parere, l'uso delle
telecamere di sorveglianza è possibile a protezione delle
persone e delle proprietà, con o senza registrazione delle
immagini, ma senza riprendere aree esterne soggette a
pubblico passaggio. O perlomeno in questo caso limitando
l'angolo visuale della telecamera oppure oscurando le
riprese delle zone pubbliche. Quindi per installare sistemi
di videosorveglianza privata sull'ingresso di casa, sui muri
perimetrali e nelle aree private non serve alcuna
autorizzazione. E i tempi di conservazione delle immagini
risultano illimitati, senza necessità di applicare cartelli
informativi.
Ma se le telecamere riprendono anche aree pubbliche sarà
necessario adottare particolari cautele per non incorrere in
sanzioni, anche nel rispetto delle indicazioni della Corte
di giustizia europea secondo cui l'uso privato di un sistema
di videosorveglianza è libero. Ma se gli impianti riprendono
spazi pubblici occorrere rispettare integralmente il codice
privacy
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2017). |
APPALTI: Nomine
Rup, novembre spartiacque sui requisiti.
Chiarimento Mit sul responsabile unico del
procedimento.
Se il responsabile unico del procedimento è stato nominato
prima del 22.11.2016 non sarà tenuto al possesso dei
requisiti previsti dalle linee guida Anac 3/2016; si
applicheranno comunque le norme del vecchio regolamento del
Codice appalti del 2006.
È quanto emerge dalla risposta fornita dal sottosegretario
alle infrastrutture e trasporti, Umberto Del Basso De Caro,
a una interrogazione parlamentare
(INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/10777)
presentata da Claudia
Mannino del M5S avente ad oggetto le linee guida n. 3
recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del
procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni»,
entrate in vigore il 22.11.2016, data di pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale prevista dall'art. 213, comma 2.
In
un chiarimento, l'Anac aveva spiegato che nuove linee guida
«si applicano alle procedure per le quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano pubblicati successivamente all'entrata in vigore delle
citate linee guida, nonché alle procedure e ai contratti in
relazione ai quali, alla data di entrata in vigore delle
suddette, non siano ancora stati inviati gli inviti a
presentare le offerte».
Il problema segnalato nell'interrogazione parlamentare
atteneva ai casi in cui «un responsabile unico del
procedimento, designato sulla base delle previgenti
disposizioni e che abbia provveduto allo svolgimento delle
attività connesse al suo incarico, non sia in possesso degli
attuali requisiti previsti dalle linee guida e, di
conseguenza, non risulti più idoneo a ricoprire il ruolo
precedentemente affidatogli». Si tratta di un caso tipico di
diritto transitorio incerto che mette in discussione la
validità della nomina del Rup, senz'altro foriero di
problemi soprattutto per le piccole stazioni appaltanti.
Uno degli elementi qualificanti le nuove linee guida è
infatti la richiesta che il Rup sia «in possesso di titolo
di studio e di esperienza e formazione professionale
commisurati alla tipologia e all'entità dei lavori da
affidare»; inoltre, «per appalti di particolare complessità
il Rup deve possedere anche la qualifica di project
manager».
Sul punto il ministero delle infrastrutture, che
ha sentito l'Anac per poi specificare che «le indicazioni
fornite con le linee guida n. 3/2016 e il chiarimento già
dettato in ordine all'entrata in vigore delle linee guida
vale nei casi in cui la nomina del Rup sia intervenuta
contestualmente all'atto di avvio della procedura di gara».
Se invece la nomina del Rup è precedente l'indizione della
procedura «deve ritenersi applicabile il principio del tempus regit actum» e quindi «per tali nomine valgono i
requisiti previsti dal quadro normativo vigente al momento
in cui le stesse sono state effettuate (art. 9 del dpr n.
207 del 2010). Resta inteso che condizione di validità delle
nomine ricadenti sotto il previgente regime è costituita dal
rispetto dei requisiti previsti dalla normativa previgente».
Nella sostanza, quindi al Rup nominato prima del 22 novembre
non si applicano i nuovi requisiti e quindi si continua ad
applicare la previgente disciplina regolamentare, ancorché
abrogata che al comma 4 dell'articolo 9 prevedeva che fosse
un tecnico abilitato alla professione o un funzionario
tecnico con anzianità di servizio di almeno cinque anni
(articolo ItaliaOggi del 17.03.2017). |
GIURISPRUDENZA |
INCARICHI PROFESSIONALI: Parcelle,
riduzioni inderogabili. Per gli avvocati da
chiarire le eccezioni ai limiti minimi. Il
parere del Consiglio di stato sul decreto
ministeriale relativo ai parametri forensi.
Compensi dell'avvocato con soglie di
riduzione inderogabili.
È il Consiglio di Stato, con
parere 27.12.2017 n. 2703 sul
nuovo dm parametri (Schema di decreto del
Ministro della giustizia recante “modifiche
al decreto del Ministro della giustizia
10.03.2014, n. 55, concernente la
determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi per la professione
forense ai sensi dell’articolo 13, comma 6,
della legge 31.12.2012, n. 247”), a
invitare il ministero della giustizia a
specificare meglio la norma che riguarda la
tematica della fissazione delle soglie
minime non derogabili ai compensi da parte
degli organi giudicanti.
Le modifiche introdotte al dm n. 55 del
2014, infatti, secondo Palazzo Spada non
sono chiare nella loro formulazione perché
lasciano possibili spazi interpretativi
sull'applicazione della locuzione «di
regola» anche alle riduzioni percentuali
dei valori di base dei parametri. La stessa
locuzione, invece, secondo quanto riferito
da via Arenula, dovrebbe applicarsi
esclusivamente agli aumenti percentuali dei
parametri forensi.
Inoltre, tra le rilevazioni formulate dal
Consiglio di stato allo schema di decreto
del ministero della giustizia recante «modifiche
al dm 10.03.2014, n. 55, concernente la
determinazione dei parametri per la
liquidazione dei compensi per la professione
forense», via Arenula avrebbe accolto
solo in parte le proposte di modifica al
vecchio dm avanzate dal Consiglio nazionale
forense, non esplicitando le ragioni in base
alle quali ha proceduto in tal senso.
La motivazione delle scelte, al contrario,
secondo il Consiglio di stato sarebbe stata
opportuna per comprendere l'iter
logico-giuridico seguito
dall'Amministrazione nel predisporre
l'intervento normativo. E ciò anche in
considerazione del fatto che alcune delle
proposte avanzate, come quella concernente
la necessità di adeguare i parametri di
remunerazione relativi alla fase decisoria
dinanzi al Consiglio di stato, atteso che
questi ultimi risultano inferiori rispetto
ai parametri previsti per i giudizi dinanzi
ai Tar, appaiono razionali.
In terzo luogo, Palazzo Spada rileva che le
disposizioni, nel recepire alcune delle
proposte formulate dal Cnf, risultano
adeguate al raggiungimento degli obiettivi
fissati dallo stesso ministero della
giustizia, ma la bontà del provvedimento
potrà essere compiutamente valutata solo in
seguito alla concreta applicazione della
normativa, attraverso l'esame e il
monitoraggio da parte di via Arenula, con il
contributo del Cnf, delle procedure di
liquidazione impugnate dinanzi ai competenti
organi giurisdizionali per via del mancato
rispetto dei parametri previsti dalla legge.
Infine, il Consiglio di stato suggerisce al
ministero di valutare la possibilità di
suddividere l'articolo 1 dello schema di
decreto in più articolo, ciascuno recante le
modifiche a un singolo articolo del dm n.
55/2014
(articolo ItaliaOggi del
30.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo il diniego di installazione di una stazione
radio-base in prossimità di parco pubblico.
Il diniego opposto dal Comune alla
installazione della stazione radio base deve ritenersi
conforme alla disposizione di cui all’art. 4, comma 8, della
l.r. n. 11/2001 (nella formulazione risultante a seguito
della sentenza della Corte Costituzionale n. 331/2003), alla
cui stregua: “È comunque vietata l’installazione di impianti
per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione in
corrispondenza di asili, edifici scolastici, nonché
strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali,
carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi e strutture
similari, e relative pertinenze … [omissis]”.
L’impianto di cui è causa, infatti, dovendo essere
installato, come da progetto, a soli 5 metri dal confine del
parco, verrebbe a collocarsi nelle immediate adiacenze dello
stesso, ossia “in corrispondenza” di esso, secondo
un’interpretazione di tale ultima espressione che tenga
conto, necessariamente, della ratio della norma de qua (che
verrebbe inevitabilmente frustrata qualora si consentisse
l’installazione di impianti SRB nelle immediate adiacenze
esterne ai siti sensibili) oltre che del tenore letterale
della stessa (attraverso la valorizzazione sia del
significato dell’espressione “in corrispondenza” sia del
riferimento alle “relative pertinenze”).
Per tale ragione, nella fattispecie, non può che trovare
applicazione il richiamato art. 4, comma 8, della l.r. n.
11/2001.
---------------
... per l'annullamento:
- del tacito rigetto dell’istanza relativa all’autorizzazione per
l’installazione di una stazione radio-base in viale Borri n.
392, ai sensi dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003, formatosi
in data 10.4.2013, allo scadere del termine di 30 giorni
decorrente dal ricevimento delle osservazioni presentate
dall’istante, termine indicato nella nota comunale prot.
18271 del 07.03.2013;
...
2.1. L’autorizzazione in questione è stata negata in quanto
l’area di installazione prevista nel progetto si trova a
distanza di 5 metri dal confine di un’area destinata a parco
pubblico.
È pacifico, al riguardo, che il manufatto in progetto
risulta collocato ad una distanza di soli 5 metri dal
confine di un’area (zona urbanistica CC38 del PRG) sulla
quale è prevista (dai vigenti strumenti urbanistici) la
realizzazione di un parco attrezzato ad uso pubblico.
Ciò posto, il diniego opposto dal Comune alla installazione
della stazione radio base deve ritenersi conforme alla
disposizione di cui all’art. 4, comma 8, della l.r. n.
11/2001 (nella formulazione risultante a seguito della
sentenza della Corte Costituzionale n. 331/2003), alla cui
stregua: “È comunque vietata l’installazione di impianti
per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione in
corrispondenza di asili, edifici scolastici, nonché
strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali,
carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi e strutture
similari, e relative pertinenze … [omissis]”.
L’impianto di cui è causa, infatti, dovendo essere
installato, come da progetto, a soli 5 metri dal confine del
parco, verrebbe a collocarsi nelle immediate adiacenze dello
stesso, ossia “in corrispondenza” di esso, secondo
un’interpretazione di tale ultima espressione che tenga
conto, necessariamente, della ratio della norma de
qua (che verrebbe inevitabilmente frustrata qualora si
consentisse l’installazione di impianti SRB nelle immediate
adiacenze esterne ai siti sensibili) oltre che del tenore
letterale della stessa (attraverso la valorizzazione sia del
significato dell’espressione “in corrispondenza” sia
del riferimento alle “relative pertinenze”).
Per tale ragione, nella fattispecie, non può che trovare
applicazione il richiamato art. 4, comma 8, della l.r. n.
11/2001.
2.2. In definitiva, il ricorso è infondato e va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.12.2017 n. 2489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Concorsi,
dare priorità alla progettazione interna.
Cds su bozza aggiornamento linee guida sui
servizi ingegneria.
Coordinare le linee guida sui servizi di
ingegneria e architettura con la legge
sull'equo compenso; priorità alla
progettazione interna prima di utilizzare i
concorsi in casi di rilevanza architettonica
e storico-artistica; chiarire le modalità di
rotazione di inviti e affidamenti negli
affidamenti da 40 mila a 100 mila euro.
Sono questi alcuni dei passaggi del
parere 22.12.2017 n.
2698, positivo, del Consiglio di Stato
-Commissione Speciale- sulla bozza di documento Anac (autorità
anticorruzione) che aggiorna le linee guida
per i servizi di ingegneria e architettura (Aggiornamento
delle linee guida n. 1, di attuazione del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Indirizzi
generali sull’affidamento dei servizi
attinenti all’architettura e all’ingegneria»).
Un passaggio importante del parere riguarda
la materia dei compensi a base di gara. A
tale riguardo, il collegio di Palazzo Spada
ha precisato che la presa d'atto
dell'abrogazione ad opera del decreto
correttivo di cui al dlgs n. 56 del 2017 del
sistema di tariffe minime previsto dall'art.
5 del decreto-legge 22.06.2012, n. 83 va
accompagnata dal necessario coordinamento
con la recente introduzione dell'obbligo di
riconoscere «alle prestazioni rese dai
professionisti in esecuzione di incarichi
conferiti» dalla pubblica
amministrazione un equo compenso ai sensi
dell'art. 19-quaterdecies, comma 3, della
legge 04.12.2017, n.172.
In merito al passaggio delle linee guida in
cui si prevede che l'amministrazione può
ricorrere alle professionalità interne per i
lavori di particolare rilevanza sotto il
profilo architettonico, ambientale,
paesaggistico, agronomico e forestale,
storico-artistico, conservativo e
tecnologico, ai sensi dell'art. 23, comma 2,
dlgs n. 50 del 2016, il parere ha bocciato
questa modifica, riaffermando che la norma
del codice prevede che sia data priorità
alla progettazione interna alla stazione
appaltante nel momento in cui usa il termine
«ricorrono».
Viene poi evidenziata una esigenza di
coordinamento della parte delle linee guida
dedicata al responsabile unico del
procedimento (parte III, par. 5, cpv. 5.2)
con la nuova disciplina dedicata a questa
figura (Linee guida n. 3): in questo caso
sarà l'autorità a valutare se il
mantenimento della stessa disciplina
all'intero delle linee guida sia opportuna.
Per gli affidamenti da 40 mila a 100 mila
euro nel documento Anac si fa riferimento al
principio di rotazione degli inviti anche se
il decreto correttivo ha declinato il
principio di rotazione a volte come «rotazione
degli inviti e degli affidamenti» (art.
36, comma 1, del codice), altre volte
(sempre nel 36 e nel 157) come «rotazione
degli inviti». Pertanto il Consiglio di
stato ha chiesto all'Anac di indicare «le
specifiche modalità di rotazione, chiarendo
in particolare se questa va riferita agli
inviti o anche agli affidamenti».
Viene, inoltre, raccomandato un adeguato
coordinamento con le linee guida sugli
affidamenti sottosoglia, anch'esse in corso
di aggiornamento, ma non ancora sottoposte
al parere di questo Consiglio di Stato.
Il parere valuta positivamente l'inserimento
dei contenuti del comunicato Anac del
23.12.2016 che ha ampliato le tipologie di
attività utilizzabili per qualificarsi alle
gare e, con riguardo alla redazione di
varianti (utili a tale qualificazione),
richiede che siano inserite, oltre a quelle
proposte per appalti integrati, anche quelle
predisposte per le imprese di costruzioni ai
fini delle gare per sola esecuzione
(articolo ItaliaOggi del
29.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessazione degli effetti delle proposte di vincolo formulate
prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 se il
procedimento non si è concluso entro 180 giorni.
---------------
●
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non
concluso – Cessazione degli effetti.
●
Processo amministrativo – Adunanza plenaria – Pronunce –
Effetti - Modulazione portata temporale – Possibilità.
●
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata
in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non
concluso – Cessazione degli effetti – Decorrenza –
Individuazione.
●
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157,
comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e
dell’art. 139, comma 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve
interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente
dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse
pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo
decreto legislativo –come modificato con il d.lgs.
24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa
qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro
180 giorni (1).
●
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la
portata temporale delle proprie pronunce, in particolare
limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle
seguenti condizioni:
a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata
delle disposizioni da interpretare;
b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario
all’interpretazione adottata;
c) la necessità di tutelare uno o più principi
costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni
socio-economiche (2).
●
Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo
preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di
notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla
pubblicazione della presente sentenza dell’Adunanza plenaria
che ha risolto la questione relativa alla cessazione degli
effetti del vincolo preliminare nascente dalle proposte di
dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come
modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs.
26.03.2008, n. 63– qualora il relativo procedimento non si
sia concluso entro 180 giorni (3).
---------------
(1)
La questione era stata rimessa da
Cons. St., sez. IV, ord., 12.06.2017, n. 2838.
L’Alto Consesso ha ricordato che sul punto si erano
manifestati tre diversi orientamenti.
Una prima tesi (che l’Adunanza plenaria ha definito
tesi di “continuità”) ha affermato che le proposte di
vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 conservano efficacia, ancorché i relativi
procedimenti non si sono conclusi nel termine legale, pur
dopo le modifiche all’art. 141 (Cons.
St., sez. VI, 27.07.2015, n. 3663).
La tesi contraria (che l’Adunanza plenaria ha
definito tesi di “discontinuità”) ha postulato la
cessazione degli effetti sulla base del dato
logico-sistematico (Cons.
St., sez. VI, 16.11.2016, n. 4746).
A tale dualismo la Sezione rimettente (sez.
IV, ord., 12.06.2017, n. 2838) ha aggiunto
argomentazioni contrapposte.
Dal lato della tesi della continuità ha richiamato la
sentenza 23.07.1997 n. 262 della Corte costituzionale,
secondo cui “il mancato esercizio delle attribuzioni da
parte dell’amministrazione entro il termine per provvedere
non comporta ex se, in difetto di espressa previsione, la
decadenza del potere, né il venir meno dell’efficacia
dell’originario vincolo. In tali ipotesi, sempre che il
legislatore non abbia attribuito un particolare significato
all’inerzia-silenzio, si verifica un’illegittimità di
comportamenti derivante da inadempimento di obblighi”.
Ha poi evidenziato che la ratio della persistenza
dell’efficacia della proposta di vincolo è la stessa che ha
condotto la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 57 del
2015) e l’Adunanza
plenaria (cfr. sentenza n. 6 del 2015), chiamate
a pronunciarsi sul termine dell’azione risarcitoria
introdotto dall’art. 30, comma 3, c.p.a., ad escludere
l’applicazione di norme che fissano decadenze a rapporti
anteriori, optando per l’ultrattività delle norme
precedenti. Infine, la Sezione rimettente ha superato la
possibile obiezione fondata sul principio di
proporzionalità, atteso che la normativa nazionale di tutela
del paesaggio attiene a una materia che non rientra nelle
competenze dell’Unione (Corte giust. ue, sez. X, 06.03.2014,
C-206/13).
Dal lato della tesi della discontinuità la Sezione
rimettente ha sottolineato che, con i decreti legislativi
24.03.2006, n. 157 e 26.03.2008, n. 63 il legislatore ha
espresso il suo favore verso la cessazione di efficacia del
vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di
conclusione del procedimento, a fronte del quale sempre meno
si giustifica, con il passare del tempo, un’eccezione
relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore
al 2004.
Ha poi contrastato l’argomento letterale, poiché, da un lato
appare dubbio sostenere la violazione del principio di
irretroattività della legge nel caso di procedimenti non
ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o
rapporti giuridici consolidati, dall’altro lato, tra due
possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di
specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile
una interpretazione che tenda ad uniformare il sistema, in
luogo di una interpretazione che produca differenti
applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti)
e, dunque, possibili disparità di trattamento.
L’Adunanza Plenaria ha ritenuto preferibile la tesi
minoritaria della discontinuità, ravvisando tuttavia
l’esigenza di arricchirne (e in parte modificarne) le
argomentazioni e individuarne gli effetti.
La questione, ad avviso dell’Alto Consesso, deve essere
risolta su un altro piano: il rapporto tra (perdita di)
efficacia delle proposte e (perdita di) efficacia del
vincolo preliminare sul bene che ne costituisce oggetto.
Nel ragionamento di entrambi gli orientamenti (c.d. di
continuità e di discontinuità), muovendo dalla tacita
premessa che la proposta di vincolo ha natura dichiarativa,
si ritiene che i due momenti non siano separabili.
L’Adunanza Plenaria ha chiarito, tra l’altro che sul piano
teleologico, la tesi della discontinuità si giustifica alla
luce della considerazione, da parte del legislatore, di una
pluralità di valori costituzionali, quali, oltre quello del
paesaggio, la protezione della proprietà privata (art. 41
Cost., nonché art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU
e quindi art. 117 Cost.), e il buon andamento della Pubblica
amministrazione.
Può ulteriormente aggiungersi che la tesi della continuità
si pone in conflitto con il canone della ragionevolezza,
poiché ammette che il vincolo preliminare possa essere
efficace anche a distanza di numerosi anni dalla proposta,
ancorché da tempo sia stata introdotta nel Codice una
disposizione che ne sancisce la perdita di efficacia.
L’immagine delle “super proposte”, coniate per le
proposte di vincolo più antiche, è uno stratagemma retorico
per evidenziare l’irrazionalità di una soluzione che punti a
conservarne l’effetto vincolante a distanza di molti anni e
al subentrare di una disciplina che ne prevede la decadenza
allo spirare del termine fissato per la conclusione del
procedimento.
Tale argomento non sembra possa essere superato dalla
possibilità, per il privato, di esperire l’azione contro
l’inerzia prevista dal Codice del processo amministrativo.
Ed infatti, gravare il privato dell’onere di agire per la
conclusione di un procedimento d’ufficio, diretto a
vincolare la sua proprietà, appare obiettivamente
paradossale.
(2) Ha chiarito l’Adunanza plenaria che la costante dei cinque
commi in cui si articola l’art. 99 c.p.a. è il principio di
diritto, la cui enunciazione è lo scopo primo (se non unico:
cfr. commi 4 e 5) dell’intervento della Plenaria.
Ciò che nel comune giudizio amministrativo è il contenuto di
accertamento in iure della sentenza, meramente strumentale
alla pronuncia di annullamento (pertanto confinato nella
motivazione e delimitato dal caso concreto), nel giudizio in
Plenaria identifica la pronuncia in sé, con due conseguenze.
La prima conseguenza è il riconoscimento della natura
essenzialmente interpretativa delle pronunce dell’Adunanza
Plenaria, in particolare quando essa ritenga di enunciare il
principio di diritto e di restituire per il resto il
giudizio alla sezione remittente.
Tale carattere consente di operare un (relativo)
parallelismo con le decisioni pregiudiziali della Corte di
giustizia, le quali hanno la stessa efficacia delle
disposizioni interpretate e, pertanto, oltre a vincolare il
giudice che ha sollevato la questione, spiegano i propri
effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba
essere deciso in applicazione delle medesime.
Come le sentenze di annullamento e quelle di
incostituzionalità, anche le sentenze interpretative hanno
efficacia retroattiva, ma per ragioni diverse: non si tratta
di eliminare un atto dal mondo giuridico per vizi genetici o
di dichiarare l’originaria difformità di un legge dalla
fonte superiore, ma di accertare il significato di un
frammento dell’ordinamento giuridico qual era sin dal
momento della sua venuta ad esistenza.
In tali ipotesi la deroga alla retroattività trova
fondamento, più che nel principio di effettività della
tutela giurisdizionale, nel principio di certezza del
diritto: si limita la possibilità per gli interessati di far
valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il
rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute,
in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici
costituiti in buona fede sulla base di una diversa
interpretazione normativa, sempre che risulti che i
destinatari del precetto erano stati indotti ad un
comportamento non conforme alla normativa in ragione di una
obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle
disposizioni (in tal senso, ma con riferimento
all’ordinamento comunitario, Corte di Giustizia, 15.03.2005,
in C-209/03).
A giustificazione dell’assunto vi è anche un dato testuale:
l’art. 113, comma 3, Cost. stabilisce che “La legge
determina quali organi di giurisdizione possono annullare
gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli
effetti previsti dalla legge stessa”. L’interposizione
del legislatore non occorre allorquando via sia un principio
generale dell’ordinamento UE direttamente applicabile che
permetta al giudice amministrativo di pronunciarsi sulla
legittimità degli atti della pubblica amministrazione
modulando gli effetti della propria sentenza, e ciò vale in
particolare quando il giudizio di annullamento presenti uno
spiccato carattere interpretativo.
La seconda conseguenza è la praticabilità della
prospective overruling, in forza della quale il
principio di diritto, affermato in contrasto con
l’orientamento prevalente in passato, non verrà applicato
(con vari aggiustamenti) alle situazioni anteriori alla data
della decisione. La prospective overruling si
esplicita, dunque, nella possibilità per il giudice di
modificare un precedente, ritenuto inadeguato, per tutti i
casi che si presenteranno in futuro, decidendo però il caso
alla sua immediata cognizione in base alla regola superata.
In conclusione: all’Adunanza Plenaria è concessa la
possibilità di limitare al futuro l’applicazione del
principio di diritto al verificarsi delle seguenti
condizioni: a) l’obiettiva e rilevante incertezza circa la
portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza
di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione
adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi
costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni
socio-economiche.
Con riferimento al caso sottoposto al suo esame l’Alto
Consesso ha ritenuto sussistere tutte le condizioni, poiché:
a) il dato letterale è equivoco; b) la tesi della continuità
è prevalente; c) è necessario, a tutela del paesaggio,
evitare la cessazione istantanea di tutti i vincoli
preliminari attualmente esistenti su aree di interesse
naturalistico o culturale.
(3) Avendo ritenuto che le proposte di dichiarazione di notevole
interesse pubblico anteriori al Codice conservino efficacia,
mentre l’effetto preliminare di vincolo che ad esse si
ricollega cessi decorso –senza che il relativo procedimento
si sia concluso– il termine previsto dall’art. 140, comma 1
(180 giorni, che per tali proposte dovrebbe essere calcolato
a partire dal d.lgs. n. 63 del 2008, ovvero dal d.lgs. n.
157 del 2006), la delimitazione al futuro di tale principio
implica che l’effetto preliminare cessi decorsi 180 giorni
dalla pubblicazione della sentenza.
Resta ferma la possibilità del legislatore, in pendenza di
detto termine, di intervenire a disciplinare ex novo
la fattispecie, nel rispetto del principio di ragionevolezza
e dei valori costituzionali difesi dalla tesi della
discontinuità (ad esempio allungando il termine per la
conclusione dei procedimenti in questione del tempo
strettamente necessario al censimento delle proposte
esistenti) (Consiglio
di Stato, Adunanza Plenaria,
sentenza 22.12.2017 n. 13 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Gestione di rifiuti provenienti da
demolizioni edili - Disciplina derogatoria rispetto a quella
ordinaria - Limiti - Riutilizzo quale materiale ammendante o
di riempimento del terreno - Art. 256 d.l.vo n.152/2006 -
Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, la libera disponibilità
dell'area ove sono stati depositati in modo incontrollato i
rifiuti provenienti da demolizioni edili -dei quali, non è
consentita la equiparazione ai materiali da scavo e,
pertanto, la applicazione della relativa disciplina
derogatoria rispetto a quella ordinaria, trattandosi,
invece, di ordinari rifiuti a tutti gli effetti (Corte di
cassazione, Sezione III penale, 06/05/2002, n. 16383), a
meno che gli stessi non siano oggetto di riutilizzo, quale
materiale ammendante o di riempimento del terreno,
nell'ambito spaziale dello stesso cantiere ove essi sono
stati prodotti (Corte di cassazione, Sezione III penale
18/07/2011, n. 28704; idem Sezione III penale, 20/10/2003,
n. 37508)- appare fattore logicamente idoneo a comportare,
sia per la concreta possibilità di reiterazione delle
attività di rilascio di tali rifiuti, sia per il degrado cui
gli stessi in assenza di controllo possono andare incontro,
un aggravamento delle conseguenze del reato; parimenti
dicasi per ciò che attiene alla installazione dei
prefabbricati, per i quali la sottrazione alla disponibilità
evita, evidentemente, sia l'utilizzo dei medesimi che la
installazione in essi delle utenze ai servizi elettrici ed
idrici, operazioni che senza dubbio aggraverebbero le
conseguenze del reato ipotizzato (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.12.2017 n. 57128
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Ritirabile
aggiudicazione provvisoria della gara. Non è
atto d'annullamento in autotutela.
Il ritiro dell'aggiudicazione provvisoria di
una gara per ragioni tecniche non è
equiparabile a un atto di annullamento in
autotutela.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez.
V, con la
sentenza 21.12.2017 n. 6002.
Un comune aveva indetto una gara per
l'affidamento, mediante project financing,
dell'intervento di restauro, consolidamento
e valorizzazione di un convento. Alla gara
aveva partecipato un raggruppamento che
aveva presentato un progetto che prevedeva,
tra l'altro, la realizzazione di un
parcheggio interrato. Il raggruppamento, poi
risultato aggiudicatario provvisorio, si era
vista annullata l'aggiudicazione provvisoria
in quanto l'intervento proposto (parcheggio)
comportava un elevato rischio di frane.
La mancata realizzazione delle nuove
volumetrie entro terra da destinare a garage
avrebbe dovuto comportare inevitabilmente
una riformulazione del piano economico
finanziario il che rendeva impossibile
procedere all'espletamento della gara. Il
concorrente impugnava il ritiro
dell'aggiudicazione ma il Consiglio di stato
confermava la legittimità dell'operato del
comune e con essa anche la sentenza di primo
grado.
Nella sentenza si premette che
l'aggiudicazione provvisoria ha natura di
atto endoprocedimentale che non crea
affidamenti in capo al concorrente
interinalmente individuato come
aggiudicatario; si tratta infatti di un atto
che può anche non essere seguito
dall'aggiudicazione definitiva, la quale,
concludendo il procedimento di gara, crea le
condizioni necessarie per l'avvio della
successiva fase contrattuale.
Pertanto, fino al momento
dell'aggiudicazione definitiva la stazione
appaltante può sempre riesaminare il
procedimento di gara al fine di emendarlo da
eventuali errori commessi o da illegittimità
verificatesi, senza che ciò costituisca
manifestazione, in senso tecnico, del potere
di autotutela, il quale, avendo natura di
atto di secondo grado, presuppone esaurita
la precedente fase procedimentale con
l'intervenuta adozione del provvedimento
conclusivo della stessa.
Ne consegue che il provvedimento di ritiro
di un atto infraprocedimentale, quale
l'aggiudicazione provvisoria, non soggiace
alla disciplina dettata per gli atti di
autotutela
(articolo ItaliaOggi del
29.11.2017).
----------------
MASSIMA
Le censure così sinteticamente
riassunte, che si prestano ad una
trattazione congiunta, non meritano
accoglimento.
Occorre in primo luogo rilevare che il
tribunale amministrativo ha escluso che nel
caso di specie fosse configurabile
un’aggiudicazione definitiva sulla base
della seguente motivazione: <<la
connotazione (ancora) provvisoria
dell’effetto di aggiudicazione maturato in
capo al R.T.I. costituendo tra le società
Ma.Re. s.r.l. e Ca. di Li. s.r.l., sul quale
incide l’impugnato provvedimento di
annullamento, è insita nel disposto
dell’art. 95, comma 4, del bando da cui è
scaturito il procedimento di gara, ai sensi
del quale “l’efficacia dell’aggiudicazione
definitiva e la stipula del contratto sono
subordinate all’ottenimento dei pareri
tecnici e amministrativi inerenti
l’intervento…”>>.
Tale dirimente rilievo non è stato fatto
oggetto di specifica critica da parte
dell’appellante e vale a rendere
inconferente la censura prospettata con
esclusivo riferimento all’asserita
violazione del comma 1 del medesimo art. 95,
posto che il giudice di prime cure ha basato
il proprio ragionamento su una diversa norma
(per l’appunto l’art. 95, comma 4).
Sul presupposto ormai divenuto, alla luce
delle illustrate considerazioni,
incontestabile che l’aggiudicazione in
favore del RTI Ma.Re./Ca. di Li. non avesse
ancora assunto i connotati della
definitività, risultano infondate tutte le
doglianze volte a lamentare la violazione di
norme e principi che regolano l’esercizio
dei poteri di autotutela.
Ed invero, per consolidato orientamento
giurisprudenziale,
l’aggiudicazione provvisoria ha natura di
atto endoprocedimentale inidoneo a creare
affidamenti in capo al concorrente
interinalmente individuato come
aggiudicatario, rientrando nella fisiologia
degli eventi la possibilità che ad essa non
segua l’aggiudicazione definitiva, la quale,
concludendo il procedimento di gara, crea le
condizioni necessarie per l'avvio della
successiva fase contrattuale
(Cons. Stato, Sez. V, 03/07/2017, n. 3248).
Sino al momento
dell’aggiudicazione definitiva la stazione
appaltante può sempre riesaminare il
procedimento di gara al fine di emendarlo da
eventuali errori commessi o da illegittimità
verificatesi, senza che ciò costituisca
manifestazione, in senso tecnico, del potere
di autotutela, il quale, avendo natura di
atto di secondo grado, presuppone esaurita
la precedente fase procedimentale con
l’intervenuta adozione del provvedimento
conclusivo della stessa.
Ne consegue che il
provvedimento di ritiro di un atto
infraprocedimentale, quale l’aggiudicazione
provvisoria, non soggiace alla disciplina
dettata per gli atti di autotutela
(ex plurimis Cons. Stato, Sez. V,
20/04/2012, n. 2338; Sez. III, 04/09/2013 n.
4433). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comma 1 dell’art.
9 L. 24/03/1989 n. 122, per quanto qui
rileva, dispone che: “I proprietari di
immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti”.
La possibilità, ivi contemplata, di
realizzare parcheggi pertinenziali in deroga
alla normativa urbanistica, finalizzata ad
agevolarne la costruzione con l’obiettivo di
preminente interesse pubblico di
decongestionare i centri urbani dal
traffico, costituisce disposizione di
carattere eccezionale da interpretarsi in
senso strettamente letterale.
La deroga deve, quindi, ritenersi limitata a
consentire il superamento di impedimenti
relativi alla destinazione di zona o ai
parametri urbanistici ed edilizi, ma non può
estendersi sino a permettere la
realizzazione di interventi vietati dalla
presenza di specifici vincoli sull’area
interessata.
Peraltro il medesimo comma 1 dell’art. 9
dispone che “Restano in ogni caso fermi i
vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica ed ambientale” e in
tale ambito si inquadrano anche le norme
poste a tutela dell'assetto idrogeologico,
con la conseguenza che pure i vincoli di
quest’ultima specie devono ritenersi
inderogabili in virtù della norma in
questione.
----------------
Non colgono nel
segno nemmeno le doglianze volte a censurare
l’impugnata sentenza nella parte in cui ha
respinto i motivi diretti ad evidenziare gli
errori asseritamente commessi dalla stazione
appaltante nell’evidenziare profili di
contrasto del progetto proposto dal RTI
dichiarato aggiudicatario provvisorio con le
disposizioni del PSAI e con la normativa
urbanistica.
Sul punto ha carattere dirimente ed
assorbente il rilievo che il progetto in
questione prevedeva la realizzazione di un
parcheggio interrato su due livelli per la
cui realizzazione occorreva una variante
urbanistica non consentita dalle
disposizioni del PSAI, ricadendo l’area
d’intervento parte in zona a rischio molto
elevato di frana (R4) e parte in zona a
rischio molto elevato di colata (R4).
Non è corretto ritenere -come fa
l’appellante- che potesse prescindersi dalla
variante urbanistica in quanto il
parcheggio, di carattere accessorio, avrebbe
potuto essere realizzato in deroga alle
norme del PRG ai sensi dell’art. 9 della L.
24/03/1989, n. 122.
Il comma 1 del citato articolo, per quanto
qui rileva, dispone che: “I proprietari
di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti”.
La possibilità, ivi contemplata, di
realizzare parcheggi pertinenziali in deroga
alla normativa urbanistica, finalizzata ad
agevolarne la costruzione con l’obiettivo di
preminente interesse pubblico di
decongestionare i centri urbani dal
traffico, costituisce disposizione di
carattere eccezionale da interpretarsi in
senso strettamente letterale (Cons. Stato,
Sez. IV, 19/07/2017, n. 3566).
La deroga deve, quindi, ritenersi limitata a
consentire il superamento di impedimenti
relativi alla destinazione di zona o ai
parametri urbanistici ed edilizi, ma non può
estendersi sino a permettere la
realizzazione di interventi vietati dalla
presenza di specifici vincoli sull’area
interessata.
Peraltro il medesimo comma 1 dell’art. 9
dispone che “Restano in ogni caso fermi i
vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica ed ambientale” e
in tale ambito si inquadrano anche le norme
poste a tutela dell'assetto idrogeologico,
con la conseguenza che pure i vincoli di
quest’ultima specie devono ritenersi
inderogabili in virtù della norma in
questione.
Nel caso di specie non è contestato che
l’area interessata dal intervento progettato
dal RTI dichiarato aggiudicatario
provvisorio ricada in zona definita R4 dal
PSAI, per cui non può dubitarsi
dell’applicabilità della normativa
vincolistica introdotta da tale strumento
che osta alla realizzabilità del parcheggio
interrato.
Diversamente da quanto dedotto
dall’appellante mediante il riferimento alla
nota del tecnico comunale 03/02/2016, n.
1243, nessun argomento a favore
dell’ammissibilità dell’intervento può
trarsi dal fatto che il Convento di San
Domenico rientrasse tra le “attrezzature
di interesse comune” preesistenti
all’approvazione del PRG, per le quali (ai
sensi degli artt. 13, 14 e 19 del detto
strumento di pianificazione) è consentita la
destinazione a “residenze turistiche ed
alberghi pensioni e ristoranti mediante
intervento diretto”, nonché la
ristrutturazione edilizia.
Come emerge, infatti, dalla predetta nota il
citato art. 13 non ammette nuove volumetrie
e fra queste rientrano senz’altro anche
quelle interrate connesse alla prevista
realizzazione del parcheggio sotterraneo.
L’irrealizzabilità del parcheggio si
riflette sull’ammissibilità dell’intero
progetto, costituendo il primo elemento
essenziale del secondo.
Invero, come si ricava dalla determinazione
n. 61/2016 con cui è stato adottato
l’avversato provvedimento di ritiro, “la
mancata realizzazione delle nuove volumetrie
entro terra da destinare a garage, comporta
inevitabilmente una riformulazione del piano
economico-finanziario e quindi della
proposta stessa nel suo complesso”.
Peraltro, diversamente da quanto dedotto
dall’appellante, la stazione appaltante non
poteva consentire modifiche progettuali che
prevedessero la costruzione del parcheggio
su altra area, in quanto ciò avrebbe
comportato una modifica della proposta non
consentita in epoca successiva
all’espletamento della gara (Consiglio
di Stato, Sez. V, con la
sentenza 21.12.2017 n. 6002
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Affinché possa configurarsi un affidamento
incolpevole in capo al privato, gli ostacoli
che si frappongono all’esecuzione
dell’intervento devono ricadere nella
esclusiva sfera di controllo
dell’Amministrazione, in capo alla quale
sorge quindi un dovere di protezione
nell’ambito del quasi-rapporto contrattuale
che sorge per effetto della instaurazione
delle trattative contrattuali (rectius, del
procedimento di evidenza pubblica).
Come infatti evidenziato in giurisprudenza,
“gli artt. 1337 e 1338 cod. civ. mirano a
tutelare il contraente in buona fede
ingannato o fuorviato dalla ignoranza di una
causa di invalidità (o di scarsa
convenienza) del contratto, che gli sia
stata sottaciuta e che non era nei suoi
poteri conoscere: sicché, la buona fede
riceve protezione solo se non sia
condizionata, a sua volta, da negligenza o
ignoranza colpevole della parte”.
Nella specie, la contrarietà dell’intervento
rispetto alle norme del P.S.A.I. avrebbe
potuto essere agevolmente rilevata anche
dalla parte ricorrente, sì che il mancato
controllo da parte sua delle condizioni per
la realizzazione della sua proposta
progettuale integra la violazione di un
elementare obbligo di diligenza, impeditivo
della formazione dell’invocato affidamento.
----------------
Col secondo
motivo l’appellante lamenta che il
giudice di prime cure avrebbe errato a
respingere la domanda, proposta in via
subordinata, con la quale era stata chiesta
la condanna del Comune intimato al
risarcimento dei danni sofferti dalla
Ce.Sa.Da.Re. a titolo di responsabilità
precontrattuale.
Il motivo è infondato.
Come correttamente rilevato dall’adito
tribunale “affinché possa configurarsi un
affidamento incolpevole in capo al privato,
gli ostacoli che si frappongono
all’esecuzione dell’intervento devono
ricadere nella esclusiva sfera di controllo
dell’Amministrazione, in capo alla quale
sorge quindi un dovere di protezione
nell’ambito del quasi-rapporto contrattuale
che sorge per effetto della instaurazione
delle trattative contrattuali (rectius, del
procedimento di evidenza pubblica).
Come infatti evidenziato in giurisprudenza
(cfr. TAR Piemonte, Sez. I, n. 711 del
02.05.2015), “gli artt. 1337 e 1338 cod.
civ. mirano a tutelare il contraente in
buona fede ingannato o fuorviato dalla
ignoranza di una causa di invalidità (o di
scarsa convenienza) del contratto, che gli
sia stata sottaciuta e che non era nei suoi
poteri conoscere: sicché, la buona fede
riceve protezione solo se non sia
condizionata, a sua volta, da negligenza o
ignoranza colpevole della parte”.
Nella specie, la contrarietà dell’intervento
rispetto alle norme del P.S.A.I. avrebbe
potuto essere agevolmente rilevata anche
dalla parte ricorrente, sì che il mancato
controllo da parte sua delle condizioni per
la realizzazione della sua proposta
progettuale integra la violazione di un
elementare obbligo di diligenza, impeditivo
della formazione dell’invocato affidamento”.
A tale motivazione l’appellante oppone il
fatto che -a suo dire- l’affermato contrasto
della propria proposta progettuale con le
norme del PSAI non sussisterebbe, ma il
presupposto da cui muove la censura è
smentito dalle considerazioni più sopra
svolte in ordine all’irrealizzabilità
dell’intervento in questione.
A prescindere da ciò, occorre rilevare che
in ogni caso la domanda non potrebbe trovare
accoglimento, non avendo la Ce.Sa.Do.Re.
specificato nell’atto d’appello quali siano
i danni sofferti e non essendo sufficiente,
al riguardo, il mero rinvio al ricorso di
primo grado.
L’appello va, in definitiva, respinto (Consiglio
di Stato, Sez. V, con la
sentenza 21.12.2017 n. 6002
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla esclusione
dalla gara perché si è allegata all’offerta una
dichiarazione con la quale si manifesta la volontà di non
prestare acquiescenza al bando e al disciplinare di gara.
Con la dichiarazione che fonda la
decisione di esclusione le ricorrenti hanno esplicitato che
l’accettazione incondizionata delle previsioni della lex
specialis di gara non doveva essere intesa come
l’abdicazione al diritto costituzionale di difesa.
Si tratta, indubbiamente, di una dichiarazione inutile,
posto che «nelle gare pubbliche l’accettazione delle regole
di partecipazione non comporta l’inoppugnabilità di clausole
del bando regolanti la procedura che fossero, in ipotesi,
ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non
può mai opporre ad una concorrente un’acquiescenza implicita
alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una
palese ed inammissibile violazione dei principi fissati
dagli artt. 24, comma 1, e, 113 comma 1, Cost., ovvero nella
esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale».
Ma proprio per questo si tratta di una dichiarazione priva
di effetti, in particolare di effetti pregiudizievoli per le
dichiaranti.
Non appare, invero, condivisibile la ricostruzione della
stazione appaltante, secondo cui in tal modo le ricorrenti
avrebbero presentato un’offerta condizionata ovvero
avrebbero manifestato una volontà contraria al vincolarsi
nei confronti dell’Amministrazione.
Nulla di tutto questo emerge dal tenore letterale della
dichiarazione di cui si discute. E, in applicazione del
canone interpretativo della conservazione di cui
all’articolo 1367 Cod. civ., nel dubbio occorre dare
preferenza all’interpretazione che attribuisce efficacia
alla manifestazione di volontà, e dunque all’intenzione di
vincolarsi, piuttosto che a quella (davvero incomprensibile)
di presentare un’offerta riservandosi però la possibilità di
ritirarsi laddove detta offerta dovesse venire accettata
(con l’aggiudicazione) dalla stazione appaltante.
In definitiva, è illegittima l’esclusione dalla procedura ad
evidenza pubblica delle società ricorrenti semplicemente per
aver fatto riserva, se del caso, di esercitare il diritto di
difesa costituzionalmente riconosciutogli.
---------------
1.1. Il Comune di Sesto al Reghena ha bandito la procedura
aperta ex articolo 60 D.Lgs. n. 50/2016 per
l’aggiudicazione, secondo il criterio del minor prezzo ai
sensi dell’articolo 95, comma 4, lettera b), del medesimo
D.Lgs. n. 50/2016, dell’appalto del servizio di trasporto
pubblico con scuolabus per gli anni scolastici 2017/2018 –
2018/2019 – 2019/2020 – 2020/2021.
1.2. Alla procedura hanno partecipato anche le società FD.To.
S.r.l. e Al.In. S.r.l. in costituendo R.T.I., ma ne sono
state escluse perché hanno allegato all’offerta una
dichiarazione con la quale manifestavano la volontà di non
prestare acquiescenza al bando e al disciplinare di gara in
particolare dove indicavano quale criterio di scelta del
contraente quello del minor prezzo.
La stazione appaltante ha, infatti, ritenuto in tal modo
violata la previsione di cui alla lettera i) del paragrafo
L) “Altre informazioni” del Disciplinare di gara,
che, viceversa, imporrebbe un’accettazione piena e
incondizionata della lex specialis.
2.1 Avverso la propria esclusione, così come avverso
l’aggiudicazione dell’appalto a favore della società Eu.To.
S.r.l., insorgono le società FD.To. S.r.l. e Al.In. S.r.l.,
chiedendone la declaratoria di nullità ovvero
l’annullamento, previa sospensione cautelare dell’efficacia,
con conseguente apertura dell’offerta delle ricorrenti e
declaratoria di inefficacia del contratto nelle more
eventualmente stipulato tra le parti.
...
8.1. Passando al merito, il ricorso è fondato.
8.2. Con la dichiarazione che fonda la decisione di
esclusione le ricorrenti hanno esplicitato che
l’accettazione incondizionata delle previsioni della lex
specialis di gara non doveva essere intesa come
l’abdicazione al diritto costituzionale di difesa.
Si tratta, indubbiamente, di una dichiarazione inutile,
posto che «nelle gare pubbliche l’accettazione delle
regole di partecipazione non comporta l’inoppugnabilità di
clausole del bando regolanti la procedura che fossero, in
ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione
appaltante non può mai opporre ad una concorrente
un’acquiescenza implicita alle clausole del procedimento,
che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione
dei principi fissati dagli artt. 24, comma 1, e, 113 comma
1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di
tutela giurisdizionale» (così, C.d.S., Sez. III,
sentenza n. 2507/2016).
Ma proprio per questo si tratta di una dichiarazione priva
di effetti, in particolare di effetti pregiudizievoli per le
dichiaranti.
Non appare, invero, condivisibile la ricostruzione della
stazione appaltante, secondo cui in tal modo le ricorrenti
avrebbero presentato un’offerta condizionata ovvero
avrebbero manifestato una volontà contraria al vincolarsi
nei confronti dell’Amministrazione.
Nulla di tutto questo emerge dal tenore letterale della
dichiarazione di cui si discute. Anzi, vi sono in atti due
dichiarazioni, rispettivamente, dei legali rappresentanti di
FD.To. S.r.l. e di Al.In.l S.r.l., parimenti allegate
all’offerta, di accettazione incondizionata e senza riserve
di «tutte le norme e disposizioni contenute nel Bando di
Gara, nel Capitolato Speciale d’Appalto, nel Disciplinare di
Gara, nel progetto gestionale».
E, in applicazione del canone interpretativo della
conservazione di cui all’articolo 1367 Cod. civ., nel dubbio
occorre dare preferenza all’interpretazione che attribuisce
efficacia alla manifestazione di volontà, e dunque
all’intenzione di vincolarsi, piuttosto che a quella
(davvero incomprensibile) di presentare un’offerta
riservandosi però la possibilità di ritirarsi laddove detta
offerta dovesse venire accettata (con l’aggiudicazione)
dalla stazione appaltante.
8.3. In definitiva, è illegittima l’esclusione dalla
procedura ad evidenza pubblica delle società ricorrenti
semplicemente per aver fatto riserva, se del caso, di
esercitare il diritto di difesa costituzionalmente
riconosciutogli.
9.1. Di contro, non può accedersi, per un duplice ordine di
ragioni, alla tesi del Comune per cui l’aver subordinato la
promozione del ricorso giurisdizionale volto
all’annullamento degli atti di gara alla mancata
aggiudicazione dell’appalto concretizzerebbe un tentativo di
condizionare il giudizio della Commissione di gara.
Innanzitutto, si tratta dell’esplicitazione del principio
dell’interesse, per cui ricorre chi ha subito una lesione
dall’atto impugnato, e non da chi ne ha ricevuto un
beneficio, come per l’appunto l’aggiudicatario dell’appalto.
In secondo luogo, essendo il criterio di aggiudicazione del
contratto quello del prezzo più basso, la Commissione di
gara non era chiamata ad alcuna valutazione
tecnico-discrezionale, e, pertanto, non ne poteva essere
coartata la determinazione.
9.2. Da ultimo risultano inconferenti rispetto all’oggetto
del presente giudizio le argomentazioni che la difesa del
Comune spende in punto di trattamento dei dati personali.
10.1. In conclusione, il ricorso è fondato e viene accolto.
Per l’effetto sono annullati tutti gli atti di gara a
partire dall’esclusione delle società ricorrenti.
10.2. Non si fa luogo alla declaratoria di inefficacia del
contratto, stante l’impegno del Comune a non stipularlo
nelle more del presente giudizio (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 21.12.2017 n. 406 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittimo il provvedimento comunale con il
quale è stato ordinato di non eseguire i lavori di cui alla
presentata DIA dichiarando la stessa “priva di efficacia ed
i lavori edili, ove in corso di realizzazione, privi di
titolo” stante il mancato preventivo pagamento del
contributo di costruzione.
Invero, presupposto indefettibile perché una DIA possa
essere produttiva di effetti è la completezza, oltre che la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione, con la conseguenza che una DIA
priva dei requisiti essenziali deve ritenersi inefficace e
improduttiva di effetti.
In tale ipotesi, il provvedimento comunale, nel rimuovere
incidentalmente la DIA, in sostanza verifica l’originaria
inefficacia della stessa senza, peraltro, il limite di dover
agire entro un preciso termine, non potendo ritenersi
l’avvenuto perfezionamento della denuncia di inizio attività
per silentium.
Non avendo parte ricorrente provveduto al versamento dei
contributi previsti dalla legge regionale n. 21 del 2009 per
effetto del rinvio, contenuto nell’art. 6, comma 1, all’art.
23 del D.P.R. n. 380 del 2001 -il quale prevede la
soggezione delle SCIA al pagamento dei contributi di
costruzione, rinviando, a sua volta, all’art. 16 del testo
normativo, che subordina il titolo edilizio alla
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione- deve dunque ritenersi che la DIA dallo stesso
presentata non si sia perfezionata.
Né possono assumere rilievo le originali considerazioni di
parte ricorrente volte a ricondurre la scelta di non
procedere al versamento dei previsti contributi a criteri di
ragionevolezza e di buon andamento della Pubblica
Amministrazione nella considerazione che, in caso di esito
negativo della DIA, si sarebbe dovuto procedere alla
restituzione delle somme versate, non potendo le personali
valutazioni del ricorrente consentire la disapplicazione di
disposizioni normative.
---------------
- Considerato che viene impugnato il provvedimento –meglio indicato
in epigrafe nei suoi estremi– con il quale è stato ordinato
al ricorrente di non eseguire i lavori di cui alla DIA
presentata il 29.05.2017 –riferita ad un ampliamento a fini
residenziali di un immobile ai sensi della legge regionale
n. 21 del 2009 sul Piano Casa- dichiarando la stessa “priva
di efficacia ed i lavori edili, ove in corso di
realizzazione, privi di titolo”;
- Considerato che a fondamento del gravato provvedimento vi è il
rilievo che l’“area interessata dall’ampliamento è
oggetto di atti di disciplina edilizia in corso
‘Determinazione Dirigenziale’ n. 741 del 10.05.2017”,
che “l’area risulta ancora sottoposta a sequestro da parte
della Polizia Locale di Roma” e che “non risultano
soddisfatte tutte le richieste nel termine di 30 gg, in
particolare: pagamento del Contributo di Costruzione,
pagamento del Contributo Straordinario, pagamento dei
diritti di segreteria…”;
- Considerato che allorquando un provvedimento è basato su plurime
motivazioni, l’immunità di una di esse dai vizi di
illegittimità denunciati è idonea a sorreggere il
provvedimento stesso, che non potrà essere annullato se
anche solo una di tali motivazioni fornisca autonomamente la
legittima e congrua giustificazione della determinazione
adottata;
- Considerato che, con riferimento alla fattispecie in esame,
assorbente rilievo assume la circostanza che parte
ricorrente non ha provveduto alla corresponsione del
Contributo di Costruzione, del Contributo Straordinario e
dei diritti di segreteria, sebbene l’Amministrazione
Comunale, con nota del 07.07.2017, avesse invitato il
ricorrente a provvedere a tali integrazioni della DIA
presentata il 29.05.2017 con riferimento ad un ampliamento a
fini residenziali di un immobile ai sensi della legge
regionale sul Piano Casa;
- Considerato che presupposto indefettibile perché una DIA possa
essere produttiva di effetti è la completezza, oltre che la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell'autocertificazione, con la conseguenza che una DIA
priva dei requisiti essenziali deve ritenersi inefficace
(Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1413) e
improduttiva di effetti;
- In tale ipotesi, il provvedimento, nel rimuovere incidentalmente
la DIA, in sostanza verifica l’originaria inefficacia della
stessa senza, peraltro, il limite di dover agire entro un
preciso termine, non potendo ritenersi l’avvenuto
perfezionamento della denuncia di inizio attività per
silentium;
- Non avendo parte ricorrente provveduto al versamento dei
contributi previsti dalla legge regionale n. 21 del 2009 per
effetto del rinvio, contenuto nell’art. 6, comma 1, all’art.
23 del D.P.R. n. 380 del 2001 -il quale prevede la
soggezione delle SCIA al pagamento dei contributi di
costruzione, rinviando, a sua volta, all’art. 16 del testo
normativo, che subordina il titolo edilizio alla
corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione- deve dunque ritenersi che la DIA dallo stesso
presentata non si sia perfezionata;
- Né possono assumere rilievo le originali considerazioni di parte
ricorrente volte a ricondurre la scelta di non procedere al
versamento dei previsti contributi a criteri di
ragionevolezza e di buon andamento della Pubblica
Amministrazione nella considerazione che, in caso di esito
negativo della DIA, si sarebbe dovuto procedere alla
restituzione delle somme versate, non potendo le personali
valutazioni del ricorrente consentire la disapplicazione di
disposizioni normative;
- Considerato, pertanto, che correttamente il gravato provvedimento
ha dichiarato l’inefficacia della DIA stante il mancato
pagamento dei contributi, con conseguente irrilevanza della
eventuale illegittimità delle ulteriori motivazioni poste a
sostegno di tale provvedimento –il che esonera il Collegio
dall’esame delle relative censure- in quanto in presenza di
un provvedimento amministrativo sorretto da plurime
motivazioni la legittimità di una di esse è autonomamente in
grado di supportarlo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 20.12.2017 n. 12542 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gestione telematica della gara - Immodificabilità
delle buste e tracciabilità di tutte le operazioni compiute
- Principio di pubblicità delle sedute - Applicazione
guidata dalle peculiarità e specificità dell’evoluzione
tecnologica.
La gestione telematica della gara offre il vantaggio,
rispetto al passato, di una maggiore sicurezza nella “conservazione”
dell’integrità delle offerte in quanto permette
automaticamente l’apertura delle buste in esito alla
conclusione della fase precedente e garantisce l’immodificabilità
delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione
compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della
gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla
data e all’ora di seduta della gara, specificata in fase di
creazione della procedura. Le stesse caratteristiche della
gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la
possibilità di modifica delle offerte (cfr. Consiglio di
Stato, sez. III, 25.11.2016, n. 4990).
Il principio di pubblicità delle sedute deve quindi essere
rapportato non ai canoni storici che hanno guidato
l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto alle
peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica ha
consentito di mettere a disposizione delle procedure di gara
telematiche, in ragione del fatto che la piattaforma
elettronica che ha supportato le varie fasi di gara assicura
l’intangibilità del contenuto delle offerte,
indipendentemente dalla presenza o meno del pubblico); in
altri termini è garantita non solo la tracciabilità di tutte
le fasi ma proprio l’inviolabilità delle buste elettroniche
contenenti le offerte e l’incorruttibilità di ciascun
documento presentato.
Cause di esclusione e soccorso
istruttorio - Art. 83 d.lgs. n. 50/2016 - Vizi radicali
ritenuti tali da espresse previsioni di legge - Soccorso
istruttorio processuale.
Con riferimento alle cause di esclusione e al cd. soccorso
istruttorio, l’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016 ha codificato i
principi, di elaborazione giurisprudenziale, di divieto di
aggravio del procedimento di evidenza pubblica, di massima
partecipazione alle gare di appalto e di interpretazione in
quest’ottica delle clausole ambigue della lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che il
Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per
violazioni meramente formali, costituendo “cause di
esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da
espresse previsioni di legge. Il concorrente che non sia
stato ammesso al soccorso istruttorio (ma avrebbe dovuto
esserlo) è inoltre ammesso a provare le medesime circostanze
in giustizia, secondo la formula del ‘soccorso
istruttorio processuale’ (in tal senso: Cons. Stato, III,
sent. 975 del 2017) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 20.12.2017 n. 874 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La “piena
conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere
che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
---------------
Specificamente, per quanto attiene titoli edificatori, lo
stesso Giudice d’appello ha rilevato che “il principio secondo
cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione
di una concessione edilizia da parte di un proprietario di
immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa,
che si verifica con la consapevolezza del contenuto
specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero
quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e
univoco le essenziali caratteristiche dell’opera, va
applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla
luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato
rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base
dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in
corso di realizzazione) con quello astrattamente
autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente,
deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la
decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale
avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere
collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità
dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio
ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga
fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o
successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo
una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il
completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal
momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale
portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque
giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla
possibilità di ricorrere”.
Vanno richiamati, altresì, i principi elaborati dalla
giurisprudenza circa la decorrenza del termine di
impugnazione di titoli edilizi, in forza dei quali:
“a) il termine per impugnare il permesso di costruzione
edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento,
che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei
lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la
tardività del ricorso;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an
dell’edificazione;
c) al momento della constatazione della presenza dello scavo
è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese
quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione)
senza differire il termine di proposizione del ricorso
all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli
atti avviata né, a monte, che si possa differire
quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso, perché se
da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali”.
---------------
3. Quanto alla decorrenza del termine per la sollecitazione del
sindacato giurisdizionale con riferimento a titoli edilizi
rilasciati a terzi, la giurisprudenza appare
significativamente consolidata sui principi di seguito
esposti.
In generale, con recente pronunzia del 21.11.2017 n.
5364, la Sezione VI del Consiglio di Stato, nel richiamare
un precedente, stabilizzato assetto giurisprudenziale (Cons.
Stato, sez. IV, 15.11.2016 n. 4701; 06.10.2015 n.
6242; 28.05.2012 n. 3159), ha affermato che la “piena
conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere
intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere
che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei “motivi aggiunti” -per il
tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori
motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori
atti (già esistenti al momento di proposizione ma ignoti) o
dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta-
comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine
al significato della “piena conoscenza”.
Ed infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come
“conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi
aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe
essere considerato residuale”.
Specificamente, per quanto attiene titoli edificatori, lo
stesso Giudice d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 25.10.2017 n. 4931) ha rilevato che “il principio secondo
cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione
di una concessione edilizia da parte di un proprietario di
immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa,
che si verifica con la consapevolezza del contenuto
specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero
quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e
univoco le essenziali caratteristiche dell’opera (ex plurimis: C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007 n. 421;
Consiglio Stato Sez. V, 23.09.2005 n. 5033), va
applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla
luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato
rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base
dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in
corso di realizzazione) con quello astrattamente
autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente,
deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la
decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale
avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere
collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità
dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla
propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio
ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga
fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o
successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo
una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il
completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal
momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale
portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque
giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla
possibilità di ricorrere (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n. 4616; Consiglio di Stato, IV, 10.12.2007, n. 6342)”.
Nello stesso senso, Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n.
3067, che ha richiamato i principi elaborati dalla
giurisprudenza circa la decorrenza del termine di
impugnazione di titoli edilizi (Cons. Stato, sez. IV, n.
1135 del 2016 e 4701 del 2016), in forza dei quali:
“a) il termine per impugnare il permesso di costruzione
edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento,
che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei
lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la
tardività del ricorso;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an
dell’edificazione;
c) al momento della constatazione della presenza dello scavo
è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese
quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione)
senza differire il termine di proposizione del ricorso
all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli
atti avviata né, a monte, che si possa differire
quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso, perché se
da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali” (TAR Lombardia-Brescia,
Sez. I,
sentenza 18.12.2017 n. 1453 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
VIA VAS E AIA - RIFIUTI - Art. 29-decies d.lgs.
n. 152/2006 - Diffide e provvedimenti di sospensione o
revoca - Differenza.
Nell’ambito delle previsioni dell’art. 29-decies, comma 9,
lett. a), b) e c), del codice dell’ambiente, nonché
dell’art. 5-bis, comma 9, della l.r. Veneto 16.04.1985, n.
33, occorre distinguere fra mere diffide, che rientrano
nelle funzioni di controllo e accertamento attribuite alla
Provincia dall’art. 197, comma 1, lett. b), del codice
stesso, e diffide connesse a provvedimenti di sospensione o
revoca dell’autorizzazione in corso, che hanno
effettivamente natura sanzionatoria e ricadono nella
competenza regionale (Consiglio di Stato, sez. V,
25.07.2012, n. 4221)
VIA VAS E AIA - Rifiuti - Riesame del
titolo autorizzativo già rilasciato - Art. 29-octies d.lgs.
n. 152/2006 - Sviluppi di norme di qualità ambientale o
nuove disposizioni di legge - D.m. 24.06.2015 - Rientra.
L’art. 29-octies del codice dell’ambiente collega il
necessario riesame del titolo autorizzativo già rilasciato,
tra l’altro, quando lo esigono “sviluppi delle norme di
qualità ambientali o nuove disposizioni legislative
comunitarie, nazionali o regionali”.
Il d.m. 24.06.2015, che sul piano formale fa sistema con
atti di fonte primaria europea e nazionale, in termini
sostanziali, nel porre requisiti più stringenti per
consentire il conferimento nelle discariche ordinarie di
rifiuti pericolosi, rappresenta comunque una “norma di
qualità ambientale” (e non una semplice norma tecnica)
sufficiente a integrare il presupposto previsto dalla legge
e a rendere obbligatoria una nuova valutazione dell’a.i.a.
VIA VAS E AIA - RIFIUTI - Riesame
dell’AIA - Sopravvenienza di nuova normativa - Disposizione
transitoria di cui all’art. 29-octies, ultimo comma, d.lgs.
n. 152/2006 - Interpretazione.
La disciplina di settore prevede il riesame dell’a.i.a al
verificarsi di determinati eventi, quale la sopravvenienza
di una nuova normativa. Nel frattempo, “fino alla
pronuncia dell'autorità competente in merito al riesame, il
gestore continua l'attività sulla base dell'autorizzazione
in suo possesso” (art. 29-octies, ultimo comma, del
codice dell’ambiente).
La ricordata disposizione significa solo che il conferimento
di rifiuti non consentiti sino al rilascio dell’a.i.a.
riesaminata non dà luogo all’applicazione di sanzioni, non
anche che possano permanere in discarica rifiuti ormai
vietati in base a una disciplina generale nuova e conosciuta
(o almeno obiettivamente conoscibile), a fronte della quale
non può sussistere in capo all’operatore del settore alcun
affidamento tutelabile a proseguire l’attività di gestione
sulla base e nei termini di una normativa non più vigente.
Deve perciò ritenersi che la nuova autorizzazione, quanto
alle prescrizioni e alle limitazioni imposte, sia solo
dichiarativa (e non costitutiva) di una regolamentazione
posta dal d.m. con efficacia diretta e immediata, anche
perché una diversa ricostruzione del sistema condurrebbe a
una inammissibile applicazione del d.m. “a chiazze di
leopardo”, rendendo incerta e ondivaga l’efficacia di
una normativa di tutela che, a salvaguardia di valori
primari come la salute e l’ambiente, deve essere
necessariamente osservata in modo uniforme in tutto il
territorio dello Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.12.2017 n. 5882 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’osservanza della disposizione di cui all’art.
24, comma 1, del DPR 380/2001 (“la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone la normativa
vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto
presentato e la sua agibilità sono attestati mediante
segnalazione certificata”) non può prescindere da un
accertamento che ha, quale oggetto, “l’integrale conformità
delle opere realizzate al progetto approvato come
presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa
alla successiva istruttoria di merito”.
---------------
Parimenti infondati sono il secondo e terzo motivo, connotati da
interdipendenza tematica e per questo trattabili
congiuntamente, con i quali si è, in sostanza, censurata la
violazione della disciplina sul rilascio del certificato di
agibilità (art. 25 del DPR 380/2001) e, in ogni caso, l’inappropriatezza
delle valutazioni esperite dall’ufficio tecnico in ordine
agli atti della procedura definita con l’approvazione del
piano di lottizzazione che ha condotto alla realizzazione
del complesso immobiliare controverso.
L’istituto dell’abitabilità per le residenze e
dell’agibilità per gli usi non abitativi, originariamente
introdotto con l’art. 221 del R.D. 1265/1934 (c.d. testo
unico delle leggi sanitarie), ha sempre avuto, quale
peculiare finalità, l’accertamento “che la costruzione sia
stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i
muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano
altre cause di insalubrità”.
Tale disposizione è stata confermata dalla norma di
semplificazione procedimentale di cui all’art. 4 del DPR
425/1994 (regolamento recante disciplina dei procedimenti di
autorizzazione all'abitabilità, di collaudo statico e di
iscrizione al catasto), abrogato dall'art. 136, comma 2, del
DPR 380/2001, in cui si era previsto che fosse “il direttore
dei lavori che deve certificare, sotto la propria
responsabilità, la conformità rispetto al progetto
approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità
degli ambienti”.
Il precetto è stato infine riprodotto nell’art. 25, lett. b),
del DPR 380/2001 (abrogato dal D.lgs. 25.11.2016, n.
222: dunque applicabile, ratione temporis, al momento
dell’adozione dell’impugnato provvedimento del 10.3.2016),
in cui si è previsto, tra i presupposti necessari
dell’istanza di agibilità, l’allegazione di una
“dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il
certificato di agibilità, di conformità dell'opera rispetto
al progetto approvato”.
Pertanto, l’osservanza della disposizione di cui all’art.
24, comma 1, del DPR 380/2001 (“la sussistenza delle
condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti negli stessi
installati, valutate secondo quanto dispone la normativa
vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto
presentato e la sua agibilità sono attestati mediante
segnalazione certificata”) non può prescindere da un
accertamento che ha, quale oggetto, “l’integrale conformità
delle opere realizzate al progetto approvato come
presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa
alla successiva istruttoria di merito” (cfr. Consiglio di
Stato, sez. IV, 24.10.2012, n. 5054)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’accatastamento di
un immobile può avere valore ai fini fiscali, nelle
procedure ablative o similari al fine dell’individuazione
del proprietario (cfr. art. 11 DPR 327/2001), per
l’individuazione dei coefficienti di computo del canone con
riferimento alle categorie catastali ed anche sul piano
civilistico per esattamente identificare l’immobile
trasferito, in caso di alienazione di immobili.
---------------
In linea di
principio l’accatastamento di un immobile può avere valore
ai fini fiscali, nelle procedure ablative o similari al fine
dell’individuazione del proprietario (cfr. art. 11 DPR
327/2001), per l’individuazione dei coefficienti di computo
del canone con riferimento alle categorie catastali ed anche
sul piano civilistico per esattamente identificare
l’immobile trasferito, in caso di alienazione di immobili
(cfr. Cassazione civile, sez. II 17.02.2012 n. 2369)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Finanche nell’ipotesi di
un cambio di destinazione d’uso che intervenisse all’interno
della medesima categoria funzionale, la giurisprudenza
amministrativa ha statuito che tale modificazione sia da
qualificare come urbanisticamente rilevante ogni qual volta
comporti un aumento o un aggravamento del carico urbanistico
insistente sull’area.
Non vi è dubbio, sul punto, che la destinazione
degli alloggi ad esigenze stabilmente
abitative, diverse da quelle transeunti degli avventori del
golf club, non possa che comportare effetti sugli standard
di zona.
---------------
Può, a questo
punto, passarsi all’esame del ricorso per motivi aggiunti,
con cui è stata impugnata l’ordinanza che ha ingiunto il
ripristino della destinazione d’uso ricettiva, opponendo che
l’assunto della ricorrente –secondo cui le concessioni
edilizie n. 41/1991 e n. 101/1995, oltre alla DIA n. 71/2001
avrebbero impresso in via originaria una destinazione
residenziale– riguarderebbe “unità immobiliari diverse
(unità immobiliari poste al piano terra e primo della Corte
A e piano primo — unità 5 corte B) rispetto a quella oggetto
del procedimento in oggetto” e che, pertanto, il “mutamento
d'uso da turistico/ricettivo (autorizzato) a residenziale
costituisce mutamento rilevante di destinazione d'uso ai
sensi dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 in combinato
disposto dell'art. 32, comma 1, del citato D.P.R.”.
Sono infondati il primo e secondo motivo aggiunto, con cui
la ricorrente ha censurato, da un lato, l’interpretazione
della normativa urbanistica che avrebbe condotto
l’Amministrazione comunale a ritenere integrata
un’illegittima modificazione della destinazione d’uso, e
dall’altro, richiamandosi i profili che, sempre ad avviso
della ricorrente, deporrebbero per l’ammissibilità di una
destinazione residenziale pura e semplice: per entrambi i
motivi il Collegio reputa di fare integrale rinvio alle
statuizioni espresse in occasione dell’esame del secondo e
terzo motivo del ricorso principale.
Non coglie nel segno il terzo motivo aggiunto, con cui si è
dedotto che vi sarebbe stato, al più, un mutamento
funzionale di destinazione d’uso, privo di opere e come tale
lontano dal poter configurare il mancato ottenimento di un
titolo edilizio legittimante, ovvero una “totale difformità
o variazione essenziale”, tali da rendere l’immobile
“soggetto alle sanzioni gravissime di cui dall'art. 31 DPR
380/2001” (cfr. pag. 16).
Invero, la disciplina sul cambio d’uso urbanisticamente
rilevante è rimessa all’art. 23-ter del DPR 380/2001,
introdotto dall’art. 17, comma 1, lettera n), della legge n.
164/2014.
Tale disposizione prevede, al comma 1, che “salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali, costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare
considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle
sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva;
b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”: in
sede di conversione il legislatore ha inteso distinguere,
nella legge 164/2014, le destinazioni residenziali e turistico-ricettive, unificate nel decreto legge 133/2014.
Nella Regione Lombardia, tuttavia, la citata disposizione
non trova applicazione, dovendosi, invece, fare richiamo
all’art. 51 della legge regionale 12/2005, in cui è
stabilito che “costituisce destinazione d'uso di un'area o
di un edificio la funzione o il complesso di funzioni
ammesse dagli strumenti di pianificazione per l'area o per
l'edificio, ivi comprese, per i soli edifici, quelle
compatibili con la destinazione principale derivante da
provvedimenti definitivi di condono edilizio. E' principale
la destinazione d'uso qualificante; è complementare od
accessoria o compatibile qualsiasi ulteriore destinazione
d'uso che integri o renda possibile la destinazione d'uso
principale o sia prevista dallo strumento urbanistico
generale a titolo di pertinenza o custodia. Le destinazioni
principali, complementari, accessorie o compatibili, come
sopra definite, possono coesistere senza limitazioni
percentuali ed è sempre ammesso il passaggio dall'una
all'altra, nel rispetto del presente articolo, salvo quelle
eventualmente escluse dal PGT” (comma 1).
Nella specie, si è detto che la destinazione d’uso
dell’appartamento controverso non potesse che essere quella
ricettiva o residenziale per gli addetti agli impianti (o
gli utilizzatori degli stessi), sicché il passaggio,
delineato dalla società ricorrente come ammissibile, alla
destinazione residenziale pura e semplice trova un
sostanziale sbarramento nella disciplina edilizia.
Non è, pertanto, centrato il rilievo opposto
dall’interveniente Vi.Ol. S.p.A., ad avviso della quale
il cambio di destinazione d’uso sarebbe addirittura
facilitato dalla disciplina urbanistica.
Non solo.
Finanche nell’ipotesi –avulsa dal caso che ci occupa– di
un cambio di destinazione d’uso che intervenisse all’interno
della medesima categoria funzionale, la giurisprudenza
amministrativa ha statuito che tale modificazione sia da
qualificare come urbanisticamente rilevante ogni qual volta
comporti un aumento o un aggravamento del carico urbanistico
insistente sull’area (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.01.2009, n. 498; TAR Campania–Napoli, 22.07.2015,
n. 3872).
Non vi è dubbio, sul punto, che la destinazione
degli alloggi delle corti A e B ad esigenze stabilmente
abitative, diverse da quelle transeunti degli avventori del
golf club, non possa che comportare effetti sugli standard
di zona.
Parimenti infondato è il quarto motivo, nella specie
rilevando non già il profilo connesso alla diretta
commissione di abusi edilizi quanto alla valutazione
vincolata afferente la cessazione dell’uso residenziale ed
il ripristino dell’uso ricettivo, onere inevitabilmente a
carico della società ricorrente quale “attuale proprietaria”
dell'appartamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Se
l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (…) debba
essere congruamente motivato sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio
intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga
dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”, è recente
la remissione all’Adunanza plenaria della questione laddove,
alla base della stessa, sono stati richiamati i due,
principali, indirizzi giurisprudenziali:
1) quello maggioritario in base al quale l’ordinanza
di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente
adottata senza alcuna particolare motivazione e
indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni
legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o
al di lui avente causa.
In forza di tale
opzione ermeneutica, l’estinzione di un abuso edilizio per
decorso del tempo configurerebbe una sorta di sanatoria
extra ordinem, che potrebbe operare anche quando
l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del
corrispondente istituto legislativamente previsto;
2) quello minoritario che, all’opposto, ha individuato dei
“casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi”, facendo riferimento al lasso
temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o alla
sua conoscenza da parte dell’Amministrazione, alla buona
fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione
diverso dal responsabile dell’abuso e all’assenza, per mezzo
del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la
comminatoria del provvedimento sanzionatorio.
---------------
Non può trovare, infine, accoglimento il
quinto ed ultimo
motivo, con il quale la ricorrente ha dedotto la formazione
di un legittimo affidamento in suo favore.
Tale tema è tornato d’attualità in tempi recenti a seguito
della remissione all’Adunanza plenaria della questione “se
l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (…) debba
essere congruamente motivato sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio
intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga
dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia
responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti
intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio” (cfr.
ordinanza del Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2017, n.
1337).
Alla base di tale remissione sono stati richiamati i due,
principali, indirizzi giurisprudenziali:
1) quello maggioritario in base al quale l’ordinanza di
demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente
adottata senza alcuna particolare motivazione e
indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni
legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o
al di lui avente causa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2016, n. 1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id., sez. V, 11.07.2014, n. 4892;
id., sez. IV, 04.05.2012, n. 2592).
In forza di tale
opzione ermeneutica, l’estinzione di un abuso edilizio per
decorso del tempo configurerebbe una sorta di sanatoria
extra ordinem, che potrebbe operare anche quando
l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del
corrispondente istituto legislativamente previsto (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13);
2) quello minoritario (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
04.02.2014, n. 1016), che all’opposto ha individuato dei
“casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni
parzialmente difformi” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14.08.2015, n. 3933), facendo riferimento al lasso
temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o alla
sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: cfr. Consiglio
di Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470), alla buona
fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione
diverso dal responsabile dell’abuso e all’assenza, per mezzo
del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la
comminatoria del provvedimento sanzionatorio (cfr. Consiglio
di Stato, sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n. 3847).
A prescindere dal confronto tra le illustrate tesi, ad
avviso del Collegio non è ravvisabile in favore della
ricorrente nessun consolidamento di aspettative
giuridicamente tutelate, avendo questa destinato alcune
unità (tra le quali l’appartamento oggetto del contendere)
ad un uso residenziale abitativo nella consapevolezza della
contrarietà di tale destinazione alla disciplina trasfusa
nella convenzione urbanistica approvata il 02.08.1990,
richiamata espressamente nell’atto di compravendita del
20.04.1998, connotato da uno specifico impegno “al rispetto e
all’osservanza di quanto ivi riportato, assumendo tutti gli
obblighi ed oneri derivanti da detta convenzione e in
particolare di quanto contenuto nell’art. 8 relativo a
destinazioni urbanistiche ed edilizie”.
In conclusione, anche il ricorso per motivi aggiunti va
respinto.
La complessità delle questioni esaminate e l’esistenza di
orientamenti giurisprudenziali non pacifici in materia di
cambio di destinazione d’uso giustificano l’integrale
compensazione delle spese processuali tra le parti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a
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PUBBLICO IMPIEGO: Mobbing
solo con reiterazione. Il carattere
sporadico degli episodi esclude la
fattispecie. Una serie di pronunce recenti
della Corte di cassazione. Intento
persecutorio essenziale.
Se l'elemento oggettivo richiesto dal c.d.
mobbing è costituito dalla pluralità e
sistematicità delle condotte, il carattere
sporadico ed estremamente diluito nel tempo
degli episodi denunciati, nessuno dei quali
avente autonoma portata lesiva, esclude in
radice la configurabilità della fattispecie.
Così la Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
con l'ordinanza 16.10.2017 n. 24358, che si
inscrive nel novero di una serie di recenti
pronunce in tema di mobbing.
Vediamole nel dettaglio.
MOBBING: CI VUOLE L'INTENTO
PERSECUTORIO
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro c'è anche la
prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio.
A ribadirlo sono stati i giudici della Sez.
lavoro della Corte di Cassazione con la
sentenza 03.07.2017 n.
16335.
Nella stessa pronuncia in commento i giudici
di piazza Cavour hanno aderito al prevalente
indirizzo dettato della giurisprudenza di
legittimità secondo cui per «mobbing» si
intende comunemente una condotta del datore
di lavoro o del superiore gerarchico,
sistematica e protratta nel tempo, tenuta
nei confronti del lavoratore nell'ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono
per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
E ai
fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti, oltre a quanto sopra detto, anche
a) la molteplicità di comportamenti di
carattere persecutorio, illeciti o anche
leciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio; b)
l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente; c) il nesso
eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e il pregiudizio
all'integrità psico-fisica del lavoratore.
Ribadendo, inoltre, che costituisce mobbing
la condotta datoriale, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti
del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che
si risolva, sul piano oggettivo, in
sistematici e reiterati abusi, idonei a
configurare il cosiddetto terrorismo
psicologico, e si caratterizzi, sul piano
soggettivo, con la coscienza ed intenzione
del datore di lavoro di arrecare danni - di
vario tipo ed entità al dipendente medesimo.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli
Ermellini, risultava escluso il nesso di
causalità tra la supposta condotta
mobbizzante e l'asserito evento dannoso. E
ne derivava che, indipendentemente anche dal
discusso intento vessatorio, nella specie si
è avuto un motivato accertamento di fatto,
che ha pressoché escluso, anche sul piano
oggettivo, il denunciato carattere
vessatorio degli attuati comportamenti,
ascritti da parte ricorrente alla datrice di
lavoro.
NEL CASO DI EPISODI
SPORADICI
Se l'elemento oggettivo richiesto dal c.d.
mobbing è costituito dalla pluralità e
sistematicità delle condotte, il carattere
sporadico ed estremamente diluito nel tempo
degli episodi denunciati, nessuno dei quali
avente autonoma portata lesiva, esclude in
radice la configurabilità della fattispecie.
Lo hanno affermato con
ordinanza 16.10.2017 n. 24358 i
giudici della Sez. lavoro della Corte di
Cassazione.
Inoltre secondo costante orientamento di
legittimità (si vedano: Cass. n. 4774 del
2006, 22858 del 2008, n. 3785 del 2009, n.
18838 del 2013, n. 4222 del 2016),
l'illecito del datore di lavoro nei
confronti del lavoratore che integra il c.d.
«mobbing» e che rappresenta una violazione
dell'obbligo di sicurezza posto a carico
dello stesso datore dall'art. 2087 c.c.
consiste nell'osservanza di una condotta
protratta nel tempo e consistente nel
compimento di una pluralità di atti
(giuridici o meramente materiali, ed,
eventualmente, anche leciti) con le
caratteristiche della persecuzione
finalizzata all'emarginazione del
dipendente.
E, infine, i giudici della Suprema corte
hanno anche richiamato l'orientamento di
legittimità secondo cui la circostanza che
la condotta di mobbing provenga da un altro
dipendente posto in posizione di supremazia
gerarchica o da colleghi, non vale ad
escludere la responsabilità del datore di
lavoro -su cui incombono gli obblighi ex
art. 2049 c.c.- ove questi sia rimasto
colpevolmente inerte nella rimozione del
fatto lesivo e dall'obbligo di vigilanza (si
vedano ex plurimis, Cass. 22858 del 2008, n.
18093 del 2013).
Nel caso di specie la Cassazione ha rilevato
che la fattispecie concreta non è
sussumibile in quella astratta cui si
riferisce il principio anzidetto, poiché per
quanto accertato dai giudici di merito, cui
compete la ricostruzione dei fatti di causa
non sono stati ritenuti provati
comportamenti aventi carattere vessatorio o
mortificante per la lavoratrice, per cui non
si pone in radice la questione di stabilire
se di questi, ove commessi da superiori
gerarchici o da colleghi, ne dovesse
rispondere ex art. 2087 c.c. il datore di
lavoro.
LA SISTEMATICITÀ NEL TEMPO
DELLA CONDOTTA
Ed infine, in questa carrellata di rilevanti
pronunce sul tempo, una (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 24.11.2017
n. 28098) insiste sul fatto tempo,
affermando che per la configurazione della
condotta mobbizzante occorre una
sistematicità nel tempo ed episodi vecchi
non valgono per dimostrare una condotta
vessatoria che possa essere catalogata
all'interno della fattispecie di cui sopra.
Il thema decidendum sottoposto
all'attenzione degli Ermellini vedeva che
con sentenza la Corte di appello in riforma
della pronuncia del Tribunale ha respinto la
domanda di Tizio di risarcimento del danno
per comportamento integrante mobbing da
parte del datore di lavoro, Alfa srl,
rilevando l'insussistenza di una
molteplicità di comportamenti persecutori
(trattandosi di episodi collocati a notevole
distanza uno dall'altro e in numero assai
limitato); Avverso questa pronuncia ricorre
Tizio per cassazione prospettando un motivo
ricorso.
Secondo i supremi giudici non risultava
contraddittorio l'iter logico seguito dalla
sentenza impugnata ove ha rilevato «le
modalità e la inusitata frequenza con cui
(il datore di lavoro) ha esercitato il
potere disciplinare», trattandosi della
valutazione di (quattro) episodi concernenti
l'utilizzo del vestiario aziendale
circoscritti tra giugno e ottobre,
distaccati come ha rilevato la Corte
distrettuale - da un lasso di tempo
apprezzabile sia da precedenti episodi (due
contestazioni disciplinari dell'ottobre di
qualche anno prima) che da quelli successivi
(contestazione disciplinare, non seguita da
sanzione, sempre di qualche anno prima;
sanzione disciplinare del mese di settembre,
successivamente dichiarata giudizialmente
illegittima) e, quindi, sforniti del
carattere della sistematicità, della durata
dell'azione e non collegati tra loro da un
medesimo intento persecutorio.
I giudici di piazza Cavour hanno poi
considerato che l'unico motivo di ricorso
denunziava violazione dell'art. 2087 cod.
civ. nonché vizio di motivazione avendo, la
Corte distrettuale, trascurato la strategia
unitaria persecutoria con finalità di
emarginazione del dipendente manifestatasi,
senza ragionevole spiegazione (se non quello
della partecipazione alle rappresentanze
sindacali), «dopo 12 anni (dalla data di
assunzione) di sereno svolgimento del
rapporto di lavoro e non essendo stato
esaurientemente spiegato dal consulente
tecnico d'ufficio la «ovvietà» della
pre-esistenza del disturbo di personalità
che affligge il Tizio»
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.12.2017). |
TRIBUTI:
Riconfermata la linea storica della Cassazione sulla dimora
abituale.
Nel variegato panorama dei tributi locali, le novità sono sempre dietro
l'angolo, all'evoluzione farraginosa e spesso poco razionale della norma,
rispondono sentenze di Cassazione che rimettono in gioco problematiche che
almeno sul piano formale sembravano risolte con non poche perplessità da
parte degli addetti ai lavori.
La questione stavolta trattata nell'ordinanza
14.11.2017
n. 26947 della Corte di Cassazione, Sez. VI
civile, ripropone il tema della dimora abituale del
nucleo familiare, che in Ici prima e in Imu poi, ha evidenziato netti
contorni di elusività della norma, confermate per quest'ultima, nella
circolare ministeriale n. 3/DF/2012 che come noto “giustifica” quello che da
più parti viene definito una sorta di spacchettamento del nucleo familiare.
In verità, la sentenza in esame ribadisce un concetto su cui la Cassazione
aveva già avuto modo di esprimersi nella sentenza n. 14389/2010, nella quale
la Corte formulava un importante principio in materia di Ici (e di
conseguenza in materia Imu) secondo il quale l'abitazione posseduta dal
contribuente poteva essere ritenuta principale soltanto se nella stessa
dimoravano abitualmente sia il contribuente che i suoi familiari.
L’abitazione principale
Ai fini Imu, come noto, per abitazione principale si intende l'unità
immobiliare nella quale «il possessore e il suo nucleo familiare dimorano
abitualmente e risiedono anagraficamente», come indicato dal comma 2
dell’articolo 13 del Dl n. 201 del 2011, modificato dal Dl n. 16 del 2012.
La norma specifica inoltre che «nel caso in cui i componenti del nucleo
familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in
immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per
l'abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo
familiare si applicano per un solo immobile».
Proprio in tale riformulazione
del concetto di abitazione principale, l'elemento di novità e soprattutto di
evidente elusività, è stato quello dell'aver previsto che componenti dello
stesso nucleo familiare (che non corrisponde a quello anagrafico) potessero
avere più abitazioni principali anche se non nello stesso territorio
comunale.
Poco convincente in tal senso, la circolare ministeriale n. 3/DF/2012 con la
quale si cercava appunto di “giustificare” la portata elusiva della predetta
previsione normativa perché «bilanciata da effettive necessità di dover
trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro comune,
ad esempio, per esigenze lavorative».
La decisione della Cassazione
Con la sentenza n. 26947/2017, la Cassazione torna a ribadire un principio
già noto in Ici in tema di dimora abituale del nucleo familiare: «In tema
d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della
detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi,
salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), occorre che il
contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo
propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla
detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo».
In applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che
l'immobile “de quo” costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non
della di lui moglie (Cassazione, ordinanze nn. 15444/2017, 12299/2017,
13062/2017, 12050/2010), specificando come nel caso trattato, la sentenza
impugnata si ponesse in evidente contrasto con il superiore principio, in
quanto è pacifico tra le parti, che il nucleo familiare della ricorrente né
risiede anagraficamente, né dimora abitualmente presso l'immobile oggetto di
tassazione, mentre l'unica a risiedere abitualmente nell'immobile è solo la
ricorrente, che, in tale situazione, non può invocare il diritto al
riconoscimento dell'esenzione.
Riaperta quindi e riconfermata la linea
“storica” della Cassazione in tema di dimora abituale, che se in Ici sembra
definitivamente sgomberare il campo da ulteriori ambiguità interpretative,
in Imu invece, rende ancor più evidenti le perplessità applicative circa la
valutazione dei requisiti sull'abitazione principale. Si resta in attesa di
ulteriori sviluppi, si spera definitivamente chiarificatori (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.12.2017).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a tre motivi, che possono essere
esaminati congiuntamente perché connessi, nei cui confronti il contribuente
ha resistito con controricorso, il comune di Alassio impugnava la sentenza
della CTR della Liguria, relativa a un avviso d'accertamento ICI per il
mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile adibito ad
abitazione principale, lamentando da una parte, il vizio di
violazione di legge, in particolare, dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n.
504/1992 e dell'art. 43 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3
c.p.c., e dall'altra, lamentando il vizio motivazionale, per
travisamento della prova, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5
c.p.c., in quanto, erroneamente, i giudici d'appello, avevano riconosciuto
il diritto della contribuente ad usufruire dell'esenzione oggetto di
controversia, benché nell'immobile oggetto di tassazione avesse fissato la
residenza anagrafica e dimorasse solo la stessa contribuente mentre, il
coniuge e i figli erano risultati pacificamente residenti e dimoranti in
altro comune.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma
semplificata.
L'articolata censura è fondata.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "In
tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della
detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi,
salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del
d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma 173, lett. b),
della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il
contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo
propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla
detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo (in
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata,
che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile
"de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui
moglie)" (Cass. ord. n.
15444/2017, Cass. ordd. nn. 12299/2017, 13062/2017, 12050/2010).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata si pone in evidente contrasto con
il superiore principio, in quanto è pacifico tra le parti, che il nucleo
familiare della ricorrente né risiede anagraficamente, né dimora
abitualmente presso l'immobile oggetto di tassazione, mentre l'unica a
risiedere abitualmente nell'immobile è solo la ricorrente, che, in tale
situazione, non può invocare il diritto al riconoscimento dell'esenzione.
Va, conseguentemente accolto il ricorso, cassata senza rinvio l'impugnata
sentenza e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, ex art.
384 c.p.c., rigettato l'originario ricorso introduttivo del ricorrente. |
VARI:
Crostacei, reato trattarli male.
Cassazione: sono come cani e gatti.
Compie reato il ristoratore che tiene i
crostacei vivi al freddo del frigo e con le
chele legate. L'interesse a non provocare
sofferenza ad aragoste e granchi prevale sui
costi di conservazione e si può parlare di
tutela analoga a quella di animali
d'affezione come cani e gatti.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III
penale, con
la
sentenza
16.06.2017 n. 30177 con cui ha fissato
per il gestore un'ammenda di 5 mila euro e
il risarcimento alla Lav, Lega
antivivisezione onlus, costituitasi parte
civile.
La Corte ha in realtà dato seguito
al proprio consolidato orientamento in base
al quale in tema di maltrattamento di
animali, il reato è integrato dalla
detenzione degli animali con modalità tali
da arrecare loro gravi sofferenze,
incompatibili con la loro natura. Per gli
animali domestici bisogna in tal caso fare
riferimento alla comune esperienza e
conoscenza, e per le altre specie alle
acquisizioni delle scienze naturali.
Corretta dunque l'interpretazione data dal
tribunale di Firenze, contro la cui
decisione il condannato ha fatto ricorso,
secondo cui è ampiamente diffusa, nei
ristoranti come nella grande distribuzione,
la consapevolezza di dover adottare metodi
di accoglienza degli animali più costosi e
complessi di un deposito in frigo con le
chele legate.
I crostacei erano quindi
tenuti dal ristoratore in condizioni
contrarie alle loro caratteristiche
etologiche, incompatibili con la loro natura
e produttive di grandi sofferenze. Di qui la
sua condanna a pagare le spese processuali a
favore di Cassa ammende e quelle legali pari
a 3 mila euro alla Lav
(articolo ItaliaOggi del
17.06.2017). |
VARI: La
targa occultata costa cara. Cassazione.
Risponde del reato di falso l'automobilista
che applica uno scaldacollo sulla targa per
impedire alla polizia di risalire al
trasgressore. Specialmente se l'autista non
è titolare della patente di guida.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la
sentenza
09.06.2017 n. 28963.
Un automobilista maldestro è stato trovato
in mezzo al traffico dalla polizia senza
patente di guida e con la targa oscurata da
un pezzo di stoffa. Contro la conseguente
condanna per falso e guida senza patente
l'interessato ha proposto ricorso in
cassazione.
Se da una parte effettivamente
la guida senza patente deve ritenersi
depenalizzata, lo stesso non vale per la
circolazione con la targa occultata. Anche
se l'art. 102 del codice della strada
sanziona amministrativamente questo
tipologia di comportamenti l'infrazione
accertata resta di carattere penale.
Del
resto è evidente che il trasgressore ha
dolosamente occultato la targa per non farsi
trovare alla guida di un veicolo senza
essere titolare di una necessaria licenza di
guida. Cosa diversa una targa sporca o
occultata accidentalmente. La multa in tal
caso sarebbe di solo 41 euro
(articolo ItaliaOggi del
20.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'avvocato
non si presta. Consiglio di stato dà ragione
ai legali.
Il comune non può mettere i propri avvocati
al servizio di altri enti. L'ufficio
unitario di avvocatura deve infatti essere
costituito ex novo con personale distaccato
dagli enti interessati all'attivazione.
Altrimenti, ne va dell'indipendenza
dell'avvocato.
È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza 07.06.2017 n. 2731, con cui ha respinto il ricorso
presentato dal comune di Busto Arsizio e
altri enti locali contro la decisione del
Tar Lombardia (n. 1608/2016) che accoglieva
invece le ragioni degli avvocati del comune
che erano stati messi «al servizio» di altri
enti sprovvisti di ufficio legale.
La convenzione prevedeva infatti che i
comuni aderenti individuassero
nell'avvocatura del comune di Busto Arsizio
l'ufficio unico per lo svolgimento delle
attività di rappresentanza e difesa in
giudizio nelle cause e affari facenti capo a
ciascuno degli enti (si veda ItaliaOggi del
18 novembre scorso).
La vicenda era
diventata una vera e propria battaglia tra
avvocati ed enti locali sull'utilizzo di
uffici legali congiunti, con, da una parte
l'Ordine degli avvocati di Milano che si è
schierato dalla parte dei legali, e
dall'altra gli enti locali, tra cui le
province di Monza e Brianza e Alessandria
che si sono schierati con il comune di Busto
Arsizio. Il Consiglio di stato sottolinea in
particolare la necessità dell'indipendenza
professionale dell'avvocato nella
trattazione esclusiva degli affari legali,
che costituisce un requisito della
professione.
Nel caso di un ufficio unico di
avvocatura, sottolinea il Consiglio di
stato, «la valutazione e le scelte da
intraprendere nei singoli casi a difesa
degli interessi di uno degli enti
convenzionati potrebbe attingere interessi
non coincidenti tra i vari membri della
convenzione». Per cui, solo una effettiva
autonomia professionale quale quella imposta
per legge, specifica palazzo Spada,
«consentirebbe di assicurare, in concreto,
l'esercizio di un'obiettiva funzione
professionale».
Il caso di specie è invece
al di fuori dello schema normativo perché si
tratta di una «unidirezionale mera messa a
disposizione dei servizio dell'ufficio
legale del comune di Busto Arsizio anche ad
altri enti territoriali, secondo un
dispositivo riconoscibile, in ultimo, a
schemi negoziali di tipo privatistico»
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: La
multa non tempestiva diventa carta da
macero.
Sui verbali degli autovelox deve essere
indicata chiaramente la data della commessa
violazione. E solo da quel giorno decorrono
i 90 giorni utili per la spedizione postale.
Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
con la
sentenza
07.06.2017 n. 1267.
La polizia locale di Milano ha installato
degli autovelox che in poche settimane hanno
letteralmente sommerso gli uffici di multe.
Non riuscendo a gestire il conseguente
carico amministrativo imprevisto il comando
ha forzato un po' la mano iniziando a
inviare verbali ben oltre al termine
canonico dei 90 giorni previsti dall'art.
201 del codice stradale. Ma incassando un
sacco di censure sia da parte del ministero
che dalla prefettura. Una associazione di
consumatori allora ha proposto ricorso al
Tar evidenziando l'irregolarità diffusa dai
vigili meneghini che ha determinato, di
fatto, un grave ritardo nella spedizione
delle multe per eccesso di velocità.
Nonostante numerose richieste
dell'associazione siano state ritenute
inammissibili, il collegio ha deciso che
risulta palesemente errata e dovrà quindi
essere corretta l'indicazione utilizzata nei
verbali dei vigili urbani finalizzata a far
decorrere il termine utile per la notifica
delle multe per autovelox dalla data di
visione dei fotogrammi da parte degli organi
di vigilanza.
Al posto dell'attuale frase
«il verbalizzante, in servizio presso
l'ufficio varchi della polizia municipale di
Milano in data , data dalla quale decorrono
i termini per la notifica del presente
verbale, ha accertato che il conducente del
veicolo...» andrà quindi evidenziato che i
termini per la notifica decorrono dalla data
della commessa violazione. Salvo casi
eccezionali, dunque, le multe per eccesso di
velocità devono essere notificate
tempestivamente.
Facendo propria la suddetta
interpretazione, conclude la sentenza, deve
ritenersi che il verbale della polizia
municipale debba indicare o che il termine
di notifica del verbale decorre
dall'accertamento, come indicato dalla
legge, oppure che i termini decorrono dalla
commessa violazione, salva la necessità di
acquisire informazioni indispensabili da
altri organismi
(articolo ItaliaOggi del
13.06.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: No
censura, solo avvertimento. Mano leggera col
legale che non ridà le carte al cliente. Le
sezioni unite della Corte di cassazione
interpretano il nuovo codice deontologico.
Niente censura, ma semplice
avvertimento al legale che, dopo la revoca
del mandato, non restituisce al cliente i
documenti delle pratiche seguite. Grazie al
nuovo codice deontologico infatti prevale il
principio del favor rei in luogo di
quello del tempus regit actum:
lo hanno chiarito le ss.uu. civili della
Corte di Cassazione nella
sentenza 06.06.2017 n.
13982.
A parere del collegio giudicante «nel
fissare il momento di transizione
dall'operatività del vecchio a quella del
nuovo codice deontologico, la nuova legge
professionale sancisce (...) esplicitamente
–così prevenendo le incertezze
interpretative manifestatesi in occasione di
precedenti successioni di norme
deontologiche (e, peraltro, risolte in base
al diverso criterio del tempus regit actum:
vedi: Cass. s.u. 17.06.2013, n. 15120;
Cass. s.u. 26.11.2008, n. 28159)– che
la successione nel tempo delle norme
dell'(allora) emanando nuovo codice
deontologico (e delle ipotesi d'illecito e
delle sanzioni da esse rispettivamente
contemplate) deve essere improntata al favor
rei».
Tra l'altro, spiega ancora la Corte,
l'ipotesi che andava presa in considerazione
nel caso di specie non era quella richiamata
dal ricorrente nei motivi di censura, bensì
quella della «mancata restituzione senza
ritardo degli atti e dei documenti ricevuti
dal cliente e dalla parte assistita per
l'espletamento dell'incarico con la consegna
di tutti gli atti e documenti, anche
provenienti da terzi, concernenti l'oggetto
del mandato e l'esecuzione dello stesso sia
in sede stragiudiziale che giudiziale», per
la quale ipotesi (ex art. 33 del nuovo
codice deontologico) sarebbe prevista
l'applicazione della sanzione
dell'avvertimento in luogo di quella più
grave della censura.
Così argomentando,
hanno quindi cassato la sentenza impugnata
sul punto relativo alla determinazione della
sanzione, rinviando la causa, anche per la
liquidazione delle spese del giudizio di
legittimità, al Cnf in diversa composizione
(articolo ItaliaOggi
Sette del
19.06.2017). |
APPALTI: Comunicati
dell'Anac: pareri non vincolanti. Le
stazioni appaltanti possono disattenderli.
I comunicati dell' Anac non sono vincolanti
e devono essere ritenuti «meri opinamenti
interpretativi» della disciplina sui
contratti pubblici.
Lo ha affermato il TAR Umbria con
l'ordinanza 31.05.2017 n. 428 che,
nell'ambito dell'interpretazione della
disciplina delle offerte anomale, ha avuto
modo di pronunciarsi sulla natura ed
efficacia dei comunicati emessi
dall'Autorità nazionale anticorruzione.
I giudici premettono che con il nuovo
sistema del decreto 50/2016, in completa
rottura rispetto al sistema precedente, non
esiste più un'unica fonte regolamentare
avente forma e sostanza di regolamento
governativo bensì una pluralità di atti, di
natura eterogenea, tra cui le linee guida
approvate dall'Anac che rappresentano «una
novità assoluta nella contrattualistica
pubblica» e che si distinguono in vincolanti
e non vincolanti, quest'ultime invero molto
più frequenti e assimilabili, secondo una
tesi, alla categoria di stampo
internazionalistico della cosiddetta «soft law oppure, seconda altra opzione, alle
circolari intersoggettive interpretative con
rilevanza esterna».
Dopo questa premessa i giudici, rispetto ad
un comunicato dell'ottobre 2016 dell'Anac,
hanno affermato che «va invece senz'altro
affermata la natura di meri pareri dei
comunicati del presidente dell'Anac, privi
di qualsivoglia efficacia vincolante per le
stazioni appaltanti, trattandosi di meri
opinamenti inerenti l'interpretazione della
normativa in tema di appalti pubblici».
Da ciò deriva che ogni stazione appaltante
può discostarsi dai comunicati Anac senza
«dover fornire alcuna motivazione». Per il
Tar, anche se i poteri dell'Autorità sono
«penetranti ed estesi», rimane il fatto che
«non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un
generale vincolante potere interpretativo
con effetto erga omnes affidato ad organo
monocratico di autorità amministrativa
indipendente, i cui comunicati ermeneutici,
per quanto autorevoli, possono senz'altro
essere disattesi».
La ragione è che si
tratta di «pareri atipici, privi di
efficacia vincolante per la stazione
appaltante e gli operatori economici»
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Legge 104, possibile derogare al
divieto di trasferimento.
Importante principio ribadito dalla Corte di
Cassazione, Sez. lavoro, con
sentenza
19.05.2017 n. 12729 in
materia di trasferimento del lavoratore che
assiste una persona con handicap.
In breve,
la Suprema corte ha statuito che
pur in
presenza del divieto sancito dalla legge
104/1992 che non consente il trasferimento
di tale lavoratore senza il suo consenso,
una comprovata esigenza aziendale quale può
essere la soppressione del posto occupato
dal lavoratore, giustifica il legittimo
trasferimento.
Il caso era sorto su azione
di una lavoratrice che aveva impugnato il
provvedimento di trasferimento ad altra sede
distante 10 km dalla precedente, assumendo
l'illegittimità della disposizione,
considerato il suo status di lavoratore che
assiste persona disabile convivente.
Tanto
il tribunale quanto la Corte d'appello,
rigettavano la domanda. In particolare, i
giudici d'appello avevano ritenuto che non
era pertinente quanto osservato circa la
mancata considerazione del disagio che lo
spostamento comportava per la situazione
personale e familiare della ricorrente,
poiché il posto occupato dalla ricorrente
medesima era stato soppresso e per la
propria professionalità l'unico posto
vacante era quello individuato nel
provvedimento di trasferimento.
La
lavoratrice insisteva con ricorso per
Cassazione. Si tratta di dirimere quanto la
lavoratrice sosteneva nel motivo in cui si
deduceva che occorreva tener conto del
disagio e personale e familiare che lo
spostamento comportava, tenuto conto della
propria condizione scaturente dalle garanzie
previste dalla legge 104/1992. L'art. 36,
comma 5, della stessa legge stabilisce che
«il lavoratore che assiste la persona con
handicap «ha diritto a scegliere, ove
possibile, la sede di lavoro più vicina al
domicilio della persona da assistere e non
può essere trasferito senza il suo consenso
ad altra sede».
La Suprema corte, con la
sentenza n. 25379 del 2012, ha affermato che
la disposizione dell'art. 33, comma 5, della
legge n. 104 del 1992, laddove vieta di
trasferire, senza consenso, il lavoratore
che assiste con continuità un familiare
disabile convivente, deve essere
interpretata in termini costituzionalmente
orientati in funzione della tutela della
persona disabile, sicché il trasferimento
del lavoratore è vietato anche quando la
disabilità del familiare, che egli assiste,
non si configuri come grave, a meno che il
datore di lavoro, a fronte della natura e
del grado di infermità psico-fisica di
quello, provi la sussistenza di esigenze
aziendali effettive e urgenti,
insuscettibili di essere altrimenti
soddisfatte.
Nella statuizione della Corte
d'appello non è stato quindi ravvisato il
vizio denunciato dalla ricorrente di non
avere tenuto conto della situazione
personale della ricorrente, in relazione
all'assistenza prestata, atteso che il
giudice di secondo grado nel rilevare il
venir meno del posto cui la lavoratrice era
in precedenza assegnata, riteneva la
sussistenza di esigenze aziendali effettive.
Sulla base di tale evidenza, il ricorso è
stato rigettato
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per chi assiste un disabile possibile il
trasferimento.
Cassazione. Se il posto viene soppresso.
Se il
posto di lavoro viene soppresso per
giustificate ragioni organizzative, il
dipendente che presta assistenza a un
familiare disabile, godendo dei benefici
previsti dalla legge 104/1992, non può
opporsi al trasferimento.
Così ha deciso la
Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 19.05.2017 n.
12729.
Una lavoratrice, con qualifica di capo
tecnico radiologo, ha adito il tribunale per
ottenere la declaratoria di illegittimità
del provvedimento aziendale con il quale è
stata trasferita dal poliambulatorio presso
il quale lavorava a un presidio posto a
circa 5 chilometri di distanza.
L’azienda ha sostenuto la legittimità del
provvedimento, sia perché conforme alla
disciplina del Ccnl del settore sanità, sia
perché motivato dalla avvenuta chiusura del
servizio di radiologia nel poliambulatorio
presso il quale lavorava la dipendente.
Di fronte alla circostanza mai smentita
dell’avvenuta chiusura del servizio di
radiologia nella sede di provenienza, e
della vacanza del posto di capo tecnico
presso il presidio cui è stata destinata, a
nulla sono valse le censure, considerate del
tutto generiche, sollevate dalla
lavoratrice, che ha lamentato l’omessa
considerazione del disagio che lo
spostamento le comportava in ragione della
sua situazione personale e familiare, nonché
la conseguente mortificazione della sua
professionalità.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso e
nel confermare l’esito dei due precedenti
gradi di giudizio, ha considerato infondate
o intempestive tutte le censure mosse dalla
lavoratrice, inclusa la doglianza volta a
censurare il trasferimento come atto di
ritorsione per il rifiuto di profferte
sessuali, basata su una sentenza penale,
intervenuta nelle more del giudizio di
appello, ai danni del superiore gerarchico
autore del trasferimento impugnato.
La Suprema corte, richiamando un
orientamento che risale alla pronuncia
25379/2012, ha statuito che «la disposizione
dell’articolo 33, comma 5, della legge
104/1992, laddove vieta di trasferire, senza
consenso, il lavoratore che assiste con
continuità un familiare disabile convivente,
deve essere interpretata in termini
costituzionalmente orientati in funzione
della tutela della persona disabile, sicché
il trasferimento del lavoratore è vietato
anche quando la disabilità del familiare,
che assiste, non si configuri come grave».
Ciò è vero, però, a condizione che il datore
di lavoro, cui spetta l’onere della prova,
non dimostri «la sussistenza di esigenze
aziendali effettive e urgenti,
insuscettibili di essere altrimenti
soddisfatte» (articolo Il Sole 24
Ore del 07.06.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI:
Elezioni. Al segretario il controllo delle
liste.
Nella presentazione delle liste elettorali
il segretario comunale ha l'onere di
effettuare una verifica puntuale tra quanto
presentato dal candidato e quanto
dichiarato.
Lo ha precisato il TAR Lombardia con
la
sentenza 19.05.2017 n. 1142 e la
n. 1143.
Il Tar ha rilevato come, ai
sensi dell'art. 32 del dpr n. 570/1960, vi
sia un vero e proprio onere del segretario
di rilasciare una «ricevuta dettagliata»
dopo aver effettuato una verifica puntuale
circa la rispondenza tra quanto presentato e
quanto dichiarato dal candidato.
La legge,
infatti, affida al segretario il ruolo di
filtro nel procedimento di presentazione
delle liste e l'errata indicazione della
completezza della documentazione scusa
l'errore del candidato
(articolo ItaliaOggi del
06.06.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Riscaldamento,
sì al fai-da-te. Il regolamento contrattuale
non può vietare il distacco. La Cassazione.
Al condomino restano le spese di
manutenzione dell'impianto.
Il regolamento condominiale, anche se
contrattuale, non può vietare il distacco
dal servizio centralizzato di riscaldamento
o onerare comunque il condomino di sostenere
le spese di utilizzo del medesimo. Eventuali
clausole devono infatti considerarsi nulle.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, (II
Sez. civile), con l'ordinanza
12.05.2017 n. 11970.
Il caso concreto.
Nella specie un condomino aveva impugnato le
delibere con le quali l'assemblea aveva
approvato il rendiconto e il preventivo
delle spese della gestione annuale del
riscaldamento condominiale e aveva rigettato
la richiesta di distacco dal relativo
impianto formulata dal comproprietario, in
quanto non consentita dal regolamento.
Il
condomino aveva quindi richiesto che il
tribunale accertasse il suo diritto di non
concorrere più alle spese di gestione del
riscaldamento centralizzato. Il condominio,
nel costituirsi in giudizio, aveva invocato
la previsione del regolamento contrattuale
che vietava il distacco dall'impianto
comune, eccependo altresì la mancanza, nel
caso di specie, dei requisiti legittimanti
l'operazione.
Il tribunale, decidendo sulle
domande avanzate dal condomino, aveva
ritenuto legittimo il distacco dall'impianto
ma aveva al contempo ritenuto valida la
clausola regolamentare, di fatto obbligando
il comproprietario a continuare a concorrere
alle spese di gestione, facendo quindi
venire meno una dei principali vantaggi
derivanti dall'operazione di distacco. La
sentenza, appellata dinanzi al giudice di
secondo grado, era stata integralmente
confermata.
Il distacco dall'impianto
centralizzato di riscaldamento.
Il tema del distacco dei condomini
dall'impianto centralizzato di
riscaldamento, affrontato a più riprese
dalla giurisprudenza di merito e di
legittimità, è stato oggetto anche della
recente riforma della disciplina del
condominio di cui alla legge n. 220/2012. E
in effetti il nuovo art. 1118 c.c. ha
previsto espressamente che «il condomino può
rinunciare all'utilizzo dell'impianto
centralizzato di riscaldamento o di
condizionamento, se dal suo distacco non
derivano notevoli squilibri di funzionamento
o aggravi di spesa per gli altri condomini.
In tal caso il rinunciante resta tenuto a
concorrere al pagamento delle sole spese per
la manutenzione straordinaria dell'impianto
e per la sua conservazione e messa a norma».
A tale proposito bisogna considerare che
l'impianto di riscaldamento è un bene comune
e, conseguentemente, il suo funzionamento è
regolato dal principio generale di
uguaglianza dei condomini nell'uso della
cosa comune, principio per il quale tutti i
servizi comuni devono essere fruiti dai
condomini in maniera uguale.
Ecco perché per
rendere legittimo il distacco devono
sussistere entrambe le condizioni previste
dal nuovo art. 1118 c.c. e cioè: a) il
distacco non deve determinare squilibri di
funzionamento o aggravi di spesa per gli
altri condomini; b) il condomino
rinunciante, in quanto resta comunque
comproprietario dell'impianto comune e si
limita semplicemente a non usufruirne, resta
comunque tenuto a concorrere al pagamento
delle spese di manutenzione straordinaria
dell'impianto e per la sua conservazione e
messa a norma (mentre è invece esonerato dal
dover sostenere le spese per l'uso del
servizio).
La decisione della Suprema
corte.
Fermo quanto sopra, nel caso specifico i
giudici di legittimità sono stati chiamati a
valutare un aspetto interessante e cioè se
in questi casi sia o meno valida e
vincolante la norma regolamentare che vieti
il distacco dall'impianto comune o che, con
effetti pratici analoghi, pur autorizzando
l'operazione, obblighi il condomino a
continuare a sostenere anche le spese per
l'utilizzo (in realtà assente) del servizio
comune.
La decisione della Suprema corte,
prima ancora che sulle novità legislative
degli ultimi anni, come detto decisamente
favorevoli al distacco dei condomini
dall'impianto di riscaldamento
centralizzato, si è basata su una
valutazione delle finalità e della meritevolezza di tutela giuridica di
clausole regolamentari siffatte.
Come è noto, il regolamento c.d.
contrattuale, originario o comunque
accettato da tutti i comproprietari nei
relativi atti di acquisto, vincola tutti in
condomini al suo contenuto, proprio perché
fatto proprio da ciascun condomino. È vero
però che nel corso degli anni questo
principio è stato meglio chiarito dalla
Suprema corte, nel senso di considerare come
realmente vincolanti per tutti i condomini
non tutte le clausole contenute in un
regolamento di natura contrattuale ma
soltanto quelle realmente incidenti sui
diritti esclusivi dei comproprietari e non
meramente finalizzate a disciplinare
l'utilizzo e la gestione delle parti comuni
(con la notevole differenza pratica per cui
dette clausole, anche se contenute in un
regolamento del genere, possono essere
modificate dall'assemblea anche a
maggioranza).
Nella specie i giudici di legittimità hanno
quindi ritenuto che la tesi sostenuta dal
condominio ricorrente e per la quale i
condomini, nell'ambito della propria
autonomia contrattuale, possano prevedere
che anche il comproprietario che si sia
legittimamente distaccato dall'impianto
centralizzato debba comunque continuare a
concorrere alle spese di gestione, debba
ritenersi superata alla luce dei più recenti
orientamenti giurisprudenziali (con
particolare riferimento a quanto affermato
nella sentenza n. 19893/2011 della Suprema
corte).
Con tale pronuncia la Cassazione ha
infatti precisato che laddove la rinuncia
del condomino all'impianto comune avvenga
senza pregiudizio del pari diritto degli
altri comproprietari, sia legittimo
l'esonero dalle spese per l'utilizzo del
medesimo, nonostante il dissenso degli altri
condomini. L'eventuale disposizione
contraria contenuta in un regolamento di
natura contrattuale, secondo i giudici, deve
infatti essere valutata tenendo conto che
quest'ultimo si sostanzia in «un contratto
atipico meritevole di tutela solo in
presenza di un interesse generale
dell'ordinamento».
Deve pertanto
considerarsi nulla la disposizione
regolamentare che impedisca tout-court il
distacco del singolo condomino, così come la
diversa ma, agli effetti pratici, analoga
previsione dell'obbligo del condomino di
sostenere le spese di gestione del servizio
malgrado il distacco, «dovendosi
ragionevolmente sostenere», si legge nella
sentenza, «che la permanenza di tale
obbligazione di fatto assicuri la
sopravvivenza della clausola affetta da
nullità, impedendo il prodursi di quello che
è il principale e auspicato beneficio che il
condomino intende trarre dalla decisione di
distaccarsi dall'impianto comune».
Secondo
la Suprema corte, infatti, non appare
sostenibile, né logicamente né
giuridicamente, che le diverse previsioni
regolamentari del divieto di distacco e
dell'obbligo di pagamento del servizio anche
qualora non se ne usufruisca possano avere
una diversa sorte in punto di accertamento
della loro validità. A conforto di queste
conclusioni la seconda sezione civile della
Cassazione ha quindi richiamato la
menzionata disposizione di cui al nuovo art.
1118 c.c., «previsione che riveste chiara
portata ricognitiva dello stato della
giurisprudenza sul punto».
Nella sentenza in
questione è stato inoltre ricordato il
dettato di cui all'art. 26 della legge n.
10/1991 (che prevedeva un abbassamento del
quorum assembleare per le innovazioni
relative all'adozione di sistemi di
termoregolazione e contabilizzazione del
calore negli edifici) e il contenuto della
legge n. 102/2014 (che ha imposto ai
condomini il predetto sistema di calcolo e
suddivisione delle spese del riscaldamento).
Da queste disposizioni, secondo i giudici di
legittimità, «emerge un quadro normativo che
denota l'intento del legislatore di
correlare il pagamento delle spese di
riscaldamento all'effettivo consumo, consumo
che chiaramente non sussiste nel caso di
legittimo distacco»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
12.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi
raddoppiati in caso di handicap. La sentenza
della Corte di cassazione sulla fruibilità
della misura da parte dei genitori.
Il dlgs 151/2001 recante norme in materia di
maternità e paternità, prevedeva all'art.
42, comma 5, la facoltà per il genitore di
figlio portatore di handicap grave di fruire
di un congedo entro il limite di due anni.
La norma anzidetta è stata da ultimo
riscritta ed ampliata con le modifiche alla
disciplina in materia di permessi e congedi
per l'assistenza alle persone con disabilità
di cui al decreto legislativo 18.07.2011, n.
119. Secondo l'Inps, tale congedo poteva
essere fruito dal genitore solo una volta
nell'arco della vita lavorativa, anche se i
figli nelle medesime condizioni di handicap
grave fossero due.
Non è così per la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, come
statuito in
sentenza
05.05.2017 n. 11031.
La Corte d'Appello rigettava il gravame
proposto dall'Inps contro la pronuncia di
primo grado che aveva accolto la domanda di
una lavoratrice riconoscendole il diritto a
fruire del congedo ex art. 42, comma 5, dlgs 151/2001 entro il limite di due anni per
ciascuno dei figli minori portatori di
handicap grave.
A fondamento della domanda
la Corte territoriale affermava che il
diritto al congedo biennale ai sensi
dell'art. 4, comma 2, della legge 53/2000
potesse essere attribuito più volte in capo
allo stesso lavoratore nell'ipotesi in cui
vi fossero più soggetti in relazione ai
quali il beneficio potesse essere richiesto;
essendo il diritto attribuito a ciascuno dei
figli minori affetto da handicap grave;
mentre l'espressione riferita alla «durata
complessiva di due anni» consente di sommare
i periodi di congedo goduti alternativamente
da entrambi i genitori, ma non i congedi
relativi ad altri figli in situazione di
handicap grave.
Avverso detta sentenza
insisteva l'Inps con ricorso per Cassazione,
atteso che le affermazioni della Corte di
merito erano in contrasto con la
formulazione letterale delle norme citate
dalle quali si evinceva che il diritto al
congedo biennale può essere fruito una sola
volta, in maniera continuativa o frazionata,
nell'arco della vita lavorativa. Per la
suprema Corte la tesi dell'Inps è da
ritenersi infondata.
L'art. 42, 5° comma, del dlgs 151/2001 riconosceva il diritto al
congedo per handicap grave ad entrambi i
genitori sostenendo che lo stesso non possa
superare «la durata complessiva di due
anni». L'art. 4, comma 2, della legge 53/2000
parla allo stesso scopo di un «periodo di
congedo, continuativo o frazionato non
superiore a due anni». L'art. 2 del dm
278/2000 prevede con analoga formula che il
congedo biennale in questione «può essere
utilizzato per un periodo, continuativo o
frazionato non superiore a due anni
nell'arco della vita lavorativa.»
Nessuna
delle disposizioni citate autorizza però ad
affermare che sul piano letterale la legge
abbia inteso riferirsi alla durata
complessiva dei possibili congedi fruibili
dall'avente diritto, anche nell'ipotesi in
cui i soggetti da assistere fossero più di
uno; non è quindi condivisibile che esaurito
il periodo complessivo di due anni il
genitore non abbia più diritto nell'arco
della vita lavorativa ad altro periodo di
congedo, nell'ipotesi in cui avesse un altro
figlio da assistere in situazione di
handicap grave.
Le stesse norme, secondo una
interpretazione costituzionalmente orientata
ai sensi degli artt. 2, 3, 32 Cost. possono
essere intese soltanto nel senso che il
limite dei due anni, in effetti non
superabile nell'arco della vita lavorativa
anche nel caso di godimento cumulativo di
entrambi i genitori, si riferisca tuttavia a
ciascun figlio che si trovi nella prevista
situazione di bisogno, in modo da non
lasciarne alcuno privo della necessaria
assistenza che la legge è protesa ad
assicurare.
Nella stessa direzione si
esprime ora, espressamente, la stessa legge
grazie all'art. 4 del decreto Legislativo 18.07.2011, n. 119 che ha modificato
l'articolo 42, decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, in materia di congedo per
assistenza di soggetto portatore di handicap
grave, introducendo un comma 5-bis del
seguente tenore: «Il congedo fruito ai
sensi del comma 5 non può superare la durata
complessiva di due anni per ciascuna persona
portatrice di handicap e nell'arco della
vita lavorativa...».
Tale esplicitazione
normativa, introdotta dal decreto 119/2011,
deve ritenersi confermativa del tenore della
legge precedente (come risulta anche dalle
indicazioni fornite dalla Circolare Inpdap
10.01.2002, n. 2 e dalla Circolare
Inpdap del 12.03.2004 n. 31). Le
considerazioni sin qui svolte hanno imposto
quindi il rigetto del ricorso promosso
dall'Inps avverso la sentenza impugnata che
invece aveva fatto buon governo
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
APPALTI:
Tar e giudici ordinari, competenze confuse.
Riparto di giurisdizione confuso tra i Tar e i giudici ordinari. È
competente il giudice ordinario per le controversie riguardanti la revoca
dell'aggiudicazione definitiva da parte dell'amministrazione comunale per
inadempimento dell'appaltatore delle obbligazioni contrattuali in seguito
all'affidamento dell'attività di accertamento tributario. Sono devolute al
giudice amministrativo solo le cause relative alle procedure di affidamento
dell'appalto.
È quanto ha affermato il TAR Calabria-Reggio Calabria,
con la
sentenza 04.05.2017 n. 425.
Per i giudici amministrativi, «le
controversie comunque concernenti la fase di esecuzione del contratto sono
devolute alla giurisdizione del G.O., dato che concernono i diritti e gli
obblighi delle parti che attengono allo svolgimento del rapporto negoziale».
Pertanto, le cause che hanno a oggetto la revoca dell'aggiudicazione
definitiva da parte dell'amministrazione comunale per inadempimento
dell'appaltatore non possono che essere attribuite alla giurisdizione del
giudice ordinario.
Del resto, ricordano i giudici, «le obbligazioni
contrattuali assunte mediante l'esecuzione anticipata rientra nella
giurisdizione del G.O., poiché attiene, sostanzialmente, alla fase della
esecuzione del contratto». In questi casi, infatti, nel processo la parte
interessata intende tutelare un proprio diritto soggettivo.
Nella pronuncia
il Tar a conforto della propria tesi richiama l'interpretazione della
Cassazione che, nella qualità di giudice regolatore della giurisdizione, ha
affermato il principio secondo cui sono devolute alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo solo le cause derivanti dalle procedure
di affidamento dell'appalto. Qualora, invece, si tratti di violazioni
commesse dall'appaltatore nell'ambito dell'esecuzione del contratto, di
azioni risarcitorie per inadempienze di cui si è reso responsabile per
l'incarico affidato (nel caso di specie il recupero dell'evasione fiscale
attraverso lo svolgimento dell'attività di accertamento), non vi può essere
«alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario».
In realtà, tutto
ciò è estraneo al procedimento di aggiudicazione dell'appalto e al rispetto
delle regole per la scelta del contraente da parte della pubblica
amministrazione
(articolo ItaliaOggi del
17.05.2017).
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MASSIMA
3. Ciò doverosamente premesso, deve tuttavia essere dichiarato il
difetto di giurisdizione del Giudice adito, per essere la controversia in
esame devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario.
Reputa il Collegio di aderire all’orientamento pacifico ( v. SS.UU,
18.10.2005, n. 20116; SS.UU, 06.05.2005, n. 9391; TAR Toscana, I,
27.06.2016, n. 1088, e n. 610/2016), secondo cui
le controversie comunque concernenti la fase
di esecuzione del contratto sono devolute alla giurisdizione del G.O., dato
che concernono i diritti e gli obblighi delle parti che attengono allo
svolgimento del rapporto negoziale.
Invero,
deve ritenersi che le controversie aventi ad
oggetto la revoca dell’aggiudicazione definitiva da parte della p.a. per
l'inadempimento da parte dell'appaltatore delle obbligazioni contrattuali
assunte mediante l’esecuzione anticipata rientra nella giurisdizione del
G.O., poiché attiene, sostanzialmente, alla fase della esecuzione del
contratto.
Invero,
l’accettazione dell’esecuzione anticipata da
parte dell’aggiudicataria implica la conclusione di un vero e proprio
accordo di matrice negoziale, il cui inadempimento attrae la controversia
nella giurisdizione del giudice ordinario, in ragione del fatto che le
reciproche posizioni delle parti assumono la consistenza del diritto
soggettivo
(Cass., S.U., n. 9391/2005).
La Corte Suprema di Cassazione, quale giudice regolatore della
giurisdizione, ha statuito che
sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del Giudice Amministrativo solo le controversie derivanti dalle procedure di
affidamento dell’appalto, mentre per quelle che traggono origine
dall’esecuzione del contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del
giudice ordinario; pertanto, ove l'impresa appaltatrice dia anticipatamente
avvio alla prestazione nelle more della stipula del contratto, allorché si
discuta dell'inadempimento di quest'ultima nell’esecuzione anticipata e
della risoluzione del rapporto o di questioni risarcitorie connesse a
inadempienze riguardanti l’esecuzione dei lavori, siffatta controversia
-essendo estranea alla tematica dell'aggiudicazione, ovvero del procedimento
attraverso il quale la pubblica amministrazione sceglie il proprio
contraente- appartiene alla cognizione del Giudice Ordinario riguardando
l’esecuzione del rapporto (sia pure anticipata rispetto alla stipula formale
del negozio: SS.UU. 06.05.2005, n.
9391; TAR Sicilia, Palermo, I, 13.06.2012, n. 1219; TAR Calabria, Catanzaro,
II, 02.02.2016, n. 206).
4. Alla luce delle superiori considerazioni, deve dichiararsi
l’inammissibilità del gravame per difetto di giurisdizione dell’adìto
Giudice Amministrativo, con contestuale declinatoria in favore del Giudice
Ordinario, dinanzi al quale il presente giudizio potrà essere riassunto ai
sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 cpa. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Danni p.a., ok 120 giorni per la
richiesta.
Tempi stretti per chiedere i danni alla p.a.
per lesione di interessi legittimi (ad
esempio da permessi da costruire
illegittimi). La legge prevede 120 giorni,
decorsi i quali si decade. Ma questo limite
non viola la Costituzione.
La Corte costituzionale con la
sentenza
04.05.2017 n.
94 ha salvato l'articolo 30, comma
3, del Codice del processo amministrativo (dlgs
104/2010).
L'articolo in questione prevede che la
domanda di risarcimento per lesione di
interessi legittimi debba essere proposta
entro il termine di decadenza di centoventi
giorni, decorrente dal giorno in cui il
fatto si è verificato o dalla conoscenza del
provvedimento se il danno deriva
direttamente da questo.
Il caso è stato sollevato dal Tar Piemonte
nel corso di un giudizio promosso da una
società contro un comune per ottenere il
risarcimento derivante da quattro permessi
di costruire poi riconosciuti illegittimi.
La società ha comprato terreni edificabili e
ha chiesto i permessi per costruire tre
ville, un strada e le urbanizzazioni.
I lavori hanno subito uno stop immediato per
effetto di una sospensione intimata
dall'Anas, cui il comune si era dimenticato
di chiedere un nullaosta.
Questo è arrivato, ma ormai dopo un anno,
cioè quando la situazione del mercato
immobiliare ha sconsigliato la società di
proseguire.
In conclusione, per i ritardi accumulati
imputabile all'amministrazione, il progetto
non era stato portato avanti e la società ha
chiesto i danni al comune.
Il Tar, però, ha constatato che la domanda
di risarcimento danno era tardiva perché
erano trascorsi più di 120 giorni dalla
conoscenza dei fatti, da cui è derivata la
possibilità di agire in via risarcitoria
(cioè nel momento in cui l'Anas ha bloccato
i lavori).
Il Tar Piemonte ha portato la questione alla
Corte costituzionale, che però non ha
ritenuto fondata l'eccezione.
Il problema è la previsione di un termine
corto per avviare un processo per chiedere
in via autonoma il risarcimento dei danni
alla pubblica amministrazione per violazione
dell'interesse legittimo, mentre per la
lesione dei diritti soggettivi vale il
termine di prescrizione di cinque anni. Non
ci sarebbe parità di trattamento. In gioco
ci sarebbe poi il diritto di difesa, da
valutare anche alla luce della dichiarazione
europea dei diritti dell'uomo.
La Consulta ha seguito un diverso
orientamento.
Il codice del processo amministrativo
prevede che il risarcimento del danno
effetto della illegittima attività della
pubblica amministrazione possa essere
ottenuto proponendo l'azione di condanna
esercitata in via autonoma e, in questo
caso, scatta la tagliola dei 120 giorni. In
via autonoma significa senza impugnare
l'atto che causa il danno. Se non si impugna
l'atto si hanno 120 giorni di tempo e poi il
diritto si estingue.
Ma secondo la Corte costituzionale non c'è
lesione del principio di uguaglianza o altro
profilo di irragionevolezza della norma.
La Consulta ricorda che il legislatore gode
di ampia discrezionalità in tema di
disciplina degli istituti processuali e
questo vale anche per i termine decadenziale
o prescrizionale a seconda delle peculiari
esigenze del procedimento.
Qui abbiamo l'interesse generale a non
lasciare in sospeso una questione importante
come l'eventuale debito per danna da pagare
al privato. Tra l'altro, conclude la
Consulta, il termine di 120 giorni è anche
più lungo di altri termini decadenziali
previsti in altri casi e di per sé il
termine non rende praticamente impossibile o
eccessivamente difficile l'esercizio dei
diritti di difesa come delineato anche dalla
disciplina si diritti dell'uomo
(articolo ItaliaOggi del
05.05.2017). |
APPALTI: Non osservare la finestra temporale esclude
dalla gara.
Appalti/il caso dei file inviati in anticipo
rispetto ai tempi previsti.
Un partecipante alla gara che incorra nella
violazione della disposizione relativa alla
osservanza della «finestra temporale» viene
espulso a prescindere dalla circostanza che
il file trasmesso in anticipo, contenente
l'offerta tecnica, risulti in concreto
essere stato aperto e visionato prima della
scadenza del termine ultimo fissato per la
«marcatura temporale» dei file.
Lo ricorda il TAR Piemonte, con
ordinanza
20.04.2017 n. 168 rilevando però che il meccanismo
determina effetti paradossali: infatti,
laddove in concreto il file trasmesso in
anticipo rispetto alla «finestra temporale»
non sia aperto e visionato prima della
scadenza fissata per la «marcatura
temporale» dei file (momento a partire dal
quale le offerte diventano immutabili per
tutti i partecipanti alla gara), è evidente
che la violazione di cui si discute è
inidonea ad influire sulla formazione delle
offerte tecniche degli altri partecipanti.
Così, l'espulsione del concorrente che
presenta la propria offerta in anticipo
rispetto alla «finestra temporale» finisce
per integrare una sanzione meramente
punitiva, illegittima in quanto contraria al
principio di tassatività delle cause di
esclusione e, al contempo, perché di fatto
induce una limitazione della concorrenza.
Laddove, al contrario, prima della scadenza
del termine fissato per la «marcatura
temporale» risulti che il file contenente
l'offerta tecnica trasmessa in anticipo sia
stato aperto da taluno, si può in effetti
ipotizzare un effetto potenziale distorsivo
della gara, conseguente al fatto che la
(illegittima) visione dell'offerta
presentata in anticipo può influire sulla
formulazione delle offerte tecniche da parte
di altri partecipanti.
Il rispetto del
principio di segretezza delle offerte
dovrebbe tuttavia determinare, in una simile
evenienza, la preclusione ad esaminare non
solo, e non tanto, l'offerta presentata in
anticipo –che il ricordato principio di
segretezza certamente non può aver violato–
quanto piuttosto tutte le offerte presentate
in un momento successivo. Rispetto a tale
evenienza l'espulsione del concorrente che
ha presentato l'offerta in anticipo risulta
integrare una misura assolutamente
inadeguata a mettere la gara al riparo dalle
potenziali distorsioni conseguenti alla
violazione della segretezza delle altrui
offerte.
I giudici amministrativi si sono espressi
con ordinanza su un ricorso per
l'annullamento previa sospensione
dell'efficacia della comunicazione
d'esclusione ex art. 76, comma 5, lett. b),
dlgs 50/2016 con cui veniva disposta
l'estromissione della società Alfa dalla
gara espletata tramite sistema dinamico di
acquisizione per la fornitura di dispositivi
medici a favore delle aziende del servizio
sanitario della Regione Piemonte e Valle
d'Aosta
(articolo ItaliaOggi
Sette del
05.06.2017).
---------------
MASSIMA
Il Collegio,
- rilevato,
all’esito della pur sommaria cognizione
propria della fase cautelare,
che l’art. 14 della lettera di
invito 22.11.2016 nonché la Comunicazione
30.11.2016, che ha disposto la proroga dei
termini relativi alla apposizione della
firma digitale, alla marcatura digitale dei
files ed all’invio della offerta tecnica,
appaiono illegittimi nella parte in cui
prevedono l’esclusione dalla gara a carico
dei partecipanti che trasmettano l’offerta
tecnica fuori dalla “finestra temporale”
individuata a tale scopo dal citato articolo
14, ancorché in anticipo sul termine finale,
da ultimo fissato al 17.01.2017 ore 12;
- rilevato, infatti, che in forza della censurate
previsioni della lex specialis di
gara il partecipante che incorra nella
violazione della disposizione relativa alla
osservanza della “finestra temporale”
-indicata all’art. 14 della lettera di
invito– viene espulso a
prescindere dalla circostanza che il file
tramesso in anticipo, contenente l’offerta
tecnica, risulti in concreto essere stato
aperto e visionato prima della scadenza del
termine ultimo fissato per la “marcatura
temporale” dei files;
- considerato che il sopra descritto meccanismo
determina effetti paradossali:
● infatti, laddove in concreto il file
trasmesso in anticipo rispetto alla “finestra
temporale” non sia aperto e visionato
prima della scadenza fissata per la “marcatura
temporale” dei files (momento a partire
dal quale le offerte diventano immutabili
per tutti i partecipanti alla gara), è
evidente che la violazione di cui si discute
è inidonea ad influire sulla formazione
delle offerte tecniche degli altri
partecipanti, di guisa che l’espulsione del
concorrente che presenta la propria offerta
in anticipo rispetto alla “finestra
temporale” finisce per integrare una
sanzione meramente punitiva, illegittima in
quanto contraria al principio di tassatività
delle cause di esclusione e, al contempo,
perché di fatto induce una limitazione della
concorrenza;
● laddove, al contrario, prima della
scadenza del termine fissato per la “marcatura
temporale” dei files risulti che il file
contenente l’offerta tecnica trasmessa in
anticipo sia stato aperto da taluno, si può
in effetti ipotizzare un effetto potenziale
distorsivo della gara, conseguente al fatto
che la (illegittima) visione della offerta
presentata in anticipo può influire sulla
formulazione delle offerte tecniche da parte
di altri partecipanti: il rispetto del
principio di segretezza delle offerte
dovrebbe tuttavia determinare, in una simile
evenienza, la preclusione ad esaminare non
solo, e non tanto, l’offerta presentata in
anticipo –che il ricordato principio di
segretezza certamente non può aver violato–
quanto piuttosto tutte le offerte presentate
in un momento successivo, di guisa che
rispetto a tale evenienza l’espulsione del
concorrente che ha presentato l’offerta in
anticipo risulta integrare una misura
assolutamente inadeguata a mettere la gara
al riparo dalle potenziali distorsioni
conseguenti alla violazione della segretezza
delle altrui offerte;
- considerato conclusivamente che,
all’esito del sommario esame proprio della
fase cautelare, la
clausola di esclusione oggetto di gravame,
sanzionando il solo concorrente che presenta
l’offerta tecnica in anticipo, appare in
concreto inadeguata a tutelare il principio
di segretezza ed a garantire il corretto
svolgimento della gara, e che tale
constatazione sarebbe di per sé sufficiente
a qualificare la clausola medesima quale
causa di esclusione illegittima e come tale
priva di efficacia ai sensi dell’art. 83,
comma 8, D.L.vo 50/2016;
- ritenuto, a conferma della inutilità ed
illegittimità della clausola di esclusione
in esame, che in realtà la Stazione
Appaltante avrebbe potuto tutelare la
segretezza delle offerte attivando –o
facendo attivare- dispositivi idonei a
respingere automaticamente eventuali files
inviati in anticipo rispetto alla apertura
della “finestra temporale” e sino ad
apertura della stessa, nonché chiedendo ai
partecipanti di “criptare” i files e
di fornire i codici di accesso ai medesimi
in un momento successivo alla chiusura della
“finestra temporale” e/o alla “marcatura
temporale” dei files;
- ritenuto
conclusivamente che sussiste il fumus
del ricorso e che va salvaguardata la
possibilità per la ricorrente di partecipare
alla gara di che trattasi;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il
Piemonte (Sezione Prima) accoglie la
suindicata domanda cautelare e per
l’effetto:
- sospende il
provvedimento 24/02/2017 Prot. n. 2010 a
mezzo del quale il RUP ha disposto
l’esclusione della ricorrente dalla gara;
- dispone la
ri-ammissione con riserva della ricorrente
alla gara indetta con gli atti indicati in
epigrafe;
- fissa per la discussione del merito la pubblica udienza
dell’08.11.2017. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Non
agibilità, locazione valida. Se l'assenza
del certificato era nota il contratto
rimane. Il principio della Corte di
cassazione in una sentenza del 13/4 sugli
immobili commerciali.
L'assenza del certificato di agibilità, se
nota al conduttore di un immobile
commerciale (ma anche in caso di vendita di
abitazioni tra privati), non ha alcun
effetto sulla validità stessa del contratto
di locazione. L'inadempimento del locatore
si ha solo quando la mancanza di titoli
autorizzativi dipenda da carenze intrinseche
o da caratteristiche proprie del bene
locato, tali impedire il rilascio degli atti
amministrativi necessari per l'esercizio
dell'attività.
È il principio espresso dalla Corte di
Cassazione, III Sez. civile (ordinanza 13.04.2017 n. 9558) sull'eventuale
nullità di un contratto di locazione di un
immobile per attività d'impresa in assenza
del certificato di agibilità.
La funzione
del certificato di agibilità è quella di
attestare la sussistenza di determinati standards igienici e sanitari e di
sicurezza, garantendo che in fase di
costruzione, siano state osservate
determinate prescrizioni igienico-sanitarie,
in base alle leggi vigenti al momento della
costruzione o dell'intervento.
Il fatto.
Tizia chiedeva la risoluzione del
contratto di locazione di immobile ad uso
diverso da quello abitativo per
inadempimento della società cooperativa per
i mancati versamenti delle mensilità
pattuite, nonché la condanna della stessa al
pagamento dei canoni maturati nel periodo
agosto 2009-settembre 2010.
La Corte d'appello di Roma (con la sentenza
05/06/2014 n. 3784) evidenziava che la
condizione giuridica dell'immobile, non
conforme alla vigente normativa urbanistica,
non cagionava la nullità ex articolo 1418,
comma 2, c.c. del contratto di locazione, in
quanto tale condizione era stata
specificamente indicata nel contratto stesso
ed accettata dalla conduttrice, che aveva
approvato per iscritto separatamente la
relativa clausola, rimanendo quindi esclusa
l'applicazione della disciplina normativa
dei vizi della cosa locata.
I giudici della Cassazione, rigettando il
ricorso presentato dalla società, la
condannavano al pagamento dei canoni mensili
e le relative spese in favore della
ricorrente.
Vendita e locazione senza certificato di
agibilità.
La Corte di cassazione, con la
sentenza dell'8 febbraio 2016 n. 24386, ha
stabilito che la vendita di un immobile ad
uso abitativo privo di certificato di
agibilità:
- configura una vendita di cosa in parte o
del tutto diversa da quella dedotta in
contratto;
- il compratore può chiedere legittimamente
o la risoluzione del contratto (ovvero lo
scioglimento del contratto) o l'adempimento
dello stesso qualora abbia interesse
all'acquisto, ferma la possibilità di
chiedere il risarcimento dei danni;
- l'acquirente può rifiutarsi di firmare il
rogito notarile, anche qualora abbia già
stipulato il contratto preliminare di
compravendita;
- se manca l'agibilità per adibire un
immobile a casa di abitazione e quindi
l'immobile può essere utilizzato solo per
altri scopi (ad es.: magazzino) l'acquisto è
valido lo stesso, ma l'acquirente ha
acquistato una cosa per un altra, con
lesione dei suoi diritti.
In tema di locazione d'immobili ad uso
diverso da abitazione, diversamente che per
le autorizzazioni amministrative (come
l'iscrizione alla camera di commercio),
ovvero di quelle di pubblica sicurezza
necessarie all'esercizio di specifiche
attività (o per poter adibire i locali a
pubblici spettacoli), incombe sul locatore
l'obbligo di curare l'ottenimento del
certificato di abitabilità.
Quest'ultimo è posto a tutela delle esigenze
igieniche e sanitarie nonché degli interessi
urbanistici e attestante l'idoneità
dell'immobile a essere «abitato» e più
generalmente ad essere frequentato dalle
persone fisiche. La mancanza dello stesso
determina non la nullità del contratto per
illiceità dell'oggetto, bensì una situazione
d'inadempimento.
Le norme sul certificato di agibilità.
È con
l'articolo 26 del dpr 06.06.2001 n. 380
(Testo unico delle disposizioni legislative
e regolamentari in materia edilizia) che
vengono disciplinati casi e modalità di
rilascio del certificato di agibilità.
Ai fini dell'agibilità, entro 15 giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura
dell'intervento, il soggetto titolare del
permesso di costruire, o il soggetto che ha
presentato la segnalazione certificata di
inizio di attività, o i loro successori o
aventi causa, presentano allo sportello
unico per l'edilizia la segnalazione
certificata, per i seguenti interventi:
- nuove costruzioni;
- ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o
parziali;
- interventi sugli edifici esistenti che
possano influire sulle condizioni di igiene
e sicurezza.
Pertanto a partire dall'entrata in vigore
del T.u. sull'edilizia, il certificato di
agibilità deve essere richiesto solo per i
nuovi edifici (ossia quelli costruiti
successivamente al 30/06/2003) o per quelli
già esistenti per i quali siano stati
eseguite talune tipologie di interventi
edilizi. Non sussiste invece nessun obbligo
di richiedere il certificato di agibilità
per le vecchie costruzioni che non siano
state oggetto di interventi successivamente
all'entrata in vigore del dpr 380/2001.
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Contratti a canone
concordato, regole in chiaro.
I contratti a canone concordato possono
essere sottoscritti in qualsiasi città, ma è
anche vero che la chance delle agevolazioni
fiscali che può indurre i proprietari di
casa a optare per questo strumento vale solo
per gli immobili localizzati nei c.d. comuni
ad alta tensione abitativa. Il recente
decreto del ministero delle infrastrutture e
dei trasporti del 16.01.2017,
pubblicato in G.U. lo scorso 15 marzo e in
vigore dal 30 marzo, nel lasciare
sostanzialmente immutato l'impianto
normativo, non ha quindi potuto risolvere
uno dei problemi che rendono poco appetibile
questo strumento.
Gli incentivi fiscali della deduzione Irpef
del 30% e della riduzione del 30% della base
imponibile della tassa di registro, nonché,
soltanto fino al 31.12.2017,
l'aliquota del 10% della cedolare secca,
sono infatti stati previsti per i contratti
di locazione agevolati dall'art. 8 della
legge n. 431/98 (dunque da una norma di
legge) soltanto per i comuni ad alta
tensione abitativa, laddove l'ulteriore
beneficio della possibile riduzione del 25%
dell'Imu e della Tasi, introdotto con la
legge di stabilità del 2016, si applica
all'intero territorio nazionale. La
limitazione territoriale degli incentivi
fiscali, seppure all'epoca motivata da altre
ragioni, rischia però di stroncare sul
nascere qualsiasi velleità di rilancio di
tale strumento contrattuale.
I proprietari di casa, infatti,
sottoscrivendo un accordo del genere,
rinunciano ad applicare i ben più cospicui
canoni di mercato, rimessi alla libera
contrattazione.
È vero che, oggigiorno, vista la grave
situazione di crisi economica e l'impennata
vertiginosa del numero degli sfratti per
morosità, un canone più basso (e, dunque,
maggiormente sostenibile), può rappresentare
una migliore garanzia di adempimento da
parte del conduttore, ma il beneficio
fiscale connesso a tale strumento negoziale
rappresenta di gran lunga la principale
motivazione che spinge il locatore a
tollerare l'imposizione del calmiere.
Al decreto ministeriale sono allegati gli
schemi contrattuali da utilizzare in questi
casi, ma la determinazione della misura del
canone agevolato sulla base degli accordi
territorialmente applicabili continua a
essere un'operazione non certo alla portata
di tutti, rendendo quindi consigliabile il
ricorso a un'organizzazione di categoria dei
proprietari o degli inquilini.
Ove ciò non sia avvenuto, qualora cioè le
parti abbiano provveduto da sole alla
redazione e alla sottoscrizione del
contratto di locazione a canone agevolato, è
però previsto che le stesse possano
rivolgersi all'occorrenza alle apposite
commissioni di negoziazione paritetica e di
conciliazione giudiziale che la nuova
convenzione nazionale dello scorso ottobre
2016 ha previsto di istituire presso le
organizzazioni di categoria.
Dette
commissioni, infatti, potranno attestare la
rispondenza del contenuto normativo ed
economico dei contratti agli accordi di
riferimento, oltre a tentare di risolvere transattivamente eventuali controversie
insorte tra le parti circa l'interpretazione
e/o l'esecuzione del contratto di locazione
e/o degli accordi territoriali o
integrativi, evitando così l'avvio di nuovi
contenziosi giudiziali
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'01.05.2017).
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MASSIMA
La questione della nullità del
contratto è stata compiutamente esaminata
dalla Corte
territoriale, sotto entrambi i profili di
illiceità dell'oggetto e di illiceità della
causa.
In
particolare, quanto al primo aspetto, i
Giudici di merito hanno rilevato che la
difformità
urbanistica dell'immobile, specificamente
per quanto concerneva la destinazione
commerciale dei locali, era stata oggetto di
espressa clausola, sottoscritta anche
separatamente dalla società conduttrice, in
conformità all'art. 1341, comma 2, c.c.,
traendone la conseguenza, da un lato, che la
condizione di difformità urbanistica
dell'immobile non inficiava la illiceità
della prestazione (concessione in godimento
del
bene), e dall'altro che la conduttrice aveva
espressamente accettato tale condizione
assumendo quindi il rischio dell'eventuale
impossibilità di sfruttamento dell'immobile
ad uso commerciale.
La Corte territoriale ha pertanto deciso
conformemente ai consolidati principi di
diritto
enunciati in materia da questa Corte secondo
cui il carattere "abusivo" di una costruzione
concretandosi in una illiceità dell'opera,
può costituire fonte della responsabilità
dell'autore nei confronti dello Stato ma
non comporta la invalidità del contratto di
locazione della costruzione stipulato tra
privati, trattandosi di rapporti distinti e
regolati ciascuno da proprie norme,
venendo e riverberare la condizioni
giuridica predetta sulla qualità del bene
immobile, e non anche sulla eseguibilità
della prestazione del locatore avente ad
oggetto la concessione del pieno e
continuato godimento del bene (cfr. Corte
cass. Sez. 3, Sentenza n. 583 del 29/01/1982
che ha esaminato il caso di abuso edilizio
consistente nella costruzione fatta dal
privato su terreno demaniale. Vedi
giurisprudenza
sopra richiamata: Corte cass. Sez. 3,
Sentenza n. 583 del 29/01/1982; id. Sez. 3,
Sentenza
n. 4228 del 28/04/1999; id. Sez. 3, Sentenza
n. 19190 de/ 15/12/2003; id. Sez. 3,
Sentenza
n. 22312 del 24/10/2007; id. Sez. 3,
Sentenza n. 12983 del 27/05/2010; vedi Corte
cass.
Sez. 3, Sentenza n. 11964 del 16/05/2013)
nel caso in cui non sia stata resa nota, né
altrimenti conosciuta dal conduttore la
condizione urbanistica dell'immobile locato,
il mancato rilascio di concessioni,
autorizzazioni o licenze amministrative
relative alla destinazione d'uso dei beni
immobili -ovvero alla abitabilità dei
medesimi- non è di ostacolo alla valida
costituzione di un rapporto locatizio,
sempre che vi sia stata concreta
utilizzazione
del bene locato (cfr. Corte cass. Sez. 3,
Sentenza n. 23695 del 21/12/2004),
in
difetto
soccorrendo, invece, il rimedio della
risoluzione del contratto (cfr. Corte cass.
Sez.
3, Sentenza n. 12708 del 25/05/2010)
se il locatore ha assunto la obbligazione di
garantire il pacifico godimento
dell'immobile espressamente in funzione
della specifica destinazione prevista e
concordata in contratto, occorrendo all'uopo
una "specifica pattuizione, non
essendo sufficiente la mera enunciazione,
nel contratto, che la locazione sia
stipulata per un certo uso e l'attestazione
del riconoscimento della idoneità
dell'immobile da parte del conduttore", in
tal caso l'impedimento all'esercizio
della attività svolta dal conduttore per
difetto di rilascio del provvedimento di
conformità urbanistica della destinazione
impressa dalle parti all'immobile,
determina il colpevole inadempimento del
locatore alla esecuzione della
prestazione di godimento derivante dal
contratto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza
n.
20831 del 26/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza
n. 975 del 17/01/2007; id. Sez. 3, Sentenza
n.
5836 del 13/03/2007) se invece la situazione urbanistica, pur se
di ostacolo all'ottenimento delle
autorizzazioni o licenze relative
all'esercizio della attività commerciale da
condurre nell'immobile locato, era nota ed è
stata consapevolmente accettata dal
conduttore, alcuna responsabilità
contrattuale potrà gravare sul locatore per
la
impossibilità di utilizzazione dell'immobile
locato in funzione dell'esercizio della
predetta attività, in quanto non risulti
successivamente autorizzata la modifica di
destinazione d'uso (cfr. Corte cass. Sez. 3,
Sentenza n. 1398 del 2110112011).
I predetti principi sono stati compendiati,
da ultimo, nelle più recenti sentenze di
questa Corte, nella statuizione, condivisa
dal Collegio, secondo cui «in tema di
obblighi
del locatore, in relazione ad immobili
adibiti ad uso non abitativo
convenzionalmente
destinati ad una determinata attività il cui
esercizio richieda specifici titoli
autorizzativi dipendenti anche dalla
situazione del bene sotto il profilo
edilizio -e con particolare
riguardo alla sua abitabilità e alla sua
idoneità all'esercizio di un'attività
commerciale-
solo quando la mancanza di tali titoli
autorizzativi dipenda da carenze intrinseche
o da
caratteristiche proprie del bene locato, sì
da impedire in radice il rilascio degli atti
amministrativi necessari e quindi da non
consentire in nessun caso l'esercizio lecito
dell'attività del conduttore conformemente
all'uso pattuito, può configurarsi
l'inadempimento del locatore, fatte salve le
ipotesi in cui quest'ultimo abbia assunto
l'obbligo specifico di ottenere i necessari
titoli abilitativi o, di converso, sia
conosciuta e
consapevolmente accettata dal conduttore
l'assoluta impossibilità di ottenerli» (cfr.
Corte
cass. Sez. 3, Sentenza n. 13651 del
16/06/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 15377
del 26/07/2016). |
APPALTI:
Solidarietà anche con gara pubblica. L’appaltante
deve rispondere di retribuzioni e contributi omessi.
Cassazione. La responsabilità vale per tutti i committenti
privati a prescindere dall’applicazione del Codice appalti.
Un’azienda privata è soggetta al
regime di solidarietà del committente con l’appaltatore
relativo alle retribuzioni e ai contributi previdenziali
dovuti da quest’ultimo ai suoi dipendenti anche se applica
il Codice degli appalti per l’aggiudicazione e la stipula
dei servizi.
Il rispetto di questa normativa, infatti, non cambia
l’ambito di applicazione della responsabilità solidale, non
estensibile - per espressa previsione di legge - ai soli
soggetti aventi la qualifica di pubblica amministrazione in
base al testo unico sul pubblico impiego.
Questa la decisione
contenuta nell'ordinanza 06.04.2017 n.
8959 della Corte di Cassazione, Sez. VI civile.
Una grande società di trasporti -di proprietà pubblica ma
con struttura giuridica privata- ha affidato tramite
appalto il servizio di pulizia e un dipendente
dell’appaltatore l’ha chiamata in causa per vedersi
riconosciuti retribuzione e Tfr non pagati dal suo datore di
lavoro.
In primo grado il giudice ha accolto le richieste del
lavoratore, mentre la Corte d’appello, richiamando la
sentenza 15432/2014 della Cassazione, ha ritenuto che la
responsabilità solidale prevista dall’articolo 29, comma 2,
del decreto legislativo 276/2003 non sia applicabile agli
appalti pubblici.
Il dipendente ha quindi presentato ricorso in Cassazione. I
giudici della Suprema corte hanno rilevato che, con la
sentenza 15432/2014, in realtà è stata dichiarata
l’inapplicabilità della responsabilità solidale del comparto
privato ai soli committenti qualificabili come pubbliche
amministrazioni, in quel caso specifico il ministero della
Giustizia, in coerenza con l’articolo 1, comma 2, del Dlgs
276/2003 secondo cui «il presente decreto non trova
applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro
personale».
Con la sentenza 10731/2016, però, è già stato rilevato che
«un analogo divieto di applicazione dell’articolo 29,
secondo comma, del Dlgs 276/2003 non esiste nei confronti
dei soggetti privati... cui pure si applica il codice dei
contratti pubblici, nella sua qualità di “ente
aggiudicatore”, secondo la definizione dell’articolo 3,
ventinovesimo comma, Dlgs 163/2006 (il vecchio codice degli
appalti pubblici, ndr)».
Secondo la Cassazione, quindi, non c’è incompatibilità tra
le due norme, nel senso che l’applicazione verso un
committente privato del codice degli appalti non conferisce
automaticamente a tale soggetto la qualifica di pubblica
amministrazione e, quindi, non comporta l’automatica
esclusione del regime di responsabilità solidale.
Questo perché il Dlgs 276/2003 interviene sul mercato del
lavoro con una particolare protezione della tutela delle
condizioni dei lavoratori. Il codice dei contratti pubblici,
invece, si concentra «sull’esecuzione dell’appalto in
conformità a tutti gli obblighi previsti dalla legge».
Dunque queste diversità di situazioni e di interessi
«giustifica la posizione più “onerosa” prevista» per gli
imprenditori che sono soggetti alle doppie regole «in
relazione alla peculiarità della loro qualificazione
giuridica».
Nel caso specifico, quindi, è stato accolto l’appello del
lavoratore e la decisione di secondo grado è stata cassata e
rinviata alla Corte d’appello per un nuovo esame alla luce
dei principi enunciati dalla Cassazione.
È utile ricordare che tale decisione non interferisce in
alcun modo con le regole sulla preventiva escussione
dell’appaltatore, di recente abrogate dal Dl 25/2017, che
disciplinavano un momento successivo all’accertamento della
responsabilità solidale (articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2017). |
TRIBUTI: Tari/Tarsu,
sui garage si paga. Gli occupanti devono
dimostrare di non produrre rifiuti. Lo ha
stabilito la Corte di cassazione: le
pertinenze non sono esonerate dal pagamento.
Le pertinenze non sono esonerate dal
pagamento della tassa rifiuti come l'Imu. I
garage, infatti, sono soggetti al pagamento
della tassa rifiuti anche se sono pertinenze
delle abitazioni.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI
civile, con
l'ordinanza
31.03.2017 n. 8581.
Per i giudici di legittimità, sono infondate
le sentenze di primo grado e d'appello
impugnate in Cassazione laddove hanno
riconosciuto «il diritto all'esenzione dalla Tarsu di area coperta, quantunque
pertinenziale ad abitazione, pacificamente
destinata alla custodia di autovettura, in
forza della sola allegazione di detta
destinazione, non essendo sufficiente
allegare a tal fine la «peculiare
destinazione funzionale dell'immobile ad
autorimessa».
Infatti, è «fallace l'assunto
secondo cui un locale adibito a garage non
possa che ritenersi, di per sé, improduttivo
di rifiuti solidi urbani (...)» in
contraddizione con la fonte normativa
primaria, dalla quale sono eccepite le sole
«aree scoperte pertinenziali o accessorie di
civili abitazioni».
Con una sentenza recente la Cassazione
(17623/2016), con la quale ha affermato la
tassabilità di garage, autorimesse e box, ha
però lasciato uno spiraglio sulla questione
sostenendo che questi immobili sono
esonerati dal pagamento della tassa se gli
occupanti dimostrano di non produrre
rifiuti.
Dunque, i contribuenti non sono
soggetti al pagamento della Tarsu, ma la
stessa regola vale per la Tari, se provano
che garage, autorimesse e box non producono
rifiuti. Incombe sul contribuente l'onere di
dimostrare la sussistenza delle condizioni
per beneficiare delle esenzioni e, allo
stesso modo, di segnalare al comune che
alcune aree detenute od occupate aventi
specifiche caratteristiche strutturali e di
destinazione sono inidonee alla produzione
di rifiuti. Non basta, invece, la peculiare
destinazione funzionale dell'immobile ad
autorimessa.
Tuttavia, è da chiedersi come
può l'interessato dimostrare di non produrre
rifiuti, se proprio la Cassazione ha
ripetutamente ribadito da oltre un decennio
che il mancato uso dell'immobile non è un
motivo valido per chiedere la detassazione.
E ha inoltre precisato che la mancata
attivazione delle utenze idriche e
elettriche non dà comunque luogo all'esonero
dal pagamento.
Del resto, la Cassazione ha
sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero
dal pagamento della tassa rifiuti,
precisando che è dovuta a prescindere dal
fatto che il contribuente utilizzi
l'immobile (sentenza 22770/2009). Ex lege,
vanno esclusi dalla tassazione solo gli
immobili non utilizzabili (inagibili,
inabitabili, diroccati).
Le regole.
Il presupposto della Tarsu è
l'occupazione o la detenzione di locali e
aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. È
sufficiente che il servizio di smaltimento
rifiuti sia istituito per imporre ai
contribuenti il pagamento della tassa.
Quindi, il tributo è dovuto per la
detenzione di locali e aree e non per il
fatto che venga utilizzato il servizio
fornito dall'ente (Cassazione, sentenza
12035/2015). La stessa regola vale oggi per
la Tari, considerato che anche la nuova
disciplina non collega il pagamento alla
effettiva fruizione del servizio di
smaltimento rifiuti.
Sono state ritenute
infondate le pronunce dei giudici tributari
che hanno escluso il pagamento per i
contribuenti che hanno documentato di non
aver potuto fruire del servizio pubblico per
la mancanza di collegamento stradale tra le
loro abitazioni e il punto di raccolta dei
rifiuti. Secondo la Cassazione non si può
condizionare l'obbligo tributario alla
materiale fruizione del servizio, in quanto
i criteri di ripartizione del costo
sostenuto dal comune non sono collegati al
suo concreto utilizzo, ma si basano su
indici presuntivi.
I benefici fiscali.
Le amministrazioni
locali oltre alle agevolazioni che devono
essere assicurate ai contribuenti perché
imposte dalla legge, hanno la facoltà di
concedere riduzioni tariffarie e esenzioni
tendenzialmente legate alla minore
produzione di rifiuti. Hanno il potere di
stabilire con regolamento riduzioni
tariffare, senza limiti, e esenzioni anche
legate al reddito familiare.
Le agevolazioni
Tari, in effetti, possono essere collegate
alla capacità contributiva dei contribuenti,
desunta dagli indicatori della situazione
economica (Isee). L'articolo 1 della legge
di Stabilità 2014 (147/2013) consente ai
comuni di ridurre il carico del prelievo in
capo a soggetti in condizioni di difficoltà
economico-sociale. La disciplina di tali
agevolazioni è rimessa alla potestà
regolamentare degli enti, ma non può
superare i limiti della non discriminazione
e della non arbitrarietà.
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La ratio è soddisfare
gli interessi generali.
La ragione istitutiva della tassa è quella
di porre le amministrazioni locali nelle
condizioni di soddisfare interessi generali
della collettività, che sono anche quelli di
tutelare l'ambiente e la salute pubblica. La
ratio del tributo non è solo quella di
fornire delle prestazioni riferibili ai
singoli cittadini. Ecco perché il mancato
svolgimento del servizio di raccolta da
parte del comune non comporta l'esenzione,
ma il pagamento del tributo in misura
ridotta.
L'articolo 59, comma 4, del decreto
legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu
la riduzione anche se il servizio di
raccolta, sebbene istituito, non venisse
svolto nella zona di residenza, di dimora o
dove esercitava l'attività il contribuente.
La riduzione spettava, inoltre, se il
servizio era effettuato in grave violazione
delle prescrizioni del regolamento comunale
di nettezza urbana. Nel regolamento
comunale, infatti, devono essere indicati i
limiti della zona di raccolta obbligatoria e
dell'eventuale estensione del servizio a
zone con insediamenti sparsi, le modalità di
effettuazione del servizio, con
l'individuazione degli ambiti e delle zone,
nonché delle distanze massime di
collocazione dei contenitori.
È il
contribuente che deve dare la prova delle
condizioni per usufruire eventualmente della
riduzione della tassa. Gli stessi criteri
valgono oggi per la Tari. I commi 656 e 657
della legge di Stabilità 2014 (147/2013)
prevedono che il tributo è dovuto nella
misura del 20% in caso di mancato
svolgimento del servizio e in misura non
superiore al 40% nelle zone in cui non è
effettuata la raccolta, da graduare in
relazione alla distanza dal più vicino punto
di raccolta
(articolo ItaliaOggi
Sette del
22.05.2017. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Super-parcella?
Se meritata. No alla maggiorazione del
compenso senza diligenza. AVVOCATI/ Tre
sentenze della Corte di cassazione fanno
chiarezza sul tema.
In tempo di crisi che ha certamente avuto
delle ripercussioni su tutte le libere
professioni, il compenso all'avvocato
diventa uno dei temi cruciali per
l'esercizio della professione stessa, e
quindi tre recentissime sentenze della
Cassazione hanno posto l'accento sulla
questione evidenziando, anzitutto, cosa sia
da liquidare all'avvocato e, poi, in quale
caso non sia configurabile una maggiorazione
del compenso e, infine, il ruolo del Coa
nella determinazione del compenso stesso.
Se non c'è diligenza non
c'è maggiorazione del compenso.
Non si riconosce la maggiorazione del
compenso all'avvocato che ha operato con
poca diligenza: è quanto affermato dai
giudici della Corte di cassazione (sez. VI
Civile - 2,
ordinanza 30.03.2017 n.
8288) che si sono espressi sul tema ai sensi
dell'art. 5, comma 4, dm 08.04.2004, n.
127, evidenziando come, in ossequio anche ad
un ormai consolidato orientamento dettato
dalla giurisprudenza (si veda: Cass. 21.07.2011, n. 16040, Rv. 619695), la
disposizione preveda una mera facoltà
rientrante nel potere discrezionale del
giudice, il cui mancato esercizio non sarà
assolutamente denunciabile in sede di
legittimità, se motivato.
Nel caso
sottoposto all'attenzione degli Ermellini la
corte d'appello aveva condiviso il
ragionamento del giudice di primo grado che
aveva pensato di non riconoscere una
maggiorazione del compenso a quell'avvocato
che in ragione della mancanza di diligenza
adoperata nel proprio ufficio, aveva svolto
un'azione per lesione che risultava carente
nella prospettazione dei suoi tipici
presupposti fattuali.
Cosa liquidare
all'avvocato.
E circa le voci della nota spese che vanno
liquidate all'avvocato, la stessa Corte di
cassazione (sez. Lavoro,
sentenza 30.03.2017 n. 8258) ha sottolineato come
sia opportuno considerare la voce relativa
al diritto del professionista per
«corrispondenza con il cliente» prevista dal
n. 22 della Tabella B) dei diritti, allegata
alla tariffa professionale di cui al dm
2004, n. 127.
Infatti, è stato evidenziato
dai giudici di piazza Cavour che la
corrispondenza con il cliente «è oggetto di
presunzione iuris tantum nei giudizi
celebrati con il rito del lavoro, il quale
impone la comparizione personale della parte
interessata all'udienza di discussione e,
quindi, induce a ritenere che sia stato
assolto da parte del difensore il dovere di
informare il cliente; ne consegue che per la
liquidazione della corrispondente voce non è
richiesta prova».
Inoltre dovrà riconoscersi
all'avvocato il diritto all'esame di ogni
ordinanza perché la tariffa professionale
forense, nel prevedere la relativa
competenza (n. 15), la attribuisce «per la
partecipazione a ciascuna udienza», senza
operare distinzione tra «udienze di
trattazione» e «udienze di semplice rinvio»,
contenuta invece nella tabella A) per gli
onorari di avvocato (Cass. 03/09/2013,
n. 20147; Cass. 19/01/1994, n. 920).
Lo stesso
-hanno aggiunto gli Ermellini- sarà a
dirsi per l'esame degli scritti difensivi
avversi, perché la voce n. 11 della tariffa,
prevedendo che il diritto di procuratore per
l'esame degli scritti difensivi e della
documentazione della controparte debba
essere liquidato in misura fissa, impone, in
sede di liquidazione, di prescindere dalla
considerazione del numero dei documenti e
degli scritti esaminati (cfr. Cass.
13/11/1982, n. 6055).
Per quanto riguarda,
poi, le attività successive al deposito
della sentenza (esame dispositivo e testo
integrale della sentenza, richiesta copie
sentenza, accesso ufficio e ritiro, ritiro
fascicolo), i giudici hanno affermato che
tali voci, pur se relative ad attività
svolte successivamente alla sentenza di
primo grado, sono ad essa necessariamente
consequenziali e, quindi, devono essere
liquidate dal giudice di prime cure o, in
mancanza, da quello d'appello.
Invero, la condanna al pagamento delle spese
processuali comprende anche le spese
conseguenti alla sentenza, la quale,
pertanto, costituisce titolo esecutivo non
soltanto per le somme liquidate, ma anche
per le spese successive e necessarie per la
realizzazione della volontà in essa espressa
(cfr. Cass. Cass. 12/02/2014, n. 3259; Cass.
03/09/2013, n. 20188). Tali spese dovranno
tuttavia essere riconosciute nei limiti
delle attività necessariamente conseguenti
al deposito della sentenza, tra le quali non
rientra la notificazione, in difetto di
documentazione.
Il giudice non è vincolato
dal Coa nella liquidazione delle spese.
La sez. VI Civile - 1,
ordinanza 14.03.2017 n. 6517, ha evidenziato come in
materia di liquidazione delle spese, diritti
ed onorari di giudizio ex art. 28 e 29 legge
n. 794 del 1942, il giudice non sia
vincolato dal parere di congruità espresso
dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati ma,
nel caso in cui se ne discosti, allora sarà
tenuto ad indicare, sia pure sommariamente,
le voci per le quali ritiene il compenso non
dovuto oppure dovuto in misura ridotta, al
fine di consentire il controllo sulla
legittimità della decisione»).
Si è pertanto
dichiarata la non vincolatività del parere
del Coa
(articolo ItaliaOggi
Sette del
12.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Gravi
vizi, scudo sui proprietari. Responsabilità decennale anche
per le ristrutturazioni. Una sentenza della Cassazione a
sezioni unite sull'applicazione dell'art. 1669 c.c..
Maggiore tutela per i proprietari di casa. La garanzia
decennale per la rovina dell'edificio di cui all'art. 1669
c.c. si applica non solo alle nuove costruzioni ma anche
alle semplici ristrutturazioni edilizie.
Lo hanno chiarito le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione,
chiamate a dirimere il contrasto interpretativo sorto sul
tema, con la
sentenza 27.03.2017 n. 7756.
Il caso.
I condomini di un edificio avevano chiamato in giudizio la
società venditrice e l'impresa che, su incarico della
stessa, aveva eseguito sul medesimo degli interventi di
ristrutturazione per sentirle condannare al risarcimento dei
danni conseguenti a una serie di gravi vizi di costruzione.
La condanna, ottenuta in primo grado per la responsabilità
di cui all'art. 1669 c.c., era però stata annullata dal
giudice di appello, sul presupposto che tale disciplina
fosse applicabile soltanto in caso di nuova costruzione. Di
qui il ricorso in Cassazione, la cui terza sezione, rilevata
l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza
sull'argomento, aveva rimesso la causa al primo presidente,
il quale la aveva a sua volta affidata alle sezioni unite.
Il contrasto interpretativo
sull'applicabilità dell'art. 1669 c.c.
La disposizione dispone che per i beni immobili
l'appaltatore sia responsabile se nel corso dei dieci anni
dal suo compimento l'opera, per vizio del suolo o per
difetto della costruzione, rovini in tutto o in parte,
ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti.
La responsabilità decennale prevista dall'art. 1669 c.c.,
secondo una parte (minoritaria) della dottrina, avrebbe
carattere del tutto speciale e si applicherebbe soltanto
alle nuove costruzioni e a quegli interventi edilizi dotati
di una propria autonomia in senso tecnico (come una
sopraelevazione). Soltanto due, invece, secondo la
ricostruzione della Suprema Corte, i precedenti di
legittimità sulla vexata quaestio.
Con sentenza n.
24143/2007 i giudici avevano aderito alla tesi sopra
richiamata, ritenendo che le opere di mera modificazione o
riparazione di un immobile preesistente non rientrassero
nell'ambito di applicazione della suddetta norma. Di segno
opposto, invece, la più recente sentenza n. 22553/2015, con
la quale si era al contrario evidenziato come la stessa
fosse applicabile anche nel caso di interventi su edifici
preesistenti che avessero riguardato elementi essenziali del
medesimo o elementi secondari ma rilevanti per la
funzionalità globale.
La decisione delle sezioni unite.
Quest'ultimo e meno restrittivo orientamento è quindi stato
fatto proprio dalle sezioni unite della Cassazione. Secondo
i supremi giudici, infatti, anche opere più limitate, aventi
a oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni,
restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono
rovinare o presentare evidente pericolo di rovina, tanto
nella porzione oggetto dell'intervento quanto in quella,
diversa e preesistente, che ne risulti coinvolta per ragioni
di statica.
Le sezioni unite, nell'esaminare la precedente
giurisprudenza di legittimità che ha fatto applicazione
dell'art. 1669 c.c., hanno evidenziato come dai singoli casi
si ricavi che detta tutela sia stata concessa anche in
riferimento a opere limitate, riguardanti elementi secondari
e accessori dell'edificio, purché tali da comprometterne la
funzionalità globale (si veda la tabella). Quindi, spostando
l'attenzione sulle componenti non strutturali del risultato
costruttivo e sull'incidenza che queste possono avere sul
complessivo godimento del bene, la menzionata giurisprudenza
ha mostrato di porsi dall'angolo visuale degli elementi
secondari e accessori.
Detta focalizzazione, sempre secondo
le sezioni unite, ha quindi di fatto spostato il presupposto
applicativo della disposizione in questione dal momento
della realizzazione dell'opera ai gravi difetti della
stessa. L'interpretazione estensiva dell'art. 1669 c.c.
realizzata dalla giurisprudenza di legittimità è quindi
andata oltre il suo originario carattere di norma a
protezione dell'incolumità pubblica, valorizzando la non
meno avvertita esigenza che l'immobile possa essere goduto e
utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Anche
perché un trattamento differenziato tra fabbricazione
iniziale dell'edificio e sua ristrutturazione, si legge
nella sentenza in questione, non sarebbe apparsa conforme a
un'interpretazione costituzionalmente orientata, potendo
essere entrambe le attività foriere dei medesimi gravi
pregiudizi.
Per quanto riguarda la natura extracontrattuale
di tale responsabilità, da sempre sostenuta dalla
giurisprudenza e da gran parte della dottrina, le sezioni
unite hanno evidenziato come l'attenzione rivolta alla
categoria dei gravi difetti tenda a spostare il baricentro
dell'art. 1669 c.c. dall'incolumità dei terzi alla
compromissione del godimento normale del bene, dunque da
un'ottica pubblicistica ed extracontrattuale a una
privatistica e contrattuale
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2017).
---------------
MASSIMA
8. - Per le considerazioni svolte l'unico motivo di
ricorso deve ritenersi fondato.
Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio
ad altra sezione della Corte d'appello di Ancona, che nel
decidere il merito si atterrà al seguente principio di
diritto: "l'art. 1669 c.c. è
applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche
alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli
interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su
immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente
pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento
e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la
destinazione propria di quest'ultimo". |
INCARICHI PROGETTUALI: Affidamenti alle società di ingegneria nulli.
La società di ingegneria costituita in forma
di società di capitali non può svolgere
attività coincidente con quella riservata ai
professionisti iscritti all'albo anche dopo
il 1997. Conseguentemente, i contratti di
affidamento stipulati dalla società di
ingegneria sono nulli perché in contrasto
con l'articolo 2231 del codice civile.
Questo è l'importante principio espresso
dalla Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la
sentenza
22.03.2017 n. 7310.
I giudici
ricordano che l'art. 24 della legge 266 del
1997 prevedeva, al comma 2, l'emanazione di
regolamento di fissazione dei requisiti per
l'esercizio delle attività di cui all'art. 1
della legge n. 1815/1939. E ricordano anche
che questo decreto non fu emanato. La
disciplina dell'esercizio in forma
societaria delle professioni regolamentate
nel sistema ordinistico è rimasta, dunque,
senza attuazione, salvo interventi
settoriali (dlgs n. 96/2001 per la
professione forense), fino a quando il
legislatore non è nuovamente intervenuto.
Ciò è avvenuto con l'art. 10 della legge n.
183/2011 (legge di stabilità 2012), entrata
in vigore il 01.01.2012, col quale il
divieto risalente al 1939 è stato
«nuovamente» abrogato (comma 11), ed è stata
dettata la disciplina delle società
costituite in forma di società di capitali
per l'esercizio delle attività professionali
regolamentate, con espressa salvezza (comma
9) dei modelli societari già vigenti. Tra i
quali si debbono annoverare quelli previsti
dall'art. 17 della legge n. 109 del 1994 per
le società di ingegneria.
Il legislatore del 2011 ha dunque
riconosciuto la validità del modello
previsto sin dal 1994 per le società di
ingegneria nel settore pubblico, e da questo
momento le società costituite ai sensi
dell'articolo 17 della legge n. 109 del 1994
sono abilitate a svolgere attività di
progettazione anche nel mercato privato,
tendenzialmente mantenendo lo statuto
vigente.
Concludendo le società di ingegneria
costitutiva di capitali non possono svolgere
attività riservate ai professionisti
iscritto all'albo anche dopo l'anno 1997
(articolo ItaliaOggi
del 20.04.2017). |
TRIBUTI:
Nullo l'avviso notificato tramite
poste private. L'avviso di accertamento per
la tassa sui rifiuti è nullo quando sia
stato notificato per il tramite di un
gestore di poste privato diverso da Poste
italiane. La notifica, in tal caso, è
inesistente e ciò inficia la legittimità
dell'atto stesso.
È quanto si legge nella
sentenza 20.03.2017 n.
816/3/2017 della Ctp di Taranto.
Un contribuente impugnava degli avvisi di
accertamento per Tarsu, relativi alle
annualità 2009, 2010 e 2011, eccependo
l'inesistenza della loro notificazione,
poiché avvenuta tramite una posta privata.
La Ctp di Taranto, accertata la fondatezza
della doglianza, ha accolto il ricorso e
annullato gli atti impugnati, affermando
espressamente «l'inesistenza della notifica
di un avviso di accertamento a mezzo vettore
privato e non per il tramite delle Poste
italiane, unico soggetto legittimato alla
notifica degli atti tributari».
La Corte di
cassazione, nella sentenza n. 2922/15 ha
colto l'occasione per rammentare in quali
casi, e per quali motivi, la notificazione
eseguita col servizio privato è
inammissibile e quali sono, invece, le
eccezioni a detto criterio. È, per esempio,
regolare la consegna del plico da parte
delle poste private, qualora l'Agenzia sia
stata demandata direttamente da Poste
italiane; in altre parole, quando il
notificante abbia spedito l'atto tramite
Poste italiane e l'ente universale abbia, a
sua volta e per propria iniziativa,
demandato il recapito del plico all'Agenzia
privata.
Nel diverso caso in cui, invece, la notifica
sia effettuata dall'ente, con affidamento
diretto del plico a un vettore di posta
privata, la notifica è inesistente.
Ciò perché quando il legislatore prescrive,
per l'esecuzione di una notificazione, il
ricorso alla raccomandata con avviso di
ricevimento, non può che fare riferimento al
cosiddetto servizio postale universale
fornito dall'ente poste su tutto il
territorio nazionale, con la conseguenza
che, qualora tale adempimento sia affidato a
un'Agenzia privata di recapito, esso non è
conforme alla formalità prescritta dall'art.
140 c.p.c., e, pertanto, non è idoneo al
perfezionamento del procedimento
notificatorio, sia che trattasi di
raccomandata riconducibile nell'ambito dei
servizi inerenti le notificazioni degli atti
giudiziari a mezzo posta di cui alla legge
n. 890 del 1982, sia alla raccomandata
diretta a mezzo del servizio postale ai
sensi del dlgs n. 546 del 1992, art. 16,
comma 3, ove la notifica sia effettuata nei
confronti del contribuente o società
privata.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La notifica del provvedimento
impugnato è avvenuta per il tramite di posta
privata, come risulta dalla visione della
velata di notifica allegata all'avviso e non
contestata dal comune.
Ove, infatti, l'avviso fosse stato
effettivamente rinviato dal messo comunale,
lo stesso avrebbe dovuto redigere la relata
di notificazione che, invece, è inesistente.
Tanto comporta, già di per sé,
l'accoglimento del ricorso stante la
inesistenza della notifica di una avviso di
accertamento a mezzo vettore privato e non
per il tramite delle Poste italiane, unico
soggetto legittimato alla notifica degli
atti tributari (Cfr. Ctp Benevento 382/2014;
Cass. 2035/2014 Ctr Campobasso 1077/2014;
Cass. n. 8333/2015; Cass. n. 2922/2015).
Fondata è, inoltre, l'eccezione di mancato
utilizzo dell'immobile.
Parte ricorrente ha fornito prova
documentale, non contestata dal comune di
Massafra, di aver, sin dagli anni sessanta,
accatasto e denunciato il locale garage
anche presso il comune di Massafra, sul
quale risulta regolarmente corrisposta anche
la imposta Tarsu sino all'anno 2002, epoca
del decesso dei genitori che occupavano
l'abitazione e l'annesso garage.
Inoltre con la documentazione allegata al n.
6) e n. 7), è stata fornita la prova
dell'avvenuta denuncia, ai fini Tarsu,
dell'inutilizzo del locale garage e
dell'appartamento in data 1/2/2002 e
precisamente in occasione del decesso della
propria moglie e ha dichiarato di occupare
immobile e garage e, successivamente,
allorquando il figlio Michele, in data
13/02/2002 ha comunicato ai comune di
Massafra che l'abitazione e il garage non
sarebbero stati occupati da alcuno.
Con detta ultima comunicazione, venivano
anche segnalati i nominativi degli altri
coeredi, tutti residenti in altri luoghi. Le
predette comunicazioni risultano chiaramente
effettuate su moduli prestampati né è
possibile, come eccepito dal resistente
comune, adombrare una loro illegittimità
perché non redatta su moduli forniti dal
comune. Del resto la verifica della
cessazione d'uso dei locali è stata già
verificata da questa commissione, con
precedenti esibita decisioni n. 302/2015 e
n. 1734/02/2016, che sul punto costituisce
precedente giudicato.
Fondati risultano gli altri vizi sollevati
dal ricorrente; trattandosi di imposta
comunale non può farsi luogo al principio
della solidarietà di cui all'art. 65, dpr
600/1973, applicabile, invece, solo alle
imposte dirette (Ctr Lazio n. 2957/35/2014),
le sanzioni non possono essere irrogate agli
eredi (Cass. n. 11222/2011).
Alla stregua di quanto innanzi, dichiarati
assorbiti gli altri motivi di opposizione,
la Commissione accoglie il ricorso e, per
l'effetto, annulla l'avviso dì accertamento
impugnato. ( ) (articolo
ItaliaOggi Sette del 24.04.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Dalla
Corte dei conti un controllo di
ragionevolezza. Le sezioni unite tornano
sulla questione dei confini giurisdizionali.
La Corte dei conti (Cdc) può svolgere un
controllo di ragionevolezza sulle scelte
discrezionali degli amministratori pubblici
alla stregua dei criteri di efficacia ed
economicità (e non, dunque, del canone della
«mera opportunità»), valutando il rapporto
tra gli obiettivi perseguiti e i costi
sostenuti.
Così, se acclari che tali canoni non sono
stati rispettati, è obbligata ad accertare
tutti i fatti e comportamenti causa di danno
erariale.
È quanto ribadito dalle Sezioni unite con la
sentenza
15.03.2017 n. 6820, tornate sulla
questione dei confini del potere
giurisdizionale della Cdc.
La vicenda.
Ad esito di un'attività
investigativa svolta dalla Gdf, il
procuratore regionale della Cdc ha convenuto
in giudizio gli amministratori di un
Consorzio di bonifica, chiedendone la
condanna al risarcimento del danno procurato
all'Erario, ritenendo che avessero posto in
essere una serie di atti di mala gestio
contrastanti con il principio del buon
andamento dell'azione amministrativa (art.
97 Cost.).
In sintesi, era contestato il danno erariale
provocato dal conflitto d'interessi e dallo
spreco di risorse pubbliche sottesi
all'adesione del consorzio pubblico a una
srl di servizi di cui pure detti vertici
consortili esprimevano la governance. Dalla
contabilità era emersa, infatti, secondo la
Cdc, la mancanza di convenienza per il
consorzio alla partecipazione ad una società
che, senza neppure espletare i servizi per
cui era stata costituita, li aveva girati ad
operatori esterni, per lo più fornitori del
consorzio, svolgendo un'attività di mera
interposizione fittizia con accollo di oneri
di funzionamento e gestione in capo al
consorzio.
L'approdo in Cassazione.
Condannati in primo
grado (stante l'acclarata consapevolezza sia
dei rapporti intercorrenti tra la società di
servizi e il consorzio sia -bilanci alla
mano- dell'impossibilità di realizzare in
condizioni di economicità/equilibrio
finanziario gli interessi pubblici
dichiarati nell'adesione consortile ad una
società privata), gli amministratori si sono
rivolti alla Cassazione, lamentando
l'eccesso e la carenza di giurisdizione
contabile.
Le Sezioni unite.
Con riferimento al
presunto «eccesso» di giurisdizione, gli
Ermellini, rigettando l'eccezione,
richiamando diversi propri precedenti, hanno
ricordato che la verifica della legittimità
dell'attività amministrativa deve estendersi
alle singole articolazioni dell'agire
amministrativo e, quindi, apprezzare se gli
strumenti utilizzati dagli amministratori
pubblici siano stati adeguati oppure
esorbitanti ed estranei ai fini di interesse
pubblico. Per fa ciò, non si può prescindere
dalla valutazione del rapporto tra gli
obiettivi conseguiti e i costi sostenuti,
così dovendosi porre sotto la lente
d'ingrandimento anche gli esiti delle
decisioni amministrative assunte.
Il controllo del giudice contabile, quindi,
investe anche il percorso logico seguito
dall'amministrazione, al fine di evitare che
l'attività amministrativa possa risultare
deviata dai propri fini istituzionali.
Rispetto al difetto di giurisdizione della
Cdc, asseritamente relativo ai danni della
società privata pur partecipata dal
consorzio, le Ss.uu., oltre a considerare
«nuova» la questione nel giudizio di
Cassazione (e, perciò, inammissibile), ne
hanno sottolineato il carattere «inconducente»,
posto che il danno accertato dalla Cdc era
ed è quello erariale in quanto arrecato al
Consorzio in proprio, come conseguenza di
una gestione non orientata ai canoni di
efficienza e funzionalità della p.a.
La massima.
«La Corte dei conti può e deve verificare
la compatibilità delle scelte amministrative
con i fini pubblici dell'ente pubblico, che
devono essere ispirati ai criteri di
economicità ed efficacia, ex art. 1, della
legge n. 241 del 1990, i quali assumono
rilevanza non già sul piano della mera
opportunità, ma della legittimità
dell'azione amministrativa e consentono, in
sede giurisdizionale, un controllo di
ragionevolezza sulle scelte della pubblica
amministrazione, onde evitare la deviazione
di queste ultime dai fini istituzionali
dell'ente e consentire la verifica della
completezza dell'istruttoria, della non
arbitrarietà e proporzionalità nella
ponderazione e scelta degli interessi,
nonché della logicità ed adeguatezza della
decisione finale rispetto allo scopo da
raggiungere», si legge nella decisione
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.05.2017). |
APPALTI SERVIZI: Appalti,
assunzioni sostenibili. Non c'è obbligo di
assorbire tutto il personale di chi esce. La
decisione del Tar Calabria: ok alla clausola
sociale purché se ne ammortizzino i costi.
All'appaltatore che subentra nella gestione
del servizio messo a gara
dall'amministrazione non si può imporre di
assorbire tutto il personale uscente, a meno
che l'impresa non riesca ad ammortizzarne i
costi.
È quanto emerge dalla
sentenza
15.03.2017 n. 209, pubblicata dal
TAR Calabria-Reggio Calabria.
Libera concorrenza.
Ottiene il risultato di bloccare l'appalto
l'azienda che pure non è riuscita a
partecipare alla gara perché il costo
soggetto a ribasso risulta insostenibile. La
colpa è della clausola sociale prevista dal
nuovo codice dei contratti pubblici, che
prescrive a chi si aggiudica i lavori di
salvaguardare i livelli occupazionali
precedenti: la regola vale nei servizi ad
alta densità di manodopera, che si
configurano quando la spesa per il personale
risulta pari almeno alla metà dell'importo
totale del contratto. Ma attenzione:
l'istituto introdotto dall'articolo 50 del
decreto legislativo 50/2016, spiegano i
giudici, deve essere interpretato in modo
flessibile.
È accolto il ricorso della società che sta
gestendo in via temporanea la raccolta dei
rifiuti nel Comune grazie a un affidamento
per motivi di urgenza. All'azienda risulta
impossibile formulare un'offerta seria per
vincere l'appalto, visto che l'importo a
soggetto a ribasso non consente a chi
partecipa di conseguire un utile: l'80% è
rappresentato dal costo del personale, a
causa della clausola sociale che impone
l'applicazione del Ccnl Fise Assombiente per
gli oltre venticinque dipendenti da
assumere.
La norma del codice appalti,
tuttavia, va letta nel senso che la clausola
sociale non può si trasformare in un
deterrente per la partecipazione alla gara
da elemento che riguarda l'esecuzione
dell'appalto: si rischia infatti la
violazione dei principi di libera
concorrenza indicati dall'Unione europea.
Sono dunque tutti da verificare il numero e
la qualifica dei dipendenti, che non deve
essere ripescata nello stesso posto di
lavoro e nel contesto del medesimo servizio.
La stazione appaltante, in questo caso, si
rende conto dell'errore e a posteriori non
esclude la disapplicazione del paletto
troppo stringente. Quando però è troppo
tardi.
Il bando non garantisce la trasparenza oltre
che la concorrenza tra i partecipanti perché
non offre alle imprese lo spazio utile per
poter formulare la loro offerta: manca
infatti di indicare quanti lavoratori sono
necessari per eseguire l'appalto e viene
dunque meno a un principio di adeguatezza
delle risorse umane.
Si applica invece il
principio di proporzionalità secondo cui
l'aggiudicatario deve essere messo nelle
condizioni di poter garantire l'applicazione
del contratto collettivo nazionale di
lavoro, il che equivale ad affermare che con
il bando di gara non si possono dettare
condizioni che rendano impossibile centrare
l'obiettivo. Non conta che nel frattempo
un'altra società abbia presentato un'offerta
per l'appalto e la stazione appaltante sta
nominando la commissione che dovrà
valutarla. A carico dell'aggiudicatario si
può solo porre una priorità nell'assorbire
la manodopera del competitor uscente.
Obiettivo stabilità.
È ancora scarna la giurisprudenza
amministrativa a favore della libertà
d'impresa tutelata dall'Unione europea
rispetto all'istituto introdotto
dall'articolo 50 dal nuovo codice dei
contratti pubblici. Ma ci sono almeno due
precedenti innovativi.
Uno è rappresentato dalla sentenza n.
231/2017, pubblicata dalla terza sezione del
Tar Toscana. Che boccia il bando di gara
predisposto dall'ente regionale ancora per
il servizio di raccolta e smaltimento dei
rifiuti, ma stavolta sanitari. È illegittimo
obbligare a chi subentra nella gestione
dell'appalto a riprodurre alla lettera
inquadramento e orario di lavoro del
personale impiegato dall'impresa uscente. E
ciò anche perché nella nuova gara
determinate prestazioni risultano eliminate
dal bando, mentre alcuni ospedali non sono
più interessati dal servizio.
È vero: la
direttiva 24/2014/Ue prevede che anche gli
appalti pubblici abbiano una specifica
attenzione alle esigenze sociali. Ma la
clausola sociale risulta comunque una
facoltà del bando di gara. E sul fatto che
la stabilità occupazionale costituisce un
obiettivo che non può essere trasformato in
un rigido obbligo è d'accordo anche
l'autorità nazionale anticorruzione: nei
pareri resi ha l'Anac ha specificato che la
clausola sociale deve conformarsi ai
principi nazionali e comunitari in materia
di libertà di iniziativa imprenditoriale e
di concorrenza, altrimenti limita in modo
indebito la platea dei partecipanti, mentre
la libertà d'impresa, viene riconosciuta e
garantita dall'articolo 41 della
Costituzione.
Non coglie nel segno
l'amministrazione secondo cui il personale
in eccesso potrebbe essere utilizzato in
altre commesse che fanno capo alla stessa
azienda.
Estromissione da risarcire.
L'altro precedente è la sentenza 1969/2016,
pubblicata dalla seconda sezione del Tar
Lazio. La stazione appaltante non può
imporre nella procedura pubblica bandita
l'adozione di un determinato contratto
collettivo di lavoro anche se l'appalto
prevede la clausola sociale: l'impresa che
subentra, infatti, ben può scegliere di
applicare ai lavoratori riassorbiti un
contratto collettivo di lavoro diverso, a
patto che siano garantiti congrui livelli
retributivi ai prestatori d'opera.
Mai l'amministrazione può decidere per
l'inammissibilità dell'offerta per la
mancata adozione di un determinato Ccnl
perché si tratta di scelte che rientrano
nella libertà d'impresa. E non può scattare
l'estromissione senza la prova che il
contratto collettivo applicato in concreto
non consenta retribuzioni adeguate per i
lavoratori da riassorbire. In questo caso è
un'associazione no profit a restare fuori
dalla gara perché la tariffa oraria prevista
per l'operatore del servizio è ritenuta non
conforme.
E ciò influenza il calcolo
percentuale dei costi di coordinamento e
gestione: all'offerta, quindi, non viene
attribuito alcun punteggio. L'esclusione
risulta invece avvenuta in automatico senza
che la commissione di gara prima e la
stazione appaltante poi effettuasse le
verifiche richieste: ora bisogna rifare
tutta la procedura di selezione, a partire
dalla valutazione delle offerte economiche,
con una nuova graduatoria.
Nel frattempo,
però, tutti i contratti della procedura sono
stati eseguiti per intero: l'onlus ha così
centoventi giorni di tempo dal passaggio in
giudicato dalla sentenza del Tar per
chiedere il risarcimento al Comune
(articolo ItaliaOggi
Sette del
15.05.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
4. Il ricorso è fondato nei termini che
seguono.
4.1. Il primo ed il secondo motivo
di ricorso, sebbene articolati
separatamente, costituiscono, a ben vedere,
un unico argomento di doglianza.
La tesi dedotta in giudizio dalla parte
ricorrente è che l’importo complessivo posto
a base di gara sia economicamente
insostenibile e che il maggior punto di
criticità sia rappresentato dal costo del
personale.
Il costo per il solo personale a tempo
indeterminato è complessivamente pari ad
euro 965.794,80 annui, vale a dire circa
l’80% dell’importo posto a base di gara e
pari ad euro 1.207.500,00 annui.
Tale costo complessivo deriva dalla c.d.
clausola sociale, per come formulata dagli
artt. 16.2.9 del bando e 12 del capitolato e
confermata dalla risposta PI000194 – 17 al
quesito PI000184 – 17 con cui la stazione
appaltante, il 16.02.2017, ha affermato che
“per i dipendenti di imprese e società
esercenti servizi ambientali trova
applicazione l’art. 6, punto 2, del C.C.N.L.
(n.d.r. Fise – Assoambiente)”.
Giova ribadire, per chiarezza espositiva che
il predetto art. 6, punto 2, del C.C.N.L.
dispone che: “L’impresa subentrante
assume ex novo, senza effettuazione del
periodo di prova, tutto il personale in
forza a tempo indeterminato –ivi compreso
quello in aspettativa ai sensi dell’art. 31
della legge n. 300/1970 nonché quello di cui
all’art. 60, lett. c), del vigente c.c.n.l.–
addetto in via ordinaria allo specifico
appalto/affidamento che risulti in forza
presso l’azienda cessante nel periodo dei
240 giorni precedenti l’inizio della nuova
gestione in appalto/affidamento previsto dal
bando di gara e alla scadenza effettiva del
contratto”.
Dovendo assumere tutte le 26 unità impiegate
dall’impresa cessante RA.DI. s.r.l., la
sommatoria di tale costo agli altri costi
fissi sarebbe di per sé superiore
all’importo complessivo posto a base di
gara.
La parte ricorrente assume che tale obbligo
di integrale riassorbimento sia illegittimo
in quanto la clausola sociale, oggi
espressamente prevista dall’art. 50 del
D.Lgs. n. 50/2016, per come interpretata
dalla giurisprudenza, può obbligare
l’appaltatore subentrante unicamente ad
assumere in via prioritaria i lavoratori che
operavano alle dipendenze dell’impresa
uscente, a condizione che il loro numero e
la loro qualifica siano armonizzabili con
l’organizzazione d’impresa prescelta.
Va da sé che lo scrutinio della legittimità
della previsione di integrale assorbimento
del personale costituisce un prius
logico nell’articolazione della censura: se
la clausola sociale, nei termini indicati
dalla lex specialis è invalida, del
relativo costo non doveva tenersi conto in
sede di redazione del bando e, segnatamente,
di determinazione dell’importo a base di
gara che va, conseguentemente, rimodulato,
se del caso anche in via confermativa.
Va, altresì, precisato che la censura
formulata al punto 2 della memoria del
06.03.2017 della ricorrente in punto di
difetto d’istruttoria sull’importo mensile
di ogni singola utenza non è ammissibile in
quanto costituisce un motivo nuovo di
censura, contenuto in un atto non notificato
alle controparti.
4.2. Tanto precisato sulla delimitazione del
giudizio, rileva il Collegio che la
giurisprudenza sulla clausola sociale ha
affermato quanto segue:
- “La clausola sociale dell’obbligo di
continuità nell’assunzione è stata
costantemente interpretata dalla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
nel senso che l’appaltatore subentrante«deve
prioritariamente assumere gli stessi addetti
che operavano alle dipendenze
dell’appaltatore uscente, a condizione che
il loro numero e la loro qualifica siano
armonizzabili con l’organizzazione d’impresa
prescelta dall’imprenditore subentrante»
mentre «i lavoratori, che non trovano spazio
nell’organigramma dell’appaltatore
subentrante e che non vengano ulteriormente
impiegati dall’appaltatore uscente in altri
settori, sono destinatari delle misure
legislative in materia di ammortizzatori
sociali"
(ex multis, Consiglio di Stato, Sez.
IV, 02.12.2013, n. 5725);
- "La clausola sociale, la quale prevede,
secondo numerose disposizioni,
«l’acquisizione del personale già impiegato
nell’appalto a seguito di subentro di un
nuovo appaltatore, in forza di legge, di
contratto collettivo nazionale di lavoro, o
di clausola del contratto d’appalto», (così
l’art. dell’art. 29, comma 3, del d.lgs.
276/2003, ma altrettanto rilevanti sono la
generale previsione dell’art. 69, comma 1,
del d.lgs. 163/2006 e quella dell’art. 63,
comma 4, del d.lgs. n. 112/1999),
perseguendo la prioritaria finalità di
garantire la continuità dell’occupazione in
favore dei medesimi lavoratori già impiegati
dall’impresa uscente nell’esecuzione
dell’appalto, è costituzionalmente
legittima, quale forma di tutela
occupazionale ed espressione del diritto al
lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con
l’organigramma dell’appaltatore subentrante
e con le sue strategie aziendali, frutto, a
loro volta, di quella libertà di impresa
pure tutelata dall’art. 41 Cost.”
(Consiglio di Stato, Sez. III, 09.12.2015,
n. 5598).
Il principio guida è,
quindi, che la clausola di salvaguardia dei
livelli occupazionali non si trasformi, da
elemento afferente all’esecuzione
dell’appalto, in un elemento tendenzialmente
preclusivo della partecipazione.
D’altronde, la formulazione del (nuovo) art.
50 del d.lgs. 50/2016 prevede che “i
bandi di gara, gli avvisi e gli inviti
possono inserire, nel rispetto dei principi
dell'Unione europea, specifiche clausole
sociali volte a promuovere la stabilità
occupazionale del personale impiegato,
prevedendo l’applicazione da parte
dell’aggiudicatario, dei contratti
collettivi di settore di cui all’articolo 51
del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81”:
un richiamo, indiretto, al principio di
proporzionalità per cui l’aggiudicatario dev’essere
messo nelle condizioni di poter garantire
l’applicazione del C.C.N.L., il che val
quanto dire che non si possono imporre, con
la lex specialis, condizioni che
rendano soggettivamente impossibile tale
obiettivo.
Tali conclusioni sono state
condivisibilmente ribadite dal TAR Toscana,
Sez. III, con sentenza n. 231 del 13.02.2017
nella quale si legge che: “a)
la clausola sociale deve conformarsi ai
principi nazionali e comunitari in materia
di libertà di iniziativa imprenditoriale e
di concorrenza, risultando, altrimenti, essa
lesiva della concorrenza, scoraggiando la
partecipazione alla gara e limitando
ultroneamente la platea dei partecipanti,
nonché atta a ledere la libertà d'impresa,
riconosciuta e garantita dall'art. 41 della
Costituzione;
b) conseguentemente, l'obbligo di
riassorbimento dei lavoratori alle
dipendenze dell'appaltatore uscente, nello
stesso posto di lavoro e nel contesto dello
stesso appalto, deve essere armonizzato e
reso compatibile con l'organizzazione di
impresa prescelta dall'imprenditore
subentrante;
c) la clausola non comporta invece alcun
obbligo per l'impresa aggiudicataria di un
appalto pubblico di assumere a tempo
indeterminato ed in forma automatica e
generalizzata il personale già utilizzato
dalla precedente impresa o società
affidataria
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1896/2013)”.
La medesima sentenza, che si richiama anche
ai sensi e per gli effetti dell’art. 74,
seconda parte, c.p.a., ribadisce che tale
esito interpretativo non cambia alla luce
della nuova disciplina dei contratti
pubblici.
4.3. Nel caso di specie, l’art. 16.2.9 del
bando ha richiesto ai concorrenti una “dichiarazione
di impegno ad assorbire, ove richiesto dalla
ditta che cessa, il personale addetto ai
servizi oggetto dell’appalto dell’impresa
cessante a termini del contratto nazionale
del personale dei servizi ambientali” e,
quindi, un requisito di partecipazione.
L’obbligo di integrale assorbimento, come si
è già più volte rammentato, è stato
oggettivamente posto mediante il riferimento
all’art. 6.2. del C.C.N.L. di settore e
confermato dal chiarimento PI000194 – 17 al
quesito PI000184 – 17 del 16.02.2017.
La lex specialis ha fissato –non
rileva se scientemente o meno– un principio
di “adeguatezza” delle risorse umane,
cioè del numero di lavoratori necessari per
l’esecuzione dell’appalto, corrispondente al
numero dei lavoratori da “assorbire”.
Ciò è confermato anche dal fatto che non vi
è una previsione di carattere generale di
tenore opposto a quanto affermato dall’art.
1.9. del Disciplinare Tecnico
dell’affidamento temporaneo e urgente
all’affidataria ove si legge che: “1) AVR
S.p.A. garantirà la tutela dei livelli
occupazionali del personale impiegato sui
servizi affidati con l’ordinanza
contingibile e urgente come da allegato al
presente disciplinare (Allegato I: elenco
del personale trasmesso dall’impresa
uscente);
… Tutto il personale assunto resterà
collegato ai servizi e verrà licenziato al
momento in cui tali servizi, affidati ad AVR
S.p.A. mediante Ordinanza, venissero
affidati ad altra impresa;
2) L’Appaltatore dovrà assicurare il
servizio con un numero adeguato di operatori
ecologici”.
4.4. La tassativa impostazione della lex
specialis non è stata, quindi, in grado
di consentire ai potenziali concorrenti
alcuno spazio di modulazione dell’offerta;
la quale, beninteso, avrebbe potuto essere “anche”
articolata nei termini rigorosi del bando,
ma non “necessariamente”, alla
stregua di requisito di partecipazione.
La stazione appaltante si è resa conto di
tale deficit di chiarezza, provvedendo a “correggere
il tiro” con la risposta PI000514 – 17
al quesito PI000438 – 17 del 22.02.2017,
posto dall’unica impresa che ha poi
partecipato alla gara (Locride Ambiente
s.p.a.).
Tale iniziativa costituisce
una integrazione postuma della disciplina di
gara, che tenta, appunto, di porre rimedio
alla violazione del principio del clare
loqui: si tratta, però, di una
inammissibile integrazione postuma della
lex specialis, che pregiudica le
condizioni di trasparenza e concorrenza che
devono, preventivamente, connotare le
procedure di gara.
La stazione appaltante, nella risposta in
discorso, perviene finanche a legittimare a
posteriori la possibile “disapplicazione”
della clausola sociale, nei termini
oggettivi in cui tale clausola è stata
formulata nel bando, affermando che la
stessa “può non essere applicata qualora
le esigenze organizzative dell’impresa
subentrante corrispondano alla volontà di
svolgere il servizio utilizzando una minore
componente di lavoratori, rispetto al
precedente gestore”.
Ritiene il Collegio che siffatto modus
operandi integri gli estremi della
violazione del principio di trasparenza e di
concorrenza.
La censura in discorso, pertanto, è
meritevole di favorevole apprezzamento e,
conseguentemente, in accoglimento del
ricorso in parte qua, va disposto
l’annullamento degli atti gravati, nei sensi
fin qui esposti. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L'anonimato
non è automatico. Valuta il giudice se pubblicare sentenze
viola la privacy. La Corte di
cassazione chiarisce entro quali termini si può chiedere la
cancellazione.
Il diritto all'anonimato nella pubblicazione delle sentenze
non è automatico. Il giudice deve valutare caso per caso se
c'è una violazione della privacy.
La Corte di Cassazione (sentenza
13.03.2017 n. 11959 della Sez. VI penale) chiarisce i termini in cui una persona
coinvolta nel procedimento penale abbia diritto a pretendere
la cancellazione del suo nome nel caso di pubblicazione
della sentenza su banche dati o sulla stampa e sulle riviste
cartacee e on-line.
Nel caso specifico un commercialista e giudice tributario ha
denunciato un giudice del tribunale, incolpato di favorire
un altro commercialista nell'affidamento di procedure
fallimentari. Il primo professionista è stato indagato per
calunnia. La vicenda penale si è chiusa con una generale
archiviazione per tutti. Ma si è verificato uno strascico
privacy. Il commercialista/giudice tributario, indagato per
calunnia, ha chiesto l'oscuramento dei propri dati personali
ai sensi dell'articolo 52 del codice della privacy (dlgs
196/2003).
La norma riconosce all'interessato la facoltà di
chiedere all'autorità giudiziaria per motivi legittimi di
omettere i suoi dati in caso di riproduzione della sentenza,
per finalità di informazione giuridica su riviste
giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di
comunicazione elettronica. Secondo la Cassazione
l'espressione «motivi legittimi» significa motivi opportuni,
con la conseguenza che il giudice deve di volta in volta
bilanciare le esigenze di riservatezza del singolo e quelle
di pubblicità della sentenza.
Il Garante della privacy con
deliberazione 02.12.2010 (pubblicato sulla G.U. n. 2 del
04.01.2011), ha
indicato i possibili motivi legittimi nella particolare
natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio,
dati sensibili), oppure nella delicatezza della vicenda
oggetto del giudizio. Nel caso del commercialista la
Cassazione non ha riscontato dati sensibili ed è, quindi,
passata alla valutazione della eventuale sussistenza di
motivi di delicatezza.
Una parola, si legge nella sentenza, estremamente vaga, da
precisare caso per caso ad esempio valutando se la
diffusione dei dati relativi provochi negative conseguenze
sui vari aspetti della vita sociale e di relazione
dell'interessato (ad esempio, in ambito familiare o
lavorativo). La cassazione rifiuta, quindi,
un'interpretazione per cui ogni processo penale dovrebbe
comportare l'oscuramento dei dati personali.
D'altro canto
conclude la cassazione non può valere a giustificare
l'oscuramento il fatto che il denunciato sia un magistrato
(nel caso specifico giudice tributario), in quanto anche il
magistrato l'esercizio di funzioni giurisdizionali non può
in alcun modo risolversi nella gratuita attribuzione di un
privilegio, tale da comportare una più intensa e ampia
tutela rispetto a quella riconosciuta agli altri cittadini
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017).
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MASSIMA
5. Fermo, dunque, il rigetto del ricorso proposto,
occorre da ultimo prendere in considerazione l'esplicita
richiesta di oscuramento dati avanzata dalla difesa del P.,
ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 196/2003.
La detta disposizione di legge riconosce all'interessato la
facoltà di chiedere all'A.G., "per motivi legittimi"
e prima della definizione del relativo grado di giudizio,
che sia apposta sulla sentenza o sul provvedimento di cui
trattasi, a cura della cancelleria, l'annotazione "volta
a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o
provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di
informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti
elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica,
l'indica ione delle generalità e di altri dati
identificativi del medesimo interessato riportati sulla
sentenza o provvedimento".
Il fulcro della norma in questione -destinata ad operare
solo in relazione alla riproduzione del provvedimento per
finalità di informazione giuridica, in conformità
all'espressa previsione del legislatore- è dunque costituito
dalla legittimità dei motivi posti a fondamento della
richiesta, che segnano all'evidenza il discrimine fra
l'accoglimento ed il rigetto della relativa domanda.
Il concetto utilizzato dal legislatore, per certo non
felice, abbisogna di un'opportuna interpretazione.
Va innanzi tutto escluso che l'espressione possa essere
intesa nell'accezione di "motivi normativi": in tal
senso depone sia la clausola di riserva che figura nell'incipit
del citato articolo di legge ("Fermo restando quanto
previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il
contenuto di sentenze e di altri provvedimenti
giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e
grado ..."), sia il ricorso ad elementari criteri
esegetici, in ragione dell'evidente superfluità di una
disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto già
previsto da altre norme.
Dunque, per dare un significato compiuto all'espressione che
ne occupa -che, ovviamente, non può neppure discendere da
un'interpretazione a contrario, non potendosi ammettere
l'esito positivo di una richiesta di oscuramento dati per
motivi illegittimi- non resta che apprezzarla come sinonimo
di "motivi opportuni": donde la particolare ampiezza,
opportunamente non predeterminata dal legislatore
all'interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono
essere addotte a sostegno della richiesta che qui interessa,
fermo restando che l'accoglimento della richiesta medesima
interverrà ogniqualvolta l'A.G. ravviserà un equilibrato
bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e
pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un
necessitato corollario del principio costituzionale
dell'amministrazione della giustizia in nome del popolo,
massimamente in ambito penale in cui, in ragione degli
interessi in gioco, l'intera celebrazione del processo -ivi
compresa, dunque, la fase dell'istruttoria dibattimentale-
si svolge in forma pubblica (salvo motivato provvedimento in
deroga da parte del giudice procedente).
In tal senso, interessanti indicazioni conformi si traggono
dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il
02.12.2010, "in materia di trattamento di dati personali
nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per
finalità di informazione giuridica", pubblicate sulla
G.U. n. 2 del 04.01.2011, in cui al punto 3., con specifico
riferimento alla c.d. "procedura di anonimizzazione dei
provvedimenti giurisdizionali" di cui all'art. 52, commi
da 1 a 4, del d.lgs. n. 196/2003, si indicano possibili
"motivi legittimi", in grado di fondare la relativa
richiesta (ovvero di indurre l'A.G. a provvedere d'ufficio),
nella "particolare natura dei dati contenuti nel
provvedimento (ad esempio, dati sensibili)", ovvero
nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio".
Ora, per ciò che concerne i "dati sensibili",
discendendo la loro individuazione direttamente dalla legge
-che, all'art. 4, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 196/2003,
li definisce come "i dati personali idonei a rivelare
l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose,
filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche,
l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od
organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o
sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo
stato di salute e la vita sessuale"- può tranquillamente
affermarsi che nessuno di essi viene in considerazione ed è
dunque messo a repentaglio nel caso in questione.
Quanto, poi, alla "delicatezza" della vicenda per cui
è processo, è di tutta evidenza come l'estrema latitudine
del sostantivo abbia necessità di essere riempita di
contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e
della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi,
di riverberare -come osserva lo stesso Garante- "negative
conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di
relazione dell'interessato (ad esempio, in ambito familiare
o lavorativo)", così andando ad incidere pesantemente
sul diritto alla riservatezza del singolo -si pensi,
tipicamente, a fatti riguardanti vessazioni in ambito
familiare-: contenuti che non è dato ravvisare nella
presente fattispecie, non avendo rilievo in tal senso
l'asciutto riferimento, contenuto nell'istanza a firma del
difensore del PE., allo svolgimento di funzioni
giurisdizionali sia da parte dell'AG., quale magistrato
ordinario, che da parte dello stesso PE., quale magistrato
tributario, in rapporto alla assai "ristretta"
comunità di Ascoli Piceno, ove entrambi espletano dette
funzioni.
Diversamente opinando, del resto, ogni processo penale
dovrebbe comportare l'oscuramento dei dati personali,
laddove, per un verso, si è qui in presenza di addebiti che
scaturiscono da denunce formalizzate dai diretti
interessati, come tali espressione della facoltà, propria
dei cittadini di uno Stato di diritto ed a cui si
attribuisce valore civico e sociale, di attivare in prima
persona la risposta dell'ordinamento in casi di ritenuta
violazione della legge penale, conseguentemente non
riguardabili di per sé negativamente, salvo solo che esse
celino fatti di simulazione di reato o di autocalunnia -nel
caso, non ipotizzabili- ovvero ancora di calunnia,
quest'ultima espressamente esclusa; per altro verso,
l'esercizio di funzioni giurisdizionali non può in alcun
modo risolversi nella gratuita attribuzione di una sorta di
status superiore, tale da comportare una più intensa
ed ampia tutela rispetto a quella riconosciuta agli altri
cittadini. |
TRIBUTI: Si
paga l'Imu se c'è una retta. Niente esenzione anche se
l'attività svolta è in perdita. La
Ctr di Cagliari sull'immobile di un ente religioso adibito a
scuola e centro accoglienza.
Un ente religioso che oltre all'attività di culto svolge su
un immobile le attività di scuola paritaria, asilo, centro
accoglienza per ragazzi e ragazze in difficoltà, casa
famiglia per anziani, che sono state remunerate con una
retta, che non si discosta molto da quelle di mercato, è
soggetto al pagamento dell'Ici e dell'Imu.
L'esenzione non spetta anche se le attività svolte operano
in perdita, poiché si può esercitare un'impresa con modalità
commerciali a prescindere dal risultato della gestione.
Tuttavia, considerato che sia per l'Ici che per l'Imu ci
sono stati vari interventi normativi che hanno creato
incertezza oggettiva sulla spettanza o meno delle
agevolazioni, vanno annullate le sanzioni tributarie
irrogate dalle amministrazioni comunali.
È quanto ha stabilito la Commissione tributaria regionale di
Cagliari, I Sez., con la sentenza 13.03.2017 n. 58.
I giudici d'appello pongono in rilievo che la fattispecie
esaminata si differenzia dai numerosi casi trattati dalla
giurisprudenza riguardanti le esenzioni per l'imposta
municipale, «in quanto non circoscritta alla sola questione
di immobili utilizzati per attività didattiche, ma
riguardante, piuttosto, l'utilizzo di immobili per
l'esercizio di diverse attività, c.d. protette,
sostanzialmente differenti tra loro, quali, nella specie,
attività istituzionali della Congregazione consistenti nelle
attività proprie di religione, di culto e di abitazione
delle suore, attività di scuola paritaria e asilo, attività
di centro di accoglienza per ragazzi e ragazze in difficoltà
e, infine, in attività di casa Famiglia per anziani».
Secondo la commissione regionale, non spetta l'esenzione
all'ente non profit poiché il comune di Cagliari ha
dimostrato che queste attività sono state esercitate dietro
il pagamento di rette che non si discostano molto nel loro
ammontare da quelle di mercato. E «non può attribuirsi
rilievo al fatto che la gestione dei servizi erogati operi
in perdita (questione assolutamente irrilevante, anche un
imprenditore può operare in perdita) in quanto l'erogazione
di un servizio verso il corrispettivo di una remunerazione
(qual è in sostanza la retta) costituisce «esercizio di una
attività con modalità commerciale» indipendentemente dal
risultato economico della gestione stessa».
I giudici
tributari hanno annullato solo le sanzioni irrogate
dall'amministrazione comunale, tenuto conto dei vari
interventi normativi che si sono succediti negli ultimi anni
e, per l'effetto, dell'incertezza oggettiva che si è creata
sulla spettanza o meno delle agevolazioni Ici e Imu per gli
enti non commerciali.
I benefici fiscali per gli enti non profit.
Forma da tempo
oggetto di dibattito, sia dottrinario che giurisprudenziale,
il trattamento fiscale che deve essere riservato agli
immobili posseduti dagli enti non profit, considerato che la
loro destinazione non sempre può essere qualificata non
commerciale.
La Corte di cassazione, con l'ordinanza
23548/2011, ha stabilito che un fabbricato utilizzato per
l'assistenza di pensionati che pagano delle rette mensili è
soggetto al pagamento dell'Ici perché l'attività è svolta
con finalità commerciali. Per i giudici di piazza Cavour,
che hanno mantenuto nel tempo una certa coerenza su questo
tema, il beneficio dell'esenzione dall'imposta non spetta
per gli immobili degli enti ecclesiastici «aventi fine di
religione e di culto», «che siano destinati allo svolgimento
di attività oggettivamente commerciali».
Ancora più netta e
rigida è stata la posizione assunta con la sentenza
4342/2015, secondo cui l'esenzione Ici prevista
dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto legislativo
504/1992 «è limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano
destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle
attività di religione o di culto» indicate nella legge
222/1985 e, dunque, non si applica ai fabbricati di
proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività
sanitaria, non rilevando neppure la destinazione degli utili
eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o
religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro
produzione e non fa venir meno il carattere commerciale
dell'attività.
Anche il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia (circolare 2/2009) ha preso posizione sulla
questione e ha fornito dei chiarimenti sulle varie tipologie
di attività che hanno diritto a fruire delle agevolazioni,
fissandone i limiti. Per il dipartimento, gli enti non
commerciali sono esonerati dal pagamento dell'Ici solo se le
attività che svolgono non hanno natura commerciale. Nello
specifico, devono mancare gli elementi tipici dell'economia
di mercato (quali il lucro soggettivo e la libera
concorrenza) e devono essere presenti le finalità di
solidarietà sociale. Spetta agli enti fornire la prova che
ricorrano in concreto le condizioni previste dalla legge per
avere diritto all'esenzione.
Va rilevato, infine, che le modifiche normative che
riconoscono l'esenzione parziale Imu per gli enti non profit
non possono valere per l'Ici, per la quale era richiesta la
destinazione esclusiva dell'immobile per finalità non
commerciali. L'esenzione Imu e Tasi, invece, spetta se sugli
immobili vengono svolte attività didattiche, ricreative,
sportive, assistenziali, culturali e via dicendo con
modalità non commerciali. Inoltre, è previsto che qualora
l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista,
l'agevolazione è limitata alla parte nella quale si svolge
l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile.
---------------
Conta il possesso qualificato.
Per gli enti non commerciali l'esonero dalle imposte locali
è condizionato dal possesso qualificato dell'immobile, non è
sufficiente il possesso di fatto con estensione dei benefici
fiscali al soggetto titolare.
Infatti, una società che svolge attività commerciale che
concede in uso un immobile a un ente non commerciale che ha
i requisiti di legge non ha diritto all'esenzione Ici, Imu e
Tasi, perché l'agevolazione non spetta se il fabbricato non
viene utilizzato dal soggetto titolare. L'uso indiretto da
parte dell'ente non profit che non ne sia possessore non
consente al proprietario di fruire dell'esenzione.
Secondo la Cassazione (sentenza 14913/2016) per enti
pubblici e privati, diversi dalle società, è imposta «la
duplice condizione dell'utilizzazione diretta degli immobili
da parte dell'ente possessore e dell'esclusiva loro
destinazione ad attività peculiari che non siano produttive
di reddito. L'esenzione non spetta, pertanto, nel caso di
utilizzazione indiretta, ancorché assistita da finalità di
pubblico interesse»
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanze, la finestra è decisiva.
L'applicazione della regola dei dieci metri
è condizionata. Il Tar Abruzzo interpreta il
decreto che disciplina gli spazi fra gli
edifici in città.
Bisogna rispettare la distanza minima di
dieci metri fra gli edifici soltanto se
almeno una delle due pareti che si
contrappongono ha una finestra. Così va
interpretato l'articolo 9 del decreto
interministeriale 1444/1968, che disciplina
la densità edilizia. A farne le spese, in
questo caso, è il proprietario
dell'abitazione che non riesce, almeno su
questi presupposti, a bloccare l'apertura
del chiosco bar davanti a casa.
È quanto emerge dalla
sentenza
23.02.2017 n. 109, pubblicata dalla
prima sezione del TAR Abruzzo-L'Aquila.
Secondo cui, infatti, sbaglia il vicino che
tenta di far annullare l'autorizzazione
unica concessa al chiosco, nel parco
limitrofo alla casa, invocando il dm che
disciplina gli spazi fra gli insediamenti.
Il dato testuale della disposizione si
riferisce alla distanza minima assoluta «tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti».
È allora bocciata la tesi
secondo cui la distanza minima dal confine
dovrebbe essere calcolata con riferimento al
limite esterno della pedana. L'osservanza
della norma va invece verificata rispetto
alla parete del chiosco, che infatti è
lontana più di dieci metri dall'abitazione,
come emerge dalla stessa relazione tecnica
di parte depositata dal proprietario
dell'appartamento. Il quale, tuttavia,
riesce comunque a far annullare il
provvedimento del comune perché la platea di
fondazione del chiosco all'interno dell'area
verde è realizzata in cemento armato (ossia
ha i caratteri della stabilità e della
durevolezza nel tempo e risulta
incompatibile con la natura amovibile della
struttura).
Guardando ai precedenti, anche il piano casa
della regione non può derogare a regolamenti
edilizi e norme tecniche di attuazione sui
prg dei comuni. Almeno per quanto riguarda
le distanze minime fra pareti con finestre
di costruzioni differenti: gli atti
dell'amministrazione locale riproducono
comunque norme statali di principio nel
settore urbanistico e sarebbe
incostituzionale la legge regionale che
pretendesse di disciplinare la materia senza
quei limiti.
È quanto emerge dalla sentenza
19/2016, pubblicata dalla prima sezione del
Tar Molise. Così, deve rassegnarsi ad
abbattere l'opera realizzata il proprietario
della villetta a schiera che intendeva
chiudere il portico approfittando delle
agevolazioni del piano casa: l'obbligo di
riduzione in pristino scatta perché manca un
valido titolo edilizio laddove la
presentazione della Dia non può prescindere
dalla legittimità dell'intervento.
Per il
titolare dell'immobile non è possibile
invocare l'articolo 2 della legge regionale
che consente la deroga a regolamenti
edilizi: non per ciò solo la deroga deve
ritenersi estesa all'articolo 9 del decreto
ministeriale 1444/1968 e alle altre relative
previsioni recepite negli atti adottati
dalle amministrazioni locali. E ciò perché
la stessa legge regionale non può derogarvi,
in quanto la distanza minima fra pareti
finestrate è una norma fondamentale in
urbanistica.
Il piano casa deve dunque
essere interpretato in senso conseguente
pena l'illegittimità costituzionale. Ai fini
delle distanze tra i fabbricati contano
anche i balconi troppo sporgenti, anzi
«aggettanti». Risultato: il dirimpettaio
riesce a stoppare i lavori perché il palazzo
in costruzione al posto della struttura
preesistente risulta troppo vicino alle
pareti di sua proprietà. E ciò anche se la
parete cui il nuovo edificio incomberà
risulta occupata soltanto da un garage e non
da locali abitati.
Inutile, per la società
che sta edificando, sostenere che i balconi
sono elementi ornamentali e non dovrebbero
essere considerati nel calcolo delle
distanze minime. Sono invece manufatti che
accrescono la consistenza dell'edificio.
È
quanto stabilito nella sentenza 1622/13,
pubblicata dalla seconda sezione del Tar
Lombardia, con cui è accolto il ricorso del
dirimpettaio. In ogni caso l'inerzia serbata
dagli uffici dell'ente è illegittima e il
comune deve essere condannato a emettere il
provvedimento, inibitorio o di autotutela (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.04.2017). |
PATRIMONIO: La
buca è visibile? Il Comune non paga i danni.
Risarcimenti. Non può invocare l’indennizzo
per la caduta il pedone che inciampa in
un’irregolarità del marciapiede molto grande
e facilmente individuabile
Non tutte le irregolarità della sede
stradale o di un marciapiede, per
avvallamenti o rilievi, che possono essere
determinati dalle circostanze più varie, è
tale da far configurare di per sé la
responsabilità dell’amministrazione
nell’eventualità di un incidente.
È questo il
principio generale che guida le decisioni
dei giudici sulle (tante) cause intentate
per chiedere il risarcimento dei danni da
cadute. E la Corte d’appello di Milano, con
la
sentenza 08.02.2017
n. 527 (presidente Sbordone), lo ha
applicato anche al caso di un pedone che ha
messo il piede in una grossa buca sul
marciapiede rovinando a terra e procurandosi
lesioni permanenti a seguito della rottura
del quinto metacarpo della mano destra.
La Corte, nel ritenere non configurabile la
responsabilità del Comune per violazione del
precetto che regola la responsabilità civile
da fatto illecito contenuto nell’articolo
2043 del Codice civile (che si ispira
all’antico brocardo «neminem laedere»),
osserva che l’evento «caduta accidentale»
sia da ascrivere allo stesso pedone ogni
qual volta possa valutarsi che la sua
condotta non accorta sia stata causa
esclusiva del fatto.
Indici oggettivi di valutazione della
condotta del pedone possono essere, ad
esempio, proprio l’ampiezza della buca sul
manto stradale e la sua visibilità in
presenza di luce naturale, se siano tali da
indurre il giudice a ritenere la situazione
non pericolosa né insidiosa per un utente
della strada che adotti l’ordinaria
diligenza.
Perché, infatti, possa essere condannato
l’ente custode della sede viaria, occorre
che il giudice possa accertare l’obiettiva
condizione di pericolo occulto, situazione
la quale «deve essere necessariamente
caratterizzata dal doppio requisito della
non riconoscibilità oggettiva del pericolo e
della non prevedibilità subiettiva del
pericolo stesso, non facilmente evitabile
con l’adozione della ordinaria diligenza».
Detto in altre parole, la costante
giurisprudenza anche della Cassazione (si
vedano, tra le altre, le sentenze 287 del
2015 e 23919 del 2013) propende per un
obbligo di diligenza generale al quale si
deve uniformare la condotta di ognuno di noi
nelle vicende della vita quotidiana, al
punto che quanto più l’insidia sia grande e
avvistabile per un pedone, tanto più si
dovrà presumere che l’accidentale caduta sia
legata alla sua colpevole distrazione e non
alla pericolosità occulta e intrinseca dello
stesso ostacolo.
Il giudizio, insomma, sull’autonoma idoneità
causale del fattore esterno ed estraneo alla
sfera di influenza della vittima deve essere
adeguato alla natura e alla pericolosità
della cosa in sé: quanto meno la stessa sia
intrinsecamente pericolosa e quanto più la
situazione di potenziale pericolo possa
essere prevista e superata con l’adozione
delle cautele normali da parte del
danneggiato, tanto più l’incidente si deve
considerare dovuto a un comportamento
distratto.
In definitiva –conclude la Corte d’appello– «tanto nel caso in cui si deduca una
responsabilità dell’amministrazione ai sensi
dell’articolo 2043 del Codice civile, tanto
in quello in cui possa ravvisarsi una
responsabilità oggettiva ai sensi
dell’articolo 2051 del Codice civile,
l’esistenza di un comportamento colposo
dell’utente danneggiato esclude la
responsabilità dell’amministrazione
medesima, qualora si tratti di un
comportamento idoneo a interrompere il nesso
eziologico tra la causa del danno e il danno
stesso» (articolo Il Sole 24
Ore del 15.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Edifici
sopraelevati in libertà. Interventi senza liberatoria se non
è a rischio la statica. Secondo il Tar Trento, il comune non
può interpretare in senso restrittivo l'art. 1102 c.c..
Sempre più in alto. Il proprietario dell'ultimo piano ha
diritto a sopraelevare e non può essere il comune a
impedirglielo. L'ente locale, infatti, non può pretendere
una liberatoria da parte dei condomini che non è prevista
dall'art. 1127 c.c.: va dunque annullato il provvedimento
che sospende i lavori citando a sproposito l'art. 1120 c.c.,
inerente le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio.
È quanto emerge dalla
sentenza
06.02.2017 n. 45, pubblicata dalla
sezione unica del TRGA Trentino Alto Adige-Trento.
Il caso.
Il titolare dei locali all'ultimo piano ben può trasformarli
aumentando superfici e volumetrie. E anche quando i
proprietari sono più d'uno, ciascuno può sopraelevare nei
limiti della sua porzione di piano utilizzando lo spazio
aereo sovrastante. A patto, però, che i lavori non mettano a
rischio la statica del fabbricato (ciò che non risulta in
discussione nella specie). Gli altri condomini possono
opporsi soltanto per ragioni di ordine architettonico o se
il manufatto riduce di molto l'aria e la luce ai piani
sottostanti.
Si tratta tuttavia di controversie da azionare
davanti al giudice civile mentre l'amministrazione concede i
titoli abilitativi edilizi fatti salvi i diritti di terzi.
Nel nostro caso la variante alla concessione edilizia è
negata sulla base di una norma che invece riguarda le
innovazioni per il miglioramento, l'incremento del
rendimento o l'uso più comodo delle cose comune
dell'edificio. All'amministrazione locale non resta che
pagare le spese di giudizio.
È stata la Cassazione, di
recente, a fare chiarezza in materia di parti comuni:
l'articolo 1102 c.c. non può essere interpretato in senso
tanto restrittivo da impedire ogni intervento. Il giudice
del merito deve invece verificare se dopo i lavori è
garantita la funzione di copertura e protezione delle
strutture sottostanti.
È quanto emerge dalla sentenza
6253/2017, pubblicata il 10 marzo dalla seconda sezione
civile. La giurisprudenza amministrativa prevalente nega
rilevanza alla contrarietà del condominio ai lavori
chiarendo per esempio che il comune non può bloccare la
canna fumaria del ristorante solo perché sgradita agli altri
condomini (sent. 1308/2014).
Altri precedenti.
Deve essere concessa la proroga per i lavori allo scarico
delle acque nere dopo la sanatoria giurisprudenziale
concessa al proprietario esclusivo dell'abitazione. E ciò
anche se il condominio si oppone, tanto che sulla questione
è aperta una causa civile: la contrarietà dell'ente di
gestione, infatti, non è imputabile al singolo condomino,
mentre la pendenza del contenzioso costituisce un
impedimento di mero fatto che non legittima il comune a
negare la proroga.
È quanto emerge dalla sentenza 82/2017,
pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana, che ha
accolto il ricorso della signora che dopo aver comprato casa
ha avuto una brutta sorpresa: gli scarichi convogliano in
modo diretto, e illegale, nella fossa biologica
condominiale.
E il servizio edilizia privata del comune la
diffida dall'utilizzare i locali come abitazione. Il punto è
che dopo la lite con il condominio spetta soltanto al
giudice civile stabilire come la proprietaria esclusiva
dell'immobile possa realizzare i lavori di sistemazione per
mettersi in regola con la normativa igienico-sanitaria.
Intanto, però, l'amministrazione locale non può negare la
proroga richiesta perché la condomina ha ottenuto la
sanatoria con opere da realizzare.
E delle due l'una: o la
sanatoria è illegittima, perché chiesta da un soggetto non
legittimato, oppure è arbitrario il rifiuto opposto dal
condominio. Una volta che ha concesso il titolo edilizio,
dunque, il comune non può assumere alcun provvedimento che
in caso di vittoria nella causa civile impedisca alla condomina di esercitare i suoi diritti
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017
- tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Agevolazioni
in edilizia non cumulabili.
Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico e per la
ristrutturazione edilizia non si possono cumulare o
confondere, di talché i lavori eseguiti su un immobile,
riconducibili a un'unica Denuncia inizio attività, devono
essere valutati unitariamente e inquadrati nell'una o
nell'altra fattispecie in base ai presupposti. Per cui, per
esempio, i lavori che rientrerebbero nella detrazione per il
risparmio energetico (55%) non possono essere assunti come
tali se inglobati in un'unitaria procedura di
ristrutturazione edilizia (36%) per cui è prevista una
misura diversa di risparmio fiscale e differenti
adempimenti.
È quanto si legge nella
sentenza
30.01.2017 n. 46/01/2017 emessa dalla I Sez. della
Ctp di Cremona.
A seguito di un controllo eseguito dall'Agenzia delle
entrate, veniva notificata una cartella esattoriale a una
società della provincia di Cremona, volta a rettificare le
detrazioni fiscali fruite per risparmio energetico relative
all'anno 2008, in misura pari al 55%. La diatriba tra
l'ufficio fiscale e il contribuente nasceva del fatto che
era stata attivata una Dia per lavori di ristrutturazione
edilizia su un immobile di proprietà, con annessi
adempimenti burocratici per poter fruire della detrazione
del 36%.
Tuttavia, poiché di questi lavori, alcuni
rientravano nell'ambito degli interventi di risparmio
energetico, per i quali la legge riconosce una detrazione
più ampia (55%), la società fruiva di tale beneficio,
esponendosi al recupero da parte delle Entrate, puntualmente
operato con la cartella impugnata. La Ctp di Cremona ha
rigettato il ricorso, evitando di condannare il contribuente
alle spese, in ragione delle problematiche interpretative
manifestatesi nelle tematiche trattate.
In particolare i
giudici hanno chiarito che le agevolazioni per la
ristrutturazione edilizia e quelle per il risparmio
energetico sono cose distinte e separate, sia per quanto
concerne i presupposti, sia per gli adempimenti, che per la
misura. Le due detrazioni, quindi, sicuramente non si
possono cumulare, nel senso che non si può fruire
congiuntamente delle stesse, in relazione ai medesimi
lavori; ma, in via ulteriore, spiega la commissione, le
stesse non si possono neppure «confondere» tra di loro,
scegliendo di quale agevolazione fruire in ragione della
diversa misura della detrazione.
Dunque, poiché nel caso di specie i lavori erano inseriti in
una ristrutturazione edilizia, con tanto di Dia e connessi
adempimenti, non è legittimo, seppur per una parte di essi,
godere delle agevolazioni previste per gli interventi di
risparmio energetico.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Ritiene la Commissione che la domanda della
ricorrente non sia fondata. Occorre, invero, sottolineare
come la contribuente abbia dichiarato sin dall'inizio con la
pratica edilizia (Dia in data 25/10/2007) di eseguire i lavori
riguardanti una ristrutturazione edilizia consistenti in:
- ampliamento camera esistente primo piano abitazione;
- ampliamento autorimessa costruita a confine;
- varianti alla sistemazione esterna ai prospetti.
Con tale documentazione non ha minimamente fatto cenno ai
lavori di risparmio energetico, o comunque a un adeguamento
degli impianti di riscaldamento.
Ciò non appare frutto di una mera imprecisione del
contribuente, posto che i lavori di ampliamento e
ristrutturazione sono risultati di valore ben superiore a
quelli che successivamente sono stati dichiarati relativi al
risparmio energetico.
Vero è che la contribuente ha effettuato spese per lavori di
riqualificazione energetica, ciò è stato effettivamente
documentato con le allegate fatture e con attestazione dei
tecnico abilitato (asseverazione).
Tuttavia si deve evidenziare come non sia consentito
applicate congiuntamente due tipi di deduzioni: quella
relativa alla ristrutturazione edilizia e riferita alle
spese a esse inerenti e quella relativa al risparmio
energetico sia pur riferita quest'ultima alle sole spese
pertinenti a tale risparmio.
Infatti, poiché tutti i lavori si riferiscono allo stesso
immobile e sono riconducibili a un'unica Denuncia inizio
attività, l'intervento e valutate unitariamente.
Né d'altronde vi è stata richiesta di annullamento o di
modifica della Dia sottoscritta.
In definitiva, non è possibile ricavare le detrazioni di
imposta del 55% previsto per interventi di riqualificazione
energetica, in quanto tutta la pratica proposta al comune
era chiaramente diretta a un intervento di ristrutturazione
edilizia.
Non è neppure possibile riconoscere ora 1'agevolazione del
36% previsto per interventi di ristrutturazione edilizia, in
quanto tale diversa agevolazione avrebbe dovuto essere
richiesta all'ufficio finanziano con la dichiarazione dei
redditi, laddove invece il beneficiario dell'agevolazione ha
compilato il relativo modulo dell'Agenzia delle entrate
riguardante «interventi di riqualificazione energetica».
Di quanto sopra enunciato, si deve inoltre segnalare anche
la decisione della Commissione tributaria regionale con
sentenza n. 520/67/16 pronunciata il 14.12.2015. ( )
PQM La Commissione, visto l'art. 36 dlgs 546/1992, respinge
la domanda della ricorrente. Dichiara compensate tra le
parti le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: È
mobbing spostare il vigile al cimitero.
Il comune che trasferisce l'agente scomodo
al cimitero lasciandolo senza alcuna
incombenza lavorativa può essere condannato
per mobbing. E per questo sarà tenuto al
risarcimento del danno biologico e di quello
non patrimoniale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro, con la
sentenza
27.01.2017 n. 2142.
Un comune calabrese ha deciso di trasferire
un agente di polizia locale assegnandolo ad
altri uffici e mansioni. Dopo alterne
vicende il vigile è stato accompagnato
presso il locale cimitero per svolgere la
sua attività lavorativa in una stanza della
triste struttura.
Contro questa serie di
iniziative singolari l'interessato ha
proposto con successo azioni legali che
hanno confermato il mobbing ma il comune ha
richiesto ai giudici del Palazzaccio di
annullare le decisioni di merito. Il
collegio ha rigettato il ricorso confermando
la condanna del comune al risarcimento del
danno.
Degradare un vigile, togliergli ogni
mansione, l'ufficio, la scrivania e avviarlo
a operare nella sede cimiteriale è
effettivamente un messaggio mobbizzante che
non può essere tollerato ed espone la
pubblica amministrazione all'obbligo di
risarcimento
(articolo ItaliaOggi
del 20.04.2017). |
AGGIORNAMENTO AL 28.12.2017 |
ã |
Incentivo funzioni tecniche:
la Legge di
Bilancio 2018 risolve la quaestio juris
sollevata dai Giudici contabili?? |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Funzioni
tecniche, premi a parte. Incentivi fuori dal
tetto per la contrattazione decentrata.
Gli incentivi ai tecnici debbono essere
considerati fuori dal tetto del fondo per la
contrattazione decentrata.
È stato approvato l'emendamento
49.22 (di iniziativa della I
Commissione) e l'emendamento
49.19 (di iniziativa dell'On.
Fabbri, sottoscritto anche dall'On.
Fragomeli) alla legge di Bilancio (Atto
Camera n. 4768), presentato anche
su iniziativa dell'Unitel (Unione nazionale
italiana tecnici enti locali) finalizzato a
risolvere il garbuglio della composizione
delle risorse decentrate, derivante dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della Sezione Autonomie della Corte dei
conti.
Come è noto, la Sezione ha enunciato il
principio di diritto secondo il quale «Gli
incentivi per funzioni tecniche di cui
all'articolo 113, comma 2, dlgs n. 50/2016
sono da includere nel tetto dei trattamenti
accessori di cui all'articolo 1, comma 236,
l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Le indicazioni della Sezione, peraltro non
condivise dalla Sezione Liguria, e comunque
riconfermate dalla
deliberazione 10.10.2017 n. 24,
hanno letteralmente gettato nel panico le
amministrazioni, perché improvvisamente il
fondo della contrattazione decentrata si è
visto dover finanziare gli incentivi per i
servizi tecnici previsti dal codice, che
invece erano sempre state considerate spese
finanziate al di fuori del fondo.
Si è immediatamente creata una situazione di
stallo nelle trattative, di per sé già molto
complesse, per la destinazione dei fondi.
Infatti, l'interpretazione data dalla
Sezione Autonomie finisce per erodere i
fondi, dai quali sottrarre le risorse per
gli incentivi tecnici, visto che non sono
nemmeno possibili incrementi della parte
variabile che vadano oltre il tetto del
2016, imposto dalla riforma Madia
all'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017.
La chiave di lettura offerta dalla Sezione
Autonomie non ha né convinto sul piano
giuridico operatori ed enti, né ha trovato
accoglienza favorevole sul piano politico e
sindacale.
Da qui, la necessità di fare chiarezza,
mediante l'emendamento il cui testo prevede
modifica l'articolo 113 del dlgs 50/2016 (il
codice dei contratti), inserendo il seguente
nuovo comma 5-bis: «Gli incentivi di cui
al presente articolo fanno capo al medesimo
capitolo di spesa previsto per i singoli
lavori, servizi e forniture».
L'emendamento (cfr.
il testo approvato il
21.12.2017 dalla V Commissione permanente
Bilancio, tesoro e programmazione della
Camera dei Deputati) smentisce la
ricostruzione della Corte dei conti e
chiarisce che il finanziamento degli
incentivi deriva da fonti esterne al
bilancio, così da poter consentire
l'incremento dei fondi per la contrattazione
decentrata.
Occorrerà verificare se la magistratura
contabile si farà convincere che la modifica
normativa risolve i problemi creati con le
interpretazioni restrittive fin qui
espresse. Di certo, si deve osservare che
non è la prima volta che letture rigorose e
comunque non allineate con le esigenze
gestionali degli enti da parte della Corte
dei conti inducono il legislatore a
correzioni di rotta mediante interventi
normativi.
Era avvenuto qualcosa di simile anche
relativamente al tema del computo delle
assunzioni dei dirigenti a contratto ai
sensi dell'articolo 110 del Tuel: la
magistratura contabile riteneva prima che la
spesa non rientrasse nel tetto di spesa
dell'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010,
per poi cambiare idea; il legislatore ha
stabilito che detta spesa non rientra nel
tetto, ma la Corte dei conti con delibere
successive ha confermato che, invece, la
spesa per i dirigenti a contratto comunque
sta nel tetto di spesa dei contratti
flessibili.
È evidente che simili rimpalli di
interpretazioni e rincorse a chiarire
significati di norme, molte volte poco
esplicite ma altre volte non così oscure e
contraddittorie, finisce solo per creare
grande disorientamento tra gli operatori,
con comprensibili svantaggi di molti generi
nell'attività gestionale
(articolo ItaliaOggi del 20.12.2017).
---------------
Al riguardo, si leggano anche i seguenti
ulteriori documenti:
●
Le modifiche approvate dalla Camera dei
Deputati (Senato della
Repubblica, dossier dicembre 2017);
●
Sintesi degli emendamenti approvati dalla V
Commissione Bilancio della Camera dei
Deputati (Senato della
Repubblica, dossier dicembre 2017).
Il Senato della Repubblica, il 23.12.2013,
ha approvato il seguente disegno di legge
d’iniziativa del Governo (Atto
Senato n. 2960-B), già approvato
dal Senato e modificato dalla Camera dei
deputati:
Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2018 e bilancio
pluriennale per il triennio 2018-2020
(in attesa di pubblicazione sulla G.U.R.I.).
Per quanto qui interessa, l'art. 1, comma
526, così dispone:
526.
All’articolo 113 del codice dei contratti
pubblici, di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il
seguente comma:
«5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al
medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture». |
Invero, tuttavia, qualcuno mette già le mani avanti
sull'intervenuta risoluzione legislativa della
problematica: |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Incentivi per funzioni tecniche nella legge di
bilancio (22.12.2017 - link a
www.gianlucabertagna.it). |
Che dire: stiamo a vedere (prossimamente) cosa
diranno le varie sezioni regionali della Corte dei
Conti -a fronte di (sicuri) interrogativi posti da
vari comuni- le quali, ovviamente, chiederanno lumi alla
Sezione Autonomie. |
|
|
Regione Lombardia:
si profila, all'orizzonte, un'altra possibile
censura da parte della Consulta.
Consumo di suolo, al vaglio della Corte
Costituzionale la legge n. 31/2014 della Lombardia.
Secondo il Consiglio di Stato una norma di tale
legge regionale, nel dettare i criteri per la
riduzione del consumo del suolo, determina una
illegittima compressione delle potestà urbanistiche
comunali. |
URBANISTICA: Alla
Consulta la questione di legittimità costituzionale della
legge regionale lombarda in tema di consumo del suolo
---------------
Urbanistica ed edilizia – Riduzione del consumo del suolo
– Potestà comunale – Questione non manifestamente infondata
di costituzionalità.
Non è manifestamente infondata, con
riferimento ai principi di sussidiarietà (artt. 5, 114 e 118
Cost.) e di riserva alla legislazione esclusiva statale
delle funzioni fondamentali del comune (art. 117, comma 2,
lett. p), Cost.), la questione di legittimità costituzionale
dell’art.
5, l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31, in quanto,
nel dettare i criteri per la cd. riduzione del consumo del
suolo, determina una illegittima compressione delle potestà
urbanistiche comunali (1).
---------------
(1) I. Con l’ordinanza in epigrafe la quarta sezione del Consiglio
di Stato ha rimesso alla Corte costituzionale i dubbi in
ordine alla legittimità della legislazione regionale
lombarda in tema di consumo del suolo.
II. La questione è sorta nell’ambito di un complesso contenzioso
proposto avverso gli atti di approvazione di una variante
generale al piano regolatore del Comune di Brescia.
La controversia è stata avviata dai proprietari di alcuni
immobili ricompresi in un c.d. “ambito di trasformazione”.
In dettaglio, nel 2014 la Regione Lombardia ha approvato la
legge 28.11.2014, n. 31 che ha tra i propri obiettivi la
riduzione del consumo del suolo; l’articolo 5 della
suindicata legge regionale detta una disposizione di natura
transitoria, sulla scorta della quale i proprietari predetti
presentavano una istanza, contenente un progetto di piano
attuativo riferito a tutto l’ambito di trasformazione.
Peraltro, nelle more il Comune adottava -e poi approvava-
una variante generale di contenuto peggiorativo per gli
interessati, che eliminava dal documento di piano la
previsione dell’ambito di trasformazione suddetto. I
proprietari coinvolti impugnavano quindi la variante
rilevando il contrasto delle previsioni con la sopracitata
legge regionale. Il Tar accoglieva il ricorso ed annullava
in parte qua la variante, dettando poi, nella seconda parte
della sentenza le prescrizioni cui si sarebbe dovuta
improntare la successiva attività pianificatoria del comune.
III. La questione, così come riassunta in massima, nel ragionamento
della quarta sezione prende le mosse da un’approfondita
ricostruzione dei principi dettati dalla Consulta, anche in
tema di governo del territorio.
Si coglie l’occasione per dettare alcune indicazioni di
ordine generale. Ad esempio, che l'urbanistica, ed il
correlato esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Da ciò emerge
la nozione ampia di “governo del territorio” che,
comportando la potestà legislativa concorrente delle
Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa
dei comuni in materia. Nel sistema giuridico italiano la
funzione amministrativa urbanistica, rientrante
pacificamente nella materia del governo del territorio, è
tradizionalmente affidata ai comuni.
Da qui il dubbio di costituzionalità dell’art. 5, comma 4,
della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 in
relazione al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett.
p), della Costituzione in quanto: deve essere lo Stato a
stabilire con propri atti normativi primari quali siano le
funzioni affidate agli Enti locali; in base alla norma in
questione viene direttamente compiuta dal legislatore
regionale, anziché dalle amministrazioni comunali, una
scelta di particolare rilievo, relativa alla salvaguardia
(anche se per un periodo temporale limitato) di prescrizioni
contenute in atti amministrativi di natura urbanistica,
emanati in precedenza dai comuni medesimi, con conseguente
conformazione del quomodo di esercizio della funzione
comunale.
In pratica, si censura che con il blocco temporale delle
iniziative pianificatorie delle amministrazioni comunali
(seppur per un periodo di tempo contenuto, ma variabile in
quanto incerto nella sua ampiezza), siano rese
immodificabili “le previsioni e i programmi edificatori
del documento di piano vigente”; con tale generale
previsione, a contrario, si inibisce del tutto all’ente
locale di esercitare la potestà di adottare modifiche al
proprio piano vigente, “congelandolo” alla data di
emanazione della legge regionale suddetta.
In tale contesto emerge anche il contrasto con il parametro
della sussidiarietà verticale di cui agli articoli 5, e 118
della Costituzione, sia nella parte in cui il Comune si
duole della indeterminatezza temporale della previsione (nel
senso che non è prevista alcuna decadenza del barrage
interdittivo, laddove la regione non rispetti il termine
temporale contenuto nella legge) sia laddove si sottolinea
la portata “espropriativa” di competenze proprie.
IV. Per completezza, in relazione al tema in oggetto, si segnala:
a)
Corte cost. 29.11.2017, n. 246 oggetto della
News US 11.12.2017, secondo cui “E’
illegittimo l’art. 1, comma 129, della legge regionale n. 4
del 2011, nella parte in cui, sostituendo l’art. 2, comma 1,
della legge reg. Campania n. 13 del 1993, prevede che non
costituiscono attività rilevanti ai fini paesaggistici le
installazioni «quali tende ed altri mezzi autonomi di
pernottamento, quali roulotte, maxi caravan e case mobili»,
anche se «collocate permanentemente entro il perimetro delle
strutture ricettive regolarmente autorizzate» in un’area
naturale protetta”;
b)
Corte cost. 13.04.2017, n. 84 oggetto della
News US 10.05.2017, secondo cui “Sono
infondate le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo
06.06.2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in
materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1,
lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia (Testo A)», sollevate, in riferimento agli
artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e
117, terzo comma, della Costituzione nella parte in cui, nel
prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori
del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di
strumenti urbanistici: a) fanno salva l’applicabilità delle
leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più
restrittivi»; b) stabiliscono che, «comunque», nel caso di
interventi a destinazione produttiva, si applica –in
aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un
decimo dell’area di proprietà)– anche il limite della
densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro
quadrato”;
c)
Corte cost. 17.07.2017, n. 209 oggetto della
News US 31.07.2017, secondo cui “E’
inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, comma 16, lettera f), del decreto-legge
31.05.2010, n. 78, (Misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di competitività economica),
convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122, sollevata, in
riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione
nella parte in cui consente di assoggettare ad un contributo
straordinario le cosiddette “valorizzazioni urbanistiche”
frutto della nuova pianificazione”;
d)
Corte cost. 15.07.2016, n. 178 oggetto della
News US 18.07.2016, secondo cui “E’
incostituzionale l’art. 10, comma 1, l.reg. Marche
13.04.2015 n. 16, nella parte in cui modifica l’art. 35
l.reg. 04.12.2014 n. 33, sostituendo, all’espressione
originaria "ovvero di ogni altra trasformazione", la diversa
espressione "e di ogni trasformazione", con ciò ampliando la
deroga alle distanze anche in relazione ad “interventi di
carattere puntuale”, in violazione dell’art. 2-bis del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell’ edilizia), che
invece consente alle Regioni di prevedere, con proprie leggi
e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del
Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, unicamente
a condizione che quest’ultime si inseriscano nell’ambito
della definizione o revisione di strumenti urbanistici
comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario
dell’intero territorio o di specifiche aree”.
e) sulla competenza dello Stato a individuare le
funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 117, lett.
p), Cost., Corte cost. 11.02.2014, n. 22, in Foro it., 2014,
I, 3394, secondo cui “Non sono fondate, in riferimento
agli art. 117, 118 e 119 commi 1, 2 e 6, cost., le q.l.c.
dell'art. 19, commi 3 e 4 d.l. 06.07.2012, n. 95, conv., con
modif., in l. 07.08.2012, n. 135, il quale sostituisce
l'art. 32 d.lgs. n. 267 del 2000, ponendo una disciplina
articolata delle unioni di Comuni, con differenti profili,
attinenti alle procedure di istituzione e alla struttura
organizzativa delle unioni, nonché alla disciplina delle
funzioni che queste ultime sono destinate a svolgere (comma
3), e prevede, per i comuni con popolazione fino a 5.000
abitanti, una facoltà di scelta tra i modelli organizzativi
di cui ai precedenti commi 1 e 2 (comma 4). Le disposizioni
censurate sono orientate finalisticamente al contenimento
della spesa pubblica, siccome poste da un provvedimento di
riesame delle condizioni di spesa e con contenuti armonici
rispetto all'impianto complessivo della rimodulazione delle
"unioni di comuni", sicché opera il titolo legittimante
della competenza in materia di "coordinamento della finanza
pubblica", di cui al comma 3 dell'art. 117 cost., esercitata
dallo Stato attraverso previsioni che si configurano come
principi fondamentali e non si esauriscono in una disciplina
di mero dettaglio”;
f) sull’esercizio unitario di funzioni
amministrative, Corte cost., 22.07.2011, n. 232, in Foro it.,
2011, I, 2538, secondo cui “Deve essere dichiarata
l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 d.l. 31.05.2010
n. 78 art. 43, conv. con modificazioni dalla l. 30.07.2010
n. 122, che prevede l'istituzione "nel Meridione d'Italia"
di "zone a burocrazia zero" e dispone che, in tali zone,
"nei riguardi delle nuove iniziative produttive i
provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi di
qualsiasi natura ed oggetto avviati su istanza di parte,
fatta eccezione per quelli di natura tributaria, di p.s. e
di incolumità pubblica, sono adottati in via esclusiva da un
Commissario di Governo". Posto che la previsione possiede un
campo di applicazione generalizzato (riferito a tutti i
procedimenti amministrativi in tema di nuove iniziative
produttive) e quindi idoneo a coinvolgere anche procedimenti
destinati ad esplicarsi entro ambiti di competenza regionale
concorrente o residuale, essa appare in contrato con gli
agli art. 117, commi 3 e 4, e 118 cost., in ragione della
assenza nel contesto dispositivo di una qualsiasi
esplicitazione, sia dell'esigenza di assicurare l'esercizio
unitario perseguito attraverso tali funzioni, sia della
congruità, in termini di proporzionalità e ragionevolezza,
di detta avocazione rispetto al fine voluto ed ai mezzi
predisposti per raggiungerlo, sia della impossibilità che le
funzioni amministrative "de quibus" possano essere
adeguatamente svolte agli ordinari livelli inferiori. Resta,
di conseguenza, assorbita l'ulteriore censura formulata in
via subordinata dalla ricorrente avverso il comma 2 del
menzionato art. 43 -per violazione degli art. 117, commi 3 e
4, e 118, comma 1, cost.- in ragione della dedotta mancata
previsione dell'ulteriore presupposto del coinvolgimento
della Regione territorialmente interessata”;
g) sulla sussidiarietà verticale di cui all’art.
118 Cost.:
- Corte cost., 20.05. 2016, n. 110, in Rivista Giuridica
dell'Edilizia 2016, 6, I, 1038, secondo cui “Non sono
fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art.
37, comma 1, d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modif., in
l. 11.11.2014, n. 164, censurato per violazione degli artt.
117, comma 3 e 118, comma 1, Cost., nonché del principio di
leale collaborazione, nella parte in cui stabilisce che «i
gasdotti di importazione di gas dall'estero, i terminali di
rigassificazione di GNL, gli stoccaggi di gas naturale e le
infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas
naturale, incluse le operazioni preparatorie necessarie alla
redazione dei progetti e le relative opere connesse
rivestono carattere di interesse strategico». La
disposizione impugnata non modifica —né espressamente, né
implicitamente— le singole discipline di settore, dettate
per la localizzazione, la realizzazione ovvero
l'autorizzazione all'esercizio di ciascuna delle categorie
di infrastrutture in essa elencate, per ognuna delle quali
esiste una specifica disciplina procedimentale per la
realizzazione e la messa in esercizio delle relative opere,
che, in forme diverse, prevede la partecipazione degli enti
territoriali, e richiede espressamente l'intesa con la
singola Regione interessata. Pertanto, l'attribuzione del
«carattere di interesse strategico» alle infrastrutture in
questione, effettuata in via generale dalla disposizione
normativa impugnata, non determina, di per sé, alcuna
modifica alle normative di settore prima richiamate, né, di
conseguenza —prevedendo queste ultime sempre la necessaria
intesa con la Regione interessata— alcuna deroga ai
principi, elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, in
tema di chiamata in sussidiarietà e di necessaria
partecipazione delle Regioni”;
- Corte cost., 24.07.2015, n. 189, in Rivista Giuridica
dell'Edilizia 2015, 5, I, 872, secondo cui “È
costituzionalmente illegittimo l'art. 41, comma 4, d.l.
21.06.2013, n. 69, conv., con modif., in l. 09.08.2013, n.
98. La norma impugnata, nella parte in cui stabilisce che
costituiscono «interventi di nuova costruzione»
l'installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers,
case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee, «ancorché siano installati,
con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture
ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale
di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti»,
estende, con norma di dettaglio, l'ambito oggettivo degli
«interventi di nuova costruzione», per i quali è richiesto
il permesso di costruire. Essa in specie individua
specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati
nell'ambito delle strutture turistico-ricettive all'aperto,
molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri
generali (della trasformazione permanente del territorio e
della precarietà strutturale e funzionale degli interventi)
forniti, dallo stesso legislatore statale (d.P.R. n. 380 del
2001), ai fini dell'identificazione della necessità o meno
del titolo abilitativo. In tal modo, la norma impugnata
sottrae al legislatore regionale ogni spazio di intervento,
determinando la compressione della sua competenza
concorrente in materia di governo del territorio, nonché la
lesione della competenza residuale del medesimo in materia
di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla
prima”;
- Consiglio di Stato, sez. VI, 31.10.2011, n. 5816, secondo
cui “La modifica del Titolo V della parte seconda della
Costituzione, ha previsto, da un lato, l'attribuzione alle
regioni della competenza legislativa concorrente in materia
di "porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di
navigazione" (art. 117 comma 3,cost.); dall'altro, ha
attribuito la generalità delle funzioni amministrative ai
Comuni, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le
stesse siano conferite a province, città metropolitane,
regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza (art. 118, comma 1, cost.).
Per i porti civili -nel cui ambito ricade il sito portuale
di cui è controversia- resta inapplicabile, ai fini
dell'individuazione dell'autorità competente a pronunciarsi
sulle richieste concessorie, la previgente classificazione
di cui all'art. 4 l. 28.01.1994 n. 84, ed al d.P.C.M.
21.12.1995 n. 603000. In altri termini, il nuovo sistema
delle competenze, recato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3
(modifiche al Titolo V della parte seconda della
Costituzione) impedisce che possa attribuirsi attuale
valenza precettiva all'inserimento formale del porto nel
d.P.C.M. del 1995, ai fini del riparto delle funzioni
amministrative in materia”;
h) sulla titolarità in capo ai comuni dei poteri
di pianificazione del territorio, cfr. la già richiamata
Corte cost., n. 209 del 2017, oggetto della
News US 31.07.2017;
i) sui rapporti fra regione ed ente locale nella
formazione dello strumento urbanistico e sulle conseguenze
di carattere processuale, Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2010,
n. 9375, in Foro it., 2011, III, 330 con nota di CARLOTTI,
secondo cui “È inammissibile il ricorso proposto contro
un piano regolatore generale notificato soltanto al comune
adottante e non anche alla Regione che lo abbia approvato,
in considerazione della natura complessa dell'atto impugnato
e del concorso delle volontà di entrambi gli enti
territoriali alla sua formazione definitiva”;
j) sui limiti della competenza delle Regioni
(anche a statuto speciale) in materia di edilizia e governo
del territorio, fra le tante, cfr.:
- Corte cost., 11.06.2010, n. 209, in Giur. cost. 2010, 3,
2417 con nota di ESPOSITO e in Foro it., 2011, I, 375, con
nota di ROMBOLI, secondo cui “È costituzionalmente
illegittimo l'art. 107-bis, commi 6 e 7, l. prov. Bolzano
11.08.1997 n. 13. Premesso che il legislatore può adottare
norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza
di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di
contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta
imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di
senso del testo originario, con ciò vincolando un
significato ascrivibile alla norma anteriore, fermi i limiti
generali all'efficacia retroattiva delle leggi, le
disposizioni censurate -le quali, rispettivamente, prevedono
che la subordinazione della sanatoria, previo pagamento
della sanzione pecuniaria, all'impossibilità di rimuovere i
vizi delle procedure, si estende ai vizi sostanziali, con la
conseguenza che rientrano nella previsione anche le ipotesi
di opere realizzate in base a concessioni dichiarate
illegittime per contrasto con gli strumenti urbanistici
vigenti o fondati su variazioni degli stessi a loro volta
dichiarate illegittime e annullate (comma 6), e riducono
l'area di inapplicabilità dell'art. 88 l. prov. n. 13 del
1997, nel testo modificato dalla l.prov. n. 1 del 2004, alle
sole ipotesi di inedificabilità assoluta, escludendo quindi
i casi di inedificabilità relativa (comma 7)- nonostante l'autoqualificazione
di norme interpretative, contengono delle vere e proprie
innovazioni del testo previgente, incidendo in modo
irragionevole sul legittimo affidamento nella sicurezza
giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato
di diritto, giacché il legislatore provinciale è intervenuto
per rendere retroattivamente legittimo ciò che era
illegittimo, senza che fosse necessario risolvere
oscillazioni giurisprudenziali e senza che il testo delle
norme "interpretate" offrisse alcun appiglio semantico nel
senso delle rilevanti modifiche introdotte, così violando
anche le attribuzioni costituzionali dell'autorità
giudiziaria”;
- Corte cost., 09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica
dell'Edilizia, 2016, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo
cui “Con riferimento all’art. 117, comma 3, cost., va
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 84-bis,
comma 2, lett. b), l.reg. Toscana n. 1 del 2005 (“Norme per
il governo del territorio”). Tale disposizione regionale
infatti, nell’attribuire all’Amministrazione un potere di
intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio,
ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi
fondamentali dettati dal legislatore statale; essa, dunque,
comporta l’invasione della riserva di competenza statale
alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i
rischi per la certezza e per l’unitarietà della disciplina
che tale invasione comporta”;
- Corte cost. 12.04.2013, n. 64, in Foro it., 2014, I, 2297,
secondo cui “È incostituzionale l'art. 1 commi 1 e 2
l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede
che, nell'ambito degli interventi edilizi nelle zone
classificate sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai
procedimenti in corso, la necessità del previo rilascio
delle autorizzazioni del competente ufficio tecnico
regionale per i "progetti" e le "opere di modesta
complessità strutturale", privi di rilevanza per la pubblica
incolumità, individuati dalla giunta regionale in base ad
una procedura nella quale è prevista l'obbligatoria
assunzione di un semplice parere da parte della commissione
sismica regionale”;
k) in dottrina sui rapporti fra potestà
legislativa dello Stato e delle Regioni in materia di
governo del territorio e sulle competenze amministrative
esercitabili da Regioni e enti locali, v. MENGOLI, Manuale
di diritto urbanistico, VI ed., Milano, 2009, 65 ss., 73 ss. (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza non definitiva 04.12.2017 n. 5711 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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Alla
Corte costituzionale la l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31
sul cd. consumo del suolo.
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Urbanistica -
Lombardia - Legge cd. di riduzione del consumo del suolo -
Art. 5, l.reg. n. 31 del 2014 - Compressione delle potestà
urbanistiche comunali - Violazione artt. 5, 114, 117 e 118
Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata, con riferimento ai principi di sussidiarietà
(artt. 5, 114 e 118 Cost.) e di riserva alla legislazione
esclusiva statale delle funzioni fondamentali del comune
(art. 117, comma 2, lett. p), Cost.), la questione di
legittimità costituzionale
dell’art. 5, commi 4 e 9, della
legge regionale lombarda 28.11.2014, n. 31 (nel
testo ante modifiche introdotte dalla legge regionale
lombarda n. 16 del 26.05.2017) in
quanto, nel dettare i criteri per la cd. riduzione del
consumo del suolo, determinante una illegittima compressione
delle potestà urbanistiche comunali (1).
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(1)
Giova preliminarmente chiarire che la l.reg. Lombardia
28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo
di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) ha
la finalità di indirizzare la pianificazione urbanistica, a
tutti i livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di
suolo.
La definizione normativa di consumo di suolo è stata
introdotta dall’art. 2, comma 1-c, l.reg. n. 31 del 2014 (“trasformazione,
per la prima volta, di una superficie agricola da parte di
uno strumento di governo del territorio, non connessa con
l'attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di
parchi urbani territoriali”).
Con riferimento alla sollevata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5, l.reg. Lombardia 28.11.2014, n.
31, ha chiarito la Sezione che l'urbanistica, ed il
correlativo esercizio del potere di pianificazione, non
possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al
diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto
minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli
enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello
sviluppo complessivo ed armonico del medesimo: la nozione
ampia di “governo del territorio”, comportando la
potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a
cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in
subiecta materia.
Ha aggiunto che nel sistema giuridico italiano all’Ente
comune è tradizionalmente affidata la funzione
amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla
nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117,
comma 3, della Costituzione) che esso esercita, di regola
attraverso una duplice direttrice. Ha quindi richiamato
Cons. St., sez. VI, 30.06.2011, n. 3888, secondo cui “in
tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del
territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute
nel relativo piano regolatore, nei piani attuativi o in
altro strumento generale individuato dalla normativa statale
e regionale, occorre differenziare tra le prescrizioni che
in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie
della porzione di territorio interessata, tra cui rientrano
le norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre
regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio
dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme
tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze;
la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati
usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali
ecc.”).
Con specifico riferimento alla sollevata questione di
legittimità costituzionale, la Sezione ha affermato, in
relazione:
a) al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., che:
a) la riserva esclusiva alla legislazione
statuale delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province
e Città metropolitane” implica una conseguenza: quella
che debba essere lo Stato –e soltanto quest’ultimo– a
stabilire con propri atti normativi primari quali siano le
funzioni affidate agli Enti locali;
b) l’art. 5, l.reg. Lombardia n. 31 del 2014
potrebbe ritenersi collidente con tale disposizione della
Costituzione in quanto, pur essendo la funzione
amministrativa in materia urbanistica affidata in termini
generali ai comuni della Lombardia, tuttavia viene
direttamente compiuta dal legislatore regionale anziché
dalle amministrazioni comunali una scelta di particolare
rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo
temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti
amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza
dai comuni medesimi;
c) in tal modo si è voluto escludere che il
comune eserciti per questo profilo la funzione
amministrativa urbanistica ad esso spettante, della quale si
è conformato il quomodo di esercizio.
b) al parametro relativo al principio di sussidiarietà verticale di
cui agli artt. 5 e 118 Cost., sia nella parte in cui il
Comune si duole della indeterminatezza temporale della
previsione (nel senso che non è prevista alcuna decadenza
del barrage interdittivo, laddove la regione non rispetti il
termine temporale contenuto nella legge) sia laddove si
sottolinea la portata “espropriativa” di competenze
proprie (consistenti nella potestà di modificare il
documento di Piano del PGT) rappresentata dalla prescrizione
interdittiva di cui al comma 4 dell’art. 5, l.reg. Lombardia
n. 31 del 2014.
Ad avviso della Sezione, il comma 4 dell’art. 5, l.reg.
Lombardia n. 31 del 2014 ha introdotto un divieto al potere
comunale di modifica del Documento di Piano in senso
riduttivo del consumo di suolo quanto agli ambiti di
trasformazione, e che tale prescrizione renda non
manifestamente infondato il dubbio di legittimità
costituzionale prospettato dal comune, in quanto la funzione
di pianificazione, ex art. 118 Cost., integra funzione
amministrativa attribuita al comune medesimo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza non definitiva 04.12.2017 n. 5711 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Consumo
di suolo: il Consiglio di Stato solleva la questione di
legittimità costituzionale della L.R. della Lombardia n. 31
del 2014.
Il Consiglio di Stato ha dichiarato
rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4 e 9, della
legge regionale lombarda 28.11.2014, n. 31 (nel testo ante
modifiche introdotte dalla legge regionale lombarda n. 16
del 26.05.2017), con riferimento agli articoli 5, 117, comma
2, lett. p), e 118 della Costituzione ed ha, per l’effetto,
rimesso alla Corte Costituzionale la questione di
legittimità.
Ad avviso del Collegio, non è manifestamente infondato il
dubbio di costituzionalità investente la disposizione
contenuta nell’art. 5, comma 4, della legge regionale della
Lombardia 28.11.2014, n. 31 in relazione al parametro di cui
all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione in
quanto:
a) la riserva esclusiva alla legislazione statuale delle “funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane”
implica una conseguenza: quella che debba essere lo Stato –e
soltanto quest’ultimo- a stabilire con propri atti normativi
primari quali siano le funzioni affidate agli Enti locali;
b) la prescrizione normativa regionale avversata potrebbe ritenersi
collidente con tale disposizione della Costituzione in
quanto, pur essendo la funzione amministrativa in materia
urbanistica affidata in termini generali ai comuni della
Lombardia, tuttavia viene direttamente compiuta dal
legislatore regionale anziché dalle amministrazioni comunali
una scelta di particolare rilievo, relativa alla
salvaguardia (anche se per un periodo temporale limitato) di
prescrizioni contenute in atti amministrativi di natura
urbanistica, emanati in precedenza dai comuni medesimi;
c) in tal modo si è voluto escludere che il comune eserciti per
questo profilo la funzione amministrativa urbanistica ad
esso spettante, della quale si è conformato (in negativo) il
quomodo di esercizio.
Ad analoghe conclusioni, perviene il Collegio, con
riferimento al parametro della violazione del principio di
sussidiarietà in quanto:
a) il blocco temporale alle iniziative pianificatorie delle
amministrazioni comunali, implica che –seppur per un periodo
di tempo contenuto, ma variabile in quanto incerto nella sua
ampiezza– siano immodificabili le previsioni e i programmi
edificatori del documento di piano vigente;
b) con tale generale previsione, a contrario, si inibisce del tutto
all’ente locale di esercitare la potestà di adottare
modifiche al proprio Documento di Piano vigente
(quest’ultimo costituente la parte più rilevante e
qualificante del PGT, come è noto) ed in concreto se ne
determina il contenuto, “congelandolo” alla data di
emanazione della legge regionale suddetta
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
----------------
... per la riforma della
sentenza 17.01.2017 n. 47
del TAR per la LOMBARDIA – Sez. Staccata di Brescia – Sez.
I.
...
1. Ritiene il Collegio che l’appello principale sia in parte infondato, e
vada pertanto respinto, laddove sostiene che la sentenza sia
viziata ex art. 112 c.p.c.; ritiene di converso il Collegio
che sia rilevante e non manifestamente infondata, nei
termini che verranno esposti in motivazione, la questione di
legittimità costituzionale della suindicata legge regionale
28.11.2014, n. 31 prospettata nell’appello principale;
ritiene, quindi, il Collegio che debba essere sollevata la
questione di legittimità costituzionale relativa alla legge
regionale menzionata e che il processo debba essere sospeso;
tutte le altre censure prospettate nell’appello principale e
nell’appello incidentale non possono essere allo stato
decise, in quanto dall’esito della decisione della Corte
Costituzionale in ordine alla questione sollevata dipenderà
la procedibilità delle medesime, nella parte in cui, per
speculari ragioni, esse attingono i capi 22 e segg. della
impugnata sentenza laddove sono state dettate prescrizioni
in punto di futura attività programmatoria del comune
conseguenti all’annullamento degli atti impugnati.
1.1. Preliminarmente il Collegio evidenzia che:
a) a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e
101, co. 1, c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di
gravame posti a sostegno dei ricorsi in appello, senza
tenere conto di ulteriori censure sviluppate nelle memorie
difensive successivamente depositate, in quanto
intempestive, violative del principio di tassatività dei
mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa
delle comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato
Sez. V, n. 5865 del 2015);
b) le parti concordano in ordine alla ricostruzione fattuale
e cronologica della vicenda infraprocedimentale siccome
descritta nella parte in fatto della decisione di primo
grado impugnata, per cui, anche al fine di non appesantire
il presente elaborato, ed in ossequio al principio di
sinteticità, si farà integrale riferimento sul punto alle
affermazioni del Tar (art. 64, comma II, del c.p.a.);
c) l’appello principale è senz’altro ammissibile in quanto
ivi si propongono critiche dettagliate e specifiche alle
argomentazioni contenute nella impugnata decisione, il che
implica la reiezione della eccezione di inammissibilità del
medesimo per genericità sollevate dalla difesa delle parti
originarie ricorrenti di primo grado;
d) è inaccoglibile (e comunque, per quanto si chiarirà di
seguito, la parte appellante non avrebbe interesse a
proporla) la censura secondo la quale la sentenza dovrebbe
essere dichiarata nulla in quanto resa in violazione del
principio di cui all’art. 112 c.p.c. a cagione della
circostanza che non si sarebbe pronunciata sulla eccezione
subordinata formulata dall’appellante comune di Brescia di
sospetta illegittimità costituzionale della disposizione di
cui all’art. del 5 della legge regionale 28.11.2014,
n. 31, in quanto:
I) per costante giurisprudenza che il Collegio condivide
“l'omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su
censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore
di diritto per violazione del principio di corrispondenza
tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di
appello sotto il profilo della violazione del disposto di
cui all'art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo
amministrativo” (tra le tante Consiglio Stato, sez. IV, 16.01.2006, n. 98);
II) ma –stabilisce la consolidata giurisprudenza
amministrativa- "il vizio di omessa pronuncia su un vizio
del provvedimento impugnato deve essere accertato con
riferimento alla motivazione della sentenza nel suo
complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché
esso può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui
risulti non essere stato esaminato il punto controverso e
non quando, al contrario, la decisione sul motivo
d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione
decisoria di segno contrario ed incompatibile” (Consiglio
Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2009);
III) nel caso di specie detto vizio non ricorre, in quanto
la sentenza di primo grado ha -seppur sinteticamente-
chiarito il proprio convincimento contrario alla fondatezza
della eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5
della legge regionale della Lombardia n. 31 del 2014 al
considerando n. 21 (“Questo non significa che la
pianificazione comunale sia bloccata per un tempo indefinito
e non possa perseguire finalità di contenimento delle
edificazioni, modificando le proprie scelte precedenti. Il
nuovo orientamento più restrittivo deve però essere attuato
in modo incrementale, rivedendo ogni singolo progetto di
piano attuativo, ed esponendo per ciascuno le ragioni che
inducono a ritenere non più conforme all’interesse pubblico
l’equilibrio perequativo fatto proprio dal PGT.”);
IV) in ogni caso, il comune non ha interesse a sollevare la
censura posto che per risalente quanto consolidata
giurisprudenza (pienamente attuale ai sensi dell’ art. 105
del c.p.a.) “l'omessa pronuncia su una o più censure
proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error
in procedendo tale da comportare l'annullamento della
decisione, con contestuale rinvio della controversia al
giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata
sentenza che il giudice di appello è legittimato ad
eliminare integrando la motivazione carente o, comunque,
decidendo del merito della causa” ( Consiglio Stato, sez. IV,
19.06.2007, n. 3289) ed il Collegio provvederà a
scrutinare la doglianza immediatamente di seguito.
1.2. In punto di fatto, la questione per cui si controverte,
è così sintetizzabile: la parte originaria ricorrente
possiede alcuni immobili ricompresi (ai sensi dalla
disciplina ad essi impressa dal PGT del 2012) in un Ambito
di trasformazione; nel 2014 la Regione Lombardia ha
approvato la legge 28.11.2014, n. 31 che ha tra i
propri obiettivi la riduzione del consumo del suolo;
l’articolo 5 della suindicata legge regionale detta una
disposizione di natura transitoria; sulla scorta della
(asserita) previsione di cui alla menzionata norma
transitoria, la parte originaria ricorrente presenta una
istanza (contenente un progetto di piano attuativo riferito
a tutto l’Ambito di trasformazione, unità di intervento P2)
ai sensi del comma 6 ivi contenuto e nei termini dallo
stesso prescritti, e si aspetterebbe che, proprio in forza
delle previsioni contenute nella norma transitoria, e della
circostanza che essa ha presentato l’istanza nei tempi ivi
stabiliti, detto piano venisse assentito; medio tempore,
però, il comune ha adottato -e poi approvato- una variante
generale che ha eliminato dal documento di piano la
previsione dell’ambito di trasformazione suddetto (variante
che non è contestato abbia contenuto peggiorativo per la
posizione degli originari ricorrenti); questi ultimi sono
insorti, ed hanno rilevato il contrasto delle previsioni
contenute nella variante generale suddetta con la
sopracitata legge regionale; il Tar ha accolto detta tesi
ed ha annullato in parte qua la variante, dettando poi,
nella seconda parte della sentenza le prescrizioni cui si
sarebbe dovuta improntare la successiva attività pianificatoria del comune.
2. Ciò premesso, e venendo all’esame del merito delle
doglianze proposte, seguendo la tassonomia propria delle
questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate
dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), in ordine logico è
prioritario l’esame del primo motivo di doglianza “di
merito” proposto dal comune di Brescia, secondo il quale la
sentenza di primo grado avrebbe frainteso e male
interpretato il disposto di cui all’art. del 5 della legge
regionale 28.11.2014, n. 31 (ed avrebbe erroneamente
ritenuto, quindi, che la avversata variante fosse contra legem).
2.1. La delibazione di tale censura è pregiudiziale in
quanto:
a) ove la stessa fosse accolta, non vi sarebbe necessità di
scrutinare la –subordinata-questione di legittimità
costituzionale (che viene infatti prospettata nella sola
ipotesi in cui il Collegio ritenga che la suindicata
disposizione debba necessariamente essere interpretata nel
senso chiarito dal Tar);
b) trattasi di una esigenza sistematica, in quanto è ben
noto che per condivisa e costante giurisprudenza (tra le
tante Corte Conti reg., -Sicilia- sez. giurisd., 04/07/2005,
n. 149, Cassazione civile, sez. I, 28/11/2003, n. 18200,
Consiglio di Stato, sez. V, 30/10/1997, n. 1207), sulla
falsariga dei fondamentali insegnamenti della Corte
Costituzionale, si è costantemente affermato che fra più
interpretazioni possibili delle norme giuridiche positive,
l'interprete deve privilegiare solo quella più conforme alla
Costituzione.
2.2. Ciò premesso, il Collegio non è persuaso della
fondatezza della tesi prospettata dall’appellante comune di
Brescia, in quanto sembra al Collegio che il testo della
norma sia stato correttamente interpretato dal Tar.
2.2.1. Invero, il testo originario della legge regionale
della Lombardia 28.11.2014, n. 31 (recante
“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la
riqualificazione del suolo degradato”) all’articolo 1
(recante “finalità generali” e del quale è bene riportare
per esteso l’articolato) enuncia la ratio della propria
esistenza e gli obiettivi che essa intende perseguire,
laddove prevede che: “1. La presente legge detta
disposizioni affinché gli strumenti di governo del
territorio, nel rispetto dei criteri di sostenibilità e di
minimizzazione del consumo di suolo, orientino gli
interventi edilizi prioritariamente verso le aree già
urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1
della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il
governo del territorio), sottoutilizzate da riqualificare o
rigenerare, anche al fine di promuovere e non compromettere
l’ambiente, il paesaggio, nonché l’attività agricola, in
coerenza con l’articolo 4-quater della legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in
materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale).
2. Il suolo, risorsa non rinnovabile, è bene comune di
fondamentale importanza per l’equilibrio ambientale, la
salvaguardia della salute, la produzione agricola
finalizzata alla alimentazione umana e/o animale, la tutela
degli ecosistemi naturali e la difesa dal dissesto
idrogeologico.
3. Le disposizioni della presente legge stabiliscono norme
di dettaglio nel quadro ricognitivo dei principi
fondamentali della legislazione statale vigente in materia
di governo del territorio.
4. In particolare, scopo della presente legge è di
concretizzare sul territorio della Lombardia il traguardo
previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050
a una occupazione netta di terreno pari a zero.”.
Il successivo articolo 2 (recante “definizioni di consumo di
suolo e rigenerazione urbana”) della suddetta legge
regionale, del pari di notevole importanza al fine di
dirimere la presente controversia, dispone invece quanto
segue: “1. In applicazione dei principi di cui alla presente
legge e alla conclusione del percorso di adeguamento dei
piani di governo del territorio di cui all’articolo 5, comma
3, i comuni definiscono:
a) superficie agricola: i terreni qualificati dagli
strumenti di governo del territorio come
agro-silvo-pastorali;
b) superficie urbanizzata e urbanizzabile: i terreni
urbanizzati o in via di urbanizzazione calcolati sommando le
parti del territorio su cui è già avvenuta la trasformazione
edilizia, urbanistica o territoriale per funzioni antropiche
e le parti interessate da previsioni pubbliche o private
della stessa natura non ancora attuate;
c) consumo di suolo: la trasformazione, per la prima volta,
di una superficie agricola da parte di uno strumento di
governo del territorio, non connessa con l’attività
agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi
urbani territoriali e inclusa la realizzazione di
infrastrutture sovra comunali; il consumo di suolo è
calcolato come rapporto percentuale tra le superfici dei
nuovi ambiti di trasformazione che determinano riduzione
delle superfici agricole del vigente strumento urbanistico e
la superficie urbanizzata e urbanizzabile;
d) bilancio ecologico del suolo: la differenza tra la
superficie agricola che viene trasformata per la prima volta
dagli strumenti di governo del territorio e la superficie
urbanizzata e urbanizzabile che viene contestualmente
ridestinata nel medesimo strumento urbanistico a superficie
agricola.
Se il bilancio ecologico del suolo è pari a zero, il consumo
di suolo è pari a zero;
e) rigenerazione urbana: l’insieme coordinato di interventi
urbanistico-edilizi e di iniziative sociali che includono,
anche avvalendosi di misure di ristrutturazione urbanistica,
ai sensi dell’articolo 11 della l.r. 12/2005, la
riqualificazione dell’ambiente costruito, la
riorganizzazione dell’assetto urbano attraverso la
realizzazione di attrezzature e infrastrutture, spazi verdi
e servizi, il recupero o il potenziamento di quelli
esistenti, il risanamento del costruito mediante la
previsione di infrastrutture ecologiche finalizzate
all’incremento della biodiversità nell’ambiente urbano.
2. Il Piano territoriale regionale (PTR) precisa le modalità
di determinazione e quantificazione degli indici che
misurano il consumo di suolo, validi per tutto il territorio
regionale, disaggrega, acquisito il parere delle province e
della città metropolitana da rendersi entro trenta giorni
dalla richiesta, i territori delle stesse in ambiti
omogenei, in dipendenza dell’intensità del corrispondente
processo urbanizzativo ed esprime i conseguenti criteri,
indirizzi e linee tecniche da applicarsi negli strumenti di
governo del territorio per contenere il consumo di suolo.
3. In applicazione dei criteri, indirizzi e linee tecniche
di cui al comma 2, gli strumenti comunali di governo del
territorio prevedono consumo di suolo esclusivamente nei
casi in cui il documento di piano abbia dimostrato
l’insostenibilità tecnica ed economica di riqualificare e
rigenerare aree già edificate, prioritariamente mediante
l’utilizzo di edilizia esistente inutilizzata o il recupero
di aree dismesse nell’ambito del tessuto urbano consolidato
o su aree libere interstiziali. Sono comunque garantite le
misure compensative di riqualificazione urbana previste dal
piano dei servizi. In ogni caso, gli strumenti comunali di
governo del territorio non possono disporre nuove previsioni
comportanti ulteriore consumo del suolo sino a che non siano
state del tutto attuate le previsioni di espansione e
trasformazione vigenti alla data di entrata in vigore della
presente legge.
4. La Giunta regionale, con deliberazione da approvare entro
dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente
legge, sentita la competente commissione consiliare,
definisce i criteri di individuazione degli interventi
pubblici e di interesse pubblico o generale di rilevanza
sovracomunale per i quali non trovano applicazione le soglie
di riduzione del consumo di suolo di cui alla presente
legge”.
2.2.2. La disposizione della legge regionale suindicata che
risulta di maggiore pregnanza ai fini della definizione
della controversia è però quella contenuta all’art. 5
(recante “norma transitoria”) che prevede quanto di seguito:
“1. La Regione integra il PTR con le previsioni di cui
all’articolo 19, comma 2, lettera b-bis), della l.r.
12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera
p), della presente legge, entro dodici mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge.
2. Ciascuna provincia e la città metropolitana adeguano il
PTCP e gli specifici strumenti di pianificazione
territoriale alla soglia regionale di riduzione del consumo
di suolo, ai criteri, indirizzi e linee tecniche di cui
all’articolo 2 della presente legge e ai contenuti
dell’articolo 19 della l.r. 12/2005, entro dodici mesi
dall’adeguamento del PTR di cui al comma 1.
3. Successivamente all’integrazione del PTR e
all’adeguamento dei PTCP e degli strumenti di pianificazione
territoriale della città metropolitana, di cui ai commi 1 e
2, e in coerenza con i contenuti dei medesimi, i comuni
adeguano, in occasione della prima scadenza del documento di
piano, i PGT alle disposizioni della presente legge.
4. Fino all’adeguamento di cui al comma 3 e, comunque, fino
alla definizione nel PGT della soglia comunale del consumo
di suolo, di cui all’articolo 8, comma 2, lettera b-ter),
della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma
1, lettera h), della presente legge, i comuni possono
approvare unicamente varianti del PGT e piani attuativi in
variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo,
diretti alla riorganizzazione planivolumetrica, morfologica,
tipologica o progettuale delle previsioni di trasformazione
già vigenti, per la finalità di incentivarne e accelerarne
l’attuazione, esclusi gli ampliamenti di attività economiche
già esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione
degli accordi di programma a valenza regionale. Fino a detto
adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i
programmi edificatori del documento di piano vigente.
5. I comuni approvano, secondo quanto previsto dalla l.r.
12/2005 vigente prima dell’entrata in vigore della presente
legge, i PGT o le varianti di PGT già adottati alla data di
entrata in vigore della presente legge, rinviando
l’adeguamento di cui al comma 3 alla loro successiva
scadenza; tale procedura si applica anche ai comuni
sottoposti alla procedura di commissariamento di cui
all’articolo 25-bis della l.r. 12/2005. La validità dei
documenti comunali di piano, la cui scadenza intercorra
prima dell’adeguamento della pianificazione provinciale e
metropolitana di cui al comma 2, è prorogata di dodici mesi
successivi al citato adeguamento.
5-bis. Per i comuni di nuova istituzione il termine biennale
di cui all’articolo 25-quater, comma 1, della l.r. 12/2005,
nonché le discipline ad esso correlate di cui ai commi 2 e 3
del medesimo articolo sono differite fino a dodici mesi
successivi all’adeguamento della pianificazione provinciale
e metropolitana di cui al comma 2. Analogo differimento è
disposto per il comune di Gravedona ed Uniti.
6. La presentazione dell’istanza di cui all’articolo 14
della l.r. 12/2005 dei piani attuativi conformi o in
variante connessi alle previsioni di PGT vigenti alla data
di entrata in vigore della presente legge deve intervenire
entro trenta mesi da tale ultima data.
Per detti piani e per quelli la cui istanza di approvazione
sia già pendente alla data di entrata in vigore della
presente legge, i comuni provvedono alla istruttoria
tecnica, nonché alla adozione e approvazione definitiva in
conformità all’articolo 14 della l.r. 12/2005. La relativa
convenzione di cui all’articolo 46 della l.r. 12/2005 è
tassativamente stipulata entro dodici mesi dall’intervenuta
esecutività della delibera comunale di approvazione
definitiva.
7. In tutti i casi di inerzia o di ritardo comunale negli
adempimenti di cui al comma 6 l’interessato può chiedere
alla Regione la nomina di un commissario ad acta. Il
dirigente della competente struttura regionale, ricevuta
l’istanza, procede ai fini dell’intimazione al comune di
adempiere entro il termine di sette giorni dal ricevimento
dell’intimazione. Nel caso di ulteriore inerzia del comune,
comunque comprovata, la Giunta regionale nomina un
commissario ad acta nel termine dei sette giorni successivi
alla scadenza della diffida. Il commissario ad acta così
designato esaurisce tempestivamente gli adempimenti di
istruttoria tecnica, adozione, approvazione e
convenzionamento secondo necessità. A far tempo dalla nomina
del commissario ad acta, il comune non può più provvedere
sull’istanza.
8. Per i piani attuativi tempestivamente attivati ai sensi
del comma 6, il comune può prevedere che la relativa
convenzione di cui all’articolo 46 della l.r. 12/2005
consenta la dilazione di pagamento degli importi dovuti, ai
sensi del comma 1, lettera a), del predetto articolo e a
titolo di monetizzazione di cessioni di aree, fino ad un
massimo di sei rate semestrali, ciascuna di pari importo, da
corrispondersi a far tempo dal diciottesimo mese successivo
alla stipula della convenzione stessa.
9. Con riguardo ai piani attuativi, per i quali non sia
tempestivamente presentata l’istanza di cui al comma 6 o il
proponente non abbia adempiuto alla stipula della
convenzione nei termini ivi previsti, i comuni, con motivata
deliberazione di consiglio comunale, sospendono la
previsione di PGT sino all’esito del procedimento di
adeguamento di cui al comma 3 e, entro i successivi novanta
giorni, verificano la compatibilità delle previsioni sospese
con le prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT,
disponendone l’abrogazione in caso di incompatibilità
assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie
modifiche e integrazioni negli altri casi.
10. Fino all’adeguamento di cui al comma 3, viene prevista
una maggiorazione percentuale del contributo relativo al
costo di costruzione di cui all’articolo 16, comma 3, del
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n.
380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia (Testo A)) così
determinata:
a) entro un minimo del venti ed un massimo del trenta per
cento, determinata dai comuni, per gli interventi che
consumano suolo agricolo nello stato di fatto non ricompresi
nel tessuto urbano consolidato;
b) pari alla aliquota del cinque per cento, per gli
interventi che consumano suolo agricolo nello stato di fatto
all’interno del tessuto urbano consolidato;
c) gli importi di cui alle lettere a) e b) sono da destinare
obbligatoriamente alla realizzazione di misure compensative
di riqualificazione urbana e compensazione ambientale; tali
interventi possono essere realizzati anche dall’operatore,
in accordo con il comune.”.
2.2.3. Ad avviso del comune di Brescia appellante il Tar
avrebbe frainteso il combinato-disposto dei commi 3 e 4
della norma immediatamente prima citata, in quanto non si
sarebbe avveduto che la variante approvata dal Comune ed
avversata dagli originari ricorrenti andava proprio nella
direzione (rientrante pacificamente, come chiarito, tra le
finalità della legge regionale suddetta) di ridurre il
consumo di suolo.
2.2.4. Il Collegio non concorda con la tesi dell’appellante
amministrazione comunale per più considerazioni, sia fondate
sulla lettera della disposizione predetta, che di natura
teleologica, in quanto:
a) si è al cospetto di una disposizione transitoria, tesa a
regolare le problematiche scaturenti dalla sopravvenuta
approvazione della legge suddetta;
b) in questo quadro, è perfettamente logico che il
Legislatore regionale si sia preoccupato di disciplinare la
posizione dei titolari delle aree che secondo il PGT vigente
al momento della entrata in vigore della legge regionale,
erano ricompresi nei c.d. Ambiti di Trasformazione, nelle
more dell’adeguamento dei Piani di Governo del territorio
alle sopravvenute disposizioni di legge;
c) il combinato-disposto dei commi 3 e 4 della citata
disposizione regolamentano proprio il momento
dell’adeguamento;
d) la parte finale del comma 4, in questo quadro di insieme,
contiene una prescrizione perentoria, a tenore della quale
“fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le
previsioni e i programmi edificatori del documento di piano
vigente”;
e) tenuto conto della ratio sottesa alla necessità di
dettare una disposizione transitoria (all’evidenza, quella
di tutelare l’affidamento dei proprietari delle aree circa
le destinazioni “possibili” al momento della entrata in
vigore della legge regionale suddetta) e tenuto conto della
perentorietà della indicazione legislativa suindicata, non
pare al Collegio che la tesi del Tar presenti ragionevoli
alternative: la stessa, infatti, si fonda sul dato letterale
della norma suddetta di cui all’art. 5 della legge regionale
lombarda n. 31/2014 (neppure l’appellante amministrazione
comunale contesta tale dato) e ne coglie la ratio, tenuto
conto che trattasi di una disposizione di natura
transitoria, volta a regolare le situazioni pregresse alla
entrata in vigore della legge medesima, e con quest’ultima
in potenza configgenti;
f) parimenti, l’art. 2, comma 1, lett. c) della suddetta
legge, detta una nozione di consumo del suolo “statica”
(“consumo di suolo: la trasformazione, per la prima volta,
di una superficie agricola da parte di uno strumento di
governo del territorio, non connessa con l’attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi
urbani territoriali e inclusa la realizzazione di
infrastrutture sovra comunali; il consumo di suolo è
calcolato come rapporto percentuale tra le superfici dei
nuovi ambiti di trasformazione che determinano riduzione
delle superfici agricole del vigente strumento urbanistico e
la superficie urbanizzata e urbanizzabile”) ed ancorata
rigidamente alla zonizzazione impressa alle aree: anche
sotto tale profilo (rafforzativo del decisum del Tar) non
sembra al Collegio che siano praticabili differenti opzioni
ermeneutiche.
2.2.5. Nell’ottica del doveroso preliminare esame di
rilevanza della prospettata questione di legittimità
costituzionale, sembra al Collegio,quindi, che l’approdo
interpretativo del Tar non sia scalfito dalle critiche
dell’appellante.
3. Come rilevato nella parte in fatto della presente
decisione, l’appellante amministrazione comunale ha
prospettato in via subordinata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5 della legge regionale della
Lombardia 28.11.2014, n. 31 con riferimento ai
parametri di cui agli artt. 5, 114, 118, 117 comma 2 lett.
p) e 117 comma 3 della Costituzione. La tesi di fondo
sottesa alla questione prospettata si incentra su due
profili, in quanto:
a) per un verso si sottolinea che la disposizione in parola
(ove interpretata nel senso affermato dal Tar e, come
prima chiarito, condiviso dal Collegio) conculcherebbe i
principi in tema di sussidiarietà e di esercizio delle
funzioni amministrative affidate al comune;
b) per altro verso, si sostiene che la norma medesima
collida con i principi generali dettati dalla legge
regionale urbanistica n. 12/2005.
3.1. Lo scrutinio della complessa questione prospettata
postula un breve approfondimento in tema di rilevanza della
questione nel presente giudizio; detto approfondimento dovrà
altresì farsi carico di verificare la persistenza della
eventuale accertata rilevanza della questione, tenuto conto
della circostanza che il legislatore regionale lombardo è di
recente intervenuto con la legge regionale 26.05.2017,
n. 16 apportando numerose modifiche all’impianto originario
della predetta legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 .
3.1.1. Cercando di non ripetere considerazioni già
rassegnate, si osserva innanzitutto –fermandosi al testo
originario della legge in ultimo citata- che:
a) è già stato chiarito che il Collegio condivide e fa
proprio il principio giurisprudenziale (tra le tante Corte
Conti reg., -Sicilia- sez. giurisd., 04/07/2005, n. 149,
Cassazione civile, sez. I, 28/11/2003, n. 18200, Consiglio
di Stato, sez. V, 30/10/1997, n. 1207), reso sulla falsariga
dei fondamentali insegnamenti della Corte Costituzionale,
secondo cui fra più interpretazioni possibili delle norme
giuridiche positive, l'interprete deve privilegiare solo
quella più conforme alla Costituzione;
b) a completamento di quanto evidenziato nel precedente capo
del presente provvedimento, preme porre in luce che anche lo
sforzo interpretativo in tal senso del Collegio non ha
consentito di individuare una interpretazione della
disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale della
Lombardia 28.11.2014, n. 31 che consenta di
disinnescare i dubbi prospettati dall’appellante comune;
c) invero, la “lettura” prospettata dall’appellante
amministrazione comunale, pretenderebbe che la citata
disposizione venga interpretata nel senso che:
I) essa (in armonia con la finalità perseguita dalla legge
regionale) conformi la potestà pianificatoria del comune in
un unico senso: quello di vietare –quanto meno in attesa
dell’adeguamento contemplato dalla legge regionale– la
creazione di nuovi Ambiti suscettibili di consumare suolo
agricolo;
II) di converso, la disposizione medesima, non potrebbe
essere intesa nel senso che sarebbe interdetta al comune la
potestà di pianificare il proprio territorio (se non
appunto, al limitato fine di impedire un ulteriore consumo
del suolo agricolo); da ciò discenderebbe (armonicamente con
la previsione di cui all’art. 2, comma 3, della legge
regionale lombarda n. 31/2014 medesima) che ai Comuni sarebbe
(unicamente) inibito prevedere nuove espansioni edificatorie
(fatte salve le specifiche eccezioni contemplate dall’art.
5, comma 4 della legge) ma non sarebbe invece vietato
limitare le previsioni edificatorie contenute nel PGT
vigente e, pertanto, gli atti impugnati non potrebbero
essere tacciati di illegittimità;
III) osserva però in contrario senso il Collegio, che è
proprio l’ultima parte dell’art. 5, comma 4, della legge
(“Fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le
previsioni e i programmi edificatori del documento di piano
vigente”) che si lega indissolubilmente al PGT, non a caso
espressamente menzionato nella prima parte del predetto
comma 4; ed osserva altresì che – anche a volere obliare il
dato letterale, e quello sistematico (trattasi, si ripete di
una norma transitoria) - la interpretazione alternativa del
comune priverebbe il predetto comma 4 dell’art. 5 di alcun
senso compiuto: infatti, laddove si consideri che il divieto
dell’adozione di atti amministrativi comportanti incremento
di suolo è già espressamente contenuto nell’art. 2, comma 3,
della legge, non si comprende a quale fattispecie dovrebbe
applicarsi l’ultima parte del comma 4 dell’art. 5 suddetto;
IV) tanto è sufficiente, ad avviso del Collegio, per
ribadire che l’approdo interpretativo del Tar appare ad
un esame preliminare condivisibile, fermo restando che in
questa fase il thema decidendum è delibato ai soli fini del
giudizio di non manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale, con riserva di ogni definitiva
valutazione all’esito dell’incidente di costituzionalità.
3.1.2. Sotto il profilo della originaria rilevanza nel
presente giudizio della questione di legittimità
costituzionale prospettata, invece, pare al Collegio non sia
necessario diffondersi oltremisura per chiarire il rilievo
della questione prospettata.
3.1.3. La parte originaria ricorrente, infatti, aspira ad
attuare un progetto di piano attuativo riferito all’unità di
intervento P2, conservando i diritti edificatori; tale
ambizione sarebbe frustrata dalla variante generale al PGT
(seconda variante) che ha, tra l’altro, eliminato dal
documento di piano la previsione dell’ambito di
trasformazione P, compresa la parte relativa all’unità di
intervento P2; la legittimità di tale variante è stata
esclusa, proprio in quanto contrastante con l’ultima parte
del comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31: ma laddove la predetta prescrizione
venisse vulnerata da una dichiarazione di
incostituzionalità, verrebbe meno il limite alla potestà pianificatoria del comune ivi contenuto; tale limite
resterebbe ristretto al divieto (del tutto compatibile con
lo scopo della legge regionale suddetta) di prevedere nuove
fattispecie comportanti consumo di suolo; ed in definitiva
la variante generale raggiungerebbe lo scopo di interdire
l’edificazione in detto ambito di trasformazione P, e ne
discenderebbe la reiezione del ricorso di primo grado.
3.1.4. Per completezza di esposizione, si rappresenta infine
che non vi sono profili alternativi (preesistenti ovvero
anche sopravvenuti) da esplorare –nell’ambito del presente
giudizio– che possano condurre ad un giudizio di
superfluità e non rilevanza della questione esaminata, non
emergendo dagli atti di causa elementi ulteriori
dimostrativi della impossibilità in capo alla parte
originaria ricorrente di realizzare l’intervento in parola.
Si evidenzia infatti che l’unico profilo dedotto in primo
grado di illegittimità della variante generale al PGT
adottata con la deliberazione consiliare n. 128 del 28.07.2015 ed approvata in via definitiva con la
deliberazione consiliare n. 17 del 09.02.2016, riposava
nel contrasto della medesima con la prescrizione secondo cui
fino all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo
l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la
normativa regionale manteneva provvisoriamente efficaci le
previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (art.
5, comma 4, della legge suddetta); che le obiezione delle
parti originari ricorrenti ed appellanti incidentali
attengono a profili di fondatezza della dedotta questione
(che saranno meglio approfonditi di seguito) ma non
scalfiscono il giudizio sulla rilevanza della problematica
dedotta.
3.2. Accertato -nei termini sinora esposti- il rilievo che
la dedotta questione assumeva nell’ambito della presente
controversia al momento della proposizione del ricorso di
primo grado (e dell’appello principale), occorre adesso
verificare se la rilevanza della questione persista, alla
luce della sopravvenuta legge regionale 26.05.2017, n.
16 che ha apportato numerose modifiche al testo originario
della legge regionale n. 31 del 2014.
3.2.1. Osserva sul punto il Collegio, che:
a) sia il comune di Brescia che la parte originaria
ricorrente ed appellante incidentale concordano sulla
circostanza che la sopravvenuta modifica legislativa non
spieghi effetti sulla controversia;
b) il Collegio ritiene che tale prospettazione sia
condivisibile, in quanto:
I) per condivisa giurisprudenza (si veda ancora di recente
Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.06.2016, n. 2892) dalla
quale non ravvisano ragioni per discostarsi “la legittimità
di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo
stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua
emanazione, secondo il principio del tempus regit actum.
Sicché non si può validare ex post un'azione amministrativa
che al momento in cui fu adottata si appalesava illegittima,
se non e solo con le regole e nei limiti della autotutela”;
II) la legittimità della variante va quindi vagliata alla
stregua del testo di legge vigente al momento in cui la
stessa venne emanata;
III) soltanto laddove la eventuale legge sopravvenuta avesse
portata retroattiva, la applicabilità del superiore
principio potrebbe subire deroghe (e ciò, nei limiti in cui
è consentito al Legislatore di intervenire sulle
controversie in corso, secondo l’avveduta costante
interpretazione che la Corte Costituzionale ha fornito in
punto di ammissibilità delle c.d. leggi-provvedimento).
3.2.2. Nel caso di specie, si osserva che la sopravvenuta la
legge regionale della Lombardia 26.05.2017, n. 16:
a) non contiene alcuna prescrizione che ne sancisca
espressamente la retroattività, né alcuna clausola che la
definisca qual legge di natura “interpretativa”;
b) contiene prescrizioni di natura innovativa e, quindi, se
anche (pur in carenza di espressa indicazione in tal senso)
se ne volesse ipotizzare la natura interpretativa, tale
sforzo ermeneutico non potrebbe essere coronato da successo;
c) la legge suddetta ha infatti modificato l’art. 5 della
legge regionale n. 31 del 2014 interpolando (per quel che in
questa sede più immediatamente rileva) i commi 4 e 9, nei
seguenti termini:
I) (comma 4) “Fino all’adeguamento di cui al comma 3 e,
comunque, fino alla definizione nel PGT della soglia
comunale del consumo di suolo, di cui all’articolo 8, comma
2, lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto
dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge,
i comuni possono approvare varianti generali o parziali del
documento di piano e piani attuativi in variante al
documento di piano, assicurando un bilancio ecologico del
suolo non superiore a zero, computato ai sensi dell’articolo
2, comma 1, e riferito alle previsioni del PGT vigente alla
data di entrata in vigore della presente legge. La relazione
del documento di piano, di cui all’articolo 8, comma 2,
lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto
dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge,
illustra le soluzioni prospettate, nonché la loro idoneità a
conseguire la massima compatibilità tra i processi di
urbanizzazione in atto e l’esigenza di ridurre il consumo di
suolo e salvaguardare lo sviluppo delle attività agricole,
anche attraverso puntuali comparazioni circa la qualità
ambientale, paesaggistica e agricola dei suoli interessati.
I comuni possono approvare, altresì, le varianti finalizzate
all’attuazione degli accordi di programma a valenza
regionale, all’ampliamento di attività economiche già
esistenti nonché le varianti di cui all’articolo 97 della
l.r. 12/2005. Il consumo di suolo generato dalle varianti di
cui al precedente periodo concorre al rispetto della soglia
regionale e provinciale di riduzione del consumo di suolo. A
seguito dell’integrazione del PTR di cui al comma 1, le
varianti di cui al presente comma devono risultare coerenti
con i criteri e gli indirizzi individuati dal PTR per
contenere il consumo di suolo; i comuni possono altresì
procedere ad adeguare complessivamente il PGT ai contenuti
dell’integrazione del PTR, configurandosi come adeguamento
di cui al comma 3. Le province e la Città metropolitana di
Milano verificano, in sede di parere di compatibilità di cui
all’articolo 13, comma 5, della l.r. 12/2005, anche il
corretto recepimento dei criteri e degli indirizzi del PTR.
Entro un anno dall’integrazione del PTR di cui al comma 1, i
comuni sono tenuti a trasmettere alla Regione informazioni
relative al consumo di suolo nei PGT, secondo contenuti e
modalità indicati con deliberazione della Giunta regionale”;
II) (comma 9) ”con riguardo ai piani attuativi relativi
alle aree disciplinate dal documento di piano, per i quali
non sia tempestivamente presentata l’istanza di cui al comma
6, i comuni nell’ambito della loro potestà pianificatoria
possono mantenere la possibilità di attivazione dei piani
attuativi, mantenendo la relativa previsione del documento
di piano o, nel caso in cui intendano promuovere varianti al
documento di piano, disporne le opportune modifiche e
integrazioni con la variante da assumere ai sensi della l.r.
12/2005”;
d) ad avviso del Collegio, non è neppure utile, in questa
sede, controvertere sulla portata ed il significato da
attribuire alla novella di cui alla legge regionale della
Lombardia 26.05.2017, n. 16, in quanto:
I) se anche si volesse ritenere che la stessa abbia ampliato
le potestà spettanti ai comuni (è questa, ad avviso del
Collegio, la portata effettuale della novella) l’appellante
comune di Brescia non potrebbe giovarsene nella presente
controversia;
II) ciò perché, laddove questo Collegio confermasse la
statuizione demolitoria del Tar, la parte originaria
ricorrente potrebbe agire in ottemperanza, ed il Comune non
potrebbe determinare l’assetto urbanistico dell’area
giovandosi delle sopravvenute prescrizioni legislative
(ammesso pure che le stesse –il che è fortemente contestato
dalle parti appellanti incidentali, sulla scorta del
novellato comma 9 dell’art. 5 della legge regionale n. 31
del 2014- consentano di intervenire sui piani attuativi
comportanti consumo di suolo);
III) a questo punto, la eventuale declaratoria di
improcedibilità per carenza di interesse della questione di
legittimità costituzionale prospettata con riferimento al
primigenio testo della legge regionale n. 31 del 2014 si
risolverebbe (in riferimento alla presente controversia) in
un diniego di giustizia, in quanto l’appellante Comune di
Brescia sarebbe privato dell’unica possibilità di ottenere
un giudizio di piena legittimità della variante adottata:
appare evidente infatti che soltanto laddove il primigenio
testo dell’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014
venisse vulnerato da una declaratoria di incostituzionalità
verrebbe meno il giudizio di illegittimità della variante
adottata, quantomeno sulla scorta dei parametri di censura
prospettati nell’odierno giudizio;
e) il Collegio è quindi dell’avviso che la questione di
legittimità costituzionale prospettata con riferimento
all’originario testo della legge regionale n. 31 del 2014
conservi immutate attualità e rilevanza nel presente
giudizio, anche a seguito delle modifiche introdotte dal
Legislatore regionale con la legge regionale della Lombardia
26.05.2017, n. 16.
3.3. E proprio passando al merito della questione di
legittimità costituzionale prospettata, anticipa il Collegio
il proprio convincimento secondo cui la dedotta questione,
oltre che rilevante, appaia non manifestamente infondata,
almeno quanto al principale versante critico prospettato.
3.4. Al fine di sgombrare il campo da argomenti inaccoglibili,
si osserva immediatamente che:
a) l’argomento critico fondato sul supposto contrasto del
comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 con la legge generale urbanistica lombarda 11.03.2005, n.12 , da un canto, non potrebbe giammai
condurre alla declaratoria di illegittimità della norma in
parola, e dall’altra, sotto il profilo logico, appare
meramente rafforzativo dell’argomento (principale) posto a
sostegno del sospetto di incostituzionalità;
b) ciò in quanto, per un verso la legge generale urbanistica
lombarda 11.03.2005, n.12 non integra parametro di
rilevanza costituzionale, e per altro verso, il comma 4
dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014,
n. 31 non appare intersecare la prescrizione di cui all’art.
13 della citata legge 11.03.2005, n.12 , nella parte in
cui quest’ultima affida ai comuni il compito di adottare ed
approvare il PGT (all’evidenza, la disposizione di cui
all’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 non immuta
l’autorità competente ad approvare il documento di
pianificazione urbanistica del territorio comunale);
c) inoltre, non è neppure del tutto esatto sostenere che il
procedimento di approvazione del PGT veda del tutto esclusa
una forma di compartecipazione regionale (si vedano i commi
5-bis ed 8 del citato articolo);
d) semmai, si potrebbe sostenere che la suddetta legge
regionale urbanistica lombarda 11.03.2005, n.12 valorizza
in maniera penetrante il ruolo dei comuni: ma ciò al più
potrebbe costituire argomento di supporto del sospetto di
incostituzionalità avanzato principaliter ma non anche
autonomo profilo di contrasto;
e) del pari, non costituisce problematica rilevante, sotto
il profilo del dubbio di legittimità costituzionale
prospettato, il denunciato “contrasto” dell’art. 5 della
legge regionale suddetta con gli artt. 1 e 2 della legge
medesima, nella parte in cui assumono la riduzione del
consumo del suolo quale obiettivo principale della legge
medesima, in quanto:
I) nuovamente, non può ritenersi che venga in rilievo nel
caso di specie alcun parametro di rilevanza costituzionale;
II) l’argomento critico mira a mettere in dubbio la
complessiva ragionevolezza delle prescrizioni legislative
regionali suddette, ove “lette congiuntamente”, ed in ultima
analisi costituisce un tentativo –svolto sul piano
sistematico- di mettere in dubbio la correttezza
dell’approdo interpretativo del Tar;
III) in precedenza si sono già chiarite le ragioni di non
persuasività della superiore tesi: nell’ottica del dubbio di
legittimità costituzionale prospettato, può soltanto
aggiungersi che se anche rispondesse al vero che la lettera
della norma transitoria “depotenzi” l’obiettivo (riduzione
di suolo) che la legge regionale medesima si propone di
perseguire, ciò non appare elemento di irragionevolezza tale
da fare ipotizzare la possibile incostituzionalità
dell’articolo 5 della legge, ciò tanto più laddove si
consideri che ivi il Legislatore regionale ha tentato di
salvaguardare l’affidamento dei proprietari di aree incluse
in ambiti di trasformazione.
3.5. Quanto all’asserito contrasto del comma 4 dell’art. 5
della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 con il
principio di sussidiarietà (artt. 5, 114 e 118 della
Costituzione) e con quello di riserva alla legislazione
esclusiva statuale delle funzioni fondamentali del comune
(art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione) –tematiche, queste, che ad avviso del Collegio costituiscono
il nodo centrale della controversia– si osserva sotto un
profilo più generale, che:
a) secondo consolidata giurisprudenza costituzionale,
l'urbanistica e l'edilizia devono essere ricondotte alla
materia «governo del territorio», di cui all'art. 117, terzo
comma, Cost., materia di legislazione concorrente in cui lo
Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali,
spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di
dettaglio (da ultimo, Corte cost. ordinanza n. 314 del 2012;
sentenza n. 309 del 2011, vedi anche sentenze n. 362 e n.
303 del 2003).
Per altro verso, la Corte Costituzionale ha chiarito da
tempo risalente che il rispetto delle autonomie comunali
deve armonizzarsi con la verifica e la protezione di
concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione
più ampia delle esigenze diffuse nel territorio: ciò
giustifica l'eventuale emanazione di disposizioni
legislative (statali e regionali) che vengano ad incidere su
funzioni già assegnate agli enti locali (sent. n. 286/97).
Dunque non è precluso alle leggi nazionali ovvero anche
regionali di prevedere la limitazione di alcune competenze
comunali in considerazione di “concorrenti interessi
generali, collegati ad una valutazione più ampia delle
esigenze diffuse nel territorio” (Corte cost. n. 378/2000
cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la
maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale
degli interessi coinvolti” (Corte cost. n. 286/97).
E’
rimasto inoltre chiarito (sent. n. 478/02), in relazione ai
poteri urbanistici dei Comuni, come la legge nazionale e
regionale possa modificarne le caratteristiche o
l'estensione, ovvero subordinarli a preminenti interessi
pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli
radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione
dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano
l'autonomia (fra le molte, v. le sentenze n. 378/2000, n.
357/1998, n. 286/1997, n. 83/1997 e n. 61/1994). Assai rilevanti in
proposito, sono certamente le pronunce in merito alle leggi
regionali sul cd. “piano casa” (fra cui Corte cost. n.
46/2014, che giudica legittima l’imposizione regionale di
limitazioni alla potestà ed all’autonomia pianificatoria
comunale, ove collegate a specifici presupposti e
circoscritte entro confini ben determinati).
La
problematica, come è agevole riscontrare, ruota intorno ai
concetti di necessità ed adeguatezza (si veda anche Corte
Costituzionale, 24/07/2015, n. 189, laddove si evidenzia che
“Invero, questa Corte -ex plurimis, sentenze n. 278 del
2010, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003- ha ritenuto -fin
dalla citata sentenza n. 303 del 2003- che, nell'art. 118,
primo comma, Cost., vada rinvenuto un peculiare elemento di
flessibilità, il quale -nel prevedere che le funzioni
amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano
essere allocate ad un livello di governo diverso per
assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principî di
sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza- introduce
un meccanismo dinamico incidente anche sulla stessa
distribuzione delle competenze legislative- diretto appunto
a superare l'equazione tra titolarità delle funzioni
legislative e titolarità delle funzioni amministrative”);
b) con particolare riferimento alla materia urbanistica
(rientrante, come prima sottolineato, nella materia della
legislazione concorrente, ex art. 117, comma 3, della
Costituzione) l’art. 2 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
stabilisce, ai primi quattro commi, quanto segue: “1. Le
regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in
materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali
della legislazione statale desumibili dalle disposizioni
contenute nel testo unico.
Le regioni a statuto speciale e le province autonome di
Trento e di Bolzano esercitano la propria potestà
legislativa esclusiva, nel rispetto e nei limiti degli
statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione.
Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo
unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti,
operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto
ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi
medesimi.
I comuni, nell'ambito della propria autonomia statutaria e
normativa di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, disciplinano l'attività edilizia.”;
c) in giurisprudenza non si ritiene dubitabile la necessità
di fare riferimento ad una nozione ampia e funzionalizzata
del concetto di “governo del territorio”: questo è
l’indirizzo a più riprese affermato dalla Sezione, ancora
assai di recente, e dal quale il Collegio non rinviene
ragioni per discostarsi (tra le tante: Consiglio di Stato,
sez. IV, 22.02.2017, n. 821, laddove di precisa che
“il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la
cui attribuzione e conformazione normativa è
costituzionalmente conferita ex art. 117 comma 3, Cost. alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle
Regioni ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur
nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di
pianificazione, al Comune, non è limitato alla
individuazione delle destinazioni delle zone del territorio
comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti
edificatori delle stesse; al contrario, tale potere di
pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad
un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina
coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai
tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo
definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo
delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della
comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico
rapporto con analoghi interessi di altre comunità
territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di
rispetto e di positiva attuazione di valori
costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive
dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano
attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della
"disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo
nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche
nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della
Repubblica");
d) in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo esercizio
del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul
piano giuridico, solo come un coordinamento delle
potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà,
così offrendone una visione affatto minimale, ma devono
essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali
sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo
complessivo ed armonico del medesimo: la nozione ampia di
“governo del territorio”, comportando la potestà legislativa
concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà
amministrativa dei comuni in subiecta materia;
e) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’Ente
comune è tradizionalmente affidata la funzione
amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla
nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma
3, della Costituzione) che esso esercita, di regola
attraverso una duplice direttrice (tra le tante Cons. Stato,
Sez. VI, 30.06.2011, n. 3888: “in tema di disposizioni
dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti
urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano
regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento
generale individuato dalla normativa statale e regionale,
occorre differenziare tra le prescrizioni che in via
immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della
porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le
norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a
soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di
opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre
regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio
dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme
tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio
e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze;
la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati
usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali
ecc.”).
3.6. Ciò posto, ad avviso del Collegio, non è manifestamente
infondato il dubbio di costituzionalità investente la
disposizione contenuta nell’art. 5, comma 4, della legge
regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 in
relazione all’evocato parametro di cui all’art. 117, comma
2, lett. p), della Costituzione in quanto:
a) la riserva esclusiva alla legislazione statuale delle
“funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane” implica una conseguenza: quella che debba
essere lo Stato –e soltanto quest’ultimo- a stabilire con
propri atti normativi primari quali siano le funzioni
affidate agli Enti locali;
b) la prescrizione normativa regionale avversata potrebbe
ritenersi collidente con tale disposizione della
Costituzione in quanto, pur essendo la funzione
amministrativa in materia urbanistica affidata in termini
generali ai comuni della Lombardia, tuttavia viene
direttamente compiuta dal legislatore regionale anziché
dalle amministrazioni comunali una scelta di particolare
rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo
temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti
amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza
dai comuni medesimi (tra cui quello di Brescia, originario
ricorrente);
c) in tal modo si è voluto escludere che il comune eserciti
per questo profilo la funzione amministrativa urbanistica ad
esso spettante, della quale si è conformato (in negativo,
come meglio si vedrà di seguito) il quomodo di esercizio.
3.7. Ad analoghe conclusioni, perviene il Collegio, con
riferimento all’evocato parametro della violazione del
principio di sussidiarietà.
3.7.1. Il blocco temporale alle iniziative pianificatorie
delle amministrazioni comunali, implica che –seppur per un
periodo di tempo contenuto, ma variabile in quanto incerto
nella sua ampiezza- siano immodificabili “le previsioni e i
programmi edificatori del documento di piano vigente”.
3.7.2. Con tale generale previsione, a contrario, si
inibisce del tutto all’ente locale di esercitare la potestà
di adottare modifiche al proprio Documento di Piano vigente
(quest’ultimo costituente la parte più rilevante e
qualificante del PGT, come è noto) ed in concreto se ne
determina il contenuto, “congelandolo” alla data di
emanazione della legge regionale suddetta.
3.7.3. Ora, è ben noto che, la scelta del Legislatore di
attribuire talune competenze al Comune risponde, di regola,
all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del
territorio, corrispondente agli effettivi bisogni della
collettività locale, essendo il Comune l'ente appartenente
ad un livello di governo più prossimo ai cittadini, in piena
coerenza con il principio costituzionale della sussidiarietà
verticale (si veda, tra le tante Consiglio di Stato, sez.
III, 02/05/2016, n. 1658 in materia di localizzazione delle
sedi farmaceutiche): e si ritiene di avere prima dimostrato
che per tradizione al comune sono stati attribuiti i compiti
di pianificazione urbanistica,
In un contesto ordinamentale in cui il principio di
sussidiarietà, da un lato, e la spettanza al Comune di tutte
le funzioni amministrative che riguardano il territorio
comunale, dall'altro, orientano i vari livelli di
pianificazione urbanistica secondo il criterio della
competenza, il ruolo del Comune non può infatti essere
confinato nell'ambito della mera attuazione di scelte
precostituite in sede sovraordinata; il Comune, di regola,
non può disattendere le prescrizioni di coordinamento
dettate dagli enti (Regione o Provincia) titolari del
relativo potere, ma può, tuttavia, discrezionalmente
concretizzarne i contenuti.
Già in tempo risalente, la giurisprudenza amministrativa ha
cercato di trovare un punto di equilibrio che garantisse
l’ordinato dispiegarsi delle competenze comunali al contempo
garantendo che gli Enti sovraordinati esercitassero le
funzioni di coordinamento a queste rimesse: è stato pertanto
affermato che (si veda Consiglio di Stato, sez. II,
05/02/2003, n. 2691) “non è consentito all'ente titolare
del potere di approvazione del piano regolatore, al di fuori
delle ipotesi connotate dalla prevalenza di tutela di
interessi superiori, modificare in modo sostanziale i
contenuti della disciplina urbanistica, frutto della scelta
della comunità di riferimento e, per questo, espressione
della riserva di attribuzione democratica assistita dal
principio di sussidiarietà.”
3.7.4. Discendono da quanto si è prima esposto, una serie di
principi –costantemente predicati dalla giurisprudenza
amministrativa- mercé i quali, (sia pure tenendo conto delle
differenti specificità delle legislazioni regionali)
si è
salvaguardato il tendenziale principio della spettanza ai
comuni della funzione di pianificazione urbanistica,
essendosi rilevato che:
I) se la Regione, in sede di approvazione della delibera
comunale di adozione del piano vi apporti delle modifiche,
v’è l’obbligo di procedere ad una nuova pubblicazione per
consentire ai privati di proporre le osservazioni nel caso
di variazioni c.d. facoltative e innovative, ovvero che
mutino le caratteristiche essenziali ed i criteri di
impostazione del piano (tra le tante, TAR Lecce,
-Puglia-, sez. I, 12.10.2005, n. 4490);
II) l'autorità comunale, in luogo di rispondere alle
considerazioni tecniche ed ai chiarimenti richiesti in sede
di approvazione dalla regione, ha facoltà di ripropone allo
stesso organo un piano regolatore nuovo, purché rispetti gli
adempimenti formali richiesti per l'adozione di un nuovo
strumento urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.05.1989, n. 347);
III) i limiti del potere regionale di approvazione risiedono
nella evidenza per cui una scelta di pianificazione di segno
diametralmente opposto a quella voluta dal Comune in sede di
variazione dello strumento urbanistico generale non può che
competere all'Ente locale, prevedendo la legge invece, in
capo alla Regione, potestà più ridotte, mera espressione del
potere regionale di partecipazione alla formazione dell'atto
a complessità diseguale di pianificazione generale
(Consiglio di Stato, sez. IV, 20.05.2014, n. 2563);
IV) non è consentito all'ente titolare del potere di
approvazione del piano regolatore, al di fuori delle ipotesi
connotate dalla prevalenza di tutela di interessi superiori,
modificare in modo sostanziale i contenuti della disciplina
urbanistica, frutto della scelta della comunità di
riferimento e, per questo, espressione della riserva di
attribuzione democratica assistita dal principio di
sussidiarietà (Consiglio di Stato, sez. II,
05.02.2003, n. 2691);
V) la risalente nozione del sistema pianificatorio
urbanistico come ordinato "a cascata" e cioè in forma
sostanzialmente gerarchica si pone in contrasto con il
principio costituzionale dell'autonomia degli enti
territoriali (art. 118 cost.) nonché con il criterio
generale di riparto delle competenze in materia urbanistica
delineato dalla normativa statale. In un contesto ordinamentale in cui il principio di sussidiarietà da un
lato e la spettanza al comune di tutte le funzioni
amministrative che riguardano il territorio comunale
dall'altro orientano i vari livelli di pianificazione
urbanistica secondo il criterio della competenza, il ruolo
del comune non può infatti essere confinato nell'ambito
della mera attuazione di scelte precostituite in sede
sovraordinata. Ciò comporta che il comune, se non può
disattendere le prescrizioni di coordinamento dettate dagli
enti (regione o provincia) titolari del relativo potere, può
però discrezionalmente concretizzarne i contenuti (Consiglio
di Stato, sez. IV, 01.10.2007, n. 5058).
3.8. Si sono voluti enucleare –senza alcuna pretesa di
completezza od esaustività- i principi sinora predicati
dalla giurisprudenza, per chiarire che la filosofia di fondo
di tale consolidato filone interpretativo è quella di
garantire il potere regionale di partecipazione alla
formazione dell'atto a complessità diseguale di
pianificazione generale, pur nella riaffermazione del
principio per cui la funzione di pianificazione urbanistica
resta saldamente rimessa alla responsabilità
dell’amministrazione comunale.
3.8.1. Sarebbe quindi illegittimo un atto amministrativo di
matrice regionale che si sostituisse alle determinazioni
comunali con riferimento a scelte discrezionali
3.8.2. E laddove, per avventura, ciò avvenisse con un atto
di matrice legislativa, la competenza del comune –
discendente dal principio di sussidiarietà verticale
contenuto nella Carta fondamentale- potrebbe essere “difesa”
rimettendo alla Corte Costituzionale il giudizio di
legittimità sulla legge medesima in relazione al parametro
che prevede ed eleva il principio di sussidiarietà,
rappresentato dal combinato-disposto degli articoli 5 e 118
della Carta Fondamentale.
3.8.3. Si osserva poi che, se tali principi devono trovare
attuazione con riferimento ad atti amministrativi (ovvero
legislativi) a contenuto positivo, analoga risposta deve
essere fornita, laddove l’atto di matrice regionale
incidente sulla potestà di pianificazione urbanistica
rimessa al comune si strutturi in un atto di natura
legislativa contenente una prescrizione “negativa” che, in
tesi, impedisca al comune medesimo di esercitare tali
prerogative.
3.8.4. Nel caso specie, pare al Collegio che ci si trovi in
presenza proprio di tale evenienza, e sotto due connessi e
speculari profili, in quanto:
I) il comma 1 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 impone alla Regione di integrare “il PTR con le previsioni di cui all’articolo 19, comma 2,
lettera b-bis), della l.r. n. 12/2005, come introdotto
dall’articolo 3, comma 1, lettera p), della presente legge,
entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge”;
II) la disposizione medesima nulla prevede nella ipotesi in
cui detto termine non sia rispettato;
IV) nelle more di tale integrazione il comma 4 del predetto
articolo 5 (nel testo primigenio) non soltanto conforma la
potestà urbanistica comunale (“i comuni possono approvare
unicamente varianti del PGT e piani attuativi in variante al
PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla
riorganizzazione planivolumetrica, morfologica, tipologica o
progettuale delle previsioni di trasformazione già vigenti,
per la finalità di incentivarne e accelerarne l’attuazione,
esclusi gli ampliamenti di attività economiche già
esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione degli
accordi di programma a valenza regionale”) in un’unica
direzione (il che però non costituisce prescrizione della
quale il comune di Brescia appellante principale si duole)
ma anche, inibisce al comune qualunque forma di
pianificazione “diversa” stabilendo che fino all’adeguamento
di cui al comma 3 della disposizione predetta (comunque
successivo alla integrazione del PTR da parte della Regione)
“sono comunque mantenute le previsioni e i programmi
edificatori del documento di piano vigente”;
V) è ben vero che (come acutamente sottolineato dalle parti
originarie ricorrenti alla pag. 4 della memoria depositata
il 13.9.2017) la legge regionale non interdice la
possibilità di approvare varianti al Piano delle Regole ed
al Piano dei Servizi del PGT, ma è vero altresì che la
prescrizione interdittiva contenuta nella legge riguarda
l’atto maggiormente rilevante e qualificante della
programmazione urbanistica comunale, rappresentato dal
documento di Piano.
3.8.5. Il Collegio ritiene quindi che non siano
manifestamente infondati i dubbi di legittimità
costituzionale della disposizione suddetta prospettati
dall’appellante comune, anche con riferimento al parametro
della sussidiarietà verticale di cui agli articoli 5, e 118
della Costituzione, sia nella parte in cui il Comune si
duole della indeterminatezza temporale della previsione (nel
senso che non è prevista alcuna decadenza del barrage
interdittivo, laddove la regione non rispetti il termine
temporale contenuto nella legge) sia laddove si sottolinea
la portata “espropriativa” di competenze proprie
(consistenti nella potestà di modificare il documento di
Piano del PGT) rappresentata dalla prescrizione interdittiva
di cui al comma 4 dell’art. 5 della legge.
3.8.6. Un’ultima annotazione è necessaria, Quanto al primo
profilo: il comma 1 della legge, in verità, prevede un
termine (di dodici mesi dall’entrata in vigore della legge)
entro il quale la regione debba “integrare il PTR con le
previsioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera b-bis),
della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma
1, lettera p), della legge regionale 28.11.2014, n. 31
medesima”.
E’ evidente che trattasi di un atto il cui contenuto è
rimesso alla latissima discrezionalità dell’Ente regionale,
e la cui adozione –a cascata- condiziona il successivo
adeguamento degli strumenti urbanistici rimesso ai comuni
lombardi dal comma 3 del citato articolo 5; ed è altrettanto
evidente che di fatto, fino all’adozione di tali atti, la
potestà urbanistica comunale resta condizionata
negativamente dalla prescrizione di cui all’ultima parte del
comma 4 del citato articolo.
Secondariamente, va ribadito che l’avviso del Collegio è
quello per cui il comma 4 dell’art. 5 della legge regionale
abbia introdotto un divieto al potere comunale di modifica
del Documento di Piano in senso riduttivo del consumo di
suolo quanto agli ambiti di trasformazione, e che tale
prescrizione renda non manifestamente infondato il dubbio di
legittimità costituzionale prospettato dal comune, in quanto
la funzione di pianificazione, ex art. 118 della
Costituzione, integra funzione amministrativa attribuita al
comune medesimo.
3.9. In ultimo, rileva il Collegio che il Tar al capo 20
della sentenza impugnata, pur senza farsi carico di
scrutinare la questione di legittimità costituzionale
prospettata, ha implicitamente identificato il possibile
fondamento logico della prescrizione interdittiva suddetta,
individuandolo nella “necessità di salvaguardare il potere
della Regione di uniformare la disciplina del consumo di
suolo sull’intero territorio regionale, evitando che i
proprietari siano esposti, lungo le linee di confine
comunali, a vincoli eccessivamente differenziati”.
3.9.1. Evidenzia il Collegio che, da un canto, in nessun
passaggio della legge regionale è dato intuire che simile
preoccupazione sia stata alla base della citata prescrizione
interdittiva, e per altro verso, appare altresì dubbio che
essa possa integrare quella ragione giustificativa della
necessità di un “esercizio unitario” della funzione
amministrativa pianificatoria che giustifichi la sottrazione
per un tempo non contenuto di detta funzione all’ente
comunale che la detiene in forza di risalente, tradizionale,
impostazione legislativa a più riprese ribadita e
confermata.
10. Alla luce della superiore esposizione, infine, appare
doveroso chiarire brevemente ciò che si era soltanto
enunciato nel primo considerando della presente decisione:
la questione di legittimità costituzionale che ci si accinge
a sollevare si pone a monte delle ulteriori contrapposte
censure con le quali entrambe le parti hanno criticati i
successivi capi della sentenza che si sono fatti carico di
definire la latitudine della successiva attività
pianificatoria rimessa al comune conseguente alla
statuizione annullatoria contenuta nella sentenza medesima:
è evidente, infatti, che soltanto in ipotesi di reiezione
della questione di incostituzionalità prospettata detti
contrapposti motivi di doglianza potrebbero essere utilmente
scrutinabili.
11. Conclusivamente, il Collegio, ritiene
che il presente giudizio debba essere sospeso e gli atti
vadano trasmessi alla Corte Costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione
Quarta):
a) definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in
epigrafe, respinge le censure contenute nell’appello
principale volte ad ottenere la riforma della impugnata
decisione per violazione dell’art. 112 c.p.c.;
b) non definitivamente pronunciando sul ricorso in appello
in epigrafe, visti gli artt. 134 Cost., l’art. 1 della l.
cost. 09.02.1948, n. 1, l’art 23 della l. 11.03.1953, n. 87:
I) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4
e 9, della legge regionale 28.11.2014, n. 31, con
riferimento agli articoli 5, 117, comma 2, lett. p) e 118
della Costituzione;
II) dispone la sospensione del presente giudizio e ordina la
immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
III) ordina che a cura della Segreteria di questa Quarta
Sezione del Consiglio di Stato la presente ordinanza sia
notificata alle parti in causa ed al Presidente del
Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
IV) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore
statuizione in rito, nel merito ed in ordine alle spese
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.12.2017 n. 5711 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’appello
cautelare prospetta delicate problematiche (tra le
quali anche il sospetto di incostituzionalià della
disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale
della Lombardia 28.11.2014 n. 31) da vagliare
compiutamente con sollecitudine nella competente
sede di merito.
Rilevato peraltro che nelle more della delibazione
di merito appare doveroso non adottare statuizioni
dalle quali possano discendere effetti irreversibili
e che appare in tal senso preponderante l’interesse
prospettato dall’amministrazione comunale
appellante, si sospende l'esecutività della sentenza
impugnata.
---------------
... per per la riforma della
sentenza 17.01.2017 n. 47
del TAR per la LOMBARDIA – Sezione Staccata di
Brescia- SEZ. I.
...
- rilevato che l’appello cautelare prospetta delicate problematiche
(tra le quali anche il sospetto di incostituzionalià
della disposizione di cui all’art. 5 della legge
regionale della Lombardia 28.11.2014 n. 31) da
vagliare compiutamente con sollecitudine nella
competente sede di merito;
- rilevato peraltro che nelle more della delibazione di merito
appare doveroso non adottare statuizioni dalle quali
possano discendere effetti irreversibili e che
appare in tal senso preponderante l’interesse
prospettato dall’amministrazione comunale
appellante;
- rilevato che può sin d’ora fissarsi la trattazione del merito
alla pubblica udienza del 05.10.2017.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
(Sezione Quarta),
Accoglie l'istanza cautelare (Ricorso numero:
1911/2017) e, per l'effetto, sospende l'esecutività
della sentenza impugnata.
Fissa la trattazione del merito alla pubblica
udienza del 5 ottobre 2017
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 21.04.2017 n. 1696 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Fino
all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo
l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la
normativa regionale mantiene provvisoriamente efficaci le
previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (v.
art. 5, comma 4, della LR 31/2014). Nel periodo transitorio,
pertanto, possono essere approvati e portati a esecuzione i
piani attuativi già previsti. Questa facoltà è però
subordinata (v. art. 5, comma 6, della LR 31/2014) alla
presentazione del progetto di piano attuativo ai sensi
dell’art. 14 della LR 11.03.2005 n. 12, anche in variante
al PGT purché in connessione con le previsioni dello stesso,
nel termine di trenta mesi dall’entrata in vigore della LR
31/2014.
Qualora non sia stato tempestivamente presentato il
progetto di piano attuativo, i comuni, con motivata
deliberazione del consiglio comunale, sospendono la
previsione del PGT sino all'esito della procedura di
adeguamento alle direttive regionali e alle indicazioni
provinciali, e, entro i successivi novanta giorni,
verificano la compatibilità delle previsioni sospese con le
prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT,
disponendone l'abrogazione in caso di incompatibilità
assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie
modifiche e integrazioni negli altri casi (v. art. 5, comma 9,
della LR 31/2014).
In questo quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio,
una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile
programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è
possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per
la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di
aree libere.
Questo secondo limite, che rileva nel caso in esame,
si fonda su tre presupposti:
(a) è necessario salvaguardare il potere della Regione di
uniformare la disciplina del consumo di suolo sull’intero
territorio regionale, evitando che i proprietari siano
esposti, lungo le linee di confine comunali, a vincoli
eccessivamente differenziati;
(b) il consumo di suolo, come si è visto sopra, non è un concetto
naturalistico ma giuridico, ed è misurato prendendo come
riferimento la disciplina urbanistica vigente, con la
conseguenza che i piani attuativi già previsti non possono
essere considerati un ostacolo sulla via del raggiungimento
delle finalità della LR 31/2014;
(c) se la legge regionale impone di motivare persino la sospensione
dei piani attuativi nel caso di mancata presentazione dei
relativi progetti, una tutela ancora maggiore deve
evidentemente spettare ai proprietari che si siano
tempestivamente attivati manifestando il proprio interesse.
Questo non significa che la pianificazione comunale sia
bloccata per un tempo indefinito e non possa perseguire
finalità di contenimento delle edificazioni, modificando le
proprie scelte precedenti. Il nuovo orientamento più
restrittivo deve però essere attuato in modo incrementale,
rivedendo ogni singolo progetto di piano attuativo, ed
esponendo per ciascuno le ragioni che inducono a ritenere
non più conforme all’interesse pubblico l’equilibrio
perequativo fatto proprio dal PGT.
---------------
... per l'annullamento della deliberazione consiliare n. 128
del 28.07.2015, con la quale è stata adottata una
variante generale al PGT (seconda variante);
...
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sullo ius variandi nel periodo transitorio
14. La disciplina introdotta dalla LR 31/2014 ha la finalità
di indirizzare la pianificazione urbanistica, a tutti i
livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di suolo.
La definizione normativa di consumo di suolo introdotta
dall’art. 2, comma 1-c, della LR 31/2014 (“trasformazione, per
la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno
strumento di governo del territorio, non connessa con
l'attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di
parchi urbani territoriali”) ha carattere formale, ossia
prende in considerazione il territorio non sulla base dello
stato dei luoghi ma per la qualifica che ne è stata data
dalla zonizzazione.
15. La stessa indicazione si ricava dalla seconda parte
della suddetta norma, che regola il calcolo del consumo di
suolo (“rapporto percentuale tra le superfici dei nuovi
ambiti di trasformazione che determinano riduzione delle
superfici agricole del vigente strumento urbanistico e la
superficie urbanizzata e urbanizzabile”). Poiché alle aree
urbanizzate sono assimilate le aree urbanizzabili (ossia
quelle che, seppure di fatto ancora libere, sono idonee,
secondo la disciplina urbanistica, a ospitare diritti
edificatori), la cancellazione dei piani attuativi previsti
dal PGT non costituisce propriamente applicazione della LR
31/2014, ma rappresenta piuttosto un ripensamento delle
originarie scelte pianificatorie.
16. La riduzione del consumo di suolo ai sensi della LR
31/2014 è un’operazione complessa, che richiede
l’adeguamento di tutti i livelli della pianificazione. In
attesa delle direttive regionali e delle indicazioni
provinciali, i comuni possono approvare unicamente varianti
al PGT, e piani attuativi in variante al PGT, che non
comportino nuovo consumo di suolo, secondo la definizione
data dal legislatore regionale, nonché varianti finalizzate
all'attuazione degli accordi di programma a valenza
regionale (v. art. 5, comma 4, della LR 31/2014).
17. Fino all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo
l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la
normativa regionale mantiene provvisoriamente efficaci le
previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (v.
art. 5, comma 4, della LR 31/2014). Nel periodo transitorio,
pertanto, possono essere approvati e portati a esecuzione i
piani attuativi già previsti. Questa facoltà è però
subordinata (v. art. 5, comma 6, della LR 31/2014) alla
presentazione del progetto di piano attuativo ai sensi
dell’art. 14 della LR 11.03.2005 n. 12, anche in variante
al PGT purché in connessione con le previsioni dello stesso,
nel termine di trenta mesi dall’entrata in vigore della LR
31/2014.
18. Qualora non sia stato tempestivamente presentato il
progetto di piano attuativo, i comuni, con motivata
deliberazione del consiglio comunale, sospendono la
previsione del PGT sino all'esito della procedura di
adeguamento alle direttive regionali e alle indicazioni
provinciali, e, entro i successivi novanta giorni,
verificano la compatibilità delle previsioni sospese con le
prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT,
disponendone l'abrogazione in caso di incompatibilità
assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie
modifiche e integrazioni negli altri casi (v. art. 5, comma 9,
della LR 31/2014).
19. In questo quadro, è evidente che la potestà
pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio,
una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile
programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è
possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per
la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di
aree libere.
20. Questo secondo limite, che rileva nel caso in esame, si
fonda su tre presupposti:
(a) è necessario salvaguardare il
potere della Regione di uniformare la disciplina del consumo
di suolo sull’intero territorio regionale, evitando che i
proprietari siano esposti, lungo le linee di confine
comunali, a vincoli eccessivamente differenziati;
(b) il
consumo di suolo, come si è visto sopra, non è un concetto
naturalistico ma giuridico, ed è misurato prendendo come
riferimento la disciplina urbanistica vigente, con la
conseguenza che i piani attuativi già previsti non possono
essere considerati un ostacolo sulla via del raggiungimento
delle finalità della LR 31/2014;
(c) se la legge regionale
impone di motivare persino la sospensione dei piani
attuativi nel caso di mancata presentazione dei relativi
progetti, una tutela ancora maggiore deve evidentemente
spettare ai proprietari che si siano tempestivamente
attivati manifestando il proprio interesse.
21. Questo non significa che la pianificazione comunale sia
bloccata per un tempo indefinito e non possa perseguire
finalità di contenimento delle edificazioni, modificando le
proprie scelte precedenti. Il nuovo orientamento più
restrittivo deve però essere attuato in modo incrementale,
rivedendo ogni singolo progetto di piano attuativo, ed
esponendo per ciascuno le ragioni che inducono a ritenere
non più conforme all’interesse pubblico l’equilibrio
perequativo fatto proprio dal PGT.
Sul programma triennale degli interventi di trasformazione
urbanistica
22. Una volta accertato che i piani attuativi di cui sia
stato tempestivamente presentato il progetto sono esclusi
dall’obiettivo di risparmio di suolo agricolo codificato
nella LR 31/2014, non è però possibile attribuire ai
proprietari un bene della vita più consistente di quello a
cui potevano aspirare secondo la disciplina originaria. Nel
caso in esame, questo significa che rimane in vigore la
disciplina di cui all’art. 36 delle NTA del PGT previgente,
relativa al programma triennale degli interventi di
trasformazione urbanistica (ripresa e ampliata dall’art. 48
delle NTA della seconda variante generale).
23. Tale interpretazione è coerente con il principio di
certezza del diritto. I proprietari interessati, infatti,
sapevano fin dall’inizio che
(a) vi erano dieci anni a
disposizione per presentare i progetti dei piani attuativi,
e
(b) l’utilizzazione dei diritti edificatori sarebbe stata
subordinata alla posizione ottenuta nella graduatoria dei
progetti, con la possibilità di arresto procedimentale per i
piani attuativi con i punteggi più bassi. La circostanza che
sia stato fissato un termine di trenta mesi non fa venire
meno l’utilità di graduare gli interventi edilizi.
Al
contrario, proprio la compressione del termine di
presentazione esige un filtro per diluire gli interventi, e
consentire all’amministrazione una valutazione aggiornata
sulle esigenze edificatorie private e sulla dotazione di
attrezzature pubbliche (oltre che un esame dei costi di
gestione delle stesse). Il rischio che in questo modo alcuni
piani attuativi possano divenire inefficaci per decorrenza
del termine decennale non è sostanzialmente diverso ora
rispetto al momento di approvazione del PGT.
24. Quello che cambia, e deve in parte essere ricostruito in
via interpretativa, è il percorso di approvazione del
programma triennale degli interventi di trasformazione
urbanistica. Dopo l’entrata in vigore della LR 31/2014, il
suddetto programma diventa in definitiva una graduatoria dei
progetti tempestivamente presentati dai proprietari
interessati. Non è evidentemente necessario pubblicare un
invito alla presentazione dei progetti, avendo disposto in
questo senso direttamente la legge regionale, e non è
possibile specificare ulteriormente i criteri contenuti
nell’art. 36 delle NTA del PGT previgente, essendovi già dei
progetti presentati. Una volta scaduto il termine di
presentazione, l’amministrazione è quindi tenuta a formare
una graduatoria, e a stabilire con analitica motivazione il
numero dei piani attuativi immediatamente attivabili,
rinviando alla scadenza del triennio l’individuazione del
numero degli ulteriori piani attuativi attivabili tra quelli
presenti in graduatoria.
25. Le valutazioni urbanistiche e finanziarie che
l’amministrazione potrà esprimere, caratterizzate da elevata
discrezionalità tecnica, non possono essere anticipate
attraverso la presente sentenza, tenuto conto del disposto
dell’art. 34, comma 2 cpa. Tuttavia, poiché tra i criteri
fissati dall’art. 36 delle NTA del PGT previgente rientrano
anche la minimizzazione del consumo di suolo e la
minimizzazione delle perdite di produttività agricola, è
possibile, e necessario, precisare già in questa sede
giurisdizionale di cognizione che l’amministrazione non
potrà fare leva su tali previsioni per reintrodurre una
sostanziale cancellazione dei piani attuativi. Questi
criteri, come del resto tutti gli altri, stabiliscono delle
preferenze, non delle condizioni di ammissibilità. Pertanto,
nessun progetto potrà essere escluso semplicemente perché
riduce le aree agricole o le aree ancora libere, mentre
potranno essere preferiti (salvo bilanciamento con altri
criteri) quei piani attuativi che lasciano intatte maggiori
superfici, o dispongono meglio le edificazioni nelle aree
intercluse o ai bordi dell’abitato.
Sull’obbligo di motivazione
26. Come si è visto sopra, la legge regionale tutela
l’affidamento dei proprietari, imponendo all’amministrazione
un obbligo di motivazione qualificato nel momento in cui
sono incisi negativamente i diritti edificatori. Poiché è la
stessa legge regionale che sollecita i proprietari a
presentare i progetti dei piani attuativi, questi ultimi
devono essere tutti esaminati nel merito. Essendo prevista a
livello comunale la formazione di un programma triennale
degli interventi di trasformazione urbanistica, si deve
ritenere che l’obbligo di motivazione si concentri nella
procedura di formazione del suddetto programma.
27. Oltre che sui criteri stabiliti dall’art. 36 delle NTA
del PGT previgente, la motivazione deve soffermarsi, secondo
i principi generali della materia pianificatoria,
sull’attualità dell’interesse pubblico incorporato nei
singoli piani attuativi. In particolare, l’amministrazione
deve valutare
(a) se gli obblighi assunti dai privati
(normalmente, cessione di aree e realizzazione di opere di
urbanizzazione) consentano ancora di raggiungere un
obiettivo utile per la collettività;
(b) se la maggiore
utilità pubblica derivi dalla soluzione perequativa o da
quella espropriativa (la perequazione crea diritti
edificatori, ma consente di acquisire al patrimonio comunale
aree e opere senza oneri; l’espropriazione comporta
normalmente degli oneri finanziari, ma può essere limitata a
obiettivi molto puntuali, senza impegnare l’amministrazione
in ampie operazioni immobiliari);
(c) se i proprietari
abbiano delle aspettative fondate sulle vicende pregresse
della pianificazione.
28. A proposito di quest’ultimo punto, occorre sottolineare
che i diritti edificatori riconosciuti a titolo di
compensazione per la reiterazione di vincoli espropriativi
decaduti non possono essere cancellati per confusione nella
nuova disciplina urbanistica generale. Si tratta, infatti,
di posizioni giuridiche già acquisite dai proprietari che
hanno subito l’incertezza giuridica collegata all’attesa
delle decisioni dell’amministrazione sull’utilizzazione
delle superfici vincolate. L’amministrazione deve quindi
porsi il problema di salvaguardare questi diritti
edificatori. Possono variare il modo e la misura, ma non la
capacità riparatoria dell’indennizzo.
Sui vincoli espropriativi
29. Per quanto riguarda, infine, i percorsi ciclopedonali
collocati sulle aree dei ricorrenti, si osserva che la
compensazione per i vincoli espropriativi può certamente
consistere in nuovi diritti edificatori. Tuttavia, se questi
diritti non possono essere utilizzati su un’area nella
disponibilità del proprietario che subisce l’espropriazione,
sorge il problema di quale sia il valore della
compensazione.
30. In particolare, se vengono attribuiti diritti
edificatori ma contemporaneamente vengono ridotte in modo
significativo le potenziali aree di atterraggio, la
compensazione non raggiunge il suo scopo, avendo un oggetto
privo di mercato e sostanzialmente non monetizzabile.
31. Pertanto, se non appare necessario che l’amministrazione
impegni già al momento della previsione del vincolo
espropriativo le risorse finanziarie per l’acquisto della
proprietà, deve però essere svolta una valutazione
approfondita sulla capacità dei diritti edificatori di
rappresentare in concreto un’equa compensazione.
Conclusioni
32. Il ricorso deve quindi essere parzialmente accolto, nel
senso che la seconda variante generale viene annullata nella
parte in cui non consente la piena tutela delle aspettative
dei ricorrenti basate sul PGT previgente, come sopra
descritte.
33. Conseguentemente, l’effetto conformativo della presente
sentenza vincola il Comune a predisporre un programma
triennale degli interventi di trasformazione urbanistica,
prendendo in considerazione i progetti di piano attuativo
presentati tempestivamente entro il termine di cui all’art.
5, comma 6, della LR 31/2014. Poiché i criteri di valutazione
non possono essere individuati a posteriori, l’esame
comparativo dovrà essere condotto direttamente sulla base
dell’art. 36 delle NTA del PGT previgente, ossia utilizzando
la disciplina che garantisce il rispetto del principio di
certezza del diritto anche per chi ha già presentato il
progetto. Resta ferma la possibilità per tutti gli
interessati di introdurre, entro il termine di cui all’art.
5, comma 6, della LR 31/2014, modifiche migliorative ai
progetti presentati.
34. Oltre ai criteri dell’art. 36 delle NTA del PGT
previgente, nella formazione della graduatoria dei progetti
dovranno essere seguite le indicazioni sopra esposte, che
definiscono il grado di resistenza dei piani attuativi
rispetto alla volontà dell’amministrazione di introdurre una
disciplina in peius per i proprietari. Allo scopo di non
creare disparità di trattamento, dovrà essere seguita una
metodologia omogenea per tutti i progetti di piano
attuativo. In particolare,
(a) dovranno essere quantificati
e salvaguardati i diritti edificatori che compensavano la
reiterazione di vincoli espropriativi decaduti, e
(b) per
ogni progetto dovrà esservi una valutazione dell’interesse
pubblico, con una comparazione tra l’utilità derivante dallo
schema perequativo seguito inizialmente (nel caso dei
ricorrenti, diritti edificatori in cambio di aree destinate
al parco di San Polo) e l’utilità derivante dal modello conformativo-espropriativo (nel caso dei ricorrenti,
conservazione della maggior parte della proprietà,
derubricazione del parco a semplice componente del PLIS, e
puntuali vincoli espropriativi per l’esecuzione di percorsi
ciclopedonali).
35. Per la conclusione della procedura relativa alla
formazione della graduatoria dei progetti e all’approvazione
del programma triennale degli interventi di trasformazione
urbanistica si può ritenere ragionevole un periodo di sei
mesi dalla scadenza del termine previsto dall’art. 5, comma 6,
della LR 31/2014. Le modalità di adozione e approvazione dei
progetti che rientrano nel numero di quelli attivabili nel
triennio seguono le regole ordinarie dell’art. 14 della LR
12/2005
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 17.01.2017 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Aree a bassa sismicità - Individuazione -
Facoltatività della prescrizione dell'obbligo della
progettazione antisismica - Artt. 83, 93, 94, 95 e 98 d.P.R.
n. 380/2001.
Alla luce della eliminazione del territorio non classificato
e della previsione della facoltatività della prescrizione
dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere
rientranti nella zona 4, pare evidente, in mancanza
di altre definizioni normative, come le aree a bassa
sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e
94 d.P.R. n. 380/2001, debbano essere considerate solamente
quelle rientranti nella zona 4, cioè quella di minor
rischio sismico, per le quali è stato reso facoltativo
l'obbligo di prescrivere la progettazione antisismica.
Normativa antisismica - Configurabilità
delle contravvenzioni - Finalità del controllo preventivo
dello Stato - Interesse protetto - Salvaguardia della
pubblica incolumità e del territorio.
Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste
dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui
agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio
del controllo preventivo dello Stato sulle attività
edificatorie nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 41617 del
02/10/2007, lavine; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Cruciani).
Pertanto, l'interesse protetto, sia pure strumentalmente
alla salvaguardia della pubblica incolumità e del
territorio, è dunque quello di consentire l'esercizio delle
attribuzioni di controllo nella materia antisismica,
attraverso la sanzione delle condotte elusive di tali
potestà, o che ne impediscano l'esercizio: ne consegue che
l'eventuale assenza di pericolosità delle opere, realizzate
in mancanza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni
preventive, non determina l'assenza di offensività della
condotta, comunque idonea a pregiudicare il bene protetto
dalla norma incriminatrice, tanto che è stata affermata
l'irrilevanza, al fine della configurabilità di tali reati,
della compatibilità delle opere realizzate con le cautele
antisimiche imposte dalla legge (Sez. 3, n. 7893 del
11/01/2012, Cruciani), e anche del successivo rilascio della
autorizzazione sismica in sanatoria (Sez. 3, n. 27876 del
16/06/2015).
Costruzioni in zona sismica -
Potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione
dell'immobile - Inosservanza delle norme tecniche -
Violazioni sostanziali - Giurisprudenza.
In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il
potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione
dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati
previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con
riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la
inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le
violazioni meramente formali (Sez. 3, n. 6371 del
07/11/2013, De Cesare; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007,
Borgia; Sez. 3, n. 40985 del 07/11/2006, Rigano), anche in
considerazione dell'interesse sotteso alle disposizioni di
cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56040
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art.
94 d.P.R. 380/2001 esclude la necessità della
preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio
regionale per le opere da realizzare in località a bassa
sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo
83 del medesimo d.P.R. 380/2001.
Il secondo comma di tale disposizione prevede la
definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture
e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno,
sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il
Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza
unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle
zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado
di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle
azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme
tecniche.
A tal fine è stata emanata l'ordinanza
del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del
20.03.2003, con cui sono stati dettati i principi
generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha
delegato l'adozione della classificazione sismica del
territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la
relativa attribuzione a una delle quattro zone, a
pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato
il territorio nazionale.
E' stato così eliminato quello che in precedenza era il
territorio "non classificato" ed è stata introdotta la
zona 4, nella quale è facoltà delle Regioni prescrivere
l'obbligo della progettazione antisismica. A ciascuna zona,
inoltre, è stato attribuito un valore dell'azione sismica
utile per la progettazione, espresso in termini di
accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35 g,
zona 2=0.25 g, zona 3=0.15 g, zona 4=0.05
g).
Ora, alla luce della eliminazione del territorio non
classificato e della previsione della facoltatività
della prescrizione dell'obbligo della progettazione
antisismica per le opere rientranti nella zona 4,
pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative,
come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato
disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, debbano essere
considerate solamente quelle rientranti nella zona 4,
cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato
reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione
antisismica.
---------------
Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste
dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui
agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio
del controllo preventivo dello Stato sulle attività
edificatorie nelle zone sismiche.
L'interesse protetto, sia pure strumentalmente alla
salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio, è
dunque quello di consentire l'esercizio delle attribuzioni
di controllo nella materia antisismica, attraverso la
sanzione delle condotte elusive di tali potestà, o che ne
impediscano l'esercizio: ne consegue che l'eventuale assenza
di pericolosità delle opere, realizzate in mancanza delle
prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive, non
determina l'assenza di offensività della condotta, comunque
idonea a pregiudicare il bene protetto dalla norma
incriminatrice, tanto che è stata affermata l'irrilevanza,
al fine della configurabilità di tali reati, della
compatibilità delle opere realizzate con le cautele
antisimiche imposte dalla legge, e anche del successivo
rilascio della autorizzazione sismica in sanatoria.
---------------
"In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il
potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione
dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati
previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con
riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la
inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le
violazioni meramente formali", anche in considerazione di
quanto già osservato a proposito dell'interesse sotteso alle
disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001.
Ne consegue che indebitamente è stata disposta dal Tribunale
di Teramo la demolizione delle opere realizzate dagli
imputati, in relazione alle quali non è stata contestata
l'inosservanza delle norme tecniche, bensì degli obblighi di
carattere formale di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001,
sicché di tale ordine va disposta la revoca.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30.11.2016 il Tribunale di Teramo ha
condannato An. D'A. e Fe. Di Fr. alla pena di euro 2.000,00
di ammenda, in relazione ai reati di cui agli artt. 93, 94 e
95 d.P.R. 380/2001 (per avere, quali amministratori della
Te.Ab. S.n.c., proprietaria di un immobile in Comune di
Tortoreto, ricadente in zona sismica, realizzato due tettoie
in legno omettendo di darne preventivamente avviso allo
Sportello unico per l'edilizia e in mancanza della previa
autorizzazione dell'Ufficio tecnico regionale), disponendo
altresì, ai sensi dell'art. 98, comma 3, d.P.R. 380/2001, la
demolizione delle opere.
Nell'affermare la responsabilità degli imputati, il
Tribunale ha ribadito la sussistenza degli obblighi di cui
agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 anche in relazione alle
opere da realizzare in zona a bassa sismicità, quale
il Comune di Tortoreto nel cui territorio erano state
realizzate le opere oggetto della imputazione, rientrante in
zona sismica 3, non ponendo alcuna distinzione
riguardo agli obblighi di comunicazione l'art. 83, comma 2,
d.P.R. 380/2001, e l'irrilevanza della mancanza di
pericolosità della costruzione realizzata in assenza delle
prescritte comunicazioni preventive, in considerazione del
carattere formale dei reati di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R.
380/2001.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto congiuntamente
ricorso per cassazione entrambi gli imputati, affidato a
quattro motivi.
2.1. Con un primo motivo hanno denunciato violazione
dell'art. 94 d.P.R. 380/2001, in quanto tale disposizione
esclude espressamente dalla incriminazione le condotte
relative a fabbricati posti in zone a bassa sismicità, quale
il territorio del Comune di Tortoreto, classificato dal 2006
come zona sismica 3.
2.2. Con un secondo motivo hanno prospettato
violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001, in relazione alla
configurazione del reato contemplato da tale disposizione
come reato di pericolo astratto, senza alcuna considerazione
della concreta esposizione al rischio del bene protetto, in
contrasto con il principio di offensività, derivante dal
principio di legalità di cui all'art. 25 Cost..
Hanno al riguardo esposto che le opere realizzate in assenza
della preventiva comunicazione allo Sportello unico per
l'edilizia non avevano alcuna potenzialità lesiva,
trattandosi di due tettoie in legno lamellare poste al piano
terreno di un edificio eretto in condominio, addossate al
lato esterno di due appartamenti, della superficie di circa
dieci metri quadrati ciascuna, prive di qualsiasi incidenza
strutturale e, dunque, di pericolosità.
2.3. Con un terzo motivo hanno denunciato violazione
dell'art. 98 d.P.R. 380/2001, lamentando l'indebita
disposizione della demolizione delle opere realizzate in
assenza delle prescritte comunicazioni preventive, essendo
stata rilasciata autorizzazione in sanatoria da parte
dell'Ufficio del Genio Civile, che, pur non privando di
rilevanza penale le condotte, spiegava comunque effetti
riguardo al mantenimento delle opere realizzate,
impendendone la demolizione.
2.4. Con un quarto motivo hanno lamentato violazione
dell'art. 131-bis cod. pen., per la mancata applicazione da
parte del Tribunale della causa di non punibilità per
particolare tenuità del fatto contemplata da tale
disposizione, proprio in considerazione della già
evidenziata mancanza di offensività delle condotte, da cui
non era derivato alcun pericolo per la pubblica incolumità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato esclusivamente in relazione al
terzo motivo.
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata
denunciata violazione dell'art. 94 d.P.R. 380/2001, per
l'affermazione di responsabilità degli imputati nonostante
il Comune di Tortoreto, nel cui territorio sono state
realizzate le opere, sia classificato a bassa sismicità,
è manifestamente infondato.
L'art.
94 d.P.R. 380/2001 esclude la necessità della
preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio
regionale per le opere da realizzare in località a bassa
sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo
83 del medesimo d.P.R. 380/2001.
Il secondo comma di tale disposizione prevede la
definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture
e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno,
sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il
Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza
unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle
zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado
di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle
azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme
tecniche.
A tal fine è stata emanata l'ordinanza
del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del
20.03.2003 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 105 del 08.05.2003), con cui sono stati dettati i
principi generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo
Stato ha delegato l'adozione della classificazione sismica
del territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la
relativa attribuzione a una delle quattro zone, a
pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato
il territorio nazionale.
E' stato così eliminato quello che in precedenza era il
territorio "non classificato" ed è stata introdotta
la zona 4, nella quale è facoltà delle Regioni
prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica. A
ciascuna zona, inoltre, è stato attribuito un valore
dell'azione sismica utile per la progettazione, espresso in
termini di accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35
g, zona 2=0.25 g, zona 3=0.15 g, zona 4=0.05
g).
Ora, alla luce della eliminazione del territorio non
classificato e della previsione della facoltatività
della prescrizione dell'obbligo della progettazione
antisismica per le opere rientranti nella zona 4,
pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative,
come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato
disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, debbano essere
considerate solamente quelle rientranti nella zona 4,
cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato
reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione
antisismica.
Poiché l'area nella quale sono state realizzate le opere
oggetto della contestazione è inclusa in zona sismica 3,
correttamente ne è stata esclusa la bassa sismicità,
ravvisabile solo per la zona 4, con la conseguente
manifesta infondatezza della doglianza sollevata dai
ricorrenti sul punto.
3. Anche il secondo motivo, mediante il quale è stata
prospettata violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001, per
l'insufficiente considerazione della mancanza di pericolo
concreto, e dunque di offensività, in conseguenza della
realizzazione delle opere in questione in assenza delle
prescritte comunicazioni preventive, è manifestamente
infondato.
Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste
dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui
agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le
costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in
quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio
del controllo preventivo dello Stato sulle attività
edificatorie nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 41617 del
02/10/2007, Iovine, Rv. 238007; Sez. 3, n. 7893 del
11/01/2012, Cruciani, Rv. 252750).
L'interesse protetto, sia pure strumentalmente alla
salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio, è
dunque quello di consentire l'esercizio delle attribuzioni
di controllo nella materia antisismica, attraverso la
sanzione delle condotte elusive di tali potestà, o che ne
impediscano l'esercizio: ne consegue che l'eventuale assenza
di pericolosità delle opere, realizzate in mancanza delle
prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive, non
determina l'assenza di offensività della condotta, comunque
idonea a pregiudicare il bene protetto dalla norma
incriminatrice, tanto che è stata affermata l'irrilevanza,
al fine della configurabilità di tali reati, della
compatibilità delle opere realizzate con le cautele
antisimiche imposte dalla legge (Sez. 3, n. 7893 del
11/01/2012, Cruciani, Rv. 252750, cit.), e anche del
successivo rilascio della autorizzazione sismica in
sanatoria (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro., Rv.
264201).
Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza della
doglianza.
4. Il quarto motivo, relativo alla mancata
applicazione della causa di non punibilità di cui all'art.
131-bis cod. pen., da esaminare in ordine logico prima del
terzo motivo, relativo alla indebita disposizione
dell'ordine di demolizione, è inammissibile, a causa della
mancata prospettazione della applicabilità di tale causa di
non punibilità nel corso del giudizio di merito.
La sentenza impugnata è, infatti, successiva alla
introduzione della disposizione di cui all'art. 131-bis cod.
pen., essendo stata resa il 30.11.2016, sicché di tale
istituto avrebbe dovuto essere richiesta l'applicazione al
giudice del merito, anche mediante istanza formulata in
udienza o nel corso della discussione finale, sicché la
mancanza di tale richiesta esclude la sussistenza di una
violazione di legge sul punto e preclude a questa Corte
l'esame della relativa questione, in quanto l'aspetto
dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. non può
essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità,
ostandovi il disposto di cui all'art. 609, comma terzo, cod.
proc. pen., se tale disposizione era, come nella specie, già
in vigore alla data della deliberazione della sentenza
impugnata (Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv.
266678, nella quale è stato precisato che la questione
postula un apprezzamento di merito precluso in sede di
legittimità, ma che poteva essere proposto al giudice
procedente al momento dell'entrata in vigore della nuova
disposizione, almeno come sollecitazione in sede di
conclusioni del giudizio di merito; conf. Sez. 7, Ordinanza
n. 43838 del 27/05/2016, Savini, Rv. 268281).
5. Il terzo motivo, relativo alla indebita
disposizione dell'ordine di demolizione delle opere
realizzate in assenza delle prescritte comunicazioni e
autorizzazioni preventive nonostante il rilascio della
autorizzazione in sanatoria da parte dell'Ufficio del Genio
civile, è fondato.
Va, al riguardo, ribadito il principio, costantemente
affermato da questa Corte, secondo cui "In tema di
disciplina delle costruzioni in zona sismica, il
potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione
dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del
d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati
previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con
riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la
inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le
violazioni meramente formali" (Sez. 3, n. 6371 del
07/11/2013, De Cesare, Rv. 258899; Sez. 3, n. 37322 del
03/07/2007, Borgia, Rv. 237843; Sez. 3, n. 40985 del
07/11/2006, Rigano, Rv. 235411), anche in considerazione di
quanto già osservato a proposito dell'interesse sotteso alle
disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001.
Ne consegue che indebitamente è stata disposta dal Tribunale
di Teramo la demolizione delle opere realizzate dagli
imputati, in relazione alle quali non è stata contestata
l'inosservanza delle norme tecniche, bensì degli obblighi di
carattere formale di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001,
sicché di tale ordine va disposta la revoca.
6. In conclusione la sentenza impugnata deve essere
annullata limitatamente al disposto ordine di demolizione,
che deve essere eliminato, e i ricorsi dichiarati
inammissibili nel resto, stante l'autonomia delle doglianze
formulate con gli altri motivi di ricorso (cfr. Sez. U, n.
6903 del 27/05/2016, Aiello, Rv. 268966) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56040). |
IN EVIDENZA |
URBANISTICA:
Proroga di convezione urbanistica e legittimazione ad agire.
---------------
●
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Firmataria
di una convenzione urbanistica – Proroga chiesta da altro
comproprietario – Impugnazione – E’ legittimata.
●
Edilizia –
Convenzione urbanistica – Proroga – Ambito di estensione
●
La firmataria di una convenzione urbanistica del
2004 -di cui, nel 2017, si è disposta la proroga su proposta
di altro proprietario dei beni oggetto della convenzione
stessa- ha una posizione qualificata e differenziata che la
legittima ad ogni iniziativa giudiziaria, a tutela del suo
interesse a evitare che la contestata proroga della
convenzione, nel modo in cui è stata realizzata, produca
effetti indesiderati, determinando peraltro conseguenze
irreversibili e pregiudizievoli sul preteso diritto di
proprietà e sulla reintegra della sua situazione di possesso
(1).
●
La proroga delle convenzioni urbanistiche
disposta ex lege (d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito nella
l. 09.08.2013, n. 98) riguarda anche i termini previsti
all’interno dalla stessa convenzione urbanistica (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la circostanza che le iniziative
giudiziarie della ricorrente possano ipoteticamente o
concretamente produrre una perdita economica o un mancato
lucro alla stessa ricorrente non è affatto sufficiente a
privare la medesima dell’interesse ad agire. Infatti,
l'interesse ad agire, quale previsto dall'art. 100 c.p.c.,
da sempre considerato applicabile al processo
amministrativo, ora anche in virtù del rinvio esterno
operato dall'art. 39, comma 1, c.p.a., è scolpito nella sua
tradizionale definizione di "bisogno di tutela
giurisdizionale", nel senso che il ricorso al giudice deve
presentarsi come utile per porre rimedio a un diretto,
concreto e attuale stato di fatto lesivo.
L’interesse ad
agire, previsto quale condizione dell’azione dall’art. 100 c.p.c., con disposizione che consente di distinguere fra le
azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a
conseguire il bene della vita consistente nella rimozione
dello stato di giuridica incertezza in ordine alla
sussistenza di un determinato diritto o interesse, va
identificato in una situazione di carattere oggettivo
derivante da un fatto lesivo, in senso ampio, del diritto o
dell’interesse legittimo, rilevabile nella circostanza che,
in assenza del processo e dell’esercizio della
giurisdizione, l’attore o il ricorrente soffrirebbe un
danno.
La lesione, nel caso di specie, è insita nel fatto
che una proroga della convenzione urbanistica -che in
origine vedeva quale parte privata, tra le altre, la
ricorrente- sia avvenuta, pretermettendo del tutto
l’informativa e il consenso della ricorrente stessa, come se
la medesima non avesse titolo a interferire, né fosse parte
nell’originaria stipula della convenzione.
(2) Ha chiarito il Tar che l’ambito di definizione della proroga di
una convenzione urbanistica è delimitato dall’operatività
dell’istituto della decadenza. I vizi delle opere di
urbanizzazione, l’inadempienza delle parti, la scadenza del
termine di validità del piano attuativo e della convenzione
urbanistica hanno tutti effetti decadenziali.
La decadenza è
una conseguenza sanzionatoria dell’inerzia o
dell’inadempienza di una o più parti che hanno stipulato la
convenzione. La proroga si riferisce all’inerzia, essendo un
dispositivo che differisce la data della decadenza e rimette
in termini le parti rimaste inerti, affinché diano
esecuzione agli obblighi da esse assunti con la convenzione
urbanistica.
Ma deve trattarsi delle stesse parti che hanno
stipulato la convenzione, nonché dello stesso oggetto e
contenuto negoziale, perché se l’atto di proroga modifica il
contenuto della convenzione (mediante novazione oggettiva)
ovvero sostituisce le parti stipulanti (mediante novazione
soggettiva), allora non si tratta più di una semplice
proroga, bensì di una nuova convenzione urbanistica (TAR
Molise,
sentenza 30.11.2017 n. 481 -
commento tratto da link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
V – La mancata impugnazione della delibera di Giunta
comunale n. 267 del 02.12.2016 -con la quale il Comune
concede la proroga e autorizza il dirigente tecnico comunale
alla sottoscrizione dell’impugnato atto integrativo di
proroga della convenzione urbanistica- non costituisce,
come eccepiscono i controinteressati, un’irrimediabile causa
d’inammissibilità del ricorso.
La controinteressata Po. S.p.A., nella memoria del
02.11.2017, afferma che si tratterebbe di un atto rientrante
nelle competenze istituzionali della Giunta comunale, a
tenore dell’art. 5, comma 13, del D.L. 13.05.2011 n. 70 (c.d.
Decreto “Sviluppo”), convertito in legge n. 106/2011.
Invero, a tenore di tale normativa, la Giunta comunale può
approvare il piano attuativo quando questo è coerente con il
P.R.G. (o con uno strumento generale equipollente). Qualora,
invece, il piano attuativo implichi l'esigenza di modifica
del P.R.G., la competenza spetta sempre al Consiglio
comunale (cfr.: Cons. Stato IV,
04.03.2016 n. 888).
Si tratta
nella specie, evidentemente, di una situazione ben diversa
da quella prefigurata dalla norma invocata, poiché qui non
viene approvato un nuovo piano attuativo coerente con il
P.R.G., ma viene prorogata l’efficacia di un vecchio piano
attuativo (che peraltro non sarebbe neppure del tutto
coerente con il vigente P.R.G.). La delibera giuntale,
quindi, non reca in sé l’approvazione di un piano di
recupero, ma è una mera autorizzazione alla sottoscrizione
dell’atto di proroga, sul presupposto (errato) che
sussistano le condizioni della proroga.
L’impugnato atto aggiuntivo, integrativo e di proroga
(registrato il 01.03.2017) della convenzione urbanistica 2004
del piano di recupero “Colle delle Api”, è da ritenersi
l’atto conclusivo del procedimento, cioè l’atto
effettivamente lesivo dell’interesse della ricorrente, in
quanto ad esso si riconnettono il protrarsi e il modificarsi
degli effetti dell’originaria convenzione, mentre la
presupposta deliberazione di Giunta comunale n. 267 del
2016, non impugnata, costituisce un mero atto interno di
autorizzazione alla stipulazione dell’atto aggiuntivo.
Per meglio esplicitare tale assunto, occorre chiarire la
natura giuridica della convenzione urbanistica.
Le
convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di disciplinare il
corretto utilizzo del territorio mediante un modello
consensuale che prevede un contenuto obbligatorio, previsto
dalla legge e dalle norme urbanistiche attuative, e un
contenuto discrezionale e di autonomia negoziale,
liberamente esercitabile dalle parti. Pertanto, le
convenzioni urbanistiche, costituiscono strumenti di
attuazione dei piani urbanistici, rivestendo carattere
negoziale di accordi sostitutivi del provvedimento, ex art.
11 della legge n. 241/1990 (cfr.: Cass. civile, sez. unite,
11.04.2017 n. 9284; Cons. Stato VI, 31.10.2013 n. 5275; Tar
Emilia R., Bologna I, 24.10.2016 n. 873).
Mediante la
convenzione, da una parte, il privato realizza l’interesse a
definire la propria utilità su un immobile, dall’altra parte
l’Ente locale autorizza la conformazione del territorio con
la costruzione di beni e infrastrutture a beneficio della
collettività. L’interesse pubblico, in questa linea di
confine, riporta a unità la manifestazione dei pubblici
poteri, coniugando il contenuto discrezionale del
provvedimento con gli strumenti del diritto civile relativi
all’autonomia negoziale, in una procedura non esclusivamente
pubblicistica che si compenetra con le iniziative del
privato, alle quali il provvedimento amministrativo è accessivo.
L’accordo, nei termini delineati, è lo strumento
più utilizzato per realizzare gli interessi pubblici in
ambito di sviluppo territoriale urbano, in collaborazione
diretta con i privati (nel modello cosiddetto del
partenariato pubblico–privato), in piena aderenza ai
principi partecipativi, dando autonomia alla parte privata
nei limiti di coincidenza con la potestà pubblica intesa
all’assolvimento del primario interesse della buona
amministrazione (ex art. 97 Cost.), oltre che del principio
comunitario di sussidiarietà orizzontale (ex artt. 117–118
Cost.).
Non si tratta di un accordo integrativo
procedimentale, bensì di un accordo sostitutivo di
provvedimento, di guisa che tutti gli atti presupposti e prodromici alla realizzazione dell’accordo –ivi compresa la
deliberazione della P.A. di autorizzazione a negoziare-
avendo natura interna, cioè endoprocedimentale, non sono
autonomamente lesivi. Ne consegue che non vi è alcuna
necessità né obbligo che gli atti prodromici siano impugnati
unitamente alla convenzione. Non vi è dubbio che l’eventuale
annullamento giurisdizionale della convenzione urbanistica
rechi un vantaggio a chi la impugna per cancellarla dal
mondo giuridico, anche quando la presupposta deliberazione
giuntale che dà mandato alla stipula della convenzione non
sia stata impugnata. Viceversa, la sopravvivenza dell’atto
giuntale non determina alcun effetto giuridico o fattuale,
allorché la convenzione urbanistica sia stata privata di
efficacia e caducata.
Pertanto, anche sotto tale profilo, il
ricorso in esame è da ritenersi ammissibile.
VI – I motivi del ricorso sono attendibili e fondati.
Non
compete a questo giudice di stabilire se la Po. S.p.A.
sia la proprietaria dell’area oggetto del piano di recupero
e, se è vero che la convenzione urbanistica stipulata nel
2004 è da tempo decaduta per decorrenza del termine
decennale, non vi è ragione di verificare appieno se la
stessa sia venuta meno, unitamente al piano di recupero, a
seguito della mancata approvazione da parte della Regione
della variante di P.R.G. che prevedeva il piano di recupero.
VII – Nondimeno, ai fini del giudizio, è necessario, in via
preliminare, dare una più compiuta ricostruzione dei fatti.
La ricorrente era comproprietaria, con i suoi fratelli
Al., Lu. e Fi., di una vasta area di circa 8
ettari sita nel Comune di Campobasso, individuata in catasto
al foglio 33, p.lle 77, 477, 73, 75, 76, 475, 474, 476, 79,
409, 42, 386 e 730. L’area in passato era destinata a zona
“N – Agricola” dal P.R.G. e il Comune di Campobasso con la
delibera di Consiglio comunale n. 82 dell’11.12.2000,
adottava una variante generale al piano regolatore, variante
che comprendeva l’area di proprietà della ricorrente nella
zona “E1 - Frazioni e contrade da sottoporre a piani di
recupero” e prevedeva che in tali strumenti attuativi
venisse prevista la realizzazione di attrezzature per il
territorio, mediante volumi anche di natura artigianale,
commerciale e residenziale per consentire eventuali
integrazioni insediative.
In virtù della disposizione
dell’art. 18 delle Norme tecniche di attuazione (che
consentiva l’approvazione di piani di recupero nelle more
dell’approvazione della variante), la ricorrente, insieme ai
suoi familiari, presentava una proposta di piano di recupero
ad iniziativa privata, ai sensi dell’art. 28 della legge n.
457/1978. Stante l’inerzia dell’Amministrazione, il piano
veniva approvato dal commissario “ad acta” nominato dal
Presidente della Regione Molise. Il commissario regionale
adottava (con la delibera commissariale n. 33/2003) e poi
approvava (con la delibera commissariale n. 68 del
03.12.2003) il citato piano di recupero ad iniziativa dei
sig.ri Po., sulle menzionate aree, sicché la ricorrente,
unitamente ai suoi fratelli, stipulava nel 2004 una
convenzione urbanistica con il Comune di Campobasso per
l’esecuzione del piano di recupero.
La convenzione era
alquanto onerosa per le parti private, prevedendo che -nel
termine di 10 anni- queste dovessero realizzare, a proprie
spese, la progettazione esecutiva degli interventi di infrastrutturazione e urbanizzazione, nonché la
realizzazione, il collaudo e la cessione degli stessi al
Comune di Campobasso. Tali interventi dovevano essere
realizzati prima dell’ottenimento dei titoli edilizi per la
costruzione degli edifici privati.
Tra i molteplici impegni,
la convenzione prevedeva altresì che:
a) le opere relative
alla viabilità dovessero essere ultimate entro il termine di
60 mesi e prima dei lavori di costruzione degli edifici
(art. 3);
b) nessun atto di assenso e nessuna denuncia di
inizio attività potesse attuarsi se non dopo l’inizio
dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione al servizio
dell’intervento richiesto (art. 4.4);
c) le opere di
urbanizzazione dovessero essere eseguite direttamente, a
spese dai recuperanti (art. 5);
d) i recuperanti cedessero
immediatamente al Comune di Campobasso le aree per le
urbanizzazioni primarie e per le attrezzature pubbliche,
dichiarando di asservirne altre all’uso pubblico (art. 15).
Sennonché, nel 2005 il padre della ricorrente, sig. Po.Ge., avvalendosi di una procura notarile rilasciata
dalla figlia La. numerosi anni prima (precisamente il
17.02.1987 per Notaio Ro. di Campobasso), trasferiva tutte
le quote da questa detenute nelle società, agli altri
fratelli.
La ricorrente prontamente revocava la detta
procura generale e, nondimeno, il sig. Ge.Po.
(sempre in veste di procuratore) stipulava nel 2005 una
scrittura privata con la quale La. e gli altri fratelli
vendevano alla società Po. che accettava “tutti i diritti
edificatori (siano essi destinati a scopi produttivi o
residenziale) acquisiti dal terreno in premessa, in forza
del piano di recupero approvato con delibera numero 68 del
03.12.2003 del commissario ‘ad acta’ e disciplinata nella
convenzione”. Tale scrittura privata veniva registrata
successivamente alla revoca della procura generale, seppur
recando una data ad essa antecedente. Ne scaturiva un
contenzioso sia civile che amministrativo.
Infatti, la Po. S.p.A. chiedeva al Comune di Campobasso il rilascio
del permesso di costruire per la realizzazione di un centro
servizi per attività commerciali, denegato per mancata
dimostrazione di un valido titolo. Il Consiglio di Stato,
con decisione n. 4416/2015, in riforma della sentenza n.
718/2014 di questo Tar, annullava il citato diniego sul
presupposto che la scrittura privata di cessione dei diritti
edificatori rappresentasse un titolo “presuntivamente
valido” per chiedere il permesso di costruire, ai sensi
dell’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001.
Nel frattempo, la
ricorrente, sig.ra La.Po., adiva il Tribunale civile
di Campobasso (n.r.g. 1334/2012) chiedendo la divisione dei
beni ereditari in comproprietà con i fratelli. Con un
ulteriore giudizio (n.r.g. 2/2017), la ricorrente chiedeva
al Tribunale civile di Campobasso la divisione di altri beni
in comproprietà coi fratelli, ricevuti in donazione. Tra i
beni oggetto di tali giudizi rientrano anche i terreni di
Colle delle Api.
I relativi giudizi sono tuttora pendenti e
il giudice civile ha incaricato un c.t.u. di procedere a un
progetto di divisione. Con istanza del 18.10.2012, i sig.ri
Al., Fi. e Lu.Po., affermando di essere i
comproprietari dei terreni e i titolari del citato piano di
recupero, presentavano un’istanza al Comune di Campobasso
chiedendo il rilascio di titoli edilizi. La sig.ra La.Po. instaurava allora un altro giudizio civile contro i
suoi fratelli e la Po. S.p.A. (n.r.g. n. 823/2016), volto
ad accertare la manifesta nullità della scrittura privata di
cessione dei diritti edificatori dei terreni oggetto del
piano di recupero.
Tale scrittura privata, a dire della
ricorrente, avrebbe natura di contratto preliminare e ciò
non sembra smentito dalla società Po., la quale chiedeva,
in via riconvenzionale, al giudice civile di condannare la
sig.ra La.Po. alla stipula del contratto definitivo di
cessione. La Po. S.p.A., in persona del suo legale
rappresentante Al.Po., attestando di essere
proprietaria dei terreni oggetto del piano di recupero
nonché dei diritti edificatori, in virtù della citata
scrittura privata del 2005, presentava al Comune di
Campobasso (in data 23.11.2015 prot. n. 32249) una nuova
istanza volta a ottenere il permesso di costruire per
edifici commerciali, nonché la proroga e la voltura in suo
favore della convenzione di urbanizzazione stipulata tra il
Comune di Campobasso e i germani Po. in data 20.02.2004.
Il Comune di Campobasso con la citata delibera di Giunta
comunale n. 267/2016, disponeva di prorogare la convenzione
rep. 74682/2004, sul presupposto che la menzionata sentenza
del Consiglio di Stato n. 4416/2015 avesse legittimato la
società Po. a disporre dei detti beni immobili. A nulla
valevano le diffide inoltrate dalla sig.ra La.Po. al
Comune di Campobasso, nelle quali ella evidenziava che la
richiesta della Po. S.p.A. (che non era l’unica
proprietaria dei terreni, essendo questi oggetto, peraltro,
di due giudizi di divisione) fosse indebita e illegittima e
che la scrittura privata stipulata nel 2005 era
manifestamente inefficace o nulla essendo pendente un
giudizio innanzi al Tribunale civile di Campobasso avente ad
oggetto tale accertamento.
La sig.ra La.Po., in data
20.02.2017, effettuava una visura presso la competente
conservatoria dei registri immobiliari dalla quale rilevava
che i terreni di cui sopra (in catasto al foglio 33 p.lle
77, 477, 73, 75, 76, 475, 78, 474, 476, 79, 409, 42, 386,
730) non risultavano più di sua proprietà ma, a seguito di
un’iscrizione avvenuta in data 19.01.2017 (successiva alla
trascrizione della domanda giudiziale di divisione) erano
intestati alla Po. S.p.A., che aveva fatto trascrivere la
sentenza del Tribunale di Campobasso dell’11.07.2016.
La
sig.ra La.Po. presentava al Presidente del Tribunale
di Campobasso un’istanza di accesso agli atti del giudizio
che avrebbe dato luogo al trasferimento immobiliare, al fine
di conoscere la natura del provvedimento emesso dal
Tribunale di Campobasso. A seguito dell’istanza, la
ricorrente veniva a conoscenza che il provvedimento del
Tribunale di Campobasso (rep. 4348) faceva riferimento alla
sentenza n. 316/2016, emessa all’esito del giudizio n.r.g.
634/2016.
Il procedimento contraddistinto da tale numero,
veniva iscritto a ruolo in data 08.03.2016 dalla società Po. S.p.A., che conveniva in giudizio il Sig. Po.Ge. (padre e procuratore della ricorrente), al fine di
sentirsi dichiarare l’autenticità delle sottoscrizioni
apposte sulla scrittura privata del 01.02.2005, nonché al
fine di ottenere l’autorizzazione alla trascrizione della
stessa. Si costituiva nel giudizio il sig. Po.Ge.
che riconosceva la sottoscrizione da lui apposta sulla
predetta scrittura privata e aderiva a tutte le richieste
della società Po..
In data 08.06.2016, il Tribunale di
Campobasso pronunciava la sentenza n. 634/2016 che
dichiarava l’autenticità della sottoscrizione apposta da Po.Ge. su ogni foglio della scrittura privata del
01.02.2005 e autorizzava la Po. S.p.A. alla trascrizione
della scrittura privata, precisando che: “dal momento che
nella predetta scrittura privata, sebbene qualificata dalle
parti come una vendita vera e propria è stabilito dall’art.
5 (della medesima scrittura) che debba seguire atto notarile
di trasferimento condizionato all’esito di alcuni giudizi in
corso e a semplice richiesta di una sola delle parti e
comunque da redigersi da un notaio scelto a cura e spese
della parte acquirente, si deve ritenere che il contratto
possa equipararsi ‘quoad effectum’ ad un contratto
preliminare di vendita”.
Successivamente alla pubblicazione
della sentenza n. 316/2016, in data 07.07.2016, la Po.
S.p.A. depositava presso il Tribunale di Campobasso
un’istanza per la correzione di errore materiale della
stessa sentenza. Il Tribunale di Campobasso, nella persona
del g.o.t. dott. De., con provvedimento dell’11.07.2016
di correzione di errore materiale della sentenza n. 316/16
disponeva, conformemente all’istanza, la correzione della
sentenza n. 316/16 nel procedimento n. 634/2016 r.g., nel
senso che ove a pag. 3 della motivazione è scritto “atto
notarile di trasferimento” deve leggersi “atto notarile di
produzione del consenso” e ove a pag. 5 della motivazione è
scritto “trattandosi di contratto di compravendita di beni
immobili da trasferirsi in proprietà mediante successivo
atto notarile” deve leggersi “trattandosi di compravendita
di beni immobili trasferiti in proprietà mediante la
scrittura privata del 01.02.2005”.
Tale sentenza di
correzione veniva utilizzata dalla società Po. per
trascrivere l’atto nei pubblici registri immobiliari e
giustificare la parola “compravendita”, con il preteso
effetto di trasferire le particelle immobiliari dai
precedenti proprietari all’attuale unico proprietario,
società Po.. Come detto, tale trascrizione veniva
presentata all’Amministrazione comunale al fine di
giustificare e legittimare l’istanza di proroga della
convenzione urbanistica e, sulla base di essa, la Giunta
comunale adottava la delibera n. 267/2016 e stipulava con la
Po. S.p.A. “l’atto aggiuntivo ed integrativo di proroga
della convenzione urbanistica”, rogata dal Segretario
comunale in data 24.02.2017 (rep. 2053).
Nell’atto aggiuntivo
citato si legge che: “si prende atto dell’avvenuta
trascrizione dei suoli presso la locale Conservatoria dei
registri immobiliari di Campobasso reg. gen. 718 del
19/01/2017 degli atti di trasferimento ivi riportati alla
ditta Potito per scrittura privata con sottoscrizione
accertata giudizialmente giusta autorizzazione alla
trascrizione di cui a sentenza n. 316/2016 pubblicata
l’08/06/2016”.
Conosciute le dette circostanze, la
ricorrente (con atto di citazione del 03.03.2017) impugnava la
sentenza di correzione adottata dal Tribunale di Campobasso
n. 316/2016, mediante opposizione di terzo, chiedendone la
sospensione cautelare. Il Tribunale di Campobasso
accoglieva, con provvedimento n. 1717 del 09.03.2017,
l’istanza cautelare, autorizzando l’istante a trascrivere il
provvedimento di sospensione presso i competenti Uffici dei
registri immobiliari di Campobasso.
VIII - Tale ricostruzione dei fatti, quale rassegnata da
parte ricorrente, non è contestata, nella sostanza, se non
per dettagli poco rilevanti, dalle parti controinteressate
costituitesi nel giudizio.
Tutto lascia presagire che gli assetti proprietari dei suoli
oggetto di controversia saranno presto ridefiniti dai
giudicati che si formeranno sui procedimenti civili pendenti
tra la sig.ra Po.La. e i suoi fratelli. Ma non è in
questa sede che, sia pur in via incidentale, il Tribunale
amministrativo potrà stabilire se la ricorrente sia o non
sia la comproprietaria del patrimonio immobiliare oggetto di
contesa. Viceversa, è in questa sede che si può affermare,
senza ombra di smentita, che il presupposto fattuale e
giuridico dell’impugnato atto di proroga della convenzione
urbanistica (vale a dire la proprietà dei suoli in capo alla Po. S.p.A.) non sia affatto certo e definito, essendo
tuttora “sub judice” la questione dei diritti di proprietà.
Venuta meno la certezza del titolo di proprietà della
società Po. (soprattutto dopo la trascrizione nei
registri immobiliari del citato provvedimento n. 1717 del
2017 del Tribunale di Campobasso), l’impugnato atto di
proroga della convenzione perde uno dei suoi presupposti
indefettibili.
Infatti, se è vero che -come, a suo tempo,
affermato dal Consiglio di Stato nella citata sentenza n.
4416/2015- la scrittura privata di cessione dei diritti
edificatori rappresenta un titolo “presuntivamente valido”
per chiedere il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11
del D.P.R. n. 380/2001, in quanto la normativa non richiede
necessariamente la proprietà dell’area e consente il
rilascio dei titoli edilizi, facendo salvi i diritti dei
terzi; nondimeno, è altresì vero che lo stesso principio non
è applicabile al caso della convenzione urbanistica, in
quanto questa deve necessariamente essere stipulata tra il
Comune e i proprietari o aventi titolo certo che legittimi
la disposizione delle aree oggetto del piano attuativo.
Invero, la convenzione urbanistica è un atto consensuale a
contenuto dispositivo che opera un trasferimento di diritti
patrimoniali, sicché il privato che, sottoscrivendola, si
obbliga a effettuare attribuzioni patrimoniali, deve provare
il titolo che lo abilita alla disposizione dei beni, alla
stregua del principio “nemo plus juris in alium transferre
potest quam ipse habet”.
La disposizione su un bene altrui
da parte di chi non ne ha il titolo integrerebbe, secondo il
combinato disposto dell'art. 1418, comma 2, e dell'art. 1346
c.c., una causa di nullità dell'atto negoziale per carenza
nell'oggetto del requisito della possibilità. Non a caso, il
permesso di costruire non viene trascritto nei registri
immobiliari, mentre le convenzioni urbanistiche devono
essere trascritte, ex art. 35 della legge n. 865/1971 (cfr.:
Cons. Stato IV nn. 363/1983 e 744/1984) ed ex art. 2645-quater
cod. civile, come integrato dalla legge n. 44/2012.
Se è vero che la proprietà delle aree oggetto della
convenzione è tuttora “sub judice”, il Comune nel prorogare
la convenzione ha erroneamente ritenuto certo il presupposto
del titolo di proprietà in capo alla contraente Po.
S.p.A. e ciò consente di valorizzare e ritenere attendibile
il primo motivo del ricorso.
IX - Alla luce di ciò, si comprende anche che il Comune non
avrebbe potuto estromettere, né pretermettere le parti
private originarie ovvero, facendolo, non avrebbe potuto
qualificare l’atto come proroga della convenzione.
Si tratta
qui di attribuire un preciso significato alla proroga
dell’originaria convenzione urbanistica –proroga in
astratto prevista dal D.L. 21.06.2013 n. 69– atteso che la
novazione soggettiva delle parti private in convenzione, nel
passaggio dai singoli congiunti della famiglia Po. alla
Po. S.p.A. non può non incidere sulla qualificazione
dell’atto come proroga della convenzione urbanistica.
La
legge 09.08.2013 n. 98, che ha convertito il citato D.L. n.
69/2013 (c.d. Decreto del “Fare”) ha prorogato i termini di
validità delle convenzioni urbanistiche stipulate fino al 31.12.2012. Tale normativa è intervenuta prima della
scadenza decennale della convenzione in esame (2004-2014).
L’art. 30, comma 3-bis (inserito in fase di conversione in
legge), ha disposto una generale proroga di tre anni dei
termini di validità e dei termini di inizio e fine lavori
indicati nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione
stipulate sino al 31.12.2012.
Ciò significa che la
convenzione stipulata il 20.02.2004, destinata a scadere il
20.02.2014, per effetto della proroga di legge protrarrebbe
la propria esecutività fino al 20.02.2017. Ma
la portata
dell’estensione della proroga di legge riguarda anche i
termini previsti all’interno dalla stessa convenzione
urbanistica. Ad esempio, come già osservato, tra i
molteplici impegni, la convenzione in esame prevede che le
opere relative alla viabilità siano ultimate entro 60 mesi
(art. 3).
Anche a voler ritenere che la validità di un
termine già scaduto previsto nelle convenzione sia estesa
per altri tre anni, a far data dall’entrata in vigore del
Decreto del “Fare”, il termine così prorogato sarebbe
comunque già esaurito. La scelta interpretativa genera
rilevanti effetti in sede applicativa ed è per questo che
la
proroga della convenzione, pur derivando da una previsione
di legge, può essere recepita e regolata da un atto
ricognitivo convenzionale, quale è quello stipulato dal
Comune di Campobasso in data 24.02.2017.
Tuttavia, se di
proroga della convenzione deve trattarsi, la novazione
soggettiva costituisce una modificazione davvero importante.
Allo stesso modo, appare rilevante il fatto che la proroga
concessa dal Comune di Campobasso si estenda a un periodo di
nove anni, ben più lungo dei tre anni previsti dal Decreto
del “Fare”.
L’ambito di definizione della proroga di una convenzione
urbanistica è delimitato dall’operatività dell’istituto
della decadenza. I vizi delle opere di urbanizzazione,
l’inadempienza delle parti, la scadenza del termine di
validità del piano attuativo e della convenzione urbanistica
hanno tutti effetti decadenziali.
La decadenza è una
conseguenza sanzionatoria dell’inerzia o dell’inadempienza
di una o più parti che hanno stipulato la convenzione. La
proroga si riferisce all’inerzia, essendo un dispositivo che
differisce la data della decadenza e rimette in termini le
parti rimaste inerti, affinché diano esecuzione agli
obblighi da esse assunti con la convenzione urbanistica.
Ma
deve trattarsi delle stesse parti che hanno stipulato la
convenzione, nonché dello stesso oggetto e contenuto
negoziale, perché se l’atto di proroga modifica il contenuto
della convenzione (mediante novazione oggettiva) ovvero
sostituisce le parti stipulanti (mediante novazione
soggettiva), allora non si tratta più di una semplice
proroga, bensì di una nuova convenzione urbanistica.
Il rinnovo della convenzione -astrattamente ipotizzabile,
anche in termini di riqualificazione dell’atto preso qui in
esame– porrebbe un insormontabile problema: la convenzione
è collegata al piano attuativo, sicché una nuova convenzione
ovvero una convenzione rinnovata richiederebbe l’adozione di
un nuovo piano attuativo.
È orientamento della
giurisprudenza amministrativa ritenere che il termine
massimo di dieci anni di validità del piano attuativo,
stabilito dall'art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942
n. 1150 per i piani particolareggiati (ed esteso dall’art.
28 della legge n. 457/1978 ai piani di recupero) non sia
suscettibile di deroga neppure su accordo delle parti; la
convenzione è un atto accessorio al piano attuativo,
deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto
esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli
adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che non può
incidere sulla validità massima, prevista in legge, del
sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr.:
Cons. Stato VI, 05.07.2013 n. 5807).
Pertanto, stanti i limiti
di derogabilità del termine di validità del piano attuativo,
la normativa del Decreto del “Fare” che ha previsto la
proroga delle convenzioni urbanistiche (e dei piani
attuativi) deve essere di stretta interpretazione e
applicazione, in quanto essa produce l’effetto derogatorio
di un’ultrattività dei piani attuativi a cui le convenzioni
accedono.
Ne consegue che non si può prorogare la
convenzione per un periodo superiore a quello dei tre anni
previsti dalla legge e non si può modificare il contenuto
della convenzione né in termini oggettivi, né in termini
soggettivi, senza violare la citata normativa di cui
all’art. 16 della legge n. 1150/1942 e all’art. 28 della legge
n. 457/1978 (la qual cosa consente di valorizzare e ritenere
senz’altro fondato il secondo motivo del ricorso).
È vero che il menzionato contratto per scrittura privata del
01.02.2005, all’art. 2, comma III, statuisce con clausola
espressa, la delega alla Po. S.p.A. da parte di tutti i
fratelli (compresa la ricorrente) di procedere alla stipula,
al rinnovo o alla modifica delle convenzioni urbanistiche.
Inteso che sia un contratto valido, esso vincola le parti
private (cioè i fratelli Po.) ma non può avere rilievo
esterno, sì da vincolare il Comune alla proroga della
convenzione mediante novazione soggettiva.
Peraltro, a ben
vedere, la detta clausola contrattuale menziona la stipula,
il rinnovo, la modifica della convenzione urbanistica, ma
non la proroga, la quale non può comportare modifiche che
non siano quelle del termine di decadenza, dovendo
consistere nel mero differimento del termine di validità ed
efficacia dell’originaria convenzione, senza che ne sia
alterato il contenuto o che siano sostituite le parti
private della convenzione.
XI – Un tema che fa da sfondo all’intera questione oggetto
della controversia è quello dell’ultrattività delle
convenzioni urbanistiche.
La giurisprudenza amministrativa,
da tempo, si è soffermata sul significato del principio
generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n.
1150 del 1942 (per il quale, "decorso il termine stabilito
per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa
inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione,
rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di
osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso"),
in un orientamento a tenore del quale, fino all’approvazione di un
nuovo strumento attuativo che disciplini le aree in essi
incluse, deve riconoscersi una certa efficacia ultrattiva ai
piani attuativi scaduti (cfr.,
ex plurimis: Cons. Stato V,
30.04.2009 n. 2768; idem IV, 04.12.2007 n. 6170;
idem IV 28.07.2005, n. 4018; idem IV 02.06.2000, n.
3172; Tar Lazio Roma II, 24.01.2006, n. 508; Tar
Sicilia Palermo I, 27.04.2005, n. 638; Tar Sicilia
Catania I, 29.09.2004, n. 2718; Tar Campania
Salerno I, 07.08.1997, n. 488).
Nell’ipotesi di decadenza
dei piani attuativi è, comunque, consentita la costruzione
di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa edilizia di
zona che resta operativa a tempo indeterminato per la parte
che disciplina l’edificazione, nelle sue linee fondamentali
ed essenziali.
Il principio dell’ultrattività dei piani
attuativi, in qualche modo, ha ispirato il legislatore del
Decreto del “Fare” nel 2013, nel prevedere la proroga legale
delle convenzioni urbanistiche, ed ha ispirato anche –l’anno successivo– il legislatore del c.d. Decreto “Sblocca
Italia” (D.L. 12.09.2014 n. 133, conv. in legge n. 164/2014),
il quale ha introdotto l’art. 28-bis del D.P.R. n. 380/2001
(Testo unico dell’edilizia), per rendere diversamente
operativo il principio, mediante l’istituto del c.d.
permesso di costruire convenzionato.
Quando le esigenze di
urbanizzazione possono essere soddisfatte, sotto il
controllo comunale, con una modalità semplificata, il
privato può richiedere un permesso di costruire
convenzionato, laddove nella convenzione -che accede al
titolo edilizio ed è qualificabile come accordo integrativo
o sostitutivo, ex art. 11 della legge n. 241/1990- sono
previsti gli obblighi in capo al richiedente legati al
rilascio del titolo. Sono soggetti alla stipula della
convenzione le cessioni di aree anche al fine dell’utilizzo
di diritti edificatori, la realizzazione di opere di
urbanizzazione, le caratteristiche morfologiche degli
interventi, le modalità di attuazione per stralci
funzionali, cui si collegano oneri ed opere di
urbanizzazione da eseguire, nonché le relative garanzie. Il
presupposto di tutto ciò è la conformità dell’intervento
alle previsioni di P.R.G. che, nel caso di specie,
mancherebbe.
Qui, assume rilievo il fatto che la mancata
approvazione da parte della Regione della variante di P.R.G.
(delibera C.C. n. 82/2000), che prevedeva e legittimava il
piano di recupero “Colle delle Api”, ha restituito l’area
alla sua destinazione agricola (zona N).
Per questa ragione,
si può conclusivamente affermare (valorizzando e ritenendo
fondato anche il terzo motivo del ricorso) che, scegliendo
la via della proroga negoziale della convenzione
urbanistica, il Comune ha applicato erroneamente il Decreto
del “Fare”, dando al piano di recupero un’ultrattività in
contrasto con le previsioni del P.R.G., effetto che soltanto
la proroga triennale di legge (senza alcuna ulteriore
modifica, aggiunta, integrazione o prolungamento negoziale)
avrebbe in ipotesi potuto produrre.
Di qui l’illegittimità
dell’atto impugnato, con la conseguenza che esso deve essere
annullato.
XII - Le suesposte considerazioni sulla prorogabilità della
convenzione urbanistica alla luce della vigente normativa
non soltanto inducono a ritenere plausibili e fondate le
censure del ricorso, ma consentono di comprendere meglio in
che modo si radichino, nella specie, i presupposti
dell’interesse ad agire e della legittimazione attiva della
parte ricorrente.
L’essere tra i firmatari della convenzione
del 2004 conferisce alla ricorrente una posizione
differenziata e qualificata. Il fatto di essere esclusa
dalla firma della proroga della convenzione scaduta dà alla
ricorrente ragione di dolersi dell’illegittima ultrattività
della convenzione (e del relativo piano di recupero),
avvenuta a sua insaputa e senza il suo consenso, in quanto è
la legge, correttamente interpretata, a imporre che la
proroga avvenga “ope legis” tra le stesse parti che hanno
stipulato la convenzione originaria.
Ciò consente di tenere
in non cale, nella valutazione dell’interesse a ricorrere,
gli effetti di pregiudizio sul contestato diritto di
proprietà della ricorrente e sulla sua situazione
possessoria che, come già rilevato, risentiranno dell’esito
delle vicende giudiziarie in corso dinanzi al giudice
ordinario. |
IN EVIDENZA |
COMPETENZE GESTIONALI:
La stabile attribuzione a funzionari privi
qualifica dirigenziale del compito di adottare atti
amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il
disposto dell'art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001.
La norma (avente rango legislativo e non derogabile da parte
della contrattazione collettiva in quanto afferente profili
organizzativi) trova il proprio antecedente nelle
disposizioni del D.Lgs. n. 29 del 1993 (vigente all’epoca
della adozione del provvedimento impugnato) che attribuivano
ai dirigenti tutti i compiti di rilevanza esterna (art. 3
comma 2) e precludevano la stabile attribuzione di mansioni
superiori a funzionari privi della menzionata qualifica
(art. 57).
A ciò occorre aggiungere che, sempre secondo la
giurisprudenza della Sezione, il provvedimento sottoscritto
dal funzionario non dirigente è nullo e non semplicemente
annullabile.
---------------
... per l'annullamento
della nota (prot. gen. n. 5454/99, part. n. 535) a firma del
Funzionario del Dipartimento delle Risorse del Patrimonio,
UOC Beni Patrimoniali del Comune di Pisa del 16.03.2001, con
la quale si esprime "il diniego di concessione permanente di
suolo pubblico", relativamente ad un piccolo manufatto
situato in Pisa, Piazza ... n. 6 ed adibito ad attività di
pubblico ristoro; nonché di ogni altro atto presupposto,
conseguente e/o connesso ed in particolare della nota a
firma del dirigente del Settore Uso e Assetto del
Territorio, Servizio Gestione e Tutela del Territorio, UOC
Edilizia Privata del Comune di Pisa, del 14.03.2000 (prot.
part. 306/00/99) con la quale si esprime "parere contrario
al .......mantenimento" del chiosco de quo, sul presupposto
che questo "determini comunque un elemento di contrasto" con
le previsioni contenute negli artt. III comma e 62,2,2, I
comma del Regolamento Edilizio comunale.
...
Con ricorso straordinario, trasposto in questa sede in
seguito ad opposizione, la Società Il Pi., premesso:
a) di
esercitare una attività di somministrazione di bevande in un
chiosco costruito su una porzione di suolo pubblico
affidatale in concessione da parte del comune di Pisa;
b) di
aver richiesto all’amministrazione comunale il rinnovo della
concessione scadente nel 1989;
c) di essersi vista
respingere l’istanza in ragione del fatto che il regolamento
edilizio preluderebbe l’installazione di chioschi su suolo
pubblico nell’ambito del centro storico.
Secondo l’interessata il provvedimento sarebbe affetto:
1)
da vizio di incompetenza per essere stato sottoscritto da un
funzionario non dirigente;
2) dal difetto di istruttoria,
contraddittorietà della motivazione e lesione del legittimo
affidamento dal momento che la concessione sarebbe in
passato (e precisamente dal 1963) sempre stata rinnovata e,
comunque, su tutta la zona sarebbero presenti manufatti
analoghi;
3) contraddittorietà per essere stati espressi
nell’ambito del procedimento parere discordanti.
Fondato ed assorbente è il primo motivo di ricorso.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile
attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del
compito di adottare atti amministrativi con rilevanza
esterna contrasta con il disposto dell'art. 17, comma 1-bis,
del D.Lgs. 165/2001 (TAR Toscana, III, n. 1700/2015).
La norma (avente rango legislativo e non derogabile da parte
della contrattazione collettiva in quanto afferente profili
organizzativi) trova il proprio antecedente nelle
disposizioni del D.Lgs. n. 29 del 1993 (vigente all’epoca
della adozione del provvedimento impugnato) che attribuivano
ai dirigenti tutti i compiti di rilevanza esterna (art. 3
comma 2) e precludevano la stabile attribuzione di mansioni
superiori a funzionari privi della menzionata qualifica
(art. 57).
A ciò occorre aggiungere che, sempre secondo la
giurisprudenza della Sezione, il provvedimento sottoscritto
dal funzionario non dirigente è nullo e non semplicemente
annullabile (sentenza n. 331/2016).
Da ciò consegue il
carattere assorbente della censura fermo restando che nel
riesame della pratica l’organo competente dovrà tener conto
della situazione attuale dell’area in cui è situato il
chiosco valutando anche la possibilità del rilascio di una
concessione di durata inferiore a quella richiesta e pari a
quelle (a detta dello stesso comune) rilasciate ad altri
esercenti presenti in loco (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.12.2017 n. 1576 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
COMPETENZE GESTIONALI:
La ratifica, secondo un orientamento
giurisprudenziale del tutto pacifico, comporta il
consolidamento ex tunc degli effetti del provvedimento
viziato da incompetenza, precludendone l’annullabilità.
---------------
Tuttavia, il Collegio reputa che l’invalidità degli atti
amministrativi emessi da un dipendente privo di qualifica
dirigenziale non sia riconducibile alla categoria della
incompetenza relativa.
Il vizio di incompetenza relativa presuppone,
infatti, la violazione delle regole che ripartiscono (in
senso verticale o orizzontale) fra diversi organi di una
p.a. l’esercizio di una determinata attribuzione.
Nel caso di specie, invece, si verte in una ipotesi in cui
il provvedimento contestato è stato emanato da un
funzionario di fatto la cui preposizione all’ufficio
dirigenziale deve considerarsi nulla e i cui atti non
possono, conseguentemente, essere imputati al comune di
Pietrasanta.
Per meglio chiarire tale assunto occorre ricordare che,
secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile
attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del
compito di adottare atti amministrativi con rilevanza
esterna contrasta con il disposto dell’art. 17, comma 1-bis,
del D.Lgs. 165/2001 in base al quale la delega di funzioni
dirigenziali a dipendenti privi di tale qualifica può
avvenire solo per un periodo di tempo limitato e per
specifiche e comprovate ragioni di servizio.
Nel caso di specie il comune, al quale spettava l’onere di
giustificare i poteri esercitati dal proprio funzionario non
dirigente, non ha specificato in forza di quale delega egli
abbia agito, né ha prodotto nulla al riguardo. Ciò
considerato, il Tribunale deve, pertanto, ritenere che,
nella specie, non vi fosse una delega conforme ai parametri
ed ai limiti previsti dall’art. 17-bis del D.Lgs 165/2001.
In difetto di una siffatta delega la attribuzione a
funzionari apicali di funzioni dirigenziali si risolve in
una illecita attribuzione di mansioni superiori sanzionata
con la nullità dal comma 5° dell’art. 52 del D.Lgs. 165 del
2001. Nullità che non produce conseguenze solo sul piano del
rapporto di lavoro fra amministrazione e dipendente ma anche
su quello del rapporto organico discendente dalla
preposizione all’ufficio che, in presenza di un atto di
investitura nullo, non può venire in essere.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali nel nostro sistema
è, infatti, soggetta alla regola del previo svolgimento e
superamento di un concorso pubblico (parimenti presidiata
dalla sanzione della nullità, Cons. Stato Ad. Plen. nn. 1 e
2 del 1992) che non può essere aggirata attraverso il
conferimento di deleghe che non rispettino i limiti
temporali e funzionali tassativamente previsti dalla legge
(si veda sul tema Corte cost. 37/2015).
---------------
Tutto ciò chiarito resta da sciogliere il nodo della sorte
degli atti adottati dai funzionari a cui le funzioni
dirigenziali sono state invalidamente conferite.
Ritiene il Collegio che nel caso di specie non possa trovare
applicazione la giurisprudenza del Giudice amministrativo
d’appello secondo la quale i vizi che rendono illegittimo
l’atto di nomina non inficiano la validità degli atti emessi
dall’organo illegittimamente costituito. Tale giurisprudenza
riguarda, infatti, ipotesi in cui l’atto di investitura
risulta affetto da vizi che ne comportano l’annullabilità e
non la nullità radicale derivante da violazione di norme
imperative espressamente assistite da tale tipologia di
sanzione proprio al fine di impedire che l’atto possa
produrre effetti giuridici ancorché solo precari.
Nemmeno può essere applicata la giurisprudenza che fa salvi
gli atti adottati dal funzionario di fatto allorché vi sia
l’esigenza di salvaguardare l’affidamento e la buona fede
dei terzi, posto che, tale regola non opera allorché sia il
terzo stesso ad insorgere negando il potere del funzionario
che ha emesso l'atto.
Deve, invece, ritenersi che gli atti adottati dai funzionari
ai quali sono state illegalmente attribuite funzioni
dirigenziali debbano considerarsi affetti da nullità
strutturale per mancanza di elementi essenziali ai sensi
dell’art. 21-septies della L. 241 del 1990. La valida
investitura dell’autore del provvedimento costituisce,
infatti, un requisito senza il quale la volontà da egli
espressa non può essere riferita alla amministrazione,
costituendo le qualità professionali di chi emana l'atto una
essenziale garanzia per il cittadino che entra in contatto
con la p.a..
I provvedimenti in data 18.04.2013 con i quali il
funzionario istruttore privo di qualifica dirigenziale ha
disposto il diniego di sanatoria e ordinato la demolizione
del manufatto abusivamente realizzato, essendo affetti da
nullità, non erano, quindi, suscettibili di essere
ratificati o convalidati, potendo la ratifica e la convalida
sanare esclusivamente agli atti che hanno prodotto i loro
effetti, precludendone il successivo annullamento.
Nondimeno, la ratifica adottata dal dirigente in data
18/02/2015 possiede tutti i requisiti formali e sostanziali
per essere considerata alla stregua di un autonomo
provvedimento di diniego di sanatoria ed irrogazione della
sanzione demolitoria i cui effetti decorrono, però, ex nunc
dal momento della sua adozione con conseguente applicabilità
del disposto dell’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 69 del 2013.
---------------
La materia del contendere resta, quindi, limitata, alla
impugnativa del diniego di sanatoria in data 18/04/2013,
dell’ordinanza di demolizione in data 13/06/2013 e della
ratifica dei dure provvedimenti adottata in data 18/02/2015.
Il punto controverso della intera vicenda ruota intorno al
fatto se l’immobile ricostruito dalla ricorrente abbia o
meno una maggiore altezza di quello preesistente, poiché da
tale circostanza dipende la qualificazione dell’intervento
come ristrutturazione o sostituzione edilizia e, quindi, la
sua conformità urbanistica.
Le ricorrenti affermano che nel misurare l’altezza del
fabbricato il comune avrebbe tenuto conto della presenza sul
colmo della struttura (ancora al grezzo) di opere
provvisionali destinate a scomparire a seguito del suo
completamento.
Secondo il comune, invece, le predette opere farebbero parte
della struttura del tetto in corso di realizzazione e,
quindi, concorrerebbero a determinarne l’altezza.
Tuttavia, come osservato nell’ordinanza cautelare del
20/05/2015, il contestato aumento di altezza dell’immobile
perderebbe rilevanza qualora alla fattispecie in esame si
rivelasse applicabile ratione temporis l’art. 30, comma 1, del
D.L. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013 che ha eliminato
il requisito della identità di sagoma ai fini della
classificazione degli interventi di demolizione e successiva
ricostruzione nell’ambito della categoria della
ristrutturazione edilizia.
A tal fine occorre osservare che alla data in cui il
funzionario responsabile del procedimento ha adottato il
diniego di sanatoria (18.04.2014) il D.L. n. 69/2013 non
era ancora entrato in vigore, mentre il menzionato decreto
era pienamente operante alla data in cui è stato adottato il
provvedimento dirigenziale del 18/02/2015 con cui il comune
di Pietrasanta ha inteso ratificare l’operato del
funzionario delegato che aveva agito senza averne i poteri.
La ratifica, secondo un orientamento giurisprudenziale del
tutto pacifico, comporta il consolidamento ex tunc degli
effetti del provvedimento viziato da incompetenza,
precludendone l’annullabilità; sicché, qualora il vizio che
affliggeva il diniego adottato dal funzionario istruttore
fosse effettivamente riconducibile alla incompetenza
relativa, la data utile a cui riferire gli effetti del
diniego dovrebbe essere quella del 18.04.2013.
Tuttavia, il Collegio reputa che l’invalidità degli atti
amministrativi emessi da un dipendente privo di qualifica
dirigenziale non sia riconducibile alla categoria della
incompetenza relativa.
Il vizio di incompetenza relativa presuppone, infatti, la
violazione delle regole che ripartiscono (in senso verticale
o orizzontale) fra diversi organi di una p.a. l’esercizio di
una determinata attribuzione.
Nel caso di specie, invece, si verte in una ipotesi in cui
il provvedimento contestato è stato emanato da un
funzionario di fatto la cui preposizione all’ufficio
dirigenziale deve considerarsi nulla e i cui atti non
possono, conseguentemente, essere imputati al comune di
Pietrasanta.
Per meglio chiarire tale assunto occorre ricordare che,
secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile
attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del
compito di adottare atti amministrativi con rilevanza
esterna contrasta con il disposto dell’art. 17, comma 1-bis,
del D.Lgs. 165/2001 in base al quale la delega di funzioni
dirigenziali a dipendenti privi di tale qualifica può
avvenire solo per un periodo di tempo limitato e per
specifiche e comprovate ragioni di servizio (TAR Toscana,
III, n. 1700/2015).
Nel caso di specie il comune di Pietrasanta, al quale
spettava l’onere di giustificare i poteri esercitati dal
proprio funzionario non dirigente, non ha specificato in
forza di quale delega egli abbia agito, né ha prodotto nulla
al riguardo.
Ciò considerato, il Tribunale deve, pertanto, ritenere che,
nella specie, non vi fosse una delega conforme ai parametri
ed ai limiti previsti dall’art. 17-bis del D.Lgs 165/2001.
In difetto di una siffatta delega la attribuzione a
funzionari apicali di funzioni dirigenziali si risolve in
una illecita attribuzione di mansioni superiori sanzionata
con la nullità dal comma 5° dell’art. 52 del D.Lgs. 165 del
2001. Nullità che non produce conseguenze solo sul piano del
rapporto di lavoro fra amministrazione e dipendente ma anche
su quello del rapporto organico discendente dalla
preposizione all’ufficio che, in presenza di un atto di
investitura nullo, non può venire in essere.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali nel nostro sistema
è, infatti, soggetta alla regola del previo svolgimento e
superamento di un concorso pubblico (parimenti presidiata
dalla sanzione della nullità, Cons. Stato Ad. Plen. nn. 1 e
2 del 1992) che non può essere aggirata attraverso il
conferimento di deleghe che non rispettino i limiti
temporali e funzionali tassativamente previsti dalla legge
(si veda sul tema Corte cost. 37/2015).
Tutto ciò chiarito resta da sciogliere il nodo della sorte
degli atti adottati dai funzionari a cui le funzioni
dirigenziali sono state invalidamente conferite.
Ritiene il Collegio che nel caso di specie non possa trovare
applicazione la giurisprudenza del Giudice amministrativo
d’appello secondo la quale i vizi che rendono illegittimo
l’atto di nomina non inficiano la validità degli atti emessi
dall’organo illegittimamente costituito (Cons. Stato, sez.
IV, 21/05/2008 n. 2407). Tale giurisprudenza riguarda,
infatti, ipotesi in cui l’atto di investitura risulta
affetto da vizi che ne comportano l’annullabilità e non la
nullità radicale derivante da violazione di norme imperative
espressamente assistite da tale tipologia di sanzione
proprio al fine di impedire che l’atto possa produrre
effetti giuridici ancorché solo precari.
Nemmeno può essere applicata la giurisprudenza che fa salvi
gli atti adottati dal funzionario di fatto allorché vi sia
l’esigenza di salvaguardare l’affidamento e la buona fede
dei terzi, posto che, tale regola non opera allorché sia il
terzo stesso ad insorgere negando il potere del funzionario
che ha emesso l'atto (Cons. Stato, IV, 20/05/1999, n. 853).
Deve, invece, ritenersi che gli atti adottati dai funzionari
ai quali sono state illegalmente attribuite funzioni
dirigenziali debbano considerarsi affetti da nullità
strutturale per mancanza di elementi essenziali ai sensi
dell’art. 21-septies della L. 241 del 1990. La valida
investitura dell’autore del provvedimento costituisce,
infatti, un requisito senza il quale la volontà da egli
espressa non può essere riferita alla amministrazione,
costituendo le qualità professionali di chi emana l'atto una
essenziale garanzia per il cittadino che entra in contatto
con la p.a. (Cass. 09/11/2015, n. 22800; Cass. 02/12/2015 n.
24492).
I provvedimenti in data 18.04.2013 con i quali il
funzionario istruttore privo di qualifica dirigenziale ha
disposto il diniego di sanatoria e ordinato la demolizione
del manufatto abusivamente realizzato, essendo affetti da
nullità, non erano, quindi, suscettibili di essere
ratificati o convalidati, potendo la ratifica e la convalida
sanare esclusivamente agli atti che hanno prodotto i loro
effetti, precludendone il successivo annullamento.
Nondimeno, la ratifica adottata dal dirigente in data
18/02/2015 possiede tutti i requisiti formali e sostanziali
per essere considerata alla stregua di un autonomo
provvedimento di diniego di sanatoria ed irrogazione della
sanzione demolitoria i cui effetti decorrono, però, ex nunc
dal momento della sua adozione con conseguente applicabilità
del disposto dell’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 69 del 2013.
Alla luce delle predette considerazioni risulta, perciò,
fondato ed assorbente il quinto dei motivi aggiunti del
27/04/2015 con il quale si denuncia la violazione della
predetta norma che, come già detto, ha reso irrilevante la
modificazione della identità di sagoma ai fini della
qualificazione degli interventi di demolizione e
ricostruzione nell’ambito della categoria della
ristrutturazione edilizia (non trovando, peraltro, alcun
riscontro né nella motivazione degli atti impugnati né nella
istruttoria procedimentale la tesi, espressa dalla difesa
del comune di Pietrasanta secondo cui l’immobile ricostruito
eccederebbe quello preesistente anche in termini
volumetrici).
La fondatezza della predetta doglianza comporta la
illegittimità dell’ordinanza dirigenziale del 18/02/2015, da
considerarsi come autonomo provvedimento di diniego di
sanatoria e come irrogazione dell’ordine di demolizione, che
deve, conseguentemente, essere annullata (TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza 24.02.2016 n. 331 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
In linea generale, non è legittima
l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme
contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso
che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito
dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia
di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza
tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti
urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr.
1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative
e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere
annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
---------------
La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette
la disapplicazione da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato,
non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla giurisdizione generale di
legittimità.
---------------
... per la riforma della sentenza del TAR per la Calabria,
Sezione staccata di Reggio Calabria n. 2 del 03.01.2006,
resa tra le parti, con cui è stato in parte dichiarato
inammissibile e in parte rigettato il ricorso in primo grado
n.r. 257/2005 proposto per l’annullamento:
- del permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 rilasciato alla
signora Lidia Modica per la sopraelevazione di due piani
fuori terra del fabbricato esistente tra le vie Marconi e
Riviera in località Immacolata di Villa San Giovanni;
- del P.R.G. del Comune di Villa San Giovanni, approvato con
d.P.G.R. n. 1657 del 26.07.1983, limitatamente all’art. 16
delle N.T.A. quanto alle distanze tra edifici ivi previste
in zona B sottozona B2.
...
1.) Li.Tu. è comproprietaria di un immobile a tre elevazioni
(individuato in catasto alla partita 2480, foglio 3,
particella 306, sub. 3), in località Immacolata di Villa San
Giovanni, confinante a est con un preesistente immobile
composto da solo piano terra appartenente a Li.Mo..
Con il permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 il Comune
di Villa San Giovanni ha assentito la sopraelevazione di due
piani del predetto fabbricato terraneo.
Con il ricorso in primo grado n.r. 257/2005, inizialmente
notificato in data 08.04.2005 alla sola controinteressata ed
al Comune, è stato impugnato il permesso di costruire,
nonché il P.R.G., limitatamente all’art. 16 delle N.T.A.
L’interessata ha dedotto in sintesi le seguenti censure:
1) Violazione dell’art. 9 comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n.
1444, in relazione all'art. 41-quinquies della legge
urbanistica. Illegittimità derivata, perché l’art. 16 delle
N.T.A. consente nella zona B sottozona B1 una distanza
minima tra edifici pari a ml. 6 o 8, a seconda che si tratti
di tre o quattro piani, in violazione della rubricata
disciplina statale, con consequenziale illegittimità
derivata del permesso di costruire.
2) Violazione del D.M. 16.01.1996 Punto C. 3. Eccesso di potere per
travisamento dei fatti e sviamento, perché l’altezza
dell’edificio a seguito della sopraelevazione è superiore di
cm. 20 (ml. 10,05) rispetto a quella massima consentita (ml.
9,85).
3) Violazione dell'art. 41-sexies della legge urbanistica. Eccesso
di Potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché
configurandosi l’intervento edilizio come nuova costruzione
gli standard a parcheggio dovevano essere garantiti in
misura pari a 127,34 mq. in luogo di quelli previsti, pari a
79,1 mq.
...
4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito
precisati, onde in riforma della sentenza gravata deve
essere accolto il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità
dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e
quindi del primo motivo del ricorso in primo grado,
deve ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza
di questa Sezione (cfr. n. 3522 del 04.08.2016): “…in
linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del
citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge
17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge
06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non
possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali
(cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di
conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968,
essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili,
e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di
impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla
fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013,
nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr.
5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515)”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del
ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo
stata comunque sollecitata da parte ricorrente la
disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui
ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta
dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in
punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il
predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo
motivo del ricorso in primo grado.
...
5.) In conclusione l’appello deve essere accolto, onde in
riforma della sentenza gravata e in accoglimento del primo
motivo del ricorso in primo grado, deve essere annullato il
permesso di costruire che risulta illegittimo per contrasto
con le disposizioni del d.m. 1444/1968, doverosamente
applicabili in relazione alla disapplicazione
dell’illegittimo art. 16 delle N.T.A. del P.R.G. di Villa
San Giovanni (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2017 n. 5753 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea generale, non è legittima
l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme
contrastanti con
quelle del DM 02.04.1968 n. 1444,
atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega
dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150
(inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha
efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di
limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di
distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli
strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr.
1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di
imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative
e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o
revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in contrasto con
l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se
è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la
sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata
dalla fonte sovraordinata.
---------------
La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette
la disapplicazione da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato,
non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla giurisdizione generale di
legittimità.
---------------
E' pacifica la giurisprudenza secondo cui direttamente
precettive sono le norme in materia di distanze contenute
nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non
potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al
solo organo pianificatore.
---------------
Proprio con riferimento alle disposizioni contenute
nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di
quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti;
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate;
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela
della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti;
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di
pregiudizio alla salubrità degli immobili.
---------------
5. Col secondo motivo di entrambi gli appelli, sono
censurate sotto plurimi profili le conclusioni del primo
giudice, e in particolare quelle che hanno condotto alla
disapplicazione delle disposizioni delle N.T.A. che
consentivano l’edificazione fra pareti finestrate a distanza
inferiore a quella stabilita dal più volte citato art. 9,
d.m. nr. 1444/1968.
Anche queste censure sono prive di pregio.
5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale,
non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici
comunali, di norme contrastanti con quelle del citato
decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su
delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr.
1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr.
765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in
tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza
e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate
dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez.
II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni
di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla
salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie,
sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede
di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con
la conseguenza che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve
annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque
disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la
clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013,
nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale
peraltro si basava su una presunta natura non direttamente
precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr.
1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta
natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
5.2. Inoltre, va disattesa l’ulteriore censura, pure
contenuta nell’appello del controinteressato in primo grado,
secondo cui il potere di disapplicazione de quo non
avrebbe potuto nella specie essere esercitato dal primo
giudice, trattandosi di controversia avviata con ricorso
straordinario e solo successivamente riassunta dinanzi al
TAR.
La doglianza è manifestamente infondata, essendo altresì
superfluo approfondire il tema dell’esistenza o meno di
differenze fra i poteri esercitabili dall’organo decidente
nella sede giudiziale e in quella straordinaria sotto il
profilo che qui interessa, atteso che, una volta intervenuta
la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso
straordinario, il giudice adìto era certamente titolare di
tutti e gli stessi poteri che possono essere esercitati
allorché il giudizio scaturisce da ordinario ricorso
giurisdizionale, ivi compreso il potere di disapplicazione
degli atti regolamentari o generali.
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo
motivo di impugnazione dell’originario controinteressato,
non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione
suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai
rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al
riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica
giurisprudenza che direttamente precettive le norme in
materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche
nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere
intese come prescrizioni rivolte al solo organo
pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr.
1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le
parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data
dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr.
1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla
situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano
pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era
diversità di quote fra le aperture, e comunque era da
escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva
o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in
frontale contrasto con tutti i principali approdi della
giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni
contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato
osservato:
a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma
sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di
quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti
frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr.
856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354;
id., 20.07.2011, nr. 4374);
b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura
sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due
pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013,
nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di
tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove
costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici
esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile,
donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del
giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di
pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr.
2749; id., 05.12.2005, nr. 6909).
8. In conclusione, alla stregua dei superiori rilievi
s’impone una decisione di reiezione degli appelli, con la
conferma integrale della sentenza impugnata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.08.2016 n. 3522 -
commento tratto da e link a
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
E' acclarata in
giurisprudenza l’applicabilità del DPR 380/2001 ai cimiteri
costruiti su area di proprietà privata.
---------------
Con il ricorso in esame l’Arciconfraternita SS. Annunziata e S. Giuseppe
impugna il provvedimento in epigrafe del Comune di Marano di
Napoli recante il diniego della variante al permesso di
costruire n. 372/2011 chiesta dalla ricorrente in data 31.12.2014 per aggiungere, all’interno dei volumi già
autorizzati col citato permesso di costruire (concernente
l’ampliamento della Congrega della SS. Annunziata e di S
Giuseppe mediante costruzione di un piano in sopraelevazione
al corpo retrostante), n. 466 urne cinerarie da distribuire
nella fascia sovrastante i nuovi loculi e tumuli ed in
corrispondenza della pilastratura.
Il diniego di variante è stato motivato osservando che «la
realizzazione delle urne cinerarie nel piano cimiteriale
approvato con delibera di C.C. n. 6/2009 prevede la
realizzazione delle stesse nelle zone indicate in
planimetria con la sigla "CI” posizionate nei quadrati di
inumazione posti ai lati del viale principale di accesso e
quindi in aree riservate al Comune. Il dimensionamento di
tali aree soddisfa la realizzazione delle 686 urne cinerarie
(750-64) per lo sviluppo dell'intera previsione quantificata
nel piano. A ciò si aggiunge che per le congreghe private
risulta autorizzabile in via transitoria la realizzazione di
soli loculi come indicato nell'art. 15 delle norme di
attuazione del piano cimiteriale».
Il ricorso è affidato a quattro motivi di censura con i
quali, denunciando violazione di legge ed eccesso di potere
sotto più profili, la ricorrente Arciconfraternita sostiene,
in sintesi, che:
1) la variante sarebbe stata approvata per
silenzio assenso a seguito dell’inutile decorso del termine
di cui all’art. 20 del DPR n. 380/2001, esclusa la ricorrenza
nella fattispecie di vincoli relativi all'assetto
idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, ragion
per cui, per rimuovere gli effetti della variante assentita,
l’amministrazione doveva esperire i poteri di autotutela;
2)
l’intervento programmato poteva essere assentito anche
mediante S.C.I.A. postuma, trattandosi di variante non
essenziale (poiché non modifica volumi o altezze: la sagoma
e la cubatura dell’edificio restano le medesime);
3)
l’intervento interessa un’area di proprietà esclusiva della
Congregazione, sicché l’interdizione è irragionevole, atteso
che le urne non vanno a soddisfare bisogni pubblici, ma le
esigenze di sepoltura esclusivamente dei confratelli; nella
regolamentazione cimiteriale comunale non vi è alcuna
disposizione che vieti ai privati o alle congreghe la
realizzazione ex novo o la trasformazione di loculi in
cellette cinerarie; erroneo è anche il richiamo alla
presunta limitazione contenuta nell'art. 15 delle NTA al
piano cimiteriale, poiché (come chiarito dallo stesso
redattore del piano in un parere pro veritate prodotto nel
procedimento) la locuzione loculi vi è adoperata nella
generale accezione di vano murario destinato alla sepoltura
dei resti mortali di una persona, mentre, se il piano
cimiteriale davvero limitasse ad un’unica modalità
costruttiva la possibilità di ampliamento delle congreghe
per soddisfare le esigenze di sepoltura dei confratelli,
esso stesso sarebbe illegittimo per manifesta illogicità;
4)
il diniego, infine, è illegittimo anche sotto il profilo
dell’assoluto deficit istruttorio e motivazionale.
...
Il ricorso è fondato.
Incontestata la ricorrenza dei presupposti fattuali perché
la variante fosse approvata per silenzio-assenso, essendo
ampiamente decorso (dal 31.12.2014, data di presentazione
della variante, al 07.11.2016, data del diniego) il termine
stabilito dall'art. 20 DPR 380/2001, nelle proprie difese il
Comune di Marano di Napoli insiste unicamente sul fatto che,
ad impedire il perfezionamento dell’assenso tacito ed a
giustificare il diniego esplicito, starebbe il fatto della
mancanza del presupposto di diritto costituito in tesi dalla
conformità del progetto alle norme del Regolamento di
polizia mortuaria e del Piano cimiteriale, con specifico
riferimento al ritenuto contrasto del progetto con l’art. 15
delle norme di attuazione del Piano cimiteriale (autorizzabilità
di soli loculi) ed alla previsione della realizzazione di
urne cinerarie di iniziativa comunale, secondo un programma
di fabbisogno stimato in 750 unità che resterebbe, invece,
assorbito per circa il 62% dalla proposta della congrega.
Tuttavia, acclarata in giurisprudenza l’applicabilità del
DPR 380/2001 ai cimiteri costruiti su area di proprietà
privata (C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2667) come nel
caso ora in esame, va anzitutto detto che l’interpretazione
restrittiva della previsione dell’art. 15 delle norme
tecniche di attuazione del piano cimiteriale (che, con
riferimento alle congreghe religiose, recita: «… al fine di
sopperire alle esigenze di loculi è permesso, entro tre anni
[d]all’adozione del presente piano, l’ampliamento
volumetrico nella misura del 10% del volume assentito fuori
terra») non appare ragionevolmente giustificata rispetto al
significato proprio della parola, atteso che il lemma
“loculo” è comunemente registrato nei dizionari della lingua
italiana con il significato di nicchia interrata o murata
che serve a contenere una bara o un’urna cineraria.
Inoltre, la tesi che vorrebbe comunque di esclusiva
competenza comunale la realizzazione di urne cinerarie,
perché il fabbisogno programmato di 750 cellette per gli
anni a venire sarebbe già soddisfatto dalla previsione della
loro integrale realizzazione ad iniziativa pubblica in zona
CI prova troppo, perché il ragionamento, a rigore, dovrebbe
valere anche per tutti gli altri tipi di sepoltura (il piano
cimiteriale prevede un ampliamento complessivo di 23000 mq
per sopperire alle esigenze programmate per i successivi
novanta anni) sì da negare ogni tipo o forma di ampliamento
delle congreghe esistenti (si tratti di inumazioni,
colombari o altro).
In realtà, mentre l’ampliamento programmato dal Comune
risponde ad esigenze pubbliche di sepoltura, quello delle
ricorrente soddisfa esigenze diverse, proprie della
Confraternita, e perciò non contenute nel contingente
stabilito nel piano cimiteriale, ma ristrette nei soli
limiti di una misura percentuale di ampliamento volumetrico
dell’esistente, senza alcun riferimento al numero delle
sepolture.
Il ricorso va, perciò, accolto in relazione all’assorbente
fondatezza del primo e del terzo motivo di censura, con
annullamento, per l’effetto, dell’impugnato provvedimento di
diniego, prot. 31102 del 07.11.2016 (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.12.2017 n. 5784 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante nel processo
amministrativo, ai fini dell'impugnazione di una concessione
edilizia da parte di terzi interessati, il momento
identificativo della piena conoscenza deve essere fatto
risalire, di regola, all'ultimazione dei lavori edili,
atteso che solo in quel momento i terzi possono apprezzare
le caratteristiche delle opere realizzate e, quindi, avere
contezza dell'esistenza e dell'entità dei profili di
illegittimità eventualmente ravvisabili.
---------------
Tale orientamento, formatosi in materia edilizia, è valevole
anche nel caso di specie in cui la ricorrente ha potuto in
epoca ben precedente constatare l’avvenuta realizzazione
della cappella sia, quantomeno alla data del 13.11.2015, l’esistenza stessa della concessione cimiteriale n.
20/2014, si da poterne concretamente apprezzare la lesività
per l’interesse azionato.
Infatti, la “piena conoscenza” -cui fa riferimento l'art. 41 comma 2, cod. proc. amm. per
individuare il dies a quo dell'impugnazione- non può essere
intesa quale conoscenza integrale del provvedimento, che si
intende impugnare e delle sue motivazioni, atteso che -per
individuare il dies a quo di decorrenza- basta la
percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo
e degli aspetti che ne rendono evidente l'immediata e
concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato,
al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica
connessa alla previsione di un termine decadenziale per
l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa
intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto
processo, garantiti invece dalla congruità del termine
temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza
dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità
di proporre successivi motivi aggiunti.
---------------
2.- E’ materia del contendere l’azione di annullamento dei provvedimenti
in epigrafe indicati e di accertamento ai sensi dell’art. 31,
commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm. dell’illegittimità
dell’inerzia serbata nei confronti delle istanze del 20.03.2014, 17
luglio e 15.10.2015, con cui l’odierna
ricorrente contesta la legittimità dell’edicola funeraria
assentita dal Comune di Perugia e dalla locale
Soprintendenza in favore del controinteressato Ma.Ba..
2.1. - In “limine litis” va in parte respinta la richiesta
di stralcio della memoria di replica depositata dalla
ricorrente il 03.10.2017, in quanto entro i termini pur
perentori di cui all’art. 73 cod. proc. amm. nella parte in
cui con essa si replica alle eccezioni proposte dal
controinteressato solamente con la memoria depositata il 23.09.2017.
3. - In punto di fatto giova premettere come con
determinazione dirigenziale n. 189 del 21.08.2006 il
Comune di Perugia abbia bandito gara per l’assegnazione in
concessione per la durata di 99 anni di dodici manufatti
cimiteriali a valenza storico artistica posti nel civico
cimitero monumentale, tra cui il c.d. monumento Bartoli
aggiudicato al sig. Ba..
Con la SCIA dell’08.11.2012 quest’ultimo ha presentato
progetto per la costruzione di edicola funeraria sull’area
concessa implicante anche il restauro del suindicato
manufatto storico da inglobare nella nuova struttura,
progetto positivamente valutato ex art. 146 del D.lgs.
42/2004 sia dal Comune che dalla Soprintendenza.
Risultando l’opera realizzata in difformità rispetto al
progetto iniziale per sagoma e superficie, venendo ad
occupare una ulteriore porzione demaniale di 2,66 mq., il
controinteressato ha ottenuto la concessione cimiteriale
integrativa n. 20 dell’01.07.2014 ed autocertificato con
SCIA a sanatoria del 19.09.2014 la conformità
dell’intervento.
Il 20.03.2014 la ricorrente ha sollecitato l’esercizio
del potere di controllo del Comune sulla conformità della
suddetta opera, denunziando l’intervenuta autorizzazione
paesaggistica pur a fronte di evidente difformità tra l’area
oggetto di intervento e quella oggetto di concessione,
reiterando la richiesta il 15.10.2015.
Con nota del 13.11.2015 l’Amministrazione comunale
comunicava alla ricorrente di aver integrato l’originaria
concessione demaniale del 2007 con la concessione n. 20
dell’01.07.2014 relativamente all’assegnazione di
ulteriori mq. 2,66 e che a tal atto integrativo era seguita
la SCIA 2930 del 2014 nonché l’accertamento di compatibilità
paesaggistica n. 16/2015.
4. - Tanto premesso, possono esaminarsi le eccezioni in rito
sollevate dalle difese del Comune e del controinteressato.
5. - L’eccezione di irricevibilità dell’azione demolitoria
inerente la concessione demaniale integrativa n. 20/2014 di
cui al ricorso introduttivo e motivi aggiunti è fondata.
Come documentato dalla difesa comunale il manufatto
cimiteriale in oggetto è stato ultimato sin dal 26.02.2015 mentre il ricorso introduttivo è stato notificato
soltanto il 30.11.2015, in palese violazione del
termine decadenziale di 60 giorni decorrente dalla “piena
conoscenza” di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm.
Per giurisprudenza costante -da cui il Collegio non ravvisa
ragioni per discostarsi- nel processo amministrativo, ai
fini dell'impugnazione di una concessione edilizia da parte
di terzi interessati, il momento identificativo della piena
conoscenza deve essere fatto risalire, di regola,
all'ultimazione dei lavori edili, atteso che solo in quel
momento i terzi possono apprezzare le caratteristiche delle
opere realizzate e, quindi, avere contezza dell'esistenza e
dell'entità dei profili di illegittimità eventualmente
ravvisabili (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 626; id. sez. IV, 25.05.2017, n. 2453,
id. sez. IV, 13.01.2017, n. 66; TAR Sicilia, Catania
sez. II, 22.08.2017, n. 2066).
Tale orientamento, formatosi in materia edilizia, è valevole
anche nel caso di specie in cui la ricorrente ha potuto in
epoca ben precedente constatare l’avvenuta realizzazione
della cappella sia, quantomeno alla data del 13.11.2015, l’esistenza stessa della concessione cimiteriale n.
20/2014, si da poterne concretamente apprezzare la lesività
per l’interesse azionato.
Infatti, la “piena conoscenza” -cui fa riferimento l'art. 41 comma 2, cod. proc. amm. per
individuare il dies a quo dell'impugnazione- non può essere
intesa quale conoscenza integrale del provvedimento, che si
intende impugnare e delle sue motivazioni, atteso che -per
individuare il dies a quo di decorrenza- basta la
percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo
e degli aspetti che ne rendono evidente l'immediata e
concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato,
al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica
connessa alla previsione di un termine decadenziale per
l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa
intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto
processo, garantiti invece dalla congruità del termine
temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza
dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità
di proporre successivi motivi aggiunti (ex plurimis
Consiglio di Stato, sez. V, 31.08.2017, n. 4129).
5.1. - Ne consegue la tardività del gravame quanto alle
doglianze veicolate nei confronti della concessione n.
20/2014.
...
8. - Il ricorso può dunque a tutto concedere essere
esaminato nel merito soltanto quanto alle doglianze dirette
nei confronti della SCIA a sanatoria del 2014, della quale
la ricorrente è stata notiziata soltanto il 13.11.2015.
9. - Per la suindicata parte il ricorso è infondato e va
respinto.
La pretesa azionata dalla ricorrente muove dall’erroneo
presupposto dell’applicabilità alla fattispecie per cui è
causa della disciplina urbanistico-edilizia in tema di
distanze minime tra edifici compendiata dall’art. 873 c.c.
dolendosi dell’eccessiva vicinanza della cappella realizzata
dal controinteressato.
In realtà ritiene il Collegio che la contestata conformità
dell’opera debba essere esaminata esclusivamente alla luce
del rapporto concessorio tra il Comune di Perugia ed i
concessionari delle aree demaniali disciplinato nella specie
dal regolamento comunale di Polizia Mortuaria del 23.12.1937 depositato in giudizio, venendo in questione
non già costruzioni erette sopra il suolo bensì sepolcri a
terra di modeste dimensioni.
L’art. 165 del suddetto regolamento, già vigente al momento
della presentazione della prima SCIA e della realizzazione
dell’opera, prevede la possibilità di ampliamenti dell’area
data in concessione previa integrazione del canone
concessorio. L’art. 55, c. 8, del regolamento stabilisce poi
unicamente che la costruzione delle opere non deve essere
“di pregiudizio per le opere confinanti”, pregiudizio in
concreto del tutto indimostrato dalla sig.ra Mi..
Del tutto dirimente, ad ogni caso, è il disposto di cui
all’art. 62, c. 8, del suddetto Regolamento secondo cui “i
concessionari non acquisiscono alcun diritto che siano
conservate le distanze o lo stato delle opere e delle aree
attigue, che il Comune può in ogni tempo modificare” quale
estrinsecazione del generale principio per cui la posizione
del concessionario di area demaniale è comunque recessiva
rispetto alle esigenze di tutela dell’ordine e buon governo
del cimitero (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.10.2015, n. 4943).
Ne consegue l’inconsistenza delle doglianze dedotte, dal
momento che la SCIA a sanatoria è risultata persino
superflua, in considerazione dell’interesse pubblico sotteso
alla concessione integrativa n. 20/2014, come detto oramai
del tutto intangibile, nonché della stessa minima entità
della modificazione della sagoma dell’edicola funeraria, non
percepibile dall’esterno, si da escludere una alterazione
degli stessi valori paesaggistici come correttamente
ritenuto dalla locale Soprintendenza.
10. - Per i suesposti motivi il ricorso come integrato dai
motivi aggiunti è in parte irricevibile, in parte
inammissibile ed in parte infondato (TAR Umbria,
sentenza 28.11.2017 n. 724 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La normativa generale di disciplina dei beni pubblici è
contenuta negli articoli 822 e seguenti del codice civile.
Dalla lettura degli articoli 822 e 824 cod. civ. si desume
che i beni demaniali possono essere necessari o eventuali (o
accidentali).
I primi, per le loro qualità intrinseche, sono sottratti in
assoluto alla proprietà privata e possono appartenere
soltanto allo Stato o alle Regioni: si tratta del demanio
marittimo, idrico e militare (artt. 822, primo comma, cod.
civ.).
I secondi possono, invece, essere oggetto di proprietà
privata e soltanto se appartengono ad un ente territoriale
fanno parte del relativo demanio: tra questi il terzo comma
dell’art. 824 cod. civ. include espressamente anche i
«cimiteri».
La normativa di settore è contenuta nelle seguenti
disposizioni:
- l’art. 107 del d.r. n. 448 del 1892 prevede che «i
cimiteri particolari esistenti o da costruirsi per uso di un
gruppo di popolazione, di congregazioni, o di qualsiasi
altra associazione civile o religiosa, sono sempre
sottoposti alla immediata vigilanza dell'autorità comunale»
(tale norma è stata abrogata da regio decreto 21.12.1942, n. 1880);
- l’art. 340 del regio decreto del 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) dispone
che: «e’ vietato di seppellire un cadavere in luogo diverso
dal cimitero. E' fatta eccezione per la tumulazione di
cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al
pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore
di quella stabilita per i cimiteri»;
- l’art. 104, comma 4, del d.P.R. 10.08.1990, n. 285
(Approvazione del Nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria) ha
previsto che «le cappelle private costruite fuori dal
cimitero, nonché i cimiteri particolari, preesistenti alla
data di entrata in vigore del testo unico delle leggi
sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n.
1265, sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla
vigilanza dell'autorità comunale».
---------------
Dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante risulta
erronea la prospettazione dell’appellante secondo cui i
cimiteri possono essere solo pubblici e quelli “particolari”
appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici
sarebbero soltanto quelli creati prima del 1942 e che dopo
tale data sarebbe possibile solo la continuazione di quelli
precedenti.
Il dato rilevante, ai fini della individuazione della
disciplina applicabile, è costituito dalla individuazione
del soggetto proprietario del cimitero.
Nella fattispecie in esame, gli odierni appellati hanno
dimostrato che l’area cimiteriale è di proprietà delle
Arciconfraternite.
In tale ottica ricostruttiva, non assumono rilievo le
doglianze relative alla circostanza che il cimitero non sia
una mera continuazione di quello creato prima del 1942 ma
sia un nuovo cimitero, nonché la mancata destinazione dello
stesso ai soli associati all’Arciconfraternite.
In relazione al primo aspetto, la normativa vigente non
esclude che vi possano essere nuovi cimiteri che non siano
pubblici e dunque non si può sostenere che la qualificazione
dell’intervento edilizio come ampliamento del cimitero
precedente sarebbe da solo sufficiente a fare perdere allo
stesso natura di cimitero particolare trasformandolo in
cimitero pubblico. In ogni caso, come si dirà oltre, si è in
presenza di interventi edilizi che non hanno dato vita ad un
nuovo cimitero bensì alla demolizione e ricostruzione di
manufatti preesistenti con creazione di nuovi loculi, senza
modificazione di volume e sagoma.
In relazione al secondo aspetto, nessuna norma impone la
predetta destinazione e soprattutto prevede l’applicazione
di sanzioni, quale la “trasformazione” in pubblico del
cimitero, qualora essa non venga rispettata.
---------------
L'appellante assume:
- la violazione dell’art. 30 del regolamento di polizia mortuaria,
secondo cui comporta la decadenza dal permesso di costruire
l’esecuzione di opere difformi determinanti variazioni
essenziali, tra le quali rientrerebbero quelle poste in
essere dalle odierne parti resistenti;
- le norme del regolamento si applicherebbero, in ogni caso, in
ragione della loro valente cogente in grado di
eterointegrare la convenzione, anche perché solo così si
potrebbe assicurare il rispetto delle prescrizioni di
carattere igienico-sanitario;
- l’art. IX della convenzione dispone che il mancato rispetto anche
solo di una clausola derivante dalla convenzione comporta la
decadenza del permesso di costruire.
I motivi non sono fondati in quanto:
- le norme del regolamento trovano applicazione
esclusivamente in presenza di cimiteri di proprietà pubblica
che vengono dati in concessione mentre nel caso in esame si
è in presenza, come già sottolineato, di un cimitero
costruito su area di proprietà delle resistenti, con la
conseguenza che trovano applicazione esclusivamente le norme
poste dal d.lgs. n. 308 del 2001;
- l’applicazione in funzione integrativa cogente delle norme
regolamentati è esclusa dal fatto che tale integrazione
presuppone non solo la presenza di prescrizioni imperative
ma anche e soprattutto la dimostrazione che esse
disciplinano un rapporto nel cui ambito dovrebbero
integrarsi;
- la clausola della convenzione è generica e, in ogni caso,
non contiene disposizioni che sanciscano la decadenza del
permesso di costruire in caso di interventi appartenenti
alla tipologia di quelli contestati in questa sede.
Chiarito ciò, la legittimità degli atti impugnati deve
essere vagliata alla luce di quanto prescritto dal d.lgs. n.
380 del 2001, secondo cui l’essenzialità della variazione
ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni:
a) mutamento della destinazione d'uso
che implichi variazione degli standards previsti dal decreto
ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente
della cubatura o della superficie di solaio da valutare in
relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero
della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di
edilizia antisismica, quando non attenga a fatti
procedurali.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità
dei provvedimenti con i quali il Comune di Napoli ha
decretato la decadenza delle Arciconfraternite da alcuni
titoli edilizi che erano stati ottenuti, nel corso degli
anni, per l’esecuzione di una serie di interventi edilizi
all’interno del Cimitero di Fuorigrotta, sito in Napoli,
quartiere Fuorigrotta.
2.– L’appello non è fondato.
2.1.– Con un primo motivo il Comune assume l’erroneità della
sentenza impugnata nella parte in cui non ha rilevato che il
cimitero debba considerarsi demaniale.
In particolare,
l’appellante ha rilevato che l’art. 824 c.c. si limita ad
effettuare una mera classificazione dei tipi cimiteriali,
distinguendo i cimiteri demaniali, che sarebbero “la regola”
e i cimiteri non demaniali, che sarebbero l’“eccezione”. La
normativa, anteriore al codice civile, ammetterebbe cimiteri
particolari quali ipotesi eccezionali. Ma tale
inquadramento, nel caso di specie, non sarebbe possibile, in
quanto le Arciconfraternite, con gli interventi realizzati
che hanno portato ad aumentare il numero dei posti
disponibili da 1341 a 4559, avrebbero creato un “nuovo
cimitero particolare”.
Ne conseguirebbe che, non venendo in
rilievo la mera continuazione di cimiteri particolari
preesistenti, il cimitero in esame dovrebbe considerarsi
pubblico.
Il motivo non è fondato.
La normativa generale di disciplina dei beni pubblici è
contenuta negli articoli 822 e seguenti del codice civile.
Dalla lettura degli articoli 822 e 824 cod. civ. si desume
che i beni demaniali possono essere necessari o eventuali (o
accidentali).
I primi, per le loro qualità intrinseche, sono sottratti in
assoluto alla proprietà privata e possono appartenere
soltanto allo Stato o alle Regioni: si tratta del demanio
marittimo, idrico e militare (artt. 822, primo comma, cod.
civ.).
I secondi possono, invece, essere oggetto di proprietà
privata e soltanto se appartengono ad un ente territoriale
fanno parte del relativo demanio: tra questi il terzo comma
dell’art. 824 cod. civ. include espressamente anche i
«cimiteri».
La normativa di settore è contenuta nelle seguenti
disposizioni:
- l’art. 107 del d.r. n. 448 del 1892 prevede che «i
cimiteri particolari esistenti o da costruirsi per uso di un
gruppo di popolazione, di congregazioni, o di qualsiasi
altra associazione civile o religiosa, sono sempre
sottoposti alla immediata vigilanza dell'autorità comunale»
(tale norma è stata abrogata da regio decreto 21.12.1942, n. 1880);
- l’art. 340 del regio decreto del 27.07.1934, n. 1265
(Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) dispone
che: «e’ vietato di seppellire un cadavere in luogo diverso
dal cimitero. E' fatta eccezione per la tumulazione di
cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al
pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore
di quella stabilita per i cimiteri»;
- l’art. 104, comma 4, del d.P.R. 10.08.1990, n. 285
(Approvazione del Nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria) ha
previsto che «le cappelle private costruite fuori dal
cimitero, nonché i cimiteri particolari, preesistenti alla
data di entrata in vigore del testo unico delle leggi
sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n.
1265, sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla
vigilanza dell'autorità comunale».
Dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante risulta
erronea la prospettazione dell’appellante secondo cui i
cimiteri possono essere solo pubblici e quelli “particolari”
appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici
sarebbero soltanto quelli creati prima del 1942 e che dopo
tale data sarebbe possibile solo la continuazione di quelli
precedenti.
Il dato rilevante, ai fini della individuazione della
disciplina applicabile, è costituito dalla individuazione
del soggetto proprietario del cimitero.
Nella fattispecie in esame, gli odierni appellati hanno
dimostrato che l’area cimiteriale è di proprietà delle
Arciconfraternite. Del resto, lo stesso Comune appellante
non ha specificamente contestato questo dato.
In tale ottica ricostruttiva, non assumono rilievo le
doglianze relative alla circostanza che il cimitero non sia
una mera continuazione di quello creato prima del 1942 ma
sia un nuovo cimitero, nonché la mancata destinazione dello
stesso ai soli associati all’Arciconfraternite.
In relazione al primo aspetto, la normativa vigente non
esclude che vi possano essere nuovi cimiteri che non siano
pubblici e dunque non si può sostenere che la qualificazione
dell’intervento edilizio come ampliamento del cimitero
precedente sarebbe da solo sufficiente a fare perdere allo
stesso natura di cimitero particolare trasformandolo in
cimitero pubblico. In ogni caso, come si dirà oltre, si è in
presenza di interventi edilizi che non hanno dato vita ad un
nuovo cimitero bensì alla demolizione e ricostruzione di
manufatti preesistenti con creazione di nuovi loculi, senza
modificazione di volume e sagoma.
In relazione al secondo aspetto, nessuna norma impone la
predetta destinazione e soprattutto prevede l’applicazione
di sanzioni, quale la “trasformazione” in pubblico del
cimitero, qualora essa non venga rispettata.
2.2.– Con un secondo e terzo motivo si assume:
- la violazione dell’art. 30 del regolamento di polizia mortuaria,
secondo cui comporta la decadenza dal permesso di costruire
l’esecuzione di opere difformi determinanti variazioni
essenziali, tra le quali rientrerebbero quelle poste in
essere dalle odierne parti resistenti;
- le norme del regolamento si applicherebbero, in ogni caso, in
ragione della loro valente cogente in grado di
eterointegrare la convenzione, anche perché solo così si
potrebbe assicurare il rispetto delle prescrizioni di
carattere igienico-sanitario;
- l’art. IX della convenzione dispone che il mancato rispetto anche
solo di una clausola derivante dalla convenzione comporta la
decadenza del permesso di costruire.
I motivi non sono fondati in quanto:
- le norme del regolamento trovano applicazione
esclusivamente in presenza di cimiteri di proprietà pubblica
che vengono dati in concessione mentre nel caso in esame si
è in presenza, come già sottolineato, di un cimitero
costruito su area di proprietà delle resistenti, con la
conseguenza che trovano applicazione esclusivamente le norme
poste dal d.lgs. n. 308 del 2001;
- l’applicazione in funzione integrativa cogente delle norme
regolamentati è esclusa dal fatto che tale integrazione
presuppone non solo la presenza di prescrizioni imperative
ma anche e soprattutto la dimostrazione che esse
disciplinano un rapporto nel cui ambito dovrebbero
integrarsi;
- la clausola della convenzione è generica e, in ogni caso,
non contiene disposizioni che sanciscano la decadenza del
permesso di costruire in caso di interventi appartenenti
alla tipologia di quelli contestati in questa sede.
Chiarito ciò, la legittimità degli atti impugnati deve
essere vagliata alla luce di quanto prescritto dal d.lgs. n.
380 del 2001, secondo cui l’essenzialità della variazione
ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle
seguenti condizioni: «a) mutamento della destinazione d'uso
che implichi variazione degli standards previsti dal decreto
ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente
della cubatura o della superficie di solaio da valutare in
relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di
parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero
della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio
assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di
edilizia antisismica, quando non attenga a fatti
procedurali».
Nella fattispecie in esame, l’appellante non ha dimostrato
che ricorra alcuna delle fattispecie sopra indicate. Né, è
bene aggiungere, può obiettarsi che la ricostruzione della
disciplina applicabile può comportare la violazione delle
prescrizioni a tutela della salute pubblica, in quanto non
risultano violate disposizioni che rischiano di recare
pregiudizio alla salute pubblica e, qualora ciò dovesse
verificarsi, le amministrazioni competenti sono titolari dei
necessari poteri di prevenzione e di tutela.
2.3.– Il rigetto dei motivi sopra indicati rende non
necessario l’esame del motivo (indicato nell’atto di appello
come secondo) con cui il Comune ha assunto di avere
rispettato le norme poste a garanzia della partecipazione al
procedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.06.2016 n. 2667 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal sopralluogo effettuato dagli uffici comunali
risulta che:
- è stata realizzata ex novo un’edicola funeraria in luogo
di un manufatto funerario preesistente, di altezza e
superficie inferiore a quello edificato;
- la sagoma del nuovo manufatto è notevolmente difforme da
quello precedente;
- la nuova edicola funeraria consente un numero maggiore di
tumulazioni.
Il Comune, trattandosi di nuova edificazione, ha
correttamente ritenuto necessaria l’autorizzazione comunale.
Il regolamento cimiteriale prevede, infatti, espressamente che
necessitino di permesso gli interventi edilizi i quali, come
quello in esame, comportino la realizzazione di nuovi
edifici, incrementi volumetrici e di superfici e il
mutamento del numero e della tipologia delle sepolture.
L’art. 49 del medesimo regolamento dispone altresì che la
realizzazione di opere in difformità o in assenza del
permesso di costruire, ove necessario, comporti la decadenza
dalla concessione.
Alla luce delle risultanze dell’accertamento comunale non
può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui le
opere realizzate hanno una portata trascurabile in quanto la
normativa regolamentare prevede espressamente la necessità
del permesso edilizio per opere della tipologia realizzata.
Si deve poi escludere che la proposizione di una domanda di
permesso in sanatoria ex art. 36 DPR/2001 possa aver
comportato l’automatica inefficacia della determina n.
34/2008.
La concessione da parte del Comune di aree o porzioni di un
cimitero pubblico è, come meglio esposto in seguito,
soggetta al regime demaniale dei beni, il quale si atteggia
in modo diverso rispetto alla ordinaria disciplina edilizia.
Ne deriva che le norme richiamate integrano parte di una
regolamentazione autonoma e, per molti versi, eterogenea
rispetto a quella recata per l’attività edilizia libera,
cosicché il meccanismo disciplinato dall’art. 36 DPR
380/2001 in materia di concessioni cimiteriali non assume
alcun valore di principio generale.
---------------
Si deve escludere che le opere realizzate (realizzazione ex
novo di edicola funeraria) potessero essere realizzate
tramite DIA in base alle norme previste dal TU Edilizia DPR
380/2001, in primo luogo perché con tutta evidenza
l’intervento ha dato luogo ad una nuova costruzione, per cui
sarebbe necessario il rilascio di un permesso di costruire.
Peraltro, come già ricordato, il regolamento cimiteriale
prevede che opere della tipologia descritte siano sottoposte
a permesso edilizio e che, in ogni caso, un’edificazione
eseguita in assenza delle autorizzazioni prescritte implica
la decadenza della concessione e la demolizione delle opere
abusive.
Tale disciplina si distingue da quella prevista per opere
edilizie realizzate su fondi privati, in quanto trattandosi
di area demaniale in concessione, vincolata a scopi
funerari, il regime edilizio presenta caratteristiche più
restrittive, soggiacendo ai poteri regolatori e conformativi
di stampo pubblicistico.
In questa prospettiva lo ius sepulcri vantato dal ricorrente
attiene ad una fase di utilizzo del bene che segue lo
sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella
e che soggiace all'applicazione del regolamento di polizia
mortuaria. Questa disciplina si colloca ad un livello ancora
più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del
concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine
igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico.
---------------
E' infondata la censura secondo cui l’acquisizione dell’area
(cimiteriale) sia avvenuta senza la previa notifica
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive secondo lo
schema procedimentale di cui all’art. 31 DPR 380/2001.
Invero, il provvedimento gravato non viene assunto in
applicazione del citato art. 31 che concerne l’edificazioni
abusiva su immobili privati ma, si ribadisce, costituisce
un’esplicazione dei poteri in capo al Comune quale autorità
concedente di un’area demaniale; il Comune infatti con il
provvedimento impugnato mira a reprimere un’attività
edilizia abusivamente realizzata su un terreno che non
appartiene al privato ed è soggetto alla disciplina
pubblicistica dei beni demaniali.
Tale regime giuridico è comprovato dall'art. 824, secondo
comma, cod. civ., a norma del quale i cimiteri comunali sono
soggetti al regime giuridico del demanio pubblico.
Con la detta disposizione si è introdotta una conformazione
generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi
diritti: ne consegue la natura pacificamente concessoria del
diritto di sepolcro.
In questa prospettiva, la decadenza dalla posizione di
concessionario dell’area comporta la perdita della proprietà
del bene ivi costruito in quanto non è possibile separare il
suolo demaniale dall'elemento funerario sopra di esso
realizzato, formando i due beni un unicum inscindibile anche
in base ai principi generali che presiedono all'istituto del
diritto di superficie di cui all'art. 953 cod. civ.: si
tratta del c.d. effetto devolutivo, in base al quale le
opere edilizie realizzate al di sopra di beni demaniali
acquisiscono anch'esse, allo scadere della concessione, la
medesima natura di bene pubblico (si veda in tal senso pure
l'art. 44 del citato regolamento comunale di polizia
mortuaria, a norma del quale "i manufatti costruiti da
privati su aree cimiteriali poste in concessione diventano
di proprietà dell'Amministrazione Comunale come previsto
dall'art. 953 del C.C., allo scadere della concessione, se
non rinnovata").
Di qui la trasformazione in bene demaniale anche del
manufatto, per effetto del provvedimento di decadenza in
questa sede gravato, e la possibilità che lo stesso possa
essere affidato ulteriormente in concessione sulla base
delle regole e dei principi vigenti in materia.
---------------
1. Il sig. Re. è proprietario di una cappella (cd. cappella Sg.Fe.) presso il cimitero di Poggioreale a Napoli,
acquistata nel 2006 dal precedente proprietario, quale
concessionario del suolo cimiteriale.
Con atto del 20.10.2006 il Comune di Napoli ha notificato al
ricorrente l’avvio del procedimento di decadenza dalla
concessione, contestandogli l’esecuzione abusiva di opere
edilizie.
Con la determina impugnata n. 35 del 21.04.2008 il Comune ha
poi, definendo il procedimento avviato, disposto la
decadenza della concessione del suolo cimiteriale e
l’acquisizione della relativa cappella al patrimonio
comunale.
Il sig. Re. ha impugnato con il ricorso in epigrafe il
detto provvedimento denunziando i seguenti vizi:
- violazione di legge, eccesso di potere, difetto di
istruttoria, violazione dell’art. 97 Cost.;
- violazione di legge, violazione del principio della tutela
dell’affidamento, carenza di motivazione, eccesso di potere
per illogicità, contraddittorietà e ingiustizia manifesta;
- violazione art. 7 L. 94/1982, violazione art. 10 L.
47/1985, eccesso di potere per sviamento, esorbitanza;
- violazione di legge, eccesso di potere per difetto di
istruttoria, errore sui presupposti di legge, violazione del
giusto procedimento, eccesso di potere per sviamento,
illegittimità dell’art. 49 del regolamento comunale di
polizia mortuaria per violazione dell’art. 31 DPR 380/2001;
- eccessiva durata del procedimento, ulteriore eccesso di
potere, violazione del principio dell’affidamento;
- manifesta incompetenza, eccesso di potere.
...
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Con il primo motivo si deduce che le opere realizzate in
assenza di autorizzazione sarebbero di portata minimale e
non avrebbero comportato la necessità del rilascio di un
permesso edilizio.
Il motivo non ha pregio.
Dal sopralluogo effettuato dagli uffici comunali (verbale
prot. 2679/2006) risulta che presso la Cappella Sg.:
- è stata realizzata ex novo un’edicola funeraria in luogo
di un manufatto funerario preesistente, di altezza e
superficie inferiore a quello edificato;
- la sagoma del nuovo manufatto è notevolmente difforme da
quello precedente;
- la nuova edicola funeraria consente un numero maggiore di
tumulazioni.
Il Comune, trattandosi di nuova edificazione, ha
correttamente ritenuto necessaria l’autorizzazione comunale
(art. 29 del regolamento comunale di Polizia mortuaria del
21.02.2006 - delibera CC 11/2006, e per la disciplina
previgente art. 231 dello stesso regolamento).
Il regolamento cimiteriale prevede infatti espressamente che
necessitino di permesso gli interventi edilizi i quali, come
quello in esame, comportino la realizzazione di nuovi
edifici, incrementi volumetrici e di superfici e il
mutamento del numero e della tipologia delle sepolture.
L’art. 49 del medesimo regolamento dispone altresì che la
realizzazione di opere in difformità o in assenza del
permesso di costruire, ove necessario, comporti la decadenza
dalla concessione.
Alla luce delle risultanze dell’accertamento comunale non
può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui le
opere realizzate hanno una portata trascurabile in quanto la
normativa regolamentare prevede espressamente la necessità
del permesso edilizio per opere della tipologia realizzata.
Si deve poi escludere che la proposizione di una domanda di
permesso in sanatoria ex art. 36 DPR/2001 possa aver
comportato l’automatica inefficacia della determina n.
34/2008.
La concessione da parte del Comune di aree o porzioni di un
cimitero pubblico è, come meglio esposto in seguito,
soggetta al regime demaniale dei beni, il quale si atteggia
in modo diverso rispetto alla ordinaria disciplina edilizia.
Ne deriva che le norme richiamate integrano parte di una
regolamentazione autonoma e, per molti versi, eterogenea
rispetto a quella recata per l’attività edilizia libera,
cosicché il meccanismo disciplinato dall’art. 36 DPR
380/2001 in materia di concessioni cimiteriali non assume
alcun valore di principio generale.
...
2.3. Con il terzo motivo si deduce che le opere realizzate
sarebbero soggette, eventualmente, a DIA e quindi
assoggettabili a sanzione pecuniaria.
La censura non ha pregio.
Si deve escludere che le opere realizzate potessero essere
realizzate tramite DIA in base alle norme previste dal TU
Edilizia DPR 380/2001, in primo luogo perché con tutta
evidenza l’intervento ha dato luogo ad una nuova
costruzione, per cui sarebbe necessario il rilascio di un
permesso di costruire.
Peraltro, come già ricordato, il regolamento cimiteriale
(artt. 29 e 49) prevede che opere della tipologia descritte
siano sottoposte a permesso edilizio e che, in ogni caso,
un’edificazione eseguita in assenza delle autorizzazioni
prescritte implica la decadenza della concessione e la
demolizione delle opere abusive; tale disciplina si
distingue da quella prevista per opere edilizie realizzate
su fondi privati, in quanto trattandosi di area demaniale in
concessione, vincolata a scopi funerari, il regime edilizio
presenta caratteristiche più restrittive, soggiacendo ai
poteri regolatori e conformativi di stampo pubblicistico; in
questa prospettiva lo ius sepulcri vantato dal ricorrente
attiene ad una fase di utilizzo del bene che segue lo
sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella
e che soggiace all'applicazione del regolamento di polizia
mortuaria. Questa disciplina si colloca ad un livello ancora
più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del
concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine
igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine
pubblico (Tar Napoli sez. VII n. 920/2014, Cons. Stato n.
1330/2010).
2.4. Con il quarto motivo si lamenta che l’acquisizione
dell’area sia avvenuta senza la previa notifica
dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive secondo lo
schema procedimentale di cui all’art. 31 DPR 380/2001.
La censura è infondata.
Il provvedimento gravato non viene assunto in applicazione
del citato art. 31 che concerne l’edificazioni abusiva su
immobili privati ma, si ribadisce, costituisce
un’esplicazione dei poteri in capo al Comune quale autorità
concedente di un’area demaniale; il Comune infatti con il
provvedimento impugnato mira a reprimere un’attività
edilizia abusivamente realizzata su un terreno che non
appartiene al privato ed è soggetto alla disciplina
pubblicistica dei beni demaniali.
Tale regime giuridico è comprovato dall'art. 824, secondo
comma, cod. civ., a norma del quale i cimiteri comunali sono
soggetti al regime giuridico del demanio pubblico.
Con la detta disposizione si è introdotta una conformazione
generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi
diritti: ne consegue la natura pacificamente concessoria del
diritto di sepolcro.
In questa prospettiva, la decadenza dalla posizione di
concessionario dell’area comporta la perdita della proprietà
del bene ivi costruito in quanto non è possibile separare il
suolo demaniale dall'elemento funerario sopra di esso
realizzato, formando i due beni un unicum inscindibile anche
in base ai principi generali che presiedono all'istituto del
diritto di superficie di cui all'art. 953 cod. civ.: si
tratta del c.d. effetto devolutivo, in base al quale le
opere edilizie realizzate al di sopra di beni demaniali
acquisiscono anch'esse, allo scadere della concessione, la
medesima natura di bene pubblico (si veda in tal senso pure
l'art. 44 del citato regolamento comunale di polizia
mortuaria, a norma del quale "i manufatti costruiti da
privati su aree cimiteriali poste in concessione diventano
di proprietà dell'Amministrazione Comunale come previsto
dall'art. 953 del C.C., allo scadere della concessione, se
non rinnovata").
Di qui la trasformazione in bene demaniale anche del
manufatto, per effetto del provvedimento di decadenza in
questa sede gravato, e la possibilità che lo stesso possa
essere affidato ulteriormente in concessione sulla base
delle regole e dei principi vigenti in materia (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
VARI:
Fuochi d'artificio e sicurezza (12.12.2017 - link
a www.regione.lombardia.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Legna
da ardere? Istruzioni per il corretto uso di una risorsa
importante
(link a http://ita.arpalombardia.it). |
VARI:
Deposito del prezzo dal notaio - Istruzioni per l'uso
(Consiglio Nazionale del Notariato, 14.11.2017). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI: G.U.U.E.
19.12.2017 n. L 337:
●
"REGOLAMENTO
(UE) 2017/2367 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017
che modifica la direttiva 2009/81/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili
per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2017/2366 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017
che modifica la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo
e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili
per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2017/2365 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017
che modifica la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo
e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili
per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
●
"REGOLAMENTO
DELEGATO (UE) 2017/2364 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017
che modifica la direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo
e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili
per le procedure di aggiudicazione degli appalti".
---------------
Appalti, dal 01.01.2018 nuove soglie Ue.
Nei settori speciali le soglie
comunitarie per servizi e forniture salgono da 418mila a
443mila euro. Nei settori ordinari la nuova soglia è 5,548
milioni di euro per i lavori e 221.000 euro per i servizi.
La Commissione europea ha fissato i nuovi importi in vigore
dal 01.01.2018 delle soglie per l'applicazione delle norme
in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici e delle concessioni.
I nuovi importi sono stabiliti nei Regolamenti (UE) nn.
2364, 2365, 2366 e 2367 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale
dell'Unione europea n. L 337 del 19.12.2017. Tali
regolamenti entreranno in vigore il 1 gennaio 2018 e sono
obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente
applicabili in ciascuno degli Stati membri. Le nuove soglie
soppiantano quelle precedentemente in vigore.
Nei settori speciali le soglie comunitarie per servizi e
forniture salgono da 418mila a 443mila euro.
Nei settori ordinari la nuova soglia è 5,548 milioni di euro
per i lavori e 221.000 euro per i servizi.
SETTORI SPECIALI (REGOLAMENTO UE 2017/2364)
L'articolo 15 della direttiva 2014/25/UE è così modificato:
1) alla lettera a), l'importo «418 000 EUR» è sostituito da «443
000 EUR»;
2) alla lettera b), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5
548 000 EUR».
SETTORI ORDINARI (REGOLAMENTO UE 2017/2365)
La direttiva 2014/24/UE è così modificata:
1) L'articolo 4 è così modificato:
a) alla lettera a), l'importo «5 225 000 EUR» è
sostituito da «5 548 000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «135 000 EUR» è
sostituito da «144 000 EUR»;
c) alla lettera c), l'importo «209 000 EUR» è
sostituito da «221 000 EUR»;
2) all'articolo 13, il primo comma è sostituito dal seguente:
a) alla lettera a), l'importo «5 225 000 EUR» è
sostituito da «5 548 000 EUR»;
b) alla lettera b), l'importo «209 000 EUR» è
sostituito da «221 000 EUR».
CONCESSIONI (REGOLAMENTO UE 2017/2366)
All'articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE,
l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR».
DIFESA E SICUREZZA (REGOLAMENTO UE
2017/2367)
L'articolo 8 della direttiva 2009/81/CE è così modificato:
1) alla lettera a), l'importo «418 000 EUR» è sostituito da «443
000 EUR»;
2) alla lettera b), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5
548 000 EUR» (20.12.2017 - link a
www.casaeclima.com). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
15.12.2017 n. 292 "Modifica del saggio di interesse
legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze,
decreto 13.12.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia,
supplemento n. 50 del 15.12.2017,
"Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento
regionale ai decreti legislativi n. 126/2016, n. 127/2016,
n. 222/2016 e n. 104/2017, relative alla disciplina della
conferenza dei servizi, ai regimi amministrativi applicabili
a determinate attività e procedimenti e a ulteriori misure
di razionalizzazione" (L.R.
12.12.2017 n. 36). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 50 del 15.12.2017, "Integrazioni
alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo Unico delle
leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e
sviluppo rurale). Nuove norme per la mitigazione degli
effetti delle crisi idriche nel settore agricolo, per la
difesa idrogeologica e per la riqualificazione territoriale"
(L.R.
12.12.2017 n. 34). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 15.12.2017, "Determinazioni
in merito ai tempi e alle modalità di presentazione e/o
aggiornamento, per l’anno 2018, della comunicazione per
l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e
degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n.
5171/2016 (zone vulnerabili) e n. 5418/2016 (zone non
vulnerabili)" (deliberazione
G.R. 12.12.2017 n. 15904). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 15.12.2017, "Modifica
dell’allegato alla deliberazione di Giunta regionale
08.03.2002, n. VII/8313 e dell’appendice relativa a criteri
e modalità per la redazione della documentazione di
previsione d’impatto acustico dei circoli privati e pubblici
esercizi" (deliberazione
G.R. 04.12.2017 n. 7477). |
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
14.12.2017 n. 291 "Disposizioni per la tutela degli
autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano
venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro
pubblico o privato" (Legge
30.11.2017 n. 179). |
ENTI LOCALI: G.U.
14.12.2017 n. 291 "Censimento del Patrimonio ICT delle
Amministrazioni e qualificazione dei Poli Strategici
Nazionali" (Agenzia per l'Italia Digitale,
circolare 30.11.2017 n. 5). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21
gennaio 2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di Tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 30.11.2017, in attuazione
della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo
17.02.2017, n. 42" (comunicato
regionale 05.12.2017 n. 179). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n.
n. 50 del 12.12.2017,
"Pubblicazione dell’elenco, istituito con d.d.u.o.
21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per
le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al
d.lgs. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte b, punto 2 -
Aggiornamento al 30.11.2017" (comunicato
regionale 05.12.2017 n. 178). |
ENTI
LOCALI: G.U.
06.12.2017 n. 285 "Differimento dal 31.12.2017 al
28.02.2018 del termine per l’approvazione del bilancio di
previsione 2018/2020 da parte degli enti locali"
(Ministero dell'Interno,
decreto 29.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
06.12.2017 n. 285 "Approvazione della regola tecnica di
prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio di
contenitori-distributori, ad uso privato, per l’erogazione
di carburante liquido di categoria C" (Ministero
dell'Interno,
decreto 22.11.2017). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U.
05.12.2017 n. 284 "Testo
del decreto-legge 16.10.2017, n. 148, coordinato con la
legge di conversione 04.12.2017, n. 172,
recante: “Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per
esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina
dell’estinzione del reato per condotte riparatorie”.
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
●
Art. 1-bis - Utilizzo dei proventi da oneri di
urbanizzazione per spese di progettazione
●
Art. 17-bis - Disposizioni in materia di competenze dei
comuni relativamente ai siti di importanza comunitaria
●
Art. 19-terdecies - Modifiche al decreto legislativo n. 159
del 2011 in materia di documentazione antimafia
●
Art. 19-quaterdecies - Introduzione dell’articolo 13-bis
della legge 31.12.2012, n. 247, in materia di equo compenso
per le prestazioni professionali degli avvocati |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 18 dell'01.12.2017, "Regolamentazione
dei percorsi di formazione abilitanti e di aggiornamento per
«Installatore e manutentore straordinario di impianti
energetici alimentati da fonti rinnovabili ai sensi
dell’articolo 15, comma 2 del decreto legislativo 03.03.2011
n. 28» e in attuazione della d.g.r. X/7143 del 02.10.2017"
(decreto
D.U.O. 24.11.2017 n. 14744). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017 "Ulteriore
sospensione, per mesi sei, della decorrenza del periodo
transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13, comma 2,
secondo periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a far data
dal 04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla scadenza
del quale è consentito il deposito della documentazione di
cui all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015 in formato sia
elettronico che cartaceo" (decreto
D.U.O. 22.11.2017 n. 14649). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Oggetto: Linee Guida ANAC in materia di affidamento dei
servizi legali
(Consiglio Nazionale Forense,
nota 21.12.2017 n. 30842 di prot.).
--------------
Il Consiglio Nazionale Forense così conclude:
"In conformità alle direttive 2014/24/UE
e 2014/25/UE ed alla disciplina contenuta nel d.lgs.
18.04.2016, n. 50, i servizi legali elencati all'art.
17, comma 1, lett. d), del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016
possono essere affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici
in via diretta, secondo l'intuitus personae e su base
fiduciaria, e nel rispetto dei principi generali che sempre
guidano l'azione amministrativa, mentre gli altri servizi
legali, ai sensi del combinato disposto dell'allegato IX
al codice e degli artt. 140 e ss., devono essere affidati
mediante un procedimento comparativo di evidenza pubblica
semplificato nei termini e secondo i presupposti
identificati da tali ultime disposizioni, così come ha
sottolineato il giudice amministrativo in una recentissima
decisione (TAR Puglia, sez. II, sentenza 11.12.2017, n.
1289), confermando la posizione del Consiglio di Stato
espressa nella sentenza n. 2730 del 2012". |
TRIBUTI:
OGGETTO: Interpello - Art. 11, comma 1, lett. a), legge
27.07.2000, n. 212 - Operazioni ipotecarie connesse
all’attività di riscossione coattiva da parte degli Enti
locali – Iscrizioni ex art. 77 del D.P.R. 29.09.1973, n. 602
- Trattamento tributario (Agenzia delle Entrate,
risoluzione 12.12.2017 n. 149/E). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Rilascio nuove funzionalità applicative per la
gestione nella Posizione Assicurativa dei pubblici
dipendenti degli “eventi con accredito figurativo” -
PassWeb (INPS,
messaggio 07.12.2017 n. 4939 - link a
www.inps.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Chiarimenti ministeriali per la gestione dei
materiali di riporto (ANCE di Bergamo,
circolare 07.12.2017 n. 216). |
EDILIZIA PRIVATA:
OGGETTO: Interpello Articolo 11, comma 1, lett. a), legge
27.07.2000, n. 212- Detrazione per lavori antisismici ai
sensi dell’art. 16, comma 1-quater, del DL n. 63 del 2013
(Agenzia delle Entrate,
risoluzione 29.11.2017 n. 147/E). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Accatastamento fabbricati rurali (UNCEM Piemonte,
nota 13.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Oggetto: Infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione – Profili catastali (Agenzia delle Entrate
- Direzione Centrale Catasto, Cartografia e Pubblicità
Immobiliare,
circolare 08.06.2017 n. 18/E). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
Legge di bilancio 2018: le novità del “pacchetto casa”.
Bonus energetico cedibile anche in caso di lavori sul
singolo appartamento. Debutto assoluto della detrazione del
36% per le spese finalizzate a interventi di “sistemazione a
verde” (27.12.2017 - link a www.fiscooggi.it). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Legge di bilancio 2018: arriva il via libera definitivo.
Prorogate le detrazioni potenziate relative agli interventi
di recupero edilizio e per il risparmio energetico,
confermato il bonus mobili ed elettrodomestici, spazio al
nuovo bonus verde (26.12.2017 - link a
www.fiscooggi.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Scatti di anzianità a Roma? Come non gestire le progressioni
orizzontali (23.12.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Periodicità di manutenzione e "prova fumi".
Una precisa regolazione e una corretta manutenzione degli
impianti termici consentono di ridurre sensibilmente i
consumi e con essi anche la spesa sostenuta per farli
funzionare (22.12.2017 - link a www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: C.
Deodato,
La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato
(FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?
(20.12.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
SOMMARIO: 1.- Il problema antico del conflitto tra
trasparenza e privacy; 2.- la diversa costruzione normativa
del diritto di accesso documentale e di quello civico
generalizzato; 3.- L’utilizzo, ancora, della soft law per
orientare l’esame delle istanze di accesso civico
generalizzato; 4.- la difficile valutazione dell’esistenza
di un pregiudizio concreto che imponga il diniego
dell’accesso; 5.- Ulteriori criticità della disciplina
dell’accesso civico generalizzato; 6.- Considerazioni
conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
G. Soricelli,
Profili problematici e ricostruttivi della natura giuridica
della Conferenza di Servizi dopo la riforma Madia (20.12.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. 2. La semplificazione
amministrativa come “obiettivo” necessario del legislatore
per la cd. “amministrazione di risultato”?. 3. La questione
aperta della natura giuridica della conferenza di servizi:
un nuovo procedimento amministrativo?. 4. Considerazioni
conclusive. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Produttività, fasce, assenze e presenze: la coazione a
ripetere gli errori nell’organizzazione del lavoro pubblico
(19.12.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Quei funambolismi giuridici che nuocciono alla legittimità e
all’efficacia dell’azione amministrativa (10.12.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Whistleblowing diventa legge con un look ampliamente
rinnovato. Le linee guida adottate dall’Anac
prevedono modalità anche informatiche e promuovono
l’utilizzo di strumenti di crittografia per garantire la
riservatezza dell’identità del segnalante (14.12.2017
- link a www.fiscooggi.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Le regole per autorizzare gli incarichi ai dipendenti (11.12.2017
- link a www.gianlucabertagna.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
R. Caponigro,
Il potere amministrativo di autotutela
(06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Cenni sulle origini - 2. La prima
disciplina della l. n. 15 del 2005 - 3. Le modifiche del
2014 – 4. La riforma Madia - 4.1 La ratio del limite
temporale per l’esercizio del potere – 4.2 Il potere di
annullamento sine die previsto dal comma 2-bis - 4.3.
Ulteriori ipotesi di deroga al limite temporale – 5. Il
perimetro del ricorso incidentale dell’amministrazione – 6.
La tutela del controinteressato all’attività oggetto di SCIA
– 7. Osservazioni conclusive. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: P.
Marzaro, Leale
collaborazione e raccordo tra Amministrazioni; su un
principio del sistema a margine delle ‘riforme Madia’
(06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. ‘Concentrazione di procedimenti’ e
collaborazione tra amministrazioni: raccordo tra interessi
vs semplificazione – 2. Il principio di leale collaborazione
nell’ordinamento amministrativo – 3. Segue. La lealtà della
collaborazione, da canone metodologico a principio di
portata sostanziale – 4. Il raccordo progressivo tra
Amministrazioni nelle riforme cd. Madia: linee generali – 5.
Silenzio assenso tra Amministrazioni: il ‘freno’ alla
cooperazione – 6. La conferenza semplificata e asincrona e
la perdita della natura dialogica. Frammenti di leale
collaborazione: dissenso costruttivo ‘rinforzato’ e problema
dell’adeguatezza dei termini – 7. Segue. Amministrazione
procedente e spazi di raccordo. – 8. La conferenza
simultanea in modalità sincrona. Partecipazione ‘in
presenza’ e ‘fattore tempo’: i parametri della leale
collaborazione – 9. Segue. Il ‘problema’ del rappresentante
unico e le ‘strettoie’ procedimentali a scopo di
semplificazione: i meccanismi di superamento del raccordo, i
‘luoghi’ della mediazione e il ruolo della leale
collaborazione – 10. Segue. La devoluzione della decisione
alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e la cooperazione
affievolita – 11. Conclusioni. Coordinamento vs
semplificazione: il ruolo di un principio immanente al
sistema.
---------------
Abstract: Il lavoro si prefigge di esaminare gli
istituti del raccordo tra Amministrazioni disciplinati dalle
‘riforme Madia’ alla luce di un principio dell’ordinamento
che ha trovato importanti teorizzazioni sul versante
costituzionalistico –il principio di leale collaborazione
tra soggetti pubblici– ma non altrettanto dal punto di vista
amministrativistico.
Studiare il silenzio-assenso tra amministrazioni e le
conferenze di servizi nella prospettiva del rispetto di un
principio che lo stesso giudice amministrativo definisce
come ‘immanente al sistema’, ma utilizza al più come
clausola residuale in sede di sindacato sul coordinamento
tra enti pubblici, offre l’occasione per una riflessione
sulla portata della leale collaborazione, a partire dalle
relazioni codificate tra Amministrazioni, finora assente
nella dottrina amministrativistica.
Ciò permette di evidenziare l’autonomia e il peso che può
assumere siffatto principio, specialmente a fronte di una
politica legislativa di semplificazione sempre più incisiva,
nella quale la garanzia degli interessi cd. sensibili nelle
decisioni pluristrutturate viene sempre più sacrificata, e a
fronte della quale è la capacità espansiva che i principi
presentano a contatto col caso concreto a poter (cercare di)
assicurare un bilanciamento degli interessi in gioco.
All’esito di questo lavoro risulteranno in modo più chiaro
le potenzialità del principio di leale collaborazione,
valorizzato nelle sue due componenti, lealtà e cooperazione,
e la sua capacità di porsi come autonomo canone di
legittimità delle relazioni tra Amministrazioni, non
soltanto da un punto di vista formale ma anche sostanziale. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
M. A. Sandulli,
“Principi e regole dell’azione amministrativa”: riflessioni
sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale
(06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. I limiti della funzione
giurisdizionale: la necessaria distinzione tra
interpretazione e “creazione”. 3. I rischi di un passaggio
dalla (fondamentale) funzione di nomofilachia alla tendenza
verso una giurisprudenza creativa contra legem. 4. Il
problema del valore del “precedente”. 5. Considerazioni
conclusive. |
APPALTI:
G. Vercillo,
L’illecito antitrust ed esclusione dalle gare pubbliche. Tra
vecchie e nuove incertezze
(06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. - 2. L’illecito antitrust e
la sua rilevanza ai fini della partecipazione alle gare
pubbliche nella disciplina del d.lgs. n. 163/2006. - 3. La
qualificazione dell’illecito antitrust come motivo di
esclusione dalle gare pubbliche ai sensi dell’art. 38, comma
1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006 e le problematiche
applicative. - 4. L’illecito antitrust e la sua rilevanza ai
fini della partecipazione alle gare pubbliche nella
disciplina del d.lgs. n. 50/2016. - 5. La qualificazione
dell’illecito antitrust come motivo di esclusione dalle gare
pubbliche ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del
d.lgs. n. 50/2016 e le problematiche applicative. - 6.
Considerazioni conclusive. |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Direttore generale, figura inutile e costosa per gli enti
locali (04.12.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI:
Province ancora nel baratro a un anno dal referendum
costituzionale (04.12.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ENTI LOCALI:
Caos anche sulle attività di volontariato (30.11.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: A.
Pirazzoli,
Il potere di influenza delle Autorità amministrative
indipendenti (29.11.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. In tema di influenza: una premessa.
2. L’indipendenza funzionale delle Autorità amministrative
indipendenti. 3. Chi è indipendente da chi? 4. Diverse forme
di moral suasion. 5. Considerazioni conclusive sulla
responsabilità: la critica dell’opinione pubblica. |
COMPETENZE GESTIONALI:
Nulla osta per la mobilità è atto del privato datore di
lavoro. Estromessi gli organi di governo (18.11.2017
- link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’allegazione del certificato di destinazione
urbanistica al decreto di trasferimento di cui all’art.
591-bis c.p.c.
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 23.10.2017 n. 517-2017/C).
---------------
Sommario: 1. Allegazione del CDU all’atto di
trasferimento di terreni e lottizzazione abusiva. - 2.
L’obbligo di allegazione del CDU nella vendita di terreni a
mezzo di atto negoziale ai sensi dell’art. 30 del Testo
Unico Edilizia. - 3. La disciplina dell’acquisizione e
allegazione del CDU in sede di espropriazione forzata
immobiliare. - 4. La sequenza temporale della riformulazione
degli artt. 567 e 591-bis c.p.c., 173 bis e 173-quater disp.
att. c.p.c. - 5. Conclusioni.
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): Nella vendita
forzata immobiliare in esecuzione individuale, la disciplina
dell’acquisizione e allegazione del CDU si ricava dal
combinato disposto e dall’evoluzione degli artt. 567 e
591-bis c.p.c., 173-bis e 173-quater disp. att. c.p.c..
L’art. 30 Testo Unico Edilizia non si applica, se non nella
minima parte in cui lo stesso è richiamato dalle norme
processuali.
A questa conclusione si perviene sulla base di elementi
letterali e sistematici: la vendita forzata non è un “atto
tra vivi”, non è “stipulata” e non può ricomprendere
dichiarazioni dell’alienante; la vendita forzata ha
un’espressa disciplina che ha espunto, tra l’altro, il
concetto di vigenza e aggiornamento del CDU; il regime della
nullità degli atti processuali, della loro rilevabilità,
impugnazione e sanatoria è diverso da quello degli atti
negoziali e, nel caso di esecuzione forzata in particolare,
è il criterio del raggiungimento dello scopo, alla luce
della funzione e della struttura della fase della vendita, a
guidare l’interprete.
Dalla lettura delle disposizioni attualmente vigenti emerge
la volontà del legislatore di stabilire un meccanismo che
sia idoneo a mettere in condizione, sia l’ufficio che i
potenziali acquirenti, di conoscere la situazione e
destinazione urbanistica dei terreni (oltre che dei
fabbricati) ad evitare di porre in vendita beni non
commerciabili, perché frutto di una precedente lottizzazione
abusiva, o di porre in vendita beni descritti con una
destinazione e funzione diversa da quella effettiva in
funzione di una vendita competitiva, trasparente e stabile
nel rispetto dell’affidamento dei terzi e nell’interesse
della procedura.
Il CDU da allegare al decreto non può allora che essere
quello già acquisito alla procedura, contenente la
destinazione urbanistica già indicata in avviso di vendita e
debitamente pubblicizzata insieme all’elaborato peritale
(nei casi in cui lo stesso è ritenuto obbligatorio per i
terreni), acquisizione e allegazione che rispondono anche
all’esigenza di dare comunicazione al Comune della
alienazione in corso.
Il tutto è conforme alla regola dell’identità di descrizione
del bene tra ordinanza di vendita e decreto di
trasferimento.
Tale ricostruzione non impedisce che il delegato possa
ritenere comunque opportuno o necessario, sia durante la
vendita sia in occasione della redazione della bozza del
decreto, acquisire un nuovo certificato per verificare
l’attualità dello statuto urbanistico del bene (ad esempio
in caso di risalente CDU o di dubbio sull’attualità della
destinazione in esso indicata), ma facendosi carico –nel
caso risulti una variazione degli strumenti urbanistici e
della destinazione del bene- dell’eventualità che questo sia
diverso da quello descritto in perizia e/o nell’avviso di
vendita e che il procedimento di vendita possa ritenersi
viziato, se del caso, rivolgendosi al G.E. con istanza ex
art. 591-ter c.p.c.
Il Giudice potrà fare uso dei suoi poteri d’ufficio, per
verificare l’eventuale difformità del bene e/o scostamento
di valore rispetto alla documentazione agli atti, per
interpellare gli interessati (anche per anticipare il
decorso del termine di decadenza di cui all’art. 617 c.p.c.)
e/o per revocare un’eventuale aggiudicazione che ritenesse
gravemente viziata. |
VARI:
Apposizione dei sigilli e delega al notaio
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 23.10.2017 n. 516-2017/C).
---------------
Sommario: 1. Premessa. – 2. La duplice fase del
procedimento di apposizione dei sigilli. – 3. La
delegabilità al notaio dell’attività di sigillazione. - 4.
Attività da compiersi da parte del notaio delegato
(problematiche e limiti).
---------------
Abstract: lo studio analizza la problematica della
legittimità della delega giudiziale al notaio al compimento
dell’attività di sigillazione.
Rilevato il distinguo tra le due fasi in cui si articola il
procedimento di apposizione dei sigilli, sulla scorta delle
disposizioni normative di riferimento, delle disposizioni di
carattere più generale, nonché sul piano di ordine
sistematico, si perviene ad affermare la delegabilità al
notaio, da parte del giudice, al compimento dell’attività di
materiale apposizione dei sigilli, la quale, nella
prospettiva accolta, rappresenta un’ulteriore espressione,
anche alla luce di quanto disposto dall’art. 1 della legge
notarile, del ruolo del notaio quale interlocutore
privilegiato del giudice ove sussistano spazi di operatività
per il ricorso alla delega di attività giurisdizionali
(nella specie attività di giurisdizione in senso ampio).
Infine, si delineano le attività che il notaio concretamente
compie nel procedere alla materiale apposizione di sigilli
nonché i limiti che incontra. |
VARI:
Recenti riforme in tema di garanzie del credito
bancario
(Consiglio Nazionale del Notariato,
studio 08.06.2017 n. 1-2017/C).
---------------
Sommario: 1. Considerazioni generali (R. Lenzi);
2. Il prestito vitalizio ipotecario (R. Lenzi); 3. Le
esperienze straniere (R. Lenzi); 4. La riforma (R. Lenzi);
5. Pvi e patto marciano improprio (R. Lenzi); 6. L’effetto
esdebitatorio (R. Lenzi); 7. La legittimazione a disporre
(R. Lenzi); 8. Concorso tra creditore ex pvi e terzi
creditori (R. Lenzi); 9. Considerazioni di sintesi sul pvi
(R. Lenzi); 10. L’art. 120-quinquiesdecies, t.u. banc. (M.
Tatarano); 11. L’art. 48-bis, t.u. l. banc. (M. Tatarano);
12. Le novità normative e il patto marciano di diritto
comune (R. Lenzi); 13. Il patto marciano di diritto comune
nell’evoluzione giurisprudenziale (R. Lenzi); 14. Incidenza
della disciplina speciale sul patto marciano di diritto
comune (R. Lenzi).
---------------
Lo studio in sintesi (Abstract): Lo studio svolge un
tentativo di sistemazione organica del rinnovato quadro
delle garanzie bancarie, portanti una struttura
genericamente riconducibile alla figura, di ricostruzione
dottrinaria e giurisprudenziale, del cd. patto marciano.
In primo luogo viene esaminata la disciplina del prestito
vitalizio ipotecario, nella configurazione risultante dalla
recente riforma, con particolare riferimento alle modalità
di escussione della specifica garanzia ed alla relazione
intercorrente tra ipoteca e legittimazione del creditore a
vendere per soddisfarsi sul ricavato.
Lo studio passa poi ad analizzare in chiave sistematica le
recenti modifiche del testo unico bancario, ed in
particolare l’art. 120-quinquiesdecies, di cui ad oggi non
risulta tuttavia essere stato ancora emanato il decreto
attuativo ex comma 5, e l’art. 48-bis, soffermandosi
sull’individuazione della rispettiva fattispecie normativa e
del relativo ambito di applicazione, nonché, in particolare,
sui concreti presupposti di operatività del c.d. “patto
marciano” e sulle sue possibili implementazioni di natura
negoziale.
Nella parte finale lo studio, premessa una rassegna
sull’evoluzione giurisprudenziale in tema di patto
commissorio e di patto marciano di diritto comune, esamina
l’incidenza della legislazione speciale di nuova
introduzione sul possibile residuo ambito applicativo della
cessione in garanzia. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
PUBBLICO IMPIEGO:
Whistleblowing, la legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale.
Anac predisporrà un ufficio apposito per le segnalazioni
(15.12.2017 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI SERVIZI: Società
in house e p.a, no a cumulo affidamenti.
Impresa di un ministero non può avere altri
contratti pubblici.
Una società in house di un ministero non può
essere affidataria diretta di contratti da
parte di altre amministrazioni dello Stato.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale
anticorruzione con il
Parere sulla Normativa 29.11.2017 n. 1234 -
rif. AG 17/17/AP che risolve una
richiesta di parere della società Studiare
Sviluppo, partecipata dal ministero
dell'economia e delle finanze. In
particolare, si sosteneva che la società
avesse tutte le caratteristiche della
società in house del ministero dell'economia
e delle finanze e, in generale, delle altre
amministrazioni statali; da ciò veniva fatto
discendere che potesse essere affidataria
diretta di contratti pubblici, secondo un
rapporto configurabile in termini di
controllo analogo non soltanto con il
ministero, ma anche con tutte le altre
amministrazioni dello Stato.
Il presupposto
era quindi che gli stessi rapporti tra i
singoli ministeri, stante l'unitarietà
dell'amministrazione, consentirebbero di
ritenere sussistente il controllo analogo in
quanto esercitato congiuntamente con il
ministero dell'economia e delle finanze e
quindi di acquisire affidamenti diretti da
parte di ogni altra amministrazione dello
Stato.
L'Anac non concorda con la tesi prospettata
dalla società perché «la disamina dell'atto
costitutivo e dello statuto di Studiare
Sviluppo non conferma la rispondenza della
società al modello legale per quanto
concerne il rapporto con le amministrazioni
dello Stato diverse dal socio unico», cioè
diverse dal ministero dell'economia e delle
finanze.
Ad avviso dell'Anac, nello statuto della
società non vi sono clausole comprovanti la
sussistenza di un controllo analogo a quello
esercitato sui propri servizi in capo alle
altre amministrazioni dello Stato,
prevedendo soltanto un controllo di queste
ultime sul singolo affidamento o convenzione
di cui siano parti.
In specie, sugli atti societari esaminati
non appare comprovata alcuna capacità delle
singole amministrazioni statali di
esercitare «un'influenza determinante sia
sugli obiettivi strategici che sulle
decisioni significative della persona
giuridica controllata». Né può essere
avallata, ha detto l'Autorità, una nozione
di Stato tale per cui, nel settore dei
contratti pubblici, l'amministrazione dello
Stato può individuarsi in maniera unitaria
come sarebbe confermato da diverse norme
dell'ordinamento giuridico, in particolare
dall'art. 3, comma 1, lett. a) e lett. b),
del codice dei contratti pubblici che fa
riferimento genericamente alle
«amministrazioni aggiudicatrici dello
Stato».
In linea generale, ai sensi dell'art. 95
della Costituzione, ha detto l'Anac, i
ministeri sono dotati con legge di una
propria organizzazione, attribuzioni,
autonomia e capacità decisionale, con
conseguente responsabilità per l'attività
compiuta, ivi inclusa l'attività
contrattuale. Il ministero, come soggetto
responsabile per la propria attività
amministrativa e contrattuale, si configura
come amministrazione aggiudicatrice e tale
natura conserva nell'affidamento diretto di
un contratto a un proprio organismo in house
quale propria articolazione organizzativa.
Quindi, allo stato attuale, non è possibile
che una società di un ministero possa essere
affidataria in house da parte di tutte le
altre amministrazioni dello Stato
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2017). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Bando
tipo per servizi e forniture. Strumento che
garantisce standard di qualità della p.a..
Approvato dall'autorità anticorruzione
vincolante per affidamenti superiori a 209
mila.
Al via il bando-tipo dell'Anac (Autorità
nazionale anticorruzione), vincolante per le
gare a procedura aperta per l'affidamento di
servizi e forniture di importo superiore a
209 mila euro con il criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa.
L'Anac ha approvato con la
delibera 22.11.2017 n. 1228
il primo bando-tipo
(1/2017), redatto sulla base delle
indicazioni del vigente codice dei contratti
pubblici,
In attuazione dell'articolo 213 del decreto
50/2016 il bando-tipo si pone l'obiettivo di
fornire alle stazioni appaltanti uno
strumento a garanzia di efficienza, standard
di qualità dell'azione amministrativa e
omogeneità dei procedimenti. Il
provvedimento giunge a conclusione di una
ampia consultazione pubblica e si sostanzia
in realtà in uno schema di disciplinare, ben
più complesso del semplice bando di gara, ma
certamente più utile ed efficace dal momento
che affronta tutti i nodi connessi alle
principali clausole di gara.
Il disciplinare è corredato di una nota
illustrativa che espone le scelte effettuate
dall'Anac sui singoli istituti nonché da
una relazione Air che motiva le scelte
effettuate rispetto alle osservazioni degli
stakeholders. Il disciplinare-tipo sarà
sottoposto a verifica di impatto della
regolazione che sarà condotta dopo 12 mesi
dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta
Ufficiale, ma l'Authority ha già invitato le
stazioni appaltanti e gli operatori
economici a segnalare eventuali problemi e
criticità che si dovessero verificare
inviando un'apposita comunicazione
all'indirizzo mail
vir@anticorruzione.it.
L'Autorità terrà conto di tali segnalazioni
per l'aggiornamento del bando-tipo o per
eventuali integrazioni che riterrà
necessarie. In ogni caso il bando-tipo
acquisterà efficacia a decorrere dal
quindicesimo giorno successivo alla sua
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Il documento, che, ai sensi dell'articolo 71
del codice, sarà vincolante per le stazioni
appaltanti fatte salve le parti
appositamente indicate come facoltative,
prende in considerazione la sola procedura
aperta di cui all'art. 60 del Codice, per
importi superiori alle soglie di
applicazione della normativa Ue (209 mila
euro), con applicazione del criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto
qualità prezzo, di cui all'art. 95, comma 2,
del codice appalti; in ogni caso, ha detto
l'Anac, se la stazione appaltante volesse
prevedere un disciplinare con
l'aggiudicazione al prezzo più basso,
potrebbe comunque adattare il bando-tipo
utilizzandolo nella misura in cui sia
compatibile.
Il disciplinare contempla precise e
tassative cause di esclusione sulla base di
quanto previsto dal Codice e della normativa
vigente, anche in considerazione
dell'elaborazione giurisprudenziale
intervenuta nel tempo, ed evidenzia le
stesse utilizzando l'espressa formula «a
pena di esclusione».
Importante notare come l'Anac ritenga che
l'istituto del soccorso istruttorio si
applichi a «tutti gli elementi a corredo
della domanda di partecipazione, che, entro
alcuni limiti e, soprattutto, nel rispetto
del principio di parità di trattamento,
segretezza delle offerte e perentorietà del
termine di presentazione delle medesime,
potranno anch'essi essere sanati».
Nel
documento, fra i diversi temi trattati, che
arrivano fino alla stipula del contratto,
viene anche fatto riferimento ai protocolli
di legalità, alle misure di incompatibilità
per i dipendenti dopo la cessazione del
rapporto di pubblico impiego, ai controlli
antimafia prima della stipula del contratto,
all'istituto del rating di legalità (che può
essere richiesto alle sole imprese
italiane), all'utilizzo delle white list e
black list
(articolo ItaliaOggi del
15.12.2017). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Bando-tipo - Schema di disciplinare di gara.
L’Autorità, con
delibera 22.11.2017 n. 1228, ha approvato il
Bando-tipo n. 1/2017 (Schema disciplinare di gara per
l’affidamento di servizi e forniture nei settori ordinari,
di importo pari o superiore alla soglia comunitaria,
aggiudicati all’offerta economicamente più vantaggiosa
secondo il miglior rapporto qualità/prezzo).
Il Disciplinare è corredato di una nota illustrativa che
espone le scelte effettuate sui singoli istituti nonché da
una relazione AIR che motiva le scelte effettuate rispetto
alle osservazioni degli stakeholders. Il Disciplinare-tipo
sarà sottoposto a verifica di impatto della regolazione che
sarà condotta dopo 12 mesi dalla data di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale.
Le stazioni appaltanti e gli operatori economici sono
invitati a segnalare eventuali problemi e criticità che si
dovessero verificare nell’utilizzo del bando-tipo inviando
un’apposita comunicazione all’indirizzo mail
vir@anticorruzione.it.
L’Autorità terrà conto di tali segnalazioni per
l’aggiornamento del bando-tipo o per eventuali integrazioni
che riterrà necessarie nella fase di vigenza dello stesso.
Il Bando-tipo acquista efficacia a decorrere dal
quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione in
Gazzetta Ufficiale (13.12.2017 - link a www. |
APPALTI: Varianti
in sede di offerta solo se previste dal
bando. Precisazione Anac conforme alla nuova
disciplina del codice.
La possibilità di presentare varianti in
sede di offerta deve essere espressamente
prevista nel bando di gara e in caso di
offerta contenente elementi estranei
all'oggetto della gara deve essere
necessariamente esclusa.
Lo ha precisato l'Autorità nazionale
anticorruzione nel
Parere di Precontenzioso 22.11.2017 n. 1206
- rif. PREC 12/17/F’ in tema di varianti progettuali presentate
in sede di offerta per l'aggiudicazione di
un appalto pubblico.
La questione viene
inquadrata all'interno della nuova
disciplina dettata dal codice dei contratti
pubblici del 2016 che, all'articolo 95,
comma 14 prevede espressamente la
possibilità di presentare varianti
progettuali in sede di offerta in relazione
a ogni tipo di appalto, in ciò replicando la
precedente disposizione del codice del 2016,
cioè l'articolo 76 del dlgs 163/2016.
L'Anac ha specificato però che
l'amministrazione, tuttavia, deve indicare,
in sede di redazione della lex specialis, se
le varianti siano ammesse, ben potendo anche
non ammettere in alcun modo la presentazione
di varianti. Se invece la lex specialis lo
prevede, la stazione appaltante, ha detto la
delibera Anac, deve identificare i loro
requisiti minimi.
L'Autorità ha precisato anche che se ciò non
dovesse avvenire le varianti si dovrebbero
intendere non autorizzate. Al riguardo l'Anac
si riferisce anche alla recente
giurisprudenza del Consiglio di stato che ha
chiarito che, in ogni caso, a prescindere
dalla espressa previsione di varianti
progettuali in sede di bando, deve ritenersi
insito nella scelta del criterio selettivo
dell'offerta economicamente più vantaggiosa
la possibilità per le imprese di proporre
soluzioni migliorative, purché queste non si
alterino i caratteri essenziali delle
prestazioni richieste dalla lex specialis
onde non ledere la par condicio.
In particolare dalla giurisprudenza si
desume una netta differenza fra il concetto
di soluzioni migliorative e varianti.
Infatti le soluzioni migliorative possono
liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti
tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni
sulla base del progetto posto a base di gara
ed oggetto di valutazione dal punto di vista
tecnico, rimanendo comunque preclusa la
modificabilità delle caratteristiche
progettuali già stabilite
dall'amministrazione.
Invece le varianti si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista
tipologico, strutturale e funzionale, per la
cui ammissibilità è necessaria una previa
manifestazione di volontà della stazione
appaltante, mediante preventiva previsione
contenuta nel bando di gara e
l'individuazione dei relativi requisiti
minimi che segnano i limiti entro i quali
l'opera proposta dal concorrente costituisce
un «aliud» rispetto a quella prefigurata
dalla pubblica amministrazione.
Da questa giurisprudenza la delibera 1206
dell'Anac fa discendere che la presentazione
di un'offerta avente un oggetto
sostanzialmente differente da quello posto a
base di gara, ovvero con differenze estranee
all'ambito delle varianti consentite deve
essere necessariamente esclusa, in quanto il
confronto competitivo deve svolgersi tra le
offerte tra loro compatibili secondo i
criteri di gara
(articolo ItaliaOggi del
15.12.2017). |
APPALTI: Massimo
ribasso anche a inviti. Dubbi sull'accordo
quadro per l'esecuzione di lavori ex novo.
Mit e Anac concordano sull'applicabilità
nelle gare con la procedura negoziata.
Massimo ribasso applicabile anche nelle
procedure negoziate da 150 mila euro a un
milione e accordi quadro da chiarire nella
loro applicazione concreta. Su questi due
temi ministero delle infrastrutture e Anac
hanno iniziato a dialogare per trovare la
giusta interpretazione a norme del codice
dei contratti pubblici non sempre
cristalline. Nel primo caso trovandosi su
posizione identiche, nel secondo caso
occorrerà attendere per l'esito finale.
Per quel che riguarda il tema del massimo
ribasso è stata resa pubblica in questi
giorni la
nota 23.06.2017 n. 84346 di prot. dell'Anac (ufficio
precontenzioso) che
risponde positivamente al ministero delle
infrastrutture il quale aveva chiesto,
rispetto all'articolo 95, comma 4, se
l'esclusione automatica nel caso di appalto
al prezzo più basso potesse essere
utilizzata anche con la procedura negoziata
con invito a cinque.
In particolare, dopo aver ricostruito il
quadro normativo, il ministero aveva posto
il dubbio all'Anac a seguito delle modifiche
apportate dal decreto correttivo del codice
che fa riferimento alle «procedure
ordinarie», nozione che poteva escludere la
procedura negoziata.
La norma del correttivo (dlgs 56/2017)
consente l'aggiudicazione degli appalti al
massimo ribasso fino a due milioni, invece
che a un milione come prevedeva il codice
del 2016, ma a due condizioni: l'appalto
deve essere aggiudicato sulla base di un
progetto esecutivo e l'affidamento dei
lavori deve avvenire «procedure ordinarie».
Per l'Autorità è corretta la lettura che da
della norma il ministero, laddove
circoscrive l'impatto dell'art. 95, comma 4
(che eleva la soglia per utilizzare il
prezzo più basso da uno a 2 milioni) al solo
innalzamento della soglia e non al profilo
procedurale. L' Anac aggiunge che il
riferimento contenuto all'art. 36, comma 7,
del codice all'effettuazione degli inviti
quando la stazione appaltante intende
avvalersi dell'esclusione automatica
conferma che il prezzo più basso sia
applicabile anche alle procedure negoziate.
Sul secondo punto l'Autorità presieduta da
Raffaele Cantone dovrà risolvere il dubbio
posto dal ministero, rispetto ad una gara
Anas, se sia possibile affidare l'esecuzione
di nuovi lavori con la formula dell'accordo
quadro. Il punto da risolvere riguarda
l'applicabilità dell'istituto dell'accordo
quadro, affidato sulla base di un progetto
definitivo (e non esecutivo) evitando quindi
la stipula di un contratto di sola
esecuzione.
Ad avviso del dicastero di Porta Pia
l'impiego dell'accordo quadro per nuovi
lavori da realizzarsi sulla rete sarebbe «in
contrasto, in generale, con tutto il quadro
normativo di realizzazione delle opere
pubbliche». In particolare il ministero ha
sostenuto che l'accordo quadro va impiegato
«oltre che ai servizi e alle forniture» per
«soli lavori di manutenzione o comunque
aventi caratteri di ripetitività e
serialità», ovvero per quei lavori da
effettuarsi con una serie di interventi, non
predeterminati nel numero, in un determinato
arco di tempo.
A queste perplessità la società di Via
Monzambano ha replicato difendendo la scelta
fatta, nel presupposto che la nuova
disciplina rende l'accordo quadro
utilizzabile anche per opere «non
ripetitive». Anzi, secondo l'Anas, se
l'accordo quadro non fosse utilizzabile «non
si consentirebbe di estendere gli effetti
benefici dello strumento agli affidamenti di
lavori di nuove opere che, come ben noto,
sono di importanza strategica per lo
sviluppo del nostro paese». La palla adesso
passa all'Anac
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
APPALTI: Anac,
massimo ribasso per lavori fino a un mln.
Parere dell'Autorità in risposta alla
richiesta del Mit.
Si può utilizzare il criterio di
aggiudicazione del massimo ribasso anche
quando si affidano lavori con la procedura
negoziata fino a un milione di euro; è
sempre necessario porre a base di gara il
progetto esecutivo.
Lo ha chiarito l'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), col parere di cui
alla
nota 23.06.2017 n. 84346 di prot., con
riferimento ad una possibile lettura
restrittiva della modifica apportata dal
decreto correttivo del codice appalti (dlgs.
56/2017), che da un lato ha innalzato da 1 a
2 milioni la soglia di applicazione del
massimo ribasso e dall'altro lato sembra
avere condizionato tale possibilità alle
sole procedure «ordinarie» per le quali si
mette in gara il progetto esecutivo. La
novità è contenuta nell'articolo 60 del
decreto correttivo che ha modificato
l'articolo 95, comma 4 del dlgs. 50/2016.
L'attuale versione della norma, aggiornata
al correttivo, prevede che «può essere
utilizzato il criterio del minor prezzo
(fermo restando quanto previsto
dall'articolo 36, comma 2, lettera d), per i
lavori di importo pari o inferiore a 2
milioni di euro, quando l'affidamento dei
lavori avviene con procedure ordinarie,
sulla base del progetto esecutivo; in tali
ipotesi, qualora la stazione appaltante
applichi l'esclusione automatica, la stessa
ha l'obbligo di ricorrere alle procedure di
cui all'articolo 97, commi 2 e 8».
La conseguenza immediata di una
interpretazione improntata ad un rigido
formalismo, poteva essere quella di bloccare
le stazioni appaltanti che, fino al 20
maggio (data di entrata in vigore del
decreto correttivo), avevano tranquillamente
affidato con procedura negoziata (procedura
ritenuta non «ordinaria») opere fino a un
milione di euro, utilizzando il criterio del
massimo ribasso con applicazione del
cosiddetto «metodo antiturbativa» per
l'esclusione automatica.
Si tratta di un mercato di un certo valore
se è vero che l'Anac, nella sua relazione al
parlamento presentata ieri alla camera e
relativa all'anno 2016, ha quantificato in
2,3 miliardi circa il valore delle procedure
negoziate con bando di gara (in aumento del
58% rispetto al 2015) e in 3,6 miliardi
quelle affidate senza previa pubblicazione
di un bando di gara (valore in riduzione del
37% rispetto all'anno 2015).
Il ministero delle infrastrutture nelle
scorse settimane aveva chiesto all'Anac un
parere in merito alla corretta
interpretazione della norma e in particolare
se «sia possibile utilizzare il criterio del
massimo ribasso, con facoltà di esclusione
automatica delle offerte anomale, ovvero se
tale possibilità, a seguito del correttivo,
sia subordinata al ricorso alle procedure
ordinarie, e, in tal caso, cosa si intenda
per procedure ordinarie».
La risposta dell'autorità presieduta da
Raffaele Cantone è arrivata nei giorni
scorsi e sta per essere pubblicata sul sito
dell'Anac e dà ragione all'ipotesi
interpretativa sottesa alla richiesta di
parere del dicastero di Porta Pia.
Per l'Anac «la modifica apportata dal
correttivo all'innalzamento della soglia per
l'utilizzo del criterio del minor prezzo»
non ha alcuna «ricaduta sulle procedure
di scelta del contraente, con la conseguenza
che deve ritenersi possibile l'utilizzo del
criterio del minor ribasso anche nelle
procedure negoziate da 150 mila euro e fino
a un milione di euro»
(articolo ItaliaOggi del
07.07.2017). |
APPALTI SERVIZI:
Tpl, niente project financing per
le concessioni di servizio. L'affidamento va
fatto con gara d'appalto, secondo l'Anac.
Illegittimo l'utilizzo del project financing
per una concessione di servizi di trasporto
pubblico locale in cui non sia prevista
l'esecuzione di lavori infrastrutturali;
l'affidamento deve avvenire attraverso
procedura per l'aggiudicazione di un
appalto.
È questa la posizione assunta dall'Autorità
nazionale anticorruzione con la
delibera
31.05.2017 n. 566 rispetto a una
procedura per l'affidamento di una
concessione di servizi pubblici (di
trasporto locale) affidata da un comune.
Era
successo che un operatore aveva formulato
una proposta di project financing, accettata
da un altro operatore che aveva formulato
offerta; successivamente si era discusso in
ordine alla correttezza della procedura
seguita e in particolare si era discusso,
fra comune e operatori interessati, sulla
legittimità dell'affidamento secondo la
formula del project financing e non, invece,
secondo quella dell'appalto di servizi.
L'Anac fa notare che in base all'articolo 10
della direttiva 23/2014 sulle concessioni,
la disciplina Ue non si applica alle
concessioni di servizi di trasporto pubblico
di passeggeri. Si tratta di una norma
puntualmente recepita nell'articolo 18,
comma 1, lett. a), del dlgs. 50/2016 (codice
dei contratti pubblici).
La delibera chiarisce che questa esclusione
si fonda sulla considerazione che i servizi
di trasporto pubblico locale sono
caratterizzati da cospicue contribuzioni
pubbliche, che esorbitano di gran lunga il
limite finanziario di matrice pubblica (49%
dell'investimento, inteso come valore
complessivo dell'operazione concessoria),
declinato nell'articolo 165 del dlgs.
50/2016 (norma peraltro confermata anche da
recente decreto correttivo del codice, dlgs.
56/2017).
Questa scelta deriva dalla
disciplina di contabilità comunitaria
(Manuale del Sec 2010, direttiva Eurostat,
Treatment of Public Private Partnership,
dell'11.02.2004) che riconduce tali
attività nel novero delle cosiddette
operazioni on balance, ossia non
riconducibili al partenariato pubblico
privato.
Dato questo punto di partenza, l'autorità
presieduta da Raffaele Cantone ricorda che
spetta all'ordinamento comunitario, nonché
agli orientamenti della Corte di giustizia
europea, la competenza a qualificare gli
appalti pubblici, stante la prerogativa Ue
sulla definizione delle regole di
concorrenza necessarie al funzionamento del
mercato interno (ex articolo 3 Tfue).
Pertanto, in via generale e in mancanza di
opere infrastrutturali, l'amministrazione
comunale dovrebbe procedere
all'esternalizzazione del servizio di
trasporto pubblico locale mediante procedura
di gara per l'affidamento dell'appalto (e
non di una concessione di servizi). Infatti
l'attribuzione di una concessione per opere
o servizi comporta il trasferimento al
concessionario di un rischio operativo
nell'esecuzione di tali opere o servizi
comprendente rischi sul versante della
domanda o dell'offerta o su entrambi.
La
disciplina europea precisa che il
concessionario assume il rischio operativo
nel caso in cui, in condizioni operative
normali, non sia garantito il recupero degli
investimenti effettuati o dei costi
sostenuti per la gestione delle opere o dei
servizi oggetto della concessione. Nel caso
specifico, invece, ciò non si era
verificato
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
CORTE DEI CONTI |
ENTI LOCALI:
Volontari assicurabili e utilizzabili singolarmente.
I volontari persone fisiche possono essere assicurati e utilizzati
singolarmente in progetti di rilievo sociale come volontari.
La magistratura contabile dà vita a un'altra delle ormai tante clamorose
retromarce interpretative che destano disorientamento nelle amministrazioni
e rivede a 180 gradi il proprio orientamento sull'utilizzo dei volontari,
con la
deliberazione
24.11.2017 n. 26 della Sezione Autonomie, che smentisce
clamorosamente quanto indicato di recente dalla sezione regionale di
controllo per la Lombardia, col
parere 24.10.2017, n. 281.
La sezione Lombardia aveva confermato un orientamento molto radicato della
magistratura contabile, secondo il quale il dlgs 117/2017 avrebbe finito per
rafforzare il divieto in capo agli enti locali di incaricare direttamente
persone fisiche come volontari, per scongiurare il rischio di creare
rapporti di lavoro precari, simulati da attività di volontariato. La sezione
autonomie, pur evidenziando le cautele necessarie alla corretta gestione dei
rapporti con i volontari, mai qualificabili come lavoro, giunge ad un
principio di diritto totalmente opposto: «Gli enti locali possono stipulare,
con oneri a loro carico, contratti di assicurazione per infortunio, malattia
e responsabilità civile verso terzi a favore di singoli volontari coinvolti
in attività di utilità».
Nessuna norma, per la sezione autonomie, impedisce
alle amministrazioni locali di avvalersi delle attività di volontariato di
singoli cittadini che si offrano in modo spontaneo e disinteressato a
collaborare con l'ente per fini di solidarietà sociale. I cittadini, a loro
volta, non subiscono alcuna preclusione alla possibilità di porre la loro
attività di volontari direttamente al servizio di un ente locale, invece che
ad un ente del terzo settore così da indirizzare in modo proficuo la loro
attività alla realizzazione di obiettivi di solidarietà sociale.
Il parere
osserva che tale assunto «trova riscontro nell'art. 17, comma 2, del dlgs n.
117/2017, il quale recita: «Il volontario è una persona che, per sua libera
scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche
per il tramite di un ente del Terzo settore». Dunque, i comuni possono
attuare l'articolo 18 del dlgs 117/2017, per accollarsi gli oneri delle
assicurazioni di responsabilità contro gli infortuni e civile verso terzi,
alla luce di quanto dispone l'articolo 17, comma 2, del dlgs 117/2017,
secondo cui il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge
attività in favore della comunità e del bene comune, «anche per il tramite
di un ente del Terzo settore» e, quindi, non esclusivamente in modo mediato
da detti enti.
Il parere evidenzia che l'assenza di qualsiasi obbligo di
prestazione lavorativa in carico al volontario qualifica la sua attività
come necessariamente occasionale, perché libera da vincoli temporali e da
condizionamenti esterni derivanti dall'affidamento di terzi. Indirettamente,
il parere mette in luce che i rapporti con i soggetti del terzo settore, sia
singoli cittadini, sia enti, non deve essere configurato come prestazione di
servizi, ma come promozione e riconoscimento dell'utilità sociale svolta, in
maniera «aggiuntiva e complementare alle ordinarie attività dell'apparato
organizzativo all'interno del quale si inserisce quale strumento mai
sostitutivo delle risorse umane normalmente destinate al servizio di utilità
sociale prescelto dal volontario».
Pertanto, l'ente locale assume un ruolo
di «mero promotore e utilizzatore finale del servizio di volontariato»
mediante forme di collaborazione regolate con la sottoscrizione di
convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o
servizi sociali di interesse generale.
In ogni caso, la sezione autonomie
ritiene necessario che gli enti locali regolino le attività dei volontari
con un regolamento «che disciplini le modalità di accesso e di svolgimento
dell'attività in senso conforme alla normativa dettata per gli enti del
Terzo settore». Il parere richiede, quindi, che si istituisca un registro
dei volontari, «le cui risultanze, se conformi ai criteri previsti per la
tenuta dei registri in materia di volontariato, faranno fede ai fini della
individuazione dei soggetti aventi diritto alla copertura assicurativa
contro gli infortuni e le malattie nonché per la responsabilità civile per i
danni cagionati a terzi conseguenti allo svolgimento dell'attività, con
oneri a carico dell'ente locale in quanto beneficiario finale delle attività
dei singoli volontari dallo stesso coordinate» (articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla
questione di massima proposta dalla Sezione di controllo per la Regione
autonoma Friuli-Venezia Giulia con deliberazione n. FVG/54/2017/QMIG in data
03.08.2017, enuncia il seguente principio di diritto: “Gli
enti locali possono stipulare, con oneri a loro carico, contratti di
assicurazione per infortunio, malattia e responsabilità civile verso terzi a
favore di singoli volontari coinvolti in attività di utilità sociale, a
condizione che, con apposita disciplina regolamentare, siano salvaguardate
la libertà di scelta e di collaborazione dei volontari, l’assoluta gratuità
della loro attività, l’assenza di qualunque vincolo di subordinazione e la
loro incolumità personale”. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’art. 113, co. 2, del D.Lgs. 50/2016 contiene una disciplina
dei compensi incentivanti per funzioni tecniche nuova e
difforme dall’incentivo per la progettazione di cui
all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, con
la conseguenza che i “nuovi” incentivi per funzioni tecniche
ricadono pienamente nella disciplina vincolistica in materia
di salario accessorio, il cui “tetto” erogabile, già
previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 e
reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
non potrà quindi essere superato.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Comune di Latisana (UD)
ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso
con cui, dopo aver succintamente rappresentato le
circostanze di fatto e di diritto, pone un quesito in
materia di compensi incentivanti per le funzioni tecniche,
come previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n.50/2016.
In particolare, l’Ente richiedente ha formulato un quesito
volto a sapere:
1) se i compensi previsti per i “nuovi” incentivi tecnici
siano da ricomprendere nel fondo per le risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale;
2) se esista la possibilità di superare i limiti disposti
dalla normativa vigente relativamente al tetto di spese del
fondo per il trattamento accessorio, al fine di poter
erogare i compensi in parola, senza andare a discapito di
altri dipendenti.
...
I. Come esposto nella premessa ed in sede di esame
preliminare dell’ammissibilità, sul piano oggettivo, del
quesito in esame, deve innanzitutto evidenziarsi che questa
Sezione ha recentemente avuto modo di esaminare la
problematica relativa ai compensi incentivanti per funzioni
tecniche, come disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs.
n. 50/2016, precipuamente con riferimento alla compatibilità
di tali compensi con il principio di onnicomprensività della
retribuzione valevole per i dipendenti pubblici.
Con il
parere 03.08.2017 n. 55, infatti, dopo ampia
motivazione, si è avuto modo di affermare che il principio
di onnicomprensività della retribuzione valevole per i
pubblici dipendenti non esclude la corresponsione di
ulteriori compensi incentivanti previsti espressamente dalla
legge.
Per quel che riguarda specificamente gli incentivi
per le funzioni tecniche connesse ad opere pubbliche
realizzate, i Comuni potranno procedere alla corresponsione,
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle Amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, nel rispetto delle
previsioni contenute nel nuovo codice dei contratti di cui
al D.lgs. 50/2016 (o delle altre disposizioni applicabili ratione temporis).
In questa sede, alla luce delle ulteriori problematiche
sollevate dall’Amministrazione quaerens, i princìpi
contenuti nel citato
parere 03.08.2017 n. 55
verranno ulteriormente approfonditi, con particolare
riferimento agli aspetti connessi all’inclusione dei “nuovi”
incentivi tecnici nel fondo per le risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale e alla
possibilità di superare i limiti disposti dalla normativa
vigente relativamente al tetto di spese del fondo per il
trattamento accessorio.
II. I nuovi incentivi per funzioni tecniche trovano la loro
attuale disciplina nell’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016,
n. 50 (c.d. Codice dei contratti pubblici), come da ultimo
integrato e modificato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56.
Nel testo attualmente vigente (non coincidente con quello
disciplinante l’incentivo per la progettazione di cui
all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006), gli
oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori
ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai
collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di
conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche
connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di
coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di
esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo
09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e
specialistiche necessari per la redazione di un progetto
esecutivo completo in ogni dettaglio, fanno carico agli
stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori,
servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o
nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Particolarmente significativo è il secondo comma
dell’articolo in commento, a mente del quale a valere sugli
stanziamenti di cui sopra, “le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base
di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle
stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle
amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per
la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri
dipendenti”.
In base al terzo comma dell’art. 113, l'ottanta per cento
delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del
comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle Amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate sopra, nonché tra i loro collaboratori.
Ulteriori indicazioni di dettaglio, vengono fornite dal
prosieguo del comma 3, nonché dai commi 4 e 5, dell’art. 113
del D.Lgs. n. 50/2016.
III. Così succintamente descritta la disciplina attualmente
recata dall’art. 113 del codice dei contratti in materia di
incentivi per funzioni tecniche, si deve ora procedere
all’esame del rapporto tra detti incentivi ed il fondo per
le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio
del personale.
Al riguardo, di particolare rilievo è la lettura fornita
dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti che, con
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha provveduto ad
esaminare tale problematica sotto il profilo
dell’applicabilità, a tali incentivi, del tetto del salario
accessorio previsto, all’art. 9, comma 2-bis, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito in l. 30.07.2010, n. 122,
anche in rapporto al nuovo limite all’ammontare delle
risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale della pubblica Amministrazione, compreso quello di
livello dirigenziale, introdotto dall’art. 1, comma 236,
della legge 28.12.2015, n. 208.
Per effetto di tali limitazioni introdotte dalla legge di
stabilità per il 2016, in considerazione delle esigenze di
finanza pubblica, a decorrere dal giorno 01.01.2016
l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente
al trattamento accessorio del personale, anche di livello
dirigenziale, di ciascuna delle Amministrazioni pubbliche di
cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può
superare il corrispondente importo determinato per l'anno
2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura
proporzionale alla riduzione del personale in servizio,
tenendo conto del personale assumibile ai sensi della
normativa vigente.
Come evidenziato nella citata deliberazione della Sezione
delle Autonomie, “la norma si sostanzia in un vincolo alla
crescita dei fondi integrativi rispetto ad una annualità di
riferimento e nell’automatica riduzione del fondo in misura
proporzionale alla contrazione del personale in servizio”.
La stessa deliberazione della Sezione delle Autonomie,
inoltre, provvede a evidenziare come nella legge delega
(art. 1, comma 1, lett. rr, l. n. 11/2016) è stato previsto
che tale compenso vada a remunerare specifiche e determinate
attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici,
tra cui quelle della programmazione, predisposizione e
controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del
contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla
progettazione”.
Di conseguenza, sono destinate risorse al fondo di cui
all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 (nella misura del
2% degli importi a base di gara) “esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti”.
Ciò in difformità rispetto a quanto previsto dall’art. 113,
comma 1, per “gli oneri inerenti alla progettazione, alla
direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione,
alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero
alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli
studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani
di sicurezza e di coordinamento” i quali “fanno carico agli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci
delle stazioni appaltanti”.
Alla luce di tali fondamentali premesse, la Sezione delle
Autonomie ha quindi provveduto a rimarcare che “nei nuovi
incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di
qualificare la relativa spesa come finalizzata ad
investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili,
con carattere di generalità, anche per gli appalti di
servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino,
in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e,
dunque, come spese correnti (e di personale). Nel caso di
specie, non si ravvisano poi, gli ulteriori presupposti
delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal
limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del
personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare
“prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e
individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a
personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro
disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016”.
Come naturale conseguenza di tale impostazione, quindi, la
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della Sezione delle Autonomie
ha provveduto ad affermare il principio di diritto secondo
cui: “Gli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da
includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui
all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di
stabilità 2016)”.
Tale importante criterio di orientamento è stato prontamente
recepito dalle altre Sezioni regionali di controllo (cfr.:
per le Marche,
parere 27.04.2017 n. 52; per il Piemonte,
parere 09.06.2017 n. 113; per la Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185).
Recentemente, inoltre, la Sezione delle Autonomie è stata
ulteriormente investita della questione degli incentivi per
funzioni tecniche.
Con la
deliberazione 10.10.2017 n. 24, infatti, la
Sezione delle Autonomie ha nuovamente preso posizione
sull’argomento, anche alla luce delle recenti modifiche
introdotte dal D.L. 19.04.2017, n. 56.
Sul punto, la Sezione centrale ha evidenziato che “le
intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla
risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno
avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata
difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma
2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli
incentivi alla progettazione”.
Ciò posto, la predetta deliberazione ha ulteriormente avuto
modo di evidenziare che “nel delineato nuovo scenario
normativo, gli incentivi per le funzioni tecniche non
possono essere assimilati ai compensi per la progettazione
e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di
applicazione delle norme vincolistiche in tema di
contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle
quali si collocano anche le norme limitative delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che
per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche
costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n.
2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte
esposte nella richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7
–come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza
contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent.
n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti
legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di
spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la delibera
n. 51/CONTR/2011 (in relazione ai trattamenti accessori del
personale) e dalla Sezione delle autonomie con la
delibera 13.11.2009 n. 16/2009 (in relazione al limite
previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e
562, della l. 296/2006)”.
Tali conclusioni, ad avviso di questa Sezione, sono
pienamente da condividere.
Alla luce di quanto detto, pertanto, la Sezione rileva che
l’art. 113, co. 2, del D.Lgs. 50/2016 contiene una disciplina
dei compensi incentivanti per funzioni tecniche nuova e
difforme dall’incentivo per la progettazione di cui
all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, con
la conseguenza che i “nuovi” incentivi per funzioni tecniche
ricadono pienamente nella disciplina vincolistica in materia
di salario accessorio, il cui “tetto” erogabile, già
previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 e
reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015,
non potrà quindi essere superato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia,
parere 23.11.2017 n. 66). |
LAVORI PUBBLICI: Ppp,
rischio operativo è trasferito ai privati.
Partenariato pubblico privato.
In un Ppp (partenariato pubblico-privato)
l'elemento essenziale è il trasferimento del
rischio operativo in capo al soggetto
privato.
È quanto ha stabilito la Corte dei Conti
(sezione regionale di controllo per la
Lombardia) con il
parere 20.11.2017 n. 320 in merito ad un contratto di
partenariato pubblico privato per la
realizzazione e gestione di un'opera.
L'ente
locale chiedeva ai giudici contabili se
potesse configurare un Ppp un contratto che
prevedesse il pagamento di un canone, che è
in grado di ripagare l'investimento e gli
interessi e se questa operazione potesse
essere considerata neutra ai fini della
contabilizzazione nel bilancio dell'ente e
non rilevante ai fini degli equilibri di
finanza pubblica.
La Corte ha affermato che in base al codice
dei contratti, un contratto di joint venture
fra un privato e una amministrazione rientra
nella categoria dei contratti di Ppp se con
esso si attiva il trasferimento in capo
all'operatore economico, oltre che del
rischio di costruzione, anche del rischio di
disponibilità o, nei casi di attività
redditizia verso l'esterno, del rischio di
domanda dei servizi resi, per il periodo di
gestione dell'opera (art. 180, comma 3).
Il
regime dei rischi e il suo trasferimento
all'operatore privato deve ritenersi, ha
aggiunto la Corte, presupposto necessario
per la qualificazione del contratto in
termini di partenariato pubblico privato ai
sensi dell'art. 180 del dlgs n. 50 del 2016.
Qualora, lo specifico contratto stipulato,
indipendentemente dal nomen iuris
utilizzato, non preveda un regolamento
convenzionale delle prestazioni che integri
i requisiti previsti dal codice dei
contratti pubblici per la sussunzione del
medesimo nella categoria dei contratti di
partenariato pubblico privato, comprensivi
del trasferimento dei rischi in capo
all'operatore economico nei termini
anzidetti, il relativo contratto non rientra
nella categoria dei contratti di
partenariato pubblico privato così come
definita dal dlgs n. 50 del 2016.
Deve pertanto risultare verificato il
rispetto delle condizioni contrattuali con
riguardo alle specifiche clausole fattuali
che determinino il trasferimento reale dei
rischi in capo al soggetto privato;
diversamente non si può parlare di contratto
di Ppp
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.11.2017).
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MASSIMA
La stessa Sezione delle autonomie ha, così,
concluso che “Le operazioni di locazione
finanziaria di opere pubbliche di cui
all’art. 187 se pienamente conformi nel
momento genetico-strutturale ed in quello
funzionale alla regolamentazione contenuta
negli artt. 3 e 180 del codice dei
contratti, ai fini della registrazione nelle
scritture contabili, non sono considerate
investimenti finanziati da debito”.
Pertanto, laddove la realizzazione
dell’opera, la sua disponibilità e la
percezione delle sue utilità da parte
dell’operatore economico corrispondano allo
schema negoziale tipico del partenariato di
cui all’art. 180 d.lgs. n. 50/2016, in
particolare in relazione all’assunzione dei
rischi da parte dell’operatore economico, il
contratto non può essere qualificato in
termini di indebitamento.
Ai fini di quanto sopra risulta determinante
la correttezza della qualificazione del
contratto in termini di paternariato
pubblico privato ai sensi del nuovo codice
dei contratti pubblici.
Il rischio (e il suo trasferimento
all’operatore privato) costituisce
l’elemento che caratterizza il partenariato
pubblico privato non solo nel suo momento
genetico, ma anche per tutta la durata della
sua esecuzione e deve ritenersi presupposto
necessario per la qualificazione del
contratto in termini di paternariato
pubblico privato ai sensi dell’art. 180 del
d.lgs. n. 50 del 2016. |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: L’art.
113, comma 5, dlgs 50/2013 si
applica anche alla Stazione Unica Appaltante prevista
dall’art. 37, comma 4, lett. c), del codice degli appalti.
Invero, la disposizione, nel rinviare alla disciplina degli
incentivi per funzioni tecniche prevista dal comma 2 del
medesimo articolo, sancisce che “Per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, può essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Presupposto essenziale per l’applicazione di tale disciplina
alla Stazione Unica Appaltante è, pertanto, la
qualificazione della medesima come centrale unica di
committenza.
Sul punto, si rileva che è lo stesso legislatore a fornire
risposta al quesito, atteso che l’art 3, lett. i), dlgs
50/2016 contiene una espressa definizione di centrale di
committenza, sicché non vi è dubbio che la Stazione Unica
Appaltante andrà qualificata come centrale di committenza
allorché fornisca attività di centralizzazione di
committenza e, se del caso, attività di committenza
ausiliarie, come definite dalle lett. l) ed m) del medesimo
articolo 3.
Ricorrendo siffatti presupposti, anche la
Stazione Unica
Appaltante ricadrà nel perimetro applicativo dell’art. 113,
comma 5, dlgs 50/2016.
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Anche gli incentivi per funzioni
tecniche di cui all’art. 113, comma 5, codice appalti sono da
includere nel tetto per i trattamenti accessori del
personale, non trattandosi di spese di investimento, a
differenza degli incentivi per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
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Il Presidente della Provincia di Brindisi chiede alla
Sezione un parere in merito all’applicazione della
disciplina degli incentivi per funzioni tecniche di cui
all’art 113, commi 2 e 5, dlgs 50/2016 nel caso in cui
l’ente operi come Stazione Unica Appaltante ai sensi
dell’art. 37, comma 4, lett. c), dlgs 50/2016.
In particolare, il Presidente espone che:
1) con Decreto Presidenziale n. 260 del 24/11/2015 è stata
disposta l’istituzione della Stazione Unica Appaltante,
denominata “S.U.A. “Provincia di Brindisi” ed è stato
approvato il regolamento che disciplina le finalità, i
compiti, l’organizzazione, la ripartizione del fondo ed il
funzionamento della Stazione Unica Appaltante, denominato
“Regolamento interno della Stazione Unica Appaltante della
Provincia di Brindisi”;
2) fermo restando il rispetto delle vigenti prescrizioni e
dei vincoli di natura legislativa e contrattuale nazionali,
con il sopra citato regolamento si è disposta una specifica
normativa idonea a regolamentare forme di incentivazioni
connesse all’espletamento delle relative funzioni da parte
del personale dell’Ente formalmente assegnato alla Stazione
Unica Appaltante.
Alla luce di quanto sopra esposto, il rappresentante della
Provincia formula i seguenti quesiti:
a) se la disciplina legislativa dell’art. 113, comma 5, dlgs
50/2016, relativa all’incentivazione per funzioni tecniche
nel caso di centrale unica di committenza, si possa
applicare anche in caso di Stazione Unica Appaltante;
b) se, in sede di applicazione della predetta disciplina, le
eventuali risorse finanziarie trasferite dagli enti
committenti e fatte transitare nel fondo risorse decentrate
della Provincia, quale Stazione Unica Appaltante, ai fini
della successiva erogazione ai dipendenti aventi diritto, si
possano considerare escluse dall’ambito di applicazione
della vigente disciplina vincolistica (art. 23, comma 2, dlgs 75/2017).
...
Passando al merito della richiesta, con il primo quesito, la
Provincia chiede se l’art. 113, comma 5, dlgs 50/2013 si
applichi anche alla Stazione Unica Appaltante prevista
dall’art. 37, comma 4, lett. c), del codice degli appalti.
La disposizione, nel rinviare alla disciplina degli
incentivi per funzioni tecniche prevista dal comma 2 del
medesimo articolo, sancisce che “Per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, può essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Presupposto essenziale per l’applicazione di tale disciplina
alla Stazione Unica Appaltante è, pertanto, la
qualificazione della medesima come centrale unica di
committenza.
Sul punto, si rileva che è lo stesso legislatore a fornire
risposta al quesito, atteso che l’art 3, lett. i), dlgs
50/2016 contiene una espressa definizione di centrale di
committenza, sicché non vi è dubbio che la Stazione Unica
Appaltante andrà qualificata come centrale di committenza
allorché fornisca attività di centralizzazione di
committenza e, se del caso, attività di committenza
ausiliarie, come definite dalle lett. l) ed m) del medesimo
articolo 3.
Ricorrendo siffatti presupposti, anche la
Stazione Unica
Appaltante ricadrà nel perimetro applicativo dell’art. 113,
comma 5, dlgs 50/2016.
Con il secondo quesito, l’ente chiede se l’incentivo
previsto per i compiti svolti dal personale della stazione
unica di committenza contemplato dall’art. 113, comma 5, dlgs
50/2016 sia assoggettato al limite per il trattamento
accessorio previsto da ultimo dall’art. 23, comma 2, dlgs
75/2017.
Sul punto non possono che richiamarsi i principi già
espressi dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione
06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24) con riferimento agli incentivi di cui
all’art. 113, comma 2, dlgs 50/2016, a cui rinvia il comma 5
del medesimo articolo. Le risorse ivi contemplate, infatti,
non mutano -a seconda che si riferiscano ad
un’amministrazione aggiudicatrice o ad una centrale di
committenza- la propria natura di compenso volto a
remunerare specifiche e determinate attività di natura
tecnica svolte dai dipendenti pubblici.
I predetti incentivi, pertanto, sono da includere nel tetto
di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici,
posto che gli stessi si configurano, in maniera
inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come
spese correnti e di personale.
La Sezione delle Autonomie ha
sottolineato come le modifiche apportate dall’entrata in
vigore dell’art. 23, comma 5, dlgs 75/2017 (il quale sancisce
che l'ammontare complessivo delle risorse destinate
annualmente al trattamento accessorio del personale, non può
superare il corrispondente importo determinato per l'anno
2016), con abrogazione dell’art. 1, comma 236, della legge
n. 208/2015, non hanno “inciso sulla risoluzione adottata da
questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter
argomentativo in relazione alla rilevata difformità della
fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n.
50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla
progettazione”.
Per i motivi sopra esposti, anche gli incentivi per funzioni
tecniche di cui all’art 113, comma 5, codice appalti sono da
includere nel tetto per i trattamenti accessori del
personale, non trattandosi di spese di investimento, a
differenza degli incentivi per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 09.11.2017 n. 149). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO -
SEGRETARI COMUNALI: Niente stipendi d’oro agli staff.
Strapagare il capo di gabinetto costituisce
danno erariale. Per
la Corte conti Toscana devono essere
rispettati i limiti stabiliti dai Ccnl.
Costituisce danno erariale
pagare il capo di
gabinetto al di là dei
limiti e dei parametri
stabiliti dai contratti collettivi
nazionali di lavoro.
La Corte dei
conti, sezione giurisdizionale
per la Toscana, con la
sentenza
19.09.2017 n. 209, torna
su una delle azioni a maggiore
rischio di danno per i sindaci:
l’assegnazione di incarichi di
staff, ai sensi dell’articolo 90
del dlgs 267/2000.
La vicenda riguarda la previsione
di un compenso annuo
di 50 mila euro per il capo di
gabinetto, assunto in staff e
privo della laurea.
Titolo di studio. La sezione
precisa che il danno non deriva,
di per sé, dal mancato possesso
del titolo di studio della laurea.
A ben vedere, infatti, l’articolo
90, così come il regolamento di
funzionamento dei servizi del
comune di Pistoia, non richiedono
alcun particolare titolo di
studio, allo scopo di valorizzare
l’elemento fiduciario nella scelta
del sindaco del proprio staff.
Per altro, la persona incaricata
come capo di gabinetto, pur non
laureata, secondo la sentenza
disponeva di un curriculum
idoneo ad attestare un’effettiva
competenza a svolgere
l’incarico.
Differenze con l’articolo
110. L’assenza della previsione
di un titolo di studio particolare,
spiegano i giudici, distingue
fortemente l’articolo 90 dall’articolo
110 del Tuel. Mentre per
lo staff non sono richiesti titoli
culturali, al contrario
nel caso dei dirigenti o
funzionari a contratto
la laurea si rivela necessaria.
Corrispondenza
fra titoli e inquadramento. Esclusa la necessità
della laurea, la
sentenza tuttavia evidenzia
un altro vincolo
implicito negli incarichi
regolati dall’articolo 90: il rispetto
del vincolo di corrispondenza
tra il trattamento economico
normativamente previsto
per una determinata categoria
e i requisiti, culturali e professionali,
posseduti, dall’incaricato.
Lo scopo di questa necessaria
corrispondenza è, secondo la
magistratura contabile evitare
«che le assunzioni dall’esterno
ai sensi dell’art. 90 Tuel siano
lasciate al mero arbitrio degli
amministratori».
Dunque, se è possibile incaricare
persone prive di laurea,
tuttavia la retribuzione dovrà
essere correlata al profilo professionale
corrispondente al titolo
posseduto. Nel caso di specie,
secondo la Corte dei conti,
quindi, all’incaricato doveva
essere assegnato il trattamento
economico corrispondente
alla Categoria C5, largamente
inferiore ai 50 mila euro annui
assegnati.
Inapplicabilità della sanatoria
del 2014. Nel caso
di specie, non è applicabile il
comma 3-bis dell’articolo 90
del dlgs 90/2014, introdotto
dal dl 90/2014 allo scopo di sanare
i molti incarichi di staff
sovrappagati a personale privo
di laurea. Tale comma dispone
che «resta fermo il divieto di
effettuazione di attività gestionale
anche nel caso in cui
nel contratto individuale di lavoro
il trattamento economico,
prescindendo dal possesso del
titolo di studio, è parametrato a
quello dirigenziale». Nel caso di
specie, l’incarico era stato conferito
nel 2007: il comma 3-bis
non ha, afferma la sentenza,
portata retroattiva e, quindi
non può esimere da responsabilità.
In ogni caso, «l’attribuzione
a personale sfornito di laurea
di un trattamento dirigenziale
dovrebbe essere
espressamente
consentita dal
Regolamento
sull’ordinamento
degli uffici e dei
servizi», il che nel
caso di specie non
era avvenuto.
No all’esimente
politica.
La sezione ha respinto
la cosiddetta «esimente
politica». Il sindaco, infatti, ha
affermato che il decreto di nomina
è stato il frutto di istruttorie
tecnico-amministrative di
competenza dei dirigenti, che
avrebbero indirettamente confermato
la legittimità dell’operato
del primo cittadino.
La sentenza rileva che il
sindaco, invece, ha ricoperto
«un ruolo che richiedeva la
padronanza di quei fondamentali
principi dell’agire
amministrativo e della contabilità
pubblica, peraltro di
semplicissima ed intuitiva
evidenza, che impongono di
legare il compenso di soggetti
assunti dall’esterno ex art. 90
Tuel a parametri oggettivi, suscettibili
di verifica e riscontro
immediati». Si conclude, quindi,
che l’incarico non richiedeva
quelle «specifiche competenze
tecnico-specialistiche, estranee
alle funzioni proprie degli organi
politici del comune» che
avrebbero mandato il sindaco
esente da responsabilità.
Assoluzione del segretario
comunale. Con una decisione
piuttosto innovativa,
la Sezione ha assolto il segretario,
chiamato in causa dalla
Procura, per non aver impedito
l’incarico dannoso.
Contrariamente a molta
altra giurisprudenza, la sentenza
evidenzia che i «compiti
di collaborazione e le funzioni
di assistenza giuridico-amministrativa
nei confronti degli
organi dell’ente in ordine alla
conformità dell’azione amministrativa
alle leggi, allo statuto
ed ai regolamenti, intestati in
capo al Segretario generale in
base all’art. 97 Tuel, non possono
evidentemente comportare
la responsabilità dello stesso
rispetto a vicende, per le quali
non risulti un diretto ed immediato
coinvolgimento dello
stesso»
(articolo ItaliaOggi del
29.09.2017).
--------------
MASSIMA
Staff
Sindaco: niente Cat. D per il diplomato.
La retribuzione degli incarichi di staff
del sindaco previsti dall'art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000
devono essere calcolati tenendo «conto delle funzioni
previste nella declaratoria contrattuale degli enti locali».
In particolare «un dipendente sprovvisto del titolo della
laurea non potrà essere assunto come funzionario
amministrativo (categoria D), ma esclusivamente come
istruttore amministrativo (categoria C, anche nella sua
massima estensione orizzontale, ossia C5)».
In relazione,
poi, all'erogazione del salario accessorio forfettario
«in
mancanza della deliberazione della Giunta comunale, il
sindaco non può "sapere" l'ammontare della parte
determinabile ex post (straordinario, produttività,
incentivi ecc.) del salario accessorio in via forfettaria».
---------------
5. Con riferimento al merito della vicenda, il Collegio ritiene che la
pretesa erariale meriti accoglimento, sia pure nei termini e
limiti sottoindicati, unicamente nei confronti del Sig.
Be.Re., dovendo, per contro, essere disattesa nei
confronti del Sig. Fe.Ca..
5.a) Nello specifico, in relazione alla posizione del
Sindaco Be., data per pacifica la ricorrenza del cd
rapporto di servizio con l’Amministrazione danneggiata
(Comune di Pistoia), risulta evidente la condotta illecita,
consistita nell’adozione del decreto n. 130 del 27.06.2007, prevedente il conferimento al Sig. Fo.
dell’incarico di Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, con
l’attribuzione al medesimo, a titolo di acconto e salvo
conguaglio, nelle more della fissazione del compenso
definitivo da parte della Giunta (invero mai intervenuta),
del compenso dal medesimo già percepito quale Capo di
Gabinetto (euro 50.000,00 annui lordi, giusta decreto
sindacale n. 330 del 30.09.2002, richiamato nelle premesse
del decreto n. 130/07).
A tal riguardo, va subito evidenziato che il profilo di
illiceità è rappresentato non già dall’assenza del diploma
di laurea in capo all’incaricato, quale circostanza per
contro ritenuta dall’Organo requirente di per sé ostativa
all’accesso all’incarico de quo, ma dall’intervenuto
riconoscimento di un compenso non corrispondente ai
requisiti culturali e professionali del Fondatori, alias al
livello di inquadramento consentito in base agli stessi.
A tale ultimo riguardo, l’Organo requirente ha censurato il
riconoscimento di un compenso (finanche) superiore a quello
normativamente previsto per la categoria D, richiedente il
possesso del diploma di laurea.
Il Collegio ritiene, infatti,
che il diploma di laurea non
fosse necessario ai fini dell’attribuzione dell’incarico di
Responsabile dell’Ufficio del Sindaco (quale Struttura di
Staff posta alle dirette dipendenze del Sindaco stesso per
l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo al
medesimo spettanti, come confermato dalla delibera giuntale
n. 28 del 22.2.2007), siccome incarico di carattere
eminentemente fiduciario conferito ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 267/2000, cd. T.U.E.L.
Tale ultima disposizione (significativamente richiamata nel
contratto di lavoro subordinato a tempo determinato,
stipulato con il Fondatori in data 27.06.2007, in esecuzione
del decreto sindacale per cui è causa) non richiede, invero,
uno specifico e particolare requisito culturale, quale
quello della laurea, ferma restando la necessità
dell’inquadramento dell’incaricato, sulla base dei requisiti
di studio posseduti e in relazione alle pregresse esperienze
professionali (tali comunque da garantire l’adeguato
assolvimento dei compiti assegnati), in una determinata
qualifica funzionale, cui far discendere, in applicazione
delle disposizioni contrattuali di settore, la
determinazione del relativo trattamento economico (in
termini, tra le altre, Corte Conti, Sez. giur. Calabria, 10.07.2014, n. 191; id., Sez. giur. Emilia-Romagna, 18.11.2014, n. 155).
Nello specifico, il richiamato art. 90, per quanto
d’interesse in questa sede, si limita a statuire, al primo
comma, che il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti
alle dirette dipendenze del Sindaco, “…..per l’esercizio
delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite
dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero,
salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo
determinato…..”.
La medesima disposizione statuisce, al secondo comma 2, che
“Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a
tempo determinato si applica il contratto collettivo
nazionale di lavoro del personale degli enti locali”,
aggiungendo, al comma 3, che “Con provvedimento motivato
della giunta, al personale di cui al comma 2, il trattamento
economico accessorio previsto dai contratti collettivi può
essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei
compensi per il lavoro straordinario, per la produttività
collettiva e per la qualità della prestazione individuale”.
Risulta allora acclarato come l’art. 90 TUEL non richieda
specifici requisiti o particolari titoli di studio per gli
incarichi afferenti agli Uffici di staff.
Tutto ciò al fine precipuo di valorizzare la componente
fiduciaria nella individuazione di soggetti destinati ad
operare in uffici che possono essere definiti come strutture
eventuali, la cui costituzione è rimessa all’autonoma
determinazione dell’Ente e che svolgono una funzione di
immediato supporto agli organi di direzione politica
nell’esercizio delle funzioni di indirizzo politico e
controllo loro spettanti, in posizione servente e subalterna
rispetto agli stessi organi (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Calabria n. 191/2014).
Emerge allora palese la differenza rispetto al successivo
art. 110 TUEL (in tema di contratti a tempo determinato per
la copertura di posti responsabili dei servizi o degli
uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione), il quale fa esplicito riferimento alla
necessità del possesso di particolari requisiti che rendano
gli incaricati idonei alle mansioni specialistiche o
direttive che andranno a svolgere, con particolare
riferimento al titolo di studio da ricondurre
necessariamente al diploma di laurea o titolo equipollente
(così, Corte Conti, Sez. giur. Emilia-Romagna, 18.11.2014, n. 155).
La non necessità di uno specifico requisito culturale per
l’accesso agli incarichi di cui all’art. 90 risulta
confermata dalla circostanza per cui tale disposizione, nel
contesto di una disciplina, come visto, autonoma rispetto a
quella delineata dal successivo art. 110, richiama sì il
CCNL, ma per il “personale assunto” e, dunque, per una fase
successiva a quella dell’assunzione (in termini, Corte
Conti, Sez. giur. Toscana, 04.08.2011 n. 282; id., Sez. giur. Toscana, 20.02.2012, n. 85).
Allo stesso modo, il diploma di laurea non è richiesto
dall’art. 5 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e
dei servizi del Comune di Pistoia, nella versione,
applicabile alla fattispecie all’esame, approvata con
delibera giuntale n. 41 del 06.04.2006.
Tale disposizione, inserita nel Titolo II (“Uffici di
supporto agli organi di direzione politica”), non impone,
infatti, alcun particolare requisito culturale, limitandosi
a prevedere, al comma 2, che il responsabile dell’Ufficio
del Sindaco, da scegliersi tra il personale dipendente
dell’Ente oppure all’esterno, sia “comunque in possesso di
comprovati requisiti professionali adeguati alle mansioni da
svolgere”, aggiungendo, al comma 3, per l’ipotesi in cui
tale Ufficio sia diretto da personale non dipendente
dell’ente, che il relativo rapporto di lavoro sia
disciplinato da contratto a tempo determinato di durata non
superiore a quella del mandato amministrativo (e destinato a
risolversi di diritto con la cessazione dell’incarico del
Sindaco), con attribuzione di una retribuzione determinata
dalla Giunta.
Orbene, nel caso all’esame, il curriculum del Sig.
Fo., presente (anche) nel fascicolo di Procura, lascia
sicuramente emergere, a giudizio del Collegio, il possesso
di requisiti professionali (e culturali) adeguati in
relazione all’incarico in questione.
Risulta, infatti, che il Fo. (giornalista pubblicista
iscritto all’Ordine, in possesso di diploma di scuola
superiore, nonché partecipante a diversi masters e corsi di
formazione in materie riguardanti la P.A.) ha svolto, in
epoca antecedente all’assunzione dell’incarico per cui è
causa, tra l’altro, le funzioni di Addetto stampa e
relazioni con le istituzioni di un Onorevole presso la
Camera dei Deputati (periodo 1992-1996), di Segretario
particolare del Presidente della Commissione Lavoro della
Camera dei Deputati (periodo 1996-2001) nonché di Portavoce
del Sindaco (dal 2000 al 2002) e di Capo di Gabinetto del
Comune di Pistoia (dal 2002 al 2007).
Nondimeno, i predetti requisiti professionali e culturali
giammai avrebbero potuto giustificare l’attribuzione al
Fo. di un trattamento economico come quello
concretamente riconosciuto (euro 50.000,00 annui lordi).
A tal ultimo riguardo, giova osservare che, per consolidata
giurisprudenza di questa Corte, i principi, di valenza anche
costituzionale, di ragionevolezza e buon andamento della
P.A. (artt. 3 e 97 Cost.), impongono di riconoscere al
personale esterno incaricato ai sensi dell’art. 90 TUEL,
anche in assenza di laurea, un trattamento economico
corrispondente ai requisiti culturali e professionali
concretamente posseduti, vale a dire il trattamento
economico proprio della qualifica cui, in base al CCNL di
riferimento, lo stesso andrebbe inquadrato in base ai
predetti titoli (in termini, Corte Conti, Sez. giur.
Toscana, n.85/2012, confermata sul punto da Sez. I n.
806/2014; id., Sez. giur. Toscana, n. 282/2011; id.; Sez.
giur. Calabria, n. 191/2014; id., Sez. giur. Emilia Romagna,
n. 155/2014).
La necessità del rispetto del vincolo di corrispondenza tra
il trattamento economico normativamente previsto per una
determinata categoria e i requisiti, culturali e
professionali, posseduti, atti a giustificare l’appartenenza
a quella stessa categoria, con l’attribuzione del relativo
trattamento, evita, infatti, che le assunzioni dall’esterno
ai sensi dell’art. 90 TUEL siano lasciate al mero arbitrio
degli amministratori
(in termini, Corte Conti, Sez. giur.
Toscana, n. 282/2011 e n. 85/2012).
Sotto questo punto di vista, il rinvio operato dall’art. 90
al CCNL se da un lato costituisce una garanzia per il
lavoratore a fronte del rischio dell’erogazione di
retribuzioni inferiori e/o comunque sganciate dalle
previsioni contrattuali, dall’altro fornisce
all’Amministrazione un parametro obiettivo nella
determinazione del trattamento retributivo del personale
chiamato a far parte degli uffici di diretta collaborazione.
Né, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto,
le conclusioni testé esposte sono inficiate dalla
circostanza per cui l’art. 90, comma 3-bis, TUEL, statuisce
che “resta fermo il divieto di effettuazione di attività
gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale
di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal
possesso del titolo di studio, è parametrato a quello
dirigenziale”.
A tal riguardo, va in primo luogo osservato che la predetta
disposizione non può trovare spazio in questa sede in quanto
introdotta dall’11, comma 4, d.l. 24.06.2014, n.90,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014,
n. 114 e, dunque, in epoca ben successiva ai fatti per cui è
causa (il decreto sindacale di nomina reca la data del 27.06.2007).
In particolare, il carattere sostanziale della stessa ne
preclude un’applicazione retroattiva (in termini, Corte
Conti, Sez. giur. Emilia Romagna, 28.04.2016, n. 73).
Aggiungasi che, in ogni caso, l’attribuzione a personale
sfornito di laurea di un trattamento dirigenziale dovrebbe
essere espressamente consentita dal Regolamento
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (ipotesi non
ricorrente nel caso all’esame), quale fonte normativa cui è
demandata la stessa istituzione degli Uffici di staff (Corte
Conti, Sez. cont. Toscana, delib. n. 11 del 05.03.2015).
Orbene, nella fattispecie per cui è causa, secondo quanto
riconosciuto dalla stessa difesa del convenuto Berti (vedasi
pagg. 53 e ss della memoria di costituzione in giudizio), la
categoria corrispondente ai requisiti culturali e
professionali dal medesimo posseduti è rappresentata dalla
categoria C, pos. economica 5, per l’accesso alla quale è
richiesto il solo diploma di scuola superiore.
Nello specifico, in base all’allegato A del CCNL Enti Locali
del 31.03.1999, appartengono a tale categoria “...i lavoratori
che svolgono attività caratterizzate da: -Approfondite
conoscenze mono specialistiche (la base teorica di
conoscenze è acquisibile con la scuola superiore) e un grado
di esperienza pluriennale, con necessità di
aggiornamento…….”.
Conseguentemente, il Fo., ove legittimamente
inquadrato, avrebbe potuto percepire un importo annuo lordo
pari ad euro 23.726,43, ottenuto sommando gli importi sottoindicati:
a) euro 21.901,32 (stipendio tabellare, vedasi Tab. B
allegata al CCNL 2008-2009);
b) euro 1.825,11 (1/12 di euro 21.901,32), quale 13^
mensilità.
A tal fine, il Collegio ritiene, nell’ottica di una
valutazione, in questa sede da effettuarsi necessariamente
in termini astratti e ipotetici e comunque da ancorare a
parametri oggettivi e certi, di non poter prendere in
considerazione né l’indennità per la titolarità di posizioni
organizzative, siccome assegnabili, se del caso,
esclusivamente a dipendenti classificati nella cat. D (ex
art. 8, comma 2, CCNL del 31.03.1999 ed artt. 19 e 20 del
Regolamento sull’ordinamento degli uffici e servizi) né le
competenze accessorie, in quanto eventuali e spesso legate a
situazioni soggettive particolari e/o accertabili solo ex
post (così, ad es., l’indennità ex art. 42, comma 5-ter, D.lgs 151/2001 in tema di riposi e permessi per figli con
handicap grave, l’indennità di vigilanza, l’indennità per
personale scolastico, l’indennità per incentivi alla
progettazione di cui alla cd Legge Merloni e lo stesso
compenso per il lavoro straordinario).
Sotto questo punto di vista, non risultano probanti le
tabelle “T13”, allegate alle memorie di costituzione dei
convenuti, riportanti, assieme a quelle “T12”, il
trattamento complessivo effettivamente erogato a tutto il
personale di cat. C5 del Comune di Pistoia, senza
distinzioni di sorta all’interno del medesimo personale.
Tutto ciò in disparte il fatto che i convenuti stessi
arrivano ad ipotizzare per il Fo., sulla base delle
richiamate tabelle, un trattamento, comprensivo di compensi
accessori e 13^ mensilità, ben inferiore a quello
concretamente percepito.
Ne deriva che la differenza tra le somme effettivamente
percepite dal Fo. nel periodo 2009-2012 qui in
contestazione (euro 50.000,00 annui lordi) e quelle che lo
stesso avrebbe potuto percepire, nel medesimo periodo (euro
23.726,43 annui lordi), costituisce sicuro danno erariale,
trattandosi di importo che eccede quello corrispondente ai
requisiti culturali e professionali dell’incaricato, tali da
giustificare l’inquadramento (unicamente) nella categoria C5
CCNL Enti locali.
Sul punto, non può dubitarsi, trattandosi di circostanza non
contestata dalle parti, che il Fo. abbia
effettivamente operato, nel periodo considerato in questa
sede, quale Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, prestando
un’attività nell’interesse e a vantaggio del Comune di
Pistoia, per la quale sarebbe stato, dunque, necessario
erogare un compenso, sia pure in misura inferiore a quella
concretamente riconosciuta.
Sotto questo punto di vista, risulta irrilevante il mancato
possesso del diploma di laurea, siccome titolo culturale non
indefettibile, come detto, ai fini dell’accesso all’incarico
de quo.
Nondimeno, in superamento delle argomentazioni della difesa
del Be., non può ritenersi che il danno erariale (alias,
il trattamento eccedente quello discendente dal corretto
livello di inquadramento) sia stato compensato dalla utilità
conseguita dall’Ente per effetto dell’attività espletata dal
Fo. (art. 1, comma 1-bis, legge 20/1994).
Tutto ciò in quanto le stesse previsioni contrattuali
fissano il corrispettivo concretamente erogabile per
l’attività svolta da soggetti in possesso dei requisiti
culturali e professionali del tipo di quelli concretamente
posseduti dal Fo. stesso, sulla base di una
valutazione preventiva che investe anche il profilo
dell’utilità per l’Amministrazione di prestazioni rese da
soggetti in possesso dei predetti titoli.
Il richiamato danno va ricondotto, in termini eziologici,
alla condotta del convenuto Be., il quale ha assunto il
più volte richiamato decreto n. 130 del 27.06.2007,
prevedente il conferimento al Sig. Fo. dell’incarico
di Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, con l’attribuzione
al medesimo, a titolo di acconto e salvo conguaglio, nelle
more della fissazione del compenso definitivo da parte della
Giunta (invero mai intervenuta), del compenso dal medesimo
già percepito quale Capo di Gabinetto (euro 50.000,00 annui
lordi, giusta decreto sindacale n. 330 del 30.9.2002,
richiamato nelle premesse di quello n. 130/07).
Trattandosi di atto assunto, in via diretta ed autonoma, dal
convenuto Be. nell’esercizio delle sue precipue competenze
sindacali, non può trovare spazio nel caso all’esame la
“esimente politica” di cui all’art. 1, comma 1-ter, legge
20/1994, per contro invocata dalla difesa.
Nella condotta del convenuto Be. è sicuramente ravvisabile
il profilo soggettivo della colpa grave, attesa l’estrema
trascuratezza e superficialità mostrate nella salvaguardia
delle risorse finanziarie del Comune di Pistoia, con il
riconoscimento al Fo., in violazione dei canoni di
ragionevolezza e buon andamento della P.A., di un compenso
sganciato da ogni oggettivo parametro di riferimento e ben
superiore a quello giustificato dai requisiti culturali e
professionali del medesimo.
Tutto ciò anche alla luce della chiarezza e specificità del
quadro normativo di riferimento.
Sotto questo punto di vista, non può trovare accoglimento
l’argomentazione difensiva, alla cui stregua la fissazione
dello specifico livello retributivo del dipendente, nel
confronto con le mansioni assegnate e con i relativi
requisiti curriculari, avrebbe richiesto specifiche
competenze tecnico-specialistiche, estranee alle funzioni
proprie degli organi politici del Comune.
A tal riguardo, giova osservare che il Sig. Be., quale
Sindaco del Comune di Pistoia, operava in un ambito
istituzionale di assoluta rilevanza, ricoprendo un ruolo che
richiedeva la padronanza di quei fondamentali principi
dell’agire amministrativo e della contabilità pubblica,
peraltro di semplicissima ed intuitiva evidenza, che
impongono di legare il compenso di soggetti assunti
dall’esterno ex art. 90 TUEL a parametri oggettivi,
suscettibili di verifica e riscontro immediati.
D’altro canto, concorre a far risaltare ulteriormente la
grave colpevolezza del Sindaco Be. la circostanza per cui
lo stesso ha omesso di convocare la Giunta per determinare
il compenso definitivo da attribuire al Fo.,
nonostante l’espressa previsione in tal senso contenuta nel
decreto n. 130/07, in conformità all’art. 5, comma 3, del
Regolamento sull’ordinamento degli uffici e servizi
(esplicitamente richiamato).
Sul punto, non risultano condivisibili le tesi difensive,
secondo le quali, non avendo i dirigenti competenti e
l’Assessore delegato per materia posto in essere una serie
di passaggi procedimentali, di asserita, esclusiva
competenza degli stessi (istruzione e redazione da parte
delle strutture burocratiche di una proposta di delibera, da
trasmettere, previa acquisizione del visto dell’Assessore
competente, al Dirigente del Servizio Affari Generali ed
Istituzionali, affinché la stessa fosse posta all’ordine del
giorno della Giunta), il Sindaco Be. si sarebbe trovato
nell’impossibilità di proporre ed imporre la discussione e
l’approvazione della delibera in questione.
La convocazione (e la presidenza) della Giunta rientrano,
infatti, nelle precipue competenze sindacali, stante
l’espressa previsione di cui all’art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
In ogni caso, poi, il Sindaco Be. avrebbe potuto (quanto
meno) stimolare le competenti strutture burocratiche ad
attivare ed espletare un procedimento amministrativo
finalizzato a determinare in via definitiva il compenso del
Fo., secondo quanto espressamente previsto nel decreto
sindacale di nomina dello stesso.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto, va affermata la
responsabilità amministrativa del Sindaco Be. in relazione
alla vicenda de qua, ferma restando la necessità, che sarà
successivamente soddisfatta, di procedere alla puntuale
determinazione della somma da porre a carico dello stesso, a
titolo di pregiudizio erariale.
5.b) Per contro, deve essere rigettata la pretesa erariale
nei confronti del convenuto Fe.Ca., attesa l’assenza
di nesso eziologico.
Dagli atti di causa non emerge, infatti, alcuna prova certa
del coinvolgimento dello stesso nella specifica vicenda per
cui è causa.
Non risulta, in particolare, che al Fe., quale
Segretario generale dell’Ente, sia stato preventivamente
chiesto un parere sulla legittimità del decreto sindacale
n. 130/07 (circostanza invero esclusa dalla stessa Procura
contabile a pag. 27 dell’atto di citazione) e che lo stesso
decreto, in epoca successiva alla sua adozione, sia stato a
lui trasmesso.
Né il predetto coinvolgimento può farsi discendere dalla
circostanza per cui il Fe. risulta tra i destinatari di
specifica interpellanza diretta a far luce sulle procedure
relative alla costituzione e al funzionamento dell’Ufficio
stampa, dello Staff del Sindaco e dell’Ufficio Portavoce del
Sindaco.
Tutto ciò in quanto la predetta interpellanza, acquisita al
protocollo dell’Ente in data 5/06.07.2005, risulta ben
antecedente al conferimento dello specifico incarico
contestato in questa sede, riferendosi, dunque, ad un
assetto organizzativo diverso da quello qui vagliato.
D’altro canto, in maniera alquanto significativa, lo stesso
Organo requirente, in citazione, sottolinea la diversità e
maggiore incisività dei compiti attribuiti al Fo. con
il decreto n. 130 del 2007 contestato in questa sede (pag.
26).
Allo stesso modo, i “compiti di collaborazione” e le
“funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei
confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità
dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai
regolamenti”, intestati in capo al Segretario generale in
base all’art. 97 T.U.E.L., non possono evidentemente
comportare la responsabilità dello stesso rispetto a
vicende, per le quali non risulti un diretto ed immediato
coinvolgimento dello stesso.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, va
disposta l’assoluzione del Sig. Fe.Ca..
All’assoluzione consegue, ai sensi dell’art. 3, comma 2-bis
del decreto legge 543/96, convertito dalla legge n. 639/1996
e s.m.i. (oggi, art. 31 del nuovo codice della giustizia
contabile, approvato con il d.lgs. n. 174/2016), il rimborso,
da parte del Comune di Pistoia, delle spese legali,
quantificate in euro 800,00.
6. Si pone a questo punto la necessità di procedere alla
puntuale quantificazione dell’importo da porre a carico del
convenuto Be., a titolo di pregiudizio erariale.
A tal riguardo, va ribadito che, nel periodo contestato in
questa sede (2009-2012, rectius, gennaio 2009-08.05.2012,
data di cessazione dell’incarico, come da determina
dirigenziale n.1089 del 14.05.2012; all. n. 11-bis alla
memoria di costituzione del sig. Be.), al Fo. è
stato erogato l’importo complessivo lordo di euro 165.780,83
(vedasi schema riepilogativo riportato a pag. 1 dell’atto di
citazione; vedasi, altresì, pag. 8 della relazione della
Guardia di Finanza del 24.09.2013, prot. n. 303452/13, con la
documentazione ivi allegata).
Al medesimo importo va, però, sottratto, in virtù della
prescrizione già dichiarata in questa sede, quello lordo di
euro 3.612,18 (relativo al mese di gennaio 2009),
ottenendosi per questa via la somma complessiva lorda di
euro 162.168,65.
Da tale importo va, poi, detratto quanto avrebbe dovuto
essere erogato al Fo. in base al corretto livello di
inquadramento, ossia euro 75.300,47 lordi, derivante dalla
sommatoria degli importi sottoindicati:
a) euro 20.076,21 per l’anno 2009 (ottenuto moltiplicando
l’importo di euro 1.825,11, pari a 1/13 di quello annuale,
comprensivo di 13^mensilità, di euro 23.726,43, come sopra
calcolato, per 11, non considerando il mese di gennaio,
coperto da prescrizione);
b) euro 23.726,43 per l’anno 2010;
c) euro 23.726,43 per l’anno 2011;
d) euro 7.771,4 per l’anno 2012 (ottenuto, alla luce della
cessazione dell’incarico in data 08.05.2012,
moltiplicando l’importo di euro 1.825,11, come sopra
calcolato, per 4 –primi quattro mese dell’anno- ed
aggiungendo alla somma così ottenuta– euro 7.300,44-
l’importo di euro 470,96, relativo al mese di maggio, a sua
volta ottenuto dividendo l’importo mensile di euro 1.825,11
per 31 -giorni del mese- e moltiplicando quanto ottenuto per
8).
Per questa via, si ottiene l’importo lordo di euro 86.868,18
(pari alla differenza tra euro 162.168,65 ed euro
75.300,47).
Dal medesimo importo vanno, però, scomputate le ritenute
fiscali e previdenziali, in quanto comunque recuperate
all’Erario (in termini, tra le altre, Corte Conti, Sez. III,
nn. 167 e 273 del 2014).
Le somme da scomputare al predetto titolo, in assenza di più
sicuri parametri di riferimento, vanno equitativamente
fissate, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in una percentuale
pari al 20% dell’importo lordo di euro 86.868,18, con la
conseguenza che la somma da addebitare al convenuto Berti si
riduce ad euro 69.494,54.
Tale importo va integralmente addebitato al convenuto Be.,
attese l’assoluzione dell’altro convenuto Fe. (per
assenza di nesso eziologico) e l’impossibilità di ravvisare
una compartecipazione nella causazione del danno di altri
soggetti, non evocati in giudizio (in particolare, i
componenti dell’apparato burocratico dell’Ente).
Questi ultimi, infatti, risultano intervenuti a dare mera
attuazione ad una decisione già autonomamente assunta,
nell’ambito delle sue precipue competenze sindacali, dal
Sindaco Be., con l’adozione del più volte citato decreto
n. 130 del 20.06.2007.
Allo stesso modo, il Collegio non ravvisa la sussistenza dei
presupposti per l’esercizio del potere riduttivo
dell’addebito di cui all’art. 52, comma 2, R.D. n.
1214/1934, alla luce della gravità della condotta
addebitata, consistita nell’attribuzione, in violazione dei
canoni di ragionevolezza e buon andamento della P.A., di un
compenso sganciato da parametri oggettivi di riferimento e
ben superiore a quello giustificato dai requisiti culturali
e professionali dell’incaricato.
7. In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto,
va disposta la condanna del Sig. BE.Re. al pagamento,
in favore del Comune di Pistoia, dell’importo, da intendersi
già comprensivo di rivalutazione, di euro 69.494,54.
Sul predetto importo sono dovuti gli interessi, come da
dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Toscana, in composizione collegiale, definitivamente
pronunciando:
- RIGETTA le richieste ed eccezioni preliminari dei
convenuti, ad eccezione di quella di prescrizione parziale
dell’azione erariale;
- ACCOGLIE parzialmente l’eccezione di prescrizione
dell’azione erariale, con riferimento all’importo di euro
3.612,18;
- RIGETTA la pretesa erariale nei confronti del Sig. FE.Ca., con il riconoscimento del diritto dello stesso al
rimborso, da parte del Comune di Pistoia, delle spese
legali, quantificate in euro 800,00;
- CONDANNA il Sig. Sig. BE.Re. al pagamento, in favore
del Comune di Pistoia, dell’importo di euro 69.494,54, già
comprensivo di rivalutazione.
Sull’importo per cui è condanna sono dovuti gli interessi,
nella misura di legge, dalla data di pubblicazione della
presente sentenza e fino al soddisfo.
Le spese di giudizio, che si liquidano in €
694,98.= (Euro seicentonovantaquattro/98.=)
seguono la soccombenza (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 19.09.2017 n. 209). |
LAVORI PUBBLICI: Il
leasing finanziario in PPP non è sempre
indebitamento. Sezione autonomie: ciò che
conta è che i rischi siano in capo
all'operatore economico.
Non basta il nome per qualificare il
partenariato pubblico privato come «leasing
operativo» e in quanto tale non impattante
sull'indebitamento. Per evitare di
peggiorare i propri conti e gravare sul
tetto massimo all'indebitamento, gli enti
dovranno dimostrare «rigorosamente» che è il
partner privato ad accollarsi i rischi
dell'operazione, in coerenza con i principi
dettati da Eurostat.
Lo ha chiarito con la
deliberazione
23.06.2017 n. 15 la sezione
autonomie della Corte dei conti, ponendo
così fine a una situazione di incertezza
interpretativa che, in assenza di norme
certe e univoche, grava sulla materia da
anni.
A sollevare la questione dinanzi alla
sezione autonomie è stata la sezione
regionale di controllo della Lombardia, a
sua volte chiamata a rispondere a un quesito
del comune di Orio al Serio (Bg) che
intendeva realizzare una palestra in
partenariato pubblico privato, qualificando
e contabilizzando l'operazione come «leasing
operativo».
Uno schema giuridico che
prevedendo per l'ente solo il godimento del
bene, senza trasferimento della proprietà
dello stesso al termine dell'operazione, non
è annoverabile tra le forme di
indebitamento. Diverso, invece, il caso del
«leasing finanziario», il cui elemento
caratterizzante, come chiarito dalla
Cassazione, «è proprio l'effetto traslativo
della proprietà al termine dell'operazione»,
il che lo qualifica come finanziamento e
quindi come operazione impattante
sull'indebitamento.
La sezione autonomie ha chiarito che, in via
generale, il contratto riconducibile allo
schema del leasing finanziario costituisce
indebitamento, salvo che l'amministrazione,
previa valutazione della convenienza ed
economicità dell'operazione, non dimostri
che i rischi siano allocati in capo al
contraente privato.
Ciò dovrà risultare sia negli atti
preparatori del contratto, sia in modo
chiaro e puntuale nel contratto redatto ai
sensi dell'art. 180 del codice appalti.
Dunque la presunzione legale circa la
qualificazione del leasing finanziario come
fonte di indebitamento non può, secondo la
Corte conti, continuare a essere definita
assoluta (iuris et de iure), ma bensì solo
relativa (iuris tantum), quindi ammessa
salvo prova contraria.
«Non è sufficiente, insomma», scrive la
Corte, «che un contratto venga nominalmente
qualificato come contratto di partenariato
pubblico privato, né che vi siano clausole
di mero stile ma prive di chiaro contenuto
esplicativo dei rischi e della loro
allocazione tra le parti per escluderne l'annoverazione
tra le fonti di indebitamento, con quello
che ne consegue in termini di modalità di
contabilizzazione, di computo ai fini del
calcolo del tetto del debito massimo
ammissibile, di responsabilità per quanti
contribuiscano a porre in essere atti
negoziali elusivi del limite di
indebitamento».
Quello che conta, invece, è
l'allocazione dei rischi in capo
all'operatore economico. Essa rappresenta
infatti una «condizione tipica» e quindi un
parametro indispensabile per escludere
l'operazione tra quelle di indebitamento
puro. «Altre forme di realizzazione in
partenariato latu sensu di opere e servizi
il cui regolamento sia frutto dell'autonomia
negoziale delle parti», conclude la
Corte, «sono ascrivibili in via
presuntiva alla figura del leasing
finanziario, fattispecie riconducibile al
contratto di finanziamento a fini di
investimento che costituisce indebitamento
per l'ente appaltante»
(articolo ItaliaOggi del
29.06.2017).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte
dei conti, pronunciandosi sulla questione di
massima posta dalla Sezione di regionale di
controllo per la Lombardia con la
deliberazione n. 36/2017/QMIG, enuncia i
seguenti principi di diritto:
“1. Le operazioni di locazione finanziaria
di opere pubbliche di cui all’art. 187 se
pienamente conformi nel momento
genetico-strutturale ed in quello funzionale
alla regolamentazione contenuta negli artt.
3 e 180 del codice dei contratti, ai fini
della registrazione nelle scritture
contabili, non sono considerate investimenti
finanziati da debito.
2. Le procedure di realizzazione in partenariato di opere pubbliche
e servizi che non siano sostanzialmente
corrispondenti alla regolamentazione tipica
generale, definita nelle surricordate norme
del codice dei contratti, devono
considerarsi rientranti nel novero dei
contratti e delle operazioni assimilate al
contratto di leasing finanziario, ai sensi
dell’art. 3, comma 17, della l. n. 350/2003,
indipendentemente dalla qualificazione
formale attribuita dalle parti, secondo le
disposizioni contenute nel punto 3.25 del
principio contabile applicato all. 4/2 al
d.lgs. n. 118/2011, con ogni coerente
conseguenza in termini di modalità di
contabilizzazione, di computo ai fini del
calcolo del tetto del debito massimo
ammissibile, di responsabilità per quanti
contribuiscano a porre in essere atti
negoziali elusivi del limite di
indebitamento”. |
CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALI: Chi
sfora sui bilanci segnalato dai revisori
alla Corte conti. Linee guida della
magistratura contabile per gli organi di
regioni e province autonome.
Gli organi di revisione delle Regioni e
delle Province autonome sono tenuti a
verificare e a segnalare alla Corte dei
conti il mancato rispetto dei termini per
l'approvazione del bilancio di previsione,
del rendiconto e del bilancio consolidato,
posto che tale inadempimento adesso comporta
la sanzione del divieto di procedere ad
assunzioni di personale a qualsiasi titolo.
Inoltre, gli stessi dovranno attentamente
vigilare sulla corretta attuazione dei
principi sanciti dall'armonizzazione
contabile, in particolare su quelli della
programmazione, posto che l'attendibilità,
la congruità e la coerenza dei documenti di
programmazione sono i veri cardini
dell'affidabilità dell'intero sistema di
bilancio.
È quanto si evince dalla lettura delle linee
guida (e del relativo questionario) che la
Sezione Autonomie della Corte dei conti, con
deliberazione
16.06.2017 n. 13, ha diramato per
indirizzare le relazioni che i collegi dei
revisori dei conti sono tenuti a presentare
sui bilanci di previsione delle Regioni per
il 2017-2019, ai sensi dell'articolo 1,
comma 166 della legge finanziaria per il
2006.
Linee guida che, a conti fatti, si
sono rivelate uno strumento efficace per la
collaborazione tra la stessa magistratura
contabile e gli organi di controllo interno,
in quanto «favoriscono la condivisione delle
informazioni contabili ed extracontabili ai
fini del risultato di sana gestione
economico-finanziaria degli enti».
La Corte
evidenzia alcuni profili di novità rispetto
al passato. Su tutti, quello introdotto
dall'articolo 9, comma 1-quinquies, del
decreto legge n. 113/2016. A partire dal
bilancio di previsione 2017-2019, dal
rendiconto 2016 e dal bilancio consolidato
2016, viene sanzionato sia il mancato
rispetto dei termini previsti per
l'approvazione dei citati documenti che il
termine di trenta giorni dalla loro
approvazione per l'invio delle risultanze
alla Banca dati delle pubbliche
amministrazioni (Bdap).
La sanzione come
noto, si concretizza nel divieto assoluto
per gli enti territoriali, di procedere ad
assunzioni di personale a qualsiasi titolo,
con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi
compresi i rapporti di collaborazione
coordinata e continuativa, fino a quando non
avranno ottemperato. Per la Corte, è
importante che l'organo di revisione
verifichi il rispetto delle scadenze
previste dalla legge, in quanto trattasi di
«sanzioni autoapplicative» e che i divieti
sopra richiamati siano rispettati fino
all'avvenuto adempimento dell'obbligo di
legge.
Il questionario allegato alle linee
guida è composto da otto sezioni, tra cui
quelle che evidenziano la presenza di
problematiche legate alla gestione del
personale, la verifica sulle coperture
utilizzate per conseguire l'equilibrio di
bilancio, la razionalizzazione del sistema
delle partecipazioni e il rispetto delle
norme in tema di indebitamento. Infine, la
Corte sollecita gli organi di revisione ad
un'attenta vigilanza sui principi di
armonizzazione contabile. In particolare, si
pone l'attenzione sul principio della
programmazione, posto che
dall'attendibilità, dalla congruità e dalla
coerenza dei documenti di programmazione si
otterrà quel grado di affidabilità
dell'intero bilancio.
Alta vigilanza anche
sui profili riguardanti la copertura
finanziaria e la sostenibilità
dell'indebitamento, gli accantonamenti al
fondo rischi e perdite, nonché il bilancio
preventivo economico consolidato del
Servizio sanitario regionale e i piani di
razionalizzazione degli enti e degli
organismi strumentali della Regione
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I documenti digitali.
DOMANDA:
Si chiede conferma del fatto che ad oggi il CAD non è
sospeso come non lo sono le regole tecniche, per cui le P.A.
devono produrre gli originali dei propri documenti con mezzi
informatici. Da una ricostruzione delle norme il termine per
la digitalizzazione della P.A. avrebbe dovuto essere il
12/08/2017. Non mi risultano proroghe in tal senso.
Quindi la PA è obbligata a formare i propri documenti in
modalità digitale?
RISPOSTA:
Il quesito è relativo all'obbligo per le amministrazioni di
formare digitalmente gli originali dei propri documenti
(art. 40, comma 1, D.Lgs. n. 82/2005). Il D.Lgs. 179/2016,
nel modificare il CAD, non ha alterato il contenuto
dell'obbligo, ma ha previsto una sospensione del termine
ultimo di adeguamento alle regole tecniche (Dpcm 13.11.2014)
fino a data da destinarsi, ossia finché non saranno emanate
le nuove regole tecniche ai sensi dell'art. 71 CAD.
Tuttavia, questo non significa che -nel frattempo- le
amministrazioni possano continuare a formare tutti gli
originali dei documenti come analogici.
Ad esempio, nel caso in cui i documenti debbano essere
pubblicati sul web oppure comunicati telematicamente ai
destinatari, gli stessi dovranno essere formati come
informatici e sottoscritti digitalmente nel rispetto delle
regole tecniche (su quest'ultimo caso si veda Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 31.08.2017 n. 20672)
(link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Parità di genere per tutti. Si
applica anche se non recepita nello statuto.
Il principio va considerato precettivo anche
per i piccoli comuni.
Un ente locale con una popolazione inferiore
a 3.000 abitanti, quale disciplina dovrà
applicare, in tema di parità di genere,
nella composizione della giunta comunale?
La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1,
comma 137, ha previsto, affinché sia
rispettato il principio dell'equilibrio di
genere, il quorum del 40% per i soli comuni
con popolazione superiore ai 3.000 abitanti;
per i comuni al di sotto di tale soglia
demografica resta vigente, invece, l'art. 6,
comma 3, del dlgs n. 267/2000.
La disposizione citata prevede che gli
statuti comunali e provinciali stabiliscano
norme per assicurare condizioni di pari
opportunità tra uomo e donna e per garantire
la presenza di entrambi i sessi nelle giunte
e negli organi collegiali non elettivi del
comune e della provincia, nonché degli enti,
aziende e istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata
dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del
2012 che ha sostituito il verbo «promuovere»
con il verbo «garantire» e ha
aggiunto all'espressione «organi
collegiali» la dicitura «non elettivi».
L'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre,
prevede che gli enti locali, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della stessa,
adeguino i propri statuti e regolamenti alle
disposizioni recate dell'art. 6, comma 3,
del richiamato Tuel.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata
legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46,
comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, disponendo che il sindaco e il
presidente nella provincia nominano i
componenti della giunta «nel rispetto del
principio di pari opportunità tra donne e
uomini, garantendo la presenza di entrambi i
sessi».
Tale normativa va letta alla luce dell'art.
51 della Costituzione, come modificato dalla
legge costituzionale n. 1/2003, che ha
riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari
opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella
sopraindicata fascia demografica, pertanto,
devono trovare applicazione le disposizioni
contenute nei citati articoli 6, comma 3, e
46, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 e nella legge n. 215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi
sulle pari opportunità dettati dall'art. 51
della Costituzione, dall'art. 1 del decreto
legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice
delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione
europea, non hanno un mero valore
programmatico, ma carattere precettivo,
finalizzato a rendere effettiva la
partecipazione di entrambi i sessi in
condizioni di pari opportunità, alla vita
istituzionale degli enti territoriali.
Tra l'altro, ferma restando la necessità
dell'adeguamento dello statuto comunale da
parte dell'ente interessato, le citate
disposizioni sulla parità di genere
risultano immediatamente applicabili, anche
in carenza di una espressa previsione nello
statuto stesso
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Fruizione permessi l. 104 per assistenza soggetto ricoverato.
Domanda
Un dipendente fruisce dei 3 giorni di permesso di cui
all’art. 33, comma 3, della l. 104/1992 per assistere ad un
familiare disabile che viene ricoverato presso una struttura
ospedaliera. Lo stesso dipendente riferisce che i medici
della struttura documentano il bisogno di assistenza da
parte di un familiare.
Il dipendente può fruire dei permessi ex l. 104/1992 anche
se il disabile è ricoverato?
Risposta
L’art. 33, comma 3, della l. 104/1992 precisa che i permessi
retribuiti spettano a condizione che la persona handicappata
non sia ricoverata a tempo pieno, tuttavia, l’INPS, nella
circolare n. 32 del 06.03.2012, ha fatto un’elencazione
delle ipotesi che fanno eccezione al requisito dell’assenza
del ricovero a tempo pieno.
Premesso che per ricovero a tempo pieno si intende quello,
per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere
o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza
sanitaria continuativa, elenchiamo di seguito le eccezioni
che legittimano a detta dell’INPS la fruizione dei permessi
retribuiti anche in caso di ricovero:
• interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del
disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori
della struttura che lo ospita per effettuare visite e
terapie appositamente certificate (messaggio n. 14480 del
28.05.2010);
• ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in
stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a
breve termine (circolare n. 155 del 03.12.2010, p. 3);
• ricovero a tempo pieno di un soggetto disabile in situazione di
gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della
struttura il bisogno di assistenza da parte di un genitore o
di un familiare, ipotesi precedentemente prevista per i soli
minori (circolare n. 155 del 03.12.2010, p. 3).
La rilevanza costituzionale degli interessi protetti induce
a ritenere legittima un’interpretazione estensiva della
norma, così come operata dall’INPS, legittimando la
fruizione dei permessi ove vi sia una certificazione medica
dalla quale risulti la necessità di presenza del soggetto
che presta assistenza
(21.12.2017 -
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Provvedimenti di esclusione presidente gara.
Domanda
Il presidente della commissione di gara può adottare i
provvedimenti di esclusione?
Risposta
Il quesito presenterà una particolare rilevanza soprattutto
in seguito alla definitiva redazione dell’albo dei
commissari con il conseguente obbligo delle stazioni
appaltanti di individuare (almeno) il presidente dell’organo
giudicatore direttamente dall’elenco che verrà gestito dall’ANAC.
Come emerge dalle linee guida (in particolare le n. 5/2016
dedicate alle commissioni giudicatrici) la commissione di
gara non potrà più adottare atti di amministrazione attiva
e, tra questi, vanno sicuramente annoverati i provvedimenti
di esclusione.
Prima di questa fase –e quindi nel regime transitorio– si
deve ritenere che le commissioni possano procedere anche
adottando tali provvedimenti.
Nel recente bando tipo relativo alle forniture e servizi
sopra soglia comunitaria da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa (approvato con
la deliberazione ANAC n. 1228/2017 in vigore trascorsi 15
giorni dalla pubblicazione in G.U.), l’autorità
anticorruzione chiarisce che i provvedimenti di esclusione
non vengono adottati dalla commissione ma questa si limita a
proporli al RUP (o al seggio di gara o all’ufficio/servizio
preposto secondo la modalità organizzativa della stazione
appaltante).
A tal riguardo, si legge nel documento che in qualsiasi fase
delle operazioni di valutazione delle offerte tecniche ed
economiche, “la commissione provvede a comunicare,
tempestivamente” al soggetto individuato dalla stazione
appaltante (che, come detto, può coincidere con il RUP, con
un seggio di gara o con un ufficio/servizio appositamente
apprestato) “i casi di esclusione”.
Nella fase di valutazione, i casi di esclusione potranno
riguardare:
a) la mancata separazione dell’offerta economica dall’offerta
tecnica, ovvero l’inserimento di elementi concernenti il
prezzo in documenti contenuti nelle buste A e B;
b) la presentazione di offerte parziali, plurime, condizionate,
alternative nonché irregolari, ai sensi dell’art. 59, comma
3, lett. a), del codice, in quanto non rispettano i
documenti di gara, ivi comprese le specifiche tecniche;
c) presentazione di offerte inammissibili, ai sensi dell’art. 59,
comma 4 lett. a) e c), del codice, in quanto la commissione
giudicatrice ha ritenuto sussistenti gli estremi per
informativa alla Procura della Repubblica per reati di
corruzione o fenomeni collusivi o ha verificato essere in
aumento rispetto all’importo a base di gara.
Analogo ragionamento, sempre espresso dall’ANAC sia nel
bando tipo sia nelle linee guida n. 3 (dedicate al
responsabile unico del procedimento) è previsto in relazione
alle offerte che dovessero, dopo la verifica condotta a cura
del RUP, risultare anomale. Anche in questo caso il
provvedimento di esclusione è di competenza del RUP a
prescindere dalla circostanza che coincida o meno con il
responsabile del servizio e sia o meno un dirigente
(20.12.2017 -
link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sanzioni pecuniarie whistleblower.
Domanda
Nella nuova disposizione normativa in materia di
segnalazioni di illecito presentate dai dipendenti (whistleblower),
sono previste sanzioni pecuniarie?
Risposta
Le nuove disposizioni in materia di segnalazione di illeciti
sono contenute nella legge 27.11.2017, n. 179 pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale n. 291 del 14.12.2017, in vigore
dal 29.12.2017.
La disposizione si compone di tre articoli. Nel primo viene
completamente riscritto l’art. 54-bis, del d.lgs.
30.03.2001, n. 165, che era stato introdotto
nell’ordinamento con la legge Severino (legge 06.11.2012, n.
190).
Le sanzioni amministrative pecuniarie, prima non previste,
vengono inserite nel comma 6, e prevedono tre distinte
casistiche:
1. qualora venga accertata l’adozione di misure discriminatorie da
parte degli enti nei confronti del segnalante, fermi
restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica
al responsabile che ha adottato tale misura, una sanzione
amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro;
2. qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e
la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di
procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC
applica al responsabile la sanzione amministrativa
pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro;
3. qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del
responsabile dell’Anticorruzione delle necessarie attività
di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si
applica al responsabile la sanzione amministrativa
pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
L’ANAC stabilirà l’importo della sanzione da applicare,
sulla base delle dimensioni dell’amministrazione cui si
riferisce la segnalazione
(19.12.2017 -
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Quesito: In una gara per l’affidamento dei
servizi di mensa scolastica è obbligatorio che il
concorrente indichi nella propria offerta i costi di
manodopera?
Risposta.
Il D.Lgs. n. 56/2107 ha modificato l’art. 95 del D.lgs. n.
50/2016 introducendo al comma 10 “nell'offerta economica
l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e
gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle
disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di
lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera,
dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai
sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni
appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima
dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di
quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
L’appalto oggetto di quesito non rientra tra le deroghe
previste dal codice, pertanto, quand’anche il bando non
esplicitasse tale onere, i concorrenti sono tenuti a
specificare non solo gli oneri aziendali, ma anche i costi
di manodopera che dovrà sostenere per l’esecuzione
dell’appalto (tratto dalla newsletter 15.12.2017 n. 192
di http://asmecomm.it). |
APPALTI:
Quesito: Si può procedere all’aggiudicazione di
una gara senza aver eseguito le verifiche dei requisiti
sulla ditta prima in graduatoria?
Risposta.
La Stazione Appaltante non può procedere alla fase
aggiudicazione definitiva senza aver eseguito la verifica
dei requisiti richiesti si concorrenti. L’art. 32, comma 5,
del D.Lgs. n. 50/2016 ha precisato che “la stazione
appaltante, previa verifica della proposta di aggiudicazione
ai sensi dell’articolo 33, comma 1, provvede
all’aggiudicazione”.
Il successivo comma 7 specifica che “l’aggiudicazione
diventa efficace dopo la verifica del possesso dei
prescritti requisiti” (tratto dalla newsletter
15.12.2017 n. 192 di http://asmecomm.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigli, quorum equo. No
all'ostruzionismo della maggioranza. I
consiglieri di opposizione devono poter
esercitare il proprio mandato.
Affinché possano ritenersi valide le sedute
consiliari di seconda convocazione, quale
quorum deve ritenersi necessario?
Il Testo unico delle leggi sull'ordinamento
degli enti locali demanda al regolamento
comunale, «nel quadro dei principi stabiliti
dallo statuto», la determinazione del
«numero dei consiglieri necessario per la
validità delle sedute», con il limite che
tale numero non può, in ogni caso, scendere
sotto la soglia del «terzo dei consiglieri
assegnati per legge all'ente, senza
computare a tale fine il sindaco e il
presidente della provincia» (art. 38, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000).
Nella fattispecie in esame, il consiglio
comunale ha deliberato la modifica del
regolamento sul funzionamento dell'organo
consiliare recante «seduta di seconda
convocazione» prevedendo, ai fini della
validità della seduta, la presenza di
«almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è
composto da soli tre consiglieri di
minoranza, è stata segnalata la difficoltà
di questi ultimi di poter esercitare il
proprio mandato elettivo, a causa del
ripetersi delle assenze della maggioranza e
alla conseguente mancanza del numero legale
previsto per la validità delle sedute del
consiglio.
In merito a tale problematica, il Tar
Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181,
pronunciandosi in tema di c.d.
«ostruzionismo di maggioranza», ha
evidenziato che il comportamento preordinato
al conseguimento della mancanza del numero
legale delle assemblee rappresentative
costituisce una inammissibile prevaricazione
della maggioranza nei confronti delle
minoranze, alle quali viene impedito di
esercitare il proprio ruolo di opposizione e
quindi l'esercizio di un diritto politico
costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar citato, l'art. 49 della
Costituzione preclude ai partiti politici e
ai loro rappresentanti «qualunque opera non
solo di aperto sabotaggio ma anche di
subdola, lenta e surrettizia erosione delle
istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare
proposta, unitamente alla lamentata assenza
sistematica dei componenti di maggioranza,
potrebbero configurare un inammissibile
svilimento dei diritti e delle prerogative
dei consiglieri di minoranza. Premesso che
il vigente ordinamento non prevede poteri di
controllo di legittimità sugli atti degli
enti locali in capo al ministero
dell'interno, si ritiene che l'ente locale
in oggetto debba valutare l'opportunità di
rivedere la normativa regolamentare in
questione
(articolo ItaliaOggi del
15.12.11.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
WhatsApp e accertamenti di violazione.
Domanda
In presenza di servizio comunale di segnalazione dai
cittadini tramite WhatsApp o altro social network, la
polizia locale –o in generale l’organo addetto al controllo–
hanno un obbligo di intervento? E se si, possono procedere
ad accertare una violazione?
Risposta
Con il dilagare dei social network diversi comuni
hanno attivato un numero mobile dedicato alle segnalazioni
da parte del cittadino. Tale servizio il più delle volte
viene fornito per far partecipare il cittadino su temi quali
la manutenzione stradale o il verde pubblico, servizio
veicolato solitamente tramite “WhatsApp”.
In sostanza il singolo utente, in preda molto spesso a
quello che viene definito il fenomeno da “leone da
testiera”, riversa le più disparate segnalazioni, spesso
allegando ai messaggi, foto o anche video. Tra questi anche
cittadini eccessivamente zelanti, che con accanimento “sollecitano”
pedantemente i diversi uffici comunali.
Tra questi uffici in primis c’è la Polizia locale, a
cui il cittadino si rivolge principalmente per chiedere
l’applicazione di una sanzione, perché convinto di aver
subito un abuso o aver visto una “grave” violazione.
Senza entrare nel merito di come andrebbe attivato il
servizio, per esempio con identificazione esatta degli
utenti e specificando limiti e responsabilità etc…, nel caso
di una segnalazione qualificata da parte di un cittadino,
nasce un obbligo da parte della pubblica amministrazione di
verificare prima di tutto la fondatezza della stessa. Nel
caso di segnalazioni anonime si rammenta che non sussiste
alcun obbligo, ma mera facoltà quale stimolo di indagine.
La norma che disciplina, dal punto di vista amministrativo,
l’attività accertativa è l’art. 13 della l. 689/1981 che
prevede che “gli organi addetti al controllo
sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è
prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una
somma di denaro possono, per l’accertamento delle violazioni
di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere
a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata
dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e
ad ogni altra operazione tecnica”.
Pertanto nel caso in cui l’organo addetto al controllo sia
sollecitato tramite una segnalazione, che può costituire
violazione (amministrativa), al fine di poter accertare il
fatto, deve acquisire tutti gli elementi necessari
all’istruttoria tra cui le fotografie, sentire a verbale il
segnalante e verificare luoghi, data e ora dei fatti.
Risulta chiaro che la procedura da attivare è assai gravosa
considerata la dettagliata attività accertativa da svolgere.
Il rischio concreto poi è di inseguire e generare numerose
ripicche tra cittadini.
Quindi si ritiene che, in caso di segnalazioni, seppur
qualificate, veicolate tramite i social network,
salvo fatti significativi e che si ritengono rilevanti, le
stesse siano in generale da trattare quale stimolo
costruttivo per l’intervento e la vigilanza dell’organo
addetto al controllo
(15.12.2017 -
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Tassa di concorso.
Domanda
È possibile prevedere una tassa di ammissione ai concorsi? E
di quale importo?
Risposta
In base all’art. 27, comma 6, del d.l. 55/1983, “La tassa
di ammissione ai concorsi per gli impiegati presso i comuni,
le province, loro consorzi ed aziende stabilita
dall’articolo 1 del regio decreto 21.10.1923, n. 2361,
nonché la tassa di concorso di cui all’articolo 45 della
legge 08.06.1962, n. 604 , e successive modificazioni, sono
eventualmente previste dalle predette amministrazioni in
base ai rispettivi ordinamenti e comunque fino ad un massimo
di lire 20.000.”
La norma è stata modificata con la l. 340/2000.
Si tratta di un contributo economico la cui esazione è
facoltativa, ma qualora inserito nel regolamento dei
concorsi, trova quale limite l’importo di € 10,33.
Vedasi anche il
parere 17.12.2008 del Consiglio di Stato, Sez. I, affare n.
01596/2008
(14.12.2017 -
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APPALTI:
Concordato continuità aziendale.
Domanda
In sede di apertura di una procedura di gara un operatore
economico ha dichiarato di trovarsi in stato di concordato
con continuità aziendale.
È sufficiente quanto dichiarato dalla ditta ai fini
dell’ammissione alla fase successiva, oppure è necessario
richiedere precisazioni e/o dichiarazioni integrative?
Risposta
Il concordato con continuità aziendale non costituisce causa
di esclusione dalla partecipazione alle procedure di
affidamento di concessioni e appalti pubblici di lavori,
forniture e servizi, e non preclude la stipula dei relativi
contratti.
Al momento, in assenza di indicazioni specifiche rinvenibili
nel vigente codice dei contratti, possono ravvisarsi due
ipotesi, a cui conseguono differenti adempimenti
amministrativi, riconducibili rispettivamente alla
partecipazione a procedure di gara nella fase antecedente
all’omologazione ovvero successive al decreto di omologa.
Nella situazione sopra delineata, la stazione appaltante
dovrà sicuramente attivare il soccorso istruttorio, ai sensi
dell’art. 83, comma 9, del codice e richiedere:
a) nel caso di impresa ammessa a concordato con continuità
aziendale non ancora omologato, le dichiarazioni di cui
all’art. 110, commi 3 e 5, del codice (dichiarazioni
integrative necessarie):
È ammesso a concordato con continuità aziendale [_] Sì [_]
No
---------------
In caso di risposta affermativa alla lettera d):
– è stato autorizzato dal giudice delegato ai sensi dell’
articolo 110, comma 3, lett. a) del Codice
[_] Sì [_] No
In caso affermativo indicare il provvedimento di ammissione
e di autorizzazione a partecipare alle gare specificando il
numero dei provvedimenti e il Tribunale che li ha
rilasciati: …………………………………………..
---------------
– la partecipazione alla procedura di affidamento è stata
subordinata ai sensi dell’art. 110, comma 5, all’avvalimento
di altro operatore economico?
[_] Sì [_] No
In caso affermativo indicare l’Impresa ausiliaria:
…………………………………………..
b) nel caso di impresa ammessa a concordato con continuità
aziendale già omologato, l’indicazione del Tribunale che ha
pronunciato l’omologazione e la data del citato decreto
(precisazione).
Come recentemente affermato dal Tribunale Regionale di
Giustizia Amministrativa di Trento, con sentenza del
24.05.2017 n. 179, “La procedura di concordato, per le
finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e
degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di
omologa ex art. 181 L.F., e che a seguito della pronuncia di
questo si verifica per l’imprenditore il passaggio dal
regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura,
al riacquisto della piena capacità di agire”.
Nella stessa linea interpretativa va collocata la
determinazione ANAC n. 3 del 23.04.2014, in cui è precisato
che in ambito concordatario “la cessazione della causa
ostativa coincide… con la chiusura della procedura, che
viene formalizzata con il decreto di omologazione del
concordato preventivo ai sensi dell’art. 180 L.F.”
(13.12.2017 -
link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Decadenza dalla carica di un consigliere comunale.
Procedimento.
1) Non è necessario
procedere alla comunicazione formale di avvio del
procedimento di decadenza di un consigliere per ripetute
assenze, qualora lo stesso abbia già fatto pervenire
spontaneamente le proprie motivazioni a giustificazione
della mancata presenza alle sedute consiliari.
2) Il consiglio comunale, organo competente a pronunciarsi sulla
decadenza, esaminate le cause giustificative addotte dal
consigliere e la loro fondatezza, serietà e rilevanza,
procede a deliberare circa la decadenza o meno
dell'amministratore interessato.
3) Nel silenzio di previsioni statutarie o regolamentari specifiche
sulla modalità di voto, il consiglio comunale delibera a
scrutinio segreto in merito alla decadenza di un
amministratore per ripetute assenze.
Il Comune chiede un parere in materia di decadenza dei
consiglieri comunali dalla carica per ripetute assenze. In
particolare, desidera sapere:
1) se sia necessario procedere all’avvio formale del procedimento
di decadenza atteso che il consigliere in riferimento ha già
fatto pervenire spontaneamente le proprie motivazioni a
giustificazione delle sue assenze dalle sedute consiliari;
2) quale sia l’oggetto della proposta di deliberazione da
sottoporre al consiglio comunale ed in che termini lo stesso
debba deliberare nel caso in cui intenda “respingere”
l’istanza di decadenza;
3) se il voto dei consiglieri debba o meno essere a scrutinio
segreto.
In via generale, si ricorda che l’articolo 43, comma 4, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), recita: “Lo
statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata
partecipazione alle sedute e le relative procedure,
garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause
giustificative”.
Atteso che lo statuto dell’Ente è di data antecedente
all’entrata in vigore del TUEL rileva il disposto di cui
all’articolo 273 dello stesso nella parte in cui prevede
che: “Le disposizioni degli articoli […] 289 del testo
unico della legge comunale e provinciale, approvato con
regio decreto 04.02.1915, n. 148, si applicano fino
all’adozione delle modifiche statutarie e regolamentari
previste dal presente testo unico”.
In particolare, l’articolo 289 del R.D. 148/1915, al primo
comma, stabilisce che: “I consiglieri, che non
intervengono ad una intera sessione ordinaria, senza
giustificati motivi, sono dichiarati decaduti.”. Il
successivo terzo comma dispone, poi, che: “La decadenza è
pronunciata dai rispettivi Consigli.”.
Quanto allo statuto comunale, lo stesso all’articolo 18,
rubricato “Decadenza”, prevede che: “Si ha
decadenza dalla carica di consigliere comunale: a) omissis;
b) Per mancato intervento, senza giustificati motivi, ad una
intera sessione ordinaria”. Il comma 2 del medesimo
articolo, specifica, poi, che: “La decadenza è
pronunciata dal consiglio comunale, d’ufficio, promossa dal
Prefetto o su istanza di qualunque elettore del comune,
decorso il termine di 10 giorni dalla notificazione
all’interessato della relativa proposta”.
Ciò premesso e per rispondere al primo quesito posto, si
osserva che la necessità di avvio del procedimento di
contestazione mediante idonea comunicazione all’interessato,
in conformità a quanto previsto dalla norma statutaria
(nella parte in cui prevede la notificazione all’interessato
della proposta di decadenza) e in ossequio ai principi
espressi sul punto anche dalla giurisprudenza,
[1] si
giustifica in relazione alla ratio sottesa a tale
adempimento. In particolare, la regola procedimentale
stabilita dall’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241
[2] è, in
via di principio, “volta all'esigenza di garantire piena
visibilità all'azione amministrativa nel momento della sua
formazione, nel contempo assicurando la partecipazione di
coloro che hanno interesse al provvedimento finale. Funzione
principale della norma è dunque quella di consentire al
cittadino di dialogare con l'Amministrazione nelle more
dell'emissione del provvedimento finale”
[3].
La giurisprudenza, sul punto, ha rilevato che: “La
comunicazione prescritta dall'art. 7 della legge n. 241 del
1990 costituisce attuazione del principio in forza del quale
il procedimento amministrativo, quando è preordinato
all'emanazione di provvedimenti che apportano limitazioni
agli interessi dei privati, deve essere disciplinato in modo
che i cittadini siano messi in grado di esporre le loro
ragioni, sia a tutela dei propri interessi sia a titolo di
collaborazione nell'interesse pubblico, prima che sia
assunta la determinazione da parte dell'Amministrazione”.
Atteso un tanto segue che, qualora lo scopo cui la
comunicazione di avvio del procedimento è preordinata sia
già stato raggiunto, risulta non necessario procedere con un
formale atto di notificazione di instaurazione del
procedimento amministrativo.
In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza la quale
ha affermato che: “La comunicazione dell'avvio del
procedimento amministrativo, di cui agli art. 7 e 8 l.
07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di consentire
all'interessato, a proposito di ogni atto amministrativo che
possa recare offesa ai suoi diritti, libertà e interessi, di
proporre fatti e argomenti e, occorrendo, di offrire mezzi
di prova di cui l'autorità amministrativa terrà conto; e,
pertanto, quando tale scopo sia stato in qualsiasi modo
raggiunto, una comunicazione formale dell'avvio del
procedimento è superflua e la sua omissione non rende
illegittimo il provvedimento.” [4]
Passando a trattare della seconda questione posta, atteso
che nella fattispecie in esame la proposta di decadenza è
stata sollevata da un consigliere nell’esercizio dei poteri
a questi spettanti ai sensi dell’articolo 43, comma 1, del
TUEL nella parte in cui dispone che: “I consiglieri
comunali […] hanno diritto di iniziativa su ogni questione
sottoposta alla deliberazione del consiglio”, si ritiene
che oggetto della proposta di deliberazione debba essere la
richiesta di decadenza del consigliere XX per ripetute
assenze. [5]
Il consiglio comunale, organo competente a pronunciarsi
sulla decadenza, [6]
esaminate le cause giustificative addotte dal consigliere
interessato e la loro fondatezza, serietà e rilevanza,
procederà a deliberare circa la decadenza o meno
dell’amministratore interessato.
Quanto alla formula da utilizzare nel caso in cui l’organo
consiliare non ritenga sussistano i presupposti per
procedere alla dichiarazione di decadenza, premessa
l’inesistenza di formule prestabilite, rientra
nell’autonomia dell’organo consiliare utilizzare la dicitura
più congeniale. A mero titolo esemplificativo si riportano
alcune formulazioni utilizzate nella prassi:
- “Oggetto: procedimento di decadenza del consigliere XX”;
“Delibera: 1) di ritenere fondate le motivazioni a
giustificazione delle assenze del consigliere comunale XX
alla partecipazione alle sedute del consiglio comunale; 2)
di non procedere alla dichiarazione di decadenza del
consigliere comunale”;
- “Oggetto: Pronuncia del consiglio comunale sulla decadenza del
consigliere XX, ai sensi dell’articolo YY dello Statuto
comunale”; “Delibera: di pronunciarsi contro la decadenza
dalla carica di consigliere di XX”;
- “Oggetto: Art. YY del vigente statuto comunale – Procedimento
di decadenza per mancata partecipazione ai lavori del
consiglio comunale. Determinazioni”; “Delibera: di
accogliere le giustificazioni presentate dal consigliere XX,
dando atto pertanto che non sussistono i presupposti per
dichiarare la decadenza dalla carica di consigliere comunale
dello stesso”.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, nel
silenzio di previsioni specifiche sull’argomento nello
statuto o nel regolamento dell’Ente, soccorrono le
considerazioni della giurisprudenza la quale, con
riferimento ad un’intervenuta pronuncia di decadenza di un
consigliere, ha affermato che: «[…] in base alla
giurisprudenza formatasi sull’art. 289 t.u. com. prov. 1915
(r.d. 04.02.1915, n. 148), la segretezza del voto,
prescritta per le “deliberazioni concernenti persone”, può
essere derogata solo quando la delibera, pur riguardando
persone determinate, sia del tutto vincolata, dipendendo
esclusivamente dall’accertamento di fatti ed elementi
obiettivi, sicché anche sotto tale aspetto la delibera,
assunta con voto palese, con evidente lesione della
posizione del ricorrente, deve ritenersi illegittima»
[7].
Nello stesso senso anche il Supremo giudice amministrativo
ha affermato che: “Le deliberazioni degli organi
collegiali concernenti persone sono regolate dal principio
di segretezza del voto, in base al quale dal verbale della
riunione non devono risultare i voti dei singoli membri né
il modo con cui risultano espressi”.
[8]
---------------
[1] Così TAR Abruzzo, Pescara, sentenza del
07.11.2006, n. 689. Nello stesso senso, TAR Campania,
Napoli, sentenza del 04.12.1992, n. 436.
[2] L’articolo 7 della legge 241/1990, rubricato “Comunicazione di
avvio del procedimento”, al comma 1, recita: “Ove non
sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari
esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del
procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste
dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il
provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti
ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove
parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette,
qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a
soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai
suoi diretti destinatari, l'amministrazione è tenuta a
fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio
del procedimento.”.
[3] Gabriele Casoni, “La comunicazione di avvio del procedimento ex
art. 7 della legge n. 241/1990: ratio e principi
informatori”, marzo 2011, in www.sepel.it
[4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 26.09.1995, n. 1364.
Nello stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, sez.
V, sentenza dell’01.04.1997, n. 306 ove si afferma che:
“L'obbligo della comunicazione all'interessato dell'avvio
del procedimento amministrativo, previsto dagli art. 7 e 8,
l. 07.08.1990 n. 241, trova completamento e giustificazione
nel c.d. "diritto", riconosciutogli dal successivo art. 10,
di presentare memorie scritte e documenti che la p.a.
procedente ha l'obbligo di valutare, se pertinenti
all'oggetto del procedimento stesso, per cui, se tale scopo
è stato raggiunto in qualunque modo, la comunicazione
s'appalesa superflua e si riespandono i principi di
economicità e di speditezza dell'azione amministrativa, di
cui al precedente art. 1”.
[5] Per completezza espositiva, si osserva che, verificatisi i
presupposti e le condizioni previsti dallo statuto per
l’avvio del procedimento di decadenza, questo debba
necessariamente essere attivato. Un tanto emerge proprio
dalla previsione statutaria del comune interessato ove si
legge che: “La decadenza è pronunciata […] d’ufficio”.
[6] In tal senso depone l’articolo 289, terzo comma, del R.D.
148/1915 applicabile alla fattispecie in esame nonché
l’articolo 18, comma 2 dello statuto comunale nella parte in
cui recita “La decadenza è pronunciata dal consiglio
comunale”.
[7] Così, TAR Puglia, Bari, sez. II, sentenza del 07.11.2006, n.
3903.
[8] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 27.03.2002, n. 1748
(12.12.2017 - link a
www.regione.fvg.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Compilazione sezioni Amministrazione Trasparente non
soggette ad obbligo.
Domanda
Nella sezione Amministrazione trasparente del sito internet
dell’ente, quando non ci si riconosce nella fattispecie a
cui si riferisce un obbligo di pubblicazione, come ci si
comporta? Si può lasciare la sotto sezione completamente
vuota?
Risposta
Il cosiddetto “Albero della Trasparenza” (approvato
da ultimo dall’allegato 1 alla deliberazione ANAC n. 1310
del 28.12.2016) si compone di sottosezioni di livello 1 e
sotto sezioni di livello 2 che non possono essere
modificate, integrate o rinominate, a proprio piacimento,
dalle singole amministrazioni.
Ci sono situazioni, però, in cui l’ente non è tenuto ad
adottare determinati atti o non si trova nella situazione
particolare definita dalla normativa vigente, in materia di
trasparenza (d.lgs. 33/2013 e successive modificazioni ed
integrazioni).
In questi casi, è necessario che nella sotto sezione di
riferimento venga inserita una dicitura –o caricato un
documento– in cui sia esplicitata la ragione della mancata
pubblicazione dei dati e delle informazioni richieste dalla
normativa, per ciascuna sotto sezione di riferimento, con
evidenza della data di aggiornamento.
Tutto ciò risulta indispensabile per evitare che l’ANAC, ma
anche altri soggetti, rilevino l’omessa pubblicazione di
dati, cosa che risulterà, invece, inevitabile nel caso in
cui la sotto sezione rimanga vuota.
Ecco, di seguito, alcuni esempi che possono riguardare gli
enti locali:
• ORGANIZZAZIONE > SANZIONI PER MANCATA COMUNICAZIONE DI
DATI: ad oggi non è stata notificata all’Ente nessuna
sanzione di questa tipologia;
• ORGANIZZAZIONE > RENDICONTI GRUPPI CONSILIARI / REGIONALI:
la normativa non si applica nei confronti degli enti locali;
• CONSULENTI E COLLABORATORI > per l’anno 2017 l’Ente non ha
conferito incarichi di consulenza o collaborazione.
• STRUTTURE SANITARIE PRIVATE ACCREDITATE: Disposizione
applicabile ai soli enti del Servizio Sanitario Nazionale
(12.12.2017 -
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APPALTI:
Split payment e base calcolo per acquisiti attività
commerciale.
Domanda
Il nostro ente locale dal 2015 annota gli acquisti
effettuati nell’esercizio di attività commerciale e
assoggettati a split payment, nel registro vendite di
cui all’art. 23 del d.p.r. 633/1972.
Si è deciso di calcolare l’acconto IVA 2017 utilizzando il
metodo storico. Come deve essere determinata la base di
calcolo, alla luce di quanto stabilito dall’art. 2, comma 4,
del d.m. 27.06.2017?
Risposta
Il comma 1, dell’art. 5, del d.m. 23.01.2015, inserito dal
d.m. 27.06.2017, ha stabilito che a decorrere dal 01/07/2017
le PA e le società che effettuano acquisti di beni e servizi
nell’esercizio di attività commerciali, in relazione alle
quali sono identificate agli effetti dell’imposta sul valore
aggiunto, versano con modello F24 l’imposta dovuta in
applicazione del meccanismo della scissione dei pagamenti
entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui
l’imposta diviene esigibile, senza possibilità di
compensazione, utilizzando un apposito codice tributo.
In alternativa (comma 1, dell’art. 5, del d.m. 23.01.2015),
le PA e le società possono continuare ad avvalersi della
possibilità, già prevista nella precedente disciplina, di
annotare le fatture di acquisto nel registro di cui agli
artt. 23 o 24 del d.p.r. 633/1972, entro il 15 del mese
successivo a quello in cui l’imposta è divenuta esigibile,
con riferimento al mese precedente.
L’art. 2, comma 4, del d.m. 27.06.2017 ha poi stabilito che,
per l’anno 2017, i soggetti di cui all’art. 5, comma 1, del
d.m. 23.01.2015, effettuano il versamento dell’acconto
determinato con il metodo storico, tenendo conto
dell’ammontare dell’imposta divenuta esigibile, in regime di
split payment, nel mese di novembre 2017 (per i
contribuenti mensili) o nel terzo trimestre 2017 (per i
contribuenti trimestrali).
Ciò premesso e nonostante che la circolare 27/E del
07.11.2017, non ne faccia menzione, si ritiene che tale
disposizione transitoria non riguardi gli enti locali, i
quali applicano lo split da gennaio 2015, ma bensì i nuovi
soggetti destinatari dello split payment a decorrere
dal 01/07/2017.
Ne consegue che l’ente locale, in sede di calcolo
dell’acconto IVA con il metodo storico, dovrà fare
riferimento solo al debito del mese di dicembre 2016 (per i
soggetti mensili) o al debito risultante dalla dichiarazione
IVA relativa al 2016 (per i soggetti trimestrali su opzione)
(11.12.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Protocollo online
aperto. I consiglieri possono prenderne visione.
Inammissibile chiedere di specificare in anticipo l'oggetto dell'accesso.
Ai sensi della vigente normativa, un consigliere comunale può chiedere
l'accesso al sistema informatico gestionale dell'ente?
Sebbene la materia dovrebbe trovare apposita disciplina nel regolamento
dell'ente, secondo il consolidato orientamento del ministero dell'interno,
«non paiono sussistere elementi ostativi all'accoglimento della richiesta».
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha affermato, in merito, che è
consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione
di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i
consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del
decreto legislativo n. 267/2000; inoltre il Tar Lombardia, Brescia, con
sentenza 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai
consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che
intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli stessi
possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei
vari protocolli (dei quali il protocollo informatico rappresenta una
innovazione tecnologica prevista, tra l'altro, dall'art. 17 del decreto
legislativo n. 82/05 e successive modificazioni - codice
dell'amministrazione digitale) è, pertanto, necessaria per poter individuare
gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e
proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi
della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000,
dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve
provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente
accedere i consiglieri comunali che, pertanto, possono prendere visione in
via informatica di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall'ente;
ciò, in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione
amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma
cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro,
l'orientamento favorevole già manifestato.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha
precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema
informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso
certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la
tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare
l'ordinaria attività amministrativa».
Con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del consigliere
comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita
password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza
della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini
(art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha
rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo
informatico (articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Affidamento PO a personale categoria C.
Domanda
Il nostro ente di piccole dimensioni è diviso in tre aree. È
possibile attribuire la posizione organizzativa ad un
dipendente di categoria C?
Risposta
Sulla questione, spesso controversa, registriamo un recente
intervento della magistratura contabile secondo cui qualora
il sindaco, pur in presenza di un dipendente inquadrato in
categoria D, conferisca l’incarico di responsabile del
settore (PO) ad un dipendente di categoria C –dunque, in
posizione non apicale– risponde di danno erariale,
consistente nelle spese sborsate dall’ente.
Questo, infatti, è quanto indicato dalla Corte dei Conti –
sezione giurisdizionale per la Sicilia – con
sentenza 26.10.2017 n. 658, nel
giudizio erariale nei confronti del sindaco di un ente il
quale aveva proceduto alla nomina, in qualità di incaricato
di PO, di un lavoratore della categoria C, pur in presenza
di altro dipendente inquadrato nella categoria D nel
medesimo servizio.
Del resto, avverso il provvedimento sindacale, aveva
ricorso, in sede civile, il dipendente di categoria più
elevata, peraltro ottenendo, con sentenza definitiva, le
differenze retributive corrispondenti al mancato pagamento
dell’indennità accessoria di funzione, nei limiti fissati
dal vigente contratto collettivo di settore.
Sicché, a fronte del risarcimento del danno e conseguente
dichiarazione del debito fuori bilancio, la magistratura
contabile condannava il sindaco, per il danno erariale
causato all’ente in conseguenza della sua condotta
antigiuridica, posta in violazione di precisissime e
indubbiamente chiare norme contrattuali (07.12.2017 -
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APPALTI SERVIZI:
Acquisizione CIG in caso di rinnovo e proroga tecnica.
Domanda
Il comune deve appaltare un servizio biennale del valore di
€ 30.000,00, al netto dell’IVA, con opzione di rinnovo per
altri due anni per ulteriori € 30.000,00 e con proroga c.d.
tecnica.
Nella richiesta del CIG come deve essere considerato
l’eventuale rinnovo, nonché la proroga tecnica prevista
negli atti di gara ai sensi dell’art. 106, comma 11, del
codice?
Risposta
Il codice CIG (codice identificativo gara), quale strumento
che consente di assolvere agli obblighi di comunicazione
all’Osservatorio, di contribuzione e di tracciabilità dei
flussi finanziari, deve essere acquisito dal responsabile
del procedimento, e riportato a seconda della tipologia
delle procedure, nel bando o avviso di gara, nella lettera
d’invito e negli acquisti privi di tali modalità nel
contratto.
L’esatta quantificazione del valore di un affidamento incide
sulle diverse modalità di acquisizione del CIG che, per
importi pari o superiori a 40.000,00 euro, avviene
attraverso il sistema c.d. SIMOG, a cui si ricollegano gli
adempimenti di cui sopra, ovvero nella forma dello Smart CIG
per gli affidamenti al di sotto di tale soglia, con funzioni
prevalentemente di monitoraggio.
Ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 50/2016, “il calcolo del
valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e
forniture, è basato sull’importo totale pagabile, al netto
dell’IVA, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo”.
Pertanto, con riferimento alla procedura di gara che
l’amministrazione deve appaltare, nell’acquisizione del CIG,
da effettuarsi tramite il sistema SIMOG, il RUP dovrà
riportare nei passaggi relativi alla registrazione:
• importo a base d’asta: € 60.000,00;
• l’appalto prevede ripetizioni: SI.
In sede di rinnovo, trattandosi di una nuova manifestazione
di volontà delle parti contraenti, la stazione appaltante
dovrà acquisire un nuovo CIG, sempre tramite il sistema
SIMOG (ma non pagare un nuovo contributo), specificando:
• importo a base d’asta: € 30.000,00;
• ripetizione di precedente contratto: SI;
• CIG contratto originario: (riportare il codice CIG del
contratto originario).
La modifica della durata contrattuale in corso di
esecuzione, prevista negli atti di gara, per il tempo
strettamente necessario alla conclusione delle procedure per
l’individuazione del nuovo contraente, ai sensi dell’art.
106, comma 11, del Codice (c.d. proroga tecnica), non deve
essere computata nel valore stimato originario dell’appalto.
Solo qualora la modifica comporti un aumento del 20% del
valore contrattuale, la stazione appaltante dovrà acquisire
un nuovo CIG, con procedura semplificata (Smart CIG) od
ordinaria, in base al valore della modifica, indicando nella
tendina “procedura di scelta del contraente”:
affidamento diretto per variante superiore al 20%
dell’importo contrattuale.
Al contrario, è necessario considerare nel valore
complessivo dell’appalto l’eventuale proroga, quale opzione
inserita nel capitolato e finalizzata alla prosecuzione del
rapporto contrattuale per un tempo prestabilito
(esercitabile esclusivamente dalla pubblica amministrazione,
con obbligo dell’operatore di assoggettarvisi).
Ad esempio, nel caso di un appalto avente durata certa
biennale del valore di 30.000,00 euro, con eventuale opzione
di proroga annuale per un importo di 15.000,00 euro, in sede
di registrazione del CIG, tramite il sistema SIMOG, il RUP
dovrà riportare nel passaggi relativi all’acquisizione del
CIG:
• importo a base d’asta: € 45.000,00;
• l’appalto prevede ripetizioni: NO (06.12.2017 -
link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Dichiarazioni collaboratori e consulenti.
Domanda
Per i collaboratori e consulenti (art. 15 d.lgs. 33/2013),
nell’apposita sezione di Amministrazione trasparente, va
pubblicata la dichiarazione sull’insussistenza di situazioni
di conflitto di interessi anche potenziale, prodotti dai
collaboratori medesimi?
Risposta
Per i soggetti incaricati in qualità di consulenti e
collaboratori, va pubblicata (anche) una dichiarazione che
attesti l’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni
di conflitto di interessi, anche potenziale.
Ciò significa che l’incaricato deve presentare una
dichiarazione in cui si attesti la non sussistenza di tale
conflitto e che ci sia –all’interno dell’ente– un altro
soggetto che ne attesti l’avvenuta verifica, con esito
negativo.
Le informazioni di cui sopra devono essere pubblicate entro
tre mesi dal conferimento dell’incarico e devono essere
mantenute per i tre anni successivi alla cessazione dello
stesso.
La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di
conferimento degli incarichi e dell’attestazione, comporta
l’inefficacia dell’atto, non consentendo, quindi, né
l’utilizzo della prestazione eventualmente resa, né la
liquidazione del compenso pattuito. Nel caso in cui questo
sia stato comunque corrisposto, si determina responsabilità
in capo a chi l’ha disposto e l’irrogazione di una sanzione
pari alla somma pagata.
Tutte le informazioni pubblicate in questa sotto sezione,
devono essere aggiornate tempestivamente, compresi,
ovviamente, i dati sullo stato di avanzamento degli
eventuali pagamenti (05.12.2017 - link a
www.publika.it). |
APPALTI:
Le procedure di acquisto.
DOMANDA:
Si chiede se nella fase transitoria un comune non capoluogo
iscritto AUSA possa indire gara in via autonoma per servizio
sotto soglia senza passare per mercato elettronico per
assenza o non funzionalità del metaprodotto.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno preliminarmente ricordare che in base
al D.Lgs. 50/2016 (art. 37, c. 4), se la stazione appaltante
è, come in questo caso, un comune non capoluogo di
provincia, fermo restando quanto previsto al comma 1 e al
primo periodo del comma 2, è tenuto a procedere secondo una
delle seguenti modalità:
a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti
aggregatori qualificati;
b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali
di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in
centrali di committenza nelle forme previste
dall’ordinamento;
c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli
enti di area vasta ai sensi della legge 07.042014, n. 56.
Per quanto riguarda specificatamente i servizi sottosoglia
occorre poi distinguere a seconda che l’affidamento sia di
importo compreso fino a 40 mila euro od oltre fino alla
soglia comunitaria (v. art. 35 comma 1, lett. c). Il comma 1
dell’art. 37 cit. dispone, al comma 1, che “le stazioni
appaltanti, fermi restando gli obblighi di utilizzo di
strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici,
…, possono procedere direttamente e autonomamente
all’acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore
a 40.000 euro e di lavori di importo inferiore a 150.000
euro, nonché attraverso l’effettuazione di ordini a valere
su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali
di committenza. Per effettuare procedure di importo
superiore alle soglie indicate al periodo precedente, le
stazioni appaltanti devono essere in possesso della
necessaria qualificazione ai sensi dell’articolo 38”.
Tuttavia va ricordato che ai sensi dell’art. 1, commi 449 e
450, della L. 296/2006 (legge finanziaria 2007), fermi
restando gli obblighi/facoltà per l’utilizzo di CONSIP,
sussiste l’obbligo di utilizzare in maniera alternativa ed
equivalente o il mercato elettronico della P.A. (MEPA, NECA)
oppure il sistema telematico messo a disposizione dalla
centrale regionale di riferimento (SINTEL).
Qualora, peraltro, il bene non risulti presente né sul
mercato elettronico della PA né nell’ambito CONSIP, e
nemmeno sia possibile far riferimento al sistema al sistema
telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di
riferimento (quale SINTEL) (cfr. l. 296/2006, art. 1, c. 450
cit., secondo periodo), si ritiene in genere che sussista la
possibilità di procedere anche in forma cartacea ed autonoma
senza ulteriori limitazioni (art. 37, c. 1, D.Lgs. 50/2016).
Ove invece si tratti di beni e servizi compresi tra €
40.000,00 e soglia comunitaria (art. 35) il comma 2 del cit.
art. 37 dispone che “.…per … forniture e servizi di
importo inferiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia di
cui all’articolo 35, nonché per … lavori di manutenzione
ordinaria d’importo superiore a 150.000 euro e inferiore a 1
milione di euro, le stazioni appaltanti in possesso della
necessaria qualificazione … procedono mediante utilizzo
autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a
disposizione dalle centrali di committenza qualificate ….In
caso di indisponibilità di tali strumenti anche in relazione
alle singole categorie merceologiche , le stazioni
appaltanti operano ai sensi del comma 3 o procedono mediante
lo svolgimento di procedura ordinaria ai sensi del presente
codice” (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Va
compreso nel quorum per l'approvazione. Per
il varo è necessario il voto favorevole dei
due terzi dei consiglieri.
Nel caso in cui anche il voto del sindaco
sia stato computato nel quorum funzionale
previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000, può considerarsi
legittima la deliberazione consiliare con la
quale è stata approvata una modifica allo
statuto dell'ente?
L'art. 6, comma 4, del Tuel, dispone che «gli
statuti sono deliberati dai rispettivi
consigli con il voto favorevole dei due
terzi dei consiglieri assegnati le
disposizioni di cui al presente comma si
applicano anche alle modifiche statutarie».
La citata normativa prevede un
«procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme
statutarie, nonché delle relative modifiche;
in particolare, prescrive che, in caso di
mancata approvazione dei due terzi
dell'assemblea, si deve ripetere la
votazione entro 30 giorni e, inoltre,
stabilisce che lo statuto si ritiene
approvato se ottiene per due volte -in
sedute successive- il voto favorevole della
maggioranza assoluta dei membri assegnati al
collegio.
Premesso che sulla questione l'orientamento
del giudice amministrativo non è univoco
(cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio,
sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar
Lombardia sentenza n. 1604/2011),
l'approvazione dello statuto, pertanto,
comporta -attesa la natura di atto
normativo «fondamentale» sua propria (comma
2, art. 6 cit.)- che su di esso converga il
più elevato numero di consensi attraverso
un'ampia discussione e comparazione
d'interessi da parte della maggioranza e
dell'opposizione consiliare.
Tale esigenza ha determinato,
conseguentemente, la previsione di
maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle
altre votazioni, siano ragguagliati ai due
terzi o alla maggioranza assoluta non dei
votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione
dello statuto e delle sue modifiche implica
che in sede di prima votazione la delibera
sia approvata con il voto favorevole dei due
terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso
il sindaco, che è componente del consiglio
comunale ai sensi dell'art. 37 del citato
Testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento
non ha inteso computare il sindaco, o il
presidente della provincia, nel quorum
richiesto per la validità di una seduta, lo
ha indicato espressamente usando la formula
«senza computare a tal fine il sindaco e il
presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.11.2017). |
APPALTI SERVIZI:
Convenzione per la gestione del servizio di tesoreria da
parte di un Consorzio imbrifero montano (BIM).
L’affidamento del servizio di tesoreria
deve essere effettuato mediante procedure ad evidenza
pubblica e con modalità che rispettino, tra gli altri, i
principi della concorrenza, della non discriminazione e
della trasparenza.
Il Consorzio dei comuni del bacino imbrifero montano (BIM)
chiede un parere in materia di affidamento del servizio di
tesoreria. Più in particolare, desidera sapere se, attesa la
necessità di stipulare un nuovo contratto per l’affidamento
del servizio di tesoreria (per avvenuta scadenza di quello
in essere), possa convenzionarsi con l’Unione territoriale
intercomunale -cui aderiscono molti comuni costituenti il
consorzio in oggetto– al fine di utilizzare il servizio di
tesoreria della stessa.
Sentito il Servizio finanza locale, al quesito posto si
ritiene di fornire risposta negativa per le motivazioni che
in appresso verranno esplicitate.
In via preliminare, si ricorda che il Consorzio di comuni
del bacino imbrifero montano è un consorzio obbligatorio,
istituito ai sensi dell’articolo 1 della legge 27.12.1953,
n. 959 cui si applicano, per espressa disposizione
statutaria, “le norme di principio sugli Enti Locali”
(articolo 24, comma 1, dello Statuto). [1]
Con riferimento all’affidamento del servizio di tesoreria,
l’articolo 22 dello statuto consortile recita: “Il
servizio di tesoreria, da disciplinare con il regolamento di
contabilità, verrà affidato ad istituto bancario abilitato
alle funzioni, sotto l’osservanza della legge e regolamenti
in materia”.
Senza entrare nel merito delle modalità di affidamento del
servizio in riferimento, ciò che preme rilevare in questa
sede è che lo stesso deve, in ogni caso, essere effettuato
mediante le procedure ad evidenza pubblica e con modalità
che rispettino i principi della concorrenza. Un tanto deriva
dall’applicazione sia del disposto di cui all’articolo 210
del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[2] nella parte in
cui prevede che: “L'affidamento del servizio viene
effettuato mediante le procedure ad evidenza pubblica
stabilite nel regolamento di contabilità di ciascun ente,
con modalità che rispettino i principi della concorrenza”
sia del disposto di cui all’articolo 30 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, [3]
il quale, al comma 1, recita: “L'affidamento e
l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture
e concessioni, ai sensi del presente codice garantisce la
qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, tempestività e
correttezza. Nell'affidamento degli appalti e delle
concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i
principi di libera concorrenza, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le
modalità indicate nel presente codice. […]”.
Il Consorzio verrebbe meno all’obbligo sullo stesso gravante
di affidare il proprio servizio di tesoreria mediante
apposita procedura ad evidenza pubblica qualora lo stesso
potesse aderire ad altro servizio già in essere tra altri
soggetti.
Inoltre, l’eventuale adesione ad un contratto già in essere,
stipulato tra altri soggetti giuridici, [4]
si tradurrebbe in una modifica dell’originario rapporto
negoziale [5]
con conseguente necessità di avviare una nuova procedura
concorsuale da parte di tutti i soggetti coinvolti pena la
frustrazione dei principi di tutela della concorrenza e di
par condicio tra tutti i partecipanti alla gara.
Sul tema la giurisprudenza amministrativa ha affermato che:
“[…] l’adesione postuma, da parte di un’amministrazione
pubblica, agli esiti di una procedura di gara alla quale sia
risultata estranea, indetta sulla scorta di una convenzione
alla quale non aveva aderito, integrava violazione dei
principi generali di evidenza pubblica di derivazione
comunitaria e di stampo nazionale, che impediscono
l’affidamento di una fornitura senza una procedura
individuale o collettiva di cui sia stato parte, formalmente
e sostanzialmente, il soggetto affidante”.
[6]
---------------
[1] In giurisprudenza si veda, Consiglio di
Stato, sez. I, sentenza del 14.11.2002, n. 2001 ove si
afferma che: “I consorzi obbligatori tra comuni compresi nel
bacino imbrifero montano (B.I.M.) svolgono funzioni che non
si esprimono secondo logiche imprenditoriali, ma che si
traducono in interventi guidati da considerazioni diverse da
quelle relative ai costi ed all'efficiente combinazione dei
vari fattori produttivi, per cui ai medesimi consorzi non va
applicata la disciplina delle aziende speciali ma quella
generalmente dettata per gli enti locali […]”.
[2] “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”.
[3] “Codice dei contratti pubblici”.
[4] Nel caso di specie, Unione territoriale intercomunale da un
lato, l’istituto bancario dall’altro.
[5] A prescindere dalla considerazione per cui sarebbe necessaria
la manifestazione di volontà di consenso di entrambi i
soggetti del contratto già concluso.
[6] Così, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del 04.02.2016, n.
442. Peraltro, il medesimo giudice consente, a determinate
condizioni, l’adesione ad un contratto già concluso da parte
di un soggetto giuridico che sia rimasto estraneo alla
procedura concorsuale qualora negli atti di gara sia
presente una clausola di estensione o di adesione la quale,
si ritiene, che “in tanto possa essere ammessa, in quanto
soddisfi i requisiti, in primis di determinatezza,
prescritti per i soggetti e l’oggetto della procedura cui
essa accede” (così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza
dell’11.02.2014, n. 663) (20.11.2017 - link a
www.regione.fvg.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Amianto. Sanzioni e controlli. Legge regionale
29.09.2003, n. 17, art. 8-bis, co. 1 (Regione Lombardia,
nota 13.11.2017 n. 33278 di prot.).
---------------
La nota regionale scaturisce a fronte di interrogativi
formulati da parte di un comune bergamasco siccome riportati
nel prosieguo.
...
OGGETTO:
L.R. 29.09.2003 n. 17 - Norme per il risanamento
dell’ambiente, bonifica e smaltimento dell’amianto.
RICHIESTA CHIARIMENTI.
La presente per chiedere chiarimenti applicativi per quanto citato
in oggetto. Segnatamente, premesso:
a) che l’art. 6, comma 1, così recita:
1. Al fine di conseguire
il censimento completo dell’amianto presente sul territorio
regionale ai sensi dell’articolo 12 della legge 257/1992, i
soggetti pubblici e i privati proprietari sono tenuti a:
a) per edifici, impianti o
luoghi nei quali vi è presenza di amianto o di materiali
contenenti amianto, a comunicare tale presenza all’ASL
competente per territorio, qualora non già effettuato;
b) per mezzi di trasporto nei
quali vi è presenza di amianto o di materiali contenenti
amianto, a comunicare alla ASL competente per territorio ed
alla amministrazione provinciale tale presenza;
c) per impianti di smaltimento
di amianto o di materiali contenenti amianto, a comunicare
alla ASL competente per territorio ed alla amministrazione
provinciale i quantitativi smaltiti, aggiornando
l’informazione annualmente.
b) che l’art. 8-bis, comma 1, della L.R. 29.09.2003 n. 17 così
dispone:
“Art. 8-bis - Sanzioni e controlli
1. La mancata comunicazione di cui all’articolo 6, comma 1,
comporta, a carico dei soggetti proprietari pubblici e
privati inadempienti, l’applicazione di una sanzione
amministrativa da € 100,00 a € 1.500,00.”;
c) che l’art. 9, comma 2-bis, recita quanto segue:
“2-bis. All’introito delle somme provenienti alla Regione
dalle sanzioni previste all’articolo 8-bis, si provvede con
l’UPB 3.4.10 “Introiti diversi”, iscritta allo stato di
previsione delle entrate del bilancio per l’esercizio
finanziario 2012 e successivi.”,
lo scrivente Settore si trova a gestire un affare laddove il
proprietario del manufatto, avente copertura in
cemento-amianto, non ha provveduto alla comunicazione di cui
alla precedente lett. a).
Sicché, chi scrive -non comprendendo appieno il tenore letterale
della norma- formula i seguenti interrogativi al fine di
avere contezza circa il corretto modus operandi:
1. qual è il soggetto che deve irrogare la
sanzione ex art. 8-bis? Detto altrimenti, la scrivente
Amministrazione oppure l’ATS di Bergamo?
2. la sanzione da comminare parrebbe evincersi che
la introiti la Regione, siccome deducibile “indirettamente”
dalla lettura dell’art. 9, comma 2-bis? E’ corretta tale
interpretazione?
In caso affermativo
3. quali sono i riferimenti da indicare
nell’ingiunzione di pagamento affinché il destinatario della
medesima possa provvedere in merito? |
TRIBUTI:
Tosap - Esenzioni.
Fermo restando che l’articolo 49, d.lgs.
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento della tosap, l’articolo
82 del d.lgs. 117/2017, contenente il Codice del Terzo
settore, consente agli enti locali di introdurre, nel
proprio regolamento, un’ulteriore ipotesi di esenzione,
oltre che di riduzione, dal pagamento della tassa in esame,
che si aggiunge a quelle già contemplate dal summenzionato
d.lgs. 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
d.lgs. 460/1997, art. 21, a vantaggio esclusivo delle Onlus,
è stata ora estesa a beneficio di tutti gli enti
appartenenti al cosiddetto Terzo settore che soddisfino i
seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’art. 4, d.lgs. 117/2017
(associazioni di promozione sociale, organizzazioni di
volontariato, associazioni riconosciute o non riconosciute,
eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’art. 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
L’Ente domanda se, alla luce dell’attuale normativa, sia
legittimo inserire, nel proprio regolamento tosap,
l’esenzione dal pagamento della tassa per manifestazioni
patrocinate dal Comune stesso e organizzate da associazioni
locali di promozione sociale, culturale e ricreativa (ad
esempio, Pro Loco).
Si svolgono, in merito al summenzionato quesito, le seguenti
osservazioni, sentito il Servizio volontariato e lingue
minoritarie della Direzione centrale cultura, sport e
solidarietà.
Fino allo scorso mese di luglio, la normativa di riferimento
al fine dell’inquadramento dell’odierno quesito era
rappresentata principalmente dal decreto legislativo
15.11.1993, n. 507 [1]
e in particolare dagli articoli 49 e 45, comma 7
[2].
Nello specifico, l’articolo 49 del decreto legislativo
507/1993 disciplina le ipotesi di esenzione dal tributo in
esame, tra le quali non rientra la fattispecie delineata
dall’ente instante [3].
L’articolo 45, comma 7, del medesimo decreto stabilisce,
invece, la riduzione della tariffa ordinaria, nella misura
dell’80 per cento, per le occupazioni temporanee realizzate
in occasioni di manifestazioni culturali oltre che politiche
e sportive. Ai sensi della disposizione da ultimo
richiamata, per le manifestazioni culturali, sportive o
politiche (ma non ricreative), la tariffa è, pertanto, pari
al 20 per cento di quella ordinaria, senza alcun potere di
modifica da parte degli enti impositori [4].
Il quadro normativo delineato era poi completato dalla
disposizione di cui all’articolo 23 della legge 07.12.2000,
n. 383 –Disciplina della associazioni di promozione sociale-
che prevedeva la possibilità, per gli enti locali, di
deliberare, a favore delle associazioni regolarmente
registrate, riduzioni -ma non esenzioni- sui tributi di
propria competenza.
In base all’articolo 21, decreto legislativo 04.12.1997, n.
460 [5],
gli enti locali potevano, inoltre, prevedere la possibilità
di riconoscere agevolazioni ed esenzioni in favore dei
soggetti qualificabili come Onlus [6].
Il contesto normativo sopra illustrato è stato parzialmente
riscritto in seguito all’emanazione del decreto legislativo
03.07.2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore
[7], che,
con l’articolo 102, rispettivamente comma 1, lettera a) e
comma 2 lettera a), ha abrogato, tra gli altri, l’articolo
23 della legge 383/2000 e l’articolo 21 del decreto
legislativo 460/1997 [8].
L’articolo 82, comma 7, del decreto legislativo 117/2017
stabilisce la possibilità, per i Comuni, di “deliberare
nei confronti degli enti del Terzo settore che non hanno per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro competenza e dai connessi adempimenti”
[9] [10].
È necessario, ora, richiamare le particolari disposizioni
che segnano l’entrata in vigore dell’articolo 82, comma 7.
Poiché la summenzionata disposizione prevede, per gli enti
locali, la possibilità di deliberare esenzioni o riduzioni
tributarie, la norma stessa potrebbe dare luogo, seppure
indirettamente, a delle forme di aiuti di stato. Il
legislatore del Codice ha, così, previsto che l’articolo 82
non entri in vigore insieme alla maggior parte delle
disposizioni del decreto legislativo, ma ne ha previsto
un’applicazione differita: o in via transitoria dal
01.01.2018 (soltanto a beneficio di Onlus, organizzazioni di
volontariato e associazioni di promozione sociale) o,
comunque, subordinatamente all’autorizzazione della
Commissione europea, chiamata a verificare la compatibilità
di alcune delle disposizioni del Codice stesso con il
Trattato comunitario ed i principi di quest’ultimo posti a
tutela del mercato unico europeo [11].
Ed invero, ai sensi dell’articolo 104, comma 2, del decreto
legislativo 117/2017, salvo quanto previsto dal comma 1, le
disposizioni del titolo X, che disciplinano il “Regime
fiscale degli enti del terzo settore”, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7 “si applicano agli enti
iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore a
decorrere dal periodo di imposta successivo
all'autorizzazione della Commissione europea di cui
all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del
periodo di imposta successivo di operatività del predetto
Registro”.
Ai sensi del medesimo articolo 104, comma 1, tra gli altri,
l’articolo 82, comma 7, si applica, sebbene in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018 e fino al periodo di
imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al
titolo X, secondo quanto indicato dal già richiamato comma
2, a favore delle Onlus iscritte negli appositi registri,
delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri
di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, nonché alle
associazioni di promozione sociale iscritte nei registi
nazionali e regionali di cui alla legge 383/2000
[12].
Si rammenta che, per l’articolo 4 del Codice del Terzo
settore, sono, tra gli altri, “enti del Terzo settore le
organizzazioni di volontariato, le associazioni di
promozione sociale … le associazioni, riconosciute o non
riconosciute, … gli altri enti di carattere privato diversi
dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo
di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di
interesse generale in forma di azione volontaria o di
erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di
mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed
iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del summenzionato decreto
legislativo 117/2017: “Gli enti del Terzo settore …
esercitano in via esclusiva o principale una o più attività
di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di
lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità
sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in
conformità alle norme particolari che ne disciplinano
l'esercizio, le attività aventi ad oggetto: … d) … le
attività culturali di interesse sociale con finalità
educativa; … f) interventi di tutela e valorizzazione del
patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto
legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive
modificazioni; … i) organizzazione e gestione di attività
culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale,
incluse attività, anche editoriali, di promozione e
diffusione della cultura e della pratica del volontariato e
delle attività di interesse generale di cui al presente
articolo; … k) organizzazione e gestione di attività
turistiche di interesse sociale, culturale o religioso; … t)
organizzazione e gestione di attività sportive
dilettantistiche”.
Richiamata la normativa di riferimento per la fattispecie in
esame, si espongono le seguenti riflessioni.
Fermo restando che l’articolo 49, decreto legislativo
507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è
prevista l’esenzione dal pagamento del tributo, a decorrere
dal periodo di imposta successivo alla predetta
autorizzazione della Commissione europea e, comunque, non
prima del periodo di imposta successivo all’operatività del
Registro unico nazionale del terzo settore, ma, in via
transitoria, a decorrere dal 01.01.2018, a favore di Onlus,
organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione
sociale, purché iscritte negli appositi registri, l’articolo
82 del Codice del Terzo settore consente agli enti locali di
introdurre, nel proprio regolamento tosap, un’ulteriore
ipotesi di esenzione, oltre che di riduzione, dal pagamento
della tassa in esame che si aggiunge a quelle già
contemplate dal summenzionato decreto legislativo 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per
l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il
decreto legislativo 460/1997, articolo 21, a vantaggio
esclusivo delle Onlus, è stata ora estesa a beneficio di
tutti gli enti appartenenti al cosiddetto Terzo settore che
soddisfino i seguenti requisiti:
- abbiano la veste giuridica di cui all’articolo 4, decreto
legislativo 117/2017 (associazioni di promozione sociale,
organizzazioni di volontariato, associazioni riconosciute o
non riconosciute, eccetera);
- svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico
e sociale di cui all’articolo 5 e, quindi, non abbiano per
oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività
commerciale;
- siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del
Terzo settore.
In attesa del pronunciamento della Commissione europea su
alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo
117/2017, tra le quali, per quanto qui di interesse,
l’articolo 82, comma 7, che prevede la possibilità, per
tutti gli enti locali, di introdurre, nei propri
regolamenti, ipotesi di esenzione dal pagamento dei tributi
di propria competenza ed in attesa dell’istituzione ed
operatività del Registro unico nazionale per gli enti del
Terzo settore, la disposizione di riferimento rimane,
comunque, l’articolo 49, decreto legislativo 507/1993; e
soltanto per le organizzazioni di promozione sociale, le
Onlus, e le organizzazioni di volontariato anche l’articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017, che troverà
applicazione, in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018
(secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1, decreto
legislativo 117/2017).
Conservano, inoltre, valore tutte le osservazioni che questo
Servizio ha già espresso in precedenti pareri in merito alle
esenzioni dal pagamento della tosap, al carattere tassativo
dei casi di dispensa dal pagamento dei tributi ed in merito
all’impossibilità di applicare istituti quali
l’interpretazione analogica ed estensiva alle norme di
natura eccezionale [13].
In conclusione, conformemente alle argomentazioni sopra
esposte, si evidenzia, quanto all’interrogativo sottoposto
all’attenzione dello scrivente, che la fattispecie di
esenzione delineata dall’ente locale –esenzione a favore
delle associazioni locali di promozione sociale culturale e
ricreativa– ferma restando l’applicazione dell’articolo 49,
decreto legislativo 507/1993 e dei suoi limiti, potrebbe
essere ricondotta nel campo di applicazione dell’articolo
82, comma 7, e degli articoli 4 e 5, decreto legislativo
117/2017, con i vincoli temporali di entrata in vigore della
disposizione in materia di tributi locali (articolo 82,
decreto legislativo 117/2017), come sanciti dagli articoli
104, commi 1 e 2 e 101, comma 10, medesimo decreto.
L’ipotesi di occupazione, descritta dall’ente instante, non
può, quindi, essere esonerata dal pagamento della tassa in
esame ai sensi dell'articolo 49 del decreto legislativo
507/1993, in quanto non riconducibile nel suo ambito di
applicazione, riferibile alle sole occupazioni espressamente
e tassativamente individuate dalla medesima norma. La
fattispecie illustrata dal Comune potrebbe, tuttavia, essere
dispensata dal pagamento del tributo, a titolo facoltativo
e, quindi, per volontà del medesimo ente, con apposito atto
deliberativo, in conformità alle previsioni di cui
all’articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017,
secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1: e cioè,
in via transitoria, dal 01.01.2018 fino al periodo di
imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea ed, in ogni caso, fino al periodo di imposta
successivo all’operatività del Registro unico nazionale
degli enti del terzo settore, soltanto a beneficio delle
organizzazioni di volontariato, delle associazioni di
promozione sociale e delle Onlus, purché iscritte negli
apposti registri disciplinati dalle rispettive leggi di
settore.
Ottenuta l’autorizzazione della Commissione europea ed
intervenuta l’operatività del summenzionato Registro, l’ente
locale potrà, invece, deliberare l’esenzione dalla tosap a
beneficio di enti del terzo settore, diversi da quelli
appena richiamati ed in via definitiva anche a beneficio di
questi ultimi, purché regolarmente iscritti nel relativo
Registro unico nazionale, quando entreranno pienamente in
vigore le disposizioni del titolo X, tra cui quella
dell’articolo 82, comma 7, nel rispetto dei termini, già
ampiamente illustrati, di cui all’articolo 104, comma 2 e
101, comma 10; fermi, in tutti i casi, i requisiti di cui
agli articoli 4 e 5 del medesimo decreto.
L’esenzione ipotizzata dall’ente potrà, quindi, essere
conforme alle previsioni del legislatore statale (articolo
82, comma 7, decreto legislativo 117/2017), detentore
esclusivo, nel nostro ordinamento giuridico, della potestà
legislativa primaria in materia di tributi locali
[14] ed
essere, conseguentemente, inserita, con apposito atto
deliberativo, nel regolamento dell’ente locale in materia di
tosap.
---------------
[1] La legge citata si intitola “Revisione
ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e
del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per
l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle
province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti
solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n.
421, concernente il riordino della finanza territoriale”.
[2] Si rammenta come la tosap sia regolamentata dalla legge dello
Stato solo per ciò che concerne le disposizioni generali
(articoli 38-57 del decreto legislativo 507/1993). Per le
norme di applicazione è fatto, invece, rinvio ai regolamenti
comunali (si legga “Memento Pratico Fiscale anno 2008”,
Francis Lefebvre, Ipsoa, pagg. 1154-1155 e “Guida operativa
ai tributi locali”, Il Sole 24 Ore, seconda edizione, pag.
141, 147). Nella specifica e puntuale applicazione della
tosap, oltre alla legge statale, i Comuni devono, quindi,
utilizzare lo strumento regolamentare. L’articolo 40 del
decreto legislativo 507/1993 prescrive, invero, agli enti
impositori, di approvare il regolamento per l’applicazione
della tassa in esame, individuando anche un contenuto minimo
che deve essere sempre assicurato all’interno dell’atto
deliberativo in discorso. Esiste, quindi, una parte del
regolamento che l’ente locale deve necessariamente
sviluppare, a fronte di una solamente eventuale. Il
contenuto eventuale sarà regolato in base alla particolare
realtà ed alle specifiche esigenze del Comune, in accordo
con il principio di legalità sancito dall’articolo 23 della
Costituzione e con i limiti espressamente contenuti
nell’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo
15.12.1997, n. 446. L’ente locale deve, quindi,
obbligatoriamente prevedere, all’interno del proprio
regolamento, la disciplina generale delle occupazioni
permanenti e temporanee, con la determinazione di eventuali
aumenti o riduzioni di tariffa, in corrispondenza delle
varie fattispecie individuate dalla legge. L’articolo 52 del
decreto legislativo 446/1997 contiene una norma fondamentale
per la disciplina della potestà regolamentare generale dei
Comuni e ne ha rafforzato l’autonomia già loro attribuita.
Con l’emanazione del decreto legislativo 446/1997, sono,
invero, intervenute importanti modifiche in materia di
gestione del tributo in esame, proprio perché con l’articolo
52 del suddetto decreto, è stata attribuita agli enti locali
un’ampia autonomia regolamentare, relativamente alla
disciplina delle proprie entrate. In tal senso, si legga “La
tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche: i
lineamenti generali del tributo” di Luca Bonadonna, in
“Tributi locali e regionali”, n. 5/2006, pag. 714. Sul
potere regolamentare del Comune in materia di tosap, si
legga anche il parere datato 12.11.2014, protocollo n.
29322, emesso dallo scrivente e consultabile nella relativa
banca dati.
[3] L’articolo 3, comma 67, della legge 28.12.1995, n. 549 apporta
una deroga all’applicazione del decreto legislativo
507/1993, in materia di tosap, ma tale deroga, non
contemplata per le occupazioni in esame, prevede l’esonero
dall’obbligo del pagamento della tassa per manifestazioni o
iniziative a carattere politico, nelle sole circostanze in
cui l’area occupata non sia superiore ai 10 metri quadrati.
Sono politiche quelle manifestazioni poste in essere da
partiti, gruppi politici riconosciuti o da organizzazioni
sindacali dirette al raggiungimento di tale specifica
finalità (Ministero delle finanze, circolare del 25.03.1994,
n. 13/E). Si legga “Guida operativa ai tributi locali”,
cit., pag. 146. Va rilevato, quindi, che, ex articolo 3,
comma 67, legge 549/1995, nei soli confronti dei soggetti
promotori di iniziative a carattere esclusivamente politico,
è disposta l’esenzione dalla tosap, se la superficie
occupata non supera i dieci metri quadrati. Si legga, al
riguardo, “Manuale dei tributi locali”, Maggioli editore, V
edizione, pag. 337.
[4] Si legga, al riguardo, “Manuale dei tributi locali”, cit., pag.
337.
[5] Intitolato “Riordino della disciplina tributaria degli enti non
commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità
sociale”.
[6] L’articolo 21, del decreto legislativo in discorso stabiliva,
infatti, che i Comuni “possono deliberare nei confronti
delle Onlus la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei
tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti”.
[7] Il testo normativo ora richiamato è stato pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 02.08.2017 ed è entrato il vigore il
giorno successivo.
[8] Ai sensi dell’articolo 102, comma 2, lettera a), del decreto
legislativo 117/2017, l’articolo 21 della legge 460/1997 è
abrogato a decorrere dal termine di cui all’articolo 104,
comma 2, medesimo decreto, ovverosia a decorrere dal periodo
di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione
europea di cui all’articolo 101, comma 10, su alcune
disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore,
autorizzazione da richiedere a cura del Ministero del lavoro
e delle politiche sociali. L’abrogazione, comunque, non sarà
efficace prima del periodo di imposta successivo
all’operatività del Registro unico nazionale del Terzo
settore.
[9] Tale possibilità è contemplata in relazione a tutti i tributi
locali diversi dall’imposta municipale propria e dal tributo
per i servizi indivisibili, per i quali l’esenzione dal
pagamento è prevista alle condizioni e nei limiti di cui
comma 6 del medesimo articolo 82.
[10] La disposizione ora richiamata riprende, parzialmente,
estendendone la previsione non solo alle riduzioni ma anche
alle esenzioni, quella contenuta, in relazione alle
associazioni di promozione sociale, nell’articolo 23 della
legge 383/2000, abrogata dall’articolo 102, comma 1, lettera
a) del decreto legislativo 117/2017 e conferma, per le
Onlus, quella contenuta nell’articolo 21 della legge
460/1997, parimenti abrogato dal decreto legislativo
117/2017, nei termini di cui dall’articolo 102, comma 2,
lettera a) e 104, comma 2.
[11] Ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul
funzionamento dell’Unione Europea (nella versione
consolidata, a fronte dell’entrata in vigore il 01.12.2009
del Trattato di Lisbona, firmato, a Lisbona, il 13.12.2007,
dai rappresentanti dei ventisette Stati membri dell’Unione
stessa) “alla Commissione sono comunicati in tempo utile
perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a
istituire o modificare aiuti”. Se ritiene che un progetto
non sia compatibile con il mercato interno dell’Unione, la
Commissione inizia senza indugio una specifica procedura e
“lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle
misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad
una decisione finale”.
[12] Ai sensi dell’articolo 104, comma 1, decreto legislativo
117/2017, le disposizioni di cui all’articolo 82 “si
applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di
imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017
(quindi dal 01.01.2018 n.d.r.) e fino al periodo d'imposta
di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X
secondo quanto indicato al comma 2, alle Organizzazioni non
lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, del
decreto legislativo 04.12.1997, n. 460 iscritte negli
appositi registri, alle organizzazioni di volontariato
iscritte nei registri di cui alla legge 11.08.1991, n. 266,
e alle associazioni di promozione sociale iscritte nei
registri nazionali, regionali e delle provincie autonome di
Trento e Bolzano previsti dall'articolo 7 della legge
07.12.2000, n. 383”.
[13] Si leggano i pareri datati 19.08.2010, protocollo n. 13660,
19.09.2013, protocollo n, 26839, emessi dallo scrivente e
consultabili nella relativa banca dati, oltre che il più
recente parere datato 14.09.2017, protocollo n. 9264,
parimenti consultabile nella relativa banca dati.
[14] In tal senso, Corte Costituzionale, 22-24.02.2006, n. 75, ove
si legge che l’articolo 117, comma 2, lettera e), Cost.
riserva, al legislatore nazionale, la competenza esclusiva
nella materia del sistema impositivo, essendo i tributi
erariali istituiti da legge dello Stato e da questa
disciplinati, salvo quanto espressamente rimesso
all’autonomia dei Comuni. Si legga “Limiti al potere di
introdurre per via regolamentare esenzioni ed agevolazioni
nella disciplina dei tributi locali (nota a Corte Cost. n.
75/2006)” di Andrea Giovanardi, in “Rivista di diritto
tributario”, n. 7-8/2006, II, pagg. 545 e ss. (07.11.2017
- link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Messa in sicurezza immobile di privato deceduto.
Nella successione legittima, le
categorie di successibili sono individuate dal codice civile
e ne sono esclusi gli affini, ossia i parenti dell’altro
coniuge.
Il chiamato all’eredità acquista la qualità di erede con
l’accettazione dell’eredità (art. 459 c.c.), espressa o
tacita (art. 474 c.c.).
Il decorso del termine di dieci anni per accettare l’eredità
(art. 480 c.c.) rende del tutto inutile una dichiarazione di
rinuncia tardiva, trattandosi di un’eredità rispetto alla
quale il diritto di accettare si è ormai prescritto, ma, al
fine di escludere l’acquisto della qualità di erede in capo
al chiamato all’eredità, occorre, altresì, escludere che
detto acquisto non sia conseguito ad una accettazione
tacita, ai sensi dell’art. 476 c.c., e/o ad una situazione
di possesso di alcuno dei beni ereditari, ai sensi dell’art.
485 c.c., inteso, secondo la Corte di Cassazione, come mera
relazione materiale tra i beni (anche mobili e anche un solo
bene) e il chiamato all’eredità.
La mancanza di eredi successibili entro il sesto grado –cui
la giurisprudenza equipara il decorso del termine per
accettare– comporta la devoluzione dell’eredità allo Stato
(art. 586 c.c.).
Il Comune riferisce di aver avviato il procedimento per la
messa in sicurezza di un immobile privato in condizioni di
precaria stabilità.
In particolare, essendo la proprietaria di detto immobile
deceduta nel 2001 senza figli, ed essendo deceduti sia il
primo che il secondo marito, il procedimento è stato
notificato al figlio di una delle sorelle decedute ed al
figlio in vita del secondo coniuge. Il legale del figlio
della sorella ha fatto sapere che il suo assistito non ha
mai accettato l’eredità della zia, non era in possesso dei
beni ereditari e non ha mai posto in essere alcun atto di
disposizione sugli stessi. Il figlio in vita del secondo
coniuge ha fatto sapere per le vie brevi di non poter essere
qualificato come chiamato all’eredità del de cuius.
Il Comune chiede, dunque, se sia possibile e legittimo
proseguire il procedimento per la messa in sicurezza
dell’immobile nei confronti dei suddetti soggetti ai quali
lo stesso è stato notificato.
L’art. 456 c.c. prevede che la morte di una persona
determina l’apertura della sua successione; il successivo
art. 457 c.c. stabilisce che l’eredità si devolve per legge
(c.d. successione legittima) o per testamento e che non si
fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in
tutto o in parte, quella testamentaria.
L’Ente, nella formulazione del quesito, non fa riferimento
alla presenza di un testamento, per cui, le considerazioni
che seguono saranno incentrate sulle regole della
successione legittima.
Le categorie di successibili, nella successione legittima,
sono il coniuge, i discendenti legittimi e naturali, gli
ascendenti legittimi, i collaterali, gli altri parenti e lo
Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite dalla legge
(art. 565 e segg. c.c.) [1].
Sono esclusi dalle categorie di successibili, nella
successione legittima, gli affini, ossia i parenti
dell’altro coniuge. Ne consegue che i figli del coniuge
della persona della cui eredità si tratta non sono chiamati
all’eredità di questa, con la quale intercorre un rapporto
giuridico di semplice affinità, privo di rilevanza in ambito
successorio.
Pertanto, nel caso di specie, il figlio del secondo coniuge
deceduto della proprietaria dell’immobile non ha titolo per
accedere alla successione legittima di questa
[2].
Venendo alla posizione del figlio della sorella del de
cuius (nipote), questi rientra tra i chiamati
all’eredità, ma la qualità di erede non si acquista
automaticamente, bensì per effetto dell’accettazione (art.
459 c.c.).
L’accettazione può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.):
è espressa quando il chiamato all’eredità in un atto
pubblico o in una scrittura privata ha dichiarato di
accettarla o ha assunto il titolo di erede (art. 475 c.c.);
è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che
presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che
non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede
(art. 476 c.c.).
Inoltre, ai sensi dell’art. 485 c.c., l’acquisto della
qualità di erede può verificarsi in capo al chiamato
all’eredità, che, a qualsiasi titolo, si trovi nel possesso
di beni ereditari, in caso di mancata redazione
dell’inventario nei (brevi) termini ivi previsti.
In questo caso –osserva la Corte di Cassazione– l’acquisto
dell’eredità non è riconducibile ad una accettazione tacita,
ma unicamente alla legge che ricollega determinati effetti
ad un certo comportamento [3].
Presupposto imprescindibile dell’acquisto, da parte del
chiamato, ex art. 485 c.c., della qualità di erede è, oltre
all’esistenza di beni ereditari, che egli a qualsiasi titolo
si trovi nel possesso di tali beni (non necessariamente
dell’intera massa ereditaria, ma anche solo di qualche bene,
anche se mobile). Possesso che non deve necessariamente
manifestarsi in un’attività corrispondente all’esercizio del
diritto di proprietà sui beni ereditari, ma si esaurisce in
una mera relazione materiale tra i beni (anche un solo bene)
e il chiamato all’eredità, con la consapevolezza della loro
appartenenza al compendio ereditario [4].
Nel caso di specie, il decesso del de cuius risale al
2001 e non risulta intervenuta accettazione espressa, né
formale rinuncia [5]
da parte del nipote del de cuius, che –a dire del
legale– non era nel possesso dei beni ereditari e non ha
posto in essere alcun atto di disposizione sugli stessi.
In proposito, se si può asserire che il decorso del termine
prescrizionale di dieci anni per l’accettazione dell’eredità
(art. 480 c.c.) rende del tutto inutile una dichiarazione di
rinuncia tardiva, trattandosi di un’eredità rispetto alla
quale il diritto di accettare si è ormai prescritto
[6], va
osservato che, al fine di escludere l’acquisto della qualità
di erede in capo al nipote del de cuius, occorre
altresì escludere che detto acquisto non sia conseguito ad
una accettazione tacita, ai sensi dell’art. 476 c.c., e/o ad
una situazione di possesso di alcuno dei beni ereditari, ai
sensi dell’art. 485 c.c., nei termini specificati dalla
Corte di Cassazione[7].
Queste circostanze risultano, invero, meramente asserite dal
legale della parte interessata.
Ne deriva che la questione posta dall’Ente se sia possibile
e legittimo proseguire nel procedimento di messa in
sicurezza dell’immobile nei confronti del nipote del de
cuius va posta nei termini di valutazione dell’Ente se
sia il caso di proseguire, in relazione alla sussistenza di
circostanze che possano avere determinato l’accettazione
tacita dell’eredità e/o l’acquisto della stessa in forza di
legge e alla possibilità di darne prova, nell’eventualità
che la persona interessata agisca in giudizio per far valere
la sua posizione di non erede.
In questo senso indirizzano le considerazioni della Corte di
Cassazione [8],
che, se pur espresse in tema di obbligazioni tributarie –in
una lite originata dall’impugnazione di un avviso di
liquidazione, da parte del contribuente, cui era stato
notificato nella sua qualità di erede e dunque di (preteso)
obbligato per il debito del de cuius, e che, ricevuto
l’atto, aveva formalizzato la propria rinunzia all’eredità,
pur essendo trascorsi più di dieci anni dalla morte– possono
rivelarsi utili al caso in esame.
Ebbene, la Suprema Corte –nel ribaltare le decisioni dei
Giudici di merito, che avevano rigettato il ricorso contro
l’avviso di liquidazione– ha ritenuto che, tenuto conto che
l’accettazione dell’eredità è il presupposto perché si possa
rispondere dei debiti ereditari, una eventuale rinuncia,
anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere
chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario,
sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai
quali desumere una accettazione implicita dell’eredità (art.
476 c.c.), ma della relativa prova l’Amministrazione
finanziaria è parte processualmente onerata.
Ai sensi dell’art. 521 c.c. –osserva la Corte di Cassazione–
la rinuncia ha effetto retroattivo, pertanto, chi rinuncia
all’eredità è considerato come se non fosse mai stato
chiamato.
Nondimeno –continua la Suprema Corte– un atto di rinuncia
tardivo determina la conseguenza che l’amministrazione
finanziaria è legittimata a notificare al contribuente
rinunciatario gli atti impositivi, e costui è tenuto a
costituirsi in giudizio per far valere il proprio difetto di
legittimazione passiva, e quindi la sua estraneità ai debiti
tributari del de cuius. Mentre l’Amministrazione
finanziaria, se vuol far valere la pretesa fiscale, è
onerata della prova che il contribuente è decaduto dal
diritto di esercitare una valida rinuncia, ad esempio per
aver posto in essere atti incompatibili con la volontà di
rinunciare che siano concludenti e significativi della
volontà di accettare l’eredità [9].
Questi principi potranno essere utili all’Ente al fine di
valutare se proseguire il procedimento amministrativo di
messa in sicurezza dell’immobile nei confronti del nipote
del de cuius, ove reputi che sia possibile che questi
abbia acquistato la qualità di erede e fornirne la prova.
Altrimenti, sul presupposto dell’assenza di ulteriori
successibili della defunta entro il sesto grado, sembrerebbe
venire in considerazione la successione dello Stato, ai
sensi dell’art. 586 c.c., secondo cui, in mancanza di altri
successibili, l’eredità è devoluta allo Stato.
In proposito, la giurisprudenza [10]
ha ritenuto che il decorso del termine per accettare è
parificabile alla mancanza di eredi successibili di cui
all’art. 586 c.c. e determina l’acquisto automatico e
retroattivo in capo allo Stato italiano, erede necessario,
dei beni relitti.
---------------
[1] Oltre al coniuge, possono distinguersi
diversi ordini di successibili: i figli, i genitori, i
fratelli e sorelle, nonché i discendenti di questi ultimi,
gli ascendenti, i collaterali dal terzo al sesto grado.
La successione non ha luogo tra i parenti oltre il sesto
grado (art. 575, c. 2, c.c.).
[2] Ed invero, la posizione del figlio del coniuge potrebbe venire
in considerazione in relazione all’eredità del proprio
genitore, eventualmente comprensiva anche della quota di
beni da questi ereditati dalla moglie, ove a quest’ultima
sia sopravvissuto, secondo le norme del diritto successorio.
[3] Cass. civ., sez. II, 22.06.1995, n. 7076. Conforme la dottrina,
secondo cui, in quest’ipotesi, l’acquisto dell’eredità si
ricollega ad una fattispecie legale tipica, automaticamente
sufficiente a determinare l’effetto previsto dal legislatore
(cfr. Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale di
diritto privato, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 1281 e 1282;
1286).
[4] Cass. civ. n. 7076/1995 cit.; Cass. civ., sez. II, 14.05.1994,
n. 4707.
[5] Ex art. 519 c.c., la rinunzia all’eredità deve farsi con
dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del
tribunale del circondario in cui si è aperta la successione,
e inserita nel registro delle successioni.
[6] Cass. civ., sez. trib., 29.03.2017, n. 8053. In quella
fattispecie, di cui si dirà nel prosieguo, la Suprema Corte
ha osservato che, invero, la giustificazione causale
dell’atto di rinunzia tardiva si era espressa nell’interesse
del rinunziante a stabilizzare e chiarire la sua condizione
e volontà di “non essere erede”.
[7] Vi sono anche altre ipotesi che, in forza di legge, possono
determinare l’acquisto dell’eredità: ai sensi dell’art. 487
c.c., colui che, non essendo nel possesso dei beni
ereditari, abbia dichiarato di accettare con beneficio di
inventario, deve redigere l’inventario entro tre mesi, in
mancanza, è erede puro e semplice; e ancora, ai sensi
dell’art. 527 c.c., i chiamati all’eredità che abbiano
sottratto o nascosto beni dell’eredità decadono dalla
facoltà di rinunziarvi e si considerano eredi puri e
semplici (Cfr. Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale
di diritto privato, cit., pp. 1281 e 1282).
[8] Cass. civ., n. 8053/2017 cit.
[9] In quella fattispecie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che
l’Amministrazione finanziaria non avesse ottemperato a detto
onere probatorio, per cui ha accolto il ricorso originario
della contribuente, compensando, peraltro, le spese tra le
parti.
[10] Tribunale di Marsala 14.06.2004, richiamata da Paolo Cendon,
Commentario al Codice civile, Volume 6, Giuffrè Editore,
2008, p. 586. V. anche Cass. civ., Sez. II, 09.03.2006, n.
5082, che equipara alla mancanza di successibili il caso in
cui i chiamati abbiano rinunciato (02.11.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
NEWS |
INCARICHI PROFESSIONALI: Legali
scelti sulla fiducia. Nessun obbligo di
bando di gara per la p.a.. Parere del
Consiglio nazionale forense sulle linee
guida dell'Anac.
Avvocato della p.a. scelto sulla fiducia.
Non c'è infatti obbligo di bando di gara per
l'affidamento dei servizi legali della
pubblica amministrazione. Il procedimento
può avvenire anche in via diretta, sulla
base del rapporto fiduciario con il
professionista.
È quanto afferma la
nota 21.12.2017 n. 30842 di prot.
del Consiglio nazionale forense sulle linee
guida Anac in materia di affidamento dei
servizi legali, di natura contraria.
Secondo l'Autorità per l'anticorruzione,
infatti, non vi è alcuna distinzione tra
categorie di incarichi legali sottoposti
alla disciplina procedimentale di gara o
meno. Anche gli incarichi di natura
giudiziale e pregiudiziale, secondo l'Anac,
devono essere affidati dalle amministrazioni
con un vero e proprio procedimento
comparativo di gara, perché «non possono
essere affidati come se si trattasse di un
incarico intuitus personae, in cui è
sufficiente dimostrare il rispetto dei
principi generali dell'azione
amministrativa, dovendo invece seguire
alcune regole minime».
In pratica, l'Anac, secondo il Cnf, da un
lato supera definitivamente la distinzione
tra il contratto d'opera professionale e
l'appalto, con l'attrazione di tutte le
prestazioni rese dall'avvocato in questo
secondo ambito. Dall'altro lato, interpreta
la normativa nel senso in cui anche i
contratti esclusi dal codice restano
comunque sottoposti ad alcuni principi
generali dalla cui applicazione
discenderebbe l'assoggettamento a una serie
di regole che formano un classico
procedimento di gara per la selezione del
contraente della p.a.
A parere del Cnf, l'applicazione dei
principi generali è comunque compatibile col
rispetto delle regole dell'azione
amministrativa. Il fatto cioè che non sia
imposta una gara come modello di scelta
dell'avvocato non esclude che la p.a. debba
comunque fare una scelta oculata, in linea
con i principi di efficienza, efficacia ed
economicità, dandone conto con apposita
motivazione.
«L'acquisizione del curriculum
dell'avvocato e l'indicazione del perché ad
esso ci si rivolge», si legge nel
parere, «sono peraltro anche presidi di
trasparenza amministrativa, per certi
aspetti persino superiori a quelli
assicurati dalla gara, per quanto
semplificata essa sia».
In particolare, il Cnf sottolinea come, in
conformità alle direttive 2014/24/Ue e
2014/25/Ue e alla disciplina contenuta nel
dlgs 18.04.2016, n. 50, i servizi legali
elencati all'art. 17, comma 1, lett. d)
(arbitrato o conciliazione, procedimenti
giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali
o autorità pubbliche, servizi di
certificazione e autenticazione di documenti
che devono essere prestati da notai, servizi
legali prestati da fiduciari o tutori
designati o altri servizi legali i cui
fornitori sono designati per legge per
svolgere specifici compiti) possono essere
affidati dalle amministrazioni
aggiudicatrici in via diretta, «secondo
l'intuitus personae e su base fiduciaria, e
nel rispetto dei principi generali che
sempre guidano l'azione amministrativa».
Per gli altri servizi legali, invece, vale
l'affidamento mediante un procedimento
comparativo di evidenza pubblica
semplificato nei termini e secondo i
presupposti previsti per legge. Il parere
richiama, in questo senso, la recente
sentenza del Tar Puglia (11.12.2017, n.
1289) e la posizione espressa dal Consiglio
di stato nella sentenza n. 2730 del 2012.
In conclusione, il Cnf auspica che i rilievi
espressi nel parere «possano essere
oggetto di adeguata considerazione da parte
dell'Autorità nazionale anticorruzione al
fine dell'adozione di una versione
definitiva delle linee guida coerente con il
quadro normativo conferente, e utile a
favorire il buon andamento dell'azione
amministrativa»
(articolo ItaliaOggi del
28.12.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Lo
scudo della privacy sull'Imu. Vietato
fornire gli elenchi dei versamenti e degli
immobili. Un parere del Garante blocca
l'applicazione della legge sull'accesso
generalizzato (Foia).
Salva la privacy dei contribuenti Imu. Il
comune non può fornire gli elenchi dei
soggetti che hanno pagato l'Imu e degli
immobili soggetti all'imposta. Questo
nemmeno se la richiesta è formulata ai sensi
della legge sull'accesso civico (dlgs n.
33/2013, noto come Foia, Freedom of
information act): l'istanza è sproporzionata
e viola la privacy delle persone, di cui si
potrebbe venire a sapere anche il tenore
reddituale e patrimoniale. Inoltre si elude
il pagamento dei diritti per le visure e la
specifica norma sulle modalità di conoscenza
dei dati inseriti nel pubblico catasto. Al
massimo si può dare l'importo
complessivamente riscosso per il singolo
tributo.
È il parere rilasciato dal Garante della
privacy (provvedimento
30.11.2017 n. 506), con cui si
blocca per l'ennesima volta l'accesso
generalizzato, sulla carta apparentemente in
grado di aprire tutte le porte della p.a.,
ma neutralizzato dallo stesso ordinamento
con norme che ne bloccano l'operatività.
Nel caso specifico il responsabile per la
trasparenza del comune di Genova si è
rivolto al Garante per un parere sulla
richiesta di avere due elenchi in materia di
Imu: a) quello dei contribuenti che hanno
versato l'Imposta municipale unica (Imu)
sulla prima casa a partire dall'anno 2014;
b) quello degli immobili a uso residenziale
prima casa, per i quali nello stesso periodo
di tempo è stata pagata l'imposta.
La richiesta è stata formulata ai sensi
della legge sull'accesso civico, con
richiesta di riversare i dati su un supporto
informatico. Il comune ha detto di no,
invocando la privacy dei contribuenti, pur
dichiarandosi disponibile a fornire, se di
interesse il dato complessivo di quanto
riscosso dall'amministrazione con codice
tributo «abitazione principale». I
problemi sollevati sono stati più di uno: se
l'elenco degli immobili sia un elenco di
dati personali tutelati dalla privacy; se
conta qualcosa il fatto gli immobili e i
dati dei loro proprietari sono già
pubblicati in pubblici registri (il
catasto), anche se non sotto forma
dell'elenco richiesto.
Il Garante ha rilevato che fornire un elenco
degli immobili e la relativa classificazione
ai fini Imu significa dare la possibilità di
conoscere numerosi dati personali relative
ai proprietari: dati identificativi dei
soggetti interessati, residenza in un certo
comune, natura dell'abitazione quale propria
abitazione principale, qualità di «proprietario»
di un immobile di una certa tipologia con
l'identificazione dell'immobile stesso, aver
versato o meno uno specifico tributo.
Inoltre è possibile conoscere il tenore di
vita o la situazione patrimoniale dei
soggetti (nel caso concreto sono tenuti a
pagare l'Imu coloro che hanno abitazione
principale negli immobili appartenenti alle
categorie catastali A/1, A/8 e A/9, cioè «abitazioni
di tipo signorile», «abitazioni in
ville» e «castelli» o «palazzi
di eminenti pregi artistici o storici»).
Tutte queste informazioni non sono contenuti
in alcun pubblico registro immobiliare, né
sono rilasciabili dall'Ufficio catastale
(che non è in possesso di questi specifichi
dati). Peraltro anche in relazione ai dati
contenuti nella banca dati catastale, il
Garante sottolinea che la conoscenza di tali
dati resta regolamentata da specifiche
discipline di settore su forme e modalità di
rilascio dei dati, prevedendo inoltre il
pagamento di appositi tributi.
Questo significa che l'accesso civico alla
predetta banca dati va escluso ai sensi
dell'articolo 5-bis, comma 3, del dlgs n.
33/2013, in quanto il relativo accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità
o limiti. Strada sbarrata all'accesso
civico, dunque, per violazione della privacy
e strada sbarrata anche alla possibilità di
fornire un accesso civico parziale, limitato
al solo elenco degli immobili senza il nome
di coloro che hanno pagato il tributo. Ciò
in quanto le predette informazioni non
escludono del tutto la possibilità che il
soggetto proprietario dell'immobile sia
identificato indirettamente mediante il
collegamento con altre banche dati (come la
banca dati catastale, elenchi telefonici,
pagine bianche ecc.).
Un no secco all'accesso civico è motivato,
infine, dal fatto che, secondo il Garante,
la conoscenza indiscriminata delle
informazioni richiesta appare non necessaria
o comunque sproporzionata, rispetto allo
scopo di favorire forme diffuse di controllo
sul perseguimento delle funzioni
istituzionali. Per il controllo
generalizzato sul complessivo esercizio
delle funzioni amministrative del comune in
materia tributaria, conclude il Garante,
potrebbero eventualmente essere utili
informazioni diverse, fornite in maniera
aggregata senza dati personali, relativi al
pagamento del tributo, fra cui ad esempio,
il dato complessivo di quanto riscosso con
codice tributo «abitazione principale»
(articolo ItaliaOggi del
28.12.2017). |
ENTI LOCALI: Videosorveglianza,
istanze al Mise.
Per l'installazione degli impianti di
videosorveglianza i comuni devono presentare
una apposita istanza al Ministero dello
sviluppo economico. Specialmente se sono
associati e vogliono lavorare in rete. E per
chi non si adegua sono guai grossi in caso
di ispezione.
Lo ha ribadito il Ministero dello sviluppo
economico, ispettorato Piemonte e Valle
d'Aosta, con la circolare 24.11.2017.
Nella scorsa primavera alcune prefetture
hanno diffuso i pareri del Mise, secondo il
quale le reti di videosorveglianza
finalizzate sia alla sicurezza che al
monitoraggio del traffico, ai sensi del
codice delle comunicazioni elettroniche,
sono equiparate ad un servizio di
comunicazione ad uso privato, soggetto
all'autorizzazione generale, previa
dichiarazione di inizio attività, e al
pagamento dei relativi contributi.
Successivamente, l'11.03.2017, la X
commissione del Senato, nel corso della
conversione in legge del pacchetto
sicurezza, ha espresso un parere ad hoc,
invitando la commissione referente a
valorizzare l'esigenza che i sistemi di
videosorveglianza, installati dalle
amministrazioni locali con le finalità di
ordine e sicurezza pubblica, siano esonerati
dall'obbligo di autorizzazioni, contributi e
canoni di concessione. E pochi giorni dopo,
il 16.03.2017, il governo ha accolto come
raccomandazione l'ordine
del giorno 9/04310-A/023 che lo
impegna a «chiarire la corretta
interpretazione della norma a favore degli
enti locali ed esonerare quest'ultimi da
contributi, oneri e/o canoni di concessione
o autorizzazione se questi sono destinati a
soddisfare esigenze e/o servizi di ordine
e/o sicurezza pubblica e/o urbana e/o a
consentire comunicazioni elettroniche
inerenti servizi di polizia statali o locali
ivi comprese le radiocomunicazioni».
Ciò nonostante, l'11.05.2017, il
sottosegretario del Ministero dello sviluppo
economico ha ribadito (INTERROGAZIONE
A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/11327
dell'On. Sandro Biasotti) che nel caso di
collegamento via cavo qualunque comune che
installi o metta in esercizio una rete di
comunicazione elettronica su supporto fisico
a uso privato deve chiedere
un'autorizzazione al Mise. E per conseguire
l'autorizzazione deve essere presentata una
dichiarazione di inizio attività con i
relativi i contributi.
Con la nota in commento l'ispettorato
Piemonte e Valle d'Aosta conferma questa
interpretazione in netto contrasto con lo
spirito della sicurezza urbana integrata e
approfondisce ulteriormente la questione del
corretto esercizio degli impianti di
videosorveglianza e controllo accessi da
parte dei comuni.
A parere del Mise per gli impianti di
sicurezza cittadini che collegano tra di
loro strade, piazze e parcheggi non è
possibile applicare la deroga introdotta
dall'art. 99/5° del dlgs 259/2003. Quindi
tutte queste installazioni, compresi i
varchi ztl, «se realizzate su supporto
fisico, ad onde convogliate o in fibra
ottica sono soggette ad autorizzazione
generale ai sensi degli artt. 99, 104 e 107
del codice delle comunicazioni elettroniche».
Solo le comunicazioni radio in tecnologia «base»
possono considerarsi in libero uso, prosegue
la circolare. Ma solo se non vengono
connessi più comuni e più enti diversi tra
di loro.
In pratica a parere dell'estensore del
parere centrale quasi la totalità degli
impianti di videosorveglianza comunale è
fuori legge se non sono stati licenziati dal
ministero. In attesa delle necessarie
modifiche normative è quindi opportuno
sottoscrivere specifici accordi in
prefettura per un uso condiviso interforze
degli impianti di videosorveglianza.
Del resto l'art. 100 del codice delle
comunicazioni ammette una deroga ad hoc
per gli impianti in uso allo stato per
finalità di sicurezza pubblica. Si tratta
quindi di condividere con il rappresentante
governativo le criticità derivanti dal
mancato raccordo normativo tra il dl 14/2017
e il codice delle comunicazioni
elettroniche. E formalizzare l'uso anche per
finalità di ordine e sicurezza pubblica
delle più moderne tecnologie comunali
(articolo ItaliaOggi del
28.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Un
contratto dopo dieci anni. Stretta su
molestie e regali. E 85 euro lordi in busta.
STATALI/ Cosa prevede l'accordo siglato
all'Antivigilia di Natale da Aran e
sindacati.
Dopo quasi 10 anni di blocco contrattuale è
stato firmato il 23 dicembre scorso, tra
Aran e organizzazioni sindacali, il
nuovo contratto dei dipendenti della
pubblica amministrazione. Tra le
novità, oltre all'aumento di 85 euro lordi
al mese, la stretta contro le molestie, lo
stop ai regali di valore ai dipendenti,
pugno duro contro chi attacca la malattia
alle ferie, orari flessibili, welfare
aziendale e sanzioni patteggiate.
E ancora, come sottolineato dal ministro
della pubblica amministrazione Marianna
Madia su Facebook, «la salvaguardia del
bonus 80 euro per i lavoratori che lo
percepivano, il disco rosso ai premi a
pioggia e alle fasce predeterminate». A
questa firma seguiranno gli accordi per il
comparto conoscenza, sanità ed enti locali.
Vediamo le novità del contratto.
AUMENTO DI 85 EURO, ASSEGNO
PER STIPENDI BASSI.
Un aumento medio di 85 euro mensili lordi.
Questo per il complesso dei dipendenti delle
funzioni centrali, ovvero dipendenti dei
ministeri, della agenzie fiscali e degli
enti pubblici non economici (247 mila
«teste»). Si va da un minimo di 63 euro a un
massimo di 117 ma grazie a un'extra (21-25
euro mensili) da riconoscere alle fasce
retributive più basse, almeno per dieci
mensilità, l'adeguamento risulterà di almeno
84 euro per tutti. Le amministrazioni più
ricche potranno contare su un plus (dai 9 a
i 14,5 euro a testa) nel salario accessorio.
Le tranche di rialzi andranno a regime da
marzo. Attesa anche l'una tantum con gli
arretrati da 545 euro.
PIÙ VOCE A SINDACATI, BONUS
ECCELLENZA DEL 30%.
Le organizzazioni dei lavoratori non saranno
più solo informate delle decisioni prese
dall'amministrazione, ma si darà vita a un
confronto (una sorta di concertazione nella
versione 2.0) e nelle materie che hanno
riflessi sugli orari e sull'organizzazione
del lavoro, si potrà anche contrattare (da
turni a straordinari). I bonus di eccellenza
non potranno più ricadere più nella stessa
proporzione su tutti e la maggiorazione del
premio rispetto al resto del personale sarà
del 30%.
TETTO A PRECARIETÀ, DURATA
MASSIMA 4 ANNI.
Il contratto a tempo determinato non potrà
superare i 36 mesi, prorogabili di altri 12
ma solo se in via eccezionale. Come nel
privato, il numero dei dipendenti a termine
non potrà andare oltre il 20% del totale.
Superate le soglie non si potrà essere
assunti (si entra solo per concorso) ma
l'esperienza maturata farà punteggio.
VIA CHI COMMETTE MOLESTIE
SESSUALI, STOP A DONI DI VALORE.
Vengono esplicitate e rafforzate le sanzioni
da infliggere in questi casi: in prima
battuta il molestatore incappa in una
sospensione (fino a un massimo di 6 mesi).
Ma se il comportamento viene replicato
scatterà l'espulsione definitiva. Via anche
chi chiede regali sopra i 150 euro come
scambio di favori.
PUGNO DURO ASSENZE
STRATEGICHE, CI RIMETTE TUTTO L'UFFICIO.
Si rimarrà fuori dall'ufficio e senza
stipendio fino a due assenze ingiustificate
in continuità con le giornate festive. La
stessa sanzione è prevista per
ingiustificate assenze di massa. Se la
condotta si ripete si passa al
licenziamento. E non si scappa, visto che
tutto sarà registrato in un «fascicolo
personale». Soprattutto quando in un ufficio
si registrano tassi di assenteismo anomali,
non giustificabili, a rimetterci saranno un
po' tutti, visto che sarà il monte premi non
potrà essere aumentato. Una clausola
tuttavia direziona la sanzioni maggiori sui
singoli assenteisti.
ORARI FLESSIBILI, PERMESSI
FRAZIONABILI E FERIE SOLIDALI.
La pubblica amministrazione apre le porte
all'orario di lavoro «elastico», con fasce
di tolleranza in entrata e in uscita. Viene
anche potenziata la possibilità di passare
al part-time. Inoltre anche nella p.a il
lavoratore, su base volontaria e a titolo
gratuito, potrà cedere ad un altro
dipendente, che abbia necessità familiari
(figli piccoli) o di salute, la parte che
eccede le quattro settimane di ferie di cui
ognuno deve necessariamente fruire. Ci sarà
poi la possibilità di «spacchettare» in ore,
oggi sono riconosciuti in giorni (nel limite
di tre), i permessi come quelli per motivi
familiari o personali.
LUNA DI MIELE ASSICURATA
ANCHE PER COPPIE OMOSESSUALI.
Le unioni civili valgono come i matrimoni su
permessi e congedi. I conviventi potranno
così godere dei 15 giorni di stop retribuito
riconosciuti per le nozze. Anche nella p.a
il lavoratore potrà cedere ad un altro
dipendente, che abbia necessità familiari o
di salute, la parte che eccede le settimane
di ferie obbligatorie.
STRETTA CONTRO ABUSI LEGGE
104. TUTELE PER TERAPIE SALVAVITA.
Di norma i permessi previsti dalla legge
sulla disabilita andranno inseriti in una
programmazione mensile e solo in caso di
«documentata necessita» la domanda potrà
essere presentata nelle 24 ore precedenti.
Intanto le tutele previste per le terapie
salvavita vengono estese anche ai giorni di
assenza dovuti agli effetti collaterali dei
trattamenti (con un limite temporale di
quattro mesi). Arrivano inoltre i permessi
ad hoc per viste specialistiche.
WELFARE AZIENDALE.
In sede di contrattazione di secondo
livello, le amministrazioni potranno
riconoscere ai loro dipendenti benefit ad
hoc, dalla polizze sanitarie alle borse di
studio per i figli, dal biglietti gratis per
i musei ai prestiti facili. Gli statali
potranno poi contare su un organismo ad hoc
per dare impulso al benessere, con un focus
su misure di prevenzione dello stress da
lavoro e di fenomeni di burn-out.
SANZIONE PATTEGGIATA.
Una sorta di clausola anti-ricorsi per
gestire attraverso procedure di
conciliazione le condotte da sanzionare,
secondo il codice disciplinare del pubblico
impiego. I tecnici parlano di
«determinazione concordata della sanzione»,
che ovviamente esclude la funzione più
grave, quella del licenziamento
(articolo ItaliaOggi del
27.12.2017).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
Aran e Organizzazioni sindacali hanno
firmato l’Ipotesi di contratto collettivo
nazionale di lavoro 2016-2018 del nuovo
comparto Funzioni Centrali, nel quale sono
confluiti i precedenti comparti di
Ministeri, Agenzie Fiscali, EPNE, Agid, Cnel
ed Enac (link a
www.aranagenzia.it). |
APPALTI:
Appalti, nuove soglie Ue dal
2018. Più spazio alle gare italiane e allo
stop dell'offerta anomala. Quattro
regolamenti in Gazzetta Ue fissano i limiti
minimi oltre cui scatta la gara europea.
Dal 01.01.2018 saranno in vigore le
nuove soglie europee per contratti pubblici;
in aumento tutti i valori con più spazio
all'applicazione delle disposizioni
«nazionali», ad esempio sulle offerte
anomale.
È questo l'effetto della pubblicazione
Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del
19.12.2017 dei regolamenti n. 2363, 2365,
2366 e 2367 della Commissione europea che,
come è usuale ogni due anni, determina i
valori al di sopra dei quali si applica la
disciplina europea nei diversi settori
(ordinari o «speciali») e per le diverse
tipologie di appalto.
Per i lavori
la soglia passa da 5,225
milioni di euro a 5,548 milioni di euro; per
appalti di servizi e forniture aggiudicati
da amministrazioni che sono autorità
governative centrali i valori crescono da
135.000 a 144.000 euro; nel caso in cui
servizi e forniture siano aggiudicati dalle
altre amministrazioni la soglia passa da
209.000 a 221.000 euro.
Per i cosiddetti
«settori speciali»
(energia termica,
elettricità, gas, acqua, trasporti e servizi
postali) nel caso di lavori si applicheranno
le regole Ue delle direttive sopra i 5,548
milioni (erano 5,225 milioni), mentre per
servizi e forniture, che hanno soglie doppie
rispetto ai settori ordinari, si passa da
418.000 a 443.000 euro.
Per le concessioni
esiste invece una sola concessione, l'unica
soglia che viene portata a 5,548 milioni
come i bandi di lavori.
Infine
per lavori,
di forniture e di servizi nei settori della
difesa e della sicurezza
la soglia dei
lavori è a 5,548 milioni, mentre per servizi
e forniture è a a 443.000 euro.
La rilevanza
di questi valori emerge in più punti del
codice. Per esempio, recependo le direttive
Ue si è stabilito (art. 35) che la scelta
del metodo per il calcolo del valore stimato
di un appalto o di una concessione non può
essere fatta con l'intenzione di escluderlo
dall'ambito di applicazione delle
disposizioni del codice relative alle soglie
europee. Questo perché se un contratto è
soggetto alla disciplina nazionale non è, in
primo luogo, oggetto di pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale Europea e quindi è
soggetto ad una minore apertura alla
concorrenza.
Un'altra disciplina
strettamente connessa alle soglie Ue è
quella della esclusione automatica delle
offerte anomale, ammessa soltanto al di
sotto delle soglie di applicazione della
normativa europea. In questi casi il codice
(art. 98, comma 7) ammette che le stazioni
appaltanti, per contratti di importo
inferiori alle soglie Ue, possano prevedere
nel bando l'esclusione automatica dalla gara
delle offerte che presentano una percentuale
di ribasso pari o superiore ad una soglia di
anomalia determinata; è poi il comma 2 dello
stesso art. 97 a stabilire che, per non
rendere predeterminabile la soglia anomalia,
i parametri di riferimento per il calcolo
della soglia vengono sorteggiati fra 5
metodi (cosiddetto «anti-turbativa»)
(articolo ItaliaOggi del
22.12.2017). |
LAVORI PUBBLICI:
Soa con sede estera abilitate.
Nuova disciplina per gli incentivi ai
tecnici degli enti. Modifica al codice
appalti nel ddl di Bilancio per superare la
procedura di infrazione.
Le Soa potranno avere anche la sede
all'estero, senza obbligo di sedi secondarie
in Italia, per qualificare le imprese di
costruzioni italiane; gli incentivi ai
tecnici delle pubbliche amministrazioni
dovranno afferire ad un unico capitolo di
spesa.
Sono queste le ultime modifiche al codice
dei contratti pubblici passate in
commissione bilancio della camera
nell'ambito della discussione del disegno
della Manovra 2018.
La più rilevante è certamente quella
inerente alle Soa (società organismo di
attestazione), le società di diritto privato
che dal 2000 si occupano di qualificare le
imprese di costruzioni, un sistema che
sostituì l'Albo nazionale dei costruttori e
che anche il nuovo codice ha ritenuto di
confermare. L'art. 84 del codice appalti,
infatti, riproducendo quanto già previsto
dall'articolo 40 del dlgs 163/2006 dispone
che «i soggetti esecutori a qualsiasi titolo
di lavori pubblici di importo pari o
superiore a 150 mila euro, provano il
possesso dei requisiti di qualificazione, di
regola, mediante attestazione da parte degli
appositi organismi di diritto privato
autorizzati dall'Anac».
Sulle Soa la Corte di giustizia europea
affermò che solo le società con poteri
decisionali connessi all'esercizio dei
poteri pubblici devono stabilire la sede
legale sul territorio nazionale di
appartenenza, mentre quelle a scopo di lucro
che operano in condizioni di concorrenza
possono stabilirla ovunque. A seguito di
questo orientamento il legislatore italiano
con la legge di delegazione europea
2015-2016 ha eliminato l'obbligo di sede
legale in Italia ma ha mantenuto l'obbligo,
per le società estere, di avere comunque una
sede secondaria sul territorio nazionale. Su
questo punto l'Anac ha più volte sostenuto
che questa esigenza derivava dal fatto di
potere effettuare adeguatamente i controlli
che il codice dei contratti pubblici le ha
assegnato.
L'emendamento approvato nei giorni scorsi
stabilisce che le società organismi di
attestazione, ovvero gli organismi con
requisiti equivalenti di un altro Stato
membro dello spazio economico europeo (See),
devono avere sede in uno Stato membro dello
stesso See che attribuisca all'attestazione
che essi adottano la capacità di provare il
possesso dei requisiti di qualificazione in
capo all'esecutore di lavori pubblici.
In altre parole, è sufficiente che la Soa
residente all'estero svolga la sua attività
in un ordinamento giuridico che preveda
efficacia giuridica all'attestazione
rilasciata, così da consentire all'impresa
attestata di partecipare alle gare
pubbliche.
Niente più sede secondaria in Italia, ma la
Soa potrà operare con valore legale delle
attestazioni rilasciate soltanto se
l'ordinamento del paese di stabilimento
attribuisce alla sua attività tale valore.
Ciò dovrebbe essere sufficiente a superare
la procedura di infrazione aperta contro
l'Italia e a consentire all'Anac, in sede di
controllo, di prendere atto del valore
probante dell'attestazione. Altra cosa sarà
poi il controllo sugli assetti societari
delle Soa.
Un'altra modifica al codice dei contratti
pubblici approvata nei giorni scorsi
riguarda la disciplina dell'incentivo ai
tecnici delle pubbliche amministrazioni e in
particolare la precisazione per cui (comma
5-bis aggiuntivo all'articolo 113 del
codice) gli incentivi debbano fare capo «al
medesimo capitolo di spesa previsto per i
singoli lavori, servizi e forniture»; una
norma da coordinare con il primo comma che
in maniera più generale dice nella sostanza
la stessa cosa ma facendo riferimento alla
nozione di appalto e al bilancio e allo
stato di previsione della spesa. A queste
modifiche si aggiungono poi quelle relative
alla disciplina dei concessionari
autostradali e degli acconti (si veda ItaliaOggi del 19.12.2017)
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2017). |
VARI: Il
notaio può apporre sigilli. Studio cnn.
Il notaio può apporre sigilli su delega del
giudice. Questa attività non è una
prerogativa del solo cancelliere.
Lo precisa lo
studio
23.10.2017 n. 516-2917/C del
Consiglio nazionale del notariato.
L'esigenza di bloccare beni può manifestarsi
in molti campi, primo tra tutti quello delle
successioni, ma di sigilli si parla ogni
volta che bisogna assicurare la custodia, da
parte dell'autorità giudiziaria, di un
patrimonio che corre il rischio di essere
disperso per la mancanza, assenza,
incapacità del titolare oppure quando
quest'ultimo sia stato dichiarato fallito.
La sigillazione consiste nella chiusura dei
locali o contenitori in cui si trovano i
beni mobili da conservare, e nella
applicazione di un segno distintivo, per
impedire la sottrazione attraverso
l'effrazione, oltre che per consentirne
l'identificazione. Se comunemente l'attività
è svolta dal cancelliere, tuttavia, spiega
la circolare, la materiale attività di
sigillazione può essere affidata anche al
notaio, con apposita delega del giudice. In
concreto il notaio deve conservare i
documenti rinvenuti e, se ci sono cose che
non possono essere sigillate, vanno
specificamente descritte.
Dopo l'apposizione dei sigilli non è più
possibile, neanche dal notaio procedente,
accedere nei locali già chiusi se non per
cause urgenti e dopo motivato decreto del
tribunale; le chiavi, ritirate dal notaio,
devono essere consegnate al cancelliere che
le custodisce; se vi sono oggetti sui quali
non è possibile apporre i sigilli o che sono
necessari all'uso personale di coloro che
abitano nella casa, vanno descritte nel
verbale. Non è, invece, chiaro se il notaio
abbia il potere del notaio di aprire porte e
rimuovere gli ostacoli durante l'attività di
sigillazione.
Delle operazioni effettuate il notaio, come
detto, deve redigere un apposito verbale,
per il quale non è richiesto l'intervento
dei testimoni. Il verbale, qualificato come
atto pubblico a contenuto non patrimoniale,
deve contenere le circostanze intervenute
nel corso delle operazioni stesse e dello
stesso deve essere trasmessa una copia al
giudice
(articolo ItaliaOggi del
16.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Whistleblowing,
tutele dal 29 dicembre.
Debutteranno il 29 dicembre le nuove tutele
degli autori di segnalazioni di reati o
irregolarità di cui siano venuti a
conoscenza nell'ambito di un rapporto di
lavoro pubblico o privato.
È stata infatti pubblicata in Gazzetta
Ufficiale la legge 30.11.2017, n. 179
destinata a modificare in maniera
significativa la gestione dei rapporti di
lavoro sia nel settore pubblico che in
quello privato.
Nel settore pubblico si ha
la sostituzione dell'art. 54-bis del Testo
unico del pubblico impiego (dlgs 30.03.2001, n. 165) con la previsione di una
rafforzata protezione del dipendente
pubblico che, nell'interesse della pubblica
amministrazione per la quale lavora, segnali
violazioni o condotte illecite di cui è
venuto a conoscenza in ragione del proprio
rapporto di lavoro; la norma prevede ora
espressamente che il dipendente non potrà
subire ritorsioni (come per esempio sanzioni
disciplinari, licenziamento, demansionamento,
trasferimenti presso altri uffici) dovute
alla segnalazione da lui effettuata ne
essere sottoposto ad eventuali altre misure
aventi effetti negativi sulla sua condizione
di lavoro.
Il dipendente pubblico potrà
inviare le segnalazioni al responsabile
interno della struttura aziendale preposto
alla prevenzione della corruzione e della
trasparenza oppure direttamente all'Anac
(Autorità nazionale anticorruzione) o
all'autorità giudiziaria ordinaria o
contabile a seconda della natura della
segnalazione.
Le tutele contro atti ritorsivi o
discriminatori sono state inoltre estese ai
dipendenti di enti pubblici economici e ai
dipendenti di diritto privato sottoposti a
controllo pubblico nonché a dipendenti e
collaboratori di imprese fornitrici di beni
o servizi alla pubblica amministrazione.
Nel settore privato la nuova normativa
prevede l'inserimento dopo il comma 2
dell'art. 6 del dlgs 231/2001, i commi 2-bis,
2-ter e 2-quater, ai sensi dei quali i
Modelli di organizzazione e gestione
previsti nell'ambito della normativa sulla
responsabilità amministrativa degli enti,
dovranno prevedere tra l'altro:
• uno o più canali che consentano a coloro
che a qualsiasi titolo rappresentino o
dirigano l'ente di presentare, a tutela
dell'integrità dell'ente, segnalazioni
circostanziate di condotte illecite,
rilevanti e fondate su elementi di fatto
precisi e concordanti, o di violazioni del
modello di organizzazione e gestione
dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza
in ragione delle funzioni svolte; tali
canali garantiscono la riservatezza
dell'identità del segnalante nelle attività
di gestione della segnalazione;
• almeno un canale alternativo di
segnalazione idoneo a garantire, con
modalità informatiche, la riservatezza
dell'identità del segnalante;
• misure idonee a tutelare l'identità del
segnalante e a mantenere la riservatezza
dell'informazione in ogni contesto
successivo alla segnalazione, nei limiti in
cui l'anonimato e la riservatezza siano
opponibili per legge.
Alla luce di quanto sopra i modelli 231
dovranno quindi essere adeguatamente
aggiornati con l'introduzione di un impianto
regolamentare idoneo a disciplinare
internamente un sistema di segnalazione
delle violazioni conforme alle intervenute
novità legislative. Il modello dovrà, tra
l'altro riportare una descrizione specifica
con riguardo:
• ai soggetti abilitati a effettuare le
segnalazioni;
• ai contenuti oggetto di tali segnalazioni;
• alle funzioni aziendali preposte alla
gestione del sistema di whistleblowing
nonché
• alle forme di tutela riservate alla
protezione dell'identità dei soggetti
segnalanti e alle relative sanzioni previste
nei confronti di chi viola tali misure
(articolo ItaliaOggi del
16.12.2017). |
TRIBUTI: Sì
all'iscrizione ipotecaria per i crediti dei
comuni.
Semaforo verde all'iscrizione ipotecaria, in
esenzione da tributi e diritti, a garanzia
dei crediti tributari e patrimoniali dei
comuni anche quando la riscossione coattiva
è affidata ad un concessionario locale.
L'importante chiarimento è stato fornito
dall'agenzia delle entrate con la
risoluzione 12.12.2017
n. 149/E, in risposta all'istanza di
interpello di una società concessionaria
della riscossione delle entrate degli enti
locali.
Preliminarmente, l'agenzia osserva che,
secondo la disciplina vigente, per
riscuotere coattivamente le proprie entrate,
i comuni possono avvalersi,
alternativamente, di una seguenti modalità:
- affidamento all'Agenzia delle
entrate-riscossione, oppure,
- riscossione in forma diretta o con
affidamento ai soggetti di cui all'art. 52,
comma 5, lettera b), del dlgs n. 466/1997 (i
cosiddetti «concessionari locali»).
Nel primo caso la riscossione coattiva è
effettuata ai sensi alle disposizioni del
dpr n. 602/1973, sulla base del ruolo, il
quale, ai sensi dell'art. 77, decorso
inutilmente il termine di pagamento,
costituisce titolo per iscrivere ipoteca
sugli immobili del debitore e dei
coobbligati per un importo pari al doppio
dell'importo complessivo del credito per cui
si procede.
Nel secondo caso, la riscossione è
effettuata invece tramite l'ingiunzione
fiscale di cui al rd n. 639/1910; al
riguardo, l'amministrazione finanziaria
aveva precisato con circolare n. 4/2008, in
base al quadro normativo dell'epoca, che non
era possibile considerare l'ingiunzione
fiscale un titolo idoneo all'iscrizione di
ipoteca, al pari del ruolo, né applicare ai
«concessionari locali» le esenzioni previste
dagli artt. 47 e 47-bis del dpr n. 602/1973,
essendo necessario interpretare in modo
restrittivo le disposizioni in materia di
garanzie reali e di esenzioni tributarie.
La
situazione è però cambiata con l'articolo
14-bis, comma 1, del dl n. 201/2011, che,
modificando l'art. 7, comma 2, del dl n. 70
del 2011, ha stabilito alla lettera gg) che,
a decorrere dalla data prevista dalla
precedente lettera gg-ter (prorogata più
volte e fissata da ultimo al 30.06.2017), la riscossione coattiva delle entrate
dei comuni tramite ingiunzione fiscale è
effettuata secondo le disposizioni del
titolo II del dpr n. 602/1973, in quanto
compatibili, nel rispetto dei limiti di
importo e delle condizioni stabilite per gli
agenti della riscossione in caso di
iscrizione ipotecaria e di espropriazione
forzata immobiliare.
Alla luce di
quest'ultima disposizione, quindi, l'agenzia
ritiene necessario rivedere le precedenti
conclusioni, sia sotto il profilo
civilistico che fiscale, avendo il
legislatore inteso assimilare, da un punto
di vista sostanziale, il trattamento da
riservare alla riscossione coattiva
effettuata dai comuni a quello previsto per
l'agente nazionale della riscossione.
Di conseguenza, l'Agenzia è dell'avviso che
le agevolazioni fiscali previste dagli
articoli 47 e 47-bis del dpr 602/1973 possano
applicarsi anche nelle ipotesi in cui il
comune provveda a riscuotere coattivamente
le proprie entrate tributarie e
patrimoniali, anziché mediante il
concessionario nazionale, direttamente
oppure tramite affidamento ai concessionari
locali. La risoluzione puntualizza infine
che quanto sopra vale soltanto per i comuni
e non si applica, quindi, per la riscossione
coattiva di altre amministrazioni o enti
locali
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: Privacy
uguale in tutta Europa. Le regole
garantiranno uniformità a livello
comunitario. Le novità normative al centro
del convegno organizzato a Bologna a fine
novembre.
Dal 2018 cambia tutto l'impianto normativo
sulla privacy. La stampa specializzata ci ha
già da tempo segnalato che gli obblighi di
adeguamento al Gdpr (General data protection
regulation) dovranno essere assolti entro il
25/05/2018. Ma che cos'è il Gdpr? Che cosa
dobbiamo fare in tema privacy, in
particolare sui nostri sistemi informativi,
per effetto della rinnovata normativa?
Per fornire il necessario supporto alle
aziende associate, AssoSoftware ha
intrapreso un'attività di studio e analisi
della problematica -con il supporto dei
maggiori esperti italiani e del Garante
delle privacy- creando un gruppo di lavoro
permanente, cui partecipano gli specialisti
del Comitato tecnico delegati dalle società
di software associate.
Ne è un concreto esempio il recente convegno
AssoSoftware, che si è tenuto a Bologna il
28-29.11.2017, dal titolo «le novità
2018 e gli impatti sullo sviluppo dei
software», dai cui atti abbiamo preso spunto
per la realizzazione di questo
approfondimento.
In quella sede, tra gli altri argomenti, si
è affrontato il tema privacy, con
l'intervento dell'avvocato Giovanni Guerra,
uno dei maggiori esperti italiani in
materia, dal titolo «Gdpr: il nuovo
regolamento generale sulla protezione dei
dati personali», nel corso del quale il
relatore ha esaminato gli aspetti più
specifici legati proprio al trattamento dei
dati in ambito informatico.
Dunque non solo fisco e lavoro per le
software house associate ad AssoSoftware,
anche se, come sempre in questi
appuntamenti, nel corso del convegno i
relatori (tutti autorevoli esponenti degli
enti di riferimento: l'Agenzia delle
entrate, l'Inps, la Sogei) hanno trattato
argomenti di estrema attualità, quali la
Cu/2018 e il 770/2018, il 730/2018,
l'Iva/2018 e le novità sulle comunicazioni
Iva, gli studi di settore e i nuovi Isa
2018, le novità contributive Inps 2018 - ma
anche un'attenzione particolare agli aspetti
legati alla tutela della privacy. Di
seguito, in estrema sintesi, le principali
novità contenute nel Gdpr.
La marcia di avvicinamento
alla scadenza del 25/05/2018
Una premessa. La nuova normativa sulla
privacy è contenuta in un regolamento
europeo che è direttamente applicabile in
Italia e non necessita di una norma di
recepimento, come invece avviene quando la
normativa europea è contenuta in una
direttiva.
Il
regolamento europeo n. 2016/679 sulla
protezione dei dati (Gdpr) è di fatto già in
vigore anche in Italia dal 24/06/2016,
tuttavia è prevista come data ultima per
l'adeguamento il 25/05/2018. A partire da
tale data sarà abrogata la direttiva
95/46/Ce e conseguentemente verranno meno
diverse disposizioni dell'attuale codice
della privacy italiano. Le finalità del
nuovo regolamento sono:
- il superamento della situazione di
disomogeneo recepimento della direttiva
attualmente vigente da parte degli stati
membri e garantire un livello uniforme di
protezione delle persone in tutta la Ue;
- l'imposizione delle stesse regole del
gioco per le imprese operanti nella Ue, ma
anche per le imprese extra-Ue che offrono
servizi a cittadini della Ue.
Le conferme
La normativa privacy continua ad applicarsi
solo al trattamento dei dati personali
relativi alle persone fisiche.
Di fatto le persone giuridiche ne sono
escluse, ancorché rimangano tutelate
nell'ambito delle comunicazioni
elettroniche.
Con «dato personale» si intende qualsiasi
informazione riguardante una persona fisica
identificata o identificabile «interessato»)
Confermate dal Gdpr le figure chiave nella
gestione dei dati personali e degli
adempimenti privacy, in particolare il
«titolare», il «responsabile» e per ultimi
gli «incaricati». Rinnovata la definizione
di responsabile, che è quella della persona
fisica o giuridica, servizio o altro
organismo, che tratta dati personali per
conto del titolare del trattamento.
Qualora
un trattamento debba essere effettuato per
conto del titolare del trattamento,
quest'ultimo ricorre unicamente a
responsabili del trattamento che presentino
garanzie sufficienti per mettere in atto
misure tecniche e organizzative adeguate in
modo tale che il trattamento soddisfi i
requisiti del presente regolamento e
garantisca la tutela dei diritti
dell'interessato. Le nuove definizioni
aiutano anche a capire meglio i ruoli di
alcuni attori.
Le software house, ad esempio, ancorché
consentano di utilizzare i loro software in
cloud (SaaS ecc ) -salvo casi particolari-
in linea generale non devono essere nominate
titolari del trattamento (come spesso
avveniva in passato), ma sempre e solo
responsabili dello stesso.
Peraltro anche il commercialista e il
consulente del lavoro, che ad esempio
elaborano dati per le aziende loro clienti,
non sono necessariamente titolari del
trattamento, ma sono sicuramente
responsabili dello stesso in quanto trattano
i dati per conto del titolare (l'azienda
loro cliente) e per le finalità da questi
stabilite.
Le novità
La prima e principale novità è
l'introduzione del cosiddetto «principio di
responsabilizzazione», per effetto del quale
vengono meno molti dei precedenti
adempimenti burocratici. Infatti, i dati
personali devono essere trattati nel
rispetto dei principi di liceità,
correttezza e trasparenza, limitazione della
finalità, minimizzazione dei dati,
esattezza, limitazione della conservazione,
integrità e riservatezza. Il tutto deve
avvenire sotto la propria personale
responsabilità e con meno carta.
La seconda
novità riguarda il principio del «privacy by
design», ossia la protezione dei dati fin
dalla progettazione. Si tratta di mettere in
atto misure tecniche e organizzative
adeguate, quali ad esempio la pseudonimizzazione, volte ad attuare in modo
efficace i sopra citati principi di
protezione dei dati e di integrare nel
trattamento le necessarie garanzie al fine
di soddisfare i requisiti del regolamento e
di tutelare i diritti degli interessati.
La
terza novità riguarda il principio del
«privacy by default», ossia la messa in atto
di misure tecniche e organizzative adeguate
per garantire che siano trattati, per
impostazione «predefinita», solo i dati
personali necessari per ogni specifica
finalità del trattamento. L'adesione a un
meccanismo di certificazione può essere
utilizzato come elemento per dimostrare la
conformità ai requisiti di «privacy by
design» e «privacy by default».
La quarta
novità riguarda il rafforzamento di alcuni
diritti degli interessati. In particolare i
diritti di accesso ai dati, di rettifica e
integrazione dei dati, di cancellazione o
diritto all'oblio, di limitazione di
trattamento dei dati personali conservati,
di portabilità dei dati, di opposizione per
motivi legittimi e al marketing. Per i
produttori di software la problematica più
complessa da gestire riguarda il diritto
alla cancellazione o diritto all'oblio, in
quanto si devono riuscire a contemperare le
esigenze civilistiche, fiscali e in materia
di lavoro del soggetto che tratta il dato,
con quelle del soggetto che ne richiede la
cancellazione. Sul punto sono comunque in
corso ulteriori approfondimenti.
Data Center solo in Europa
I soggetti che erogano servizi in cloud
dovranno garantire che l'ubicazione dei data
center o server non comporti trasferimenti
di dati in un paese terzo al di fuori della
Ue (es.: Usa). Il trasferimento di dati al
di fuori della Ue è ammesso solo:
- verso paesi terzi che garantiscono un
livello di protezione adeguato in base alle
decisioni della Commissione europea (elenco
pubblicato on-line: restano in vigore
passate decisioni della Commissione e
autorizzazioni del Garante finché non
modificate!): vedi il recente accordo con
Usa-Ue su cosiddetto scudo privacy!
- se esistono garanzie adeguate come
clausole contrattuali standard, norme
vincolanti d'impresa (Bcr), adesione a
codici di condotta o certificazioni privacy
(con impegno ad applicare nel proprio paese);
- se, in assenza, ricorrano ulteriori
condizioni, come il consenso
dell'interessato, obblighi contrattuali,
ecc.
Conclusioni
Abbiamo fornito solo qualche spunto.
L'impatto per le software house, in
particolare per quelle che operano sulla
rete non è chiaramente indifferente. Come
AssoSoftware stiamo esaminando, insieme ai
nostri associati, tutte le situazioni che ci
vengono sottoposte con l'obiettivo di dare
una risposta a ognuna delle questioni aperte
(articolo ItaliaOggi del
13.12.2017). |
VARI:
La Pec è argine contro lo spam.
Necessario il consenso del titolare per fare
marketing. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via ai
ritocchi al Codice dell'amministrazione
digitale.
La pubblica amministrazione digitale frena
lo spam.
Gli indirizzi Pec (Posta elettronica
certificata) e i recapiti digitali non
possono essere utilizzati se non per le
comunicazioni aventi valore legale e per le
comunicazioni da parte di enti pubblici. Per
scopi diversi, come quelli del marketing, ci
vuole il consenso dell'interessato.
Per limitare le comunicazioni elettroniche
indesiderate, il decreto legislativo
correttivo del Cad, Codice
dell'amministrazione digitale, approvato
ieri dal Consiglio dei ministri, chiarisce
la portata della disposizione sull'uso dei
domicili digitali, preferendo il generale
divieto espresso di utilizzi diversi.
La norma è contenuta in un ampio
provvedimento di modifica del dlgs 82/2005,
con l'incentivo, oltre al resto, a
digitalizzare i rapporti con i cittadini,
promuovendo il domicilio digitale (si veda
ItaliaOggi del 09.09.2017).
Nella versione finale, il testo ha cura di
specificare che il domicilio digitale non
deve diventare il luogo virtuale in cui
facilmente accatastare (beninteso
virtualmente, ma con fastidio reale)
messaggi di spam.
Ma vediamo di illustrare la questione.
Il Codice dell'amministrazione digitale
prevede elenchi di indirizzi di posta
elettronica certificata delle imprese e dei
professionisti e delle pubbliche
amministrazioni.
Il correttivo cambia il nome: non si parlerà
più di posta elettronica certificata, ma di
domicili digitali e gli elenchi delle Pec
diventano elenchi di domicili digitali.
I domicili digitali comprendono, infatti,
sia l'indirizzo di posta elettronica
certificata sia il servizio elettronico di
recapito certificato qualificato.
Dei domicili digitali ci saranno tre
elenchi: l'elenco dei domicili digitali
delle imprese e dei professionisti e cioè
l'Indice nazionale dei domicili digitali (Ini-Pec,
articolo 6-bis del Cad); l'Indice degli
indirizzi della pubblica amministrazione e
dei gestori di pubblici servizi (articolo
6-ter del Cad); e un terzo elenco, tutto
nuovo, ovvero l'elenco dei domicili digitali
delle persone fisiche e degli altri enti di
diritto privato, chiamato dal decreto
correttivo «Indice degli indirizzi delle
persone fisiche e degli altri enti di
diritto privato» (nuovo articolo 6-quater
del Cad).
Siamo di fronte a liste molto appetibili,
anche per il marketing. Non a caso il
garante della privacy ha chiesto di
modificare il nascituro articolo 6-quinquies
del Cad, che si occupa di consultazione e
accesso. Nel dettaglio della nuova
disposizione, si prevede che la
consultazione online degli elenchi di
professionisti, imprese, p.a. e privati
(articoli 6-bis, 6-ter e 6-quater del Cad) è
consentita a chiunque tramite sito web e
senza necessità di autenticazione. Gli
elenchi sono realizzati in formato aperto.
Inoltre l'estrazione dei domicili digitali
dagli elenchi sarà effettuata secondo
modalità fissate da Agid nelle Linee guida.
Ma, attenzione, si aggiunge che in assenza
di preventiva autorizzazione del titolare
dell'indirizzo, è vietato l'utilizzo dei
domicili digitali per finalità diverse
dall'invio di comunicazioni aventi valore
legale o comunque connesse al conseguimento
di finalità istituzionali dei soggetti di
cui all'articolo 2, comma 2, del Cad (enti
pubblici istituzionali, gestori servizi
pubblici).
In una versione iniziale del decreto
correttivo in esame si leggeva una diversa
formulazione, secondo la quale in assenza di
preventiva autorizzazione del titolare
dell'indirizzo, comunicazioni, diverse da
quelle aventi valore legali e diverse da
quelle provenienti da p.a. e gestori di
pubblici servizi, sarebbero state
comunicazioni indesiderate ai sensi
dell'articolo 130 del Codice della privacy
(decreto legislativo 196/2003).
In proposito il garante della privacy ha
chiesto di eliminare il riferimento
all'articolo 130 del decreto legislativo 30
giugno 2003, n. 196, e di introdurre al suo
posto un espresso divieto.
L'osservazione è stata accolta, per rendere
più evidente, come spiega la relazione di
accompagnamento, l'intento di limitare lo
spam.
Questo generale divieto di utilizzare il
domicilio digitale dovrà però essere
coordinato con le norme del Regolamento Ue
sulla privacy (n. 2016/679), e su questo si
attendono i decreti legislativi da adottarsi
ai sensi della legge 163/2017
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Comuni,
oneri urbanistici utilizzabili anche nel
2018.
Sugli oneri di urbanizzazione il pendolo sta
tornando indietro. Un emendamento alla
manovra che pare blindato dovrebbe estendere
al 2018 la disciplina già applicata nel
biennio 2016-2017, consentendo ai comuni un
utilizzo assai più libero di tali entrate.
Per comprendere la questione, è necessario
premettere che l'espressione «oneri di
urbanizzazione» indica in modo atecnico i
proventi di titoli abilitativi edilizi per i
quali il richiedente è chiamato a
compartecipare ai costi sociali delle opere
che intende realizzare, ad esempio per il
collegamento delle fognature, la
realizzazione di strade e marciapiedi, il
rafforzamento del sistema di illuminazione
pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal
fine, occorre versare all'ente competente
(in genere il comune) un somma correlata
all'incidenza di tali costi per la
collettività di riferimento, cui si aggiunge
un'ulteriore quota ragguagliata al costo di
costruzione e che si collega all'incremento
di capacità contributiva del titolare a
seguito dell'intervento autorizzato.
Data la
natura degli «oneri», è naturale che il loro
utilizzo da parte del comune debba essere
coerente con le finalità cui sono destinati,
almeno per la prima quota (quella appunto
legata ai costi delle opere di
urbanizzazione). Ma finora non sempre è
stato così: spesso le difficoltà a quadrare
i conti hanno costretto i sindaci a
dirottarli su altre tipologie di spese, a
volte comunque di investimenti, più spesso
di natura corrente. Ciò, come detto, sulla
base di una lunga serie di norme ad hoc, a
partire dall'art. 2, comma 8, della l
244/2007, che consentiva di utilizzare tali
entrate per finanziare per una quota non
superiore al 50%, spese correnti
indifferenziate e, per una quota non
superiore ad un ulteriore 25%, spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle
strade e del patrimonio comunale.
Negli anni
2016 e 2017, invece, la materia è stata
regolata dal comma 737 della l 208/2015, che
ha permesso di spendere gli «oneri» anche
interamente per spese di manutenzione
ordinaria del verde, delle strade e del
patrimonio comunale, nonché per spese di
progettazione delle opere pubbliche. Dal
2018, invece, dovrebbe entrare in vigore il
comma 460 della l. 232/2016, che circoscrive
le spese finanziabili alla realizzazione e
manutenzione ordinaria e straordinaria delle
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria e altre fattispecie meno
frequenti (fra cui nuovamente la
progettazione).
Ma come detto un correttivo
alla legge di bilancio punta a rimandare di
un altro anno l'entrata in vigore di tale
normativa vincolistica, lasciando anche per
il 2018 le cose come stanno. Il che
consentirebbe ai sindaci di utilizzare gli
oneri per finanziare un ventaglio più ampio
di spese (dagli arredi alla manutenzione dei
software) che altrimenti sarebbero spesso
assai difficile da coprire
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2017). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Il
direttore lavori vigile imparziale. Anche per
le opere in subappalto. La Conferenza
unificata ha dato via libera al dm che
riforma questa figura.
Il direttore dei lavori dovrà rispettare
l'articolo 42 del Codice degli appalti in
materia di conflitto di interessi. Non potrà
avere interessi economici nello svolgimento
dei lavori perché dovrà vigilare e dirigerli
in modo imparziale. E le sue verifiche si
estenderanno anche al subappalto.
Controllando che in cantiere vi siano solo
imprese autorizzate che svolgano
effettivamente le lavorazioni dichiarate nei
contratti.
È col decreto del ministero dei trasporti e
delle infrastrutture, che ha ricevuto via
libera dalla Conferenza unificata lo scorso
6 dicembre, che sono state dettate le nuove
linee di indirizzo per il direttore dei
lavori e il direttore dell'esecuzione nei
contratti relativi a servizi e forniture in
materia di appalti.
Il direttore dei lavori
riceverà dal Responsabile unico procedimento
(Rup) le istruzioni per garantire la
regolarità dei lavori, l'ordine da seguire
nella loro esecuzione e la periodicità con
cui presentare un rapporto sulle attività di
cantiere. Il direttore dei lavori non potrà
accettare altri incarichi dall'esecutore
fino all'approvazione del certificato di
collaudo o del certificato di regolare
esecuzione. Una volta conosciuta l'identità
dell'aggiudicatario, il direttore dei lavori
dovrà segnalare alla stazione appaltante
l'esistenza di eventuali rapporti
intercorrenti, in modo che sia la stazione
appaltante a decidere se i rapporti possano
incidere sull'incarico da svolgere.
Previa
autorizzazione del Rup, il direttore dei
lavori provvederà alla consegna dei lavori:
- per le amministrazioni statali, non oltre 45 giorni dalla data di
registrazione alla Corte dei conti del
decreto di approvazione del contratto, e non
oltre 45 giorni dalla data di approvazione
del contratto quando la registrazione della
corte dei conti non è richiesta per legge;
- per le altre stazioni appaltanti il termine di 45 giorni
decorrerà dalla data di stipula del
contratto.
Il direttore dei lavori dovrà comunicare
all'esecutore, con un congruo preavviso, il
giorno e il luogo in cui questi deve
presentarsi, munito del personale idoneo,
nonché delle attrezzature e dei materiali
necessari per eseguire, ove occorra, il
tracciamento dei lavori secondo i piani,
profili e disegni di progetto.
All'esito delle operazioni di consegna dei
lavori, il direttore dei lavori e
l'esecutore sottoscriveranno il relativo
verbale e, da tale data, decorre utilmente
il termine per il compimento dei lavori
(articolo ItaliaOggi del
12.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Sisma
bonus, ripartizione doc. Detrazione anche
per spese a completamento dell'opera. Nella
risoluzione n. 147/2017 le direttive
dell'Agenzia sull'applicazione
dell'incentivo.
Chi intende avvalersi della detrazione del
70% in caso di diminuzione di una classe di
rischio sismico (elevabile all'80% se le
classi di rischio sono due), dovrà ripartire
la detrazione in cinque rate (e non in dieci
rate). Inoltre, la detrazione prevista per
gli interventi antisismici può essere
applicata anche alle spese di manutenzione
ordinaria e straordinaria necessarie al
completamento dell'opera.
In caso di effettuazione sul medesimo
edificio di interventi antisismici, di
manutenzione straordinaria e di
riqualificazione energetica il limite di
spesa agevolabile è unico (in quanto
riferito a un determinato immobile) e pari a
96.000 euro annuali. Entro tale plafond non
sono invece compresi gli interventi di
riqualificazione energetica (ecobonus),
relativi alla riqualificazione globale
dell'edificio, agli interventi su strutture
opache e infissi e alla sostituzione di
impianti termici, per i quali il limite
della detrazione del 65% è specificatamente
previsto dalle norme di riferimento.
Sono queste i chiarimenti forniti
dall'Agenzia delle entrate con la
risoluzione 29.11.2017
n. 147/E, in risposta all'interpello
presentato da un istante che aveva posto
quesiti in ordine alla detrazione per lavori
antisismici, ai sensi dell'art. 16 del dl n.
63/2013 e dell'art. 16-bis del Tuir.
Il quesito.
Il caso di cui all'interpello riguarda
interventi di ristrutturazione di un
immobile ubicato in zona sismica ad alta
pericolosità (zona 2). L'interpellante
vorrebbe innanzitutto ottenere ai sensi
dell'art. 16, comma 1-quater, del dl n.
63/2013, una riduzione del rischio sismico
che determini il passaggio a una classe di
rischio inferiore.
La realizzazione
dell'intervento, comporterebbe la spettanza
di una detrazione dall'Irpef pari al 70%
delle spese sostenute, fino ad un ammontare
complessivo delle stesse non superiore a
96.000 euro, da ripartire in cinque quote
annuali di pari importo. La spesa
complessiva ipotizzata dall'istante è di
250.000 euro, da sostenersi nel corso del
2017, così suddivisa:
- 120.000 euro per interventi di cui alla
lett. i) dell'art. 16-bis del Tuir,
consistenti in opere di risanamento
strutturale di mura, coperture e pavimenti,
ivi compresi, quindi, interventi di
manutenzione sia ordinaria che straordinaria
quali, per esempio, intonacatura,
imbiancatura e posa pavimenti;
- 40.000 euro per interventi di cui alla
lett. b) dell'art. 16-bis del Tuir,
consistenti, ad esempio, nel rifacimento
dell'impianto idraulico ed elettrico e nella
sostituzione di sanitari e infissi interni;
- 90.000 euro per interventi di cui alla
legge n. 296/2006, art. 1, comma 344,
consistenti, per esempio, nel rifacimento di
infissi esterni e dell'impianto di
riscaldamento.
L'istante ha chiesto pertanto di sapere se,
la detrazione maggiorata del 70% o dell'80%
(sisma bonus) possa essere fruita in dieci
quote annuali e non in cinque.
Inoltre, l'istante ha chiesto se valga anche
per gli interventi di riduzione del rischio
sismico quanto chiarito, più in generale,
per gli interventi di recupero del
patrimonio edilizio con riferimento alle
spese per interventi di manutenzione
ordinaria realizzati nell'ambito di
interventi più vasti, ossia che qualora la
manutenzione ordinaria (per esempio,
intonacatura e tinteggiatura, rifacimento di
pavimenti ecc.) sia necessaria per il
completamento dell'opera nel suo complesso,
occorre tener conto del carattere assorbente
dell'intervento di natura «superiore»
rispetto a quello di natura «inferiore»
(circolare n. 57/E del 1998).
Infine, l'istante ha chiesto di sapere se il
limite massimo di spesa previsto per gli
interventi di ristrutturazione (per il 2017
pari a 96.000 euro) sia riferibile anche
agli interventi sostenuti sulla medesima
unità immobiliare per misure antisismiche.
Il parere dell'Agenzia.
Nella risoluzione 147/2017, l'Agenzia ha
fatto innanzitutto riferimento all'art.
16-bis, comma 1, lett. i), Tuir, il quale
dispone che sono ammessi alla detrazione gli
interventi «relativi all'adozione di misure
antisismiche con particolare riguardo
all'esecuzione di opere per la messa in
sicurezza statica, in particolare sulle
parti strutturali, per la redazione della
documentazione obbligatoria atta a
comprovare la sicurezza statica del
patrimonio edilizio, nonché per la
realizzazione degli interventi necessari al
rilascio della suddetta documentazione.
Gli interventi relativi all'adozione di
misure antisismiche e all'esecuzione di
opere per la messa in sicurezza statica
devono essere realizzati sulle parti
strutturali degli edifici o complessi di
edifici collegati strutturalmente e
comprendere interi edifici e, ove riguardino
i centri storici, devono essere eseguiti
sulla base di progetti unitari e non su
singole unità immobiliari».
Per tali interventi effettuati su edifici
adibiti ad abitazione e ad attività
produttive, ubicati nelle zone sismiche ad
alta pericolosità (ordinanza presidente del
consiglio dei ministri n. 3274/2003), l'art.
16, comma 1-bis, del dl n. 63/2013 riconosce
una detrazione di imposta nella misura del
50%, fino a un ammontare complessivo delle
spese sostenute non superiore a 96.000 euro
per unità immobiliare per ciascun anno, da
ripartirsi in cinque quote annuali di pari
importo nell'anno di sostenimento ed in
quelli successivi.
Sisma bonus.
I commi 1-quater e 1-quinquies del medesimo
art. 16, prevedono che qualora dagli
interventi derivi una diminuzione del
rischio sismico, calcolata in base al
decreto del Mintrasporti 28.02.2017,
n. 58 come modificato da successivo dm 07.03.2017, n. 65, la detrazione
sopraindicata spetta nella misura del 70% in
caso di diminuzione di una classe di rischio
e nella misura dell'80% in caso di
diminuzione di due classi di rischio.
L'interpellante ha chiesto se la detrazione
del 70% di cui al citato art. 16 del dl n.
63/2013 possa essere fruita, a discrezione
del contribuente, anziché in cinque rate, in
10 rate come stabilito dall'art. 16-bis del
Tuir.
Al riguardo l'Agenzia fa presente che la
norma non prevede la possibilità di
scegliere il numero di rate in cui fruire
del beneficio e, pertanto, il contribuente
se intende avvalersi della maggiore
detrazione del 70% (o dell'80%) dovrà
necessariamente ripartire la detrazione in
cinque rate.
Resta ferma la possibilità di avvalersi
dell'agevolazione ai sensi dell'art. 16-bis,
lett. i), del Tuir, fruendo della detrazione
del 50% della spesa da ripartire in dieci
rate di pari importo.
L'Agenzia inoltre ritiene, concordando con
l'istante, che anche per gli interventi
relativi all'adozione di misure antisismiche
possa valere il principio secondo cui
l'intervento di categoria superiore assorbe
quelli di categoria inferiore a esso
collegati o correlati.
La detrazione prevista per gli interventi
antisismici può quindi essere applicata, per
esempio, anche alle spese di manutenzione
ordinaria e straordinaria necessarie al
completamento dell'opera (circ. n. 7 del
2017).
Limite di spesa.
Per quel che attiene al quesito riguardante
il limite di spesa agevolabile in caso di
effettuazione sul medesimo edificio di
interventi antisismici, di interventi di
manutenzione straordinaria e di interventi
di riqualificazione energetica, si precisa
che per gli interventi di cui all'art.
16-bis del Tuir il limite di spesa
agevolabile, attualmente stabilito in 96.000
euro annuali, è unico in quanto riferito al
determinato immobile.
Ciò in quanto interventi di consolidamento
antisismico per i quali è possibile fruire
della detrazione in cinque anni ed,
eventualmente, nella maggior misura del 70%
o dell'80%, ai sensi dell'art. 16 del dl n.
63/2013, non possono fruire di un autonomo
limite di spesa in quanto tale norma non
individua una nuova categoria di interventi
agevolabili, ma rinvia alla lett. i) del
citato art. 16-bis del Tuir.
Nel caso in cui gli interventi realizzati in
ciascun anno consistano nella mera
prosecuzione di lavori iniziati negli anni
precedenti, sulla stessa unità immobiliare,
ai fini della determinazione del limite
massimo delle spese ammesse in detrazione,
occorre tenere conto anche delle spese
sostenute negli anni pregressi.
La spesa per la quale si è già fruito della
relativa detrazione nell'anno di
sostenimento non deve quindi superare il
limite complessivo. Questo vincolo non si
applica se in anni successivi sono
effettuati interventi autonomamente
certificati dalla documentazione richiesta
dalla normativa edilizia vigente, ossia non
di mera prosecuzione di quelli iniziati in
anni precedenti.
Ecobonus.
Nel suddetto limite di spesa di 96.000 euro
non sono compresi, invece, gli interventi di
riqualificazione energetica (eco bonus) di
cui all'art. 1 della legge 296/2006:
riqualificazione globale dell'edificio o, in
alternativa, interventi su strutture opache
e infissi e sostituzione impianti termici,
per i quali l'istante potrà beneficiare
della detrazione del 65% nei limiti
specificatamente previsti dalle norme di
riferimento
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'11.12.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Trasparenza
a macchia d'olio. Dal 2018 obbligate
associazioni, onlus e fondazioni. La legge
sulla concorrenza (124/2017) impone la
pubblicazione di sovvenzioni e incarichi.
La trasparenza amministrativa travalica i
confini della p.a. Dopo la mole di
adempimenti posti a carico di soggetti
pubblici dal dlgs 33/2013 (testo unico sulla
trasparenza) a partire dal 2018, obblighi di
pubblicazione graveranno anche su
associazioni di protezione ambientale,
associazioni dei consumatori e degli utenti,
nonché su associazioni, onlus e fondazioni
che intrattengono rapporti economici con
pubbliche amministrazioni (o enti
assimilati) o società da esse controllate o
partecipate, comprese le società con titoli
quotati.
La legge sulla concorrenza (legge 124/2017,
art. 1, commi 125-129) impone a tali
associazioni, onlus e fondazioni di
pubblicare entro il 28 febbraio di ogni
anno, sui propri siti o portali, le
informazioni relative a sovvenzioni,
contributi, incarichi retribuiti e comunque
a vantaggi economici per somme superiori a
10 mila euro, ricevuti nell'anno precedente
da dette amministrazioni o società a
partecipazione pubblica; se i beneficiari
hanno forma di impresa, la pubblicazione va
fatta nella nota integrativa del bilancio di
esercizio e nella nota integrativa
dell'eventuale bilancio consolidato.
Gli
obblighi di pubblicazione gravanti sui
soggetti beneficiari di sovvenzioni,
contributi ecc. sono correlati ai
corrispondenti obblighi pubblicazione a
carico dei soggetti eroganti. Se questi
ultimi sono società o enti controllati da
pubbliche amministrazioni, l'obbligo di
pubblicazione degli atti di erogazione è
sancito nella stessa legge sulla
concorrenza, ma con un rimando al testo
unico sulla trasparenza (art. 26); se invece
l'erogante è un'amministrazione dello stato,
l'obbligo è previsto direttamente dal Testo
unico, a partire da importi superiori a
mille euro. I nuovi adempimenti si
intersecano, quindi, con quelli di cui al
Testo unico sulla trasparenza: ma la norma
che li dispone non modifica il Testo unico,
bensì resta a sé stante. La ricognizione del
complessivo quadro normativo non potrà non
risentirne.
Gli obblighi di disclosure imposti ai
soggetti indicati dalle nuove norme sono
presidiati da un sistema di controlli che
pare poco convincente. Innanzitutto,
l'inosservanza degli obblighi di
pubblicazione da parte dei beneficiari
comporta la restituzione di quanto hanno
ricevuto. Ma chi verificherà che essi
assolvano ogni adempimento?
Sono gli
eroganti (anche se la legge sulla
concorrenza non lo dice in modo espresso),
ai quali le somme andranno restituite, ma
solo se essi sono a propria volta adempienti
agli obblighi di pubblicazione loro
prescritti. Appare poco verosimile che le
amministrazioni possano effettivamente
controllare le pubblicazioni dei beneficiari
delle loro elargizioni, pur restando esposte
alle responsabilità conseguenti.
Obblighi di
pubblicazione sono posti a carico anche
delle pubbliche amministrazioni, società o
enti pubblici eroganti, come visto: in
questo caso, la violazione potrà essere
rilevata d'ufficio dagli organi di controllo
dell'erogante o dallo stesso destinatario
della concessione (oltre che da chiunque
altro vi abbia interesse). Dato che la
pubblicazione degli atti di concessione è
una «condizione legale di efficacia» delle
concessioni stesse, la denuncia della
mancata pubblicazione rischia di renderle
inefficaci: è poco credibile che chi ne è
destinatario si sottoponga a tale rischio
denunciando l'inadempimento
dell'amministrazione.
Per completezza, è
utile aggiungere che il Foia italiano (Freedom
of information act, decreto legislativo
97/2016) ha fatto venir meno la
responsabilità degli organi dirigenziali
delle pubbliche amministrazioni per
l'omissione o l'incompletezza della
pubblicazione delle erogazioni economiche
più volte menzionate. Un'ultima notazione:
il Testo unico sulla trasparenza non si
applica alle società a controllo pubblico
con titoli quotati. Ma la norma della legge
sulla concorrenza le include espressamente
tra i destinatari degli obblighi di
pubblicazione
(articolo ItaliaOggi Sette dell'11.12.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Compensi
dei legali più certi. Parcelle maggiori per
chi assiste una pluralità di soggetti.
Orlando ha firmato ieri il decreto sui
parametri. Crescono i riferimenti per il
giudice.
Aumentare i compensi per l'avvocato che
assiste più soggetti, dare un riferimento al
giudice per stabilire la liquidazione del
compenso del legale, eliminare i dubbi
interpretativi e colmare vuoti della
regolazione. Queste le principali modifiche
apportate ai parametri per la liquidazione
del compenso degli avvocati contenuti nel
decreto ministeriale che ieri il ministro
della giustizia Orlando ha firmato e
trasmesso al Consiglio di stato.
Ad annunciarlo lo stesso dicastero di via
Arenula con una nota pubblicata sul proprio
sito web.
Come si può leggere nella nota
emessa dal ministero «l'intervento normativo
ha recepito alcune delle proposte avanzate
dal Consiglio nazionale forense apportando
modifiche per: evitare che il giudice
provveda alla liquidazione del compenso
dell'avvocato senza avere come riferimento
alcuna soglia numerica minima, con il
rischio di rendere inadeguata la
remunerazione della prestazione
professionale; aumentare i compensi dovuti
all'avvocato che assiste più soggetti aventi
la stessa posizione processuale, sia
mediante l'incremento del compenso spettante
per i soggetti assistiti oltre il primo, sia
mediante l'aumento della soglia massima di
soggetti assistiti; consentire, nel processo
amministrativo, una maggiorazione del
compenso relativo alla fase introduttiva del
giudizio quando l'avvocato propone motivi
aggiunti».
Oltre agli interventi
integrativi, il decreto è intervenuto, come
detto, per «eliminare dubbi interpretativi e
colmare vuoti di regolazione».
Nello specifico le precisazioni fanno
riferimento ad alcune situazioni
particolari, come nel caso di compensi
tabellari da adottare per gli avvocati che
svolgono funzioni in sede di arbitrato
oppure nel caso in cui sia stata integrata
la disciplina parametrale per la previsione
di un compenso per le funzioni e l'attività
svolta dall'avvocato nei casi di
procedimenti di mediazione e in quelli di
negoziazione assistita. Il decreto va a
modificare i l vecchio dm 55 pubblicato in
Gazzetta Ufficiale il 02.04.2014
(regolamento recante la determinazione dei
parametri per la liquidazione dei compensi
per la professione forense).
L'argomento risulta di stretta attualità
vista la recente approvazione della norma
che garantisce un equo compenso a tutti i
professionisti, compresi gli avvocati. La
disposizione, contenuta nel dl fiscale (dl
16/10/2017 n. 148), stabilisce che il
compenso è considerato equo quando
commisurato alla quantità e alla qualità del
lavoro svolto, nonché «al contenuto e alle
caratteristiche della prestazione legale,
tenuto conto dei parametri previsti dal
regolamento di cui al decreto del Ministro
della giustizia».
La legge professionale
forense (247/2012) prevede che
l'aggiornamento dei parametri per la
liquidazione dei compensi debba essere
effettuato ogni due anni su proposta del
Consiglio nazionale forense
(articolo ItaliaOggi del
08.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL COLLEGATO FISCALE/ Oneri
urbanistici, luci e ombre. Sì all'uso in
opere pubbliche. Ma servizi locali a
rischio. Gli effetti combinati del decreto
fiscale e dei paletti introdotti dalla legge
di Bilancio 2017.
La stretta sull'utilizzo degli oneri di
urbanizzazione, introdotta dalla legge di
Bilancio 2017 (la legge 232/2016) complica
la vita di tutti coloro, professionisti e
imprese, che lavorano per le p.a. locali. Ma
il recente decreto fiscale riapre invece la
possibilità di destinarlo anche alla
progettazione di opere pubbliche.
Le entrate derivanti dagli oneri, infatti,
non potranno più essere utilizzate per
pagare servizi e forniture diverse da quelle
relative alle opere urbanistiche, oltre ad
altre spese meno frequenti. Di conseguenza,
le condizioni introdotte dalla l. 232/2016
mettono dei paletti alla quadratura dei
bilanci dei comuni, mettendo anche a rischio
spese essenziali per l'erogazione dei
servizi locali.
L'allarme è suonato spesso negli ultimi
anni, ma alla fine il legislatore è sempre
venuto in soccorso dei sindaci con «leggine»
di proroga che hanno rinviato nel tempo il
problema. Dal 1° gennaio 2018, invece,
entrerà in vigore una nuova disciplina
organica, di cui è necessario tenere conto
già adesso nella costruzione dei prossimi
preventivi.
Per comprendere la questione, è necessario
premettere che l'espressione «oneri di
urbanizzazione» indica in modo atecnico i
proventi di titoli abilitativi edilizi per i
quali il richiedente è chiamato a
compartecipare ai costi sociali delle opere
che intende realizzare, per esempio per il
collegamento delle fognature, la
realizzazione di strade e marciapiedi, il
rafforzamento del sistema di illuminazione
pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal fine, occorre versare all'ente
competente (in genere il comune) una somma
correlata all'incidenza di tali costi per la
collettività di riferimento, cui si aggiunge
un'ulteriore quota ragguagliata al costo di
costruzione e che si collega all'incremento
di capacità contributiva del titolare a
seguito dell'intervento autorizzato.
Non tutti i titoli abilitativi sono onerosi,
ma solo quelli da cui deriva un aggravio del
carico urbanistico sul territorio, mentre
sono gratuiti gli interventi minori, quali
le opere di manutenzione ordinaria,
straordinaria e di risanamento conservativo.
Data la natura degli «oneri», è naturale che
il loro utilizzo da parte del comune debba
essere coerente con le finalità cui sono
destinati, almeno per la prima quota (quella
appunto legata ai costi delle opere di
urbanizzazione). Ma finora non sempre è
stato così: spesso le difficoltà a quadrare
i conti hanno costretto i sindaci a
dirottarli su altre tipologie di spese, a
volte comunque di investimenti, più spesso
di natura corrente.
Ciò, come detto, sulla base di una lunga
serie di norme ad hoc, a partire dall'art.
2, comma 8, della legge 244/2007, che
consentiva di utilizzare tali entrate per
finanziare per una quota non superiore al
50%, spese correnti indifferenziate e, per
una quota non superiore a un ulteriore 25%,
spese di manutenzione ordinaria del verde,
delle strade e del patrimonio comunale.
Negli anni 2016 e 2017, invece, la materia è
stata regolata dal comma 737 della legge
208/2015, che ha permesso di spendere gli
«oneri» anche interamente per spese di
manutenzione ordinaria del verde, delle
strade e del patrimonio comunale, nonché per
spese di progettazione delle opere
pubbliche.
Dal 2018, infine, entrerà in vigore il comma
460 della legge 232/2016, che circoscrive le
spese finanziabili alle seguenti:
realizzazione e manutenzione ordinaria e
straordinaria delle opere di urbanizzazione
primaria e secondaria, risanamento di
complessi edilizi compresi nei centri
storici e nelle periferie degradate,
interventi di riuso e di rigenerazione,
interventi di demolizione di costruzioni
abusive, acquisizione e realizzazione di
aree verdi destinate a uso pubblico,
interventi di tutela e riqualificazione
dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini
della prevenzione e della mitigazione del
rischio idrogeologico e sismico e della
tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, interventi volti a favorire
l'insediamento di attività di agricoltura
nell'ambito urbano. La fattispecie più
rilevante e frequente è la prima, che
riporta gli oneri alla loro funzione
naturale di strumento di finanziamento delle
opere di urbanizzazione e delle relative
attività di manutenzione (anche ordinaria):
a essa si aggiungono altre casistiche, meno
ricorrenti.
Viceversa, escono dall'orbita delle spese
finanziabili tutte le voci non riconducibili
a tale lista, come per esempio gli acquisti
e le manutenzioni di automezzi, mobili,
arredi, strumenti informatici, per le quali
occorrerà trovare altre coperture non sempre
a portata di mano, vista anche la conferma
del blocco dei tributi locali.
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Senza progetto
l'amministrazione locale rischia di avere
solo briciole.
Una destinazione alternativa per gli oneri è
rappresentata dalle spese di progettazione
di opere pubbliche. Lo prevede nuovamente, a
decorrere dal 2018, una norma contenuta nel
maxi-emendamento al decreto fiscale (dl
148/2017) già approvata dal senato, che
quindi reintroduce almeno in parte la
disciplina dell'ultimo biennio.
Nel frattempo, però, la normativa in materia
di lavori è cambiata, sotto due profili che
rendono la novità particolarmente rilevante.
Da un lato, il nuovo codice dei contratti
pubblici (dlgs 50/2016) ha profondamente
modificato la fase iniziale dell'iter
progettuale, che ora si sostanzia non più
nel progetto preliminare, ma nel progetto di
fattibilità tecnica ed economica.
Quest'ultimo deve individuare la soluzione
progettuale con il miglior rapporto
costi/benefici per la collettività e
rispetto al «vecchio» preliminare generico
si appesantisce di adempimenti e documenti.
I relativi costi, tuttavia, non possono
trovare spazio all'interno del quadro
economico, per cui la possibilità di
coprirli (in tutto o in parte) con gli oneri
rappresenta un importante elemento di
flessibilità.
Il secondo fattore da considerare è il ruolo
sempre più cruciale che la progettazione ha
assunto al fine di consentire agli enti di
accedere ai bonus che consentono loro di
finanziare i propri investimenti derogando
alle ristrettezze del pareggio di bilancio.
I diversi meccanismi di alleggerimento dei
vincoli di finanza pubblica prevedono la
possibilità per lo stato e le regioni di
distribuire agli enti locali delle sorte di
«permessi di sforamento» che consentono di
finanziare spese di investimenti mediante
applicazione di avanzo di amministrazione o
ricorso al debito.
Accedere al riparto, però, non è semplice:
da qualche anno a questa parte, la normativa
ha reso più stringenti i requisiti
necessari, individuando delle fattispecie
prioritarie che danno diritto a chi vi
rientra di usufruire di una corsia
preferenziale.
Oltre a privilegiare gli investimenti su
alcune materie sensibili (edilizia
scolastica, bonifiche e da ultimo
impiantistica sportiva), il legislatore
attribuisce sempre maggiore rilevanza al
possesso, da parte dell'amministrazione
locale richiedente, di un progetto, di norma
esecutivo (con annesso crono-programma), più
raramente solo definitivo. Per verificarlo,
è sufficiente scorrere gli elenchi delle
priorità previste nell'ambito del Patto
verticale nazionale, su cui il ddl di
Bilancio 2018 interviene (oltre che
aumentando la dote da 700 a 900 milioni),
proprio enfatizzando ulteriormente il ruolo
centrale della progettualità.
Senza progetto, in altri termini, si rischia
di restare a bocca asciutta o di doversi
accontentare delle briciole. Da qui,
l'opportunità di investire eventuali risorse
libere in tale direzione, in modo da
costruirsi una sorta di «parco progetti»
spendibile sui vari «mercati» (nazionale, ma
anche regionali) di spazi finanziari.
Fanno eccezione i piccoli comuni (fino a 5
mila abitanti), per i quali sono previste
delle priorità anche senza progetti o in
presenza di una progettazione solo
preliminare. Tale agevolazione, tuttavia,
presenta anche qualche possibile rischio:
gli enti che ottengono spazi e non li
utilizzano integralmente vanno incontro a
una sanzione molto pesante, ossia
l'esclusione dai riparti per l'anno
successivo. Ciò potrebbe portare tali
amministrazioni nella scomoda situazione di
non poter più disporre di bonus proprio
quando dal progetto si passa alla sua
attuazione (con i conseguenti impatti
contabili). Ed è evidente che tali
eventualità è più probabile quando si
aderisce al meccanismo senza le idee chiare
sulle opere da mettere in cantiere e sui
relativi tempi di realizzazione. In una
parola, senza un progetto
(articolo ItaliaOggi
Sette del
04.12.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Ecoreati,
più facile denunciare. Tutela rafforzata per
i dipendenti che segnalano illeciti. Gli
effetti della legge sul whistleblowing
approvata in via definitiva il 15 novembre.
Tutela rafforzata per i
dipendenti pubblici che denunciano gli
illeciti anche di interesse ambientale di
cui sono a conoscenza per lavoro,
allargamento dello scudo ai fornitori
privati della p.a. e introduzione di analogo
(seppur depotenziato) istituto nelle imprese
che utilizzano il modello «231».
La riscrittura delle norme sul cosiddetto «whistleblowing»,
che promette grazie all'ampliato e duplice
fronte pubblico/privato di aprire una
rinnovata lotta anche agli ecoreati, arriva
con la legge approvata in via definitiva dal
parlamento il 15 novembre 2017 recante
«Disposizioni per la tutela degli autori di
segnalazioni di reati o irregolarità di cui
siano venuti a conoscenza nell'ambito di un
rapporto di lavoro pubblico o privato».
Whistleblowing nella p.a.
Le novità sono introdotte attraverso la
riformulazione dell'articolo 54-bis della
legge 165/2001, il Testo unico del pubblico
impiego. In primo luogo viene allargata la
platea dei lavoratori pubblici protetti, ora
comprendente i dipendenti degli enti di
diritto privato sottoposti al controllo
pubblico ex articolo 2359 del codice civile
così come i lavoratori e i collaboratori
delle imprese fornitrici di beni o servizi e
che realizzano opere in favore
dell'amministrazione pubblica.
In secondo luogo viene rimodulato il novero
dei soggetti destinatari delle segnalazioni,
e questo: prevedendo (oltre all'Autorità
nazionale anticorruzione e quella
giudiziaria) anche il «responsabile della
prevenzione della corruzione e della
trasparenza» ex lege 190/2012 (recante il
codice del processo amministrativo); non
contemplando più tra i canali di
destinazione il «superiore gerarchico».
In terzo luogo viene estesa la tutela
dell'identità del denunciante, assicurata in
tutti i procedimenti seguenti alla
segnalazione, con la specificazione delle
ipotesi eccezionali in cui potrà essere
rivelata.
In quarto luogo, nel confermare la nullità
delle condotte ritorsive a carico dei
segnalanti (licenziamento, demansionamento,
trasferimento e ogni altra condotta con
effetti negativi diretti o indiretti
determinata dalla denuncia) vengono
introdotte puntuali sanzioni irrogabili
direttamente dall'Anac.
Le pene colpiranno sia le p.a. che hanno
adottato le azioni ritorsive (con sanzione
amministrativa pecuniaria fino a 30 mila
euro) sia i suddetti responsabili della
prevenzione che non hanno analizzato le
denunce pervenute (fino a 50 mila euro). Il
potenziamento dell'istituto nella p.a. potrà
rafforzare anche il contrasto degli illeciti
«indirettamente» danneggianti l'ecosistema,
quali il reato di corruzione (art. 318 c.p.)
e quello di «indebita induzione a dare o
promettere denaro o altra utilità»
(319-quater c.p.), cui appaiono essere
«sensibili» sia gli appalti verdi che i
procedimenti di rilascio delle
autorizzazioni ambientali.
Il whistleblowing nel
settore privato.
Le regole sul whistleblowing esordiscono tra
le condizioni che le organizzazioni devono
rispettare per poter arginare la propria
responsabilità amministrativa «231» in caso
di condotte illecite di propri lavoratori.
In base al dlgs 231/2001, enti e imprese
rispondono direttamente, con sanzioni
amministrative (pecuniarie e interdittive)
per determinati reati commessi
nell'interesse o a vantaggio
dell'organizzazione da amministratori,
dirigenti e dipendenti. Le stesse entità non
rispondono di tali illeciti indicati dal
decreto (i «reati presupposto») solo se
dimostrano: di aver adottato e attuato prima
della loro commissione un «modello di
organizzazione e gestione» idoneo a
prevenirli; di aver svolto effettiva
vigilanza sulla sua osservanza; la
fraudolenta elusione del modello da parte
degli autori dell'illecito.
E tra i requisiti d'idoneità di tale modello
la nuova legge inserisce ora: la previsione
di uno o più canali che consentano ai
lavoratori di presentare segnalazioni di
illeciti garantendo la riservatezza della
loro identità; almeno un canale alternativo
con modalità informatiche; il divieto di
atti ritorsione (denunciabili ad Ispettorato
del lavoro e sindacati, e la cui adozione è
comunque nulla); la previsione di sanzioni
sia per chi adotta atti di ritorsione che
per chi effettua con dolo o colpa grave
segnalazioni infondate (e non per chi omette
di verificare o analizzare le segnalazioni
ricevute, come nella p.a.).
Il nuovo provvedimento detta anche le
caratteristiche che le segnalazioni dovranno
avere, ossia: l'essere circonstanziate e
fondate su elementi di fatto precisi e
concordanti; il vertere su condotte illecite
rilevanti ex dlgs 231/2001 o su violazioni
del «modello» di cui il denunciante è a
conoscenza in ragione delle funzioni svolte.
Larga la copertura dell'istituto, se si
considera che il campo di applicazione del
dlgs 231/2001 abbraccia sia gli enti forniti
di personalità giuridica che quelli privi,
con la sola esclusione di stato, enti
pubblici territoriali, enti pubblici non
economici, enti che svolgono funzioni di
rilievo costituzionale (coperti comunque
dalle disposizioni ex articolo 54-bis della
legge 165/2001).
Tra i reati ambientali previsti dal dlgs
231/01 (e la cui commissione potrà essere
utilmente segnalata tramite il nuovo
strumento) vi sono: inquinamento e disastro
ambientale; traffico o abbandono di
materiale ad alta radioattività; gli
illeciti su gestione rifiuti, inquinamento
acque ed aria, omessa bonifica; gestione di
sostanze lesive dell'ozono stratosferico;
danni ad animali e vegetali; inquinamento da
navi punito ex dlgs 202/2007. E questo oltre
ai reati «connessi» alla gestione di risorse
ambientali, anch'essi richiamati dal dlgs
231/2001, e ai quali può qui altresì
aggiungersi la «corruzione tra privati»
(art. 2635 c.c.).
Fornitori della p.a.
Lo scudo del rinnovato istituto estende i
propri confini grazie all'ampia e citata
nozione del «dipendente pubblico» tutelato
contro atti discriminatori e rivelazione
illegittima di identità. Riconoscendo tale
status ai «lavoratori e ai collaboratori
delle imprese fornitrici di beni o servizi e
che realizzano opere in favore
dell'amministrazione pubblica» la nuova
legge incoraggia la segnalazione di illeciti
da parte di tutte le aziende che
interagiscono con la p.a. in forza di gare a
evidenza pubblica (che, ai sensi del nuovo
dlgs 50/2016, «Codice appalti», devono
avvenire anche nel rispetto di precisi
criteri ambientali).
La scriminante ad hoc.
La neo legge introduce infine una specifica
causa di giustificazione per tutte le
segnalazioni e denunce.
Tali «informative», nel rispetto di
determinate condizioni, costituiranno giusta
causa della rivelazione delle notizie
eventualmente coperte da obblighi di segreto
ex articoli 326, 622 e 623 c.p., 2105 c.c.
Per godere della scriminate, le denunce
dovranno:
- essere effettuate nelle forme e nei limiti
ex lege 165/01 e dlgs 231/01;
- finalizzate a perseguire interesse e
integrità delle amministrazioni o lotta a
malversazioni;
- provenire da soggetti diversi dai
consulenti degli enti o delle persone
fisiche coinvolte; non comportare la
comunicazione di notizie o documenti in
modalità eccedenti la finalità di eliminare
l'illecito; effettuate utilizzando solo i
citati canali a tal fine predisposti
(articolo ItaliaOggi
Sette del
04.12.2017). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Gli architetti ricorrono alla
Cedu contro il Cds.
Il Consiglio nazionale degli architetti,
pianificatori, paesaggisti e conservatori ha
presentato ieri ricorso alla Corte europea
dei diritti dell'uomo per contestare la
violazione dei diritti contenuti nella
Convenzione europea dei diritti dell'uomo
lesi con la sentenza del Consiglio di stato
4614/2017.
La sentenza è relativa al bando emesso dal
comune di Catanzaro, che per la
realizzazione del proprio piano strutturale
aveva stabilito un euro di compenso per il
professionista incaricato.
Secondo gli
architetti, la sentenza ha violato il
diritto di proprietà legittimando la
richiesta di prestazioni in forma gratuita
ai liberi professionisti, consentendo al
comune di Catanzaro un ingiustificato
arricchimento a fronte di prestazioni
lavorative di carattere intellettuale.
«Una
sentenza che rappresenta una pericolosa
istigazione a delinquere, come io stesso ho
denunciato la scorsa settimana nel corso di
una audizione dinanzi alla Commissione
parlamentare Antimafia», ha dichiarato
Giuseppe Cappochin, presidente degli
architetti italiani
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Consultazione
per grandi opere. Obbligo anche per terminal
marittimi, linee elettriche, dighe. Nuova
bozza di dpcm sul débat public attuativo del
codice dei contratti. In arrivo quello sul
Bim.
Il débat public, con la consultazione
pubblica sulle grandi opere, si applicherà
per infrastrutture stradali e autostradali
oltre i 500 milioni, ferrovie di lunghezza
superiore a 30 chilometri e aeroporti con
piste di più di un chilometro e mezzo.
Sono queste le indicazioni che, per le opere
di maggiore importanza, si deducono
dall'allegato 1 alla bozza di decreto della
presidenza del consiglio che da pochi giorni
è stata restituita al ministero delle
infrastrutture (proponente) per essere
trasmessa agli enti che dovranno esprimere
il parere.
È uno dei decreti attuativi del codice dei
contratti pubblici (cui a brevissimo si
aggiungerà quello sul Bim, Building
informazione modelling che sarebbe alla
firma del ministro Delrio), forse quello di
cui si sottolineò la particolare rilevanza
al momento della presentazione della riforma
da parte del governo Renzi.
Oltre alle strade, autostrade e ferrovie, il
decreto si applicherà anche ad altre
importanti opere quali i terminal marittimi
di importo, oltre 200 milioni e le linee
elettriche di più di 40 chilometri, i
gasdotti e oleodotti e dighe.
La bozza di decreto prevede però che si
possa ricorrere alla procedura di
consultazione pubblica anche per le opere
ricomprese nell'allegato 1 rientranti in
soglie dimensionali ridotte del 50%, su
richiesta: della presidenza del consiglio o
dei ministeri direttamente interessati alla
realizzazione dell'opera; di un consiglio
regionale o di una provincia o di una città
metropolitana territorialmente interessati
dall'intervento; di uno o più consigli
comunali o di unioni di comuni
territorialmente interessati
dall'intervento, se complessivamente
rappresentativi di almeno 100 mila abitanti;
di almeno 50 mila cittadini elettori nei
territori in cui è previsto l'intervento; di
almeno un terzo dei cittadini elettori per
gli interventi che interessano le isole con
non più di 100 mila abitanti e per il
territorio di comuni di montagna.
Il provvedimento prevede che il dibattito
pubblico si svolga nelle fasi iniziali di
elaborazione di un progetto di un'opera o di
un intervento, in relazione ai contenuti del
progetto di fattibilità ovvero del documento
di fattibilità delle alternative
progettuali; non può svolgersi oltre l'avvio
della progettazione definitiva.
Il dibattito pubblico potrà durare al
massimo quattro mesi a decorrere dalla
pubblicazione del dossier di progetto,
prorogabili di ulteriori due mesi in caso di
comprovata necessità.
Sarà cura dell'amministrazione
aggiudicatrice o dell'ente aggiudicatore
provvedere alla trasmissione alla
commissione che dominerà il dossier una
comunicazione, con allegato il progetto di
fattibilità ovvero il documento di
fattibilità delle alternative progettuali,
che contiene l'intenzione di avviare la
procedura, la descrizione degli obiettivi e
le caratteristiche del progetto adottate in
coerenza con le indicazioni delle linee
guida per la valutazione degli investimenti
pubblici emanate dal ministero delle
infrastrutture e dei trasporti o dai
ministeri competenti ai sensi del decreto
legislativo 29.12.2011, n. 228.
Inoltre, dovranno essere indicati uno o più
soggetti dell'ente o amministrazione che la
rappresenti in tutte le fasi del
procedimento di dibattito pubblico. Le
diverse fasi del dibattito saranno infatti
gestite da una sorta di project manager
definito responsabile del dibattito, a sua
volta scelto con procedura di gara. Sarà lui
a chiudere il dibattito prevedendo una
relazione finale che esponga tutte le
posizioni in campo e le possibili soluzioni
da adottare
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017). |
APPALTI: Commissariamento,
utili bloccati alle consorziate. Sentenze
Cds sulle imprese coinvolte in inchieste
giudiziarie.
Il commissariamento di imprese coinvolte in
inchieste giudiziarie relative ad appalti
determina il blocco degli utili di tutte le
imprese coinvolte, comprese le consorziate
che hanno avuto l'incarico di eseguire i
lavori.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato
in sette sentenze, di analogo tenore, emesse
dalla III Sez. (sentenza 26.10.2017 n.
2581, n. 2582,
n. 2583,
n. 2584,
n. 2585,
n. 2586,
n. 2587).
In particolare, si trattava di chiarire se,
in presenza di un provvedimento prefettizio
che dispone di provvedere direttamente alla
straordinaria e temporanea gestione
dell'impresa limitatamente alla completa
esecuzione di un opera pubblica, ex art 32
dl n. 90/2014, la regola che dispone
l'accantonamento in apposito fondo
dell'utile d'impresa derivante
dall'esecuzione del contratto commissariato
fosse estensibile o meno anche agli utili
spettanti alle imprese che eseguono i lavori
per conto del concessionario, con il quale
sono consorziate.
Si trattava della vicenda del Consorzio
Venezia Nuova concessionario dei lavori del
Mose, commissariato a dicembre 2014 dalla
prefettura, su richiesta dell'Anac. La norma
che disciplina il commissariamento si pone
due obiettivi: garantire la completa
esecuzione degli appalti e neutralizzare il
rischio derivante dall'infiltrazione
criminale nelle imprese, riguardando quindi
il contratto (da portare a termine) e non
l'impresa.
All'interno di questa finalità,
ha detto il Consiglio di stato, si inserisce
il settimo comma dell'art. 32 che impone
l'accantonamento degli utili che dal
contratto commissariato (eventualmente)
derivano (al netto delle spese per la
realizzazione dell'opera pubblica).
L'obiettivo è di evitare il paradossale
effetto di far percepire, proprio attraverso
il commissariamento che conduce
all'esecuzione del contratto, il profitto
dell'attività criminosa.
Per i giudici, quindi la misura degli utili
già accantonati (e la loro eventuale
capienza) non ha alcuna influenza con
l'operatività dell'accantonamento che la
norma impone come sempre obbligatorio e
riferito esclusivamente all'utile netto:
«Soltanto in esito ai processi penali potrà
farsi questione in ordine alla misura degli
utili confiscabili (se ritenuti profitto del
reato) e all'eventuale residuo da redistribuire agli aventi diritto».
Nel caso esaminato, le sentenze del
Consiglio di stato concludono che essendo il
consorzio l'unica controparte della stazione
appaltante, l'atto negoziale di (ri)trasferimento
delle singole quote delle risorse percepite
per i lavori fatti eseguire dalle imprese
consorziate (mediante accordi interni di
natura privatistica) è atto che rientra nei
poteri dei commissari e non riguarda la
governance delle imprese estranee al
commissariamento.
Pertanto, l'obbligo
giuridico che grava sui commissari di
accantonare tutti gli utili (senza
distinzione alcuna) che discendono dal
contratto commissariato, «non si vede come
sia possibile distinguere tra utili
spettanti al Consorzio e utili di competenza
delle imprese consorziate».
Ciò anche perché nel rapporto di
concessione, le singole imprese consorziate
non hanno alcun rapporto con la pubblica
amministrazione
(articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017). |
VARI: Il
deposito prezzo è facoltativo. Meglio
anticipare l'intenzione prima di stipulare
il rogito. Il vademecum del Consiglio
nazionale del notariato per applicare la
nuova disposizione.
Deposito del prezzo: istruzioni per l'uso.
Il Consiglio nazionale del notariato ha
pubblicato sul proprio sito internet
(www.notariato.it), una sorta di
vademecum
per la corretta applicazione della nuova
disposizione introdotta dalla c.d. legge
sulla concorrenza n. 124/2017 ed entrata in
vigore lo scorso 29 agosto.
Vediamo più da vicino di cosa si tratta.
Chi compra un immobile si vede esposto al
rischio che, tra la data del rogito dinanzi
al notaio e la data della sua trascrizione
nei registri immobiliari, venga pubblicato
su questi ultimi un gravame inaspettato a
carico del venditore: un'ipoteca, un
sequestro, un pignoramento, una domanda
giudiziale, eccetera. Occorre comunque
avvertire che questo tipo di inconvenienti
si verificano nella pratica assai raramente,
perché i notai sono soliti adempiere al
predetto obbligo di trascrizione in tempi
molto brevi.
La legge n. 124/2017 ha quindi
previsto che, qualora sia richiesto da
almeno una delle parti del contratto, il
notaio sia obbligato a tenere in deposito
presso di sé il saldo del prezzo messo a
disposizione dall'acquirente e destinato al
venditore, fino a quando non sia stato
eseguito il prescritto adempimento
pubblicitario presso i registri immobiliari,
con il quale si acquisisce la certezza che
l'acquisto si è perfezionato senza subire
gravami. Come ribadito dal notariato, si
tratta di una tutela facoltativa che la
nuova legge mette a disposizione di chi
compra casa: in sede di rogito l'acquirente,
a seconda dei casi, può quindi optare per
avvalersene o rinunziarvi.
Nel vademecum si evidenzia altresì come
sarebbe opportuno che tale intenzione
venisse manifestata dall'acquirente al
venditore già prima del rogito, dunque in
sede di preliminare, in modo da
regolamentare con anticipo la circostanza
tra le parti. In ogni caso nulla esclude che
l'acquirente possa manifestare l'opzione al
venditore anche direttamente in sede di
stipula del rogito.
In questo caso lo
scenario che tipicamente si realizza nello
studio notarile, ovvero la consegna del
saldo del prezzo al venditore e di quella
delle chiavi all'acquirente, è destinato a
mutare, almeno per quanto riguarda il primo
aspetto. L'assegno che si è soliti
consegnare al proprietario di casa dovrà
infatti essere intestato non più al
venditore, bensì al notaio stesso, in modo
da consentire al professionista di
depositarne l'importo su di un conto
corrente dedicato appositamente aperto in
banca con la specifica destinazione di
«conto dedicato ai sensi della legge
147/2013».
Occorre in ogni caso evidenziare
come, a garanzia delle parti, la legge
preveda che le somme depositate nel conto
corrente dedicato aperto dal notaio
costituiscono patrimonio separato da quello
personale del professionista. Dette somme
sono inoltre escluse dalla successione del
notaio e dal regime patrimoniale della sua
famiglia, risultando altresì impignorabili a
richiesta di chiunque, così come
impignorabile è il credito al pagamento o
alla restituzione delle stesse.
Il
professionista può ovviamente disporre delle
somme in tal modo vincolate solo per gli
specifici impieghi per i quali le stesse
sono state depositate fiduciariamente presso
di questi. Quindi, una volta eseguita la
registrazione e la pubblicità dell'atto di
trasferimento della proprietà immobiliare e
dopo aver verificato l'assenza di gravami e
formalità pregiudizievoli ulteriori rispetto
a quelle esistenti alla data dell'atto o da
questo risultanti, il notaio dovrà
provvedere senza indugio a disporre lo
svincolo degli importi depositati a favore
del venditore).
Da segnalare anche che gli interessi
maturati su tutte le somme depositate ai
sensi della normativa in questione, al netto
delle spese e delle imposte relative al
conto corrente, quindi anche il prezzo della
compravendita, sono espressamente
finalizzati a rifinanziare i fondi di
credito agevolato destinati ai finanziamenti
alle piccole e medie imprese, secondo le
modalità e i termini che saranno individuati
in prosieguo con apposito dpcm che dovrà
essere adottato, su proposta del ministro
dell'economia e delle finanze, entro 120
giorni dalla data di entrata in vigore della
legge sulla concorrenza (quindi con
decorrenza dallo scorso 29.08.2017).
Il notariato ha infine voluto evidenziare
come il deposito del prezzo garantisca il
corretto e sicuro perfezionamento del
trasferimento del denaro dall'acquirente al
venditore, il quale incasserà le somme dopo
qualche giorno ma non correrà alcun rischio
in ordine all'effettivo incasso della somma
pattuita
(articolo ItaliaOggi
Sette del
27.11.2017). |
APPALTI: Forniture
mai senza privacy. Trasmissione dei dati da
monitorare. Ruoli identificati. Le norme
della legge europea sulle esternalizzazioni,
che anticipano il regolamento Ue.
Quando si esternalizzano compiti e funzioni
non bisogna dimenticarsi della privacy. E
ruoli e responsabilità «privacy» devono
essere messi nero su bianco, seguendo un
facsimile predisposto dal Garante della
privacy.
Lo sottolinea la legge europea 2017,
approvata definitivamente dalla camera l'08.11.2017, che modifica l'articolo 29
del Codice della privacy (sul responsabile
del trattamento), anticipando in gran parte
il contenuto dell'articolo 28 del
regolamento Ue 2016/679 sulla protezione dei
dati (efficace dal 25.05.2018).
Un'impresa o un ente pubblico svolge la sua
attività tipica e istituzionale sia con la
propria organizzazione e il proprio
personale sia avvalendosi di fornitori
esterni, i quali ultimi eseguono l'attività
o pezzi dell'attività. L'esternalizzazione
del servizio o di pezzi del servizio molto
spesso comporta l'invio delle informazioni
necessarie all'espletamento del compito.
Tali informazioni possono essere «dati
personali».
Tanto per fare un esempio, esternalizzare la
compilazione delle buste paga implica il
passaggio, dal datore di lavoro al fornitore
di servizi di consulenza del lavoro, dei
dati dei lavoratori. E lo stesso capita per
i dati dei clienti di un'impresa, in
relazione all'esecuzione degli obblighi
contrattuali. Il committente del servizio e
il fornitore esterno, dunque, deve
accordarsi sui profili della tutela della
riservatezza delle persone, i cui dati
transitano dal primo al secondo e viceversa.
Se protezione dei dati personali significa
che l'interessato non deve perdere di vista
le informazioni che lo riguardano, allora la
trasmissione dei dati è un'operazione da
monitorare. E il monitoraggio si fa
innanzitutto richiedendo a committente e
fornitore esterno di formalizzare il loro
rispettivo ruolo e le loro responsabilità.
In altre parole l'interessato (cui si
riferiscono i dati) deve poter sapere se,
come e quando i suoi dati sono passati dal
soggetto Alfa al soggetto Beta e quali ruoli
sia Alfa che Beta stiano giocando.
Le possibilità sono in astratto due:
1) Alfa e Beta sono sullo stesso piano e
decidono insieme finalità e modalità del
trattamento: in questo caso si parla di «contitolarità
del trattamento»;
2) Alfa e Beta non sono sullo stesso piano,
in quanto Beta tratta i dati per conto di
Alfa: in questo caso abbiamo un «titolare
del trattamento» (nell'esempio, Alfa) e un
responsabile del trattamento (Beta).
In tutti e due i casi bisogna scrivere atti
e documenti che chiariscano bene la vicenda
nell'interesse della persona fisica cui si
riferiscono i dati.
La parola d'ordine è documentazione.
La
legge europea 2017, come detto, si occupa
del responsabile del trattamento. E lo fa
per stabilire che titolare (committente) e
responsabile (fornitore esterno) devono
redigere un «atto giuridico», principalmente
un contratto, in cui esplicitare i loro
rapporti sulla falsa riga di modello, che il
Garante della privacy metterà a
disposizione.
Nel dettaglio la legge europea 2017 aggiunge
due commi (il 4-bis e il 5) all'articolo 29
del Codice della privacy (dlgs 196/2003).
La prima integrazione (il comma 4-bis)
recita che il titolare (alias l'impresa o
l'ente pubblico) può avvalersi, per il
trattamento di dati, anche sensibili, di
soggetti pubblici o privati che assumono la
qualifica di responsabile del trattamento.
Per la verità la possibilità di designare un
soggetto esterno quale responsabile esterno
del trattamento è già prevista dal codice
della privacy. Quindi, fin qui niente di
nuovo.
La parte effettivamente nuova è quella in
cui il comma 4-bis prescrive che i titolari
devono stipulare con i responsabili atti
giuridici in forma scritta, che specificano:
1) la finalità perseguita; 2) la tipologia
dei dati; 3) la durata del trattamento; 4)
gli obblighi e i diritti del responsabile
del trattamento; 5) le modalità di
trattamento.
Altra parte nuova è quella in cui il comma
4-bis assegna al garante il compito di
stendere schemi tipo degli atti fra titolare
e responsabile.
La legge europea 2017 riscrive il comma 5
dell'articolo 29 del Codice della privacy ed
elenca gli obblighi del responsabile del
trattamento:
a) attenersi alle condizioni degli atti
giuridici sottoscritti;
b) attenersi alle istruzioni ricevute dal
titolare del trattamento.
La legge europea 2017 specifica le
prerogative del titolare del trattamento,
che si sintetizzano nel potere di vigilanza
sull'osservanza, da parte del responsabile,
delle norme sulla privacy, delle istruzioni
ricevute e degli atti giuridici
sottoscritti.
Cerchiamo di rendere l'effetto concreto di
queste norme. Quando una società,
nell'esempio sopra iniziato, affida
prestazioni di assistenza dei clienti a una
società di servizi esterna, dovrà scrivere
un atto giuridico, nella quale si precisano
tutti compiti e obblighi reciproci.
La società di servizi esterna dovrà
tollerare ispezioni e/o dovrà elaborare
relazioni periodiche sullo stato di
applicazione della disciplina della privacy.
Si noti che i poteri ispettivi possono
essere decisamente invasivi e, quindi, è
meglio che titolare e responsabile si
accordino trovando il giusto equilibrio.
Le disposizioni esaminate anticipano quanto
disposto dall'articolo 28 del regolamento Ue
n. 2016/679, che impone un contratto (o altro
atto giuridico) tra titolare e responsabile
esterno del trattamento: anche la disciplina
europea prevede il potere ispettivo del
titolare del trattamento.
Il regolamento Ue prevede anche la
possibilità che il responsabile del
trattamento nomini un sub-responsabile del
trattamento, seguendo gli indirizzi
predefiniti dal titolare del trattamento.
Inoltre il regolamento Ue assoggetta a
sanzione amministrativa la mancata stesura
di un contratto tra titolare e responsabile
del trattamento.
In ogni caso, a prescindere dei dettagli, il
messaggio è chiaro: quando si mandano in
giro i dati delle persone, a queste persone
bisogna rendere conto e bisogna preoccuparsi
di responsabilizzare i destinatari dei dati
stessi.
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Dai tabulati alla
ricerca: altri interventi.
Tabulati telefonici conservati per sette
anni; ricerca scientifica agevolata dalla
possibilità di autorizzare il riutilizzo dei
dati anonimizzati; task force (più 25 unità)
presso il Garante della privacy per gestire
l'applicazione del regolamento Ue 2016/679.
Sono i tre fronti su cui operano, in materia
di privacy, altrettante disposizioni della
legge europea 2017.
Ricerca scientifica. Riutilizzabili i dati
per finalità di ricerca scientifica o per
scopi statistici. La legge europea 2017
interviene sulla materia della ricerca
scientifica per stabilire le condizioni del
riutilizzo dei dati.
Nel dettaglio si prevede che nell'ambito
delle finalità di ricerca scientifica o per
scopi statistici può essere autorizzato dal
Garante il riutilizzo dei dati, anche
sensibili, a esclusione di quelli genetici,
a condizione che siano adottate forme
preventive di minimizzazione e di
anonimizzazione dei dati ritenute idonee a
tutela degli interessati.
Il Garante comunicherà la decisione adottata
sulla richiesta di autorizzazione entro 45
giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia
equivale a rigetto. Con il provvedimento di
autorizzazione o anche successivamente,
sulla base di eventuali verifiche, il
Garante stabilirà le condizioni e le misure
necessarie ad assicurare adeguate garanzie a
tutela degli interessati nell'ambito del
riutilizzo dei dati, anche sotto il profilo
della loro sicurezza.
Si tratta di una norma a favore della
ricerca, che può riutilizzare i dati se
anonimizzati. La norma viene inserita come
articolo 110-bis del codice della privacy
nel capo relativo ai trattamenti per scopi
statistici o scientifici.
La materia è sviluppata dal Codice di
deontologia e di buona condotta per i
trattamenti di dati personali per scopi
statistici e scientifici (provvedimento del
Garante n. 2 del 16.06.2004, Gazzetta
Ufficiale 14.08.2004, n. 190). Con la
legge europea 2017 si apre la possibilità
dell'utilizzo dei dati previa autorizzazione
del garante.
Data retention. Sette anni di conservazione
del traffico telefonico e telematico.
Per la lotta contro il terrorismo, per
garantire strumenti di indagine efficaci in
considerazione delle straordinarie esigenze
di contrasto del terrorismo, anche
internazionale, per le finalità
dell'accertamento e della repressione di
gravi reati (previsti dagli articoli 51,
comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a),
del Codice di procedura penale), la legge
europea 2017 allunga il termine di
conservazione dei dati di traffico
telefonico e telematico e dei dati relativi
alle chiamate senza risposta: il termine è
stabilito in 72 mesi.
Si tratta di una forte eccezione alla regola
generale fissata dal Codice della privacy
(articolo 132, commi 1 e 1-bis), il quale
fissa la data retention in due anni per il
traffico telefonico, in un anno per quello
telematico e in 30 giorni per le chiamate
senza risposta.
Task force del gpdp. La legge europea 2017
rimpolpa l'organico del Garante per la
privacy. Anche per fare fronte al surplus di
attività collegata all'adeguamento al
regolamento Ue 2016/679. A decorrere
dall'anno 2018 viene stanziato un contributo
aggiuntivo pari a 1.400.000 euro. Il
personale è aumentato di 25 persone
(articolo ItaliaOggi
Sette del
20.11.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Aria,
stretta contro le emissioni. Limiti
aggiornati e sanzioni più aspre per i
trasgressori. Il dlgs approvato il 10
novembre estende la platea degli impianti
soggetti ad autorizzazione.
Allargamento degli impianti che necessitano
della preventiva autorizzazione per emettere
inquinanti in atmosfera, con parallelo
upgrade dei valori limite da rispettare e
inasprimento delle sanzioni per le condotte
contra legem.
Queste, insieme a una semplificazione
burocratica per le autorizzazioni ed alla
lotta alle emissioni (anche) semplicemente
sgradevoli, le principali novità previste
dal decreto legislativo approvato in via
definitiva dal consiglio dei ministri del 10.11.2017. Il neodecreto riscrive le
regole per la tutela dell'aria attualmente
previste dal Codice ambientale recependo sul
piano nazionale le ultime norme Ue sul
controllo degli impianti di combustione
medi.
Il contesto normativo.
Il restyling licenziato dal governo
interessa l'intera parte quinta del dlgs
152/2006, recante la disciplina sulle
emissioni in atmosfera prodotte, salvo
mirate eccezioni, sia dagli stabilimenti
produttivi che dagli impianti termici
mediante un preciso binario di norme: da un
lato i valori limite ammissibili di
inquinanti (condizioni minime e inderogabili
per tutti gli impianti); dall'altro le
tipologie di autorizzazioni necessarie per
poterli emettere in aria (dettate per le
singole categorie di impianti e cedevoli ove
l'ordinamento preveda altri e speciali
regimi, come l'«Aia» o l'«Aua»).
Le novità per gli
stabilimenti produttivi.
Il decreto delegato del 10 novembre 2017
interessa le emissioni prodotte dagli
stabilimenti produttivi sotto entrambi i
profili indicati.
Sotto il primo profilo arriva
l'aggiornamento dei valori limite di
emissione alle classi di rischio delle
sostanze chimiche previste dall'ultima
disciplina comunitaria in materia, con il
mantenimento però, ove più stringenti, dei
parametri già previsti dall'attuale
disciplina nazionale.
Sotto il profilo autorizzativo arriva invece
la citata semplificazione burocratica, con
il rinnovato ruolo dato alle «autorizzazioni
di carattere generale» ex articolo 272 del dlgs 152/2006, ossia a quei provvedimenti
recanti le condizioni dettate dalle Autorità
pubbliche competenti in merito a valori
limite da rispettare e altri oneri cui i
gestori degli stabilimenti è sufficiente che
aderiscano per poter legittimamente
esercitare la propria attività.
In primo
luogo, la possibilità di aderire alle
«autorizzazioni generali» viene infatti
estesa a tutte le tipologie di impianti
(anche i citati «medi», come chiarito dal
nuovo articolo 273-bis del Codice
ambientale) ad eccezione di quelli che
utilizzano determinate sostanze pericolose,
individuate dalle indicazioni «H» previste
dall'Allegato VI (paragrafo 1.1.2.1.2) al
regolamento Ue 1272/2008/Ce (il
provvedimento comunitario di riferimento in
materia, direttamente applicabile in tutti
gli Stati membri).
In secondo luogo, viene portato da 10 a 15
anni il termine massimo entro cui l'Autorità
competente dovrà procedere a «rinnovare» il
proprio provvedimento di autorizzazione
generale, allungandone quindi la valenza.
Il restyling di settore, come accennato,
tocca infine anche il sistema sanzionatorio,
con un rilevante incremento di quelle
pecuniarie: a titolo di esempio, per
l'esercizio di impianti in assenza di
autorizzazione, ferma restando la pena
dell'arresto fino a due anni, l'alternativa
sanzione dell'ammenda passa dalla forbice di
258/1032 euro a quella di 1.000/10 mila
euro. Questo accompagnato, però, da una
revisione del sistema dei controlli, poiché
viene sancito che i relativi apparecchi
potranno essere usati anche fini
dell'accertamento delle eventuali violazioni
sono ove coincidano con «sistemi di
monitoraggio in continuo» e tale utilizzo
sia espressamente stato previsto dalla
sottesa autorizzazione alle emissioni.
In assenza di tali condizioni, i dati
rilevanti legittimeranno l'Autorità a
impartire solo prescrizioni per il
ripristino della conformità, salva la
possibilità di imporre la cessazione
dell'esercizio degli impianti il caso di
pericolo per salute umana o peggioramento
della qualità dell'aria.
Gli impianti medi di
combustione.
Debutta nell'articolo 268 del Codice
ambientale la nozione di medio impianto di
combustione, coincidente con quello di
potenza termica tra 1 e 50 Mw, ora oggetto
sia di specifici valori limite di emissione
che del regime autorizzativo ereditato dai
fratelli più grandi.
Sebbene, a differenza di molti Stati Ue, in
Italia una disciplina sulle emissioni degli
impianti inferiori ai 50 mw sussista già in
base allo storico dpr 203/1998, con il
recepimento della direttiva 2015/2193/Ue
vengono ora sottoposti ad autorizzazione
numerosi impianti prima esclusi, come quelli
che processano metano, gpl o biogas con
potenza termica compresa tra 1 e 3 mw.
Fuori dalla portata delle nuove regole
resteranno invece gli impianti di
incenerimento o coincenerimento rifiuti ex
Parte IV del dlgs 152/2006 (che
continueranno ad essere soggetti alla
peculiare e relativa normativa) e quelli
alimentati a biomassa da rifiuto ex Parte V
(che resteranno sotto le regole ex articoli
208 e 214 dello stesso Codice).
Le emissioni odorigene.
Con il neoarticolo 272-bis esordisce nel
«Codice ambientale» anche la lotta
all'inquinamento odorigeno, ossia alle
emissioni di sostanze inquinanti
tendenzialmente non nocive alla salute ma
caratterizzate comunque da odore sgradevole,
come le emissioni da discariche. E questo
conferendo alle regioni i poteri di adottare
misure per la prevenzione e la limitazione
di tali emissioni da stabilimenti
produttivi.
In particolare gli enti territoriali
potranno a tal fine stabilire particolari
valori limite di emissione mediante
prescrizioni agli impianti interessati.
Gli impianti termici
civili.
In base alla rivisitata disciplina ex del
dlgs 152/2006 l'onere di attestare sia
l'idoneità al rispetto dei valori limite che
la conformità alle caratteristiche
costruttive passa dall'installatore al
costruttore che dovrà provvedere tramite un
apposito documento di accompagnamento
dell'impianto. Il tutto si rifletterà sul
piano del sistema sanzionatorio, il quale
colpirà il produttore di impianti termici
civili che non metterà a disposizione la
documentazione attestante la loro idoneità
così come il responsabile d'esercizio e
manutenzione che non li iscriverà
nell'apposito ed istituendo registro.
Combustibili. Trasversali a tutte le
tipologie di impianti, infine, le nuove
norme (ex riformulato articolo 294 del
Codice ambientale) sul rendimento: i più
grandi impianti produttivi e i termici
dovranno infatti essere dotati di sistemi di
controllo della combustione che ne
ottimizzino il rendimento
(articolo ItaliaOggi
Sette del
20.11.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Beni
culturali, il ministero svolta. C'è il
rischio di confusione sui livelli di
progettazione. Dall'11 novembre entrano in
vigore le nuove regole sui lavori e gli
affidamenti diretti.
Dall'11 novembre in vigore le nuove regole
per progettare ed eseguire lavori nel
settore dei beni culturali; ammesso
l'appalto integrato e l'affidamento diretto
per lavori fino a 300mila euro, in casi di
somma urgenza.
Sono questi alcuni dei punti rilevanti del
decreto ministeriale 22.08.2017, n. 154
attuativo del codice dei contratti pubblici
che detta il regolamento per i lavori, sui
beni culturali mobili e immobili, superfici
decorate di beni architettonici e materiali
storicizzati di beni immobili di interesse
storico, artistico o archeologico.
Il provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale dello scorso 27 ottobre, entrerà
in vigore l'11 novembre e sostituirà la
precedente disciplina che poggiava sul dm
294/2000, sugli articoli da 239 a 248 del
regolamento del codice dei contratti
pubblici (dpr. 207/2010), oltre che
sull'articolo 251 che disciplinava il
collaudo dei lavori.
Dall'11 novembre tutte queste norme non
saranno più applicabili anche se va detto
che il decreto riproduce in buona parte le
norme regolamentari del 2010. Il testo, che
va letto anche alla luce di quanto
dispongono alcuni articoli del codice (da
145 a 151), enuncia un primo importante
principio che si sostanza nell'obbligo di
inserimento degli interventi nel settore dei
beni culturali nei documenti di
programmazione dei lavori pubblici e di
realizzarli in base ai tempi e alle priorità
derivanti dal criterio della «conservazione
programmata».
Per la qualificazione delle imprese di
costruzione (articoli da 4 a 11) viene
definita una disciplina generale e una ad
hoc al di sotto dei 150 mila euro (art.
12). L'affidamento dei lavori dovrà
avvenire, di regola, sulla base del progetto
esecutivo; il decreto elenca tuttavia i casi
in cui la progettazione esecutiva può essere
omessa e si può quindi affidare lavori
partendo dalla progettazione definitiva,
casi che sono peraltro riconducibili alla
necessità di integrare la progettazione
durante le fasi di cantiere.
Dal punto di vista delle procedure il
decreto, nei «casi di somma urgenza, nei
quali ogni ritardo sia pregiudizievole alla
pubblica incolumità o alla tutela del bene,
per rimuovere lo stato di pregiudizio e
pericolo e fino all'importo di trecentomila
euro», prevede l'affidamento dei lavori
in via diretta ad una o più imprese scelte
dalla stazione appaltante. La progettazione
e direzione lavori è disciplinata agli artt.
14-22 del decreto.
Il testo elenca nel dettaglio i contenuti
dei livelli progettuali: progetto di
fattibilità tecnica ed economica, scheda
tecnica (art. 16), progetto definitivo e
progetto esecutivo; questi contenuti sono
sostitutivi di quelli dell'emanando decreto
generale sui progetti di cui all'articolo
23, comma 3, del codice. Spetterà poi al
ministero definire, entro sei mesi
dall'entrata in vigore del decreto, linee di
indirizzo, norme tecniche e criteri
ulteriori preordinati alla progettazione e
alla esecuzione di lavori su beni culturali.
I livelli dettati dal decreto sono però
ritenuti applicabili soltanto a valle
dell'emanazione del decreto ministeriale sui
livelli di progettazione delle altre opere
(diverse da quelli inerenti i beni
culturali).
Qualche serio problema si potrebbe quindi
porre già dopo l'11 novembre laddove il
decreto generale sui livelli di
progettazione (previsto dall'articolo 23,
comma 3, del codice dei contratti) non sarà
certamente approvato (visto che da poco è
passato al vaglio del consiglio superiore
dei lavori pubblici) e le norme del dpr
207/2010 non saranno applicabili in base
all'articolo 216, comma 9, del codice. Non
sembra quindi chiaro quale disciplina sarà
applicabile (articolo ItaliaOggi del
03.11.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Beni culturali, appalti urgenti.
Affidamento diretto se c'è pericolo e sotto
300 mila.
L'iter d'emergenza tra i punti del decreto
(ieri in Gazzetta) che regolamenta i lavori.
Possibile l'esecuzione di lavori su beni
culturali e scavi archeologici con la
procedura semplificata di somma urgenza (e
quindi con affidamento diretto) nei casi in
cui ogni ritardo sia pregiudizievole alla
pubblica incolumità o alla tutela del bene,
per rimuovere lo stato di pregiudizio e
pericolo e fino all'importo di 300 mila
euro. Nei casi in cui non sia prevista
l'iscrizione a un ordine o collegio
professionale, le prestazioni relative alla
progettazione di fattibilità, definitiva ed
esecutiva delle opere possono essere
espletate anche da un soggetto con qualifica
di restauratore di beni culturali.
Sono solo
alcune delle previsioni contenute nel
decreto 22.08.2017, n. 154 del ministero
dei beni culturali «Regolamento concernente
gli appalti pubblici di lavori riguardanti i
beni culturali tutelati ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42»,
pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n.
252 e che entrerà in vigore l'11 novembre
prossimo.
Il provvedimento riguarda gli
appalti pubblici di lavori sui beni
culturali tutelati dal Codice dei beni
culturali e del paesaggio e i seguenti
lavori: scavo archeologico, comprese le
indagini archeologiche subacquee;
monitoraggio, manutenzione e restauro di
beni culturali immobili; monitoraggio,
manutenzione e restauro dei beni culturali
mobili, superfici decorate di beni
architettonici e materiali storicizzati di
beni immobili di interesse storico,
artistico o archeologico.
Il regolamento
richiede una serie di requisiti di ordine
speciale per la qualificazione necessaria
all'esecuzione dei lavori: idoneità tecnica;
idoneità organizzativa e adeguata capacità
economica e finanziaria. I requisiti sono
attestati dalle Soa (Società organismi di
attestazione) nell'ambito della procedura di
qualificazione delle imprese. Per i lavori
sotto i 150 mila euro i requisiti
autocertificati ai sensi del dpr 28.12.2000, n. 445, sono dichiarati in sede di
domanda di partecipazione o in sede di
offerta e sono accompagnati da una
certificazione di buon esito dei lavori
rilasciata dall'autorità preposta alla
tutela dei beni su cui si è intervenuti.
Se
i lavori non superano 40 mila euro, la
certificazione di buon esito può essere
rilasciata anche da una amministrazione
aggiudicatrice. Per la direzione tecnica, i
professionisti coinvolti sono gli architetti
e per talune categorie di appalti i
restauratori di beni culturali
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: In 18 regioni moduli unificati per attività
produttive e permessi a costruire.
Al 26 ottobre sono 18 (su venti) le regioni
che hanno recepito il nuovo modulo unificato
e standardizzato del permesso di costruire
in materia edilizia e delle attività
commerciali e artigianato. Parliamo delle
regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria,
Campana, Emilia Romagna, Friuli-Venezia
Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche,
Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana,
Umbria, Valle d'Aosta e Veneto.
È quanto
emerge dal report elaborato dalla Funzione
pubblica, assieme alla Conferenza delle
regioni e aggiornato al 26 ottobre scorso
circa l'adozione da parte delle regioni
della modulistica unificata e standardizzata
per le attività commerciali e artigianali e
del modello unificato relativo al permesso
di costruire.
Come previsto dall'accordo in Conferenza
unificata dello scorso 6 luglio, dal 20
ottobre tutti i comuni, sui loro siti
istituzionali, avrebbero dovuto pubblicare
il nuovo modello unificato relativo al
permesso a costruire e la nuova modulistica
relativa alle attività commerciali.
Come
previsto dall'art. 2, 5° comma, del dlgs n.
126/2016, la mancata pubblicazione dei
moduli e delle informazioni indicate sopra
entro il termine oramai scaduto del 20.10.2017 costituisce illecito
disciplinare punibile con la sospensione dal
servizio, con privazione della retribuzione
da tre giorni a sei mesi.
Evoluzione legislativa. Con l'accordo della
Conferenza unificata del 04.05.2017
(pubblicato nel supplemento ordinario della
Gazzetta Ufficiale 05/06/2016, n. 128) sono
stati approvati un primo gruppo di moduli
unificato per le attività commerciali.
In
seguito, con l'accordo della Conferenza
unificata 06.07.2017 (Gazzetta Ufficiale
16/08/2017, n. 190) è stato adeguato anche
il modulo relativo alla richiesta di
permesso di costruire ed è stato adottato un
secondo gruppo di moduli per attività
commerciali e produttive.
Infine, con altro
accordo del 06.07.2017 è stato esteso il
modulo «notifica ai fini della
registrazione», a tutti gli operatori del
settore alimentare, anche per attività
diverse da quelle commerciali.
Contenuti moduli commercio e artigianato. La
modulistica prende in considerazione i
diversi eventi della vita delle imprese
(avvio, trasferimento, ampliamento, subingresso
o cessazione), della dimensione delle
attività commerciali, delle modalità di
vendita e della localizzazione nel caso di
bar e ristoranti
(articolo ItaliaOggi del
28.10.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Direzione lavori, pronte le regole.
Contabilità online e nuova disciplina per le
varianti.
La bozza del decreto ministeriale recepisce
le linee guida dell'Anac che diventano
vincolanti.
Il direttore dei lavori dovrà
obbligatoriamente segnalare alla stazione
appaltante i rapporti in corso con l'impresa
di costruzione aggiudicataria dell'appalto
ai fini della valutazione del grado di
incompatibilità; nuova disciplina delle
varianti e obbligo di contabilità in formato
elettronico.
È quanto prevede la bozza di
decreto ministeriale attuativo del codice
dei contratti pubblici che reca la
disciplina di dettaglio in tema di direzione
lavori, già disciplinata dal dpr 207/2010 ai
titoli VIII e IX.
Questa materia sarà
regolata da un decreto ministeriale che
recepirà le linee guida Anac rendendole di
fatto vincolanti. Il provvedimento, prima di
divenire efficace, dovrà avere il via libera
della Conferenza unificata e del Consiglio
di stato.
Una delle principali novità rispetto alla
disciplina regolamentare, ancora oggi in
vigore, sulla direzione lavori riguarda le
incompatibilità del direttore dei lavori. La
bozza stabilisce che al direttore dei lavori
sia precluso, dal momento
dell'aggiudicazione e fino al collaudo, di
accettare nuovi incarichi professionali
dall'esecutore. Sugli incarichi già in
essere la bozza precisa che la compresenza
di un rapporto con l'impresa non sia, in se,
elemento ostativo allo svolgimento
dell'incarico di direzione lavori.
Prevede
però che il direttore dei lavori, una volta
conosciuta l'identità dell'impresa
aggiudicataria, debba segnalare l'esistenza
di rapporti in corso e sarà poi onere della
stazione appaltante valutare «l'incidenza di
detti rapporti sull'incarico da svolgere».
Il parametro da adottare per questa
valutazione è quello indicato al comma 4
dell'articolo 42 del codice che rinvia,
anche per la fase di esecuzione del
contratto, alle incompatibilità
normativamente previste per la fase di
aggiudicazione dell'appalto o della
concessione.
La stazione appaltante dovrà quindi valutare
se il rapporto in corso fra direttore dei
lavori e impresa, «direttamente o
indirettamente», possa «essere percepito
come una minaccia alla sua imparzialità e
indipendenza» nel contesto della fase di
esecuzione. In caso di mancata astensione
dall'assunzione dell'incarico, se il
direttore dei lavori è interno alla stazione
appaltante, l'articolo 42 fatte salve le
ipotesi di responsabilità amministrativa e
penale, prevede che scatti la responsabilità
disciplinare a carico del dipendente
pubblico.
Importante è anche la parte della bozza che
definisce la materia delle varianti in corso
d'opera, disciplinate in via generale
dall'articolo 106 del codice dei contratti
pubblici (modifiche ai contratti in corso).
Il particolare per le varianti che non
superano il 20% del valore del contratto
viene prevista la stipula di un «atto di
sottomissione» dell'impresa per eseguire o
non eseguire (con motivato dissenso) i
lavori di cui alla perizia di variante, ma
senza obbligo di eseguire i lavori alle
stesse condizioni del contratto originario,
il che sembra aprire alla possibilità, ad
esempio, di fissare nuovi prezzi.
Inoltre, la bozza inserisce un obbligo di
comunicazione da parte della stazione
appaltante (da inviare prima che sia
realizzato il 25% dell'importo del
contratto) di procedere alla stipula
dell'atto di sottomissione al fine di
escludere qualsiasi indennizzo a favore
dell'impresa. Da ciò sembra dedursi che se
tale comunicazione non dovesse avvenire,
l'impresa potrebbe chiedere l'indennizzo.
Previsto, infine, anche l'inserimento
dell'obbligo di utilizzare per la
contabilità dei lavori, al posto di «strumenti
elettronici specifici», delle «piattaforme,
anche telematiche, interoperabili a mezzo di
formati aperti non proprietari», per non
limitare la concorrenza tra operatori
(articolo ItaliaOggi del
27.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Più garanzie a chi compra casa.
Diventa obbligatorio il preliminare notarile
trascritto. Nella riforma del fallimento
norma a tutela di chi acquista immobili da
costruire.
Nuove garanzie per chi compra immobili da
costruire. Diventa obbligatorio il
preliminare notarile trascritto.
Lo prevede il disegno di legge delega n.
2681 (Atto
Senato n. 2681) per la riforma
delle discipline della crisi di impresa e
dell'insolvenza definitivamente approvato
dal Parlamento nella seduta dell'11 ottobre
scorso.
L' art. 12 (Garanzie in favore degli
acquirenti di immobili da costruire) prevede
in particolare che il Governo è delegato ad
adottare (entro 12 mesi) disposizioni in
materia di tutela dei diritti patrimoniali
degli acquirenti di immobili da costruire al
fine di garantire il controllo di legalità
da parte del notaio sull'adempimento
dell'obbligo di stipulazione della
fideiussione di cui agli articoli 2 e 3 del
decreto legislativo 20.06.2005, n. 122,
nonché dell'obbligo di rilascio della
polizza assicurativa indennitaria di cui
all'articolo 4 del medesimo decreto
legislativo.
Le nuove norme dovranno stabilire che l'atto
o il contratto avente come finalità il
trasferimento non immediato della proprietà
o di altro diritto reale di godimento su un
immobile da costruire, nonché qualunque atto
avente le medesime finalità, debba essere
stipulato per atto notarile (pubblico o
scrittura privata autenticata) e dovranno
prevedere l'adempimento dell'obbligo
assicurativo a pena di nullità relativa del
contratto.
Il legislatore ha preso atto della parziale
disapplicazione della Legge 2005/122 nella
parte relativa all'obbligo, a favore del
consumatore promissario acquirente di un
immobile da costruire e a carico del
costruttore, di prestare fideiussione su
caparre e acconti versati e rilasciare una
polizza assicurativa decennale per i danni
derivanti da rovina o da gravi difetti della
costruzione. Secondo i dati di
Assocond-Conafi, dall'entrata in vigore
della Legge n. 122, le famiglie coinvolte
nei fallimenti del settore edilizio sono
circa 100 mila con danni superiori ai 2,5
miliardi di euro. Il 70% delle nuove
costruzioni è stato venduto senza garanzia
fideiussoria.
Questo è purtroppo l'esito di una norma la
cui applicazione è stata lasciata al
mercato. La mancanza di un soggetto terzo
che controllasse il rispetto degli obblighi
di legge lasciato al volontario e prudente
apprezzamento delle parti ha prodotto
risultati evidentemente insoddisfacenti. Il
notaio viene quindi chiamato in causa per il
suo ruolo di garante della legalità che
rimette in equilibrio le asimmetrie
informative nel rapporto tra contraente
forte (costruttore) e contraente debole
(acquirente consumatore).
Si tratta di un ulteriore tassello che mira
a rafforzare le garanzie per chi compra casa
e a rendere sempre più sicuro il sistema
immobiliare, anche a seguito della recente
entrata in vigore della norma sul deposito
prezzo a tutela degli acquirenti di
immobili: alle parti di un atto notarile è
concessa infatti la facoltà di chiedere al
notaio che venga depositato su apposito
conto dedicato (soggetto a rigide regole di
separazione e securizzazione) il prezzo,
ovvero il saldo, oltre alle somme destinate
all'estinzione di altri gravami o spese non
pagate (per esempio, spese condominiali o
ipoteche a garanzia di mutui da estinguere)
e di svincolare la somma al venditore solo a
seguito dell'esito positivo dei controlli
successivi alla stipula e degli adempimenti
effettuati dal notaio
(articolo ItaliaOggi del
21.10.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Corruzione. Tutelati i dipendenti
«spioni».
Maggiore tutela per i dipendenti nel settore
pubblico e privato che denunciano casi di
corruzione nella pubblica amministrazione o
nell'azienda in cui lavorano.
È l'obiettivo della legge sul cosiddetto
whistleblowing approvata ieri al Senato (Atto
Senato n. 2208 - Disposizioni
per la tutela degli autori di segnalazioni
di reati o irregolarità di cui siano venuti
a conoscenza nell'ambito di un rapporto di
lavoro pubblico o privato).
Il provvedimento, che torna alla camera,
prevede che il pubblico dipendente che,
nell'interesse dell'integrità della pubblica
amministrazione, segnali al responsabile
della prevenzione della corruzione e della
trasparenza o all'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), o denunci
all'autorità giudiziaria ordinaria o a
quella contabile, condotte illecite di cui è
venuto a conoscenza in ragione del proprio
rapporto di lavoro non possa essere
sanzionato, demansionato, licenziato,
trasferito, o sottoposto ad altra misura
organizzativa avente effetti negativi,
diretti o indiretti, sulle condizioni di
lavoro determinata dalla segnalazione.
Tutela che si estende anche ai collaboratori
o consulenti, nonché ai lavoratori ed ai
collaboratori, a qualsiasi titolo, di
imprese fornitrici di beni o servizi e che
realizzino opere in favore
dell'amministrazione pubblica
(articolo ItaliaOggi del
19.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Rurali, accatastamento limitato.
Obbligo solo per immobili dotati di
autonomia funzionale. Uncem Piemonte ha
predisposto una nota alla luce dei
chiarimenti delle Entrate.
L'obbligo di accatastamento dei fabbricati
rurali riguarda solo gli immobili dotati di
autonomia funzionale e reddituale non ancora
censiti al Catasto edilizio urbano.
Tuttavia, per gli altri fabbricati deve
essere segnalata all'Agenzia delle entrate
l'assenza dell'obbligo di dichiarazione.
Il chiarimento rispetto alla procedura
prevista dall'art. 13, comma 14-ter, del dl
201/2011 è contenuto nella
nota 13.10.2017
diffusa dall'Uncem Piemonte, che raccoglie i
chiarimenti forniti dall'amministrazione
finanziaria in una serie di incontri con i
rappresentanti dei comuni montani per
dirimere le numerose problematiche segnalate
da sindaci e tecnici.
Rientrano fra gli immobili da accatastare
tutti quelli dotati di autonomia funzionale
e reddituale, non ancora censiti al Catasto
edilizio urbano.
In tal caso, è obbligatorio procedere
all'accatastamento dell'immobile, con
l'ausilio di un tecnico abilitato.
Gli immobili che non rientrano nell'obbligo
di dichiarazione sono invece quelli elencati
all'art. 3, comma 2 e 3, del dm 29.02.1998, n. 28, e cioè: fabbricati o loro
porzioni in corso di costruzione o di
definizione; costruzioni inidonee a
utilizzazioni produttive di reddito, a causa
dell'accentuato livello di degrado (collabenti);
lastrici solari e aree urbane; manufatti con
superficie coperta inferiore a 8 mq; serre
adibite alla coltivazione e protezione delle
piante sul suolo naturale; vasche per
l'acquacoltura o di accumulo per
l'irrigazione dei terreni; manufatti isolati
privi di copertura; tettoie, porcili,
pollai, casotti, concimaie, pozzi e simili,
di altezza utile inferiore a 1,80 m, purché
di volumetria inferiore a 150 mc; manufatti
precari, privi di fondazione, non
stabilmente infissi al suolo. Inoltre, non
sono soggetti all'obbligo di dichiarazione i
fabbricati diruti (ruderi).
L'assenza
dell'obbligo di dichiarazione dovrà essere
segnalata all'ufficio dell'Agenzia che ha
trasmesso l'avviso bonario, utilizzando il
modello cartaceo appositamente predisposto
ed allegato all'avviso medesimo oppure il
canale telematico disponibile sul sito
istituzionale. È necessario segnalare
all'ufficio con le medesime modalità anche
il caso in cui sul terreno in precedenza
occupato da fabbricati rurali sia praticata
una coltivazione. In tali casi, non verrà
contestata alcuna sanzione.
Nel caso in cui risulti invece sussistente
l'obbligo di accatastamento del fabbricato
rurale, si procederà alla contestazione
della prevista sanzione (min 1.032,00),
salvo che l'ufficio non riceva, in tempo
utile, l'atto di aggiornamento (Docfa, oltre
al precedente Pregeo) e il contestuale
pagamento della sanzione in misura ridotta,
così perfezionandosi il ravvedimento operoso
(1/6 del minimo, pari a 172,00).
La mera segnalazione della perdita dei
requisiti di ruralità non è condizione
sufficiente a regolarizzare la posizione
catastale e si rende comunque necessario
presentare un atto di aggiornamento (Docfa).
La nota ricorda, infatti, che l'obbligo di
accatastamento sussiste in ogni caso per i
fabbricati che passano dalla categoria degli
esenti a quella dei soggetti all'imposta. In
tal caso l'Ufficio verificherà la data
dichiarata di perdita dei requisiti, al fine
di valutare i presupposti della potestà
sanzionatoria. Si rammenta che tale potestà
decade il 31 dicembre del quinto anno
successivo a quello in cui è avvenuta la
violazione.
A beneficio dei professionisti incaricati,
si segnala che, ai fini dell'accatastamento
Docfa è stato previsto l'utilizzo della
tipologia «Fabbricato ex rurale - art. 2,
comma 36 o 37, dl n. 262/06». Nella
dichiarazione i professionisti dovranno
indicare, nel campo «data ultimazione
lavori», la data in cui si è verificato il
«caso d'uso», specificando tale evento nelle
«note relative al documento e relazione
tecnica» (cosiddetto «caso d'uso»:
trasferimento di diritti reali, mutazione
nello stato giuridico del bene o perdita dei
requisiti di ruralità ai fini fiscali)
(articolo ItaliaOggi del
18.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia, solo 5 regioni a
norma. Regolamento tipo ignorato da 10 enti a
statuto ordinario. A
distanza di un anno dal varo delle nuove
norme (e a termini scaduti) la situazione è confusa.
Ad oggi solo cinque regioni, su 15 a statuto
ordinario, hanno recepito con propria legge
o delibera il «regolamento edilizio tipo».
Parliamo delle regioni Campana,
Emilia-Romagna, Lazio, Liguria e Puglia. Il
termine per il recepimento da parte delle
regioni ordinarie è oramai scaduto lo scorso
18 aprile. Ma per comuni e regioni che non
si sono adeguati nei termini non è prevista
l'applicazione di alcuna sanzione.
È con
l'intesa del 20.10.2016 (pubblicata
sulla Gazzetta Ufficiale del 16.11.2016 n. 268) sottoscritta tra governo,
regioni e comuni che è stato adottato il
regolamento edilizio tipo (allegato 1), le
definizioni uniformi (allegato A) e la
raccolta delle disposizioni nazionali in
materia edilizia (allegato B).
L'intesa
della Conferenza unificata (si veda ItaliaOggi del 21.10.2016) prevedeva,
in via generale, che il governo, le regioni
ordinarie e gli enti locali si impegnano ad
utilizzare le definizioni uniformi nei
propri provvedimenti legislativi e
regolamentari, che sono adottati dopo il 20.10.2016 (data di sottoscrizione
dell'intesa). E stabiliva che le regioni a
statuto ordinario entro il 18.04.2017
(cioè, 180 giorni dall'adozione dell'intesa)
dovessero provvedere a recepire lo schema di
regolamento edilizio tipo e le definizioni
uniformi (potendo anche personalizzarle).
Nell'atto di recepimento le regioni
stabiliscono i metodi e le procedure (non
superiori a 180 giorni) entro cui i comuni
devono adeguare i propri regolamenti edilizi
per conformarli allo schema di regolamento
edilizio tipo.
Se la regione recepisce il regolamento
edilizio e il comune non si adegua nei
termini. L'intesa stabilisce che se il
comune non si adegua a quanto previsto dalla
regione le definizioni uniformi (allegato A)
e le disposizioni sovraordinate in materia
edilizia (allegato B) trovano diretta
applicazione, prevalendo sulle disposizioni
comunali con esse incompatibili.
Se la regione non si adegua. In caso di
mancato recepimento da parte della regione i
comuni possono comunque provvedere
all'adozione dello schema di regolamento
edilizio tipo e dei relativi allegati.
Cosa succede se né la regione né il comune
provvedono all'adeguamento. L'intesa non
disciplina né poteri sostitutivi né sanzioni
se la regione e il comune non si adeguano ai
relativi contenuti. Vi è unicamente un
impegno a realizzare delle attività di
monitoraggio sull'attuazione del regolamento
edilizio, con cadenza almeno annuale.
Impostazione tipo del regolamento. Il
regolamento edilizio tipo è suddiviso in due
parti. Nella prima, rubricata «principi
generali e disciplina generale in materia
edilizia», è richiamata e non riprodotta la
disciplina generale dell'attività edilizia
operante in modo uniforme su tutto il
territorio nazionale e regionale.
Nella
seconda, denominata «disposizioni
regolamentari comunali in materia edilizia»,
è raccolta la disciplina regolamentare in
materia edilizia, di competenza comunale, la
quale, sempre, al fine di assicurare la
semplificazione e l'uniformità della
disciplina edilizia, deve essere ordinata
nel rispetto di una struttura generale
valevole su tutto il territorio statale.
I
requisiti tecnici integrativi devono essere
espressi attraverso norme prestazionali, che
fissino risultati da perseguirsi nelle
trasformazioni edilizie. Le prestazioni da
raggiungere potranno essere prescritte in
forma quantitativa, ossia attraverso
l'enunciazione di azioni da praticarsi
affinché l'intervento persegua l'esito
atteso.
Le 42 definizioni allegate allo
schema di regolamento rappresentano una
sorta di mini vocabolario, per cui termini
come «porticato», «tettoia» o «veranda»
avranno lo stesso significato in tutta la
penisola
(articolo ItaliaOggi del
13.10.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Lavori
stradali come nella Ue. L'accordo quadro solo
con progetti esecutivi in gara. Risposta
dell'Anac al ministero delle infrastrutture
sugli obblighi di progettazione.
Per affidare nuovi lavori con l'accordo
quadro occorre procedere alla preventiva
redazione del progetto esecutivo, da porre a
base di gara.
È quanto ha affermato
l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac)
in una lettera trasmessa nei giorni scorsi
al Ministero delle infrastrutture in merito
all'utilizzazione, nel settore dei lavori,
dell'istituto oggi disciplinato
dall'articolo 54 del nuovo codice dei
contratti pubblici e reso di uso
generalizzato nei settori ordinari dalle
direttive europee del 2014, sulla scia di
quanto avvenuto nel resto d'Europa, a
partire dalla Gran Bretagna.
La lettera dell'Anac riguarda un appalto
stradale bandito con un accordo quadro
quadriennale (circa 130 milioni), diviso in
tre lotti da aggiudicare ad un solo
operatore economico per ogni lotto. Così
facendo la stazione appaltante poneva in
gara il progetto definitivo e non quello
esecutivo; da ciò emergevano le perplessità
del ministero delle infrastrutture che
chiamava in causa l'Autorità presieduta da
Raffaele Cantone.
Il parere dell'Anac, dopo un contraddittorio
con la stazione appaltante, è arrivato nei
giorni scorsi ed ha ribadito che devono
essere tenuti fermi «gli obblighi di
progettazione previsti dal Codice» e la
conseguente necessità di porre a base di
gara un progetto esecutivo, anche perché
soltanto in questo modo, ha detto l'Anac, si
salvaguarda un principio fondamentale del
nuovo codice, cioè la centralità del
progetto. L'Autorità ha segnalato inoltre
che si tratta anche di garantire ulteriori
esigenze di tutela del mercato attraverso
l'adeguata conoscenza delle caratteristiche
dell'intervento da realizzare.
Viene quindi censurata la procedura seguita
(accordo quadro sulla base di un progetto
definitivo) e di fatto si mette in
condizione la stazione appaltante di
rivedere il percorso seguito.
Il problema affrontato dall'Autorità mette
in evidenza una distonia della stessa
normativa del 2016, peraltro non oggetto di
intervento da parte del primo decreto
correttivo (56/2017). Se infatti da una
parte va salvaguardato il principio
dell'affidamento di lavori sulla base del
progetto esecutivo (derogato per alcune
specifiche fattispecie dal decreto 56 quali
l'elevato contenuto tecnologico e
impiantistico e le manutenzioni fino a 2,5
milioni), dall'altra parte va anche messo in
evidenza che è lo stesso codice dei
contratti pubblici a individuare la
casistica applicativa dell'accordo quadro.
In particolare, in base all'articolo 3,
comma 1, lettera iii) lo strumento serve a
«stabilire le clausole relative agli appalti
da aggiudicare in un dato periodo in
particolare per quanto riguarda i prezzi e
se del caso le quantità previste».
Appare evidente la contraddizione interna
allo stesso codice. Le stesse direttive
europee, ai «considerando nn. 60 e 61», dopo
avere affermato che si tratta di una formula
«ampiamente utilizzata e considerata come
tecnica di aggiudicazione efficiente in
tutta Europa», fanno chiaramente intendere
che si tratta di uno strumento flessibile
che consente libertà nell'affidamento degli
appalti; nel contempo si sottolinea anche
l'esigenza di indicare nei documenti di gara
i criteri su cui si baserà l'affidamento (le
quantità, «il valore o le caratteristiche
dei lavori», compresa l'esigenza di un grado
di servizio più elevato o di sicurezza
rafforzato).
Soprattutto, la direttiva precisa che
«l'accordo quadro non dovrebbe limitare o
distorcere la concorrenza». In altre parole
l'accordo quadro va applicato «cum grano
salis», e lo ha ricordato anche l'Anac,
bilanciando le esigenze della stazione
appaltante con quelle del mercato. E questo
prima ancora di mettere d'accordo il codice
con se stesso e, in particolare, l'articolo
3 con l'articolo 54 e con il successivo
articolo 59 (articolo ItaliaOggi del
13.10.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Rc avvocati, obbligo prorogato. A
disposizione altri 30 giorni per
sottoscrivere la polizza. Il ministero della
giustizia rinvia l'adempimento a causa del
ritardo delle istruzioni.
Proroga a tempo scaduto per l'assicurazione
obbligatoria degli avvocati. Nel giorno
dell'entrata in vigore dell'obbligo, per
tutti i legali, di dotarsi di una polizza a
copertura dei rischi derivanti
dall'esercizio dell'attività professionale e
degli infortuni, è stato infatti pubblicato
in Gazzetta Ufficiale (n. 238 di ieri) un
decreto del ministro della giustizia del 10
ottobre scorso che ne dispone il rinvio di
30 giorni.
Motivo? Il Consiglio nazionale
forense è in ritardo con il perfezionamento
della procedura di definizione della
convenzione collettiva che offre agli
iscritti una polizza a condizioni di
particolare favore.
Lo scrive lo stesso
ministro della giustizia, Andrea Orlando,
all'interno del decreto, anticipato ieri dal Cnf agli ordini territoriali, alle unioni
regionali forensi e alla Cassa forense.
Ordini e avvocati, infatti, aspettavano da
tempo le istruzioni del Cnf in merito alla
polizza in convenzione, arrivate solo a
poche ore dall'entrata in vigore degli
obblighi previsti dal dm 22.09.2016
(si veda ItaliaOggi di ieri).
La compagnia
che si è aggiudicata il bando di gara è
infatti Aig Europe, e i punti qualificanti
della polizza presentata dal Cnf sono, tra
l'altro: la copertura di tutti i danni
provocati nell'esercizio dell'attività, sia
patrimoniali, sia non patrimoniali,
indiretti, permanenti, temporanei, futuri,
anche per colpa grave, la copertura della
responsabilità civile derivante da fatti
colposi o dolosi di collaboratori,
praticanti, dipendenti, sostituti
processuali.
È inoltre prevista la copertura
della responsabilità per danni derivanti
dalla custodia di documenti, somme di denaro
titoli e valori ricevuti in deposito, la
copertura della responsabilità solidale
dell'avvocato, la retroattività illimitata,
la ultrattività illimitata in caso di
cessazione dell'attività. In caso di
sinistro, poi. È previsto il divieto di
recesso da parte dell'assicuratore, la
copertura Rc verso terzi e prestatori
d'opera, la facoltà di reintegro del
massimale in caso di sinistro.
I premi
partono da 117 euro per i giovani avvocati
ed è possibile effettuare combinazioni
assicurative senza franchigia. Per fare
alcuni esempi, secondo la convenzione Cnf-Aig, l'avvocato con fatturato fino a 15
mila euro, massimale da 350 mila euro e
nessuna franchigia paga un premio di 146
euro, se invece il fatturato va da 70 mila a
100 mila euro, il massimale è pari a un
milione e la franchigia a 250 euro, il
premio è di 289 euro.
Per ogni ordine
territoriale che aderirà alla polizza del Cnf, è previsto uno sconto sui premi
aggiudicati a gara in funzione del numero di
adesioni alla convenzione: se compreso tra
il 5 e il 10% degli iscritti all'albo, lo
sconto è del 5%, se tra il 10 e il 15%, lo
sconto sarà del 10%
(articolo ItaliaOggi del
12.10.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Acqua e birra, meno rifiuti.
Esercenti e produttori all'appello del vuoto
a rendere. Dal 10 ottobre in vigore il
dm sul riutilizzo dei contenitori.
Sperimentazione da febbraio.
Meno rifiuti da gestire dopo la vendita al
pubblico di birra e acqua minerale
all'interno di bar, ristoranti, alberghi,
residenze di villeggiatura e altri punti di
consumo. E spazio invece al riutilizzo, più
e più volte, dei contenitori impiegati, a
tutto vantaggio dell'ambiente e, almeno dal
punto di vista del ritorno d'immagine, anche
degli esercenti che si riveleranno «ecofriendly».
Sono gli obiettivi del decreto ministeriale
n. 142/2017, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale del 25 settembre scorso e in
vigore da martedì 10 ottobre, che introduce
il sistema del «vuoto a rendere» (Var) su
adesione volontaria che sarà oggetto di
sperimentazione per un anno, dal 07.02.2018 al
07.02.2019.
I titolari degli esercizi che decideranno di
aderire saranno inseriti in un registro di
virtuosi pubblicato dal ministero
dell'ambiente sul web e potranno ottenere un
attestato di benemerenza da esporre nel
proprio punto di consumo.
Il consumatore non dovrà fare nulla, né
tantomeno il nuovo sistema potrà far
lievitare il prezzo della birra o dell'acqua
acquistata e consumata nel locale (le nuove
regole riguardano il solo consumo fuori
casa).
Le norme.
La novità è stata introdotta dal «Collegato
ambientale» o «Collegato Green economy»,
vale a dire la legge n. 221/2015 che ha
aggiunto l'articolo 219-bis (rubricato
«Sistema di restituzione di specifiche
tipologie di imballaggi destinati all'uso
alimentare») al Codice ambientale, il
decreto legislativo n. 152/2006.
L'art. 219-bis, in particolare, prevede che
«al fine di prevenire la produzione di
rifiuti di imballaggio e di favorire il
riutilizzo degli imballaggi usati (...) è
introdotto, in via sperimentale e su base
volontaria del singolo esercente, il sistema
del vuoto a rendere su cauzione per gli
imballaggi contenenti birra o acqua minerale
serviti al pubblico da alberghi e residenze
di villeggiatura, ristoranti, bar e altri
punti di consumo».
La sperimentazione avrà
durata di 12 mesi, al termine dei quali,
continua la norma, «si valuterà, sulla base
degli esiti della sperimentazione stessa e
sentite le categorie interessate, se
confermare e se estendere il sistema del
vuoto a rendere ad altri tipi di prodotto
nonché ad altre tipologie di consumo».
È sempre l'art. 219-bis del Codice
ambientale a prevedere, al comma 4,
l'adozione di un regolamento che disciplini
le modalità della sperimentazione e
stabilisca forme di incentivazione del
sistema di Var e i valori cauzionali per
ogni tipologia di imballaggio. Regolamento
adottato con decreto del ministero
dell'ambiente n. 142/2017 in vigore da
martedì 10 ottobre.
Come funzionerà la filiera
del vuoto a rendere.
I titolari dei punti di consumo potranno
aderire al sistema compilando un modulo ad
hoc (facsimile in pagina), al momento
dell'acquisto dell'acqua e della birra
contenuta in imballaggi riutilizzabili, e
trasmettendo o consegnando lo stesso modulo
al produttore o al distributore delle
bevande acquistate al momento della consegna
degli imballaggi pieni.
I distributori e i produttori di acqua e
birra dovranno informare gli esercenti sulle
bevande commercializzate in imballaggi
riutilizzabili e dovranno garantire la
restituzione dell'imballaggio medesimo.
Il dm 142/2017 ha previsto che la
sperimentazione abbia inizio dal 120° giorno
successivo all'entrata in vigore del
regolamento, dunque partirà il 07.02.2018.
Da martedì 10 ottobre partirà inoltre un
periodo di 60 giorni entro il quale i
produttori di bevande dovranno comunicare al
ministero dell'ambiente l'adesione alla
filiera indicando il marchio e la linea di
birra o di acqua minerale e le
caratteristiche del relativo imballaggio
(materiale, volume, peso e numero di
turnazioni), inviando i dati per via
telematica all'indirizzo vuotoarendere@minambiente.it
o con le altre modalità indicate dal
ministero sul proprio sito web.
Al momento dell'acquisto delle bevande, il
titolare del bar, ristorante o albergo dovrà
versare una cauzione che sarà recuperata al
momento della restituzione dell'imballaggio
vuoto.
L'importo della cauzione sarà proporzionale
al volume dell'imballaggio (si veda tabella)
e sarà ricompreso fra 0,05 e 0,3 euro. In
ogni caso, si specifica nel decreto, la
cauzione in alcun modo potrà comportare
aumento del prezzo d'acquisto per il
consumatore e dovrà rimanere invariato in
tutte le fasi di commercializzazione.
Le modalità per la gestione dei vuoti,
nonché i tempi di ritiro e restituzione,
verranno concordati fra le imprese
interessate.
Incentivi.
Per chi aderisce sono previsti benefici di
tipo pubblicitario. Gli operatori aderenti
alla sperimentazione del vuoto a rendere
saranno infatti inseriti in un registro
predisposto dal dicastero, pubblicato sul
sito istituzionale e aggiornato con cadenza
mensile. Il ministero concederà a tali
operatori un attestato di benemerenza che
potrà essere affisso nei punti di consumo
(articolo ItaliaOggi
Sette del
09.10.2017). |
TRIBUTI: Residenza
disgiunta, caos Imu. La tesi del Mef appare
in contrasto con le norme del dl 201. Uffici
tributi e contribuenti attendono regole
certe in vista della scadenza del 31/12.
Il 31.12.2017, termine per accertare le
violazioni Imu del 2012, si avvicina e da
anni sia articoli sia risposte a quesiti,
facendosi forza di quanto riportato dalla
circolare del Mef 3/Df del 2012, riferiscono
che due coniugi con residenza anagrafica e
dimora abituale in due distinti immobili
ubicati in comuni diversi possono usufruire
entrambi delle agevolazioni riservate
all'abitazione principale. Ma ne siamo
proprio certi?
L'art. 13, comma 2, del dl 201/2011
definisce abitazione principale «l'immobile
iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio
urbano come unica unità immobiliare, nel
quale il possessore e il suo nucleo
familiare dimorano abitualmente e risiedono
anagraficamente». Da questa enunciazione si
comprende che per poter considerare un
immobile abitazione principale bisogna che
siano rispettati una serie di requisiti, con
la conseguenza che se tutto il nucleo
familiare (del quale un coniuge fa
sicuramente parte) non risiede
anagraficamente e non dimora abitualmente in
un'unica unità abitativa ci troviamo di
fronte ad un altro fabbricato.
L'art. 13 dispone inoltre che «nel caso in
cui i componenti del nucleo familiare
abbiano stabilito la dimora abituale e la
residenza anagrafica in immobili diversi
situati nel territorio comunale, le
agevolazioni per l'abitazione principale e
per le sue relative pertinenze in relazione
al nucleo familiare si applicano a un solo
immobile».
In questo caso i due immobili non
rientrerebbero nel concetto di «abitazione
principale», proprio perché non in possesso
di tutti i requisiti richiesti, ma si
prevede la possibilità di applicare, per uno
di questi, «le agevolazioni per l'abitazione
principale». Il combinato disposto delle due
frasi non sembrerebbe però affermare quello
che scrive il Mef poiché non limita
assolutamente nulla (non avendo nulla da
limitare) considerato che gli immobili cui
si riferisce in partenza sarebbero altri
fabbricati.
Il fatto che due coniugi non possano
considerare abitazione principale due
immobili in due comuni diversi sembrerebbe
rafforzato analizzando l'evoluzione che ha
avuto l'art. 13, comma 2, che inizialmente
indicava il solo possessore mentre dal
29/04/2012, con l'introduzione del dl
16/2012, è diventato quello attuale facendo
espressamente riferimento al nucleo
familiare e introducendo la possibilità di
scelta nel caso i due coniugi risiedano
all'interno dello stesso territorio
comunale. Se il legislatore fosse stato in
linea con quanto stabilito dal Mef avrebbe
avuto necessità di variare la definizione
iniziale?
La risposta sembrerebbe essere «no», in
quanto, avendola variata, ha portato la
definizione dell'abitazione principale a
essere più restrittiva sia di quella
iniziale Imu sia di quella valida per la
vecchia Ici.
Al momento non si registrano sentenze della
Corte di cassazione che riguardano
l'argomento sulla nuova Imu (solo sentenze
di Ctp che tendono a essere favorevoli ai
comuni) ma ne sono state emesse ai fini Ici,
per la quale la Suprema corte ha più volte
affermato (ad es. sentenza n. 14389/2010 o
la recente Ordinanza n. 15444/2017) che
l'agevolazione spetta esclusivamente se
tutti i componenti della famiglia hanno i
requisiti richiesti.
Vista l'analogia delle due imposte
sembrerebbe che anche per la nuova imposta
il ragionamento potrebbe essere uguale e, se
così fosse, quanto affermato nella circolare
del Mef non sarebbe corretto.
In questa complicata situazione, ognuno
potrà farsi la propria idea, ma avere più
certezze da parte del legislatore sarebbe
auspicabile per evitare inutili rischi, da
una parte di contenzioso e dall'altra di
danno erariale, oltre ad agevolare il
rapporto tra uffici tributi e contribuenti
(articolo ItaliaOggi del
06.10.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
su barriere architettoniche. Sì della
camera.
Un regolamento unico dove confluiranno tutte
le norme in materia di abbattimento delle
barriere architettoniche per gli edifici
pubblici e privati e per gli spazi e i
servizi pubblici o aperti al pubblico o di
pubblica utilità.
Lo prevede la proposta di legge approvata
ieri (Atto
Camera n. 1013) a larghissima
maggioranza dall'aula della camera (438 voti
a favore, 5 astenuti, un voto contrario). Il
testo, approvato in prima lettura, passa
all'esame del Senato.
L'articolo 1 stabilisce che il regolamento
venga emanato «entro sei mesi dalla data di
entrata in vigore» della legge, su proposta
del ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, di concerto con il ministro del
lavoro e delle politiche sociali e con il
ministro dell'economia e delle finanze,
previa deliberazione del Consiglio dei
ministri. Attualmente la disciplina
sull'abbattimento delle barriere
architettoniche è contenuta da una parte,
nel dpr n. 503/1996 e, dall'altra, nel dm
236/1989, due provvedimenti che l'articolo 2
della legge abroga.
L'articolo 3 prevede la ricostituzione di
una commissione permanente «con il compito
di individuare la soluzione a eventuali
problemi tecnici derivanti dall'applicazione
della legge. Alla commissione spetterà
elaborare proposte di modifica e
aggiornamento, anche finalizzate a
semplificare la realizzazione di innovazioni
tecnologiche, dirette all'eliminazione delle
barriere architettoniche, nelle parti comuni
degli edifici esistenti e nelle loro
pertinenze. Non solo. La commissione dovrà
anche adottare linee guida tecniche basate
sulla progettazione universale prevista
dalla Convenzione delle Nazioni Unite e
procedere a un monitoraggio sistematico
dell'attività delle pubbliche
amministrazioni sull'adozione di piani di
eliminazione delle barriere architettoniche.
I membri della Commissione saranno nominati
dal ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, sentita la Conferenza
stato-regioni. Ai componenti della
Commissione non saranno corrisposti
compensi, gettoni di presenza o rimborsi di
spese
(articolo ItaliaOggi del 04.10.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Ecobonus,
istruzioni per l'uso. Detrazione anche per
le spese 2017 per la domotica. La guida
dell'Agenzia delle entrate sulle
agevolazioni fiscali per il risparmio
energetico.
L'ecobonus del 70 o del
75% va calcolato sull'ammontare complessivo
delle spese non superiore a 40.000 euro,
moltiplicato per il numero di unità
immobiliari che compongono l'edificio.
È quanto si legge nell'ultima guida «Le
agevolazioni fiscali per il risparmio
energetico» dell'Agenzia delle entrate del
12.09.2017. Il vademecum è stato aggiornato
per adeguarne il contenuto alle recenti
modifiche che hanno interessato la
disciplina dell'ecobonus.
Nella guida viene dunque confermato che le
detrazioni potenziate del 70-75% sono
calcolate su un ammontare complessivo delle
spese non superiore a 40.000 euro,
moltiplicato per il numero delle unità
immobiliari che compongono l'edificio.
Inoltre, il documento chiarisce che la
detrazione è stata estesa anche alle spese
effettuate nel 2017 per l'acquisto,
l'installazione e la messa in opera di
dispositivi multimediali per il controllo a
distanza degli impianti di riscaldamento,
produzione di acqua calda o climatizzazione
delle unità abitative, finalizzati ad
aumentare la consapevolezza dei consumi
energetici da parte degli utenti e a
garantire un funzionamento più efficiente
degli impianti.
Inoltre, la guida a cura dell'Agenzia delle
entrate, pubblicata sul sito
www.agenziaentrate.gov.it, illustra le
novità dell'ecobonus relative alla cessione
del credito, alla luce del recente
provvedimento n. 165110 del 28.08.2017.
La nuova guida.
In particolare, la guida
riepiloga la disciplina della detrazione
Irpef/Ires per gli interventi di
riqualificazione energetica degli edifici,
realizzati sia su singole abitazioni che su
parti comuni condominiali, anche alla luce
delle modifiche introdotte, da ultimo, dalla
legge di Bilancio 2017.
La legge n. 232/2016, oltre a confermare la
proroga, fino al 31.12.2017, della
detrazione Irpef/Ires nella misura
«potenziata» del 65% per i lavori di
riqualificazione energetica su edifici, ha
previsto, altresì, per i soli interventi che
riguardano l'intero condominio, la proroga
della detrazione fino al 31.12.2021.
Inoltre, sempre con riferimento ai lavori di
efficienza energetica su parti comuni
condominiali, è stato previsto un aumento
della percentuale di detrazione in ragione
dell'intervento effettuato, che dalla misura
ordinaria del 65% viene elevata al:
- 70% se l'intervento riguarda l'involucro
dell'edificio, con un'incidenza superiore al
25% della superficie disperdente lorda
dell'intero edificio;
- 75% se l'intervento è finalizzato a
migliorare la prestazione energetica
invernale ed estiva e consegua almeno la
qualità media di cui al dm 26.06.2015.
Il bonus 65%.
Non ci sono grosse novità sul
fronte dell'ecobonus 65% sulle singole
abitazioni per cui sono state prorogate le
regole dell'anno scorso: fino al 31.12.2017
coloro che eseguono interventi di
riqualificazione energetica sulle singole
unità immobiliari hanno diritto a una
detrazione fiscale del 65% (dall'Irpef e
dall'Ires) da spalmare su 10 anni.
Per gli interventi realizzati su parti
comuni di edifici condominiali, invece, la
legge di bilancio 2017 (legge n. 232/2016)
ha prorogato l'ecobonus 65% fino al
31.12.2021.
L'Agenzia delle entrate ricorda anche che la
detrazione vale anche, relativamente alle
spese effettuate tra il 01.01.2016 e il
31.12.2017, per l'acquisto,
l'installazione e la messa in opera di
dispositivi multimediali per il controllo a
distanza degli impianti che ne consentano
anche la regolazione.
Nella guida delle Entrate si specifica che
si ha diritto all'agevolazione anche quando
il contribuente finanzia la realizzazione
dell'intervento di riqualificazione
energetica mediante un contratto di leasing.
In tale ipotesi, la detrazione spetta al
contribuente stesso (utilizzatore) e si
calcola sul costo sostenuto dalla società di
leasing. Pertanto, non assumono rilievo, ai
fini della detrazione, i canoni di leasing
addebitati all'utilizzatore.
Dal 01.01.2018 l'agevolazione sarà
sostituita con la detrazione (del 36%)
prevista per le spese relative alle
ristrutturazioni edilizie.
Le disposizioni dell'Enea.
Le condizioni richieste dalla norma per
usufruire delle maggiori detrazioni devono
essere asseverate da professionisti
abilitati attraverso l'attestazione della
prestazione energetica degli edifici. L'Enea
potrà effettuare controlli, anche a
campione, su queste attestazioni.
L'attestazione non veritiera, per la quale
il professionista è chiamato a rispondere,
comporta la decadenza dal beneficio.
Sulle detrazioni del 70 e 75% anche l'Enea
ha pubblicato un vademecum.
Per l'invio della documentazione relativa
agli interventi di riqualificazione
energetica di parti comuni degli edifici
condominiali, che possono accedere alle
detrazioni fiscali del 70% o del 75% (fino
al 31.12.2021), deve essere utilizzato
il portale
http://finanziaria2017-condomini.enea.it/.
Per gli altri interventi, invece, va
utilizzato il portale
http://finanziaria2017.enea.it, dedicato
all'invio telematico all'ente della
documentazione necessaria a usufruire delle
detrazioni fiscali del 65% per la
riqualificazione energetica del patrimonio
edilizio esistente.
La cessione del credito.
Per le spese sostenute dal 01.01.2017 al
31.12.2021 per interventi di
riqualificazione energetica di parti comuni
degli edifici condominiali, compresi quelli
che danno diritto alle maggiori detrazioni
del 70 e 75%, i condòmini che, nell'anno
precedente a quello di sostenimento della
spesa, si trovano nella cosiddetta «no
tax area» (incapienti) possono cedere un
credito pari alla detrazione Irpef
spettante.
La cessione può essere disposta in favore
dei fornitori dei beni e dei servizi
necessari alla realizzazione degli
interventi, di altri soggetti privati
(persone fisiche, anche esercenti attività
di lavoro autonomo o d'impresa, società ed
enti) e di istituti di credito e
intermediari finanziari.
I soggetti che ricevono il credito hanno, a
loro volta, la facoltà di cessione.
Si considerano «incapienti» i contribuenti
che hanno un'imposta annua dovuta inferiore
alle detrazioni (da lavoro dipendente,
pensione o lavoro autonomo) spettanti. In
sostanza, sono incapienti i seguenti
contribuenti che nell'anno precedente a
quello in cui hanno sostenuto le spese:
- pensionati con reddito complessivo costituito solo da redditi da
pensione non superiori a 7.500 euro, goduti
per l'intero anno, redditi di terreni per un
importo non superiore a 185,92 euro, reddito
dell'abitazione principale e relative
pertinenze;
- lavoratori dipendenti e i contribuenti con redditi assimilati a
quelli di lavoro dipendente con reddito
complessivo non superiore a 8.000 euro;
- i contribuenti con redditi derivanti da lavoro autonomo o da
un'impresa minore e i possessori di alcuni
«redditi diversi» di importo non superiore a
4.800 euro.
I condòmini appartenenti ai cosiddetti
«condomini minimi» che, non avendo l'obbligo
di nominare l'amministratore, non vi abbiano
provveduto, possono cedere il credito
incaricando un condomino di effettuare gli
adempimenti con le stesse modalità previste
per gli amministratori di condominio.
I titolari di reddito
d'impresa.
Tali soggetti possono fruire della
detrazione solo con riferimento ai
fabbricati strumentali da essi utilizzati
nell'esercizio della loro attività
imprenditoriale (ris. Agenzia delle entrate
n. 340/2008). Per esempio, non possono
usufruire dell'agevolazione le imprese di
costruzione, ristrutturazione edilizia e
vendita, per le spese sostenute per
interventi di riqualificazione energetica su
immobili «merce» (ris. Agenzia delle entrate
n. 303/2008).
Se cambia la titolarità
dell'immobile.
In caso di variazione della titolarità
dell'immobile durante il periodo di
godimento dell'agevolazione, le quote di
detrazione residue (non utilizzate) potranno
essere fruite dal nuovo titolare, salvo
diverso accordo delle parti da indicare
nell'atto di trasferimento.
Questo vale per i trasferimenti a titolo
oneroso o gratuito della proprietà del
fabbricato o di un diritto reale sullo
stesso. Invece, il beneficio rimane sempre
in capo al conduttore o al comodatario
qualora dovesse cessare il contratto di
locazione o comodato. Infine, in caso di
decesso dell'avente diritto, la fruizione
del beneficio fiscale si trasmette, per
intero, esclusivamente all'erede che
conservi la detenzione materiale e diretta
del bene
(articolo ItaliaOggi
Sette del
02.10.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Visite
fiscali, ci penserà l'Inps ma solo se avrà i
soldi E il lavoratore irreperibile rischia
il controllo in ambulatorio. Con il decreto
madia cambieranno a regime anche le fasce di
reperibilità dei dipendenti.
Dal 1° settembre prossimo l'Inps gestirà
anche le visite fiscali dei dipendenti della
scuola.
La novità è prevista dal decreto
legislativo n. 75 del 27.05.2017 (cosiddetto
decreto Madia) che, a regime, prevede anche
l'armonizzazione delle fasce orarie di
reperibilità tra pubblico e privato. Vale a
dire, i periodi di tempo nell'ambito della
giornata, in cui il dipendente non potrà
muoversi da casa per consentire al medico di
effettuare la visita di controllo.
Attualmente le fasce nel settore privato
vanno dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 17,00
alle 19,00. Mentre nel settore pubblico, per
effetto del decreto Brunetta che ne ha
ampliato i termini, sono fissate dalle 9,00
alle 13,00 e dalle 15,00 alle 18,00.
L'istituto nazionale della previdenza
sociale ha già emanato le prime disposizioni
di attuazione con il messaggio 3265 del
09.08.2017. L'ente previdenziale ha spiegato
che sarà costituito un polo unico delle
visite fiscali che dovrà occuparsi anche dei
dipendenti della scuola, che gestirà le
visite e che lo farà su richiesta delle
amministrazioni interessate o anche
d'ufficio. E ha ricordato che le richieste
delle amministrazioni saranno soddisfatte
solo fino alla concorrenza del budget
assegnato dal legislatore pari a 17 milioni
di euro. Che dovranno bastare per coprire le
spese di tutte le viste fiscali che saranno
effettuate nell'intero territorio nazionale.
Pertanto, dopo avere ricevuto la richiesta,
l'Inps verificherà la disponibilità del
budget e, una vota superato, bloccherà le
richieste in eccedenza. In buona sostanza,
dunque, fino a quando ci saranno soldi a
sufficienza per pagare i medici fiscali
l'Inps darà corso alle richieste. Quando i
soldi finiranno le viste fiscali non saranno
più effettuate.
La procedura di richiesta delle visite da
parte delle scuole avverrà via web in modo
automatizzato. Ma nella prima fase il
sistema potrebbe non riconoscere tutte le
amministrazioni aventi titolo all'accesso.
In questi casi, le scuole potranno procedere
autocertificando il proprio titolo e l'Inps
procederà successivamente ad effettuare i
dovuti controlli. Le scuole dovranno
specificare nella richiesta anche se dovrà
essere effettuata o meno la visita
ambulatoriale, nelle modalità già
attualmente previste in caso di assenza del
lavoratore a visita domiciliare, al fine di
consentire la verifica dell'effettiva
sussistenza dello stato di malattia.
L'Inps ha chiarito, inoltre, che dal
01.09.2017 gli applicativi in uso presso
l'istituto saranno adattati al fine di
acquisire i dati dei certificati dei
dipendenti pubblici e disporre un numero
prestabilito di visite d'ufficio. Anche per
le visite mediche di controllo disposte
d'ufficio verrà restituito alle scuole
l'esito, incluse le informazioni circa i
casi di assenza al domicilio e la
conseguente convocazione a visita
ambulatoriale. In caso di assenza del
lavoratore al domicilio a seguito di visita
medica di controllo disposta d'ufficio, si
procederà con l'invito a visita
ambulatoriale in conformità a quanto avviene
per i lavoratori del settore privato.
Nel corso della visita ambulatoriale
dovranno essere valutate soltanto
l'effettiva sussistenza dello stato morboso
e la relativa prognosi, mentre non rientrerà
tra i compiti dell'istituto la valutazione
delle eventuali giustificazioni prodotte.
L'ente previdenziale ha chiarito anche che
il dipendente pubblico è tenuto, qualora
debba assentarsi dal proprio domicilio (per
esempio per sottoporsi a una visita
specialistica), ad avvisare unicamente la
scuola. E dovrà essere quest'ultima ad
avvisare l'Inps
(articolo ItaliaOggi del
22.08.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il Foia non mette a nudo gli atti
di un procedimento disciplinare. PRIVACY/ Il
parere del Garante 254/2017 sul Freedom of
information act.
Il Foia (Freedom of information act) non
scoperchia gli atti del procedimento
disciplinare a carico di un dipendente
pubblico. Vince la riservatezza del singolo.
È quanto indica il Garante della privacy con
il
provvedimento
31.05.2017 n. 254, che bilancia i
diversi interessi, dando prevalenza a quello
del dipendente pubblico a non essere esposto
al pubblico ludibrio.
Tra l'altro, questo il messaggio sotteso al
provvedimento, l'accesso Foia non deve
essere abusato e non è lo stratagemma per
avere tutte le informazioni senza limiti.
Nel caso specifico è stata presentata una
richiesta di accesso civico per ottenere la
copia degli atti relativi alla sanzione
disciplinare inflitta a un dipendente
comunale, che ha impugnato la sanzione
davanti al giudice del lavoro.
Il comune ha negato la copia, sostenendo che
l'accesso generalizzato poteva provocare un
pregiudizio concreto alla protezione dei
relativi dati personali.
Anche il Garante è per il no.
Scrive, infatti, il garante che la
conoscenza delle informazioni contenute
negli atti relativi alla sanzione
disciplinare inflitta al dipendente comunale
unita al citato regime di pubblicità degli
atti oggetto dell'accesso generalizzato è
suscettibile di determinare un pregiudizio
concreto alla tutela della protezione dei
dati personali.
Il Garante aggiunge che, quando l'oggetto
della richiesta di accesso riguarda
documenti contenenti informazioni relative a
persone fisiche non necessarie al
raggiungimento degli scopi tipici
dell'accesso generalizzato (controllo
generalizzato sulla attività della p.a.,
sulla spesa pubblica e partecipazione al
dibattito pubblico), oppure informazioni
personali di dettaglio che risultino
comunque sproporzionate, eccedenti e non
pertinenti, l'ente destinatario della
richiesta, nel dare riscontro alla richiesta
di accesso generalizzato, dovrebbe in linea
generale scegliere le modalità meno
pregiudizievoli per i diritti
dell'interessato.
Nel caso concreto, la legittima esigenza
conoscitiva rappresentata dal richiedente
l'accesso generalizzato dovrebbe trovare
soddisfazione nella conoscenza dei fatti
connessi all'emergenza finanziaria che ha
coinvolto il Comune, nel cui contesto è
maturata la sanzione disciplinare,
indipendentemente dalle valutazioni connesse
alla responsabilità del singolo dipendente.
I documenti richiesti tramite l'accesso
generalizzato contengono invece dati
personali che risultano in ogni caso
sproporzionati, eccedenti e non pertinenti
rispetto alla soddisfazione del bisogno
conoscitivo.
Quindi il comune ha fatto bene a negare
l'accesso civico
(articolo ItaliaOggi
Sette del
31.07.2017). |
APPALTI: Provi Lei, presidente, a fare il Rup.
Lettera a Raffaele Cantone.
Illustrissimo presidente Raffaele Cantone,
Le scrivo, senza alcuna vena polemica, dopo
aver letto sulla stampa un articolo in cui
Lei sostiene che la colpa del caos appalti
sia da attribuire agli amministratori
pubblici che si lavano le mani o addirittura
che boicottano la Sua riforma.
Facile scaricare, come sempre alla parte più
debole del Paese, responsabilità di una
classe politica e dirigente centrale che
vive lontano mille anni luce dalla realtà
dei comuni, in specie quelli piccoli e
piccolissimi.
Non sembra possibile che ogni volta che il
parlamento e il governo mettono mano a una
riforma dimenticano che esiste questa parte
sana, forte e virtuosa della nazione
imponendole norme e procedure impossibili da
applicare integralmente e, soprattutto,
dannose.
Partiamo dal codice appalti: 220 articoli,
50 decreti attuativi, 172 refusi individuati
e corretti. A un anno dall'entrata in vigore
del Codice, con il dlgs correttivo vengono
apportate altre 441 modifiche e viene
stabilita l'approvazione di altri 60 decreti
attuativi. A tutto ciò si aggiungono 1.388
delibere Anac nel 2016 (4 delibere al giorno
compresi sabati e domeniche). Evidentemente
a Roma nessuno sa cosa sia esattamente
un'analisi d'impatto normativo. Il Codice
appalti ha promesso semplificazione, ma solo
a parole. La realtà è ben diversa. E vediamo
perché.
Per i lavori sotto i 40.000 euro, per
esempio, prima si dice che è escluso
l'obbligo di motivazione per affidare
direttamente un lavoro o un servizio ma poi
si ritiene necessario garantire i seguenti
principi enunciati dall'articolo 30: libera
concorrenza, non discriminazione,
trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
economicità, efficacia, tempestività e
correttezza. Gli amministratori locali si
chiedono come si possano rispettare questi
principi se si procede con affidamento
diretto.
Caos assoluto anche per quanto riguarda gli
incentivi per funzioni tecniche. Per
corrisponderli si dovrebbero tagliare gli
incentivi a tutti gli altri istituti
finanziati dal fondo della contrattazione
decentrata. E veniamo al costo della
manodopera. Si rende sempre e comunque
obbligatoria la verifica della congruità dei
costi. L'impresa è tutt'altro che agevole
perché sul piano tecnico le tabelle
ministeriali sul costo del lavoro riportano
costi medi che non possono tenere conto di
particolari agevolazioni o sgravi di cui si
avvantaggi di volta in volta il singolo
operatore economico. Dunque non
difficilmente il costo della manodopera
indicato dall'appaltatore può rivelarsi
inferiore a quello delle tabelle.
Dal Suo
scranno, presidente Cantone, tutto sembra
facile. Provi Lei almeno una volta a fare il
Responsabile unico del procedimento (Rup) in
un piccolo comune e capirebbe le difficoltà
che quotidianamente incontrano gli
amministratori locali. E ancora, per
predisporre i progetti di fattibilità si
richiedono indagini obbligatorie
(geologiche, idrogeologiche, sismiche,
storiche, paesaggistiche, urbanistiche),
verifiche preventive dell'interesse
archeologico, studi preliminari sull'impatto
ambientale, diagnosi energetiche, misure per
la produzione e recupero di energia con
riferimento all'impatto sul piano
economico-finanziario dell'opera.
A questo
punto non siamo in un progetto di
fattibilità, ma davanti a un vero e proprio
strumento di progettazione completo. Ma
quale amministrazione rischierà di buttare
migliaia e migliaia di euro per pagare un
progettista senza avere la certezza del
finanziamento?
Siamo al diluvio burocratico,
generato da burocrazie distanti, non in
grado di interpretare desideri, passioni,
interessi, aspettative, bisogni di
amministratori pubblici che cercano di
garantire i servizi malgrado la legge. Tanto
che mi chiedo: è la corruzione che ostacola
la crescita o l'anticorruzione? Con
osservanza
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: No
profit, riordino a 360 gradi Controlli e
sanzioni più incisivi. Il codice dedicato
punta a razionalizzare vincoli e benefici di
enti e organizzazioni.
Sistema dei controlli e delle sanzioni più
incisivo, anche ad opera degli uffici
registro unico nazionale del Terzo settore
territorialmente competente, regime ad hoc
di determinazione del reddito per le
attività commerciali svolte dagli enti
aventi natura non commerciale,
razionalizzazione e semplificazione dei
regimi contabili semplificati.
Sono queste alcune delle principali novità
che il legislatore ha apportato alla
galassia delle imprese del no profit
attraverso la riforma degli enti del
comparto.
La nuova normativa di riferimento
è il Codice del Terzo settore, ovvero il
testo unico del no profit in cui sono
contenute le norme di carattere giuridico,
fiscale, societario e agevolativo a cui gli
enti di appartenenza dovranno attenersi.
Enti del Terzo settore.
Oltre agli enti del
Terzo settore «tipici» (come le
organizzazioni di volontariato o le imprese
sociali), il codice ammette enti «atipici»
(come le associazioni e le fondazioni),
purché operino senza scopo di lucro e per
finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale, svolgano una o più attività
di interesse generale in forma di azione
volontaria o di erogazione gratuita di
denaro, beni o servizi o di mutualità o di
produzione o scambio di beni o servizi, e
siano iscritti nel Registro unico nazionale
del Terzo settore.
Registro unico del Terzo settore.
Le
informazioni che il registro deve contenere
riguardano denominazione, forma giuridica,
sede legale, sedi secondarie, data di
costituzione, oggetto dell'attività di
interesse generale, partita Iva, patrimonio
minimo, generalità dei soggetti che
ricoprono cariche sociali, ecc. Nel Registro
vanno inoltre iscritte le modifiche
dell'atto costitutivo/statuto, le
deliberazioni di trasformazione, fusione,
scissione, estinzione, liquidazione e
cancellazione ecc. Obbligatorio anche il
deposito dei bilanci e dei rendiconti delle
raccolte fondi svolte nel periodo di
competenza.
In caso di mancato o incompleto deposito
degli atti e dei loro aggiornamenti nonché
di quelli relativi alle informazioni
obbligatorie nel rispetto dei termini
previsti, l'ufficio del Registro unico
procederà a diffidare l'ente ad adempiere ai
propri obblighi, assegnando un termine non
superiore a 180 giorni, decorsi inutilmente
i quali l'ente sarà cancellato dal Registro.
Il deposito degli atti e i relativi
aggiornamenti sono oneri a carico degli
amministratori (art. 2630 c.c.).
Destinazione del patrimonio e assenza dello
scopo di lucro.
La norma che disciplina la
destinazione del patrimonio e l'assenza
dello scopo di lucro è di centrale
rilevanza, in quanto pone un vincolo di
destinazione di eventuali utili (ad
esclusione delle imprese sociali) e del
patrimonio degli enti del Terzo settore allo
svolgimento delle attività di interesse
generale per l'esclusivo perseguimento di
finalità civiche, solidaristiche e di
utilità sociale. In aderenza alla
legislazione previgente, è vietata la
distribuzione sia diretta che indiretta di
utili ed avanzi di gestione, fondi e
riserve, comunque denominati, a fondatori,
associati, lavoratori e collaboratori,
amministratori, ecc.
Si considerano in ogni caso distribuzione
indiretta di utili:
- la corresponsione ad amministratori,
sindaci non proporzionati all'attività
svolta e alle responsabilità assunte;
- la corresponsione a lavoratori subordinati
o autonomi di retribuzioni o compensi
superiori del 40% rispetto a quelli
previsti, per le medesime qualifiche, dai
contratti collettivi;
- l'acquisto di beni o servizi per
corrispettivi che, senza valide ragioni
economiche, siano superiori al loro valore
normale;
- le cessioni di beni e le prestazioni di
servizi, a condizioni più favorevoli di
quelle di mercato, a soci, associati o
partecipanti, ai fondatori, ai componenti
gli organi amministrativi e di controllo, e
loro parenti e affini, salvo che tali
cessioni o prestazioni non costituiscano
l'oggetto dell'attività di interesse
generale dell'ente;
- la corresponsione a soggetti diversi dalle
banche e dagli intermediari finanziari
autorizzati, di interessi passivi, in
dipendenza di prestiti di ogni specie,
superiori di quattro punti al tasso annuo di
riferimento.
Scritture contabili e bilancio.
Gli enti del
Terzo settore devono redigere il bilancio di
esercizio formato dallo stato patrimoniale,
dal rendiconto gestionale, con l'indicazione
delle entrate, dei proventi, delle uscite e
dei costi dell'ente, e dalla relazione di
missione che illustra le poste di bilancio,
l'andamento economico e finanziario
dell'ente e le modalità di perseguimento
delle finalità statutarie. Il bilancio degli
enti del Terzo settore con ricavi, rendite,
proventi o entrate inferiori a 220 mila euro
potrà essere redatto nella forma del
rendiconto finanziario per cassa.
Gli enti
che esercitano la propria attività
principalmente in forma di impresa
commerciale dovranno tenere le scritture
contabili di cui all'art. 2214 c.c. e
depositare il bilancio (da redigere, a
seconda dei casi, ai sensi degli artt. 2423
e segg. 2435-bis o 2435-ter c.c.) presso il
registro delle imprese.
Regime fiscale del social lending.
Al fine
di favorire la raccolta di capitale di
rischio, i soggetti gestori dei portali
online, che intervengono nel pagamento degli
importi percepiti dai soggetti che prestano
fondi attraverso tali portali, nell'ambito
del regime fiscale del c.d. «social lending»,
operano sugli stessi importi una ritenuta a
titolo di imposta con l'aliquota prevista
per i titoli di Stato (12,5%).
Agevolazioni fiscali.
Il legislatore ha
operato una revisione complessiva della
definizione di ente non commerciale, una
razionalizzazione e semplificazione del
regime di deducibilità e detraibilità delle
erogazioni liberali e dei regimi fiscali e
contabili semplificati previsti per gli enti
del Terzo settore; sono state inoltre
introdotte agevolazioni fiscali per favorire
il trasferimento di beni patrimoniali a tali
enti ed è stata rivista l'attuale disciplina
delle Onlus.
Il regime fiscale è stato disegnato tenendo
conto della distinzione tra attività
commerciali e non commerciali svolte, la
quale consente di disciplinare in termini
differenti la fiscalità degli enti che
svolgono l'attività istituzionale con
modalità commerciali rispetto a quelli che
non esercitano (od esercitano solo
marginalmente) l'attività di impresa.
Oltre a consentire di definire meglio
definire il concetto di non commercialità,
la riforma prevede agevolazioni in materia
di imposte sulle successioni e donazioni per
i trasferimenti a favore dell'ente, di
imposta di registro, ipotecaria e catastale,
di social bonus, ecc.
Inoltre, nel volontariato e nella promozione
sociale, la non commercialità è
ulteriormente valorizzata, considerando una
serie di attività nei confronti dei terzi e
degli stessi soci, che non assumono
rilevanza sotto il profilo fiscale.
In terzo luogo, la riforma valorizza sul
piano tributario l'eventuale carattere
commerciale delle attività, principali o
secondarie, esercitate dall'ente, che può
costituire un elemento del tutto fisiologico
in rapporto alle finalità di interesse
generale perseguite.
Per questo, la riforma introduce un regime
ad hoc di determinazione del reddito, avente
carattere opzionale, per le attività
commerciali svolte (in modo non prevalente o
secondario) dagli enti aventi natura non
commerciale, basato su diversi coefficienti
che si applicano, a scaglioni,
sull'ammontare dei ricavi derivanti dalle
prestazioni di servizi o cessioni di beni.
Mentre le disposizioni in materia di social
bonus, di agevolazioni fiscali (detrazioni e
deduzioni in caso di erogazioni liberali)
ecc. entreranno in vigore dal 01.01.2018, le altre disposizioni (per la
determinazione e tassazione del reddito
d'impresa), entreranno progressivamente in
vigore a partire dal periodo d'imposta
successivo all'autorizzazione della
Commissione europea e comunque non prima del
periodo di imposta successivo a quello in
cui diventerà operativo il Registro unico
nazionale.
Controlli.
Il legislatore ha definito gli
ambiti dei controlli interni ed esterni
sugli enti del Terzo settore, che sono
finalizzati ad accertare:
a) la sussistenza e la permanenza dei
requisiti necessari all'iscrizione al
Registro unico nazionale;
b) il perseguimento delle finalità civiche,
solidaristiche o di utilità sociale;
c) l'adempimento degli obblighi derivanti
dall'iscrizione al Registro unico nazionale;
d) il diritto di avvalersi dei benefici
anche fiscali e del 5 per mille derivanti
dall'iscrizione nel Registro;
e) il corretto utilizzo delle risorse
pubbliche, finanziarie e strumentali, ad
essi attribuite.
L'ufficio del Registro unico nazionale
territorialmente competente rispetto alla
sede legale dell'ente sarà il soggetto
competente ad esercitare le attività di
controllo di cui alle lettere a), b) e c),
attraverso accertamenti documentali, visite
ed ispezioni, periodicamente o in tutti i
casi in cui venga a conoscenza di atti o
fatti che possano integrare violazioni alle
disposizioni del codice, anche con
riferimento ai casi di cui alla lettera b).
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Crediti privilegiati per
il volontariato.
Regole e privilegi per le organizzazioni di
volontariato e le associazioni di promozione
sociale. Il legislatore della riforma del
Terzo settore ha riservato a favore di tali
enti diversi strumenti di finanziamento con
l'obiettivo di promuovere anche l'accesso
degli enti no profit ai fondi Ue e in
particolare (ma non solo) a quelli del Fondo
sociale europeo.
Giro di vite invece sul
fronte delle fondazioni e associazioni per
le quali, fra l'altro, corre l'obbligo di
nominare un soggetto incaricato della
revisione legale dei conti al superamento,
per due esercizi consecutivi, di alcuni
parametri di natura patrimoniale.
Accesso al credito agevolato.
La norma
costituisce la riproposizione dell'art. 24,
comma 1, della legge 383/2000, che consente
alle associazioni di promozione sociale e
alle organizzazioni di volontariato che
svolgano attività sulla base di progetti o
risultino affidatarie di servizi di
interesse generale in regime di convenzione
con le pubbliche amministrazioni, di
beneficiare delle forme di agevolazione
creditizia o di garanzie già previste dalle
norme vigenti in favore di cooperative e
loro consorzi (si fa in particolare richiamo
alla legge 24.11.2003, n. 326).
La ratio della norma originaria e della sua
riproposizione è quella di estendere a enti
che per definizione svolgono attività e
servizi di interesse generale e in
particolare lo fanno in regime convenzionale
con le pubbliche amministrazioni, il favor
già riservato dal legislatore agli enti
cooperativi anche in forma consortile.
Crediti privilegiati.
I crediti delle
organizzazioni di volontariato e delle
associazioni di promozione sociale, inerenti
allo svolgimento delle attività di interesse
generale, hanno privilegio generale sui beni
mobili del debitore.
Vengono riproposti estendendoli anche alle
organizzazioni di volontariato, in virtù
della loro peculiare funzione e del
riconoscimento del particolare valore
sociale di tali soggetti, i benefici già
previsti in favore delle associazioni di
promozione sociale dall'articolo 24, commi 2
e 3 della legge n. 383/2000 recante la
disciplina delle associazioni di promozione
sociale.
La ratio della norma risiede nella
«presunzione di meritevolezza» delle
attività di interesse generale di tali
organizzazioni, considerato che le
previsioni dell'art. 2751-bis fanno
riferimento a crediti maturati dai
lavoratori subordinati e parasubordinati,
dai lavoratori autonomi, dagli artigiani e
coltivatori diretti ecc., tutti soggetti che
l'ordinamento ritiene meritevoli di
particolare tutela, tutela che si ritiene di
riconoscere anche a quei soggetti privi di
finalità lucrative che svolgono compiti di
riconosciuto valore sociale.
Accesso al Fondo sociale europeo.
Il
governo, d'intesa con le regioni e con le
province autonome, potrà promuovere ogni
iniziativa per favorire l'accesso delle
associazioni di promozione sociale e delle
organizzazioni di volontariato ai
finanziamenti del Fondo sociale europeo per
progetti finalizzati al raggiungimento degli
obiettivi istituzionali, nonché in
collaborazione con la Commissione europea,
per facilitare l'accesso ai finanziamenti
comunitari, inclusi i prefinanziamenti da
parte degli Stati membri e i finanziamenti
sotto forma di sovvenzioni globali.
La ratio della norma è quella di promuovere
l'accesso degli enti del Terzo settore ai
fondi Ue, in particolare (ma non solo) a
quelli del Fondo sociale europeo, anche alla
luce del ruolo riconosciuto a livello
comunitario ai soggetti dell'economia
sociale, ai quali sono da ricondurre gli
enti del Terzo settore.
Finanziamento di progetti di interesse
generale.
Il legislatore ha disciplinato un
nuovo strumento finanziario, il Fondo per il
finanziamento di progetti e di attività di
interesse generale nel Terzo settore,
destinato a sostenere, anche attraverso le
reti associative, lo svolgimento di attività
di interesse generale attraverso il
finanziamento di iniziative e progetti
promossi da organizzazioni di volontariato,
associazioni di promozione sociale e
fondazioni comprese tra gli enti del Terzo
settore iscritti nel registro unico
nazionale.
Sostegno alle organizzazioni di
volontariato.
È prevista la concessione di
contributi per la realizzazione di
progettualità da parte delle organizzazioni
di volontariato per far fronte ad emergenze
sociali e per l'applicazione di metodologie
di intervento particolarmente avanzate. I
progetti potranno essere realizzati anche
attraverso partenariati con altre
organizzazioni di volontariato ed in
collaborazione con gli Enti locali.
Sostegno alle associazioni di promozione
sociale.
Come per le organizzazioni di
volontariato, le associazioni di promozione
sociale, in ragione della loro natura,
potranno destinare le proprie iniziative
progettuali anche alla formazione degli
associati e più in generale al rafforzamento
della capacity building (o capacity
development).
Vengono mantenute in essere le cinque
«associazioni storiche» (Ens, ente nazionale
sordi; Anmil, associazione nazionale
mutilati invalidi del lavoro; Uici, unione
italiana ciechi e ipovedenti; Unms, unione
nazionale mutilati per servizio, Anmic
associazione nazionale mutilati e invalidi
civili, tutte persone giuridiche
privatizzate) a cui saranno destinati
finanziamenti per le attività istituzionali
di promozione e integrazione sociale degli
aderenti (si tratta di un finanziamento
complessivo di 2.580.000 euro da ripartirsi
in parti uguali tra tutti i suindicati
enti).
A fronte di tale finanziamento si
prevede la sottoposizione delle stesse a
specifici obblighi, a partire dalla
trasmissione all'amministrazione erogatrice
del contributo, entro un anno dalla
erogazione del contributo, il rendiconto
sull'utilizzo del contributo ricevuto per
l'anno precedente.
Contributo per l'acquisto di autoambulanze.
In continuità con l'originaria norma
istitutiva, è prevista l'erogazione di
contributi alle organizzazioni di
volontariato per l'acquisto di
autoambulanze, autoveicoli per attività
sanitarie e di beni strumentali, utilizzati
direttamente ed esclusivamente per attività
di interesse generale, nonché per le sole
fondazioni, per la donazione dei beni ivi
indicati nei confronti delle strutture
sanitarie pubbliche.
L'elemento innovativo riguarda la
possibilità dell'erogazione del contributo
anche per l'acquisto di autoveicoli per
attività sanitarie (es. per trasporto
sangue, organi ecc.).
Attività di volontariato.
Gli enti del Terzo
settore possono avvalersi di volontari nello
svolgimento delle attività di interesse
generale, dei quali devono tenere un
apposito registro.
Dalla gratuità dell'attività del volontario
discende il divieto di retribuire l'attività
del volontario, al quale possono soltanto
essere rimborsate, dall'ente tramite il
quale svolge l'attività, le spese
effettivamente sostenute e documentate per
l'attività prestata, peraltro entro limiti
massimi e alle condizioni preventivamente
stabilite dall'ente medesimo. Sono in ogni
caso vietati rimborsi spese di tipo
forfetario.
Titoli di solidarietà.
La norma prevede che
le banche italiane, comunitarie ed
extracomunitarie autorizzate ad operare in
Italia, possano emettere obbligazioni e
altri titoli di debito nonché certificati di
deposito con l'obiettivo di sostenere le
attività istituzionali degli enti del Terzo
settore. Su tali titoli le banche emittenti
non potranno applicare le commissioni di
collocamento con l'obbligo di destinare
l'intera raccolta effettuata agli enti del
Terzo settore.
Gli emittenti potranno
erogare, a titolo di liberalità, una somma
commisurata all'ammontare nominale collocato
dei titoli, ad uno o più enti del Terzo
settore ritenute meritevoli. Qualora tale
somma sia almeno pari allo 0,60% del
predetto ammontare, agli emittenti spetterà
un credito d'imposta pari al 50% della
stessa erogazione liberale. Gli interessi, i
premi ed ogni altro provento derivante dai
titoli di cui sopra sono assoggettati al
medesimo regime fiscale previsto per i
titoli di Stato.
Controlli su associazioni e fondazioni. Le
associazioni, riconosciute o non
riconosciute, e le fondazioni del Terzo
settore devono nominare un revisore legale
dei conti o una società di revisione quando
superino per due esercizi consecutivi due
dei seguenti limiti:
- totale dell'attivo dello stato
patrimoniale: 1.100.000 euro;
- ricavi, rendite, proventi, entrate
comunque denominate: 2.200.000 euro;
- dipendenti occupati in media durante
l'esercizio: 12 unità.
L'obbligo cessa se, per due esercizi
consecutivi, i predetti limiti non vengono
superati.
La nomina è altresì obbligatoria quando
siano stati costituiti patrimoni separati.
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Imposte graduate sul
merito. Nei decreti attuativi la
ridefinizione dell'ambito applicativo delle
agevolazioni fiscali.
Il Terzo Settore fa il pieno di agevolazioni
tributarie e regimi forfetari. Enti iscritti
al registro unico, associazioni di
volontariato e di promozione sociale con
nuovi regimi forfetizzati destinati a
graduare il trattamento tributario, in
relazione alla maggiore o minore
meritevolezza degli obiettivi perseguiti.
Queste alcune delle numerose novità
introdotte dal legislatore riformatore nei
decreti attuativi di riforma del cosiddetto
Terso Settore ovvero per il comparto degli
enti no profit, comprese le imprese sociali
(si veda ItaliaOggi 18/07/2017)
I decreti attuativi d'interesse sono due,
uno destinato alla generalità degli enti del
Terzo Settore e uno destinato alle imprese
sociali. Posto che agli enti appartenenti a
questo comparto si rende applicabile la
disciplina Ires, il provvedimento,
soprattutto, tende a definire l'ambito
applicativo delle disposizioni e delle
agevolazioni, stabilendo quali attività, pur
configurandosi come commerciali, siano degne
di non essere tassate («attività
decommercializzate»).
Rientrano tra queste, tutte le attività di
interesse generale, come indicate in un
precedente articolo (art. 5), incluse quelle
accreditate, contrattualizzate o
convenzionate con le pubbliche
amministrazioni; quindi, per esempio, si
qualificano tali le prestazioni di servizi
eseguite a favore di determinati soggetti,
ma in convenzione con il comune, a
prescindere dall'entità e della qualità del
servizio.
Non solo. Il provvedimento attuativo della
riforma stabilisce anche che, in ossequio ai
dettami comunitari, la prestazione non deve
essere considerata di natura commerciale,
quando i corrispettivi introitati non
superano i costi effettivi, costituiti sia
dai costi diretti che i costi indiretti.
Inoltre, nell'ipotesi di svolgimento di
attività non riconducibili tra quelle
decommercializzate, di cui al citato art. 5,
i costi indiretti effettivamente sostenuti
dovranno essere assegnati a ciascuna di tali
attività, in misura proporzionale, al fine
di poter eseguire correttamente la
valutazione in merito alla tipologia di
attività esercitata, come precisato anche
nella relazione illustrativa.
In aggiunta a tali attività, la nuova
disciplina tributaria prevede la non
partecipazione alla formazione del reddito,
per gli enti appartenenti al detto comparto,
dei fondi raccolti tramite raccolte
pubbliche eseguite, in via occasionale,
anche nella forma di offerte di beni di
modico valore o di servizi ai sovventori, in
occasione a celebrazioni, ricorrenze o
campagne di sensibilizzazione, compresi gli
apporti, anche aventi natura di
corrispettivo, eseguiti dalle pubbliche
amministrazioni, di cui al comma 2, art. 1,
dlgs 165/2001, finalizzati allo svolgimento
di attività non commerciali (circ.
124/E/1998).
Al contrario, l'ente si deve considerare
commerciale, con tutte le conseguenze del
caso, anche in ambito tributario, a
prescindere da qualsiasi previsione
statutaria, se i proventi istituzionali, di
cui al citato art. 5, realizzati con
modalità commerciale, e art. 6, fatta
eccezione delle cosiddette attività di
sponsorizzazione, del decreto attuativo in
commento, risultano superiori alle entrate
delle attività istituzionali, nel medesimo
periodo d'imposta, tenendo presenti che non
sono da inquadrare commerciali i contributi,
le sovvenzioni, le liberalità, le quote
associative e ogni altra entrata
assimilabile a quest'ultime tipologie.
Due le ulteriori precisazioni: le attività
di sponsorizzazione indicate non sono da
ritenere esaustive ma meramente indicative,
quindi anche altre attività non contemplate,
se rispettose dei requisiti propri delle
attività istituzionali, possono essere
riconosciute non commerciali e le attività,
svolte nei confronti degli associati e dei
loro familiari e/o conviventi, compreso il
versamento delle quote, non devono essere
considerate attività commerciali ma, al
contrario, non commerciali e, di
conseguenza, non soggette a tassazione.
In continuità con quanto indicato dalle
disposizioni attualmente vigenti, dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, invece,
devono essere considerati commerciali i
corrispettivi per cessione di beni e
prestazioni di servizi effettuate nei
confronti di associati e relativi familiari
verso un pagamento specifico, inserendo in
tale ultimo contesto anche i contributi e le
quote aggiuntive determinate in funzione
delle diverse e/o maggiori prestazioni
(corrispettivi specifici); in tal caso, i
corrispettivi devono essere tassati e,
quindi, concorrono alla formazione del
reddito complessivo dell'ente o come reddito
d'impresa o, in assenza di una vera e
propria organizzazione e in presenza di una
mera occasionalità, da soggetto non partita
Iva, come redditi diversi.
Con particolare riferimento alle
organizzazioni di volontariato (Odv), di cui
alla legge 266/1991, è disposto che non
devono essere considerate attività
commerciali le attività di vendita di beni
acquisti a titolo gratuito da terzi a titolo
di sovvenzione, la cessione di beni prodotti
dagli assistiti e dai volontari purché la
vendita sia eseguita dall'ente e le attività
di somministrazione di alimenti e bevande in
occasione di raduni, celebrazioni,
manifestazioni e quant'altro a carattere
occasionale, mentre, per le associazioni di
promozione sociale (Aps), di cui alla legge
383/2000, non si considerano commerciali le
attività svolte in diretta attuazione degli
scopi istituzionali, la cessione di
pubblicazioni agli associati e la
somministrazione di alimenti e bevande
presso la propria sede, nonché
l'organizzazione di viaggi e soggiorni, se
attività complementari alle istituzionali e
se rivolte verso associati.
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Regimi forfetari
opzionali in relazione ai destinatari.
Coefficienti di redditività variabili dal 7
al 17% per gli enti del Terzo Settore
iscritti al registro unico e dell'1% e del
3%, rispettivamente, per le associazioni di
volontariato e quelle di promozione sociale.
Il provvedimento attuativo della riforma
introduce, in aggiunta a quanto previsto
dall'art. 145, dpr 917/1986 (Tuir), tre
ulteriori regimi forfetari di determinazione
del reddito per la generalità degli enti non
profit e per le due particolari tipologie di
associazioni.
Il primo regime prevede, se opzionato,
l'applicazione di coefficienti di
redditività funzionali alla determinazione
del reddito d'impresa, per i corrispettivi
che non possono assumere la qualifica di
istituzionali, come indicato in precedenza,
sempre che i relativi proventi non
prevalgano sulle entrate non commerciali.
Questo primo regime si rende applicabile a
tutti gli enti del Terzo Settore iscritti al
Registro unico nazionale, mentre per i non
iscritti continua a essere applicabile
quello prescritto dall'art. 145 del Tuir;
quindi, tale ultimo articolo si applica a
una serie di soggetti come le formazioni e
associazioni politiche, i sindacati, le
associazioni professionali e di
rappresentanza, le associazioni datoriali e
gli enti assoggettati a controllo dei
precedenti e agli enti ecclesiastici e delle
confessioni religiose.
Il nuovo regime elenca i nuovi coefficienti
di redditività, da applicarsi in base alla
tipologia del corrispettivo e sulla base
dell'entità dei ricavi, ai quali devono
essere aggiunti, come avviene sempre in
applicazione a regimi di questo genere, le
eventuali plusvalenze patrimoniali, le
sopravvenienze attive, i dividendi e gli
interessi e i ricavi derivanti dagli
immobili patrimonio eventualmente detenuti.
L'opzione deve essere esercitata nella
dichiarazione annuale dei redditi riferibile
al periodo d'imposta in cui il regime è
stato applicato (comportamento concludente),
fino a revoca e per almeno un triennio,
essendo la scelta riferita a un regime
contabile, con possibilità di utilizzo delle
perdite fiscali prodotte nei periodi
d'imposta anteriori rispetto a quello di
applicazione del regime forfetario.
Il vantaggio ulteriore è che gli enti in
regime forfetario non sono soggetti a studi
di settore e parametri ovvero agli
indicatori di affidabilità, applicabili a
partire dall'attuale periodo d'imposta
(2017).
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Social bonus pronto al
debutto.
Tra le numerose agevolazioni destinate al
Terzo Settore, spicca il «social bonus»
nella misura del 65% per le erogazioni
liberali in denaro eseguite dalle persone
fisiche. Il credito d'imposta indicato
spetta in misura appena ridotta, e pari al
50%, per le erogazioni eseguite da enti e
società.
Così il provvedimento di attuazione della
riforma del «no profit» che, al fianco a una
nuova visione del Terzo Settore e di una
maggiore esenzione dall'imposizione diretta
delle attività svolte in conformità alle
attività statutarie, ha introdotto una serie
di bonus e di ulteriori agevolazioni per
aumentare l'appeal del comparto, sempre più
operativo sul territorio e sempre più a
corto di fondi per effetto della nota
congiuntura economica.
Social bonus.
La prima apprezzabile iniziativa concerne
l'introduzione di un credito d'imposta
modulato, da applicarsi alle erogazioni
liberali eseguite in denaro a favore dei
soggetti appartenenti al Terzo Settore,
rispettivamente pari al 65% per le persone
fisiche e al 50% per gli enti e le società.
Come precisato nella relazione illustrativa,
il credito d'imposta è riconosciuto alle
persone fisiche e agli enti non commerciali,
in quanto equiparati, nella misura massima
del 15% del reddito imponibile, mentre ai
soggetti a reddito d'impresa, quindi società
commerciali di qualsiasi tipo (non si fa
espresso riferimento ai soggetti Ires),
escluse le società semplici, il tetto è
fissato al 5 per mille dei ricavi
annualmente realizzati.
Il credito d'imposta è da ripartire in tre
quote annuali e, in analogia con quanto
prescritto per il più noto «art bonus», il
credito d'imposta non è rilevante ai fini
della determinazione del reddito e del
tributo regionale (Irap), quindi non sconta
alcuna tassazione e può essere utilizzato in
compensazione da tutti i beneficiari
(persone fisiche, società ed enti non
commerciali), ai sensi dell'art. 17, dlgs
241/1997.
Tale introito deve rispettare, però,
un'ulteriore condizione, posta a carico
dell'ente beneficiario, in quanto
l'erogazione di denaro deve essere destinata
«in via prevalente» allo sviluppo delle
attività istituzionali, come indicate
dall'art. 5 del provvedimento in commento.
Erogazioni liberali. Prevista una detrazione
pari al 30% degli oneri sostenuti dal
contribuente per le erogazioni liberali e/o
in natura a favore degli enti appartenenti
al Terzo Settore, anche imprese sociali e
cooperative sociali, per un importo massimo
pari a 30 mila euro per ciascun periodo
d'imposta, con un incremento al 35% se il
destinatario è una organizzazione di
volontariato (Odv), di cui alla legge
266/1991, condizionata alla presentazione di
una dichiarazione di ente non commerciale da
parte del beneficiario, al momento
dell'iscrizione nel Registro unico nazionale
e sempre se destinate all'esercizio delle
attività istituzionali (civiche,
solidaristiche e di utilità sociale). In
aggiunta, possibile detrazione del 19% dei
contributi associativi fino a un tetto di
euro 1.300 versati dai soci alle società di
mutuo soccorso.
Successioni e donazioni. Con la finalità di
potenziare il patrimonio e la liquidità
degli enti non commerciali appartenenti al
Terzo Settore, con espressa esclusione
(anche per le agevolazioni che saranno
indicate a breve) delle imprese sociali e
l'inclusione delle cooperative sociali, si
conferma il non assoggettamento all'imposta
sulle successioni e donazioni e alle imposte
ipotecarie e catastali per tutti i
trasferimenti, a titolo gratuito, effettuati
a favore di detti enti e da questi
utilizzati per lo svolgimento delle attività
istituzionali, come indicate nel proprio
statuto sociale.
L'agevolazione, come detto, è destinata a
supportare il perseguimento di finalità
civiche, solidaristiche e di utilità
sociale, come indicato dal comma 1,
dell'art. 8 del decreto in commento.
Imposizione indiretta. Numerose le
agevolazioni previste nell'ambito delle
imposte di registro, ipotecarie e catastali.
La prima riguarda l'applicazione in misura
fissa (attualmente pari a euro 200) per le
imposte appena indicate dovute per gli atti
relativi alle operazioni straordinarie come
fusione, scissione trasformazione, poste in
essere dagli enti del comparto (che
rispettano i relativi requisiti), nonché per
gli atti costitutivi e per le modifiche
statutarie, compresi gli adeguamenti
dipendenti dalle modifiche o integrazioni
normative di qualsiasi tipologia.
Le medesime imposte sono ancora dovute in
misura fissa, per gli atti di trasferimento
(traslativi) a titolo oneroso della
proprietà di beni immobili e per gli atti di
trasferimento o costitutivi di diritti
immobiliari di godimento, posti in essere a
favore degli del comparto, incluse in tal
caso anche le imprese sociali, nel rispetto
della condizione che prevede l'utilizzo
diretto, in attuazione degli scopi
istituzionali entro cinque anni dalla data
di trasferimento; l'agevolazione è stata
sollecitata in fase di predisposizione della
legge delega (lett. l, art. 9) e si rende
applicabile se il legale rappresentante
dell'ente dichiara in atto, contestualmente,
la destinazione del bene.
In caso di mancato rispetto dell'impegno o
di dichiarazione mendace, le imposte sono
dovute nella misura ordinaria, quindi
proporzionale, e si rende applicabile una
sanzione pari al 30% con aggravio degli
interessi di mora, applicabili a partire
dalla data in cui l'imposta dovuta avrebbe
dovuto essere versata.
Si evidenzia che la detta agevolazione era
rimasta in piedi fino al 2013, ma
limitatamente alle organizzazioni non
lucrative di utilità sociale (Onlus).
Tributi locali. Il decreto di attuazione
stabilisce l'esenzione da imposta municipale
propria (Imu) e da tributo sui servizi
indivisibili (Tasi) per gli immobili,
posseduti dagli enti in commento, purché
«esclusivamente» destinati allo svolgimento
di attività assistenziali, previdenziali,
sanitarie, di ricerca scientifica,
didattiche, ricettive, culturali, ricreative
e sportive, di religione e culto.
Le condizioni per l'ottenimento dell'esonero
sono l'utilizzo esclusivo per l'esercizio di
dette attività, restando esclusi gli
immobili utilizzati esclusivamente per le
attività commerciali o anche in modo
promiscuo, e l'esercizio delle attività
indicate con modalità non commerciali da
intendersi, in particolare, come gestione
autonoma e organizzata delle stesse.
Imposta di bollo e CC.GG.. Con un ulteriore
intervento, il legislatore introduce, in
maniera generalizzata, l'esenzione da
imposta di bollo di tutti gli atti,
documenti, istanze, contratti, copie
conformi, estratti, certificazioni,
dichiarazioni, attestazioni e, si dispone
testualmente, di «ogni altro documento,
cartaceo o informatico in qualunque modo
denominato» posto in essere o richiesto
dagli enti del Terzo Settore.
Sempre sul tema dei tributi locali, quelli
diversi da quelli appena indicati, è stata
inserita una norma di carattere generale,
con la quale è data facoltà ai comuni, alle
province, alle città metropolitane e alle
regioni, di deliberare esenzioni e riduzioni
discrezionali, con possibile alleggerimento
anche degli adempimenti connessi.
Prevista, infine, l'esenzione della tassa di
concessione governativa per gli atti e i
provvedimenti degli enti del Terzo Settore.
Irap. Possibile il riconoscimento
dell'esenzione e/o la riduzione dell'imposta
regionale sulle attività produttive (Irap),
di cui al dlgs. 446/1997, ma in tal caso nel
pieno rispetto di quanto previsto dalla
normativa comunitaria e di quanto indicato
dalla Corte di giustizia dell'Ue.
Imposta sugli intrattenimenti. Posto
l'obbligo di comunicazione preventiva alla
Siae dell'evento, sono esentate dall'imposta
sugli intrattenimenti le attività ricreative
svolte in occasione o in concomitanza di
celebrazioni, ricorrenze o campagne di
sensibilizzazione da parte degli enti del
Terzo Settore
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.07.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: L'impresa
fuori legge chiude. In caso di impiego di
lavoratori in nero gli ispettori Inps e
Inail dispongono la sospensione.
Gli ispettori dell'Inps e dell'Inail possono
chiudere l'attività d'impresa. Dal 10 luglio
il personale di vigilanza degli enti
previdenziali deve adottare il provvedimento
di sospensione dell'attività d'impresa (e
anche procedere alla revoca), con specifico
riferimento all'impiego di lavoratori «in
nero».
Più ispettori in campo. La novità è arrivata
da una nota interna del 20 giugno, con cui
l'Inl ha fornito indicazioni a tutto il
proprio personale di vigilanza, composto
adesso non solo dagli ispettori del
ministero del lavoro, ma anche dagli
ispettori di Inps e Inail.
In particolare, l'istituzione
dell'Ispettorato (Inl) a seguito del Jobs
act, ha determinato che anche il personale
degli istituti di previdenza è tenuto a
procedere, con specifico riferimento
all'impiego dei lavoratori «in nero», sia ad
adottare il provvedimento di sospensione che
la sua revoca, a far data dal 10 luglio.
Tali provvedimenti di sospensione, ha
spiegato l'Inl, devono essere
tempestivamente comunicati alla Itl di
competenza (la sede territoriale
dell'ispettorato, ex Dpl poi divenute Dtl) e
potrà essere revocata dal seguente personale
ispettivo: dallo stesso personale ispettivo
che ha adottato il provvedimento (sia Inl,
sia Inps, sia Inail); da altro personale
ispettivo (sia Inl, sia Inps, sia Inail);
dal dirigente della sede territoriale dell'Inl
o da suo delegato. Con l'occasione delle
nuove indicazioni operative, l'Inl ha
fornito le Faq in materia di sospensione
dell'attività imprenditoriale (altri
chiarimenti su ItaliaOggi dell'8 luglio).
Lo stop all'attività. È il caso di ricordare
che lo stop forzoso all'attività d'impresa è
un provvedimento che può essere emesso in
sede d'ispezione, ai sensi dell'art. 14,
comma 1, del T.u. sicurezza (dlgs n.
81/2008), nel caso di:
a) impiego di personale non risultante dalla
documentazione obbligatoria in misura pari o
superiore al 20% del totale lavoratori
presenti sul luogo di lavoro, salvo che il
lavoratore irregolare risulti l'unico
occupato dall'impresa; oppure
b) di gravi e reiterate violazioni in
materia di sicurezza sul lavoro (si veda
tabella).
Esclusi professioni e onlus. In una Faq, l'Inl
ribadisce che lo studio professionale non
può essere «chiuso» dall'ispettore, neppure
in presenza di lavoro nero. La sospensione
riguarda l'attività imprenditoriale, spiega
l'Inl, intesa come attività economica
organizzata, esercitata in modo
professionale al fine della produzione o
dello scambio di beni e servizi. Tali
caratteristiche non si riscontrano nei casi
di studi professionali e neppure di altre
categorie di soggetti quali onlus,
associazioni culturali e altre associazioni
senza scopo di lucro.
Il calcolo dei lavoratori in nero. È stato
chiesto di chiarire se, ai fini della
individuazione della «base di computo» sulla
quale calcolare la percentuale di lavoratori
«in nero», vanno conteggiati i lavoratori
sopraggiunti nel corso dell'accesso
ispettivo.
L'Inl ha spiegato che, al fine di evitare
possibili comportamenti «opportunistici» da
parte del datore di lavoro sottoposto a
ispezione, la base di computo su cui
calcolare la percentuale di lavoratori «in
nero» ai fini dell'emanazione del
provvedimento di sospensione, andrà
individuata dall'ispettore alla luce della
«fotografia» di quanto riscontrato al
momento dell'ingresso in azienda.
Pertanto, laddove sopraggiungano lavoratori
nel corso dell'accesso ispettivo (ferma
restando la contestabilità della
maxi-sanzione per lavoro «nero» in sede di
verbalizzazione unica), nella base di
computo sulla quale calcolare la percentuale
di lavoratori «in nero» vanno conteggiati
esclusivamente i lavoratori trovati all'atto
dell'ingresso in azienda.
Fuori i soci amministratori. Il socio
amministratore non rientra nella nozione di
lavoratore (ex art. 2, comma 1, del dlgs n.
81/2008) e, pertanto, non va computato nella
base di calcolo «attesa la sostanziale
diversità che intercorre tra coloro che,
prestando attività a favore dell'impresa,
rivestono la carica di amministratori e sono
dotati, pertanto, dei tipici poteri
datoriali e chi invece, pur appartenendo
alla compagine societaria non dispone di
tali poteri gestori».
I lavoratori distaccati. I lavoratori
regolarmente distaccati vanno computati
nella base di calcolo ai fini dell'adozione
della sospensione nei confronti del datore
di lavoro distaccatario, come lavoratori
occupati.
L'art. 14 del dlgs n. 81/2008, spiega una Faq,
prevede che venga disposto il provvedimento
di sospensione quando sia riscontrato
l'impiego di personale non risultante da
documentazione obbligatoria in misura pari o
superiore al 20% del totale dei lavoratori
presenti sul luogo di lavoro.
I lavoratori distaccati, pur formalmente in
forza presso il distaccante, sono di fatto
inseriti nell'organizzazione aziendale del
distaccatario, il quale ne coordina
l'attività ed esercita nei loro confronti il
potere direttivo e di controllo. Inoltre, ai
sensi dell'art. 3, comma 6, del dlgs n.
81/2008, sono a carico del distaccatario
«tutti gli obblighi di prevenzione e
protezione, fatto salvo l'obbligo a carico
del distaccante di informare e formare il
lavoratore sui rischi tipici generalmente
connessi allo svolgimento delle mansioni per
le quali egli viene distaccato». Tanto
premesso, l'Inl precisa che i lavoratori
distaccati vanno considerati come lavoratori
presenti sul posto di lavoro e devono essere
computati nella base di calcolo ai fini
dell'adozione del provvedimento di
sospensione nei confronti del distaccatario
che ne è l'effettivo utilizzatore.
Arresto per chi non ottempera alla
sospensione. In caso di inottemperanza
all'ordine di sospensione, il datore di
lavoro è punito con l'arresto da tre a sei
mesi o con ammenda da 2.500 a 6.400 euro
nelle ipotesi di sospensione per lavoro
irregolare e con l'arresto fino a sei mesi
nelle ipotesi di sospensione per gravi e
reiterate violazioni in materia di tutela
della salute e della sicurezza sul lavoro.
Secondo il ministero del lavoro,
l'inottemperanza alla sospensione per
occupazione di lavoratori in nero, in quanto
sanzionata con pena alternativa dell'arresto
o dell'ammenda, rientra nell'ambito
applicativo della prescrizione obbligatoria
(la cui disciplina è dettata dall'art. 301
del T.u. sicurezza).
In particolare, il T.u. prevede che «alle
contravvenzioni in materia di igiene, salute
e sicurezza sul lavoro previste dal presente
decreto nonché da altre disposizioni aventi
forza di legge, per le quali sia prevista la
pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda
ovvero la pena della sola ammenda, si
applicano le disposizioni in materia di
prescrizione ed estinzione del reato di cui
agli articoli 20, e seguenti, del decreto
legislativo 19.12.1994, n. 758».
In ordine al suo contenuto, secondo il
ministero del lavoro la prescrizione
consisterà nel sospendere l'attività
imprenditoriale sino ad avvenuta
regolarizzazione dei lavoratori interessati,
perché la prescrizione è legata
necessariamente al raggiungimento del fine
ultimo che il legislatore ha perseguito
nell'introdurre il potere di sospensione,
istituto evidentemente «strumentale» ad una
sollecita regolarizzazione delle violazioni
accertate. Pertanto, ne deriva pure che
l'adempimento alla prescrizione
obbligatoria, attraverso la regolarizzazione
completa delle posizioni lavorative e
l'ottenimento della revoca della sospensione
attraverso il pagamento della somma
aggiuntiva prevista, consentirà l'ammissione
al pagamento di un quarto del massimo
dell'ammenda (pari a euro 1.600).
Per quanto riguarda l'inottemperanza al
provvedimento di sospensione emesso per
gravi e reiterate violazioni
prevenzionistiche, è prevista la sanzione
dell'arresto sino a sei mesi, evidentemente
non ammessa a prescrizione obbligatoria. In
tal caso il personale ispettivo provvede
esclusivamente a informare l'autorità
giudiziaria della commissione del reato,
ferma restando la possibilità, da parte
dell'imputato, di richiedere al giudice
l'applicazione della procedura agevolativa
(di cui all'articolo 302 del T.u.
sicurezza)
(articolo ItaliaOggi
Sette del
17.07.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via, obiettivo semplificazione.
Risposte p.a. in tempi ridotti. Meno dossier
da presentare.
Dal 21 luglio in vigore la riforma della
procedura per la valutazione d'impatto
ambientale.
Stretta sui termini di risposta della p.a.
sull'impatto ambientale di un progetto, ma
con il parallelo alleggerimento della
documentazione che il proponente deve
presentare in sede di valutazione.
Unificazione delle procedure di Via
nazionali e regionali, con l'introduzione
però degli ulteriori meccanismi burocratici
del «pre-screening» e del «provvedimento
unico» ambientale.
Molte le novità della riforma sulla
valutazione di impatto ambientale previste
dal dlgs 16.06.2017 n. 104 emanato in
attuazione della direttiva 2014/52/Ue.
Le nuove regole, pubblicate sulla G.U. del 06.07.2017 e in vigore dal giorno 21,
riformulano le disposizioni contenute nella
parte seconda del dlgs 152/2006 (cosiddetto
«Codice ambientale») rivedendo anche i
rapporti con la vicina «autorizzazione
integrata ambientale» (cosiddetta «Aia»).
L'impatto ambientale da valutare. Il dlgs
104/2017 ridefinisce il concetto di impatto
ambientale, che da «alterazione» delle varie
componenti dell'ambiente individuate
dall'articolo 5 del dlgs 152/2006 viene
traslato al plurale e coincide ora con gli
effetti significativi, diretti e indiretti,
di un piano, di un programma o di un
progetto, sui seguenti fattori: popolazione
e salute umana; biodiversità, con
particolare attenzione alle specie e agli
habitat protetti in virtù della direttiva
92/43/Cee e della direttiva 2009/147/Ce;
territorio, suolo, acqua, aria e clima; beni
materiali, patrimonio culturale, paesaggio;
interazione tra i fattori sopra elencati.
Questo, però, senza più contemplare
l'impatto «cumulativo» previsto invece
dall'uscente definizione ex dlgs 152/2006.
Screening e pre-screening. Alleggerita la
fase di «screening», quale «verifica di
assoggettabilità» a Via di un progetto,
attivata allo scopo di valutare, ove
previsto, se un progetto determina
potenziali impatti ambientali significativi
e negativi e deve essere quindi sottoposto
al vero e proprio procedimento di Via.
Per affrontare la fase di «screening» sarà
sufficiente presentare (in base ai rinnovati
articoli 5 e 19 del dlgs 152/2006) in luogo
del progetto preliminare e studio di
fattibilità uno «studio preliminare
ambientale», quale «documento contenente le
informazioni sulle caratteristiche del
progetto e sui suoi probabili effetti
significativi sull'ambiente». E per
modifiche, estensioni o adeguamenti tecnici
finalizzati a migliorare rendimento e
prestazioni ambientali dei progetti sarà
invece possibile attivare su base volontaria
una (inedita) fase di «pre-screening».
In base al rinnovato articolo 9 del dlgs
152/2006, il soggetto che ha dubbi sulla
procedura autorizzativa da intraprendere per
i citati interventi potrà infatti «in
ragione della presunta assenza di potenziali
impatti ambientali significativi e negativi
( ) richiedere all'autorità competente,
trasmettendo adeguati elementi informativi
tramite apposite liste di controllo, una
valutazione preliminare al fine di
individuare l'eventuale procedura da
avviare».
Competenze e regole procedurali. Ridisegnati
i confini tra Via nazionale e regionale, con
un irrobustimento della competenza
ministeriale. Attraverso la rivisitazione
degli allegati al dlgs 152/2006 passano
infatti alla competenza statale, in
considerazione alla loro valenza per
l'economica nazionale, i progetti relativi
ad infrastrutture e impianti energetici,
salvo mirate eccezioni per strutture di
stretto interesse locale.
Sempre soggetti alla Via statale i rilievi
geofisici attraverso l'uso della tecnica
«air gun» o di quella esplosiva.
Uniformate le procedure di valutazione:
«Verifica di assoggettabilità» e vera e
propria Via, sia nazionale che regionale,
andranno condotte sotto il tetto delle
regole dettate dal riformulato dlgs
152/2006.
Alle regioni sarà consentito disciplinare
l'organizzazione e le modalità di esercizio
delle proprie funzioni amministrative e di
introdurre, nel rispetto delle norme Ue e
nazionali, ulteriori semplificazioni
burocratici, con divieto però di derogare ai
termini procedimentali massimi (più avanti
illustrati).
Documenti progettuali. In base al nuovo
articolo 20 del dlgs 152/2006, sugli
elaborati progettuali da presentare ai fini
del procedimento di Via si aprirà un
confronto tra proponente e p.a., laddove il
primo trasmetterà al secondo, in formato
elettronico, una proposta di elaborati
progettuali e questi esprimerà la propria
valutazione «assicurando che il livello di
dettaglio degli elaborati progettuali sia di
qualità sufficientemente elevata e tale da
consentire la compiuta valutazione degli
impatti ambientali».
L'esordio del «Pua», il provvedimento unico
ambientale. Con il restyling del dlgs
152/2006 esordisce il «Pua», il
provvedimento unico in materia ambientale
che raccogliendo in una unica licenza,
assieme alla Via, i diversi ed altri
necessari titoli autorizzativi promette di
introdurre semplificazioni burocratiche. Ma
il condizionale è d'obbligo, poiché il nuovo
provvedimento unico ambientale, declinato
(dai nuovi articoli 27 e 27-bis del dlgs
152/2006) in «nazionale» e «regionale»
appare essere a geometria variabile.
Il «Pua nazionale» non sarà infatti
obbligatorio, ma attivabile solo su istanza
del soggetto interessato e limitatamente al
rilascio della prima Via unitamente agli
altri titoli, quali: Aia; autorizzazione a
scarichi nel sottosuolo ed in acque
sotterranee; autorizzazione a immersione in
mare di materiali derivanti da escavi e pose
in loco; autorizzazione paesaggistica e
culturale; autorizzazione per vincolo
idrogeologico; nulla osta di fattibilità ex
disciplina «Seveso»; autorizzazione
antisismica.
Il «Pua regionale» sarà invece la strada
obbligatoria per ottenere la prima Via
insieme agli altri necessari atti di
«autorizzazioni, intese, concessioni,
licenze, pareri, concerti, nulla osta e
assensi comunque denominati, necessari alla
realizzazione e all'esercizio del medesimo
progetto e indicati puntualmente in apposito
elenco predisposto dal proponente stesso».
In entrambi i casi, rinnovi e riesame di
singoli atti autorizzativi dovranno però
seguire le rispettive e diverse strade
procedurali.
Sempre a livello trasversale, l'Aia relativa
ai progetti da sottoporre a «verifica di
assoggettabilità a Via» potrà essere
rilasciata solo dopo l'esito negativo del
suddetto screening.
I tempi burocratici. La novella legislativa
promette di contenere Via e Pua statali
rispettivamente entro i 195 e 325 giorni,
così come entro i 235 giorni l'iter per il
rilascio del provvedimento unico ambientale
regionale.
I termini procedurali sono considerati
«perentori» ai sensi e per gli effetti degli
articoli 2, commi da 9 a 9-quater, e 2-bis,
della legge 241/1990. E questo con la
conseguenza, prevista dalla citata
disciplina di richiamo, che la loro
violazione comporterà lo scattare dei poteri
sostituitivi in seno alla P.a. e la
responsabilità dei dirigenti inadempimenti.
Il regime transitorio. Le nuove regole si
applicheranno a tutti i procedimenti di
assoggettabilità e di Via avviati a partire
dal 16.05.2017 (dunque, con effetto
retroattivo, per onorare gli obblighi Ue) e
con il conseguente onere dei proponenti i
progetti sub valutazione di effettuare le
integrazioni documentali e gli ulteriori
adempimenti richiesti dalle Autorità
procedenti.
Resteranno sotto il pregresso regime i
procedimenti Via che sono già in corso alla
citata data, salva però la possibilità per i
proponenti di portarli sotto la nuova
disciplina mediante apposita istanza
(articolo ItaliaOggi
Sette del
17.07.2017). |
ENTI LOCALI: La
privacy non può attendere. Il registro delle
attività di trattamento tra le priorità. Le
indicazioni del Garante in vista
dell'applicazione del regolamento europeo.
Nomina del responsabile della protezione dei
dati, istituzione dei registri di
trattamento e preparazione delle procedure
di segnalazione degli attacchi informatici
subiti. Sono le tre cose che il Garante
della privacy chiede agli enti pubblici di
fare fin da subito, con priorità assoluta,
per adeguarsi alla privacy a tinte Ue. E
cioè al Regolamento 2016/679/Ue.
La nuova disciplina, spiega il Garante,
impone alle amministrazioni un diverso
approccio nel trattamento dei dati
personali, prevede nuovi adempimenti e
richiede un'intensa attività di adeguamento,
preliminare alla sua definitiva applicazione
a partire dal 25.05.2018.
Una normativa che, dunque, comincia a
battere il tempo. Il catalogo delle cose da
fare è lungo e se non inizia subito ci
saranno problemi grossi, una volta che il
Regolamento diventerà pienamente efficace.
Anche in considerazione delle sanzioni
amministrative pecuniarie prescritte per le
violazioni.
Il tutto si può tradurre con: non si può
aspettare quella data con le mani in mano,
perché gli adempimenti non sono istantanei,
ma vanno preparati e i procedimenti
amministrativi sottesi hanno il loro decorso
tecnico. E un anno passa in fretta. Le cose
da mettere in lavorazione, tra l'altro, sono
tante, ma, per il Garante, tre emergono per
l'urgenza. Vediamo quali.
IL RESPONSABILE DELLA PROTEZIONE DEI DATI (RPD)
È una nuova figura che le pubbliche
amministrazioni devono obbligatoriamente
nominare. E il Rpd deve essere nominato in
funzione delle qualità professionali e della
conoscenza specialistica della normativa e
della prassi in materia di protezione dati.
Il garante sottolinea la opportunità di un
diretto coinvolgimento del Rpd in tutte le
questioni che riguardano la protezione dei
dati personali, sin dalla fase transitoria:
ciò è sicuramente garanzia di qualità del
risultato del processo di adeguamento in
atto. In questo ambito, sono da tenere in
attenta considerazione i requisiti normativi
relativamente a: posizione (riferisce
direttamente al vertice), indipendenza (non
riceve istruzioni per quanto riguarda
l'esecuzione dei compiti) e autonomia
(attribuzione di risorse umane e finanziarie
adeguate).
Sul punto si aggiunge che i procedimenti per
la scelta del Rpd, soprattutto se esterno,
prendono un po' di tempo, ad esempio per lo
svolgimento di selezioni o gare. Tempi di
cui tenere conto per non sforare la data del
25.05.2018.
REGISTRO DELLE ATTIVITÀ DI TRATTAMENTO
Il garante ammonisce: è essenziale avviare
quanto prima la ricognizione dei trattamenti
svolti e delle loro principali
caratteristiche (finalità del trattamento,
descrizione delle categorie di dati e
interessati, categorie di destinatari cui è
prevista la comunicazione, misure di
sicurezza, tempi di conservazione, e ogni
altra informazione che il titolare ritenga
opportuna al fine di documentare le attività
di trattamento svolte) funzionale
all'istituzione del registro.
La
ricognizione sarà l'occasione per verificare
anche il rispetto dei principi fondamentali,
la liceità del trattamento (verifica
dell'idoneità della base giuridica) nonché
l'opportunità dell'introduzione di misure a
protezione dei dati fin dalla progettazione
e per impostazione (privacy by design e by
default): tutto ciò in modo da assicurare,
entro il 25 maggio 2018, la piena conformità
dei trattamenti in corso.
NOTIFICA VIOLAZIONE DEI DATI
È fondamentale, rileva il Garante, la pronta
attuazione delle nuove misure relative alle
violazioni dei dati personali, tenendo in
particolare considerazione i criteri di
attenuazione del rischio indicati dalla
disciplina e individuando quanto prima
idonee procedure organizzative per dare
attuazione alle nuove disposizioni.
Secondo le disposizioni del Regolamento, in
caso di attacco bisogna fare una
notificazione al Garante e, in alcuni casi,
anche agli interessati.
Anche per questo adempimento, si devono
stanziare risorse, predisporre strumenti
interni o acquisirli in outsourcing,
assegnare personale interno o affidarsi a
consulenti: tutte cose che hanno bisogno di
tempo
(articolo ItaliaOggi
Sette del
17.07.2017). |
ENTI LOCALI: Società partecipate al restyling.
Modifiche degli statuti con il notaio entro
il 31 luglio.
Gli amministratori devono convocare le
assemblee per l'adeguamento al dlgs n.
175/2016.
Gli amministratori delle società di capitali
a controllo pubblico dovranno, nei prossimi
giorni convocare l'assemblea che, alla
presenza di un notaio, provvederà ad
adeguare lo statuto alle regole introdotte
dal dlgs 175/2016. Il termine per tale
convocazione è stato prorogato dal dlgs
16/06/2017 n. 100 al prossimo 31 luglio.
Le previsioni del nuovo decreto. Il citato
decreto legislativo n. 100/2017 (in G.U. del
26/6/2017) contiene «Disposizioni
integrative e correttive al decreto
legislativo 19.08.2016 n. 175, recante
testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica». Il decreto
correttivo è stato emanato a seguito della
sentenza della Corte costituzionale (la
25/11/2016 n. 251) con la quale è stata
ravvisata una violazione delle norme
costituzionali sul concorso di competenze
statali e regionali da parte della legge
7/8/2015 n. 124 (deleghe al Governo in
materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche).
A tale problema
si è data soluzione con un testo condiviso
da Regioni ed enti locali in sede di
Conferenza unificata confluito nel citato dlgs n. 100/2017. La legge n. 175/2016
imponeva alle società a controllo pubblico,
di cui all'art. 11 del dlgs 175/2016 (nonché
alle società in house di cui all'art. 16)
una serie di modificazioni finalizzate
all'adeguamento statutario. Tali modifiche
non operando «ope legis» dovranno essere
poste in essere dalle società entro il
termine non più del 31.12.2016 ma, in
relazione alla proroga operata dal dlgs n.
100/2017, del 31.07.2017.
Gli obblighi di convocazione dell'assemblea.
I destinatari degli obblighi di modifica
sono in primis gli amministratori della
società tenuti a convocare l'assemblea
straordinaria nelle spa (ex art. 2365 c.c.,
comma 1), e qualificata nelle srl (ex art.
2479, comma 4). L'assemblea dovrà prevedere
un ordine del giorno del tipo «modifiche
statutarie ai sensi del dlgs 175/2016, così
come modificato dal dlgs n. 100/2017» o
dizioni equivalenti. In entrambe la
tipologie societarie, ovviamente, i soci,
per le modifiche statutarie dovranno
avvalersi del notaio ex art. 2375 c.c.
Le sanzioni per amministratori e sindaci.
Nel caso in cui gli amministratori ed i
sindaci in sede sostitutiva, nell'ambito
delle spa o nelle srl che li abbiano
nominati, non abbiano provveduto alla
convocazione, i componenti degli organi di
amministrazione e controllo risultano
passibili delle sanzioni di cui all'art.
2631 c.c., trattandosi di una specifica
omissione di convocazione dell'assemblea dei
soci per «caso previsto dalla legge» (la
sanzione amministrativa pecuniaria all'uopo
prevista va da 1.032 a 6.197 euro per
ciascun componente del cda e del collegio
sindacale). Qualora, di contro, l'assemblea
fosse stata convocata, anche magari poi
risultata deserta per mancato raggiungimento
dei quorum costitutivi, nessuna
responsabilità potrà essere ascritta in capo
ad amministratori e sindaci.
L'intervento sostitutivo dei soci. Qualora
gli amministratori e (se presenti) i sindaci
non provvedano alla convocazione, ferma
restando la loro responsabilità ex art. 2631
c.c., il potere di convocazione può essere
esercitato dai soci secondo regole diverse,
distinguendo fra spa o srl. Nelle spa, ai
sensi del comma 1 dell'art. 2367 c.c.
potranno richiedere all'organo
amministrativo di provvedere alla
convocazione 1/10 dei soci.
Gli stessi poi,
in caso di prolungata inerzia degli
amministratori e del Collegio sindacale (ex
art. 2367, comma 2 c.c.), sono autorizzati,
ai sensi dell'art. 2367, comma 2 a rivolgere
apposita istanza al Presidente del Tribunale
del luogo dove ha sede la società affinché
questo provveda con decreto a convocare
l'assemblea, designando la persona delegata
a presiederla (art. 2367, comma 2 c.c.).
Nelle srl, le regole delle spa di norma non
si applicano. La giurisprudenza di merito
prevalente (Trib. Milano 03/07/2015; Trib.
Roma 26/4/2011), recentemente suffragata
dalla Cassazione (Cass. 25/05/2016 n. 10821)
ritiene, infatti, che in queste società, il
potere di convocare l'assemblea in caso di
inerzia dell'organo amministrativo possa
essere esercitato (anche qualora l'atto
costitutivo nulla prevedesse a riguardo) dal
socio (o dai soci) titolari di almeno un
terzo delle partecipazioni.
Le modifiche al cda. L'art. 11, comma 2 del dlgs 175/2016 prevede che (salvo situazioni
particolari), l'organo amministrativo delle
società a controllo pubblico sia costituito
da un amministratore unico. Tale previsione
è stata tuttavia «edulcorata» dall'art. 7
del dlgs 100/2017 , che sostituendo il comma
3 dell'art. 11 ora prevede: «L'assemblea
della società a controllo pubblico, con
delibera motivata con riguardo a specifiche
ragioni di adeguatezza organizzativa e
tenendo conto delle esigenze di contenimento
dei costi, può disporre che la società sia
amministrata da un consiglio di
amministrazione composto da tre o cinque
membri».
Ne deriva che l'assemblea
straordinaria nelle Spa (o qualificata nelle
srl) potrà anche decidere di mantenere
l'organo pluripersonale ma dovrà da un lato
giustificarlo (con le dimensioni e la
complessità della gestione) e dall'altro far
sì che tale opzione non determini né aggravi
di costi né spese sostenibili per la
società.
Ai sensi dell'art. 11, comma 9, lett. a),
inoltre, nell'ambito del cda le deleghe di
gestione vanno attribuite ad un solo
amministratore, salvo , che l'assemblea non
abbia preventivamente assegnato espressa
possibilità di conferire le stesse anche al
presidente.
La carica di vicepresidente va esclusa o
oppure va previsto che qualora essa sia
istituita in caso di assenza o impedimento
del presidente, la funzione sia assolta a
titolo gratuito.
Va altresì ricordato che agli amministratori
(art. 11, comma 9, lett. c) dovrà essere
riconosciuto solo un compenso
onnicomprensivo, determinato annualmente in
via anticipata con decisione dell'assemblea.
Ai componenti del cda non potrà essere
riconosciuto nessun gettone di presenza, né
premi di risultato deliberati dopo lo
svolgimento delle attività, né trattamenti
di fine mandato.
Anche tali limiti dovranno trovare
allocazione nello statuto. Altresì vietato
sarà corrispondere tfm ai componenti gli
organi sociali. Non è inoltre ammesso
istituire organi diversi da quelli previsti
dalle norme generali in tema di società (es.
comitato nomine, comitato rischi ecc.).
Nelle srl, infine, ai sensi dell'art. 11,
comma 5, dovrà escludersi la possibilità di
ricorrere ad amministrazioni disgiuntive o
congiuntive a due o più soci essendo
d'obbligo avvalersi dell'amministratore
unico o del cda.
I controlli. Nelle srl l'art. 3, comma 2
dispone che l'atto costitutivo o lo statuto
debbano prevedere la nomina di un organo di
controllo o di un revisore a prescindere dai
limiti dimensionali della società (art. 3,
comma 2). Ne deriva che il revisore è sempre
obbligatorio ma i soci possono optare per un
collegio sindacale, nonché, si ritiene per
un sindaco unico. In questi ultimi casi
all'organo pluripersonale o monocratico
dovranno essere delegati anche i controlli
contabili.
Nelle spa a controllo pubblico, inoltre, lo
stesso art. 3, comma 2, prevede che la
revisione legale dei conti non possa essere
affidata al collegio sindacale. Ne deriva
che nelle spa di questo tipo, si dovrà
prevedere anche statutariamente la nomina di
un revisore esterno (persona fisica o
società di revisione) che affianchi il
collegio sindacale.
---------------
In house, vigilanza
diretta.
Caratteristica operativa di questo tipo di
società è quella di poter ricevere
affidamenti diretti di contratti pubblici
dalle p.a. che esercitano su di esse il
controllo analogo o da ciascuna delle
amministrazioni che esercitano su di esse il
controllo analogo congiunto (art. 16, comma
1, dlgs 175/2016 .
Le clausole degli atti costitutivi di tali
società devono consentire la possibilità per
l'ente pubblico controllante (o gli enti
pubblici controllanti) di esercitare
direttamente la gestione e la vigilanza
della società.
Fra le clausole più rilevanti che gli
statuti debbono prevedere in tale tipologia
societaria si ricorda, in particolare, la
necessità di perseguire i seguenti
obiettivi:
1) che la società effettui oltre l'ottanta
per cento del fatturato nello svolgimento
dei compiti alla stessa affidati dall'ente
pubblico o dagli enti pubblici soci;
2) che la nomina e revoca degli
amministratori competano al socio/soci
controllante/controllanti;
3) che le decisioni «strategiche» del cda
siano subordinate ad autorizzazioni
assembleari (art. 2364 n. 5 c.c. per le spa
e art. 2479 c.c. per le srl)
(articolo ItaliaOggi
Sette del
10.07.2017). |
APPALTI: Economie
da ribassi d'asta con strascichi
sull'esercizio.
Le economie da ribassi d'asta realizzate su
opere per le quali gli enti territoriali
hanno ottenuto spazi finanziari a valere sul
pareggio di bilancio, se non riutilizzate,
determinano l'impossibilità di beneficiare
di ulteriori assegnazioni nell'esercizio
finanziario successivo.
Il chiarimento arriva dal Mef all'indomani
della diffusione del dm 138205 del 27/6, che
disciplina gli adempimenti relativi al
monitoraggio del saldo di finanza pubblica
per l'esercizio in corso.
Il dm dedica
particolare attenzione alla rendicontazione
degli spazi acquisiti per spese di
investimento, consentendo agli enti
beneficiari di monitorarne l'impiego già in
corso di gestione e di rideterminare il
proprio saldo obiettivo finale (e il
conseguente eventuale sforamento rispetto al
saldo conseguito) laddove non li utilizzino
integralmente.
Gli spazi (acquisiti mediante
intese regionali o patti di solidarietà
nazionali) sono, infatti, assegnati con
specifico vincolo di destinazione, per cui
gli enti che li hanno acquisiti devono
tendere a un obiettivo di saldo che tenga
conto del loro eventuale mancato utilizzo
per le finalità per cui sono stati
attribuiti.
Ma non basta. La legge 232/2016
stabilisce che, se gli spazi concessi in
attuazione non sono totalmente utilizzati,
l'ente sprecone non potrà beneficiare di
assegnazioni nell'esercizio finanziario
successivo.
Accade che gli enti chiedano
cifre più alte di quelle che poi si rivelano
necessarie, ad esempio perché i lavori sono
aggiudicati con un ribasso d'asta. La
verifica sarà rigorosa: gli spazi liberati
dai ribassi dovranno essere riprogrammati o
su opere complementari a quelle originarie o
su altri interventi o scatteranno le
penalizzazioni e l'ente l'anno successivo
resterà a bocca asciutta.
Tale meccanismo è
del 2017, le prime verifiche scatteranno nel
2018, mentre non vi sono conseguenze per gli
enti che abbiano in tutto in parte lasciato
inutilizzati spazi acquisiti negli anni
scorsi
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Doppio
limite per i contratti a tempo.
Doppio limite per i contratti a tempo
determinato nella pubblica amministrazione.
La riforma al dlgs 165/2001 disposta col
dlgs 75/2017 tocca anche l'art. 36, comma 2,
il cui 3° periodo dispone: «I contratti di
lavoro subordinato a tempo determinato
possono essere stipulati nel rispetto degli
articoli 19 e seguenti del decreto
legislativo 15.06.2015, n. 81, escluso
il diritto di precedenza che si applica al
solo personale reclutato secondo le
procedure di cui all'articolo 35, comma 1,
lett. b), del presente decreto».
Col rinvio
chiaro alla normativa vigente nel lavoro
privato sul contratto a tempo determinato,
non vi è più alcun dubbio: anche al lavoro
pubblico si estende il tetto alle assunzioni
ex art. 23, comma 1, dlgs 81/2015, ai sensi
del quale «salvo diversa disposizione dei
contratti collettivi non possono essere
assunti lavoratori a tempo determinato in
misura superiore al 20 per cento del numero
dei lavoratori a tempo indeterminato in
forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione,
con un arrotondamento del decimale all'unità
superiore qualora esso sia eguale o
superiore a 0,5. Nel caso di inizio
dell'attività nel corso dell'anno, il limite
percentuale si computa sul numero dei
lavoratori a tempo indeterminato in forza al
momento dell'assunzione. Per i datori di
lavoro che occupano fino a cinque dipendenti
è sempre possibile stipulare un contratto di
lavoro a tempo determinato».
Attualmente, i
contratti collettivi nazionali di lavoro non
prevedono tetti diversi ai contratti a tempo
determinato.
Ma potrebbero intervenire per
esercitare la flessibilizzazione loro
consentita al tetto, perché il limite al
numero di dipendenti assumibili a tempo
determinato fissato dal dlgs 81/2015 si
affianca al limite finanziario ex art. 9,
comma 28, del dl 78/2010, convertito in
legge 122/2010, che consente di assumere con
contratti flessibili (e, dunque, non solo
col tempo determinato) solo entro il tetto
del 50% di quanto speso nel 2009 (100% per
gli enti locali in regola con gli obblighi
di riduzione della spesa di personale). La
coesistenza di questi due tetti pone il
problema della prevalenza tra loro.
Laddove
il limite finanziario consentisse un maggior
numero di assunzioni rispetto al 20% del
personale a tempo determinato in forza, gli
enti sono da considerare autorizzati ad
andare oltre? E, nel caso opposto, qualora
il tetto del 20% del personale a tempo
indeterminato fosse superiore al limite assunzionale del 2009, gli enti sarebbero
autorizzati ad assumere oltre il limite
finanziario? Saranno queste le domande che
sul piano pratico si porranno gli operatori.
Tuttavia, è abbastanza facile immaginare che
senza un intervento di coordinamento
normativo o del Ccnl, prevarranno risposte
restrittive: il tetto di spesa prevarrà sul
limite al numero dei contratti, se questo
determinasse assunzioni in numero maggiore
ai fondi 2009; nel caso inverso, anche
laddove le risorse riferite al 2009 fossero
superiori al tetto massimo del numero dei
dipendenti assumibili, in ogni caso il 20%
dei dipendenti a tempo indeterminato
verrebbe considerato invalicabile.
L'applicazione del limite al numero di
contratti attivabili non incide, invece,
sugli art. 19, comma 6, dlgs 165/2001 e 110,
commi 1 e 2, dlgs 267/2000, in tema di
assunzioni di dirigenti a contratto a tempo
determinato: infatti, l'art. 29, dlgs
81/2015 esclude espressamente l'applicazione
ai dirigenti delle norme contenute nel capo
del medesimo decreto dedicato al lavoro a
termine.
Pertanto, per i dirigenti a
contratto restano i limiti fissati dalle due
norme speciali relative al lavoro alle
dipendenze della pubblica amministrazione
citate prima. Semmai, per gli incarichi a
contratto il problema è un altro: poiché a
partire dall'approvazione delle linee di
indirizzo con le quali la Funzione pubblica
sbloccherà il passaggio dalle dotazioni
organiche ai fabbisogni, applicare le
percentuali di dirigenti a contratto
previste dagli art. 19, commi 6, del dlgs
165/2001, e 110, commi 1-2, del dlgs
267/2000 sarà difficilissimo.
Infatti, la
consistenza organica degli enti sarà data
semplicemente dal personale in servizio e
dalle risorse disponibili per le assunzioni,
di volta in volta vigenti. Dunque, non vi
saranno più posti della dotazione organica
su cui computare i dirigenti a contratto, i
quali, stando alla normativa vigente
potranno essere solo extra dotazione e
finanziati con le risorse assunzionali per
il tempo determinato, nel caso dell'art. 19,
comma 6, del dlgs 165/2001 per le p.a.
statali e regionali; finanziati invece con
le risorse per il tempo indeterminato nel
caso degli enti locali, poiché la spesa
degli incarichi a contratto ai sensi
dell'art. 110 non rientra nei limiti
dell'art. 9, comma 28, dl 79/2010
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro occasionale al via.
Da lunedì la registrazione al sito dell'Inps.
Circolare dell'istituto previdenziale sulle
nuove prestazioni attivabili.
Debutta il nuovo lavoro occasionale. Da
lunedì, infatti, datori di lavoro e
lavoratori potranno registrarsi al sito
Inps, accedendo alla piattaforma elettronica
dedicata o chiamando al contact center.
La
registrazione è un passaggio propedeutico
allo svolgimento delle nuove prestazioni,
attivabili con due forme contrattuali:
libretto di famiglia (per i senza partita
Iva) e contratto di prestazione occasionale
(professionisti, imprese e partita Iva).
A
spiegarlo è l'Inps nella
circolare
05.07.2017 n. 107.
Due forme contrattuali. La nuova disciplina
prevede che i datori di lavoro
(utilizzatori) possano acquisire prestazioni
di lavoro occasionale, entro certi limiti
considerati al netto dei contributi e altri
oneri (si veda in tabella), secondo due
diverse forme contrattuali:
• il Libretto Famiglia (per le persone
fisiche non nell'esercizio di un'impresa o
di una libera professione);
• il Contratto di prestazione occasionale
(per gli altri datori di lavoro:
professionisti, lavoratori autonomi,
imprenditori, associazioni, fondazioni ed
altri enti di natura privata, Pubbliche
amministrazioni).
Le differenze tra le due forme riguardano,
oltre ai datori di lavoro che le possono
utilizzare, le modalità e i tempi di
comunicazione della prestazione, l'oggetto
della prestazione e il regime dei compensi e
delle contribuzioni obbligatorie.
Come attivare le nuove prestazioni. La
circolare spiega che, in entrambe le
ipotesi, l'attivazione delle nuove
prestazioni richiede alcuni adempimenti:
• la registrazione del datore di lavoro e
del lavoratore (prestatore) attraverso
piattaforma informatica gestita dall'Inps o
anche tramite il contact center dell'Inps;
• il versamento, da parte del datore di
lavoro, della provvista necessaria per il
pagamento delle prestazioni e dei contributi
obbligatori; tale versamento va fatto
attraverso F24 o con altri strumenti di
pagamento elettronici. Attenzione; l'Inps
precisa che, a seconda della forma di
pagamento utilizzata, le somme versate sono
di norma utilizzabili entro 7 giorni dal
loro versamento;
• comunicazione preventiva di lavoro
occasionale da parte del datore di lavoro,
tramite la stessa piattaforma online o anche
mediante contact center dell'Inps.
Gli adempimenti saranno possibili da lunedì
10 luglio su www.inps.it/PrestazioniOccasionali,
oppure avvalendosi dei servizi di contact
center.
Pagamenti tracciabili. Le nuove prestazioni
non sono retribuite dai datori di lavoro
(utilizzatori), ma direttamente dall'Inps
entro il giorno 15 di ogni mese con
riferimento alle prestazioni svolte durante
tutto il mese precedente. A tal fine,
all'atto della registrazione, i prestatori
devono indicare l'Iban del c/c bancario o
postale, o del libretto postale ovvero della
carta di credito, sul cui l'Inps potrà fare
i pagamenti.
Attenzione; in caso di errata
compilazione dei dati relativi all'Iban,
l'Inps si tira fuori da qualsiasi forma di
responsabilità in caso di erogazione del
compenso a beneficiari diversi dal
prestatore. In caso di mancata indicazione
dell'Iban, invece, l'Inps eroga i compensi
mediante bonifico bancario domiciliato
pagabile presso le Poste. In tal caso, però,
gli oneri di pagamento del bonifico, pari a
2,60 euro, sono a carico del lavoratore e
verranno trattenuti sul compenso.
In campo i consulenti.
Gli adempimenti possono essere svolti
direttamente dalle soggetti interessati,
oppure tramite intermediari ed enti di
patronato solamente per i servizi di
registrazione del prestatore e degli
adempimenti relativi all'utilizzo del
Libretto Famiglia (da parte di utilizzatore
e prestatore)
(articolo ItaliaOggi del
06.07.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO
IMPIEGO:
Concorso pubblico sotto chiave.
La privacy dei candidati blocca l'accesso
generalizzato. Lo ha precisato il Garante
con un parere in tema di Freedom of
information act.
I temi del concorso pubblico rimangono sotto
chiave. Il Foia non può essere
strumentalizzato per raccogliere gli
elaborati. La privacy dei singoli candidati
blocca il cosiddetto accesso civico
generalizzato (cioè chiesto da chiunque e
senza una motivazione particolare).
È quanto precisato dal Garante con il
provvedimento
24.05.2017 n. 246, nel quale si
precisa che chi ha un interesse diretto,
concreto e attuale (ad esempio impugnare
l'esito del concorso) non perderà nulla,
perché potrà sempre chiedere copia degli
atti utilizzando il diverso accesso
documentale previsto dalla legge 241/1990.
Nel caso concreto siamo di fronte alla
richiesta di accesso civico per avere copie
delle prove scritte corrette e valutate (ben
254 elaborati) di un concorso a posti di
commissario di Polizia di stato, richiesta
presentata da un soggetto che non ha
partecipato al concorso. Il problema è se
con l'accesso civico si possono dare in
copia gli elaborati scritti di prove
concorsuali.
Il Garante sottolinea che
l'elaborato scritto presentato a un concorso
pubblico è, in linea di massima, indicativo
anche di molteplici aspetti di carattere
personale circa le caratteristiche
individuali, relativi ad esempio alla
preparazione professionale, alla cultura,
alle capacità di espressione, o al carattere
del candidato, che costituiscono aspetti
valutabili nella selezione dei partecipanti.
Non solo. In alcuni casi, e a seconda della
traccia sottoposta, il contenuto degli
elaborati può essere potenzialmente capace
di rivelare anche informazioni e convinzioni
che possono rientrare nella categoria dei
dati sensibili, in particolare questi
riguarda le tracce su temi storici o di
cultura generale che potrebbero rivelare
opinioni politiche, convinzioni filosofiche
o di altro genere.
In merito alla richiesta
di copia degli elaborati scritti relativi a
prove concorsuali, il garante ritiene che
l'accesso è suscettibile di determinare, a
seconda delle ipotesi e del contesto in cui
possono essere utilizzati da terzi, un
pregiudizio concreto alla tutela della
protezione dei dati personali. Le norme
prevedono, però, la possibilità di accordare
un accesso civico parziale, con omissis o
schermature di parti dei documenti.
In
proposito il Garante avverte che anche se si
fornisce la copia degli elaborati priva
dell'associazione ai dati personali
identificativi dei candidati, poiché gli
elaborati scritti delle procedure
concorsuali sono redatti di proprio pugno
dai candidati, non si può escludere
completamente la possibilità di re-indentificare a posteriori il soggetto
interessato tramite la conoscenza o la
comparazione della relativa grafia.
C'è poi
ancora un'altra possibile causa ostativa:
l'elaborato è il risultato di un'opera
creativa intellettuale del candidato e non è
escluso che si possa opporre all'accesso
l'esistenza di interessi legati alla
proprietà intellettuale o al diritto
d'autore. Chi vuole avere i temi di altri
partecipanti al concorso deve dimostrare di
avere i requisiti dell'accesso previsto
dalla legge 241/1990 e cioè un interesse
diretto, concreto e attuale, corrispondente
ad una situazione giuridicamente tutelata e
collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso
(articolo ItaliaOggi
Sette del
03.07.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Distributori, bonifica al titolare.
Torna il tacito rinnovo per tutte le polizze
ramo danni.
La Camera dà via libera al ddl Concorrenza.
Telemarketing, stop al consenso in diretta.
Obbligo di bonifica a carico dei titolari
dei distributori di carburante dismessi
quando ne viene accertata la contaminazione
dei terreni sottostanti.
Lo prevede la nuova
versione del ddl concorrenza, approvata ieri
alla Camera con 218 voti favorevoli, 124
contrari e 36 astenuti (tra cui Mdp). Il
testo è atteso ora in Senato per la quarta
lettura.
Sono cinque le novità introdotte
alla Camera; oltre alla norma sui
distributori, si concentrano su
assicurazioni, telemarketing, energia e
società di odontoiatria.
Distributori di carburante. È l'unica
modifica non introdotta in commissione ma
direttamente dal passaggio in Aula.
L'emendamento, a firma M5s, garantisce
l'obbligo di bonifica dei terreni
precedentemente utilizzati come distributori
di carburanti. A carico dei titolari degli
impianti si avrà l'obbligo di rimuovere le
strutture interrate se il sito viene
riutilizzato. Senza riutilizzo, invece, nel
caso venga accertata la contaminazione, i
precedenti proprietari dovranno farsi carico
della bonifica dei predetti terreni.
Assicurazioni. Viene soppresso il divieto di
tacito rinnovo delle polizze ramo danni di
ogni tipologia. L'emendamento, approvato in
commissione Attività produttive, prima firma
Michele Pelillo (Pd), dà quindi la
possibilità di rinnovo delle polizze alle
stesse condizioni del periodo di copertura
precedente alla scadenza, ma rischia di
eliminare vantaggi in termini di
competitività secondo l'opinione espressa da
operatori del settore. Il ddl introduce
sconti per gli automobilisti che accettano
di inserire scatole nere e apparati simili
all'interno delle vetture, oltre che per i
guidatori meno soggetti a incidenti nelle
aree a più alta concentrazione degli stessi.
Telemarketing. Abolita la norma, introdotta
in seconda lettura del ddl al Senato, che
prevedeva l'accettazione della chiamata da
parte del destinatario senza tener conto del
consenso preventivo dello stesso e, invece,
istituiva la possibilità di richiedere il
consenso in diretta, una volta che il
destinatario avesse appreso le informazioni
relative alla natura della chiamata e al
soggetto per cui veniva effettuata.
Energia. Viene soppressa la disposizione che
offriva la possibilità di mettere all'asta
la fornitura di energia elettrica per gli
utenti che, al momento della scadenza del
regime tutelato in programma al primo luglio
2018, non avessero scelto uno specifico
operatore per la fornitura di energia.
Società di odontoiatri. Introdotti vincoli
più restrittivi per le società di
odontoiatri. Ognuna di esse dovrà avere un
direttore sanitario che risulti iscritto
all'albo della categoria. Viene inoltre
previsto che l'esercizio della professione
all'interno delle suddette strutture sia
consentito esclusivamente a chi abbia
l'abilitazione necessaria ad esercitarlo.
Dopo quasi 900 giorni di attesa, il testo
andrà in Senato per la definitiva
approvazione oppure per l'ennesimo rinvio
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi ai tecnici solo se c’è il
direttore dell’esecuzione.
Gli incentivi per forniture e servizi
possono essere assegnati solo quando risulti
obbligatorio incaricare un direttore
dell’esecuzione diverso dal responsabile
unico del procedimento.
Non può che essere
letta in questo modo la previsione
dell’articolo 113, comma 2, ultimo periodo,
del dlgs 50/2016 come modificata dal decreto
«correttivo», ai sensi del quale «la
disposizione di cui al presente comma si
applica agli appalti relativi a servizi o
forniture nel caso in cui è nominato il
direttore dell’esecuzione».
La previsione
introdotta dal dlgs 56/2017 ha lo scopo
chiarissimo di limitare quanto più possibile
la spesa per incentivazione delle attività
tecniche connesse agli appalti per
l’acquisizione di beni e servizi, per
evitare una crescita incontrollabile della
spesa del personale. Sarebbe fin troppo
facile eludere la norma, nominando sempre
espressamente un direttore dell’esecuzione
per ciascuna fornitura e ciascun servizio:
significherebbe vanificare totalmente lo
scopo della riforma.
Pare necessario,
allora, leggere la previsione dell’articolo
113, comma 2, del codice dei contratti in
stretta connessione con il punto 10 delle
Linee Guida Anac 3/2016, dedicate al Rup di
servizi e forniture.
Tale punto 10 evidenzia
cinque casi nei quali il responsabile unico
del procedimento non può coincidere col
direttore dell’esecuzione:
a) quando si
tratta prestazioni di importo superiore a
500 mila euro;
b) per interventi
particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
c) per prestazioni che
richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della
funzionalità delle strutture sanitarie che
comprendono trasporto, pulizie,
ristorazione, sterilizzazione, vigilanza,
socio sanitario, supporto informatico);
d)
se si tratta di interventi caratterizzati
dall’utilizzo di componenti o di processi
produttivi innovativi o dalla necessità di
elevate prestazioni per quanto riguarda la
loro funzionalità;
e) per ragioni
concernente l’organizzazione interna alla
stazione appaltante, che impongano il
coinvolgimento di unità organizzativa
diversa da quella cui afferiscono i soggetti
che hanno curato l’affidamento.
Solo quando
ricorrono queste ipotesi, da specificare e
motivare in profondità nei provvedimenti con
cui si incarica un direttore dell’esecuzione
diverso dal responsabile unico del
procedimento, appare possibile innescare
l’incentivo. Ovviamente, nulla esclude che
anche non ricorrendo le 5 ipotesi previste
dal codice ciascuna amministrazione per fare
fronte a particolari proprie esigenze
organizzative disponga comunque di non far
coincidere l’incarico di Rup con quello di
direttore dell’esecuzione.
Il regolamento sull’assegnazione degli
incentivi, allora, in questo caso dovrà
essere estremamente chiaro nell’escludere
che spetti la ripartizione degli incentivi
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
ENTI LOCALI: Partecipate, vademecum Anci. Le assunzioni
non sono ancora congelate.
Le società partecipate possono avviare e
concludere le procedure di assunzione di
personale fino alla data di pubblicazione
del decreto del ministro del lavoro che
stabilirà le modalità di trasmissione alle
regioni degli elenchi degli esuberi. Solo
dopo la pubblicazione del dm, infatti,
scatterà il divieto di assunzioni a tempo
indeterminato che resterà in vigore fino al
30.06.2018, proprio per consentire alle
società di coprire eventuali carenze di
personale esclusivamente attingendo agli
elenchi di cui sopra.
È uno dei tanti
chiarimenti a beneficio dei comuni e delle
società a controllo pubblico contenuti
nell'ultimo quaderno operativo che l'Anci ha
dedicato al Testo unico delle partecipate (dlgs
n. 175/2016), ormai pienamente a regime dopo
la pubblicazione in Gazzetta e l'entrata in
vigore del decreto correttivo (dlgs n.
100/2017).
Il quaderno è composto innanzitutto da
un'utile nota di lettura del T.u., così come
integrato e corretto dalle ultime modifiche
introdotte per venire incontro alle
richieste degli enti locali. Seguono due
tabelle con lo scadenzario degli adempimenti
a carico degli enti locali e delle società.
A cominciare dalla prima data da segnare sul
calendario, il prossimo 31 luglio entro cui
gli statuti sociali dovranno essere adeguati
alla riforma. Per finire uno schema di
delibera (si veda modello in pagina) per la
revisione straordinaria delle
partecipazioni, che il consiglio comunale
dovrà approvare entro il 30 settembre, e una
proposta di statuto per le società a
responsabilità limitata in house.
Il quaderno della collana «Manuali tecnici
per amministratori» è stato predisposto dal
gruppo di lavoro coordinato dal
vicesegretario Anci, Stefania Dota in
collaborazione con lo studio Narducci ed è
scaricabile gratuitamente dal sito web dell'Anci
cliccando qui
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Opere, arriva il débat public.
Per grandi infrastrutture e se lo chiedono
50 mila cittadini.
Pronto lo schema di decreto che potrebbe
presto approdare sul tavolo del cdm.
Pronto lo schema di decreto che introduce il
dibattito pubblico per le grandi
infrastrutture. Il «débat public» sarà
applicabile per opere di importo superiore
ai 200 milioni e anche quando lo
richiederanno 50 mila cittadini o il
progettista. Sarà gestito da un esperto
selezionato da un elenco istituito ad hoc e
dovrà concludersi al massimo entro cinque
mesi.
Sono questi i punti principali dello schema
di dpcm predisposto dal ministero delle
infrastrutture e inviato al ministero dei
beni culturali e a quello dell'ambiente per
il «concerto». Dopo il via libera dei
ministeri il testo sarà approvato in via
preliminare dal consiglio dei ministri e poi
trasmesso alle competenti commissioni
parlamentari di camera e senato e al
Consiglio di stato per i rispettivi pareri,
prima di tornare in consiglio dei ministri
per il varo definitivo.
Dal punto di vista dell'ambito di
applicazione oggettivo, lo schema di decreto
(che attua il disposto del codice dei
contratti pubblici) prevede che il dibattito
pubblico sa avviato per le opere di importo
minimo compreso tra i 200 e i 500 milioni di
euro, importi variabili in base alla
tipologia di intervento. È inoltre stabilito
che sia obbligatorio su richiesta delle
amministrazioni centrali (presidenza del
consiglio e ministeri) e degli enti locali
(più di 100 mila abitanti) o su richiesta di
almeno 50 mila cittadini. Il soggetto
proponente l'intervento sarà invece sempre
libero di chiedere il dibattito pubblico.
Oggetto del dibattito sarà la redazione
progetto di fattibilità tecnico-economica e
la finalità sarà quella di individuare le
alternative progettuali sulle quali, quindi,
il proponente può ancora intervenire in fase
progettuale.
La procedura durerà quattro mesi prorogabili
di altri due, se necessario. Il dibattito
pubblico verrà gestito da una figura
professionale selezionata ad hoc attraverso
procedure di evidenza pubblica scelti fra
soggetti idonei ricompresi nell'elenco dei
fornitori elaborato dalla Commissione
nazionale per il dibattito pubblico prevista
dallo stesso decreto. Si tratterà di un
soggetto indipendente che svolgerà il
proprio compito in autonomia in
coordinamento con il proponente
dell'intervento e con il progettista.
Il dibattito pubblico sarà anticipato da una
fase dedicata alla progettazione del
processo decisionale (massimo tre mesi) e
dovrà tenere conto delle caratteristiche
dell'intervento e delle peculiarità del
contesto sociale e territoriale di
riferimento; in sostanza si concretizzerà in
incontri di informazione, approfondimento,
discussione e gestione dei conflitti, oltre
che nella raccolta di proposte e di
posizioni da parte di cittadini e altri
soggetti interessati
Al termine delle consultazioni, il
proponente avrà tre mesi di tempo per
presentare una relazione conclusiva da cui
dovrà emergere la volontà o meno di
realizzare l'intervento, le eventuali
modifiche apportate al progetto e le ragioni
che hanno condotto a non accogliere
eventuali proposte.
A fianco del proponente opererà un comitato
di monitoraggio composto dagli enti locali
direttamente coinvolti dall'intervento
allora dopo di contribuire alla definizione
delle modalità di svolgimento del dibattito
pubblico, collaborare alla realizzazione e
alla supervisione del dibattito, concorrere
alla soluzione dei problemi e delle
criticità che eventualmente si manifestino
durante il dibattito, nonché contribuire
alla discussione e alla valutazione delle
proposte emerse nel corso del dibattito
pubblico
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
APPALTI: L'albo dei commissari slitta a fine anno.
Per gare d'appalto e concessioni. Lo propone
l'Anac.
Slitta a fine 2017, da fine giugno, il
termine per mettere a punto l'albo dei
commissari di gara di appalti e concessioni
pubbliche. Le stazioni appaltanti avranno
l'obbligo di segnalare all'Anac la nomina
dei commissari di gara entro tre giorni.
Sarà ammesso non prevedere coperture
assicurative per i commissari di gara.
Sono questi i principali effetti previsti
dalla proposta di adeguamento delle linee
guida n. 3 dell'Autorità nazionale
Anticorruzione sui commissari di gara di cui
è scaduto mercoledì scorso il termine per
l'invio delle osservazioni. L'adeguamento
delle linee guida sulla disciplina dei
commissari di gara, uno dei cardini della
riforma del nuovo codice appalti, è dovuto
all'entrata in vigore del dlgs 56/2017,
l'Autorità ha ritenuto opportuno procedere
all'aggiornamento delle linee guida n.
5/2016 per tenere conto delle modifiche
normative apportate dal decreto 56 e per
tarare le linee guida su alcuni elementi di
sviluppo del processo informatico di
iscrizione e aggiornamento dell'albo delle
commissioni giudicatrici, oltre che, infine,
di alcuni suggerimenti pervenuti da
operatori del settore.
In base al codice dei contratti pubblici,
come risultante dal decreto correttivo, fra
le altre cose è previsto l'obbligo di
scegliere il presidente delle commissioni di
gara tra gli esperti selezionati
dall'Autorità per gli affidamenti relativi a
contratti per i servizi e le forniture di
importo inferiore alle soglie di rilevanza
comunitaria, per i lavori di importo
inferiore a un milione di euro o per quelli
che non presentano particolare complessità.
Il documento Anac, che verosimilmente sarà
mantenuto nella sua impostazione di fondo,
prevede innanzitutto che per contratti a
elevato contenuto tecnologico o innovativo
la stazione appaltante, entro 30 giorni
antecedenti il termine per la richiesta,
invii una richiesta motivata all'Autorità
per selezionare i componenti al proprio
interno.
Sempre a carico della stazione appaltante
viene previsto l'obbligo di comunicare
all'Autorità entro tre giorni l'avvenuta
pubblicazione della commissione di gara.
Il software di acquisizione dei dati e il
regolamento potranno eventualmente definire
un eventuale dettaglio dei dati da
comunicare. Fra i requisiti per essere
iscritti all'albo è stato inserito anche
l'eventuale titolo di formazione specifica
(master, dottorato, Phd), valutabile oltre
che con riferimento alla contrattualistica
pubblica anche in relazione ai settori di
competenza.
Si prevede inoltre la possibilità
dell'assenza di una copertura assicurativa
nei casi in cui i commissari siano
dipendenti della stazione appaltante che li
richiede come componenti interni.
Infine è stato spostato da fine giugno a
fine dicembre di quest'anno il termine per
l'adozione del Regolamento dell'Authority
anticorruzione di funzionamento dell'albo,
uno degli adempimenti propedeutici al reale
avvio del nuovo sistema di nomina dei
commissari.
Sarà infatti necessaria anche l'approvazione
di un decreto del ministero delle
infrastrutture che fissi le tariffe e il
tetto ai compensi dei commissari. Fino a
quel momento si potranno nominare commissari
interni
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Feste,
sindaci in campo. Verifiche preliminari e
valutazione rischi. Nota del Viminale ai
comuni sulla sicurezza nelle manifestazioni
estive.
Feste e manifestazioni estive in massima
sicurezza previa valutazione dei rischi
anche da parte del Comitato provinciale per
l'ordine pubblico. Ma in prima battuta
spetterà ai soggetti organizzatori e ai
comuni attivare assieme alle forze
dell'ordine tutte le verifiche preliminari
finalizzate a evitare il sovraffollamento e
una valutazione complessiva dei rischi.
Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con
la
nota
19.06.2017 n. 11464 di prot..
I recenti fatti di Torino hanno evidenziato
la necessità di potenziare sia i dispositivi
fisici a tutela delle persone (safety), sia
i servizi di ordine e sicurezza pubblica
(security), in caso di manifestazioni
pubbliche.
Per questo motivo il capo della polizia ha
adottato la circolare del 7 giugno (si veda
ItaliaOggi del 16/06/2017) indirizzata agli
organi dello stato. Ed ora il Viminale ha
fornito indicazioni di dettaglio anche ai
comuni, tramite le prefetture,
specificamente dedicate alle misure fisiche
di sicurezza delle piazze e delle
manifestazioni. La spirito delle indicazioni
centrali è quello di raccordare i sindaci e
la polizia locale con le altre forze
dell'ordine per effettuare una valutazione
specifica del quadro complessivo dei rischi
connessi ad ogni singola manifestazione.
Dal confronto tra amministratori comunali,
polizia locale, carabinieri e polizia di
stato potrà emergere la necessità di
coinvolgere anche il comitato provinciale
per l'ordine e la sicurezza pubblica, in
un'ottica di sicurezza integrata. Gli eventi
da analizzare preventivamente, specifica la
circolare, sono tutte le manifestazioni di
piazza, a prescindere dal numero previsto
dei partecipanti. Anche se si tratta di
eventi che non richiedono l'attivazione dei
comitati comunali e provinciali di vigilanza
sui pubblici spettacoli.
Servirà un approccio flessibile alle singole
manifestazioni per individuare un quadro
complessivo dei rischi che non può essere
correlato solo al numero delle persone
presenti, prosegue la nota. La criticità di
un determinato evento, prosegue il
ministero, «discende da un insieme di
fattori oggettivi di contesto, su cui
incidono, al di là del mero dato numerico
dei partecipanti, anche concomitanti fattori
contestuali, come, per esempio, la
particolare conformazione o dimensione del
luogo di svolgimento della manifestazione».
Attenzione alle manifestazioni di tipo
statico e a quelle di tipo dinamico. In
particolare per quelle itineranti occorrerà
individuare fattori ulteriori di
vulnerabilità durante l'itinerario. Anche se
non è necessaria l'attivazione delle
commissioni comunali o provinciali sui
locali di pubblico spettacolo il Viminale
consiglia di fare riferimento alla normativa
sottesa come utile parametro valutativo dei
rischi. Al ricorrere di condizioni
straordinarie, prosegue la nota, il comitato
provinciale per l'ordine pubblico potrà
sempre imporre ulteriori precauzioni.
E in questo caso saranno soprattutto i
vigili del fuoco a fornire istruzioni ad
hoc. Particolarmente importante risulta
infine il piano di emergenza, da adottare a
cura dell'organizzatore. E per evitare il
sovraffollamento delle manifestazioni anche
ad accesso libero sarà necessario utilizzare
apparecchi conta persone oppure potenziare
il servizio di vigilanza privata.
Un ultimo profilo di rischio risulta
correlato alla possibile propagazione degli
effetti di panico collegati o connessi al
verificarsi di eventi imprevedibili anche di
carattere naturale.
Questa condizioni sono fronteggiabili solo
con adeguate misure di prevenzione e di
valutazione preventiva del deflusso delle
persone. Anche potenziando il servizio
antincendio nelle manifestazioni, conclude
la nota
(articolo ItaliaOggi del
29.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Ammessi gli avvocati dipendenti. Proposta
cgil. Cancellare l'incompatibilità per gli
avvocati sans papier.
Lo prevede una proposta di legge (Atto
Camera n. 4408 - Modifica
all'articolo 19 della legge 31.12.2012, n.
247, in materia di incompatibilità
dell'esercizio della professione di avvocato)
presentata ieri dalla Cgil, che modifica un
articolo del nuovo ordinamento forense
eliminando l'incompatibilità tra lavoro
dipendente e autonoma professione di
avvocato.
In particolare, l'incompatibilità «non si
verifica per gli avvocati che svolgano
attività di lavoro dipendente, o
parasubordinato in via esclusiva presso lo
studio di un altro avvocato, o associazione
professionale o società tra avvocati o
multidisciplinare», purché «la natura
dell'attività svolta dall'avvocato riguardi
esclusivamente quella riconducibile ad
attività propria della professione forense».
Pertanto, «al lavoratore saranno applicate
le norme del contratto collettivo nazionale
di riferimento». L'iniziativa del sindacato
è stata concordata con alcune associazioni
di categoria, tra cui l'Associazione
nazionale forense. «Il progetto di legge
depositato dall'onorevole Chiara Gribaudo»,
afferma il segretario generale, Luigi
Pansini, «testimonia la sua attenzione al
rapporto la tra legge ordinamentale forense
e idea del lavoro autonomo.
In
considerazione anche dell'appoggio dato
all'elaborazione della proposta dalla Cgil
possiamo auspicare che ci sia finalmente
all'orizzonte un intervento organico sulla
situazione lavorativa degli avvocati mono
committenti, che sono e dovranno essere
sempre avvocati». «La spinosa situazione
degli avvocati che esercitano in regime di
mono committenza», continua Pansini, «si
protrae da tempo, tanto che la stessa Cgil
sul tema ha meritoriamente preso le mosse
dalle elaborazioni dell'Anf del 2010 e del
2012.
Negli anni non vi è mai stato un
intervento preciso e mirato e nel frattempo
la situazione ha visto dei sostanziali
mutamenti in quanto nel 2012 è entrata in
vigore una legge ordinamentale che, sebbene,
come da noi più volte denunciato, sia nata
vecchia, incide sull'attività anche
dell'avvocato mono committente che può
svolgersi in varie forme e con modalità
differenti pur mantenendo inalterate
specificità, natura e funzioni»
(articolo ItaliaOggi del
29.06.2017). |
VARI: Obbligo
di stima della casa se la banca la vende.
Studio del notariato affronta il caso del
mutuo non pagato.
Obbligo di stima della
casa se la banca la vende per rientrare del
mutuo non pagato. Il debitore deve poter
contare sul fatto che la banca non si
limiterà a spuntare un prezzo pari al
credito, ma si adopererà per spuntare il
prezzo più alto possibile, parametrato al
valore dell'immobile, magari con una
eccedenza per il consumatore.
L'equilibrio tra le posizioni della banca e
del mutuatario è suggerito dallo
studio 08.06.2017 n. 1-2017/C, della commissione studi
civilistici del Consiglio nazionale
notariato, dedicato alle riforme in tema di
garanzie del credito bancario.
Patto Marciano.
Nei mutui per l'acquisto
della casa la legge prevede il patto
marcino, cioè la facoltà per la banca di
acquisire o mettere in vendita il bene
finanziato, rivalendosi sul ricavato e con
versamento al debitore dell'eventuale
eccedenze rispetto al residuo debito e con
liberazione dalle obbligazioni del mutuo (esdebitazione).
Lo studio dei notai affronta il problema se
l'istituto funziona diversamente a seconda
che si preveda l'acquisto (o la
restituzione) della proprietà del bene da
parte della banca, oppure la facoltà della
banca di procedere alla vendita
dell'immobile a terzi. Nel primo caso la
tutela della posizione del mutuatario
sarebbe più forte, in quanto il valore
dell'immobile viene determinato mediante
stima successiva alla scadenza del debito
redatta da un perito indipendente.
Nel
secondo caso, invece, la tutela del debitore
sarebbe nelle mani della banca e rimessa
alla capacità della stessa di spuntare sul
mercato il miglior prezzo di realizzo, da
considerarsi il punto di raffronto per
rilevare l'eventuale eccedenza dello stesso
rispetto al debito residuo (da dare al
consumatore). Questa opzione potrebbe
interpretarsi nel senso che non vi sia una
stima successiva all'inadempimento che
determini il valore del bene confidando in
una convergenza di interessi, che in realtà
non c'è. L'interesse della banca è di avere
un prezzo almeno pari al debito residuo,
mentre quello del consumatore è di ottenere
un prezzo superiore al debito residuo.
I
notai consigliano un'interpretazione nel
senso che è sempre necessaria una stima
successiva all'inadempimento per determinare
il prezzo al quale eseguire la vendita a
terzi, Senza la stima del bene, lasciando
che la banca venda liberamente sul mercato,
sarebbe troppo forte il rischio di sacrifici
sproporzionati per il debitore, rispetto
all'importo del debito garantito, perché non
vi sarebbe alcuna verifica sul reale valore
di mercato del bene.
Prestito vitalizio.
È il finanziamento agli
ultrasessantenni dietro ipoteca sulla casa e
rimborso a carico degli eredi, La legge il
potere della banca di soddisfarsi
direttamente sul bene oggetto di garanzia e
soprattutto prevedendo la esdebitazione
degli eredi del beneficiario del prestito.
Questo finanziamento pone comunque problemi
interpretativi in caso di vendita del bene
da parte del debitore.
Per tutela della
banca, i notai ritengono necessario dare
conto della legittimazione del finanziatore
a vendere il bene in sede di iscrizione
dell'ipoteca, trattandosi di ipoteca con
effetti speciali. La vendita da parte del
debitore potrebbe essere stipulata, ma non
regge rispetto all'alienazione
successivamente effettuata dalla banca.
Pertanto, in caso di vendita del bene
oggetto di garanzia da parte del titolare,
in capo alla banca permane il potere di
vendita anche se è cambiato il proprietario.
La banca, quindi, potrà quindi vendere il
bene e venderlo libero da diritti reali
minori o ipoteche che possono averlo gravato
successivamente all'iscrizione dell'ipoteca
a garanzia del prestito vitalizio.
L'eventuale supero deve essere distribuito
dal finanziatore agli aventi diritto In
alternativa alla vendita diretta la banca
può optare per la procedura esecutiva
ordinaria, facendo valere la sua qualità di
creditore ipotecario. In ogni caso,
qualunque sia il procedimento di esecuzione
adottato, opera l'esdebitazione in quanto
tale effetto è collegato al tipo di
finanziamento e non al procedimento di
attuazione del credito adottato dal
finanziatore
(articolo ItaliaOggi del 28.06.2017). |
TRIBUTI: Dichiarazioni
Imu, no duplicati. Esentato il coltivatore
che ha presentato il modello Ici. Si è
espresso il dipartimento delle finanze del
Mef: vanno denunciate eventuali modifiche.
L'obbligo di presentazione delle
dichiarazioni Imu, il cui termine scade il
prossimo 30 giugno, non deve essere assolto
se i contribuenti hanno già presentato in
passato la dichiarazione, anche per l'Ici, e
non sono intervenute medio tempore delle
variazioni. Le dichiarazioni sono ultrattive
e producono effetti anche per gli anni
successivi se i contribuenti non devono
denunciare modifiche intervenute sulla loro
posizione soggettiva, anche per quanto
concerne il diritto a fruire delle
agevolazioni fiscali.
In questi termini si è di recente espresso
il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia (risoluzione 3/DF) in merito
all'esenzione dall'imposta municipale sui
terreni, che spetta a coltivatori diretti e
imprenditori agricoli in presenza dei
requisiti di legge.
Gli agricoltori, dunque,
hanno diritto all'esenzione Imu se a suo
tempo hanno presentato la dichiarazione e
non sono intervenute modifiche che possono
pregiudicare il loro diritto a beneficiare
del trattamento agevolato.
L'esenzione per i terreni
agricoli.
Secondo il ministero, i coltivatori non sono
«tenuti a presentare nuovamente la
dichiarazione Imu, dal momento che il comune
è già in possesso delle informazioni
necessarie per il riconoscimento delle
agevolazioni previste dalla legge».
Ribadisce che le riduzioni vanno dichiarate
sia nel caso in cui si acquista sia in
quello in cui si perde il relativo diritto.
Tuttavia, l'adempimento non va osservato se
il comune è già in possesso delle
informazioni necessarie «per verificare la
sussistenza dei requisiti richiesti per il
riconoscimento dell'esenzione dall'Imu».
L'adempimento è imposto, invece, se la
qualificazione soggettiva di coltivatore o
imprenditore agricolo ha subito variazioni
rispetto all'anno precedente. Sempre il
ministero in passato ha precisato che
l'esenzione Imu spetta a tutti i titolari di
terreni sia agricoli che incolti. Ancorché
la norma di legge preveda espressamente
l'esenzione Imu per i terreni agricoli, i
benefici si estendono a tutti i terreni
indipendentemente dalla loro coltivazione.
Per suffragare questa interpretazione viene
richiamata una pronuncia della Cassazione
(7369/2012), secondo cui la nozione
civilistica di terreno agricolo «va intesa
nel senso che il presupposto dell'imposta
resta integrato in presenza del possesso di
terreni suscettibili di essere destinati a
tale utilizzo, e non in conseguenza
dell'effettivo esercizio su di essi, delle
attività predette».
L'articolo 1, comma 13, della legge 208/2015
stabilisce che a partire dal 2016 non sono
tenuti al pagamento dell'imposta i titolari
di terreni montani o di collina ubicati nei
comuni elencati nella circolare del
ministero dell'economia e delle finanze
9/1993. Inoltre, sono esonerati i terreni
agricoli posseduti e condotti da coltivatori
diretti e imprenditori agricoli
professionali, a prescindere dalla loro
ubicazione, quelli ubicati nelle isole
minori, nonché quelli a immutabile
destinazione agro-silvo-pastorale a
proprietà collettiva indivisibile.
Il
legislatore, come è già avvenuto in passato,
per individuare i comuni montani o di
collina rinvia alla circolare ministeriale
9/1993. Quindi, non fa più fede l'elenco
predisposto dall'Istituto nazionale di
statistica (Istat), al quale le
amministrazioni locali hanno dovuto fare
riferimento per il 2015. Nell'elenco
allegato alla citata circolare, redatto
utilizzando i dati forniti dal ministero
dell'agricoltura e delle foreste, sono
indicati i comuni, suddivisi per provincia
di appartenenza, sul cui territorio i
terreni agricoli saranno esenti dall'imposta
municipale, come previsto dall'articolo 7,
comma 1, lettera h), del decreto legislativo
504/1992. Se a fianco dell'indicazione del
comune non è riportata alcuna annotazione,
vuol dire che l'esenzione opera sull'intero
territorio. Qualora, invece, sia riportata
l'annotazione parzialmente delimitato «PD»,
l'agevolazione sarà circoscritta a una parte
del territorio.
Questo comporta che negli
enti montani e di collina non sono più
richiesti requisiti soggettivi in capo ai
possessori dei terreni, ma conta solo la
loro inclusione nella circolare
ministeriale. Gli altri terreni,
indipendentemente dalla loro ubicazione,
possono invece fruire del trattamento
agevolato solo se posseduti e condotti da
coltivatori diretti e imprenditori agricoli
professionali, iscritti nella previdenza
agricola. Sono poi esonerati dal prelievo i
terreni ubicati nei comuni delle isole
minori di cui all'allegato A della legge
448/ 2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva
indivisibile e inusucapibile.
Contribuenti tenuti
all'adempimento.
Una volta stabilito, come evidenziato dal
ministero, che la dichiarazione deve essere
ripresentata solo in presenza di variazioni,
va sottolineato però che coloro che vantino
il diritto a fruire di riduzioni d'imposta
non sono esonerati dal relativo obbligo.
Pertanto, sono tenuti all'adempimento i
titolari di fabbricati inagibili o
inabitabili e di fatto non utilizzati,
coloro che possiedono immobili di interesse
storico o artistico.
Inoltre, vanno
denunciati tutti i casi in cui
l'amministrazione comunale non possiede le
notizie utili per verificare la correttezza
dell'operato dei contribuenti. Nello
specifico, tra i casi più significativi,
l'adempimento è richiesto quando: l'immobile
ha formato oggetto di locazione finanziaria
o di un atto di concessione amministrativa
su aree demaniali; l'immobile viene concesso
in locazione finanziaria, un terreno
agricolo diventa area edificabile o,
viceversa, l'area diviene edificabile in
seguito alla demolizione di un fabbricato.
Va dichiarato qualsiasi atto costitutivo,
modificativo o traslativo del diritto che
abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile.
Il valore dell'area, che è quello di
mercato, deve sempre essere dichiarato dal
contribuente, poiché questa informazione non
è presente nella banca dati catastale. Ecco
perché l'obbligo non sussiste quando viene
alienata un'area fabbricabile, se non ha
subito modifiche il suo valore di mercato
rispetto a quello dichiarato in precedenza.
L'obbligo non è abolito neppure per gli
immobili posseduti dalle imprese e
distintamente contabilizzati, classificabili
nel gruppo catastale D, che sono tenute a
dichiarare il valore venale del bene sulla
base delle scritture contabili, sia in
aumento che in diminuzione, fino all'anno di
attribuzione della rendita catastale.
La
dichiarazione, poi, deve essere presentata
per gli immobili relativamente ai quali
siano intervenute delle modifiche rilevanti
ai fini della determinazione dell'imposta
dovuta e del soggetto obbligato al
pagamento. Anche gli enti non commerciali
che sono stati esonerati fino al 2011
dall'obbligo di presentare la dichiarazione
Ici, sono invece tenuti a denunciare ai
comuni gli immobili posseduti per l'Imu. Non
è più applicabile per questi enti l'articolo
10 della normativa Ici (decreto legislativo
504/1992), che escludeva espressamente
dall'obbligo dichiarativo gli immobili
esenti.
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Termine unificato al 30
giugno.
Termine unico per le denunce Imu, Tasi e
Tari. Devono infatti essere presentate entro
il 30 giugno dell'anno successivo alla data
di inizio del possesso o della detenzione di
locali e aree. Nel caso di occupazione in
comune di un immobile, la dichiarazione può
essere presentata solo da uno degli
obbligati. Per la Tari restano ferme le
superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1,
Tia2 e Tares. All'imposta sui servizi
indivisibili, invece, si applicano le stesse
regole stabilite per l'imposta municipale.
Anche per la Tasi, dunque, la dichiarazione
non va presentata se gli elementi rilevanti
sono acquisibili attraverso la consultazione
della banca dati catastale o gli enti sono
già in possesso delle informazioni
necessarie per verificare il corretto
adempimento dell'obbligazione tributaria. Va
ricordato, infine, che per la dichiarazione
Tasi può essere utilizzato lo stesso modello
già approvato per l'Imu.
Il dipartimento delle finanze del ministero
dell'economia, con la circolare 2/2015, ha
sostenuto che per l'imposta sui servizi non
serve un modello di dichiarazione ad hoc e
che i comuni in molti casi già dispongono
delle informazioni necessarie per effettuare
i controlli e gli accertamenti sui due
tributi, nonostante siano diversi i soggetti
passivi, vale a dire proprietari, inquilini,
comodatari
(articolo ItaliaOggi
Sette del
26.06.2017). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Valvole,
rischio sanzioni bis. Entro il 30/6 serve
l'installazione. Non basta la delibera.
Nonostante la proroga, non più del 70% degli
immobili si è adeguato alla normativa.
Ultima chiamata per gli adempimenti in
materia di termoregolazione e
contabilizzazione del calore. Tra pochi
giorni, ovvero il 30 giugno, scade infatti
il termine per mettersi in regola con quanto
previsto dal dlgs 102/2014, dopo la deroga
arrivata in extremis con il c.d. decreto
milleproroghe dello scorso mese di dicembre
(dlgs 244/2016). Dal mese di luglio
potrebbero quindi scattare i controlli
orchestrati dalle amministrazioni regionali,
dai quali potrebbero scaturire sanzioni
pecuniarie fino a 2.500 euro sia per i
condomìni che per i singoli condomini
inadempienti.
Nel frattempo, proprio in
queste settimane, il ministero dello
sviluppo economico, con il supporto tecnico
di Enea e Cti (Comitato termotecnico
italiano), ha provveduto ad aggiornare i
chiarimenti messi a punto per rispondere ai
principali dubbi applicativi riscontrati fra
gli addetti ai lavori (si veda la sintesi in
tabella).
Nelle predette faq si evidenzia come non sia
sufficiente per evitare le sanzioni che
l'assemblea condominiale abbia deliberato
l'installazione di un sistema di
termoregolazione e contabilizzazione del
calore. Il fatto che l'installatore
incaricato non sia riuscito a rispettare i
tempi per problemi tecnici o organizzativi
non solleva, infatti, il condominio e i
condomini dalla responsabilità di non avere
rispettato i termini di legge.
L'unica
possibilità per gli inadempienti, come
ribadito anche nelle faq del ministero, è
quella di documentare, tramite apposita
relazione di un progettista o di un tecnico
abilitato, l'impossibilità tecnica di
provvedere all'installazione dei
sottocontatori o una inefficienza in termini
di costi e una sproporzione rispetto ai
risparmi energetici potenziali (qualora poi
sussista un impedimento anche per
l'installazione di sistemi di
termoregolazione e di contabilizzazione del
calore da installare in corrispondenza a
ciascun corpo scaldante, deve essere
prodotta una ulteriore relazione tecnica di
un progettista o un tecnico abilitato con
specifico riferimento alla norma tecnica UNI
EN 15459).
Ma la proroga di sei mesi decisa
a dicembre 2016 è servita realmente a dare
il tempo ai condomini ritardatari di
mettersi in regola con gli adempimenti del dlgs 102/2014? Secondo quanto riferito a
ItaliaOggi Sette da Qundis Gmbh, azienda che
si occupa dello sviluppo di sistemi per la
raccolta dei dettagli sui consumi
energetici, in questo periodo il mercato non
è ripartito come forse ci si aspettava,
anche perché i mesi primaverili sono stati
inaspettatamente freddi e molti lavori già
pianificati sono slittati a giugno. A detta
degli operatori, l'attività nel settore è
leggermente rallentata. Solo il Piemonte e
poche altre regioni hanno ripreso a lavorare
a pieno regime.
Il mercato italiano, secondo Qundis, non è
però saturo, essendo ragionevole ipotizzare
che non più del 70% degli immobili
interessati si sia adeguato alla nuova
normativa. Il mese di giugno dovrebbe quindi
avere registrato una forte impennata per le
imprese del settore. Ma è anche prevedibile
che il mercato, dopo la pausa estiva, lungi
dal fermarsi, riprenda il normale ciclo di
attività in autunno
(articolo ItaliaOggi
Sette del
26.06.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: Da
fine anno si parte con i semafori countdown.
Dal 19.12.2017 potranno essere installati
sulle strade italiane i semafori con il
countdown, purché omologati.
È infatti stato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 19.06.2017 il tanto atteso
decreto 27.04.2017
del Ministero delle infrastrutture e dei
trasporti recante «Caratteristiche per
omologare e installare dispositivi
finalizzati a visualizzare il tempo residuo
di accensione delle luci dei nuovi impianti
semaforici», titolo così rettificato
come da comunicato pubblicato sulla Gazzetta
Ufficiale del 21.06.2017.
Ai sensi dell'art. 60, comma 1, della legge
di riforma stradale n. 120 del 29.07.2010,
il ministro delle infrastrutture e dei
trasporti, sentita la Conferenza stato-città
e autonomie locali, avrebbe dovuto emanare
entro il 12.10.2010 il decreto per definire
le caratteristiche per l'omologazione e per
l'installazione di dispositivi finalizzati a
visualizzare il tempo residuo di accensione
delle luci dei nuovi impianti semaforici.
Dopo una lunga attesa durata più di sei anno
e mezzo, il decreto ministeriale del
27.04.2017, applicabile dal 19.12.2017,
detta finalmente le condizioni per
l'abbinamento delle tabelle contasecondi con
le lanterne semaforiche, che è consentito
soltanto in occasione dell'installazione di
nuovi impianti semaforici o della
sostituzione congiunta delle lanterne e del
regolatore semaforico.
Le luci countdown dovranno essere
installate in abbinamento con le lanterne
semaforiche cui sono associate, in posizione
autonoma, poste in alto al di sopra della
luce rossa fino all'altezza massima di 4
metri dal piano viario. Le tabelle
contasecondi potranno essere installate
anche per regolare i sensi unici alternati
temporanei istituiti in caso di cantieri
stradali
(articolo ItaliaOggi del
24.06.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: P.a.,
nuove regole per gli incarichi.
Anac pronta a vigilare e intervenire con
linee guida ad hoc sull'affidamento degli
incarichi legali nella p.a. A tal fine,
infatti, serve un criterio che, sulla base
del rapporto qualità/prezzo, valorizzi
adeguatamente anche il profilo qualitativo
della prestazione, dando prevalente rilievo
alla competenza, al percorso formativo e
alla specializzazione del professionista,
invece che al solo costo.
Questo l'esito dell'incontro avvenuto nei
giorni scorsi tra il presidente
dell'Autorità nazionale anticorruzione,
Raffaele Cantone e il presidente dell'Unione
nazionale degli avvocati amministrativisti,
Umberto Fantigrossi, avente ad oggetto
l'affidamento degli incarichi legali da
parte delle pubbliche amministrazioni che
non dispongono di avvocature interne.
«Per l'affidamento da parte di enti
pubblici di servizi legali, sia che si
tratti di incarichi conferiti in via diretta
o su base fiduciaria, sia che si tratti di
incarichi conferiti a seguito di confronto
concorrenziale», ha sottolineato
Fantigrossi, «è da escludere che il
criterio di selezione possa essere solo il
minor prezzo ovvero dal massimo ribasso.
Serve, invece, un criterio che, sulla base
del rapporto qualità/prezzo, valorizzi
adeguatamente anche il profilo qualitativo
della prestazione, assicurando la massima
tutela all'interesse pubblico alla qualità
della prestazione e quindi, nel contempo, al
diritto di difesa».
Al termine dell'incontro il presidente
Cantone ha preso atto della preoccupazione
espressa dagli avvocati e ha assicurato che
interverrà sul tema con un apposito atto di
regolazione
(articolo ItaliaOggi del
24.06.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
PATRIMONIO - VARI: Terre
abbandonate al recupero. Prima il
censimento, poi la valorizzazione dei beni.
Il decreto Sud punta anche sugli immobili
inutilizzati e scommette sul ruolo dei
sindaci.
Ruolo cruciale dei comuni nel recupero dei
terreni abbandonati o incolti e degli
immobili in stato di abbandono.
È una delle novità più interessanti per gli
enti locali previste dal decreto sul
Mezzogiorno (dl 91/2017, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 141 di martedì
scorso).
Il provvedimento messo a punto dal governo
Gentiloni delinea un percorso che coinvolge
i sindaci dapprima nel censimento di tali
beni e successivamente nella individuazione,
mediante appositi bandi, di adeguati
progetti di valorizzazione. La misura è
disciplinata dall'art. 3 del dl, il quale
dispone innanzitutto che, entro tre mesi, i
comuni delle regioni meridionali (Abruzzo,
Basilicata, Calabria, Campania, Molise,
Puglia, Sardegna e Sicilia) provvedano, nei
limiti delle risorse umane, finanziarie e
strumentali disponibili a legislazione
vigente e senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica, ad una ricognizione
complessiva dei propri beni immobili
suscettibili di recupero.
Potrà trattarsi di terreni agricoli sui
quali non sia stata esercitata l'attività
agricola minima da almeno dieci anni, di
terreni boschivi nei quali non siano stati
attuati interventi di sfollo o diradamento
negli ultimi quindici anni, ovvero anche di
aree edificate ad uso industriale,
artigianale, commerciale,
turistico-ricettivo, che risultino in stato
di abbandono da almeno quindici anni.
Terminato il censimento, partirà la fase 2:
i comuni dovranno pubblicare sul proprio
sito istituzionale l'elenco dei beni oggetto
di ricognizione, che potranno essere dati in
concessione, per un periodo non superiore a
nove anni rinnovabile una sola volta, a
soggetti che abbiano presentato progetti di
valorizzazione. Gli interessati dovranno
avere, al momento della presentazione della
domanda, un'età compresa tra i 18 e i 40
anni ed aderire ad un bando predisposto
dagli stessi comuni, che dovranno ovviamente
assicurare una imparziale valutazione delle
candidature, sulla base di criteri che
premino i progetti a minore consumo di suolo
e con i più elevati standard di qualità
architettonica e paesaggistica.
La formale assegnazione dei beni sarà
effettuata entro e non oltre sessanta giorni
dall'approvazione della graduatoria, con
obbligo per i beneficiari di eseguire le
attività previste dai progetti approvati.
Un meccanismo simile è previsto anche per i
beni privati, in tal caso nella forma
dell'affitto e non della concessione.
Un'altra misura interessante per gli enti
locali del Sud è quella prevista dall'art.
15, che assegna alle Prefetture uffici
territoriali un ruolo di supporto tecnico e
amministrativo al fine di migliorare la
qualità dell'azione amministrativa,
rafforzare il buon andamento, l'imparzialità
e l'efficienza della loro azione
amministrativa, nonché per favorire la
diffusione di buone prassi, atte a
conseguire più elevati livelli di coesione
sociale ed a migliorare i servizi.
Questo
ruolo di tutoraggio, che scatterà su
richiesta delle amministrazioni interessate,
sarà inizialmente svolto in via sperimentale
nelle medesime regioni in precedenza citate,
ma, laddove i risultati siano positivi,
potrà poi essere esteso anche ad altre
realtà
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Sindaci
e assessori più tutelati. Violenze o minacce
punite col carcere fino a sette anni. Via
libera definitivo della Camera alla legge
che estende la protezione dei corpi
politici.
Più tutele a sindaci, assessori e
consiglieri locali.
La Camera dei deputati ha approvato ieri in
via definitiva le norme che ampliano la
portata del delitto di minaccia o violenza a
un corpo politico. Ecco, in sintesi, le
principali novità.
Più tutele a singoli
amministratori.
Viene estesa ai singoli componenti l'attuale
fattispecie che punisce, con la reclusione
da uno a sette anni, ogni violenza o
minaccia a un corpo politico, amministrativo
o giudiziario. La formulazione allargata, in
pratica, tutela i singoli amministratori
locali in quanto tali, anche quando operano
al di fuori dell'organismo collegiale. Nei
confronti delle intimidazioni si procede
d'ufficio e si può far ricorso alle
intercettazioni. L'arresto in flagranza
diventa obbligatorio ed è applicabile la
custodia cautelare in carcere. La pena,
inoltre, è aumentata fino a un terzo se la
violenza o la minaccia è commessa con armi,
da più persone o persona a viso coperto, da
associazioni segrete o in forma anonima.
Stop minacce interdittive.
Rischia da uno a sette anni anche chi
minaccia o usa violenza per ottenere o
impedire l'adozione di un provvedimento
(anche legislativo) o a causa della sua
adozione.
Aggravante da ritorsione.
Scatta l'aggravante quando alcuni specifici
delitti (lesioni, violenza privata, minaccia
o danneggiamento) costituiscono atti
intimidatori ritorsivi per un atto compiuto
nell'adempimento del mandato o delle
funzioni.
In questo caso la pena aumenta da un terzo
alla metà. L'aggravante non si applica però
se a causare l'intimidazione e' stato lo
stesso amministratore eccedendo in modo
arbitrario i limiti delle sue attribuzioni.
Atti intimidatori contro
candidati.
Intimidire un aspirante consigliere comunale
costerà il carcere. Sarà punito infatti col
carcere da 2 a 5 anni chi ostacola, con
minacce o atti di violenza, la
partecipazione a elezioni comunali o
regionali.
Monitoraggio minacce contro
amministratori.
Vengono definiti funzionamento e
composizione dell'Osservatorio sul fenomeno
degli atti intimidatori nei confronti degli
amministratori locali che ha il compito di
monitorare il fenomeno intimidatorio e
promuovere iniziative di formazione e a
favore della legalità.
Le reazioni.
«Il sì della Camera premia il nostro
impegno, in un momento in cui le
intimidazioni a danno dei sindaci
costituiscono un fenomeno preoccupante e in
aumento», commenta il presidente dell'Anci e
sindaco di Bari Antonio Decaro. «Lo Stato è
al fianco di tutti gli amministratori locali
che subiscono intimidazioni e minacce.
Questo il messaggio forte della legge», fa
eco Donatella Ferranti, presidente
commissione Giustizia della Camera
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Contratti locali, via al data base.
Piattaforma predisposta da Aran e Cnel.
Arriva la banca dati dei contratti integrativi delle amministrazioni
pubbliche.
A renderla disponibile sono l'Aran e il Cnel che hanno predisposto
un'apposita piattaforma accessibile al sito
www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti integrativi (o
di secondo livello) stipulati dalle amministrazioni pubbliche e dai
sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti, oltre 25 mila fino ad oggi, sono inviati
da ciascuna amministrazione pubblica all'Aran e al Cnel mediante la
procedura di trasmissione congiunta che è attiva dal 01.10.2015.
La banca dati sarà accessibile a tutti.
I dati saranno consultabili e scaricabili mediante «filtri di ricerca» che
consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per territorio di
riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di ridurre i propri
oneri informativi in materia di trasparenza. Le nuove norme, introdotte con
il decreto Madia n. 97/2016 che ha recepito nell'ordinamento italiano il
cosiddetto «Foia» (acronimo di Freedom of information act, ossia il diritto
di accesso generalizzato sul modello anglosassone) sollevano infatti le
amministrazioni pubbliche dall'obbligo di pubblicazione dei contratti
integrativi inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno. In
tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare il sito di ciascuna
amministrazione, avranno a disposizione un'unica pagina web «nazionale»
nella quale saranno consultabili (e scaricabili) tutti i contratti
integrativi acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e istituzioni di
ricerca, interessati al tema delle relazioni sindacali nella pubblica
amministrazione, un importante patrimonio informativo sul quale sarà
possibile effettuare elaborazioni e ricerche ad hoc (articolo ItaliaOggi del 21.06.2017). |
APPALTI: Da
luglio split payment esteso. Il meccanismo
del versamento diretto all'Erario si applica
anche ai servizi professionali.
Split payment dell'Iva ad ampio raggio: dal
primo luglio prossimo, l'ambito soggettivo
di applicazione del meccanismo speciale
previsto dall'art. 17-ter del dpr 633/1972,
che impone ai clienti il versamento del
tributo direttamente all'erario anziché ai
propri fornitori, raggiunge e supera quello
della fatturazione elettronica obbligatoria.
Saranno infatti coinvolti tutti i soggetti
ricompresi nel perimetro del bilancio
pubblico consolidato, come già previsto per
la «fattura p.a.», nonché le società
controllate dalle amministrazioni pubbliche
e le principali società quotate. Anche i
professionisti, inoltre, dovranno rinunciare
all'incasso dell'Iva, essendo stata
cancellata la norma che escludeva dallo
split payment le prestazioni di servizi
sottoposte alla ritenuta d'acconto.
Vediamo più da vicino le novità introdotte
dal dl 50/2017, stabilizzate dopo la
conversione in legge con qualche modifica
rispetto al testo originario, già
autorizzate dall'Ue. Va ricordato, infatti,
che lo split payment, autorizzato dal
Consiglio dell'Ue, nella precedente
versione, fino al 31.12.2017, con la
decisione del 25.04.2017 ha incassato il
«via libera», nella riedizione del dl 50,
fino al 30.06.2020.
La norma fino al 30 giugno.
Secondo l'art.
17-ter del dpr 633/72 nel testo antecedente
alle modifiche, ancora applicabile fino al
30 giugno prossimo, il meccanismo della
scissione dei pagamenti si applica alle
cessioni di beni e alle prestazioni di
servizi effettuate nei confronti dello
stato, degli organi dello stato, degli enti
pubblici territoriali e dei consorzi tra
essi costituiti ai sensi dell'art. 31 del dlgs n. 267/2000, delle camere di commercio,
degli istituti universitari, delle aziende
sanitarie locali, degli enti ospedalieri,
degli enti pubblici di ricovero e cura
aventi prevalente carattere scientifico,
degli enti pubblici di assistenza e
beneficenza e di quelli di previdenza. Sono
esclusi i compensi per prestazioni di
servizi assoggettati a ritenute alla fonte a
titolo di imposta sul reddito.
La norma allargata.
A decorrere dalle
operazioni per le quali è emessa fattura dal
01.07.2017, lo split payment si
applicherà alle cessioni di beni e alle
prestazioni di servizi effettuate nei
confronti:
1. della pubblica amministrazione, come
definita dall'art. 1, comma 2 della legge n.
196/2009; tale definizione comprende tutti i
soggetti inseriti nel conto economico
consolidato, secondo l'elenco pubblicato
dall'Istat (da ultimo, G.U. n. 229 del 30.09.2016), comprese le autorità
indipendenti e, in ogni caso, le
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2,
del dlgs n. 165/2001 (ossia tutte le
amministrazioni dello stato, compresi gli
istituti e scuole di ogni ordine e grado e
le istituzioni educative, le aziende ed
amministrazioni dello stato ad ordinamento
autonomo, le regioni, le province, i comuni,
le comunità montane, e loro consorzi e
associazioni, le istituzioni universitarie,
gli Istituti autonomi case popolari, le
camere di commercio e loro associazioni, gli
enti pubblici non economici nazionali,
regionali e locali, le amministrazioni, le
aziende e gli enti del servizio sanitario
nazionale, l'Aran, le agenzie di cui al dlgs
n. 300/1999 e il Coni). Si tratta, in
sostanza, dell'intera platea dei soggetti
già individuati come destinatari della
fattura elettronica obbligatoria, compresi
dunque, per esempio, gli ordini
professionali (il Consiglio nazionale dei
dottori commercialisti si è già attivato con
una richiesta di differimento
dell'applicazione della norma);
2. delle società controllate, ai sensi
dell'art. 2359, primo comma, nn. 1) e 2) del
codice civile, direttamente dalla presidenza
del consiglio dei ministri e dai ministeri;
3. delle società controllate, ai sensi
dell'art. 2359, primo comma, n. 1), c.c.,
direttamente da regioni, provincie, città
metropolitane, comuni, unioni di comuni;
4. delle società controllate direttamente o
indirettamente, ai sensi dell'art. 2359,
primo comma, n. 1), c.c., dalle società di
cui ai precedenti punti 2 e 3, anche nel
caso in cui le controllanti rientrino nel
perimetro dei soggetti pubblici agli effetti
del bilancio consolidato oppure fra le
società di cui al successivo punto 5;
5. delle società quotate inserite
nell'indice Ftse Mib della borsa; il
ministro dell'economia ha facoltà di
individuare, con proprio decreto, un indice
alternativo.
È stato poi abrogato il comma 2 dell'art.
17-ter, che escludeva dallo split payment i
compensi per prestazioni di servizi
assoggettati a ritenute alla fonte a titolo
di imposta sul reddito: di conseguenza,
anche le prestazioni in esame, rese nei
confronti dei soggetti elencati nei commi 1
e 1-bis dell'art. 17-ter, dal 1° luglio
rientreranno nel meccanismo speciale.
In sede di conversione del dl, è stato
precisato che sono esclusi dal meccanismo
speciale gli enti pubblici gestori di
demanio collettivo, limitatamente alle
cessioni di beni e alle prestazioni di
servizi afferenti alla gestione dei diritti
collettivi di uso civico; una soluzione in
tal senso era già stata fornita dal governo,
nel precedente quadro normativo, con una
risposta ad interrogazione parlamentare del
19.03.2015.
Al fine di evitare incertezze e
responsabilità dei fornitori, è stato
inoltre stabilito che, a richiesta, i
cessionari/committenti devono rilasciare ai
cedenti/prestatori un documento con il quale
attestano di rientrare tra i soggetti
destinatari dello split payment. I fornitori
che siano in possesso di questa attestazione
sono tenuti ad applicare il meccanismo
speciale.
Infine, è prevista l'emanazione di un
decreto del ministro dell'economia (che
avrebbe dovuto già essere emanato entro 30
giorni dal 24 aprile), recante le modalità
di attuazione delle disposizioni in esame.
In sostanza, sarà rivisitato il precedente
decreto del 23.01.2015.
Escluse le operazioni soggette ad inversione
contabile. Resta fermo, come in precedenza,
l'applicabilità dello split payment alle
operazioni per le quali i
cessionari/committenti «non sono debitori
dell'imposta ai sensi delle disposizioni in
materia di imposta sul valore aggiunto».
Sono pertanto escluse dal meccanismo le
operazioni soggette al regime particolare
dell'inversione contabile (o reverse charge):
ad esempio, le operazioni menzionate
nell'art. 17, quinto e sesto comma,
nell'art. 74, settimo e ottavo comma, del
dpr 633/1972 (prestazioni di subappalto in
edilizia, cessioni di fabbricati imponibili
su opzione, prestazioni di servizi di
pulizia, demolizione, installazione impianti
e di completamento degli edifici, cessioni
di oro, di rottami ecc.), le operazioni
transfrontaliere (es. acquisti
intracomunitari, acquisti di beni e servizi
da fornitori esteri ecc.).
Naturalmente, affinché l'operazione rientri
nel regime dell'inversione contabile (e sia
quindi esclusa dallo split payment) è
necessario che il cessionario/committente
agisca in veste di soggetto passivo,
requisito che non è richiesto, invece, ai
fini dell'applicazione dello split payment.
In sostanza, il regime dell'inversione
contabile, caratterizzato da profili di
specialità sia oggettivi (riguarda solo
alcune operazioni) che soggettivi (richiede
lo status di soggetto passivo del
destinatario), ha diritto di precedenza sul
meccanismo, anch'esso speciale, dello split
payment: pertanto, qualora sussistano i
presupposti dell'inversione contabile, il
cessionario/committente assume la qualifica
di debitore dell'imposta e dovrà, in quanto
tale, applicare l'imposta stessa
all'operazione imponibile ricevuta,
individuandone la base imponibile e
l'aliquota, mentre il fornitore si limiterà
ad emettere la fattura senza addebito
dell'imposta e con l'annotazione «inversione
contabile».
Esclusioni riconosciute dalla prassi.
In via
interpretativa, l'agenzia delle entrate ha
dichiarato che lo split payment non può
trovare applicazione nei seguenti casi:
- in tutte le ipotesi in cui la fattura del
fornitore, in forza di particolari
disposizioni, non evidenzia l'Iva (per
esempio, operazioni soggette al regime del
margine, a quello dell'editoria, ecc.)
- operazioni legittimamente non documentate
da fattura, bensì da ricevuta o scontino
fiscale (es. acquisti effettuati presso
commercianti al minuto)
- operazioni documentate dalle fatture
semplificate di cui all'art. 21-bis, dpr
633/1972
- particolari operazioni nelle quali il
cessionario/committente non effettua alcun
pagamento al fornitore, il quale ha già
nella propria disponibilità il corrispettivo
(ad esempio, servizi di riscossione delle
entrate e altri proventi)
- fatture emesse in dipendenza
dell'esercizio del diritto di rivalsa
dell'imposta pagata a seguito di
accertamento, secondo le disposizioni
dell'ultimo comma dell'art. 60 del dpr n.
633/1972 (articolo ItaliaOggi
Sette del
19.06.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Responsabile rifiuti, titoli doc.
Esami d'idoneità da sostenere all'ingresso e
in itinere. Tempistiche e regole nelle
delibere nn. 6 e 7 dell'Albo gestori: nuovi
requisiti dal 16 ottobre.
Titoli di studio ed esperienza ad hoc,
verifica d'idoneità con esami davanti
all'Albo gestori ambientali sia in ingresso
che in itinere. Cambiano dal 16.10.2017 i
requisiti per poter svolgere l'attività del
responsabile tecnico della gestione dei
rifiuti, figura obbligatoria per le imprese
che effettuano professionalmente determinate
attività afferenti ai residui.
A dettare tempistiche e regole di dettaglio
della riforma a monte prevista dal dm
120/2014 sono le deliberazioni 30.05.2017 nn. 6 e 7 dell'Albo nazionale gestori
ambientali, l'ente al quale in base al dlgs
152/2006 (il noto Codice ambientale) devo
iscriversi le suddette imprese.
Chi è il responsabile
tecnico.
In base all'articolo 12 del citato dm
120/2014 (il regolamento sull'Albo gestori
ambientali, adottato in attuazione del dlgs
152/2006) il responsabile tecnico è il
soggetto interno o esterno
all'organizzazione dell'impresa che ha il
compito di porre in essere, mediante una
attività effettiva e continuativa, azioni
dirette ad assicurare la corretta
organizzazione della gestione dei rifiuti da
parte dell'azienda e di vigilare
sull'applicazione della normativa vigente.
Un obbligo per le imprese.
In base all'articolo 212 del dlgs 152/2006
(e salvo mirate eccezioni) l'iscrizione
all'Albo gestori ambientali è requisito per
il legittimo svolgimento delle attività di
raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica
dei siti, di bonifica dei beni contenenti
amianto, di commercio ed intermediazione dei
rifiuti senza detenzione (attività
formalizzate in «categorie» dall'articolo 8
del dm 120/2014).
Ai sensi dell'articolo 10
dello stesso decreto le imprese e gli enti
che fanno richiesta di iscrizione all'Albo
gestori ambientali devono necessariamente
nominare, a pena di improcedibilità della
relativa domanda, almeno un responsabile
tecnico in possesso dei requisiti
professionali stabiliti dal dm 120/2014 e
dai regolamenti (attuativi) del Comitato
nazionale dell'Albo.
I nuovi requisiti
professionali ex dm 120/2014.
Secondo quanto disposto dagli articoli 10,
11 e 12 del dm 120/2014, il responsabile
tecnico deve essere in possesso di
determinati requisiti di carattere sia
generale che specifico. Ai sensi del comma
4, citato articolo 10, tra i requisiti di
carattere generale vi sono l'assenza di
interdizione o inabilitazione dagli uffici
direttivi di persone giuridiche e imprese,
l'assenza di recenti condanne per reati
gravi o di settore, l'assenza di misure
restrittive antimafia.
Tra i requisiti di carattere specifico, vi
sono invece ex articolo 12 (che ne affida
l'esatta determinazione al Comitato
nazionale dell'Albo), titolo di studio,
esperienza maturata nei settori di attività,
idoneità attestata da una verifica della
preparazione sia iniziale che di
aggiornamento quinquennale.
E le regole dell'Albo
gestori.
L'esatta determinazione dei suddetti
requisiti è arrivata con le citate due
deliberazioni del Comitato nazionale
dell'Albo gestori 30.05.2017 nn. 6 e 7.
In relazione ai requisiti generali, la
delibera 7/2017 specifica la necessità del
possesso di cittadinanza italiana,
comunitaria o di altro Stato che riconosca
analoghi diritti. In relazione ai requisiti
specifici, il combinato disposto delle due
deliberazioni restituisce un sistema per cui
titoli di studio ed anni di esperienza
richiesti crescono in funzione della
complessità dell'attività svolta (data dal
volume di rifiuti gestiti così come dalla
quantità di persone coinvolte).
Titoli di studio ed
esperienza.
La delibera 30.05.2017 n. 7 individua
nel diploma di scuola secondaria il minimo
titolo di accesso, con dispensa però per
responsabili tecnici che già svolgono tale
funzione in imprese/enti iscritte all'Albo
alla data del 16.10.2017 (giorno di
entrata in vigore della delibera 6/2017).
In base alla delibera 30.05.2017 n. 6
l'esperienza richiesta coincide invece con
almeno un anno di attività (per arrivare a
8, in base a categoria di iscrizione e
volume della sottesa attività) e deve
coincidere con almeno una tra le seguenti
attività: di legale rappresentante; di
responsabile o direttore tecnico, dirigente,
funzionario direttivo di impresa di settore;
dipendente dell'azienda che ha effettuato un
periodo certificato di affiancamento a un
responsabile tecnico.
Verifica d'idoneità.
La deliberazione 7/2017 individua come
modalità di verifica una prova d'esame da
sostenere in sessioni prefissate davanti
alle Sezioni locali dell'Albo e costituita
da 80 quesiti a risposta multipla (scelti
tra i 5 mila pubblicati sul sito dell'albo e
periodicamente aggiornati).
In base alla stessa delibera tali quiz
verteranno per una metà su argomenti comuni
a tutte le categorie di iscrizione (tra cui
disciplina dell'Albo, diritto ambientale,
normativa sulla sicurezza sul lavoro) e per
una metà su argomenti propri delle
specifiche attività (corrispondenti alle
citate categorie ex dm 120/2014 di
iscrizione all'Albo).
Per il superamento dell'esame occorreranno
almeno 66 punti nella verifica iniziale e
almeno 58 in quella di aggiornamento
quinquennale. Le domande di partecipazione
alle verifiche dovranno essere presentate
esclusivamente in via informatica entro una
precisa finestra temporale precedente le
date d'esame, date delle quali la
deliberazione 7/2017 definisce il primo
calendario che interessa sette regioni,
apripista delle quali il Veneto, con esame
fissato per il 19.12.2017.
Deroghe.
In base all'articolo 13 del dm 120/2014 e
della deliberazione 6/2017 è dispensato
dalle verifiche il legale rappresentante
dell'impresa che ricopre anche l'incarico di
responsabile tecnico e che abbia maturato
almeno 20 anni di esperienza nel settore di
attività oggetto dell'iscrizione.
Operatività nuove regole e regime
transitorio. Le nuove regole su requisiti e
relativa verifica acquisiscono operatività
dal 16.10.2017, data di entrata in
vigore della deliberazione 6/2017.
Fino a quella data: le domande relative alla
nomina del responsabile tecnico presentate
saranno dall'Albo istruite e deliberate ai
sensi delle disposizioni precedenti alla
nuova disciplina in essere; i responsabili
tecnici in attività in imprese/enti già
iscritte all'Albo possono continuare a
svolgerla in regime transitorio per cinque
anni alla scadenza dei quali dovranno poi
sostenere la verifica di aggiornamento per
poterla proseguire
(articolo ItaliaOggi
Sette del
19.06.2017). |
APPALTI: Avvalimento,
stretta dell'Anac. Risorse e mezzi nel
contratto. Anomalie segnalate dal Rup.
Schema di proposta dell'Autorità
anticorruzione aggiornato in base al
correttivo appalti.
Contratto di avvalimento con indicazione, a
pena di nullità, delle risorse e dei mezzi
prestati all'impresa che ne beneficia; il
prestito dei mezzi e delle risorse materiali
deve escludere che l'impresa che li presta
li possa utilizzare nella sua azienda. Il
Rup (Responsabile unico del procedimento)
deve segnalare le anomalie.
Sono queste alcune delle scelte che
l'Autorità nazionale anticorruzione ha
delineato e sottoposto all'attenzione degli
operatori del settore, con il documento
messo in consultazione pubblica ieri.
Si tratta di un primo schema della proposta
che l'Autorità presieduta da Raffaele
Cantone al ministero delle infrastrutture e
dei trasporti per l'adozione del decreto di
cui all'art. 83, comma 2, dlgs n. 50/2016.
Il decreto dovrà disciplinare, tra l'altro,
i casi e le modalità di avvalimento di cui
all'art. 89 del codice.
Le scelte che l'Autorità ha compiuto e che
ha sottoposto all'attenzione del mercato,
sono state dettate dall'esigenza, emersa
fortemente nell'esercizio dell'attività di
vigilanza sui contratti pubblici e ribadita
spesso in molte pronunce giurisprudenziali,
di scongiurare che l'avvalimento si riduca
ad un prestito soltanto formale di
requisiti, non supportato dall'effettiva
messa a disposizione di risorse umane e
strumentali idonee a garantire la capacità
esecutiva dell'impresa ausiliata.
Le indicazioni proposte dall'Anac, in
raccordo con la consolidata giurisprudenza
che si è formata anche sotto il precedente
codice, vanno nella direzione di imporre
l'esatta e dettagliata individuazione dei
requisiti oggetto di avvalimento, di
richiedere un contenuto minimo del contratto
e di attribuire valenza, ai fini del
conseguimento del rating di impresa,
all'esito negativo dei controlli ex art. 89,
comma 9, del codice.
Tutto ciò nel contesto anche delle modifiche
apportate dal codice dal decreto correttivo
56/2017 che ha eliminato, dall'art. 89,
l'inciso che consentiva l'avvalimento anche
per la dimostrazione dei requisiti di
qualificazione di cui all'art. 84 del codice
(cioè quelli necessari all'attestazione Soa).
Conseguentemente, il documento di
consultazione non prevede la possibilità di
conseguire l'attestazione di qualificazione
mediante ricorso al prestito dei requisiti
di idoneità economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa. Altri elementi che
hanno guidato l'Anac nella predisposizione
del documento sono quelli inerenti
l'esigenza di assicurare, per ciascun
intervento, l'equilibrio tra costi e
benefici ad esso connessi. Premesso quindi
che l'avvalimento deve sostanziarsi a pena
di nullità in un contratto ad hoc e in una
dichiarazione dell'impresa ausiliaria che
attesti che non partecipa alla gara, l'Anac
chiarisce che esso deve avere ad oggetto
risorse e mezzi determinati e deve durare
per tutta la durata del contratto.
Importante notare che, dice l'Autorità, «i
mezzi e le risorse messe a disposizione
dall'impresa ausiliaria devono essere
destinati esclusivamente all'esecuzione
dell'appalto per il tempo necessario, con
l'impossibilità, per l'impresa ausiliaria,
di utilizzarli nella propria attività
aziendale»; non solo: la stazione appaltante
deve essere messa in condizione di
effettuare «una sicura verifica circa la
loro effettiva disponibilità».
Inoltre, va considerato che, per quel che
concerne i controlli effettuati in fase di
esecuzione del contratto, «al responsabile
unico del procedimento è fatto obbligo di
comunicare all'Anac l'eventuale esito
negativo dei controlli di cui all'art. 89,
comma 9, del Codice, affinché l'Autorità
possa tenerne conto ai fini del sistema di
rating di impresa di cui all'art. 83, comma
10, del Codice»
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
P.a., dotazioni organiche addio. Arriva il
piano triennale dei fabbisogni di personale.
Cosa cambia con la riforma del pubblico
impiego. Al via la stabilizzazione dei
precari.
Il dlgs n. 75 del 25.052017, di riforma
del pubblico impiego, è stato pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale Serie generale n.
130 del 7 giugno scorso, unitamente a quello
sulla valutazione della performance, n.
74/2017, con entrata in vigore dal prossimo
22 giugno. Tra le novità più interessanti,
il ruolo della programmazione del personale
e la stabilizzazione dei precari.
Viene superato il concetto di dotazione
organica, in favore della programmazione del
fabbisogno di personale.
Si dispone, nel testo novellato dell'art. 6
del Testo unico del pubblico impiego che le
amministrazioni pubbliche definiscano
l'organizzazione degli uffici, secondo le
modalità e gli atti previsti dai rispettivi
ordinamenti, previa informazione sindacale.
Il ruolo centrale è assunto dal piano
triennale dei fabbisogni di personale,
finalizzato all'ottimale impiego delle
risorse pubbliche disponibili, per
perseguire obiettivi di performance
organizzativa, efficienza, economicità e
qualità dei servizi ai cittadini, in
coerenza con l'organizzazione degli uffici,
con la pianificazione pluriennale delle
attività e della performance. Apposite linee
di indirizzo saranno emanate in materia da
pare del governo centrale.
Sulla gestione delle risorse umane,
all'articolo 7 si introduce il comma 5-bis,
che vieta alle amministrazioni pubbliche di
stipulare contratti di collaborazione che
nascondano forme di rapporto di lavoro
subordinato. Le modifiche intervengono in
coerenza con le disposizioni del decreto
legislativo n. 81/2016: si prevedono
esclusivamente incarichi individuali, con
contratti di lavoro autonomo, a esperti di
particolare e comprovata specializzazione
anche universitaria, per le finalità e in
presenza delle condizioni già indicate
dall'art. 7 vigente.
Nelle procedure concorsuali, viene
introdotta la possibilità, per le p.a. di
individuare idonei, in numero non superiore
al venti per cento dei posti messi a
concorso, con arrotondamento all'unità
superiore, e di richiedere, tra i requisiti
previsti per specifici profili o livelli di
inquadramento, il possesso del titolo di
dottore di ricerca.
Il Formez e la Commissione Ripam forniranno
supporto alle amministrazioni e al
dipartimento della Funzione pubblica in
materia di reclutamento di personale.
Se da un lato viene deprecato e
stigmatizzato il ricorso al rapporto di
lavoro flessibile e precario, dall'altro si
liberalizzano, per un triennio, le
cosiddette «stabilizzazioni».
Sbandierato, attraverso i mass-media, come
un passaggio obbligato per le
amministrazioni, si tratta, in realtà di una
possibilità, a scelta dell'ente, nel
triennio 2018-2020, in coerenza con i propri
fabbisogni e con l'indicazione della
relativa copertura finanziaria, di assumere
a tempo indeterminato, il personale non
dirigenziale, inquadrato con contratto a
tempo determinato. Il personale deve essere
già stato selezionato con procedure
concorsuali, aver maturato almeno tre anni
di servizio, anche non continuativi, negli
ultimi otto anni alle dipendenze
dell'amministrazione procedente.
Nello stesso triennio si potranno
stabilizzare, alle stesse condizioni e
garantendo l'adeguato accesso dall'esterno,
anche i lavoratori con contratti di lavoro
flessibile. Questi potranno essere
riservatari di procedure concorsuali, in
misura non superiore al cinquanta per cento
dei posti disponibili. Anche per questi
lavoratori l'anzianità minima prevista è di
tre anni, non continuativi, negli ultimi
otto, alle dipendenze dell'ente che bandisce
il concorso.
Non rileva, per entrambe le procedure, il
servizio prestato negli uffici di diretta
collaborazione, né quello prestato in virtù
di contratti di cui all'articolo 110 del
Tuel.
L'impianto della riforma sembra essere
costruito per asservire le politiche
assunzionali alle «direttive» degli organi
politici. La sparizione della dotazione
organica e delle proposte dirigenziali
comporta che l'unico vincolo sia quello di
carattere finanziario, in un procedimento,
per definizione, ad alto rischio di
corruzione. Tuttavia anche su questo
versante, le norme prevedono misure,
responsabilità e sanzioni esclusivamente per
i pubblici funzionari.
Non è questa la strada per cambiare la
pubblica amministrazione. Mutuando le parole
di Pasquale Villari, nelle «Lettere
meridionali»: «La mediocrità è una potenza
livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli
uomini alla sua misura, odia il genio che
non comprende, detesta l'ingegno che
distrugge l'armonia della sua ambita
uguaglianza»
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
APPALTI - ENTI LOCALI:
Dal nuovo spesometro allo split payment, le
novità Iva 2017 per gli enti.
L'Iva degli enti locali delinea un quadro
degli adempimenti 2017 in forte
discontinuità con gli anni precedenti. Due
norme sono al centro di questo vero
stravolgimento: il dl n. 193 del 24/10/2016
(convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 225 dell'01/12/2016) e il dl n. 50 del
24/4/2017 in discussione al senato (atto
senato n. 2853).
Il decreto fiscale del 2016 noto per la
soppressione di Equitalia, porta la fine del
vecchio Spesometro, sostituito con uno nuovo
dal 2017, le nuove Comunicazioni delle
liquidazioni Iva, le nuove scadenze delle
Dichiarazioni Iva, la ridefinizione delle
Dichiarazioni integrative.
A febbraio 2017 la Circolare n. 1/E
dell'Agenzia delle entrate chiariva come il
nuovo Spesometro interessasse dal 2017 anche
gli enti locali, essendo venute meno le
peculiarità che non rendevano applicabile
quello precedente. I comuni e le diverse
amministrazioni pubbliche escluse ogni anno
dall'adempimento con Provvedimento del
direttore dell'Agenzia delle entrate,
dovranno ora comunicare quattro volte l'anno
le fatture emesse e ricevute, non transitate
attraverso la piattaforma di interscambio
(non in forma di fattura elettronica).
Unica
facilitazione, per il solo 2017,
l'accorpamento delle scadenze che da
trimestrali diventano semestrali (16
settembre, e 28 febbraio dell'anno
successivo). Quest'agevolazione non riguarda
l'altro adempimento che comincia dal 2017,
la Comunicazione delle l4iquidazioni Iva. In
questo caso le scadenze restano quattro,
aggiungendosi alle date citate per il nuovo Spesometro, quelle del 31 maggio e del 30
novembre. Il quadro sanzionatorio di questi
due adempimenti non è dei più teneri ma
sembra appurato che in entrambi i casi i
contribuenti potranno avvalersi di sanzioni
ridotte e del ravvedimento.
La dichiarazione annuale Iva si conferma
definitivamente fuori dal modello Unico,
cosa peraltro inevitabile già dal 2008, anno
di fuoriuscita di quella Irap. La scadenza
per quella del 2017 è stata il 28 febbraio e
sarà il 30 aprile per le successive. La
novità di maggior rilievo del decreto
fiscale del 2016 è però quella che uniforma,
estendendoli all'indietro di cinque anni, i
termini per trasmettere le dichiarazioni
integrative, facendo scomparire qualsiasi
distinzione tra quelle a favore e le altre.
Si allineano i tempi di integrazione a
quelli per l'accertamento ma, a ben vedere,
anche a quelli previsti per i poteri
sanzionatori della Corte dei conti.
È bene ricordare che i maggiori crediti
emergenti dall'integrativa di un anno, oltre
i termini di trasmissione di quello
successivo, possono essere spesi solo per
pagare debiti sorti nell'anno successivo a
quello in cui si integra.
Il secondo decreto (dl n. 50 del
24/04/2017), del 2017, risponde dal punto di
vista fiscale agli impegni presi dall'Italia
con Bruxelles a febbraio 2017 con la lettera
del ministro Padoan.
Lo Split payment si allarga verso nuovi
committenti e nuovi percettori per le
fatture emesse da luglio 2017. Ad
aggiungersi sono le società partecipate
dagli enti centrali e locali, fino a
considerare le società quotate all'indice
Ftse Mib della Borsa italiana, fuori dal
comparto pubblico. L'applicazione si
dovrebbe estendere anche ai professionisti
con ritenuta, fino a ora esclusi. La
decisione del Consiglio Ue 2017/784 del
25/4/2017 (G.U. UE 6/5/2017) ha inoltre
protratto il periodo di validità dello Split
al 30.06.2020 e qualsiasi speranza
legata al fatto che il decreto non sia
ancora stato convertito in Legge impatta
contro la considerazione che questo è legato
al rientro dell'Italia nei parametri
richiesti dall'Europa.
Altre due novità sono in sintesi l'obbligo
di registrare le fatture di acquisto
rilevanti nell'anno di ricezione delle
stesse e la loro detraibilità al più tardi
entro l'anno in cui sorge il diritto alla
detrazione. Queste prescrizioni, unite
all'imposizione di comunicare le
liquidazioni periodiche, comporterà un forte
spostamento da gestioni Iva fatte una volta
l'anno ad altre fatte su base mensile, più
onerose ma capaci di difendere da sanzioni e
interessi.
Laddove queste nuove impostazioni permettano
agli Enti locali di maturare o anche solo di
conservare crediti Iva, interviene un'ultima
voce del Decreto del 2017 in conversione che
abbassa il limite per l'utilizzo degli
importi in compensazione (mediante quindi
F24 per pagare altre imposte) da 15.000,00 a
soli 5.000,00. Novità che impongono maggiore
attenzione da parte degli enti
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
il Foia diritto di accesso anche per
finalità di marketing. Imprese libere di
ottenere dati e documenti per promuovere la
vendita di prodotti e servizi.
Sdoganato il «Foia-marketing»: dalla p.a. si
possono ottenere con facilità dati e
documenti per finalità commerciali.
La
circolare
30.05.2017 n. 2/2017 del ministro della funzione
pubblica sul «Foia» (acronimo di «Freedom
of information act», libertà di accesso
civico alle informazioni della p.a.),
specifica che tra le possibili motivazioni
della richiesta di accesso generalizzato
(previsto dal dlgs 33/2013, come modificato
dal dlgs 97/2016) ci sono anche gli scopi
commerciali delle imprese. Tra gli scopi
commerciali, è legittimo inserire anche la
finalità di promuovere le vendita di
prodotti e servizi e cioè tutta l'attività
che generalmente si censisce sotto il nome
di marketing.
L'accesso civico generalizzato è, dunque, la
chiave per ottenere l'accesso a una miniera
di informazioni appetibili per il mercato e
per le imprese.
L'indicazione di apertura alle finalità
commerciali accompagna l'illustrazione,
operata dalla circolare ministeriale, della
disciplina della trasparenza delle pubbliche
amministrazioni (centrali e locali) dopo le
modifiche introdotte dal dlgs 97/2016. Con il
comma 2 dell'art. 5 dlgs. 33/2013 (inserito
dal decreto 97/16), la p.a. è disegnata come
una «casa di vetro».
La circolare 2/2017 si occupa degli aspetti
procedurali e va ad aggiungersi alle linee
guida dell'Autorità nazionale anticorruzione
(determinazione 1309 del 28/12/2016), che si
è invece occupata dei limiti all'accesso
generalizzato posti da interessi pubblici
(segreto di stato, sicurezza nazionale,
ecc.) e da interessi privati (privacy delle
persone fisiche, riservatezza industriale e
societaria ecc.).
La circolare è ispirata al massimo favore
per le imprese e i cittadini che intendono
ottenere dati e documenti da un ente
pubblico. Non a caso il documento ha
suscitato la reazione critica del garante
della privacy.
Il punto più importante della circolare è in
fondo al suo allegato 1, dedicato alla
presentazione della richiesta.
La lettera f) dell'allegato 1 spiega che
l'impresa o il cittadino che fanno la
richiesta non sono obbligati ma possono
essere invitati a dichiarare lo scopo della
richiesta. L'allegato esemplifica alcune
scelte e l'ultima di queste opzioni (da
inserire nel modulo di richiesta predisposto
dalla singola p.a.) è «per finalità
commerciali».
C'è dunque l'indicazione ufficiale da parte
del ministero che l'accesso civico
generalizzato può avere una finalità
commerciale. Più chiaro di così. Può partire
allora il «Foia-marketing».
L'indicazione è in netto contrasto con
quanto indicato dal garante della privacy a
proposito di un altro accesso civico, quello
disciplinato da un diverso comma, il primo,
dell'art. 5 del dlgs sulla trasparenza: si
tratta della richiesta alla p.a. di
pubblicare sul sito le informazioni che per
legge devono essere pubblicate (per esempio
il curriculum dei dirigenti o i dato
reddituali degli organi politici).
A proposito di questo comma il garante,
nelle sue linee guida (deliberazione 243 del
15.05.2014) indicava casi di illiceità
per fini di marketing dei dati pubblicati
nella sezione «amministrazione
trasparente»). Le letture da parte delle
diverse autorità sono evidentemente diverse.
E ci si chiede se basta un comma a fare la
differenza. D'altra parte ci si potrebbe
chiedere se effettivamente la finalità
commerciale sia compresa nelle finalità
dell'accesso civico generalizzato previste
dall'art. 5, comma 2 del dlgs 33/2013:
«Favorire forme diffuse di controllo sul
perseguimento delle funzioni istituzionali e
sull'utilizzo delle risorse pubbliche e
promuovere la partecipazione al dibattito
pubblico».
Probabilmente nella circolare 2/2017 si
ritiene che il perseguimento dello scopo
commerciale è funzionale alla partecipazione
al dibattito pubblico.
Si deve, peraltro, ricordare che una
finalità commerciale può essere desunta
dalla qualifica del soggetto richiedente e
che in ogni caso le p.a. devono bilanciare
questo interesse economico con gli interessi
pubblici e privati e valutare se conta di
più evitare un pregiudizio ai diritti
individuali.
---------------
L'analisi.
Procedure semplici in teoria, piene di
ostacoli nella pratica.
Il nuovo Foia o diritto di accesso
generalizzato: sulla carta una strada tutta
in discesa, nella realtà un percorso
accidentato pieno di contraddizioni anche
per la diversità dei soggetti chiamati a
tutelare i vari interessi in gioco.
Con il Foia le imprese possono condividere i
dati e i documenti delle pubbliche
amministrazioni. Senza limitazioni formali e
ostruzionismi.
La p.a. non può dire di no, per cavilli
procedurali, a una richiesta di accesso
generalizzato e l'identificazione del
richiedente serve solo per mandare i
documenti alla persona giusta. A disegnare
questa corsia preferenziale per le imprese,
nella richiesta di informazioni al settore
pubblico, è la circolare del ministro della
funzione pubblica, Marianna Madia, n.
2/2017, del 30.05.2017, che si occupa
del decreto legislativo 97/2016 e più in
dettaglio delle modifiche dallo stesso
apportate al decreto 33/2013, noto come
decreto sulla trasparenza.
È il decreto 97/2016 ad aver introdotto
l'accesso civico generalizzato, ispirato ai
principi dell'omologo americano «Freedom of
information act», che ha ormai superato il
mezzo secolo dalla sua adozione negli Usa.
Si tratta del diritto di chiunque a chiedere
dati e documenti a qualsiasi p.a. senza
dovere dimostrare un particolare titolo e
senza dovere dichiarare una particolare
motivazione.
Ci sono però limiti a questo accesso.
I limiti sono dettati dalla legge a tutela
di interessi pubblici (come i segreti di
stato) o privati (come la privacy).
Questa breve descrizione introduce
l'argomento dell'equilibrio assolutamente
instabile in cui si trova l'accesso
generalizzato.
In questo momento storico, infatti, sul tema
i protagonisti stanno tirando i capi della
fune in un senso o nell'altro e, ad un
osservatore esterno, il Foia appare come un
camaleonte.
La circolare del ministero della funzione
pubblica, a firma del ministro Marianna
Madia, scommette sulla condivisione (nessuna
possibilità di restrizione della dei dati
fruibili a mezzo di regolamenti locali;
nessuna possibilità di scremare le richieste
con il controllo di un titolo legittimante;
fino ad arrivare alla regola tendenziale
della prevalenza della trasparenza nei casi
dubbi).
Ma non tutti la pensano così e il diritto di
accesso «Foia» assume toni cangianti: altri
importanti attori (garante della privacy in
primis) vedono un Foia-camaleonte di colore
diverso (con portata e limitazioni
differenti). E può essere che la possibilità
di assumere tratti, a volte antitetici e
contraddittori, sia uno stratagemma per
consentire la sopravvivenza dell'istituto in
diversi habitat.
Le conseguenze problematiche di questo sono
a carico dei due interlocutori: la singola
p.a. e la persona fisica alla quale si
riferiscono informazioni contenute in atti e
documenti. Tutto ciò in un quadro in cui,
particolare non trascurabile, tante autorità
hanno poteri sanzionatori e, comunque, il
cittadino può fare causa per ottenere il
risarcimento del danno.
Proviamo a osservare più da vicino.
Un cittadino o un'impresa rivolgono
un'istanza di accesso generalizzato
(articolo 5 del dlgs 33/2013).
Secondo la circolare della funzione pubblica
non va identificato per capire se ha diritto
ad avere dati e documenti, ma solo per
spedire quanto richiesto alla persona giusta
o per evitare doppi invii: chiunque sia ha
diritto.
Ma il Consiglio di stato sul punto dice che
si deve valutare la posizione legittimante,
quindi il richiedente deve essere
identificato per capire anche se ha diritto
di rivolgere la richiesta. A chi dare
ascolto?
Ma andiamo avanti. Bisogna esaminare la
richiesta. L'ufficio della p.a. potrà farlo
con propri regolamenti, o solo sulla base di
disposizioni di legge (di una vaghezza
siderale)? La circolare della funzione
pubblica dice che i singoli enti pubblici
non possono definire limiti ed eccezioni
all'accesso generalizzato con propri
regolamenti: bisogna attenersi alle regole
di legge e alla giurisprudenza europea. Ma
il garante della privacy invoca limiti
precisi (e ciò farebbe pensare a una lista
delle esclusioni o a qualcosa che le somigli
molto).
Poi l'autorità anticorruzione dice che i
rifiuti all'accesso documentale bloccano
anche il generalizzato: e però i rifiuti al
documentale possono avere come riferimento i
singoli regolamenti degli enti (che
rientrerebbero dalla finestra). Come fare?
Bisogna, poi, vedere se ci sono terzi, la
cui privacy potrebbe essere danneggiata.
Per la funzione pubblica il solo essere
nominati negli atti non significa avere il
diritto alla privacy. Ma il garante della
privacy ammonisce che, così, facendo, si
ispira lassismo. Come comportarsi?
Si avanti con la pratica e rimane, comunque,
il dubbio: vince la trasparenza o vince la
privacy? La circolare della funzione
pubblica non tentenna: vince la trasparenza.
A questo punto storce il capo il garante
della privacy, ma lo storcono anche gli
estensori del Foia che, mentre compilavano
la relazione di accompagnamento,
illustravano che la legge implicitamente
pretendeva la ponderazione (ma quale piatto
della bilancia pesa di più non è stato
disposto).
Infine il funzionario si determina a dire di
no, ma deve motivare.
La funzione pubblica, da un lato, sembra
restringere in un angolino le chance di
questo «no», ma l'articolo 5-bis del Foia ha
un elenco delle possibili motivazioni del
«no» lunghe come un igienico rotolone.
Dall'altro lato, il garante della privacy si
chiede sconsolato come farà il singolo
funzionario a fare il bilanciamento se un
piatto della bilancia è e deve rimanere
vacuo.
Su uno sfondo costituzionale molto vintage,
l'imparzialità e il buon andamento della
p.a. amaramente abbozzano. A questo punto,
un documento interno, con una casistica, per
carità non vincolante, che non impedisca la
valutazione «caso per caso», ma che possa
essere solo uno spunto iniziale per
comportarsi in maniera omogenea, almeno nel
singolo ente, non può ritenersi una brutta
idea.
D'altra parte se è vero che la circolare del
ministro confessa che il Foia serve a
«condividere con la collettività il proprio
patrimonio di informazioni» (qualcuno avrà
il retropensiero che questo serva per
alimentare il business con i big data), è
altrettanto vero che questa condivisione
deve avere delle regole e non può essere
fatta sulle spalle della privacy del
cittadino.
---------------
L'informazione passa dai social.
Amministrazioni ed enti pubblici esortati a
comunicare tramite Facebook e Twitter.
Largo alla p.a. sui social network. Anziché
stare ad aspettare le istanze di accesso gli
enti pubblici devono postare e twittare. La
circolare 2/2017 del ministro della funzione
pubblica sull'acceso civico generalizzato
(art 5, comma 2, dlgs 33/2013) consiglia
caldamente la cosiddetta trasparenza
«proattiva»: monitorare la rete e vedere
cosa richiesto e caricarlo sui social.
Queste e altre istruzioni per l'uso sono
indicate nella circolare, che sposta l'ago
della bilancia verso forme di trasparenza
estrema. Ma vediamo in dettaglio le
prescrizioni ministeriali.
Richiesta.
Non si può dichiarare
inammissibile una domanda di accesso
generalizzato per motivi formali o
procedurali.
Nel caso di domanda generica o esplorativa
(per accertare il possesso di dati o
documenti), l'amministrazione non deve
respingerla subito, ma deve assistere il
richiedente e invitarlo per iscritto a
ridefinire l'oggetto della domanda o a
indicare gli elementi sufficienti.
Identificazione.
L'identificazione del
richiedente non è necessaria ai fini
dell'esercizio del diritto. Tuttavia,
l'identificazione è indispensabile per la
gestione delle domande: per esempio, per
rispondere alla persona giusta.
In caso di richiesta anonima,
l'amministrazione deve comunicare al
richiedente la necessità di identificarsi.
Non puoi dirmi di no.
Nel caso di
differimento o diniego parziale, deve essere
fornita adeguata motivazione.
Non è legittimo un diniego di accesso in
base all'argomento che i dati o documenti
richiesti risalirebbero a una data anteriore
alla entrata in vigore del dlgs n. 33/2013 o
del dlgs n. 97/2016.
L'accesso non può essere negato perché la
conoscibilità dei dati potrebbe provocare un
generico danno all'amministrazione o alla
professionalità delle persone coinvolte;
oppure per generiche ragioni di
confidenzialità delle informazioni; o ancora
per ragioni di opportunità, derivanti dalla
insussistente opportunità o necessità di
consultare gli organi di indirizzo politico.
Media.
In caso di domande di accesso
provenienti da giornalisti e organi di
stampa le p.a. devono verificare con la
massima cura la veridicità e la attualità
dei dati e dei documenti rilasciati, per
evitare diffusione di informazioni non
affidabili o non aggiornate.
Richieste massive.
Per dire di no a richiese
massive la p.a. deve fornire una adeguata
prova, della manifesta irragionevolezza
dell'onere che una accurata trattazione
della domanda comporterebbe.
Dialogo.
Le amministrazioni devono
adoperarsi per soddisfare l'interesse
conoscitivo su cui si fondano le domande di
accesso, evitando atteggiamenti
ostruzionistici.
È necessario un «dialogo cooperativo» con il
richiedente in tutti i passaggi salienti per
rimediare a irregolarità e incompletezza
della domanda, per indicare le modalità di
invio per riferire la decisione finale.
Regolamenti.
Le amministrazioni non possono
individuare con regolamento, circolare o
altro atto interno le categorie di atti
sottratti all'accesso generalizzato.
Presentazione.
Le domande presentate alle
pubbliche amministrazioni per via telematica
sono valide se inviate da un indirizzo di
posta elettronica certificata o non
certificata; se nel messaggio di posta
elettronica è indicato il nome del
richiedente (senza necessità di
sottoscrizione autografa); e se è allegata
al messaggio una copia del documento di
identità del richiedente.
Inoltre le p.a. sono invitate a mettere in
funzione un help desk.
Tempi.
Il procedimento si deve concludere
entro 30 giorni dalla presentazione della
domanda.
Se non si rispetta il termine l'interessato
può attivare la procedura di riesame e di
proporre ricorso al giudice amministrativo.
Sforare espone il dipendente pubblico a
gravi conseguenze: deve essere segnalato sia
all'ufficio di disciplina, sia al vertice
politico dell'amministrazione e agli organi
cui compete la valutazione della dirigenza e
delle performance individuali
(articolo ItaliaOggi
Sette del
12.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Opere,
placet ambientale unico. Al posto delle
abilitazioni e autorizzazioni sui lavori
statali. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via libera
al decreto legislativo che semplifica la Via
e la Vas.
Arriva il provvedimento unico ambientale per
i progetti assoggettati a valutazione di
impatto ambientale statale; sostituisce
tutti i titoli abilitativi e autorizzativi.
Introdotto il pre-screening sul progetto per
individuare l'eventuale procedura da
avviare; completa digitalizzazione degli
oneri informativi; razionalizzazione del
riparto delle competenze stato-regioni;
nuove norme tecniche per la redazione degli
studi di impatto ambientale.
Sono solo
alcune delle novità contenute nel decreto
approvato ieri in via definitiva dal
Consiglio dei ministri, che attua che la
direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione
dell'impatto ambientale di determinati
progetti pubblici e privati.
In particolare,
il decreto precisa in modo puntuale quali
progetti, di competenza statale devono
essere sottoposti a una previa verifica di
assoggettabilità a Via (pre-screening). E
quali progetti, invece, devono essere
sottoposti direttamente a Via senza uno
screening preventivo, in linea con quanto
previsto dalla direttiva europea di
riferimento.
Per i progetti assoggettati a
Via statale, il proponente potrà richiedere,
in alternativa al provvedimento di Via
ordinario (comprensivo della sola
valutazione d'incidenza, cosiddetta «Vinca»,
laddove necessaria), il rilascio di un
provvedimento unico ambientale, che coordina
e sostituisce tutti i titoli abilitativi o
autorizzativi, comunque riconducibili ai
fattori «ambientali» da prendere in
considerazione ai fini della Via. Il decreto
elimina, per la verifica di assoggettabilità
a Via, l'obbligo, per il proponente, di
presentare gli elaborati progettuali
(progetto preliminare o studio di
fattibilità). Sarà quindi effettuato uno
screening sulla base, esclusivamente, dello
studio preliminare ambientale, secondo
quanto previsto dalla normativa Ue.
Invece, per i procedimenti di Via, sarà
ammessa la presentazione di elaborati
progettuali di livello equivalente al
«progetto di fattibilità», di cui al codice
dei contratti pubblici (ex preliminare del
«Codice De Lise»), o, comunque, con un
livello tale da consentire la compiuta
valutazione degli impatti ambientali, con la
possibilità di aprire, in qualsiasi momento,
una fase di confronto con l'autorità
competente, finalizzata a condividere la
definizione del livello di dettaglio degli
elaborati progettuali necessari allo
svolgimento della procedura.
Viene, invece, eliminata la fase di
consultazione formale del pubblico nella
procedura di verifica di assoggettabilità a
Via, non richiesta dalla normativa europea.
Quindi, viene abrogato il dpcm 27.12.1988, recante le norme tecniche per la
redazione degli studi di impatto ambientale
(Sia), sostituito dal nuovo Allegato VII
alla seconda parte del dlgs n. 152/2006.
Sulla «Commissione Via», il decreto precisa
che i commissari sono nominati dal ministro
dell'ambiente, senza obbligo di esperire
procedura concorsuale, con motivazione sul
possesso, da parte dei soggetti prescelti,
dei necessari requisiti. Prevista la
riduzione complessiva dei tempi per la
conclusione dei procedimenti, abbinata alla
qualificazione di tutti i termini come
«perentori».
Il decreto definisce inoltre regole omogenee
per il procedimento di Via su tutto il
territorio nazionale, con conseguente
rimodulazione delle competenze normative
delle regioni, alle quali viene attribuito
il solo potere di disciplinare
l'organizzazione e modalità di esercizio
delle proprie funzioni amministrative, con
facoltà di delegarle agli enti territoriali
subregionali e di prevedere forme e modalità
ulteriori di semplificazione e
coordinamento.
Introdotta la completa
digitalizzazione degli oneri informativi a
carico dei proponenti con l'eliminazione
integrale degli obblighi di pubblicazione
sui mezzi di stampa
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2017). |
ENTI LOCALI: Gestioni
associate per tutti. Non contano gli
abitanti. Tre funzioni a scelta degli enti.
Ricci (Anci): accelerare sulla riforma in
modo da trovare risorse nella legge di
bilancio.
Gestioni associate per tutti i comuni, senza
distinzioni a seconda della popolazione.
Sarà l'assemblea dei sindaci a livello
provinciale a decidere gli ambiti dei nuovi
Bacini omogenei che sostituiranno le unioni
dei comuni e in cui i municipi confluiranno
sulla base di criteri che prescinderanno dal
numero di abitanti.
A contare, invece, sarà la «contiguità
territoriale e socio-economica». Sulla base
di questi criteri, i comuni si metteranno
insieme per gestire in forma associata
almeno tre funzioni fondamentali. Chi ne
assocerà di più o deciderà di mettere
insieme le funzioni più pesanti (come per
esempio quella di organizzazione generale,
controllo e gestione finanziaria e
contabile) sarà premiato in sede di
distribuzione degli incentivi statali e
regionali.
Questa la ricetta che il ministero degli
affari regionali e l'Anci stanno mettendo a
punto per rottamare l'associazionismo
forzoso (quello previsto dal dl 78/2010 e di
fatto mai entrato in vigore per la decisa
opposizione dei piccoli comuni, obbligati a
mettersi insieme se sotto i 5 mila
abitanti).
Il nuovo assetto ordinamentale è ormai allo
studio da mesi e a rallentarne il cammino è
stato prima il quadro di incertezza politica
che ha fatto seguito al referendum
costituzionale di dicembre e ora le
prospettive di una fine anticipata delle
legislatura.
Per questo l'Anci vuole accelerare. E dopo
aver provato a inserire nella manovra
correttiva (dl 50/2017) un emendamento
(dichiarato inammissibile per estraneità di
materia) che di fatto avrebbe anticipato
l'entrata in vigore della riforma, sta
ripensando a un altro veicolo normativo per
fare entrare subito in vigore le nuove
regole. Con il duplice scopo di evitare
l'ennesima proroga delle norme del dl 78
(congelate fino al 31.12.2017) e al
contempo rendere operativi gli incentivi già
dal 2018, attraverso appositi stanziamenti
da reperire nella prossima legge di
bilancio.
Sul dossier, stanno lavorando il ministro
per gli affari regionali, Enrico Costa e il
suo sottosegretario Gianclaudio Bressa,
mentre per l'Anci se ne sta occupando Matteo
Ricci, sindaco di Pesaro e responsabile enti
locali del Pd. «Vogliamo anticipare la
riforma», dice Ricci a ItaliaOggi, «in modo
da poter programmare sufficienti risorse
nella sessione di bilancio. C'abbiamo
provato con l'emendamento alla manovrina, ma
purtroppo la commissione bilancio della
camera l'ha cassato in quanto ordinamentale.
Ora incontreremo nuovamente il governo per
concordare il da farsi».
Anci e governo infatti non si incontrano
dall'11 aprile e in quell'occasione
l'esecutivo decise di accogliere molte
richieste dei sindaci. Come per esempio
quella di mettere da parte il limite di 15
mila abitanti, inizialmente previsto nella
bozza di riforma, come soglia demografica
per individuare gli enti assoggettati
all'obbligo.
Ora nella nuova bozza, che ItaliaOggi ha
avuto modo di leggere, non c'è più alcun
riferimento al numero di abitanti. Così come
non si fa più cenno alla durata triennale e
alla revisione annuale del Piano per le
unioni e le fusioni. Il confronto è invece
ancora in corso sulla tipologia di funzioni
da mattere insieme. L'Anci vuole che le 3
funzioni siano a scelta dei comuni, senza
imposizioni. Il ministero invece vorrebbe
che la funzione di organizzazione generale,
controllo e gestione finanziaria e contabile
faccia obbligatoriamente parte del
pacchetto. Tuttavia l'Anci fa notare come
sia proprio questa funzione ad aver creato
problemi applicativi, «per la sua
complessità e per l'incerta e non completa
definizione». Di qui la richiesta che non
venga considerata obbligatoria ma solo
incentivata maggiormente. E incentivi
specifici dovranno essere previsti anche per
l'edilizia scolastica.
La bozza di riforma lascia libere i sindaci
di individuare lo strumento associativo più
idoneo alle loro esigenze. Oltre alle unioni
e alle fusioni, il provvedimento fa salve le
convenzioni, considerate «strumento di
flessibilità nella costruzione dei processi
associativi». Solo i comuni appartenenti
alle unioni e quelli istituiti a seguito di
fusione potranno godere di incentivi (quote
di riserva, forme di priorità o prelazione)
nella distribuzione del Fondi europei
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Il
catasto non è più obbligatorio.
Infrastrutture di reti di comunicazione.
Per i nuovi immobili che costituiscono
infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, dal 01.07.2016 non è più
obbligatoria la dichiarazione in Catasto.
Per quelli già iscritti, a seguito della
modifica della procedura Docfa, dal 03.07.2017 è possibile presentare un atto di
aggiornamento per richiedere l'attribuzione
della nuova categoria catastale, denominata
F/7 - Infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, senza l'attribuzione della
rendita.
È quanto chiarisce la
circolare
08.06.2017 n. 18/E
dell'Agenzia delle entrate - Direzione
Centrale Catasto, Cartografia e Pubblicità
Immobiliare, che
fornisce indicazioni sulle modalità di
iscrizione in catasto di beni costituenti
infrastrutture di reti pubbliche di
comunicazione, alla luce delle novità
introdotte dal dlgs n. 33/2016.
Quest'ultimo, spiega una nota delle Entrate,
ha escluso dal concetto di «unità
immobiliare» gli elementi di reti pubbliche
di comunicazione elettronica ad alta
velocità e le altre infrastrutture di reti
pubbliche di comunicazione, comprese le
opere di infrastrutturazione per la
realizzazione delle reti pubbliche di
comunicazione elettronica ad alta velocità
in fibra ottica in grado di fornire servizi
di accesso a banda ultralarga.
Per le
infrastrutture di questo tipo che risultano
già iscritte in catasto, è possibile,
quindi, presentare un atto di aggiornamento
per variare la vecchia categoria catastale
(con rendita) e attribuire la nuova
categoria F/7 (senza rendita). Per le nuove
realizzazioni, invece, l'iscrizione in
catasto (sempre in categoria F/7 senza
attribuzione di rendita) rappresenta una
facoltà, generalmente connessa all'eventuale
costituzione o trasferimento di diritti
reali che richiedono l'identificazione
catastale del bene, e non più, quindi, un
obbligo.
Resta fermo, invece, chiarisce la
circolare, l'obbligo di dichiarazione in
catasto dei fabbricati o porzioni di
fabbricato con una destinazione d'uso non
strettamente funzionale alle reti di
comunicazione, come uffici, alloggi,
autorimesse, magazzini ecc., da censire
nella apposita categoria, con attribuzione
di rendita
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
ENTI LOCALI: Avanzi
di amministrazione utilizzabili per
estinguere i mutui.
Gli enti locali potranno utilizzare l'avanzo
di amministrazione destinato agli
investimenti per estinguere anticipatamente
i propri mutui, qualora non dispongano di
una quota sufficiente di avanzo libero,
abbiano accantonato il 100% del fondo
crediti di dubbia esigibilità e garantiscano
un pari livello di investimenti aggiuntivi.
La novità è stata prevista da uno degli
emendamenti al dl 50/2017 approvati alla
Camera, introducendo nel testo un nuovo art.
26-bis che, a sua volta, modificherà l'art.
187 del Tuel.
Quest'ultima è la norma che disciplina la
composizione e le modalità di utilizzo del
risultato di amministrazione, ovvero delle
risorse che (se hanno segno positivo)
rappresentano «i risparmi» degli enti.
Essa impone di distinguere il risultato in
quattro quote: la quota vincolata, dove
confluiscono le risorse non ancora spese ma
destinate a finalità di spesa già definite
puntualmente (ad esempio, quelle derivanti
da un mutuo contratto per realizzare un
nuovo edificio scolastico); la quota
accantonata, dove vengono appostati il fondo
crediti dubbia esigibilità e gli
accantonamenti per le passività potenziali
(fondi spese e rischi); la quota destinata
agli investimenti, che ospita risorse che
hanno un vincolo solo generico a spese che
incrementano il patrimonio dell'ente (e non
un vincolo specifico, come per le risorse
della quota vincolata); la quota libera, che
viene calcolata per differenza fra il
risultato complessivo e le altre quote.
Il correttivo approvato a Montecitorio
consentirà di utilizzare la quota destinata
agli investimenti anche per l'estinzione
anticipata di mutui (e, si ritiene, di altre
eventuali forme di prestiti).
Ciò, però, purché l'ente rispetti tre
condizioni: 1) l'avanzo libero non deve
essere «sufficiente»; 2) l'ente abbia
accantonato il 100% del fcde; 3) l'ente
garantisca un pari livello di investimenti
aggiuntivi.
Tali previsioni pongono numerosi dubbi
interpretativi. La prima condizione pare
presupporre che l'operazione di estinzione
anticipata sia di importo superiore alla
(eventuale) quota libera del risultato di
amministrazione, per cui, ad esempio, se
l'ente intende estinguere un mutuo con
capitale residuo di 100 e dispone di avanzo
libero per 70, può colmare il gap di 30 con
l'avanzo destinato.
La seconda sembra fare riferimento alla
consistenza del fcde a rendiconto e non a
preventivo. Ciò posto, pare che la norma
richieda di dimostrare che il fcde
accantonato nell'ultimo rendiconto approvato
sia pari al 100% dell'importo che emerge
dall'applicazione del c.d. metodo ordinario,
escludendo in partenza gli enti che
utilizzano il c.d. metodo semplificato
perché nel bilancio di previsione si
avvalgono della possibilità di stanziare un
fcde più basso.
Assai incerta, infine, anche
la portata della terza condizione: non si
capisce, infatti, che cosa significhi
«garantire investimenti aggiuntivi». Deve
trattarsi di maggiori impegni di spesa?
Rispetto a quale periodo temporale? E come
gioca al riguardo l'esigibilità della spesa
(basta impegnare l'intera somma anche se una
parte confluisce a fondo pluriennale
vincolato)?
Tutte questioni che dovranno essere chiarite
in sede applicativa
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
APPALTI: Appalti,
manodopera ai raggi X. Prima
dell'aggiudicazione necessario controllare i
costi. Il decreto correttivo al codice dei
contratti complica la procedura di
affidamento.
Nuove complicazioni procedurali negli
appalti. Il correttivo al codice dei
contratti, se per un verso ha corretto ben
poco le storture del dlgs 50/2016, per altro
verso ne ha introdotte di nuove. In
particolare, il legislatore ha inteso
tornare per l'ennesima volta sul tema del
costo della sicurezza e della manodopera,
modificando l'articolo 95, comma 10, del
codice dei contratti, che adesso stabilisce:
«Nell'offerta economica l'operatore deve
indicare i propri costi della manodopera e
gli oneri aziendali concernenti
l'adempimento delle disposizioni in materia
di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro
ad esclusione delle forniture senza posa in
opera, dei servizi di natura intellettuale e
degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti,
relativamente ai costi della manodopera,
prima dell'aggiudicazione procedono a
verificare il rispetto di quanto previsto
all'articolo 97, comma 5, lettera d)».
Si è,
fortunatamente, abbandonata l'idea di far
determinare alle stazioni appaltanti il
costo della manodopera, impresa totalmente
impossibile per l'assenza di un salario
minimo e le moltissime possibilità offerte
alle aziende dalla normativa sui contratti
di lavoro di attivare contratti con costi
aziendali molto difformi tra loro. Si pensi
solo alle assunzioni effettuate tra il 2015
e il 2017 con gli sgravi triennali previsti
dalla legge 208/2015, o alle assunzioni di
percettori di Naspi con sgravio pari al 20%
dell'indennità spettante al lavoratore, o
alle assunzioni di apprendisti, o di
lavoratori over 50.
Soltanto le aziende
possono sapere, concretamente, quale sia il
costo effettivo della manodopera impiegata
negli appalti. Appare, quindi, corretto
imporre, con l'articolo 95, comma 10, alle
imprese di esporre i costi relativi,
ricordando che si tratta di un obbligo
discendente direttamente dalla legge, il cui
inadempimento implica l'esclusione degli
operatori economici dalle gare, anche se
tale obbligo non sia richiamato dal bando o
gli atti di avvio della gara.
Esentati da tale obbligo sono solo alcune
prestazioni per le quali il costo della
manodopera appaia non rilevante o
impossibile da definire nella sua incidenza:
è il caso dei servizi intellettuali (non c'è
manodopera in senso proprio) e delle
forniture senza posa in opera (è impresa
impossibile comprendere quale possa essere
l'incidenza del costo della manodopera in
una penna). La norma esclude dall'obbligo,
poi, gli appalti affidati con le procedure
semplificate regolate dall'articolo 36,
comma 2, lettera a), di importo inferiore ai
40.000 euro.
In tutti gli altri casi, il correttivo
introduce un nuovo e inedito adempimento:
verificare quanto prevede l'articolo 97,
comma 5, lettera d) e, cioè, se il costo del
personale risulti inferiore ai minimi
salariali retributivi indicati nelle tabelle
previste dall'articolo 23, comma 16, sempre
del codice dei contratti: si tratta delle
tabelle elaborate dal ministero del lavoro e
delle politiche sociali sulla base dei
valori economici definiti dalla
contrattazione collettiva nazionale tra le
organizzazioni sindacali e le organizzazioni
dei datori di lavoro comparativamente più
rappresentativi, delle norme in materia
previdenziale ed assistenziale, dei diversi
settori merceologici e delle differenti aree
territoriali.
L'impresa è tutt'altro che agevole. Sul
piano tecnico, le tabelle riportano costi
medi; ancora una volta, non possono tenere
conto di particolari agevolazioni e sgravi
di cui si avvantaggi di volta in volta il
singolo operatore economico. Dunque, non
difficilmente il costo della manodopera
indicato dall'appaltatore può rivelarsi
inferiore a quello riportato nelle tabelle.
Inoltre, si nota che mentre prima del
correttivo l'analisi del costo della
manodopera in rapporto alle tabelle scattava
solo se l'offerta risultasse affetta da
possibili anomalie, la nuova formulazione
dell'articolo 95, comma 10, rende
obbligatorio sempre e comunque la verifica
della congruità di detti costi. Anche nel
caso di gara gestita col criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
che impedisce l'anomalia se l'aggiudicatario
non abbia ottenuto sia i punti relativi al
prezzo, sia la somma dei punti relativi agli
altri elementi di valutazione, entrambi pari
o superiori ai quattro quinti dei
corrispondenti punti massimi previsti dal
bando di gara.
Il correttivo impone, dunque, sempre e
comunque di attivare la verifica del costo
della manodopera «prima
dell'aggiudicazione». Il che pone ulteriori
problemi procedurali. La verifica di detto
costo, se quello esposto dall'appaltatore
risultasse inferiore alle tabelle, impone un
procedimento in contraddittorio, che
garantisce all'appaltatore almeno 15 giorni
per presentare per iscritto spiegazioni.
Aggiungendo il tempo necessario
all'istruttoria, si può agevolmente superare
il termine di 30 giorni previsto
dall'articolo 33, comma 1, perché si formi
per silenzio assenso appunto
l'aggiudicazione
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
APPALTI: L'arbitrato
diventa retroattivo. Accordi bonari: abolito
il collegio consultivo tecnico. Novità del
correttivo della riforma appalti sul
contenzioso in fase di esecuzione del
contratto.
Se viene rifiutata la proposta di accordo
bonario per un appalto pubblico, è ammesso
il ricorso entro sessanta giorni. L'
arbitrato è possibile anche per l'esecuzione
di contratti concernenti gare bandite prima
del 19 aprile 2016; soppresso il collegio
consultivo tecnico.
Sono queste alcune delle novità in tema di
contenzioso in fase di esecuzione del
contratto introdotte dal decreto correttivo
del codice appalti (dlgs 56/2017).
Per la disciplina dell'accordo bonario
(articoli 205 e 206 del codice) già un anno
fa si rese possibile l'utilizzazione di
questo strumento anche in relazione ai
contratti di fornitura di beni e servizi; in
particolare, oltre che per lavori pubblici
relativi a infrastrutture strategiche e
insediamenti produttivi. Sempre per i lavori
pubblici, ai fini del ricorso all'accordo
bonario, il codice del 2016 aveva stabilito
che l'utilizzo dell'accordo bonario fosse
ammesso se la variazione dell'importo
dell'opera è prevista tra il 5 e il 15%
(tranne che per i contratti di rilevanza
comunitaria).
La procedura prevede un ricorso, solo
eventuale, ad un esperto scelto da una lista
di 5 soggetti proposti dalla Camera
arbitrale su richiesta del Rup (in mancanza
di richiesta di nomina, la proposta di
accordo bonario, con indicazione della somma
riconosciuta, è formulata dallo stesso
responsabile unico del procedimento, il Rup,
appunto); la conclusione del procedimento è
fissata in 45 giorni.
Il decreto correttivo interviene inserendo
un nuovo comma 6-bis in cui si prevede che
l'impresa, in caso di rifiuto della proposta
di accordo bonario, ovvero di inutile
decorso del termine per l'accettazione, può
instaurare un contenzioso giudiziario entro
i successivi sessanta giorni e che questo
termine è previsto a pena di decadenza.
Altra novità apportata dal decreto 56/2017
(art. 112) è l'abrogazione dell'articolo 207
del Codice che disciplinava il Collegio
consultivo tecnico. La soppressione della
norma ha lo scopo di recepire le
osservazioni del Consiglio di Stato (parere
n. 855/2016), che rilevava come non fosse
chiaro se il ricorso al collegio consultivo,
per dirimere le controversie, costituisse un
sistema alternativo all'accordo bonario né
come i due istituti si rapportassero tra di
loro.
Infine, per gli arbitrati, il decreto
correttivo precisa che le procedure di
arbitrato di cui all'articolo 209 si
applicano anche alle controversie su diritti
soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei
contratti pubblici cui si applica l'articolo
209, per i quali i bandi o avvisi siano
stati pubblicati prima della data di entrata
in vigore del codice.
La disposizione prevede quindi che la nuova
disciplina dell'articolo 209 si possa
applicare anche a fattispecie concernenti la
fase esecutiva di contratti oggetto di
affidamento di contratti per i quali il
bando o l'avviso sia stato pubblicato prima
del 19 aprile 2016.
L'articolo 209 del codice prevede che il
deferimento ad un collegio arbitrale sia
possibile per controversie su diritti
soggettivi, in fase esecutiva, di contratti
di lavori, servizi, forniture, di concorsi
di progettazione e di idee, oltre che per
controversie concernenti il mancato
raggiungimento dell'accordo bonario di cui
agli articoli 205 e 206 possono essere
deferite ad arbitri.
Dal momento che
l'articolo 209 prevede anche che debba
essere la stazione appaltante ad indicare
nel bando o nell'avviso con cui indice la
gara ovvero, se il contratto conterrà o meno
la clausola compromissoria, il decreto
correttivo chiarisce che è comunque ammessa
tale facoltà anche per i bandi precedenti il
19.04.2016
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
TRIBUTI: Atti
tributari notificabili con Pec. A partire
dal 1° luglio. Va allegato l'avviso di
accertamento. La chance è prevista dal
decreto fiscale. Non serve l'intervento del
messo notificatore.
L'art. 60, del dpr n. 600 del 29/09/1973,
come modificato dall'art. 7-quater, comma 6,
del dl n. 193/2016, convertito con legge n.
225, consente, a decorrere dal 01.07.2017, di notificare gli atti impositivi
tributari direttamente a mezzo di posta
elettronica certificata (Pec).
A ben vedere,
il combinato disposto di cui all'art. 48,
comma 2, del dlgs n. 82/2005 (decreto che ha
emanato il Codice dell'amministrazione
digitale - Cad) e all'art. 149-bis c.p.c.,
legittima gli enti locali alla notifica a
mezzo Pec già da alcuni anni.
La disposizione codicistica, però, richiede
l'intervento dell'agente notificatore
(ovvero il messo notificatore/messo
comunale) tenuto a certificare l'eseguita
notificazione mediante la redazione della
relata di notifica ai sensi dell'art. 148, co.
1 cpc, sottoscritta con firma digitale.
L'art. 60 citato, invece, in deroga
all'articolo 149-bis c.p.c. e alle modalità
di notificazione previste dalle norme
relative alle singole leggi d'imposta,
stabilisce che la notificazione degli avvisi
e degli altri atti che per legge devono
essere notificati alle imprese individuali,
o costituite in forma societaria, ed ai
professionisti iscritti in albi o elenchi
istituiti con legge dello Stato, può essere
effettuata direttamente dal competente
ufficio (ovvero senza l'intermediazione
dell'agente notificatore) a mezzo di posta
elettronica certificata, all'indirizzo del
destinatario risultante dall'indice
nazionale degli indirizzi Pec (Ini-Pec) con
le modalità previste dal regolamento di cui
al dpr n. 68 del 11/02/2005.
Mentre non può esservi alcun dubbio
sull'estensione della notifica a mezzo Pec
ex art. 149-bis cpc agli enti locali, alcune
perplessità si hanno circa l'applicabilità
anche agli atti tributari dei comuni della
notifica diretta a mezzo Pec. La sua
collocazione nell'art.60, una disposizione
che disciplina (direttamente e per richiamo)
la notifica degli accertamenti erariali,
sembrerebbe limitarne l'efficacia ai soli
atti emessi dall'Agenzia delle entrate.
Di
contro, l'aver previsto ad opera
dell'art. 7-quater, dl 193/2016, conv. in
legge n. 225 del 01/12/2016 la possibilità,
anche in deroga alle ordinarie modalità di
notifica previste dalle singole leggi
d'imposta non compatibili con quelle di cui
all'art.60, di notificare gli atti
direttamente a mezzo Pec, sembra avere il
precipuo scopo di attribuire alla
disposizione de qua, una portata ampia e
generale, tale da consentirne l'applicazione
anche agli atti impositivi dei tributi
locali.
Pur auspicando un intervento legislativo
chiarificatore in merito, si ritiene che una
lettura costituzionalmente orientata
dell'art.60, volta ad assicurare a tutti gli
enti impositori uguali garanzie e strumenti,
nella delicata fase della notificazione dei
propri atti impositivi, consenta di ritenere
legittima, a decorrere dal 1° luglio, la
notifica diretta a mezzo Pec anche per gli
atti impositivi degli enti locali.
L'uso della Pec per la notifica degli atti
tributari informatici richiama
inevitabilmente il già citato Cad, normativa
di riferimento per il digitale nella p.a.
Va, però, rilevato che a mente dell'art. 2,
co. 6 del Cad, le relative disposizioni non
sono applicabili «all'esercizio delle
attività e funzioni ispettive e di controllo
fiscale». Ciò malgrado, si è dell'avviso che
tale arresto possa ritenersi superato dalla
normativa sopravvenuta.
L'art. 7-quater citato, infatti, presuppone
l'applicazione del Cad e ciò potrebbe
indurre a ritenere che il dl n. 193/2016,
abbia implicitamente abrogato la limitazione
di cui all'art. 2 rendendo applicabili le
regole del Cad anche agli atti tributari.
Tenuto conto, peraltro, che per gli atti
tributari emessi attraverso procedure
informatizzate è ammessa, in luogo della
sottoscrizione autografa, l'indicazione a
stampa del nominativo del soggetto
responsabile, a maggior ragione dovrebbe
essere ammessa la generazione di copie
conformi o duplicati informatici a norma,
con firma digitale, senza necessità della
sottoscrizione autografa dell'atto.
In conclusione, la notifica degli atti
impositivi può essere fatta a mezzo Pec,
allegando sempre un documento informatico
(l'avviso di accertamento) formato ai sensi
dell'art. 23-bis, co. 2, del Cad, ovvero
copia informatica di documento originario
informatico, dotata quindi di una
dichiarazione di conformità all'originale
detenuto nei sistemi informativi dell'ente
locale ed effettuata da un soggetto
autorizzato, che appone a tal fine la
propria firma digitale o qualificata.
In alternativa, con Pec è possibile
notificare non una copia ma un duplicato
dell'originale che, ai sensi dell'art.
23-bis, co. 1, del Cad, detiene medesimo
valore giuridico, ad ogni effetto di legge,
del documento informatico da cui è tratto.
Sia nel caso della copia informatica di
documento informatico che di duplicato
informatico, gli stessi devono essere
prodotti in conformità alle «Regole tecniche
sul documento informatico» di cui al dpcm 13.11.2014. In base a tali regole
tecniche, si precisa, l'eventuale
dichiarazione di conformità della copia può
essere in unico file o in file separato, ma
con le accortezze in tal caso richieste,
appunto, dalle citate Regole tecniche
(articolo ItaliaOggi del
09.06.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: T.u.
e performance, i decreti Madia in G.U..
Pubblicati ieri in Gazzetta Ufficiale i due
decreti sul pubblico impiego e sulle
performance dei dipendenti della pubblica
amministrazione.
I provvedimenti, contenenti
disposizioni di attuazione della legge 07.08.2015, n. 124 che detta la riforma
della pubblica amministrazione, erano stati
approvati dal Consiglio dei ministri lo
scorso 19 maggio (si veda ItaliaOggi del 20.05.2017) ed entrambi entreranno in
vigore il 22 giugno prossimo.
Il decreto legislativo 74/2017, che modifica
il dlgs 150/2009, ha lo scopo di migliorare
la produttività dei lavoratori attivi nel
settore pubblico e di potenziare
l'efficienza e la trasparenza delle
pubbliche amministrazioni. Ispirandosi ai
principi di semplificazione, il testo
introduce alcune novità per quanto riguarda
il sistema premiale e di valutazione del
rendimento dei dipendenti.
Prima di tutto,
si è chiarito che il rispetto di queste
disposizioni non solo incide sull'erogazione
dei premi ma anche sulla progressione
economica, sul conferimento di incarichi
dirigenziali e di responsabilità. Anche in
fini disciplinari: se per tre anni di
seguito un dipendente consegue una
valutazione negativa, verrà licenziato.
Tutte le amministrazioni sono tenute a
misurare il rendimento, del suo complesso,
delle unità operative e dei singoli
lavoratori e oltre al raggiungimento di
specifici obiettivi devono raggiungere
obiettivi generali, priorità coerenti con le
politiche nazionali. Le figure di
monitoraggio sono gli organismi indipendenti
di valutazione, che osservano l'andamento
delle performance e segnalano criticità e
debolezze.
Invece, modificando e integrando il dlgs
165/2001 (Testo unico del pubblico impiego),
il decreto legislativo 75/2017 riguarda il
codice disciplinare con i licenziamenti, il
nuovo regime per le visite fiscali e le
regole per i concorsi con il capitolo sulla
stabilizzazione dei precari. Infatti detta
sanzioni più efficaci in caso in cui il
dipendente pubblico compia uno sbaglia, ora
i vizi formali della procedura non
consentiranno più di annullare le sanzioni.
Spazio da settembre al polo unico delle
visite fiscali, che verranno gestite
dall'Inps che già le gestiva per i
dipendenti privati
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2017). |
TRIBUTI: Il comodato si fa in due. Agevolazioni
nazionali e anche comunali.
IMU/ Opzioni alternative in vista della
scadenza per i versamenti.
Per i comodati abitativi agli stretti
familiari, le agevolazioni possono arrivare
non solo dalla normativa nazionale, ma anche
(eventualmente) da quella comunale.
In vista
del 16 giugno, data di scadenza del primo
versamento per il 2017, occorre tenere conto
di entrambe le possibilità, alternative tra
loro, anche se molti operatori sono convinti
che per il comodato esista solo la
regolamentazione nazionale.
Il comodato statale
Anche se non vengono più assimilate
all'abitazione principale, le unità
abitative concesse in comodato ai parenti in
linea retta entro il primo grado hanno un
trattamento agevolato, benché condizionato
al verificarsi di determinate condizioni.
La legge 208/2015 (legge di Stabilità per il
2016), infatti, prevede (articolo 1, comma
10) la riduzione del 50% della base
imponibile per le unità immobiliari (fatta
eccezione per quelle classificate nelle
categorie catastali A/1, A/8 e A/9) concesse
in comodato dal soggetto passivo ai parenti
in linea retta entro il primo grado
(padre-figlio e viceversa) che le utilizzano
come abitazione principale (cioè come
residenza anagrafica e insieme dimora
abituale), a condizione che il contratto sia
registrato e che il comodante possieda un
solo immobile in Italia e risieda
anagraficamente nonché dimori abitualmente
nello stesso comune in cui è situato
l'immobile concesso in comodato.
Il beneficio si applica anche nel caso in
cui il comodante, oltre all'immobile
concesso in comodato, possieda nello stesso
comune un altro immobile (che sia) adibito a
propria abitazione principale (sempre
escluse le A/1, A/8 e A/9). Ai fini
dell'applicazione dell'agevolazione, è
richiesta la presentazione della
dichiarazione Imu nei termini previsti.
È stato chiarito che l'agevolazione si
applica anche nel caso di possesso di altri
immobili, purché non abitativi. Alle
abitazioni (e pertinenze, con i relativi
limiti) che rientrano in questa norma
statale, e quindi con la base imponibile
ridotta alla metà, i comuni possono
applicare l'aliquota ordinaria oppure
un'aliquota agevolata.
Il comodato comunale
Nei regolamenti comunali (e relative
delibere), però, esistono anche altre
fattispecie di comodati a cui si applicano
aliquote agevolate, pur restando intera (e
non dimezzata) la base imponibile.
Basta leggersi pazientemente i regolamenti,
e si possono trovare dei tesoretti di
agevolazioni inaspettati.
Si va dal caso del rapporto di primo grado
in linea retta, ma con la richiesta di
alcune soltanto delle condizioni poste dalla
norma nazionale, fino anche al secondo grado
collaterale (tra fratelli), e così via.
Per queste situazioni locali, di solito è
prevista la presentazione di un
modulo-richiesta (spesso entro il 16 o 31
dicembre dello stesso anno di computo dell'Imu,
e con efficacia fino a modifica della
situazione), invece della dichiarazione
ministeriale. E non sempre è richiesto un
contratto scritto, o che sia registrato.
Conguagli in sede di saldo a dicembre
A questo punto sarà opportuno che gli
operatori (o gli stessi singoli
contribuenti) facciano un inventario
puntuale delle situazioni di comodato che
stanno gestendo, verificando se i vari
comuni interessati hanno una propria
normativa in proposito, oltre a quella
nazionale della legge 208/2015.
Eventuali situazioni e condizioni presenti
potranno essere verificate anche più avanti,
in tempi meno «caldi», e conguagliate in
sede di saldo. Dipenderà dalle condizioni
poste dal singolo comune
(articolo ItaliaOggi dell'08.06.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso generalizzato a 360°.
Chance ai cittadini per perfezionare istanze
incomplete.
Circolare del ministro Madia sull'attuazione
del Freedom of information act (Foia).
Accesso generalizzato ad ampio spettro. La
pubblica amministrazione non può dichiarare
inammissibile una domanda di accesso per
motivi formali o procedurali. Non solo. Nel
caso di domanda formulata in termini
talmente vaghi da non consentire di
identificare l'oggetto della richiesta o
volta ad accertare il possesso di dati o
documenti da parte dell'amministrazione,
quest'ultima deve assistere il richiedente
per definire insieme l'oggetto della
domanda.
In ultimi analisi, l'amministrazione deve
ritenere inammissibile una richiesta
soltanto quando abbia invitato (per
iscritto) il richiedente a ridefinire o
completare l'oggetto della domanda e il
richiedente non abbia fornito i chiarimenti
richiesti.
Questo uno dei punti chiave
contenuti nella
circolare
30.05.2017 n. 2/2017 della Funzione
pubblica recante «Attuazione
delle norme sull'accesso civico
generalizzato (c.d. Foia)», che esamina
numerosi aspetti applicativi del Freedom
of
information act (Foia, appunto) ovvero il
decreto legislativo 25.05.2016, n. 97.
Nella circolare, il ministro Marianna Madia
ribadisce che la normativa sul diritto di
accesso generalizzato (che attribuisce a
chiunque il diritto di richiedere atti e
documenti alla p.a. prescindendo da un
interesse concreto e qualificato) non
prevede in linea di principio la possibilità
di rigetto della domanda per motivi formali
o procedurali.
«Le p.a.», si legge nella
nota, «devono tener conto della difficoltà
che il richiedente può incontrare
nell'individuare con precisione i dati o i
documenti di suo interesse». Per questa
ragione, conformemente a quanto richiesto
dal Consiglio di Stato nel parere del 18.02.2016, la versione finale del testo
(articolo 5, comma 3, del dlgs 97/2016) ha
previsto che non sia più obbligatorio per il
richiedente identificare «chiaramente» i
dati o documenti che si vogliono ottenere.
Quindi, in presenza di una domanda formulata
in termini talmente vaghi da non consentire
di identificare l'oggetto della richiesta
(c.d. richiesta generica) o volta ad
accertare il possesso di dati o documenti da
parte dell'amministrazione (c.d. richiesta
esplorativa), l'amministrazione non potrà
rigettare l'istanza giudicandola
inammissibile, ma dovrà assistere il
richiedente al fine di giungere a una
adeguata definizione dell'oggetto della
domanda.
L'inammissibilità, precisa la circolare n. 2
dovrà quindi essere considerata come
un'ipotesi restrittiva. Che scatterà solo
quando la p.a. abbia invitato il richiedente
a ridefinire l'oggetto della domanda o a
indicare gli elementi sufficienti per
consentire l'identificazione dei dati o
documenti di suo interesse, e il richiedente
non abbia fornito i chiarimenti richiesti.
Identificazione del richiedente.
Nonostante,
in linea di principio, l'identificazione del
richiedente non sia necessaria ai fini
dell'esercizio del diritto di accesso,
tuttavia la Funzione pubblica la ritiene
indispensabile ai fini di una corretta
gestione delle domande. Per questo, palazzo Vidoni la ritiene condizione di ricevibilità
della richiesta. In caso di richiesta
anonima o da parte di un soggetto la cui
identità sia incerta, l'amministrazione
dovrà comunicare al richiedente la necessità
di identificarsi.
Modalità di invio.
La richiesta potrà essere
inviata in modo tradizionale oppure tramite
mail o Posta elettronica certificata (Pec).
Per agevolare i cittadini, le p.a. dovranno
comunicare sul proprio sito istituzionale
nella sezione «Amministrazione trasparente»
(con link ben visibile in home page) le
informazioni generali sulla procedura da
seguire per presentare una domanda di
accesso generalizzato, i rimedi disponibili
(procedura di riesame e ricorso in via
giurisdizionale), in caso di mancata
risposta dell'amministrazione entro il
termine di conclusione del procedimento o in
caso di rifiuto parziale o totale, nonché il
nome e i contatti dell'ufficio che si occupa
di ricevere le domande di accesso
(articolo ItaliaOggi del
07.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro agile ai blocchi di partenza.
La direttiva di palazzo vidoni.
Al via il lavoro agile nella pubblica
amministrazione. Con la direttiva 3/2017, il
ministro della Funzione pubblica, Marianna
Madia, traccia le linee guida alle quali le
p.a. dovranno attenersi per attuare quanto
prevede l'articolo 14 della legge 124/2015 e
centrare l'obiettivo di estendere la
modalità lavorativa «agile» ad almeno il 10%
dei dipendenti entro tre anni.
La direttiva si coordina anche con le
previsioni contenute nell'articolo 18 del
cosiddetto Statuto del lavoro autonomo (non
ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale), il
cui comma 3 prevede proprio l'estensione
della disciplina del lavoro agile anche al
pubblico impiego, per il tramite di
direttive attuative del citato articolo 14
della legge 124/2015.
Lo scopo dell'introduzione del lavoro agile
nella p.a. è scardinare l'esecuzione della
prestazione lavorativa da vincoli di luogo e
cornici orarie. Spetterà alle singole
amministrazioni e ai dirigenti, in qualità
di titolari esclusivi dei poteri
organizzativi e datoriali, individuare quali
prestazioni lavorative si prestino allo
svolgimento secondo queste modalità.
La direttiva 3/2017 punta sia allo sviluppo
del telelavoro, sia, soprattutto,
all'introduzione del lavoro agile che si
differenzia dal primo per una serie di
aspetti. Il telelavoro, in fondo, è
sostanzialmente un sistema per rendere da
remoto prestazioni che eseguibili
prevalentemente avvalendosi di
strumentazione informatica (imputazione
dati, protocollazioni, registrazioni
fatture). Il lavoro agile non
necessariamente richiede connessioni
telematiche e strumenti tecnici (anche se
non li esclude): soprattutto è finalizzato a
consentire la realizzazione della
prestazione lavorativa non necessariamente
nel luogo di lavoro.
A questo proposito, la direttiva invita le
amministrazioni ad estendere il lavoro agile
verso attività che presuppongano un'attenta
analisi delle modalità di esecuzione, con
precisa individuazione del risultato. Per
esempio, un'attività ispettiva esterna, una
volta standardizzata una durata minima e una
massima dell'ispezione, può essere anche
gestita in modo agile. La direttiva, oltre a
ricordare la necessità di riorganizzare i
servizi che si possano prestare al lavoro
agile, punta molto (forse eccessivamente)
anche sulla funzione di welfare aziendale ad
esso collegata.
Si intende perseguire, infatti, in maniera
esplicita anche il fine di tutelare le cure
parentali, puntando ad assegnare lo smart
working anche in relazione alla rilevazione
dei bisogni del personale dipendente e delle
esigenze di conciliazione dei tempi di vita
e di lavoro.
La direttiva richiama espressamente la
necessità di dare rilievo alle politiche di
ciascuna amministrazione «in merito a:
valorizzazione delle risorse umane e
razionalizzazione delle risorse strumentali
disponibili nell'ottica di una maggiore
produttività ed efficienza;
responsabilizzazione del personale dirigente
e non; riprogettazione dello spazio di
lavoro; promozione e più ampia diffusione
dell'utilizzo delle tecnologie digitali;
rafforzamento dei sistemi di misurazione e
valutazione delle performance; agevolazione
della conciliazione dei tempi di vita e di
lavoro».
L'obiettivo generale consiste nel consentire
entro tre anni (quindi entro il giugno 2020)
ad almeno il 10% dei dipendenti di avvalersi
delle nuove modalità spazio-temporali di
svolgimento della prestazione lavorativa,
«garantendo che i dipendenti che se ne
avvalgono non subiscano penalizzazioni ai
fini del riconoscimento di professionalità e
della progressione di carriera».
La direttiva specifica che l'obiettivo del
10% va garantito se vi sia un numero congruo
di dipendenti che lo richiedono: segno che
lo smart working non può essere imposto
(articolo ItaliaOggi del
07.06.2017). |
ENTI LOCALI:
Spese «liberate» da verificare entro luglio. Tolti i vincoli per l’acquisto
di immobili cofinanziato da Ue, Stato o Regioni.
Bilanci. Via i limiti su consulenze, convegni e formazione - Novità da
gestire con la salvaguardia degli equilibri.
Vincoli
di spesa allentati in vista dell’assestamento del bilancio di previsione e
della verifica degli equilibri finanziari per le annualità 2017/19, in
scadenza il prossimo 31 luglio.
Le novità giungono dagli emendamenti
approvati al testo originario del DL 50/2017, che ora è passato all’esame
del Senato.
In evidenza, in particolare, il venir meno delle limitazioni poste
dall’articolo 6, commi 7, 8, 9 e 13 del Dl 78/2010 e dalle disposizioni
cosiddette “taglia-carta” (si veda Il Sole 24 Ore del 29 maggio). Con il Dl
78/2010, varato nel bel mezzo della crisi economico-finanziaria del nostro
Paese, è stata di fatto preclusa l’autonomia decisionale degli enti in
riferimento a particolari voci di bilancio, il cui controllo, secondo le
intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto determinare il contenimento della
spesa pubblica corrente.
A decorrere dal 2011, infatti, la spesa annua per studi e incarichi di
consulenza, per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e
rappresentanza non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta
nel 2009, mentre la spesa per formazione deve essere contenuta entro il
limite del 50 per cento. Lo stesso articolo 6 ha poi vietato qualunque
sponsorizzazione a carico delle pubbliche amministrazioni.
Con l’emendamento
che entrerà in vigore con la legge di conversione al Dl 50/2017 si
stabilisce per il 2017, a favore dei Comuni e delle loro forme associative,
la cessazione di questi vincoli, a condizione che l’ente sia in regola con
il pareggio di bilancio e che abbia approvato il rendiconto 2016 entro i
termini di legge (30.04.2017). Le nuove disposizioni impattano però
anche negli anni successivi. In un’ottica programmatoria di medio periodo si
stabilisce infatti che, a decorrere dal 2018, le norme di favore si
applicano a tutti i Comuni (e delle loro forme associative) che riescono ad
approvare i bilanci di previsione entro il 31 dicembre dell’anno precedente
a quello di riferimento, e che dimostrino di aver rispettato il saldo fra
entrate finali e spese finali previsto dall’articolo 9 della legge 243/2012.
Oltre a queste semplificazioni viene prevista, per favorire lo svolgimento
delle funzioni di promozione del territorio, dello sviluppo economico e
della cultura in ambito locale, la non applicazione dei vincoli alle spese
per mostre effettuate da regioni ed enti locali o da istituti e luoghi della
cultura di loro appartenenza.
In materia di acquisto di immobili pubblici, il testo emendato del Dl 50/17
stabilisce che non si applica l’obbligo di dichiarare l’indispensabilità e
l’indilazionabilità per gli acquisti di immobili pubblici finanziati con
risorse del Cipe o cofinanziati dalla Ue, oppure dallo Stato o dalle
regioni. In questi casi, non occorre neppure acquisire attestazione di
congruità del prezzo da parte dell’agenzia del Demanio.
Le operazioni di assestamento del bilancio 2017 e l’avvio della
programmazione 2018/2020 non possono poi prescindere dalle novità in tema di
spesa di personale. In base all’articolo 22 del Dl 50/2017, nei Comuni con
popolazione superiore a mille abitanti, per gli anni 2017 e 2018, le facoltà
assunzionali di personale a tempo indeterminato di qualifica non
dirigenziale sono infatti innalzate al 75 per cento (non più 25 per cento)
della spesa corrispondente alle cessazioni dell’esercizio precedente.
È
richiesto però che il rapporto tra dipendenti e popolazione dell’anno
precedente risulti inferiore al limite fissato per gli enti dissestati e/o
strutturalmente deficitari (per gli anni 2017/2019 si veda il decreto 10.04.2017). Per i Comuni con popolazione compresa fra mille e 3mila
abitanti, che rilevano nell’anno precedente una spesa di personale inferiore
al 24 per cento della media delle entrate correnti registrate nei consuntivi
dell’ultimo triennio, il turnover è innalzato al 100 per cento.
La manovra interviene anche in materia di risorse agli enti locali. Vengono
infatti assegnate risorse aggiuntive per l’importo complessivo di un milione
di euro nel 2017 agli enti che partecipano alla sperimentazione delle novità
in materia di banca dati Siope + e incentivate le fusioni fra comuni
attraverso l’incremento di un milione di euro per ciascuna delle annualità
2017 e 2018 (articolo Il Sole 24
Ore del 05.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: «Promozioni», quota del 20% da calcolare
sulla singola area.
Personale. Criteri stringenti sulla riserva
alle progressioni di parte degli spazi
assunzionali.
La
giurisprudenza e la legislazione più recente
hanno sempre più ristretto i margini entro i
quali potevano essere effettuate le
progressioni verticali. Era consolidato il
principio secondo il quale questi margini
non potessero essere estesi al punto da
consentire riserve per tutti i posti messi a
concorso.
Su questa una scelta, compiuta in
modo assai netto da parte del legislatore e
confermata dalla Corte Costituzionale, è
intervenuto il decreto legislativo 150/2009,
per il quale le progressioni verticali
possono essere effettuate esclusivamente
sotto forma di riserva nell’ambito dei
concorsi pubblici, con il divieto della
possibilità di bandire concorsi
esclusivamente riservati al personale
interno.
È sul questo quadro normativo che il
legislatore delegato dalla legge Madia
introduce una misura transitoria, valida per
il triennio 2018/2010, finalizzata alla
«valorizzare le professionalità interne»,
con stringenti limiti numerici e
procedurali. La procedura è chiaramente
limitata alla progressione tra aree e
categorie, con ciò rendendo evidente la non
applicabilità all’accesso alla posizione
dirigenziale, che rimane sempre da
effettuare con il concorso pubblico a tutti
gli effetti.
Il punto di partenza è rappresentato dal
contestuale superamento del concetto di
dotazione organica e la valorizzazione dei
limiti di spesa, oltre che dal piano dei
fabbisogni che ogni amministrazione
elaborerà secondo le proprie regole ed
esigenze, nei limiti economici e nel
rispetto delle linee guida (in verità messe
in dubbio dal Consiglio di Stato in sede di
parere preventivo) previste dal nuovo
articolo 6-bis del decreto nella nuova
versione; per gli enti locali le quote
assunzionali sono definite in linea generale
sulla base delle cessazioni avvenute
nell’anno precedente seppur nell’incertezza
(alimentata da vari e discordanti pareri
della Corte dei Conti) circa la possibilità
di cumulare e utilizzarne i resti degli anni
precedenti.
L’attivazione delle procedure totalmente
interne potrà avvenire soltanto entro il
limite del 20% delle nuove assunzioni
previste nei piani. Dalla formulazione
letterale della norma sembrerebbe che il
riferimento sia alle singole e specifiche
categorie (o aree): conseguentemente il
calcolo del 20% andrà fatto sul
corrispondente numero di posti della stessa
categoria (o area) inseriti nel piano e non
sul totale delle nuove assunzioni.
Di rilievo anche gli stringenti limiti ai
requisiti e ai titoli da valutare, fermo
restando il possesso del titolo di studio
richiesto per l’accesso dall’esterno; e
ancora, particolarmente rilevante è il
carattere delle prove selettive. Infatti, il
riferimento a procedure volte ad accertare
la capacità di utilizzare e applicare
nozioni teoriche per la soluzione di casi
specifici e concreti, consente di ritenere
non sufficiente una prova per soli titoli e
colloquio, ma indica la necessità di
prevedere (in sede regolamentare) forme
selettive più stringenti tra le quali almeno
una prova scritta.
Il fine principale (la valorizzazione del
personale) e la temporaneità della
disposizione consente di poter ritenere non
applicabili al caso di specie quelle
disposizioni in materia di assunzioni quali
la previa mobilità o l’utilizzo delle
graduatorie vigenti da attivare prima di una
nuova assunzione, in dubbio, invece, la
verifica delle posizioni professionali in
sovrannumero. E ancora, nel caso di specie
la nuova assunzione incide sui costi del
personale e sulle quote assunzionali nei
limiti di costo e per il differenziale tra
il precedente ed il nuovo inquadramento,
ovviamente nel rispetto limite spesa
personale (commi 557 e 562 dell’articolo 1
della legge 296/2006), e nel rispetto
pareggio bilancio (articolo Il Sole 24
Ore del 05.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Prestazioni
occasionali doc. La pubblica amministrazione
deve motivare la scelta. MANOVRA CORRETTIVA/
Gli effetti della nuova disciplina
sostitutiva dei voucher.
Prestazioni occasionali necessariamente
giustificate da una causa da motivare.
La
nuova disciplina del lavoro occasionale
sostitutiva dei voucher, introdotta
dall'articolo 54-bis della manovra
correttiva all'esame del Senato (dl 50/2017)
per le amministrazioni pubbliche si presenta
di difficile attuazione.
Ai sensi del comma 13 dell'articolo 54-bis
«il contratto di prestazione occasionale è
il contratto mediante il quale un
utilizzatore, di cui ai commi 6, lettera b),
e 7, acquisisce, con modalità semplificate,
prestazioni di lavoro occasionali o
saltuarie di ridotta entità, entro i limiti
di importo di cui al comma 1, alle
condizioni e con le modalità di cui ai commi
14 e seguenti». Le pubbliche amministrazioni
sono gli utilizzatori previsti dal comma 7.
Tale norma è quella che impone di
considerare il lavoro occasionale come
rapporto di lavoro flessibile «causale»,
cioè strettamente legato a una specifica
esigenza lavorativa, che, pertanto, deve
essere evidenziata e motivata nei
provvedimenti per attivare lo strumento e
anche nel contratto stipulato col
lavoratore.
Le condizioni poste dal comma 7
dell'articolo 54-bis alle p.a. per
utilizzare il lavoro occasionale sono
molteplici. In primo luogo, occorre il
rispetto dei vincoli previsti dalla vigente
disciplina in materia di contenimento delle
spese di personale. In secondo luogo,
bisogna rispettare il limite massimo di
durata oraria, fissata dal successivo comma
20, in 280 ore l'anno. In terzo luogo, le
collaborazioni occasionali sono ammesse
esclusivamente per esigenze temporanee o
eccezionali, da motivare.
Il decreto
esplicita 4 possibili tipologie di esigenze
quali causa del lavoro occasionale. Una
prima è il suo utilizzo «nell'ambito di
progetti speciali rivolti a specifiche
categorie di soggetti in stato di povertà,
di disabilità, di detenzione, di
tossicodipendenza o che fruiscono di
ammortizzatori sociali». Una seconda
tipologia riguarda lo «svolgimento di lavori
di emergenza correlati a calamità o eventi
naturali improvvisi». Il lavoro occasionale
sarò in terzo luogo utilizzabile «per
attività di solidarietà, in collaborazione
con altri enti pubblici o associazioni di
volontariato» e, infine, «per
l'organizzazione di manifestazioni sociali,
sportive, culturali o caritative».
Soltanto la seconda e la quarta tipologia
sono pienamente comprensibili e coerenti con
l'enunciazione delle esigenze temporanee o
eccezionali, riguardando la necessità di una
provvista di personale necessario a far
fronte a necessità legate ad emergenze o a
manifestazioni.
L'impiego del lavoro occasionale in progetti
di volontariato pare sostanzialmente un
intento di mettere a disposizione della p.a.
uno strumento agile di riduzione salariale,
visto che simili esigenze potrebbero essere
gestite senza alcun problema con il lavoro a
tempo determinato.
Molto delicata è la questione dell'impiego
del lavoro occasionale per progetti rivolte
a persone in stato di povertà, detenzione,
disabilità o percettori di ammortizzatori
sociali. Il rischio è creare politiche
attive di lavoro poco efficaci, anzi
politiche passive sotto mentite spoglie,
finalizzate ad assegnare un reddito, con
lavori occasionali che mai potranno condurre
allo sbocco occupazionale definitivo presso
la p.a.
Il superamento del limite orario annuo
imposto dalla norma con una p.a. non
comporta la trasformazione in lavoro a tempo
indeterminato, come avviene per i privati.
La p.a. non è, per altro, obbligata a
rispettare per le prestazioni rese dal
medesimo prestatore il tetto previsto dal
comma 1, lettera c), della norma di 2.500
euro. Né le pubbliche amministrazioni sono
tenute ad avere alle proprie dipendenze
almeno 5 lavoratori, come si impone alle
imprese private. C'è, invece, il tetto
annuale di spesa massima complessiva di 5
mila euro.
È bene puntualizzare che la norma prevede
una misura del compenso oraria netta «minima»
di 9 euro. Attribuire, quindi, a un
collaboratore occasionale attività
ascrivibili a mansioni lavorative che se
regolate con un contratto a termine
comporterebbero un netto superiore, potrebbe
esporre a responsabilità civili, a meno che
non sia chiaramente espresso nel contratto
di prestazione occasionale la concorde
rinuncia del prestatore a ogni vertenza e la
piena accettazione del pagamento orario.
Ricordiamo che in un comune, ai sensi della
contrattazione collettiva vigente, per la
categoria di ingresso nella posizione
economica B3, il costo orario lordo sarebbe
di circa 14 euro e quello netto di circa 10
euro. Di poco inferiori gli oneri, se
l'inquadramento fosse nella posizione
economica B1: lordo 13,25, netto 9,45
(articolo ItaliaOggi del
03.06.2017). |
APPALTI: Stazioni
appaltanti, i controlli Anac tornano ma
senza multe. Le disposizioni in materia di
opere pubbliche. stop agli edifici
residenziali intorno agli stadi.
Fondo per la progettazione delle opere da
realizzarsi nelle zone a rischio sismico;
vietata la realizzazione di edifici
residenziali intorno agli stadi;
ripristinati i poteri Anac di controllo
sulle stazioni appaltanti ma senza sanzioni;
procedure derogatorie per gli interventi per
i Mondiali di sci alpino a Cortina del 2021;
risorse per l'edilizia scolastica. Sono
queste alcune delle principali novità
contenute nella Manovra approvata alla
Camera (decreto-legge 50/2017).
Una novità dell'ultima ora, introdotta in
Commissione con un emendamento del relatore,
è costituita dal nuovo articolo 41-bis del
testo della Commissione sul quale si è
votata la fiducia che istituisce un «Fondo
per la progettazione definitiva ed esecutiva
nelle zone a rischio sismico».
L'obiettivo è
quello di favorire gli investimenti, per il
triennio 2017-2019, per nuove opere o per
adeguamenti di quelle esistenti situate nei
Comuni ubicati nelle zone a elevato rischio
sismico (zona 1). Il fondo avrà una
dotazione di 40 milioni così suddivisi: 5
milioni di euro per l'anno 2017, 15 milioni
di euro per l'anno 2018 e 20 milioni di euro
per l'anno 2019.
Gli enti locali potranno fare richiesta al
Ministero dell'interno per ottenere i
contributi per finanziare i progetti, entro
il 15 settembre per l'anno 2017 e entro il
15 giugno per ciascuno degli anni 2018 e
2019. Il contributo verrà attribuito con
decreto ministeriale entro il 15 settembre
per l'anno 2017, e il 15 novembre per gli
anni 2018 e 2019. I Comuni potranno
stipulare una apposita convenzione, «al fine
di sostenere le attività di progettazione,
con oneri a carico del contributo concesso»,
con Invitalia Spa, società Cassa depositi e
prestiti Spa o società da essa controllate.
Il decreto-legge approvato dalla Camera
risolve poi la questione dei poteri di
controllo dell'Anac sugli atti delle
stazioni appaltanti (cancellati dal decreto
correttivo del Codice appalti, entrato in
vigore il 20 maggio) con la previsione che
l'Autorità è legittimata ad agire in
giudizio per l'impugnazione dei bandi, degli
altri atti generali e dei provvedimenti
relativi a contratti di rilevante impatto,
emessi da qualsiasi stazione appaltante,
qualora ritenga che essi violino le norme in
materia di contratti pubblici relativi a
lavori, servizi e forniture».
È inoltre
stabilito che entro 60 giorni dalla notizia
di un provvedimento viziato dalla violazione
del codice, l'Anac possa inviare un parere
motivato nel quale indica specificamente i
vizi di legittimità riscontrati. Nel caso di
inerzia da parte della stazione appaltante,
l'Anac non potrà più irrogare sanzioni (fino
a 25 mila euro) ma potrà presentare ricorso
dinanzi al giudice amministrativo;
Viene in parte riscritta la disciplina per
la costruzione degli stadi stabilendo che
gli studi di fattibilità possano
ricomprendere anche la costruzione di
immobili con destinazioni d'uso diverse da
quella sportiva, complementari e/o
funzionali al finanziamento e alla
fruibilità dell'impianto, oltre alla
eventuale demolizione dello stadio esistente
e la ricostruzione costruzione di impianti.
Viene però del tutto esclusa la possibilità
di costruire nuovi complessi di edilizia
residenziale intorno allo stadio; unica
eccezione: la realizzazione di «alloggi di
servizio strumentali alle esigenze degli
atleti e dei dipendenti della società o
dell'associazione sportiva utilizzatrice,
nel limite del 20% della superficie utile».
Dettagliati anche gli elaborati che dovranno
corredare i progetti definitivi degli
impianti sia privati, sia pubblici, fra cui
la bozza di convenzione urbanistica e il
piano economico-finanziario che dovrà recare
anche l'indicazione degli istituti bancari
finanziatori dell'intervento.
Previsti anche risorse pari a 15 milioni per
edilizia scolastica è autorizzata la spesa
di 15 milioni per l'anno 2017 a beneficio
delle province e delle città metropolitane.
Per la coppa del mondo di sci alpino a
Cortina del 2020 e i mondiali dell'anno
seguente, si prevede che un commissario
governativo predisponga il piano degli
interventi da realizzare (impianti e strade)
con utilizzo di procedure derogatorie;
chiese garanzie aggiuntive (+20%) alle
imprese che dovranno realizzare i lavori
entro il 31.12.2019
(articolo ItaliaOggi del
03.06.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Con
l'accesso generalizzato la privacy è a
rischio.
La trasparenza non batte la privacy. Ma la
bozza di circolare del ministro della
semplificazione Marianna Madia sull'accesso
civico generalizzato (cosiddetto Foia) mette
a repentaglio la riservatezza dei cittadini:
stabilisce che, nei casi dubbi, a priori
prevale l'accesso; rischia di negare la
parola agli interessati nominati nei
documenti di cui si chiede l'accesso.
A denunciarlo è la
lettera 30.05.2017 firmata da
Antonello Soro, presidente del garante per
la protezione dei dati, che elenca una serie
di criticità. Vediamo quali.
Bilanciamento.
La bozza di circolare afferma il principio
della tutela preferenziale dell'interesse
conoscitivo del richiedente l'accesso
generalizzato. Il Garante della privacy non
è d'accordo: le pubbliche amministrazioni
devono fare il bilanciamento degli interessi
e non c'è la regola che nei casi dubbi vince
la trasparenza.
Controinteressati.
La bozza di circolare afferma che chi è
citato nei documenti non necessariamente
deve essere avvisato in caso di richiesta di
accesso a quegli atti. Il passaggio, secondo
il garante, è fuorviante perché rischia di
indurre le p.a. a non chiedere la
partecipazione del soggetto cui si
riferiscono i dati, che non potrebbe dire
parola anche se i dati sono suoi.
Registro.
La bozza di circolare prevede la
pubblicazione di un registro, contenente
l'elenco delle richieste con il relativo
esito. Il garante replica che la
pubblicazione non è prevista da norma di
legge o di regolamento, e quindi bisogna
comunque eliminare i dati personali
eventualmente presenti.
Termine.
Nella bozza di circolare è indicato che il
termine iniziale dei 30 giorni per
rispondere alle richieste di accesso civico
decorre dalla data di presentazione
dell'istanza. Il garante risponde che il
termine deve partire dalla data di effettiva
ricezione dell'istanza, e cioè dalla data,
certa e dimostrabile, di materiale
acquisizione della stessa, indipendentemente
dalla data di protocollazione: e cioè la
data di consegna della Pec o della
raccomandata, la data di recapito della mail
non certificata o il timbro con la data di
ricezione se l'istanza è consegnata a mani.
In assenza però di elementi certi sulla
ricezione in tempi antecedenti alla
protocollazione, il termine decorre da
quest'ultima
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni
nei piccoli comuni. Ok a sostituzione
(condizionata) del 100% dei cessati. MANOVRA
CORRETTIVA/ Le novità per gli enti locali
nel decreto passato al Senato.
Personale, contabilità e province. Si
concentrano in questi tre ambiti le novità
di interesse degli enti locali introdotte
dalla Camera in sede di conversione del dl
50/2017, ora al Senato.
Per quanto concerne
il primo aspetto, il correttivo più
importante riguarda i mini-enti da 1.000 a
3.000 abitanti, che (come già accade per
quelli più piccoli) potranno assumere il
100% dei cessati dell'anno precedente se
spendono per gli stipendi meno del 24% delle
proprie entrate correnti.
Interessanti anche
le modifiche che puntano a rendere più
agevoli i nuovi ingressi nelle unioni. In
materia contabile, vengono soddisfatte sia
le richieste degli enti virtuosi di vedere
alleggeriti i limiti di spesa da rispettare
(ma per quest'anno occorre aver approvato il
rendiconto 2016 entro il 30 aprile, mentre
dal 2018 sarà necessario varare il
preventivo entro il 31 dicembre dell'anno
precedente), sia quelle degli enti in
affanno con le troppe scadenze, che
ottengono più tempo per chiudere la
contabilità dello scorso esercizio.
Infine,
il capitolo province, dove si registra
l'ennesimo tentativo di tamponare gli
effetti della riforma «Delrio», concedendo
agli enti di area vista un po' di ossigeno
finanziario che, però, quasi certamente non
basterà a risolvere problemi strutturali
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
decentrati unilaterali. Manca l'intesa? la
p.a. può adottare atti sostitutivi.
Resta pieno il potere delle amministrazioni
di adottare atti unilaterali sostitutivi dei
contratti decentrati, nel caso di perdurare
del mancato accordo.
Il decreto di riforma del dlgs 165/2001,
modifica l'articolo 40, comma 3-ter, del
dlgs 165/2001 nell'intento di rispettare
quanto previsto nell'intesa Governo
sindacati del 30.11.2016. Essa
impegnava il Governo a vincolare il ricorso
all'atto unilaterale all'espletamento di
tutte le procedure negoziali, al rispetto
della correttezza e al verificarsi di un
«pregiudizio economico» connesso allo stallo
delle trattative.
Il nuovo comma 3-ter dell'articolo 40
dispone che «Nel caso in cui non si
raggiunga l'accordo per la stipulazione di
un contratto collettivo integrativo, qualora
il protrarsi delle trattative determini un
pregiudizio alla funzionalità dell'azione
amministrativa, nel rispetto dei principi di
correttezza e buona fede fra le parti,
l'amministrazione interessata può
provvedere, in via provvisoria, sulle
materie oggetto del mancato accordo fino
alla successiva sottoscrizione e prosegue le
trattative al fine di pervenire in tempi
celeri alla conclusione dell'accordo».
Tale norma fa tesoro della giurisprudenza
maturata sul tema, secondo la quale l'atto
unilaterale sostitutivo del mancato accordo
è legittimo solo se le trattative nel
frattempo proseguano e l'atto medesimo sia
l'ultima ratio per evitare appunto
pregiudizi alla funzionalità dell'azione.
L'atto unilaterale, quindi, va
specificamente motivato.
Nella relazione allegata al testo si legge
che «con la modifica apportata, si introduce
un criterio più rigoroso e restrittivo per
l'amministrazione che intendesse provvedere
unilateralmente (occorre il pregiudizio alla
funzionalità dell'azione amministrativa) e
si prevede altresì che le trattative
sindacali non vengano interrotte. Ne
discende che non si riscontra alcun vulnus
al principio della contrattazione, come
invece segnalato dalle commissioni
parlamentari, bensì un chiarimento in senso
opposto (come richiesto dalla 1ª Commissione
Senato)».
Il testo previgente, in effetti, autorizzava
l'adozione dell'atto unilaterale «al fine di
assicurare la continuità e il migliore
svolgimento della funzione pubblica», non
per rimediare ad un pregiudizio.
Sul piano formale, quindi, la riforma Madia
appare rispettosa dell'accordo del 30.11.2016 e rispondere alle
preoccupazioni del Parlamento e del
Consiglio di stato.
Tuttavia, sul piano sostanziale cambia
pochissimo. La continuità e il migliore
svolgimento della funzione pubblica erano
pregiudicate, nel previgente sistema, dallo
stallo delle trattative e dall'assenza del
contratto decentrato, tanto quanto, oggi,
col nuovo testo il medesimo stallo determini
pregiudizio evidente alla funzionalità
dell'azione amministrativa.
Detto pregiudizio è, di fatto, in re ipsa:
coincide di per sé con l'assenza del titolo
giuridico in base al quale l'ente può
legittimamente destinare le risorse ai fini,
in particolare, della produttività. È noto
che i servizi ispettivi del Mef e la Corte
dei conti hanno colpito in particolare le
amministrazioni che avessero erogato le
risorse decentrate e i premi in assenza del
contratto o con contratti sottoscritti anni
dopo quello di spettanza o comunque a fine
esercizio finanziario.
I nuovi principi contabili adottati ai sensi
del dlgs 118/2011 impongono con estrema
chiarezza la stipulazione del contratto come
fonte della lecita erogazione del
trattamento accessorio.
Quindi, l'imperiosa necessità che il
contratto sia stipulato a fini contabili e
la necessità che in particolare le risorse
variabili riferite alla «performance»
siano destinate a inizio anno, per evitare
che siano distribuite a pioggia a
consuntivo, rendono di per sé uno stallo che
vada oltre i primissimi mesi di ciascun anno
foriero di pregiudizio all'azione
amministrativa, esponendo gli enti a
pesantissime responsabilità amministrative
ed erariali, rispetto alle quali l'atto
unilaterale non solo può, ma anzi deve
costituire un baluardo
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
APPALTI: Collaudi
esterni, ultima ratio. Certificato
differenziato per tipo e valore del
contratto. Le modifiche apportate dal primo
correttivo del codice appalti in attesa del
decreto del Mit.
Certificato di collaudo sostituibile con
quello di regolare esecuzione, da emettere
entro tre mesi dall'ultimazione delle
prestazioni contrattuali; compensi dei
collaudatori interni all'amministrazione
contenuti nell'incentivo del 2%; possibilità
di affidare a terzi il collaudo solo per
accertata carenza di organico.
È quanto ha stabilito il nuovo articolo 102
del codice dei contratti pubblici, come
modificato dal decreto correttivo 56/2017
che stabilisce un regime differenziato per
l'emissione del certificato di collaudo a
seconda del tipo di contratto e del valore
dell'affidamento.
Così, per i contratti pubblici di lavori di
importo superiore a un milione di euro e
inferiore alla soglia di applicazione della
normativa Ue (5,2 milioni circa) il
certificato di collaudo può essere
sostituito dal certificato di regolare
esecuzione rilasciato per i lavori dal
direttore dei lavori.
Sarà però il decreto del ministro delle
infrastrutture e dei trasporti di
approvazione delle linee guida Anac sul
direttore dei lavori e sul direttore
dell'esecuzione, ancora non emesso, a
dettagliare i casi in cui il certificato di
collaudo dei lavori e il certificato di
verifica di conformità potranno essere
sostituiti dal certificato di regolare
esecuzione.
Per i lavori di importo pari o inferiore a
un milione di euro e per gli altri contratti
forniture e servizi di importo inferiore
alla soglia di applicazione della normativa
europea (quindi al di sotto dei 209 mila
euro) la stazione appaltante potrà sempre
sostituire il certificato di collaudo o il
certificato di verifica di conformità con il
certificato di regolare esecuzione.
In ogni caso il certificato di regolare
esecuzione dovrà essere emesso non oltre tre
mesi dalla data di ultimazione delle
prestazioni.
Il decreto correttivo del codice precisa poi
che non solo il collaudo finale (come
stabilito con il decreto 50/2016), ma anche
la verifica di conformità deve avere luogo
non oltre sei mesi dall'ultimazione dei
lavori, salvi i casi, individuati dal
decreto ministeriale, e che entrambi tali
documenti hanno carattere provvisorio e
assumono carattere definitivo dopo due anni.
Sulla disciplina di nomina della commissione
di collaudo: la stazione appaltante nominerà
i collaudatori tra i propri dipendenti o
dipendenti di altre amministrazioni
pubbliche in numero variabile da uno a tre
componenti che dovranno essere in possesso
di una qualificazione rapportata alla
tipologia e caratteristica del contratto,
nonché di requisiti di moralità, competenza
e professionalità, oltre che essere iscritti
all'albo dei collaudatori nazionale o
regionale di pertinenza.
Per quel che attiene ai compensi la nuova
norma prescrive che, per i dipendenti della
stazione appaltante, sia contenuto
nell'ambito dell'incentivo di cui
all'articolo 113 del codice, mentre per i
dipendenti di altre amministrazioni
pubbliche è determinato ai sensi della
normativa applicabile alle stazioni
appaltanti e nel rispetto delle disposizioni
di cui all'articolo 61, comma 9, del dl
25/06/2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n.
133.
Una disciplina ad hoc viene prevista per il
collaudo statico dei lavori: i collaudatori
delle strutture (per la redazione del
collaudo statico) verranno individuati fra
dipendenti della stazione appaltante ovvero
tra i dipendenti delle altre
amministrazioni.
La possibilità di scegliere sul mercato, con
apposita gara ad evidenza pubblica per
l'affidamento del servizio di collaudo viene
circoscritta ai casi di «accertata carenza
nell'organico della stazione appaltante,
ovvero di altre amministrazioni pubbliche»
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
APPALTI: Anac
torna a controllare le stazioni appaltanti.
Restituiti all'Authority i suoi poteri con
la manovra di governo.
Ripristinato il potere di controllo dell'Anac
sugli atti illegittimi delle stazioni
appaltanti; a un parere motivato potrà
seguire l'eventuale impugnativa al Tar
dell'atto dell'amministrazione.
Lo prevede l'articolo 52-ter del
decreto-legge 50/2017 (la cosiddetta manovra
correttiva approvata alla camera) che mette
fine al polverone determinatosi subito dopo
il consiglio dei ministri del 19 aprile che
approvò il decreto correttivo del codice dei
contratti pubblici: il testo portato in
riunione non prevedeva infatti, la
soppressione dei poteri di raccomandazione
vincolanti dell'Anac, mentre quello uscito
dal consiglio dei ministri cancellava la
norma (comma 2 dell'articolo 211 del decreto
50/2016).
Si trattava della disposizione che affidava
all'Anticorruzione il potere sanzionatorio
in caso di atti illegittimi emessi dalla
stazione appaltante. In questi casi l'Anac,
mediante atto di raccomandazione, avrebbe
potuto invitare la stazione appaltante ad
agire in autotutela e a rimuovere gli
eventuali effetti degli atti illegittimi,
entro un termine non superiore a sessanta
giorni.
In caso di mancato adeguamento della
stazione appaltante alla raccomandazione
vincolante dell'Autorità la stazione
appaltante sarebbe stata punita con la
sanzione amministrativa pecuniaria (che
incideva anche sul sistema di qualificazione
delle stazioni appaltanti) variabile da 250
a 25 mila euro posta a carico del dirigente
responsabile.
In realtà il Consiglio di stato aveva, già
un anno fa, eccepito «significative
criticità sul piano della compatibilità con
il sistema delle autonomie, in quanto
introduce un potere di sospensione immediata
e uno di annullamento mascherato che
esorbitano dai meccanismi collaborativi
ammessi dalla Consulta con la sentenza 14.02.2013» e sotto il profilo della
«ragionevolezza e presunzione di legittimità
degli atti amministrativi».
I giudici, un
anno fa, avevano anche suggerito come
rettificare la norma: «è da preferire allora
una riformulazione in chiave di controllo
collaborativo al fine di giustificare il
potere dell'Anac, usando una locuzione
coincidente con la qualificazione usata
dalla Consulta con riguardo alla
legittimazione processuale conferita
dall'art. 21-bis cit. all'Autorità garante
della concorrenza e del mercato».
Seguendo questa linea, con il decreto-legge
50/2017 vengono inseriti tre commi nell'art.
211 del codice (1-bis, ter e quater)
stabilendo che l'Anac «è legittimata ad
agire in giudizio per l'impugnazione dei
bandi, degli altri atti generali e dei
provvedimenti relativi a contratti di
rilevante impatto, emessi da qualsiasi
stazione appaltante, qualora ritenga che
essi violino le norme in materia di
contratti pubblici relativi a lavori,
servizi e forniture».
In particolare l'Anac potrà emettere nei
confronti della stazione appaltante, entro
sessanta giorni dalla notizia di un
provvedimento viziato dalla violazione del
codice, un parere motivato nel quale
verranno indicati specificamente i vizi di
legittimità riscontrati.
Nel caso di inerzia da parte della stazione
appaltante, l'Anac potrà presentare ricorso
dinanzi al giudice amministrativo.
Sarà poi l'Authority a definire con proprio
regolamento i provvedimenti sui quali
esercitare il controllo
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Accertamenti
anonimi. Bastano il timbro e le iniziali del
dirigente. CASSAZIONE/ La firma è valida
anche se non risulta leggibile.
È legittimo l'accertamento anche se non
riporta la firma del dirigente ma solo sigla
e timbro. Ma non solo. L'atto può essere
emesso sulla base dei dati raccolti dalla
Guardia di finanza nell'indagine penale
nonostante siano stati trasmessi alle
Entrate senza l'autorizzazione dell'autorità
giudiziaria.
Sono questi, in sintesi, i principi
affermati dalla Corte di Cassazione, Sez. V
civile, con la
sentenza
20.12.2017 n. 30560.
È stato quindi integralmente respinto il
ricorso di una società che lamentava
l'invalidità dell'accertamento privo della
firma leggibile e per esteso del dirigente e
motivato sui dai raccolti nell'ambito
dell'inchiesta penale.
Con riguardo al primo
aspetto gli Ermellini hanno infatti
precisato che la nullità di un atto non
dipende dalla illeggibilità della firma di
chi si qualifichi come titolare di un
pubblico ufficio, ma dall'impossibilità
oggettiva di individuare l'identità del
firmatario dell'atto, con la precisazione
che l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi.
Sul
secondo fronte il Collegio di legittimità ha
invece ribadito l'autorizzazione
dell'autorità giudiziaria, richiesta dalle
norme per la trasmissione, agli Uffici delle
imposte, dei documenti, dati e notizie
acquisiti dalla Guardia di finanza
nell'ambito di un procedimento penale, è
posta a tutela della riservatezza delle
indagini penali, e non dei soggetti
coinvolti nel procedimento medesimo o di
terzi
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
---------------
MASSIMA
2.4. Il motivo, relativamente alla
censura supra sub a), non pone una
questione motivazionale, ma di
interpretazione della norma, in particolare
se il timbro del titolare dell'Ufficio,
apposto sull'avviso di accertamento,
equivalga al requisito della sottoscrizione,
richiesto dalla norma stessa.
La censura è infondata, tenuto conto delle
caratteristiche formali degli avvisi, che
recano tutti non solo il timbro ma anche la
sigla (come riscontrato dalla Corte mediante
esame dei documenti), ed «avuto
riguardo al consolidato indirizzo della
giurisprudenza di legittimità secondo cui la
nullità di un atto non dipende dalla
illeggibilità della firma di chi si
qualifichi come titolare di un pubblico
ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di
individuare l'identità del firmatario
dell'atto, con la precisazione che
l'autografia della sottoscrizione non è
configurabile come requisito di esistenza
giuridica degli atti amministrativi, quanto
meno quando i dati esplicitati nello stesso
contesto documentativo dell'atto consentano
di accertare la sicura attribuibilítà dello
stesso a chi deve esserne l'autore secondo
le norme positive, come è confermato dal
D.Lgs. 12.02.1993, n. 39, art. 3 il quale,
prevedendo, nel caso di emanazione di atti
amministrativi attraverso sistemi
informatici e telematici, che la firma
autografa sia sostituita dall'indicazione a
stampa, sul documento prodotto dal sistema
automatizzato, del nominativo del soggetto
responsabile, ribadisce sul piano positivo
l'inessenzialità ontologica della
sottoscrizione autografa ai fini della
validità degli atti amministrativi
(cfr. Cass. 1^ sez. 07.08.1996 n. 7234; Id.
I sez. 24.09.1997 n. 9394; id. 3^ sez.
10.02.2000 n. 1458; id. 1^ sez. 28.12.2000
n. 16204; id. 1^ sez. 22.11.2004 n. 21954,
tutte con riferimento ad
ordinanza-ingiunzione. Con specifico
riferimento alla materia tributaria: Cass.
5^ sez. 27.02.2009 n. 4757, secondo cui la
nullità della cartella di pagamento deve
essere esclusa anche in mancanza di
sottoscrizione del funzionario competente se
gli altri elementi formali consentano
inequivocabilmente di riferire l'atto
all'organo amministrativo titolare del
potere di emetterlo; id. 5^ sez. 23.02.2010
n. 4283 secondo cui "l'avviso
di mora emesso dal concessionario del
servizio di riscossione è valido, pur se
privo della sottoscrizione da parte del
funzionario competente, in quanto la carenza
di tale elemento formale non implica alcuna
menomazione né del potere del
concessionario, che dipende da rapporto "a
monte" con l'ente impositore, né della
responsabilità in ordine all'emissione del
singolo alto impositivo, sempre riferibile
nei confronti dei terzi all'ente che lo
emette, a prescindere dall'identità del
funzionario che materialmente lo esegue, né,
a fortiori, delle prerogative e del diritto
di difesa de/soggetto destinatario dell'atto"
(Cass. n. 26176/2011)». |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il diritto del dipendente pubblico ad ottenere il
trasferimento a una sede di lavoro che consenta di prestare
assistenza al congiunto disabile (configurato, ai sensi
dell'art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992, con l'espressione
"ove possibile") non viene meno nel caso in cui
l'amministrazione che si oppone non dia adeguata prova delle
ragioni oggettive che rendono prevalente l'interesse
organizzativo a trattenere il dipendente nell'attuale sede
e, dunque, recessivo l'interesse alla tutela del disabile al
quale prestare assistenza.
Nella valutazione dell'istanza va tenuto conto, infatti, che
la posizione del dipendente pubblico che, invocando la legge
05.02.1992, n. 104, chiede per ragioni familiari
l'assegnazione per trasferimento ad altra sede di servizio,
si qualifica come interesse legittimo, per cui spetta
all'Amministrazione valutare l'istanza alla luce delle
esigenze organizzative e di efficienza complessiva del
servizio ma, trattandosi di disposizioni rivolte a dare
protezione a valori di rilievo costituzionale, ogni
eventuale limitazione o restrizione nella relativa
applicazione deve comunque essere espressamente dettata e
congruamente motivata.
Di conseguenza, ai fini di ottenere una sede di lavoro più
vicina alla residenza delle persone cui prestare assistenza,
sussistendone le condizioni di legge l'Amministrazione può
condizionare detto trasferimento solo provando il bisogno di
corrispondere ad indeclinabili esigenze organizzative o di
efficienza complessiva del servizio, esigenze che nel caso
di specie non risultano ricorrere.
---------------
... per la riforma della
sentenza 26.05.2016 n. 742 del TAR
PIEMONTE-TORINO: SEZ. I, resa tra le parti, concernente il
diniego di trasferimento.
...
1. Il sig. -OMISSIS-, in servizio presso la Casa
Circondariale di Biella dal maggio 2001, con funzione di
assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria, chiedeva
in data 07.02.2013, ai sensi dell’art. 33, comma 5, della
legge n. 104/1992, il trasferimento presso le case
circondariali di Brindisi o di Lecce, al fine di poter
assistere il padre, affetto da grave patologia e la madre,
in stato di salute precaria, e per poter essere più vicino
ai figli, affidati congiuntamente al coniuge da cui era
separato.
Il Ministero della Giustizia - Dipartimento
dell'Amministrazione Penitenziaria - Direzione Generale del
Personale, con provvedimento del 07.05.2013, respingeva la
domanda.
1.2. Il sig.
-OMISSIS- in data
15.07.2013 presentava una nuova domanda di trasferimento,
che veniva ancora una volta respinta dall'Amministrazione
con nota del 21.10.2013.
Il sig. -OMISSIS-,
quindi, proponeva ricorso gerarchico che pure veniva
respinto con decreto del 07.04.2014, in cui si affermava che
nella sede di Biella erano presenti 187 agenti, mentre 229
erano le unità in pianta organica, senza precisare il numero
dei detenuti.
1.3. Il sig. -OMISSIS- presentava una terza istanza di
trasferimento anche questa respinta dal Ministero della
Giustizia con atto del 29.01.2015, notificato
all'interessato in data 11.5.2015, sempre motivata da
carenza di organico, in quanto a fronte di 171 unità in
pianta organica, nella sede erano in servizio 155 unità per
266 detenuti.
1.4. Avverso detto provvedimento il sig. -OMISSIS- proponeva
ricorso al TAR per il Piemonte assumendo che
l'Amministrazione non avrebbe rispettato l'impegno a
corrispondere alla sua istanza in caso di sopravvenienze
favorevoli, ma avrebbe autorizzato il trasferimento di altri
dipendenti.
1.5. Il TAR con ordinanza n. 282 del 03.03.2016, preso atto
della contraddittorietà dei dati relativi indicati nei
diversi provvedimenti, chiedeva all’Amministrazione di
predisporre una relazione sulla situazione dell’organico
degli agenti in servizio presso la Casa Circondariale di
Biella alla data di presentazione della domanda di
trasferimento del sig. -OMISSIS-.
1.6. Di seguito, il TAR con sentenza n 742 del 26.05.2016 ha
rigettato il ricorso, atteso che dalla relazione depositata
dall'Amministrazione era emerso che nel ruolo agenti e
assistenti maschili della Casa Circondariale di Biella, a
fronte di una previsione organica di 171 unità, risultavano
assegnate n. 166 unità (di cui 3 distaccate in entrata e 14
in uscita); che gli organici delle sedi di gradimento del
ricorrente risultavano in soprannumero; che un trasferimento
risulta "possibile" qualora non ostino esigenze
organizzative ed operative dell'Amministrazione di
appartenenza.
2. Avverso la sentenza il sig. -OMISSIS- ha proposto
appello.
...
3. L'appello è fondato e va accolto.
3.2. Nella relazione depositata l'Amministrazione ha fatto
presente che nessun trasferimento in uscita dalla sede
biellese è stato adottato nei confronti di pari ruolo,
dall'anno 2011 ad oggi verso le sedi richieste
dall'appellante e che, tuttavia, sono stati emessi dei
provvedimenti di distacco temporaneo in applicazione
dell'art. 7 del D.P.R. n. 254/1999, della durata, a seconda
della gravità delle motivazioni messe a sostegno delle
istanze, di non più di complessivi 6/8 mesi senza oneri.
Ha precisato, altresì, che anche il sig. -OMISSIS- ha
beneficiato di tali provvedimenti temporanei dal 04.06.2012
al 05.01.2013; dal 03.06.2013 al 10.01.2014; dal 14.04.2014
al 06.03.2016, dall'01.06.2016 al 31.07.2016,
dall'01.08.2016 all'01.03.2017 e dal 15.06.2017 al
15.08.2017.
Il Ministero della Giustizia ha, quindi, evidenziato che
alla data del 26.11.2014, per il ruolo maschile degli agenti
e assistenti (ad esclusione dei distacchi autorizzati) erano
assegnate presso la Casa Circondariale di Biella 166 unità
sulle 171 previste; presso la Casa Circondariale di Brindisi
148 unità sulle 125 previste; presso la Casa Circondariale
di Taranto 242 unità sulle 241 previste; presso la Casa
Circondariale di Lecce 511 unità sulle 519 previste.
4. Orbene, il Collegio osserva che la scopertura
dell'organico della sede di Biella risulta abbastanza lieve
e, comunque, non dissimile dalla scopertura all'epoca
esistente presso la Casa Circondariale di Lecce e che dette
scoperture appaiono del tutto ordinarie in relazione al
turn-over del personale per collocamenti a riposo e
movimentazioni varie, oltre che nell'attesa della
conclusione dei concorsi per le nuove assunzioni.
E lo stesso ripetersi di frequenti e prolungati distacchi di
cui ha fruito il sig.
-OMISSIS- ed altri
suoi colleghi è prova, inoltre, della situazione della Casa
Circondariale di Biella non presenta carenze tali da
impedire allontanamenti di personale del ruolo e del grado
dell'interessato.
Invero, il diritto del dipendente pubblico ad ottenere il
trasferimento a una sede di lavoro che consenta di prestare
assistenza al congiunto disabile (configurato, ai sensi
dell'art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992, con l'espressione
"ove possibile") non viene meno nel caso in cui
l'amministrazione che si oppone non dia adeguata prova delle
ragioni oggettive che rendono prevalente l'interesse
organizzativo a trattenere il dipendente nell'attuale sede
e, dunque, recessivo l'interesse alla tutela del disabile al
quale prestare assistenza (Consiglio di Stato sez. III
10.11.2015 n. 5113).
4.3. Nella valutazione dell'istanza va tenuto conto,
infatti, che la posizione del dipendente pubblico che,
invocando la legge 05.02.1992, n. 104, chiede per ragioni
familiari l'assegnazione per trasferimento ad altra sede di
servizio, si qualifica come interesse legittimo, per cui
spetta all'Amministrazione valutare l'istanza alla luce
delle esigenze organizzative e di efficienza complessiva del
servizio ma, trattandosi di disposizioni rivolte a dare
protezione a valori di rilievo costituzionale, ogni
eventuale limitazione o restrizione nella relativa
applicazione deve comunque essere espressamente dettata e
congruamente motivata.
4.4. Di conseguenza, ai fini di ottenere una sede di lavoro
più vicina alla residenza delle persone cui prestare
assistenza, sussistendone le condizioni di legge
l'Amministrazione può condizionare detto trasferimento solo
provando il bisogno di corrispondere ad indeclinabili
esigenze organizzative o di efficienza complessiva del
servizio, esigenze che nel caso di specie non risultano
ricorrere.
5. Per quanto rappresentato sussistevano i presupposti per
cui il trasferimento richiesto dal sig. -OMISSIS- ai sensi
dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992 doveva essere
accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.12.2017 n. 5983 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Nel caso in esame, la realizzazione ex novo di un corpo
interrato di consistente volumetria (> 800 mc), ancorché
destinato alla allocazione degli impianti tecnici, sfugge
alla qualificazione di semplice miglioria rispetto alla
originaria ipotesi progettuale, costituendo ad avviso del
Collegio una vera e propria variante.
In altri termini, non appare quindi coerente con le
prescrizioni della lex specialis e con il divieto
-normativamente previsto- di apportare varianti al progetto
posto a base di gara, rubricare come semplice soluzione
migliorativa degli aspetti funzionali e distributivi
(criterio A.2, punto 4, del Disciplinare di gara) la
realizzazione di una nuova cubatura interrata ove allocare
gli impianti.
Correttamente parte ricorrente richiama la recente pronuncia
del TAR Sardegna che, in
relazione alla sostanziale differenza tra “soluzioni
tecniche migliorative” e “variante” e facendo applicazione
dell’insegnamento del Consiglio di Stato ritiene come le prime “si
differenziano dalle varianti perché possono liberamente
esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di
gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal
punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la
modificabilità delle caratteristiche progettuali già
stabilite dall’amministrazione”.
Anche per il Consiglio di Stato, pur nell’ambito del pregresso quadro
normativo, si tratta di "variazioni migliorative rese
possibili dal possesso di peculiari conoscenze
tecnologiche", direttamente riferibili alle singole
forniture e le lavorazioni in cui si sostanzia l’opera, in
virtù delle quali quest’ultima può risultare meglio
rispondente al quadro delle esigenze funzionali poste a base
della progettazione ed ai relativi aspetti qualitativi, come
predeterminati nel progetto preliminare ai sensi dell’art.
17 d.p.r. n. 207/2010.
Le varianti, invece, si sostanziano
in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione
contenuta nel bando di gara ex art. 76 d.lgs. n. 163/2006,
sopra citato, e l’individuazione dei relativi requisiti
minimi (comma 3 della citata disposizione), che segnano i
limiti entro i quali l’opera proposta dal concorrente
costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata
dall’amministrazione, pur tuttavia consentito.
---------------
Con la prima censura parte ricorrente si duole della mancata
esclusione della proposta progettuale presentata dalla
aggiudicataria Re.Co.St., nella qualità
sopra indicata, avendo in considerazioni alcune delle
ipotesi progettuali prospettate che, lungi dal costituire
semplici migliorie, previste dal disciplinare, avrebbero
essere valutate come vere e proprie inammissibili varianti.
La censura, nei termini che seguono, risulta fondata.
Ebbene, osserva il Collegio che il progetto esecutivo posto
oggetto di gara prevedeva la collocazione delle unità
impiantistiche (relative al trattamento dell’aria, alla
climatizzazione ecc.) sul lastrico solare di copertura,
previa demolizione del volume/lucernario esistente e
l'inserimento di lucernari a cupola (poco invasivi).
Il progetto presentato dalla controinteressata Re.Co.St. prevede rispettivamente:
a) il mantenimento (previa ristrutturazione) del
volume/lucernario già esistente sulla copertura;
b) la creazione di un nuovo vano interrato (adiacente il
limitrofo fabbricato B) ove collocare il complesso degli
apparati tecnologici;
c) l'eliminazione delle schermature previste in progetto.
Ritiene il Collegio che la soluzione progettuale sub. b)
costituisca, come opinato dalla ricorrente, una effettiva
variante al progetto esecutivo posto a base di gara ed in
quanto tale risulta inammissibile.
Ed invero la soluzione proposta dalla aggiudicataria implica
la realizzazione di un nuovo volume interrato, non previsto
dal progetto posto a base di gara, di non trascurabili
dimensioni (S>200 mq — V>800 mc) e posto in aderenza al
viciniore edificio “B”, per la realizzazione del quale sono
necessari importanti opere di scavo (stimate in circa 400cm
dalla quota piano posa). Per la realizzazione del nuovo vano
tecnico interrato, nella proposta progettuale della
controinteressata si prevede la riduzione della capacità
della vasca destinata alla riserva idrica antincendio del
realizzando complesso (pari di mc. 50 nel progetto a base di
gara e quindi ridotta soli 26,30 mc nell'offerta di
controparte).
A differenti conclusioni non potrebbe giungersi, ad avviso
del Collegio, mercé il richiamo al fatto che le nuove opere
previste, siccome destinate alla allocazione di impianti
tecnici a servizio dell’edificio, non possano costituire una
variante essenziale o un nuovo volume in senso tecnico.
Invero, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato
(sez. VI, 08/20/2016, n. 507, con cui si conferma la
sentenza del TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, n.
291/2015) la nozione di “volume tecnico” non computabile
nella volumetria non ricorre se non quando non sussistano
modalità alternative di costruzione non implicanti aumenti
di volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto
contenuti.
Nel caso in esame, la realizzazione ex novo di un corpo
interrato di consistente volumetria (> 800 mc), ancorché
destinato alla allocazione degli impianti tecnici, sfugge
alla qualificazione di semplice miglioria rispetto alla
originaria ipotesi progettuale, costituendo ad avviso del
Collegio una vera e propria variante.
Opportunamente parte ricorrente rimarca come la stazione
appaltante, nel progetto posto a base gara e nel CSA, si
premurava di attenzionare i concorrenti sul fatto che "i
lavori di recupero riguardano unità edilizie limitrofe ed
adiacenti ad unità abitate...", rimarcando la necessità "di
evitare danni alle cose ed agli immobili non oggetto di
intervento in questa sede" per non intaccare la tenuta
strutturale dei fabbricati viciniori.
In altri termini, non appare quindi coerente con le
prescrizioni della lex specialis e con il divieto
-normativamente previsto- di apportare varianti al progetto
posto a base di gara, rubricare come semplice soluzione
migliorativa degli aspetti funzionali e distributivi
(criterio A.2, punto 4, del Disciplinare di gara) la
realizzazione di una nuova cubatura interrata ove allocare
gli impianti.
Correttamente parte ricorrente richiama la recente pronuncia
del TAR Sardegna (Sez. I, 19.04.2017, n. 262) che, in
relazione alla sostanziale differenza tra “soluzioni
tecniche migliorative” e “variante” e facendo applicazione
dell’insegnamento del Consiglio di Stato (Sez. V, 21.12.2012, n. 6615) ritiene come
le prime “si
differenziano dalle varianti perché possono liberamente
esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a
diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di
gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal
punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la
modificabilità delle caratteristiche progettuali già
stabilite dall’amministrazione”.
Anche per il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 29.03.2011, n. 1925), pur nell’ambito del pregresso quadro
normativo, si tratta di "variazioni migliorative rese
possibili dal possesso di peculiari conoscenze
tecnologiche", direttamente riferibili alle singole
forniture e le lavorazioni in cui si sostanzia l’opera, in
virtù delle quali quest’ultima può risultare meglio
rispondente al quadro delle esigenze funzionali poste a base
della progettazione ed ai relativi aspetti qualitativi, come
predeterminati nel progetto preliminare ai sensi dell’art.
17 d.p.r. n. 207/2010.
Le varianti, invece, si sostanziano
in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione
contenuta nel bando di gara ex art. 76 d.lgs. n. 163/2006,
sopra citato, e l’individuazione dei relativi requisiti
minimi (comma 3 della citata disposizione), che segnano i
limiti entro i quali l’opera proposta dal concorrente
costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata
dall’amministrazione, pur tuttavia consentito... (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 20.12.2017 n. 2942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Occorre rammentare la sussistenza di una
sostanziale differenza tra “soluzioni
tecniche migliorative” e “variante”, e la giurisprudenza
amministrativa ritiene come le prime “si differenziano dalle varianti
perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti
tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del
progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del
pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo
comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche
progettuali già stabilite dall’amministrazione”.
---------------
Le censure possono essere congiuntamente scrutinate e
risultano entrambe infondate in relazione alle doglianza
mosse nei confronti della I.Co.Ser..
Valgano a tal fine le seguenti considerazioni:
- in primo luogo, quanto alla attribuzione del punteggio per
le migliorie relativi ai criteri C.1 e C.2 (organizzazione
del cantiere) la non perfetta coincidenza tra le soluzioni
proposte dalla ricorrente e dalla I.Co.Ser. non fa emergere
quella palese irrazionalità entro i cui margini può essere
esercitato il controllo giurisdizionale dal parte del
Giudice rispetto alle valutazioni tecnico discrezionali
formulate dalla Commissione (cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
11/12/2015 n. 5655; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III,
12/04/2016, n. 951): invero a fronte di soluzioni differenti
il Consorzio Stabile Galileo qui ricorrente ha avuto
assegnato per le predette voci punti 11,43 rispetto ai punti
14,15 riconosciuti alla I.Co.Ser.;
- in relazione alla attribuzione di punti 6,23 per il
criterio B.1, quanto la soluzione proposta per il pacchetto
di copertura (strato di marmittoni in graniglia di marmo
posti su strato di sabbia di 3 cm di spessore, in luogo del
previsto massetto in calcestruzzo con areanti dello spessore
di cm. 10 del progetto a base di gara) osserva il Collegio
che l’ipotesi progettuale della I.Co.Ser. (relativa allo
sola copertura e non anche agli altri impalcati, come invece
contestato alla prima graduata Research) correttamente sia
stata qualificata dalla stazione appaltante quale
“miglioria” ammissibile, tenuto conto altresì che -quanto al
range del maggior peso della soluzione proposta- è rimasta
incontestata la prospettazione di parte resistente secondo
cui si rientra nei limiti “previsti dalla normativa per i
solai di copertura calpestabili”: invero occorre rammentare
la sussistenza di una sostanziale differenza tra “soluzioni
tecniche migliorative” e “variante”, e la giurisprudenza
amministrativa (cfr. di recente TAR Sardegna, Sez. I, 19.04.2017, n. 262; Cons. di Stato, Sez. V, 21/12/2012, n.
6615) ritiene come le prime “si differenziano dalle varianti
perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti
tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del
progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del
pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo
comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche
progettuali già stabilite dall’amministrazione” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 20.12.2017 n. 2941 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 15, co. 2, D.P.R. n. 380/2001,
esige un «provvedimento motivato», nel quale devono essere
adeguatamente rappresentati e valutati i «fatti sopravvenuti
estranei alla volontà del titolare del permesso» che abbiano
impedito l’inizio dei lavori.
Ciò implica una manifestazione
di volontà espressa da parte dell’Amministrazione
competente, che espliciti gli esiti della valutazione di
congruità dei motivi addotti dal richiedente: «la proroga
dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura
giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto
modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti
giuridici delineati dall’atto originario.
Nell’ambito della materia edilizia, la differente
qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della
concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione
dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo
della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia
dell’originario titolo concessorio e costituisce, a tutti
gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto
sfornito di propria autonomia che accede all’originaria
concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti
del suo termine finale di efficacia.
La proroga è quindi
disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una
valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce
nella verifica delle condizioni oggettive che la
giustificano, tenendo presente che, proprio perché il
risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina
generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano
la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma
e sono di stretta interpretazione».
---------------
Ai sensi
dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001, senza dubbio la
decadenza del permesso di costruire costituisce “effetto
automatico del trascorrere del tempo”.
Ed infatti, l’art. 15 citato prevede, per quel che interessa
nella presente sede:
“1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori.
2. Il termine per l’inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di
ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata
non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi
i termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso
decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che,
anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La
proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da
realizzare o delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere
pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi
finanziari.
3. La realizzazione della parte dell’intervento non ultimata
nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo
permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le
stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante
denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si
procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo
di costruzione (...)”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, l’istituto della
decadenza ha natura dichiarativa e presuppone un atto di
accertamento di un effetto che consegue
ex lege al
presupposto legislativamente indicato.
Tuttavia, l’intervenuta decadenza, realizzatasi per
superamento dei termini previsti per la realizzazione della
costruzione (ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001),
comporta la impossibilità di realizzare la “parte non
eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità
del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora
da eseguire, sempre che le stesse non possano essere
realizzate sulla base di denuncia di inizio attività.
In sostanza, una volta intervenuta la decadenza, chiunque
intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed
autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere,
sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a
verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare
con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità,
sia, se del caso (e come la norma prevede), a provvedere al
“ricalcolo del contributo di costruzione”».
Ed ancora: «la pronunzia di decadenza del permesso di
costruire è connotata da un carattere strettamente
vincolato, dovuto all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha
natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso
a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l’infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc».
---------------
La conseguenza di tale intervenuta decadenza è la
illegittimità derivata del provvedimento in variante
successivamente intervenuto, in quanto adottato
dall’Amministrazione comunale in carenza del titolo
abilitativo presupposto.
Il nuovo provvedimento, infatti, in quanto volto a
introdurre una variante rispetto al precedente permesso, lo
presuppone ancora valido ed efficace, atteso che «rimane in
posizione di sostanziale collegamento con quello originario
ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà
deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in
variante, che giustifica -tra l’altro- le peculiarità del
regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano
sostanziale e procedimentale».
---------------
Tutto ciò premesso, con censura fondata e assorbente i ricorrenti
rilevano la illegittimità del p.a.u. n. 15/2016, in quanto
adottato in variante di un permesso di costruire (il n.
86/2013) ormai decaduto per l’inutile decorso del termine di
inizio dei lavori, non essendo intervenuta alcuna proroga
espressa da parte del Comune di Polllica.
Sul punto non vi è contestazione: il Comune di Pollica,
nella «Relazione di chiarimenti» depositata il 04.03.2017,
dichiara che «non ritenne necessario alcun atto formale di
proroga».
In ordine alla necessità di una proroga espressa, il
Collegio rileva che l’art. 15, co. 2, D.P.R. n. 380/2001,
esige un «provvedimento motivato», nel quale devono essere
adeguatamente rappresentati e valutati i «fatti sopravvenuti
estranei alla volontà del titolare del permesso» che abbiano
impedito l’inizio dei lavori; ciò implica una manifestazione
di volontà espressa da parte dell’Amministrazione
competente, che espliciti gli esiti della valutazione di
congruità dei motivi addotti dal richiedente: «la proroga
dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura
giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto
modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti
giuridici delineati dall’atto originario (ex multis,
Consiglio di Stato, sez. V, 18.09.2008, n. 4498).
Nell’ambito della materia edilizia, la differente
qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della
concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione
dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo
della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia
dell’originario titolo concessorio e costituisce, a tutti
gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto
sfornito di propria autonomia che accede all’originaria
concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti
del suo termine finale di efficacia. La proroga è quindi
disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una
valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce
nella verifica delle condizioni oggettive che la
giustificano, tenendo presente che, proprio perché il
risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina
generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano
la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma
e sono di stretta interpretazione» (Cons. di Stato, IV,
sent. n. 1013/2014).
Pertanto -e in disparte la questione della concreta assentibilità della proroga stessa alla luce delle
giustificazioni fornite dalla Ak.Im., in tutto
riconducibili alla stessa società e non a fatti estranei,
come richiesto invece dalla legge- il permesso di costruire
n. 86/2013 doveva (e deve) ritenersi decaduto: «ai sensi
dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001, senza dubbio la
decadenza del permesso di costruire costituisce “effetto
automatico del trascorrere del tempo”.
Ed infatti, l’art. 15 citato prevede, per quel che interessa
nella presente sede:
“1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di
inizio e di ultimazione dei lavori.
2. Il termine per l’inizio dei lavori non può essere
superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di
ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata
non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi
i termini possono essere prorogati, con provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del
titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso
decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che,
anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La
proroga può essere accordata, con provvedimento motivato,
esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da
realizzare o delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere
pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi
finanziari.
3. La realizzazione della parte dell’intervento non ultimata
nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo
permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le
stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante
denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si
procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo
di costruzione (...)”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire (Cons.
Stato, sez. IV, 07.09.2011 n. 5028), l’istituto della
decadenza ha natura dichiarativa e presuppone un atto di
accertamento di un effetto che consegue
ex lege al
presupposto legislativamente indicato.
Tuttavia, l’intervenuta decadenza, realizzatasi per
superamento dei termini previsti per la realizzazione della
costruzione (ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001),
comporta la impossibilità di realizzare la “parte non
eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità
del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora
da eseguire, sempre che le stesse non possano essere
realizzate sulla base di denuncia di inizio attività.
In sostanza, una volta intervenuta la decadenza, chiunque
intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed
autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere,
sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a
verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare
con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità,
sia, se del caso (e come la norma prevede), a provvedere al
“ricalcolo del contributo di costruzione”» (Cons. di Stato, IV, sent. n. 1747/2014; in termini, Cons. di Stato, IV,
sent. n. 1520/2016 e Cons. di Stato, VI, sent. n.
5324/2017).
E ancora: «la pronunzia di decadenza del permesso di
costruire è connotata da un carattere strettamente
vincolato, dovuto all’accertamento del mancato inizio e
completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha
natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso
a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione.
Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente
dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via
diretta, con l’infruttuoso decorso del termine prefissato
con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di
Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4206; id., 07.09.2011, n. 5028)» (Cons. di Stato, IV, sent. n. 1013/2014).
La conseguenza di tale intervenuta decadenza è la
illegittimità derivata del provvedimento in variante
successivamente intervenuto, in quanto adottato
dall’Amministrazione comunale in carenza del titolo
abilitativo presupposto.
Il nuovo provvedimento, infatti, in quanto volto a
introdurre una variante rispetto al precedente permesso, lo
presuppone ancora valido ed efficace, atteso che «rimane in
posizione di sostanziale collegamento con quello originario
ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà
deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in
variante, che giustifica -tra l’altro- le peculiarità del
regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano
sostanziale e procedimentale» (Cass. pen., III, sent. n.
24236/2010).
Nella fattispecie in esame, in esame, invece, il p.a.u. n.
15/2016 interviene quando era già decorso il termine di
efficacia del p.d.c. n. 86/2013, sicché risulta privo dei
presupposti per la sua adozione (TAR Campabia-Salerno, Sez.
I,
sentenza 20.12.2017 n. 1774 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Concorsi
più trasparenti. Annotazioni
dell'esaminatore senza segreti. CORTE DI
GIUSTIZIA UE/ Sì alla rettifica per errore
materiale.
Esami e concorsi più trasparenti grazie alla
privacy. Il candidato può sfruttare il
diritto di accesso ai dati per avere
conoscenza integrale delle sue prove di
esame, delle correzioni e delle annotazioni
dell'esaminatore; il candidato può anche
ottenere la rettificazione delle correzioni
in caso di errore materiale commesso dal
valutatore (anche se ovviamente non si
possono rettificare le risposte sbagliate).
È quanto deciso dalla Corte di giustizia Ue,
con la
sentenza 20.12.2017 causa C-434/16,
in una vicenda irlandese.
Si tratta, nel caso specifico, delle prove
di esame di abilitazione alla professione di
consulente fiscale, che sono state chieste
dal candidato senza successo. Il diniego
dell'organizzazione professionale, che ha
tenuto l'esame, è stato motivato con il
fatto che la prova d'esame non conterrebbe
dati personali e tanto meno sarebbero stati
tali le correzioni apportate dagli
esaminatori.
Il tema, apparentemente astratto, della
qualifica del tema d'esame e cioè se
rappresentino un dato personale, così come
per le correzioni, assume, invece, profili
di concretezza, se si pensa al fatto che
solo avendo integralmente le prove di esame
l'interessato può contestarle davanti a un
giudice e opporsi all'esito in ipotesi non
favorevole o pretendere che le prove non
siano pubblicate.
La sentenza della Corte del Lussemburgo
risolve le questioni di interpretazioni
della direttiva europea sulla privacy n.
95/46 in senso favorevole al candidato.
Secondo la Corte le risposte scritte fornite
dal candidato durante un esame professionale
e le eventuali annotazioni dell'esaminatore
costituiscono informazioni concernenti tale
candidato. Rientrano nel concetto di dato
personale, infatti, tutte le informazioni
concernenti la persona interessata. Le
risposte scritte fornite da un candidato a
un esame professionale, dice la sentenza,
riflettono il livello di conoscenza e di
competenza del candidato in un dato settore
e anche i suoi processi di riflessione, il
suo giudizio e il suo spirito critico; con
queste risposte si valutano le capacità
professionali del candidato e la sua
idoneità a esercitare il mestiere e il
successo o il fallimento del candidato
all'esame può avere un effetto sulla vita
del candidato.
Allo stesso modo le annotazioni
dell'esaminatore relative alle risposte del
candidato riflettono l'opinione o la
valutazione dell'esaminatore sulle
prestazioni individuali del candidato.
La Corte esemplifica le ricadute pratiche
della sua impostazione: il candidato ha
diritto a che le risposte e le annotazioni
siano trattate solo all'interno del
procedimento di esame, e può opporsi alla
trasmissione a terzi, o alla pubblicazione,
senza il suo consenso. Inoltre l'ente che
organizza l'esame, deve garantire che le
risposte e le annotazioni siano conservate
in modo da evitare che terzi vi abbiano
accesso in modo illecito.
C'è poi anche il diritto alla rettifica. Ma
non bisogna esagerare. Il diritto di
rettifica non può, evidentemente, consentire
al candidato di rettificare, a posteriori,
risposte sbagliate. La rettifica ha senso in
altre ipotesi, ad esempio se le annotazioni
sono inesatte, per il fatto che, per errore,
le prove di esame sono state scambiate in
modo tale che le risposte di un altro
candidato siano state attribuite al
candidato interessato.
Infine non può essere escluso che un
candidato abbia il diritto di chiedere che
le sue risposte all'esame e le annotazioni
dell'esaminatore ad esse riferite, trascorso
un certo periodo di tempo, siano cancellate,
vale a dire distrutte.
Non sono dato personale, invece, le domande
poste in sede di esame
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
--------------
MASSIMA
Le risposte scritte
fornite da un candidato durante un esame
professionale e le eventuali annotazioni
dell’esaminatore ad esse relative
costituiscono dati personali del candidato
ai quali egli ha, in linea principio,
diritto di accesso
Riconoscere al candidato un tale diritto è
infatti conforme all’obiettivo della
legislazione dell’Unione di garantire la
tutela della vita privata delle persone
fisiche rispetto al trattamento dei dati che
le riguardano. |
APPALTI: Condanna
omessa, fuori dalla gara. Ex amministratore
di una società di costruzioni.
La mancata segnalazione dell'esistenza di
una condanna, anche non definitiva, dell'ex
amministratore di una società di costruzioni
può portare all'esclusione dalla gara;
legittimo prevedere forme di dissociazione
dell'impresa dal comportamento degli ex
amministratori.
Lo afferma la
sentenza 20.12.02017 - causa C-178/16
della Corte europea in merito a una gara di
appalto che ha visto un'impresa italiana,
capogruppo di una costituenda associazione
temporanea di imprese, risultare esclusa da
una gara d'appalto pubblico indetta nel 2013
per la costruzione e gestione di un carcere.
L'esclusione era stata disposta in ragione
del fatto che, nel corso della procedura,
l'ex amministratore delegato dell'impresa di
costruzioni era stato condannato con
sentenza definitiva per reati finanziari e
fiscali (false fatture) e per associazione a
delinquere. La mancata indicazione di questa
pronuncia in fase di autodichiarazione era
stata considerata come violazione del dovere
di leale collaborazione con la stazione
appaltante (cioè la provincia di Bolzano).
Non solo. Era stato anche ritenuto che
l'impresa non avesse dimostrato la propria
completa ed effettiva dissociazione dalla
condotta criminosa di un soggetto che,
nell'anno antecedente alla pubblicazione del
bando di gara, aveva rivestito proprio
all'interno della società una carica
rilevante.
La mancata dissociazione, nei termini ora
detti, costituisce, secondo una norma del
Codice degli appalti pubblici (163/2006),
una causa di esclusione dalla gara. Attivato
il giudizio di fronte al Tar e poi al
Consiglio di stato, la questione veniva
portata all'attenzione della Corte europea
che ha legittimato il contenuto della
disciplina del codice dei contratti
affermando che il diritto dell'Unione
europea non osta a una normativa nazionale
che dà rilievo al profilo della
dissociazione dell'impresa rispetto ai
comportanti degli amministratori.
La Corte europea osserva che le imprese
agiscono a mezzo dei loro amministratori e
che un comportamento contrario alla morale
professionale di questi ultimi si riverbera
sulla moralità dell'impresa. L'emissione di
false fatture da parte dell'amministratore
di un'impresa può essere considerata quindi
un delitto che incide in senso negativo
sulla moralità dell'impresa.
I giudici chiariscono che l'ente
aggiudicatore può richiedere all'impresa di
manifestare la propria dissociazione dagli
atti illeciti dell'amministratore
dichiarando l'esistenza di una condanna
penale, anche non definitiva, a carico di
costui. Nella pronuncia si sottolinea
inoltre che anche una sentenza non
definitiva a carico dell'amministratore
dell'impresa offerente può fornire all'ente
aggiudicatore un elemento idoneo a valutare
l'ammissione di tale impresa alla gara
d'appalto.
Una tesi che è anche alla base di recenti
linee guida Anac sui gravi illeciti
professionali (n. 6/2017), aggiornate con la
determinazione n. 1008/2017, che consentono
alla stazione appaltante di escludere anche
sulla base di sentenze non definitive che
incidono su profili morali dell'impresa
(articolo ItaliaOggi del 21.12.2017). |
APPALTI: Rinvio
pregiudiziale – Appalti pubblici di lavori –
Direttiva 2004/18/CE – Articolo 45,
paragrafi 2 e 3 – Condizioni di esclusione
dalla partecipazione all’appalto pubblico –
Dichiarazione relativa all’assenza di
sentenze definitive di condanna a carico
degli ex amministratori della società
offerente – Condotta penalmente rilevante di
un ex amministratore – Condanna penale –
Dissociazione completa ed effettiva
dell’impresa offerente rispetto a tale
amministratore – Prova – Valutazione da
parte dell’amministrazione aggiudicatrice
dei requisiti di tale obbligo.
L'Amministrazione può
escludere dalla gara l'impresa che abbia
omesso di dichiarare una condanna non
definitiva a carico di un ex amministratore
per un reato che incide sulla moralità
professionale di tale impresa.
---------------
1 La domanda di pronuncia pregiudiziale
verte sull’interpretazione dell’articolo 45,
paragrafo 2, primo comma, lettere c) e g), e
paragrafo 3, lettera a), della direttiva
2004/18/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 31.03.2004, relativa al
coordinamento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi (GU 2004,
L 134, pag. 114), nonché su determinati
principi generali del diritto dell’Unione.
2 Tale domanda è stata presentata
nell’ambito di una controversia tra, da un
lato, l’Impresa di Costruzioni Ing. E. Ma.
SpA (in prosieguo: la «Ma.») e la Gu.
SpA, la prima delle quali in proprio e in
qualità di capogruppo mandataria della
costituenda associazione temporanea di
imprese con la Gu., e, dall’altro, la
Provincia autonoma di Bolzano (Italia) (in
prosieguo: la «provincia di Bolzano»),
l’Agenzia per i procedimenti e la vigilanza
in materia di contratti pubblici di lavori
servizi e forniture (ACP) e l’Autorità
nazionale anticorruzione (ANAC), in merito
all’esclusione della Mantovani dalla
procedura di gara relativa
all’aggiudicazione di un appalto di lavori
avente ad oggetto il finanziamento, la
progettazione definitiva ed esecutiva, la
costruzione e la gestione della nuova Casa
Circondariale di Bolzano.
...
5 Il decreto legislativo del 12.04.2006, n.
163 - Codice dei contratti pubblici relativi
a lavori, servizi e forniture in attuazione
delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE
(supplemento ordinario alla GURI n. 100, del
02.05.2006), come modificato dal decreto
legge del 13.05.2011, n. 70 (GURI n. 110,
del 13.05.2011, pag. 1), convertito nella
legge del 12.07.2011, n. 106 (GURI n. 160,
del 12.07.2011, pag. 1) (in prosieguo: il «decreto
legislativo n. 163/2006»), disciplina in
Italia, nel loro complesso, le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici nei
settori dei lavori, dei servizi e delle
forniture.
6 Il decreto legislativo n. 163/2006
contiene, nella sua parte II, l’articolo 38,
che stabilisce i requisiti di ordine
generale per la partecipazione alle
procedure di affidamento delle concessioni e
degli appalti di lavori, forniture e
servizi. L’articolo 38, comma 1, lettera c),
di tale decreto così dispone: «Sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure
di affidamento delle concessioni e degli
appalti di lavori, forniture e servizi, né
possono essere affidatari di subappalti, e
non possono stipulare i relativi contratti i
soggetti:
(...)
c) nei cui confronti è stata pronunciata
sentenza di condanna passata in giudicato, o
emesso decreto penale di condanna divenuto
irrevocabile, oppure sentenza di
applicazione della pena su richiesta, ai
sensi dell’articolo 444 del codice di
procedura penale, per reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono
sulla moralità professionale; è comunque
causa di esclusione la condanna, con
sentenza passata in giudicato, per uno o più
reati di partecipazione a un’organizzazione
criminale, corruzione, frode, riciclaggio,
quali definiti dagli atti comunitari citati
all’articolo 45, paragrafo 1, direttiva
[2004/18]; l’esclusione e il divieto operano
se la sentenza o il decreto sono stati
emessi nei confronti: del titolare o del
direttore tecnico se si tratta di impresa
individuale; dei soci o del direttore
tecnico, se si tratta di società in nome
collettivo; dei soci accomandatari o del
direttore tecnico se si tratta di società in
accomandita semplice; degli amministratori
muniti di potere di rappresentanza o del
direttore tecnico o del socio unico persona
fisica, ovvero del socio di maggioranza in
caso di società con meno di quattro soci, se
si tratta di altro tipo di società o
consorzio. In ogni caso l’esclusione e il
divieto operano anche nei confronti dei
soggetti cessati dalla carica nell’anno
antecedente la data di pubblicazione del
bando di gara, qualora l’impresa non
dimostri che vi sia stata completa ed
effettiva dissociazione della condotta
penalmente sanzionata; l’esclusione e il
divieto in ogni caso non operano quando il
reato è stato depenalizzato ovvero quando è
intervenuta la riabilitazione ovvero quando
il reato è stato dichiarato estinto dopo la
condanna ovvero in caso di revoca della
condanna medesima; (...)».
7 Con bando pubblicato nella Gazzetta
ufficiale dell’Unione europea il 27.07.2013
(S 145‑251280), la provincia di Bolzano ha
indetto una procedura di gara d’appalto per
l’attribuzione, con procedura aperta, di un
appalto di lavori avente ad oggetto il
finanziamento, la progettazione definitiva
ed esecutiva, la costruzione e la gestione
della nuova Casa Circondariale di Bolzano.
L’importo stimato dei lavori ammontava a EUR
165 400 000.
8 La Ma. ha presentato una domanda di
partecipazione il 16.12.2013, in proprio e
in qualità di capogruppo mandataria di una
costituenda associazione temporanea di
imprese. Tale società ha prodotto due
dichiarazioni relative al rispetto dei
requisiti generali previsti all’articolo 38
del decreto legislativo n. 163/2006. Il
04.12.2013 essa ha dichiarato che nei
confronti del sig. B., quale presidente del
consiglio di amministrazione, amministratore
delegato e legale rappresentante cessato
dalla carica in data 06.03.2013, non era
stata pronunciata alcuna condanna passata in
giudicato. Il 16.12.2013, la Ma. ha
confermato il contenuto di tale
dichiarazione.
9 Nella seduta di gara del 09.01.2014
l’amministrazione aggiudicatrice ha ammesso
la Ma. con riserva, in attesa di chiarimenti
relativi al sig. B. Un articolo di un
quotidiano locale, pubblicato il 06.12.2013,
rivelava infatti che il sig. B., in seguito
all’accusa di aver promosso un sistema di
fatture false, aveva patteggiato una
condanna a un anno e dieci mesi di
reclusione.
10 Successivamente, l’amministrazione
aggiudicatrice ha acquisito il casellario
giudiziale del sig. B., dal quale risultava
che detta condanna era stata inflitta il
05.12.2013 ed era passata in giudicato il
29.03.2014. Nella seduta di gara del
29.05.2014, l’amministrazione aggiudicatrice
ha invitato la Ma. a fornirle chiarimenti in
merito a tale condanna.
11 La Ma. ha risposto facendo valere, in
particolare, che la condanna del sig. B. era
passata in giudicato successivamente alle
proprie dichiarazioni datate 4 e 16.12.2013,
che la sentenza del 06.12.2013 era stata
pronunciata in camera di consiglio, e non in
udienza pubblica, e che la pubblicazione di
tale sentenza aveva avuto luogo solo il
03.02.2014. La Ma. ha aggiunto che, al fine
di dimostrare la sua effettiva e completa
dissociazione dalla condotta del sig. B.,
quest’ultimo era stato rimosso
immediatamente da tutte le cariche sociali
del gruppo Ma., gli organi di gestione della
società avevano subìto un riassetto interno,
le azioni detenute dal sig. B. erano state
riscattate e nei suoi confronti era stata
avviata un’azione di responsabilità.
12 Dopo aver stilato una graduatoria in cui
la Ma. risultava classificata, con riserva,
al quinto posto, l’amministrazione
aggiudicatrice ha chiesto un parere all’ANAC
in merito alla legittimità di un’eventuale
esclusione della Ma.. L’ANAC ha
sostanzialmente risposto che, sebbene, in
mancanza di una sentenza irrevocabile, le
dichiarazioni della Ma. non potessero essere
qualificate come «falsa dichiarazione»,
tuttavia la mancata tempestiva comunicazione
dello sviluppo delle vicende penalmente
rilevanti riguardanti uno dei soggetti
menzionati all’articolo 38, comma 1, lettera
c), del decreto legislativo n. 163/2006
poteva costituire una violazione del dovere
di leale collaborazione con la stazione
appaltante, impedendo così l’effettiva e
completa dissociazione rispetto al soggetto
interessato.
13 In tali circostanze, l’amministrazione
aggiudicatrice ha deciso, nella seduta del
27.02.2015, di escludere la Ma. dalla gara
d’appalto. Secondo il verbale di tale
seduta, è stato constatato che i requisiti
generali di cui all’articolo 38 del decreto
legislativo n. 163/2006 non erano
soddisfatti «in ragione
dell’insufficiente e tardiva dimostrazione
della dissociazione dalla condotta
penalmente rilevante posta in essere dal
soggetto cessato dalla carica» e che la
condanna «è intervenuta in un momento
antecedente alla dichiarazione resa in gara
e come tale avrebbe potuto essere dichiarata
dalla Ma. in sede di partecipazione».
14 La Ma. ha adito il Tribunale regionale di
giustizia amministrativa, Sezione autonoma
di Bolzano (Italia) di un ricorso contro
tale decisione di esclusione. Con
sentenza 27.08.2015 n. 270 detto
tribunale ha confermato la legittimità
dell’esclusione, considerando che la
sussistenza della condanna del sig. B.
avrebbe potuto essere oggetto di una
dichiarazione nel corso della procedura di
aggiudicazione e che solo un concorrente che
avesse fornito dichiarazioni corrispondenti
alla realtà, senza depistare la stazione
appaltante, poteva rivendicare il beneficio
della dissociazione di cui all’articolo 38,
comma 1, lettera c), del decreto legislativo
n. 163/2006.
15 La Ma. ha impugnato tale sentenza dinanzi
al Consiglio di Stato (Italia) deducendo,
tra gli altri motivi, la contrarietà al
diritto dell’Unione dell’articolo 38 del
decreto legislativo n. 163/2006 e chiedendo
che venisse deferita alla Corte una domanda
di pronuncia pregiudiziale.
16 In tali circostanze, il Consiglio di
Stato (Sez. VI,
ordinanza 21.03.2016 n. 1160) ha
deciso di sospendere il procedimento e di
sottoporre alla Corte la seguente questione
pregiudiziale: «Se osti alla corretta
applicazione dell’art. 45, paragrafi 2,
lettere c) e g), e 3, lett. a) della
Direttiva [2004/18] e dei principi di
diritto europeo di tutela del legittimo
affidamento e di certezza del diritto, di
parità di trattamento, di proporzionalità e
di trasparenza, di divieto di aggravio del
procedimento e di massima apertura alla
concorrenza del mercato degli appalti
pubblici, nonché di tassatività e
determinatezza delle fattispecie
sanzionatorie, una normativa nazionale,
quale quella dell’art. 38, comma 1, lett.
c), [del decreto legislativo n. 163/2006],
nella parte in cui estende il contenuto
dell’ivi previsto obbligo dichiarativo
sull’assenza di sentenze definitive di
condanna (comprese le sentenze di
applicazione della pena su richiesta delle
parti), per i reati ivi indicati, ai
soggetti titolari di cariche nell’ambito
delle imprese concorrenti, cessati dalla
carica nell’anno antecedente la
pubblicazione del bando, e configura una
correlativa causa di esclusione dalla gara,
qualora l’impresa non dimostri che vi sia
stata completa ed effettiva dissociazione
dalla condotta penalmente sanzionata di tali
soggetti, rimettendo alla discrezionalità
della stazione appaltante la valutazione
sull’integrazione della condotta
dissociativa che consente alla stazione
appaltante di introdurre, su un piano
effettuale, a pena di esclusione dalla gara:
i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non
ancora definite con sentenza irrevocabile
(e, quindi, per definizione di esito
incerto), non previsti dalla legge neppure
in ordine ai soggetti in carica;
ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla
tipologia delle condotte scriminanti, al
relativo riferimento temporale (anche
anticipato rispetto al momento di
irrevocabilità della sentenza penale) e alla
fase della procedura in cui devono essere
assolti;
iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non
con richiamo alla clausola generale della
buona fede».
...
55 Tenuto conto dell’insieme delle suesposte
considerazioni, occorre rispondere alla
questione sollevata dichiarando che la
direttiva 2004/18, in particolare l’articolo
45, paragrafo 2, primo comma, lettere c), d)
e g), di tale direttiva, nonché i principi
di parità di trattamento e di
proporzionalità, devono essere interpretati
nel senso che non ostano a una normativa
nazionale che consente all’amministrazione
aggiudicatrice:
– di tener conto, secondo le condizioni da essa stabilite, di una
condanna penale a carico dell’amministratore
di un’impresa offerente, anche se detta
condanna non è ancora definitiva, per un
reato che incide sulla moralità
professionale di tale impresa, qualora il
suddetto amministratore abbia cessato di
esercitare le sue funzioni nell’anno
precedente la pubblicazione del bando di
gara d’appalto pubblico, e
– di escludere tale impresa dalla partecipazione alla procedura di
aggiudicazione di appalto in questione con
la motivazione che, omettendo di dichiarare
detta condanna non ancora definitiva,
l’impresa non si è effettivamente e
completamente dissociata dalla condotta del
suddetto amministratore.
...
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione)
dichiara:
La direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
31.03.2004, relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti
pubblici di lavori, di forniture e di
servizi, in particolare l’articolo 45,
paragrafo 2, primo comma, lettere c), d) e
g), di tale direttiva, nonché i principi di
parità di trattamento e di proporzionalità,
devono essere interpretati nel senso che non
ostano a una normativa nazionale che
consente all’amministrazione aggiudicatrice:
– di tener conto, secondo le condizioni da essa stabilite, di una
condanna penale a carico dell’amministratore
di un’impresa offerente, anche se detta
condanna non è ancora definitiva, per un
reato che incide sulla moralità
professionale di tale impresa, qualora il
suddetto amministratore abbia cessato di
esercitare le sue funzioni nell’anno
precedente la pubblicazione del bando di
gara d’appalto pubblico, e
– di escludere tale impresa dalla partecipazione alla procedura di
aggiudicazione di appalto in questione con
la motivazione che, omettendo di dichiarare
detta condanna non ancora definitiva,
l’impresa non si è effettivamente e
completamente dissociata dalla condotta del
suddetto amministratore
(Corte di Giustizia U.E., Sez. IV,
sentenza 20.12.02017 - causa C-178/16). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Reato di combustione illecite di
rifiuti - Abbruciamento di rifiuti e connesso allarme di
pericolo per la salute pubblica - Principio di precauzione -
Aggravante - Territorio in stato di emergenza nel settore
dei rifiuti - Artt. 256-bis, c. 1, 2, 3 e 4 d.lvo n.
152/2006.
Il reato di combustione illecita di rifiuti di cui all'art.
256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 si configura con
l'appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero
depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesto,
per l'integrazione del reato, la dimostrazione del danno
all'ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità.
Il reato in esame, al pari delle altre fattispecie previste
dall'art. 256 del medesimo decreto, è un reato di pericolo
per la cui integrazione non occorre la dimostrazione di aver
arrecato un danno all'ambiente.
Nella specie, era stato appiccato il fuoco a rifiuti
abbandonati, quali lastre di policarbonato, bottiglie di
vetro, contenitori in alluminio e materiale ferroso, fatto
aggravato dall'essere stato commesso in territorio in cui vi
è stato dichiarato lo stato di emergenza nel settore dei
rifiuti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2017 n. 52610
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Opera edilizia in
zona paesaggistica - Art. 734 codice penale - Presupposti
per la configurabilità - Reato di danno - Effettiva
compromissione delle bellezze protette - Art. 181, c. 1,
d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen., stante la
sua natura di reato di danno, è configurabile in presenza di
un'effettiva compromissione delle bellezze protette, il cui
accertamento è rimesso alla concreta valutazione del giudice
penale, e prescinde sia dallo stato in cui si trovano i
lavori sia dalla valutazione effettuata dalla pubblica
amministrazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56085
- link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di falso
ideologico - Dirigente, proprietario committente, esecutore,
progettista e direttore dei lavori - Discrezionalità tecnica
e valutazione di compatibilità ambientale - Verifica di
conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Pubblico
ufficiale e limiti ai criteri discrezionali di valutazione -
Giurisprudenza.
E' configurabile il reato di falso ideologico nella
valutazione tecnica in un contesto implicante la valutazione
e accettazione di parametri normativamente determinati (Sez.
3, n. 41373 del 17/07/2014, P. M. in proc. Pasteris e altri,
non mass.; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e
altro).
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il
pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di
specie, a previsioni normative che dettano criteri di
valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n.
1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro; Sez.
5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino; Sez. 5, n. 14486 del
21/02/2011, Marini e altro).
Nella specie, il rilascio del permesso a costruire e la
valutazione di compatibilità ambientale espressa
nell'autorizzazione paesaggistica dal dirigente erano
fondate su presupposti urbanistici contrastanti con i
parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento
edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore
di un fondo agricolo su fascia costiera, illegittimo non
essendo i fondi contigui e medesimo indice di
fabbricabilità, parametri che vengono in rilievo sia ai fini
del rispetto degli strumenti urbanistici ce ai fini
ambientali e sul giudizio di valorizzazione del sito. Sia
l'autorizzazione paesaggistica che il permesso a costruire
erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri
contenuti nella relazione tecnica integrativa e
paesaggistica redatta dal progettista e come tale anch'essa
falsa.
In altri termini, la discrezionalità tecnica è vincolata
alla verifica della conformità della situazione fattuale
alle previsioni normative con conseguente integrazione del
reato di falso ideologico se detto giudizio di conformità
non sia rispondente ai parametri normativi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56085
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Normativa
antisismica - Inosservanze formali e
sussistenza del reato - Effettiva
pericolosità della costruzione - Irrilevanza
- Opere edili in senso stretto - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Controllo preventivo della
pubblica amministrazione - Testo Unico
Edilizia - Giurisprudenza.
Le contravvenzioni previste dalla normativa
antisismica puniscono inosservanze formali,
volte a presidiare il controllo preventivo
della pubblica amministrazione sicché
l'effettiva pericolosità della costruzione
realizzata senza l'autorizzazione del genio
civile e senza le prescritte comunicazione è
del tutto irrilevante ai fini della
sussistenza del reato.
In effetti, le norme dettate dagli artt. 93,
94 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 non si
riferiscono ad un qualsiasi manufatto
realizzato in tali zone, ma solo alle opere
edili in senso stretto, ossia alle
costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni
edili, a prescindere dal materiale con cui
vengono realizzate (Sez. 3, n. 28514 del
29/05/2007, dep. 18/07/2007, Libonati).
Costruzione in zona sismica -
Opere in cemento armato - Particolari
componenti costruttive - Struttura metallica
- Reato edilizio di cui all'art. 44 T.U.E -
Artt. 44, 64, 71, 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R.
n. 380/2001.
Con riguardo al reato edilizio di cui
all'art. 44 (per il quale la norma non
richiede particolari componenti
costruttive), l'assunto secondo cui
rientrebbero nella sfera di applicabilità
degli artt. 64 e 65 (capi b) e c)
dell'imputazione) unicamente le opere che
siano al tempo stesso costituite da cemento
armato e struttura metallica, sì che sarebbe
necessaria la coesistenza di entrambi gli
elementi onde configurarsi la sussistenza
dei reati relativi, confligge con
l'interpretazione implicita che la
giurisprudenza ha da sempre dato di dette
fattispecie.
Invero, ove una tale prospettiva fosse
corretta, nessun senso potrebbe avere il
richiamo del legislatore alle opere in
struttura metallica posto che una tale
componente è già necessariamente presente in
quelle a cemento armato, essendo dunque
evidente che la disposizione è diretta a
regolare anche, singolarmente, le opere che,
non composte di cemento armato, possiedano
una struttura metallica; del resto, anche
sotto il profilo della ratio della
disposizione, la sufficienza anche della
sola struttura metallica si spiega in
ragione della potenziale pericolosità di
essa derivante dal materiale impiegato e
della conseguente necessità che anche in tal
caso le particolari precauzioni da adottare
in fase di costruzione in zona sismica
vengano adottate (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56067 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Digestato e
onere probatorio - Regime dei sotto-prodotti - Esenzione
dall'applicazione della legge penale - Esclusione dalla
disciplina dei rifiuti - Onere probatorio gravante
sull'imputato - Fattispecie: sottoprodotto destinato all'uso
agronomico - Art. 52 d.l. 134/2012 - Artt. 183, 184-bis, 185
e 256 d.Lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, l'applicazione della
disciplina sulle terre e rocce da scavo, nella parte in cui
sottopone i materiali da essa indicati al regime dei
sotto-prodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata
alla prova positiva, gravante sull'imputato, della
sussistenza delle condizioni previste per la sua
operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria.
Anche, nel caso del digestato l'ipotesi di esenzione
dall'applicazione della legge penale in quanto sottoprodotto
destinato all'uso agronomico, spetta all'imputato,
trattandosi di un'ipotesi di esclusione da responsabilità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.12.2017 n. 56066
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
a) per consolidata giurisprudenza "l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di
demolizione postula la stesura di un verbale di verifica
dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che
ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle
successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia
meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla
Polizia municipale, alla quale non è attribuita la
competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva,
all'uopo occorrendo che la competente autorità
amministrativa faccia proprio l'esito delle predette
operazioni attraverso un formale atto di accertamento.
In
quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva,
avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad
ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile
soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31,
comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità
amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi
effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo
ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile
al proprio patrimonio. Ne consegue l'autonoma
inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo
annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la
sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal
ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile
attinto dai contestati interventi edilizi abusivi.“;
b) in particolare, si è affermato che la portata della
superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi
dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.
Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso
del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito
dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a
demolire un manufatto abusivo.
Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di
constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto
dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà
provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il
mero verbale di accertamento redatto dai vigili,
inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore
endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, dal
ricorso, questo sia ammissibile, avverso il formale atto di
accertamento adottato dalla competente autorità
amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n.
380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero
verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce,
previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in
possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.”;
c) è stato inoltre precisato coondivisibilmente, sempre nella
medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe
discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di
inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale,
incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze
in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in
questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal
Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso
all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di
funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in
precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di
demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza).
---------------
2.1. Ritiene il Collegio che l’appello sia, sul punto, fondato, e
che la statuizione di improcedibilità vada rimossa, in
quanto:
a) per consolidata giurisprudenza (tra le tante, si veda
Tar Napoli-Campania, sez. VIII, 11/10/2011, n. 4645 ”l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di
demolizione postula la stesura di un verbale di verifica
dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che
ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle
successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia
meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla
Polizia municipale, alla quale non è attribuita la
competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva,
all'uopo occorrendo che la competente autorità
amministrativa faccia proprio l'esito delle predette
operazioni attraverso un formale atto di accertamento. In
quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva,
avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad
ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile
soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31,
comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità
amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi
effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo
ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile
al proprio patrimonio. Ne consegue l'autonoma
inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo
annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la
sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal
ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile
attinto dai contestati interventi edilizi abusivi.“;
b) in particolare, si è affermato che la portata della
superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi
dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.
Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso
del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito
dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a
demolire un manufatto abusivo.
Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di
constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere
endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto
dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà
provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il
mero verbale di accertamento redatto dai vigili,
inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore
endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, dal
ricorso, questo sia ammissibile, avverso il formale atto di
accertamento adottato dalla competente autorità
amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n.
380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero
verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce,
previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in
possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II..” (TAR
Napoli-Campania, sez. VIII, 19/05/2015, n. 2763);
c) è stato inoltre precisato coondivisibilmente, sempre nella
medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe
discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di
inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale,
incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze
in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in
questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal
Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso
all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di
funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in
precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di
demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza);
d) nel caso di specie, tale eventualità in ultimo mentovata
non si era verificata, per cui il verbale di accertamento di
inottemperanza all’ordinanza di demolizione non possedeva
quell’efficacia traslativa/acquisitiva da cui il Tar ha
fatto discendere la statuizione di improcedibilità;
e) si osserva peraltro che era pendente un ricorso proposto
dalla odierna parte appellante avverso l’ordinanza di
demolizione n. 4/2016, per cui viepiù la statuizione di
improcedibilità va riformata in quanto oggettivamente
inesatta, e ciò a prescindere da tutte le problematiche
dedotte dalla parte appellante in ordine alla esattezza –o
meno– della notifica della predetta ordinanza;
f) e si osserva altresì che non è contestato che alla data
in cui la causa fu assunta in decisione in primo grado
(21.02.2017) ed alla data in cui fu pubblicata la sentenza
impugnata (24.02.2017) non risultava alcuna acquisizione al
patrimonio del Comune di Nola del fondo in contestazione
posto che la interveniente società Policastro Leopoldo &
figli s.r.l. aveva depositato una visura ipotecaria datata 02.02.2017 dalla quale non risultava alcuna trascrizione
in tale senso (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2017 n. 5914 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Per costante giurisprudenza la responsabilità ex
art. 192 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 non è oggettiva, ma
dolosa o colposa.
Quanto, appunto, alla responsabilità del proprietario, è
stato acutamente rilevato in passato che l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di
ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa
la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio
obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata
recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile,
atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di
ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque
costituire di per sé prova della colpevolezza del
proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non
un obbligo.
---------------
... per la riforma della
sentenza
19.12.2017 n. 2506 del TAR per la CALABRIA –
Sede di CATANZARO- SEZ. I.
...
1. Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 2506 del 19.12.2016 il Tribunale amministrativo regionale per la
Calabria – Sede di Catanzaro - ha respinto il ricorso
proposto dalla parte odierna appellante Regione Calabria
teso ad ottenere l’annullamento della ordinanza del Sindaco
del Comune di Simeri Crichi del 19.02.2016, n. 7
impositiva dell’obbligo di rimuovere i rifiuti rifiuti
abbandonati nell’alveo del fiume Alli, in corrispondenza del
ponte sulla strada provinciale n. 13, lungo la stradina in
sterrato parallela al fiume, nonché al ripristino dello
stato dei luoghi.
...
2 Venendo al merito delle censure proposte, si osserva che:
a) la censura infraprocedimentale è infondata: la convocazione del
comune dava atto di quale fosse la problematica da
risolvere,e le statuizioni consequenziali adottate
discendono da norme di legge: la Regione non può invocare la
violazione di alcuna garanzia di rispetto del
contraddittorio, e d’altro canto non può neppure invocare
che la “convocazione” sia stata indirizzata ad un “ramo”
dell’amministrazione regionale non direttamente competente (a tutto concedere, era onere dell’ufficio intimato inoltrare
la comunicazione al Dipartimento regionale competente); il contradidttorio si è dipanato sugli aspetti essenziali, e la
regione appellante non può sindacare che esso non sia stato
esteso a tematiche (effettiva titolarità dell’area) sì
rilevanti, ma evincibili in via amministrativa attraverso la
consultazione dei registri catastali: tutt’altro
aspetto,ovviamente,concerne la legittimità –o meno- del
provvedimento adottato dal comune, (il che integra il punto
centrale della disamina del merito) ma sotto il profilo
procedurale, l’azione amministrativa è immune da vizi, tanto più laddove si consideri che la circostanza che i
rifiuti abbandonati non fossero pericolosi non vale ad
escludere che non ricorresse una situazione connotata
dall’urgenza del provvedere, il che rende legittima
l’omissione dell’avviso partecipativo ex art. 7 della legge
n. 241/1990;
b) invece, proprio venendo alle censure di merito che più
radicalmente contestano la legittimità del provvedimento
adottato dal comune, rileva il Collegio che:
I) è incontestato che l’area per il cui tramite
si è verificato il deposito incontrollato da rifiuti non
sarebbe di pertinenza del comune;
II) va rammentato infatti che il presupposto
della individuazione della Regione quale soggetto
destinatario dell’ordinanza riposerebbe nella circostanza
fattuale secondo cui i rifiuti si trovavano lungo una
stradina sterrata che si trovava all’interno dell’alveo del
fiume Alli, cui correva parallela e l’area rientrava
nell’ambito del demanio fluviale, la cui gestione spettava
alla Regione Calabria che, avendo compiti di gestione del
demanio fluviale, aveva la giuridica disponibilità
dell’area;
c) appare corretto rilevare però che:
I) non è contestato che la regione intimata non
sia stata diretta responsabile dell’abbandono incontrollato
di rifiuti;
II) ad essa si imputa una omissione di controllo
sull’abbandono posto in essere da terzi;
III) per costante giurisprudenza la
responsabilità ex art. 192 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 non
è oggettiva, ma dolosa o colposa;
IV) quanto appunto alla responsabilità del
proprietario, è stato acutamente rilevato in passato che
(tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015,
n. 4504, TAR Bari-Puglia, sez. I, 24.03.2017, n. 287) “l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di
ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa
la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato
possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio
obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata
recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile,
atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di
ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque
costituire di per sé prova della colpevolezza del
proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non
un obbligo“.
V) nel caso di specie, l’atto è carente di
qualsivoglia elemento dimostrativo dell’elemento soggettivo
e pertanto l’ordinanza impugnata è illegittima in quanto
carente del momento valutativo della responsabilità
dell’appellante Regione, mentre avrebbe dovuto
necessariamente indicare i comportamenti quanto meno colposi
della Regione Calabria causalmente collegati all’evento
dannoso;
VI) sotto il profilo fattuale, non è poi
trascurabile che l’esistenza di una stradina sterrata che
permette l’accesso incontrollato di chiunque nell’alveo del
fiume Alli, utilizzata per il deposito dei rifiuti in
argomento, ha consentito il formarsi della discarica
abusiva: laddove si consideri che la stradina seppure non di
pertinenza dell’amministrazione comunale, ricadeva nel
territorio comunale e che nessuno ha dedotto che questa
fosse controllata, appare non in linea con il concetto di
responsabilità “colposa” che la responsabilità venga fatta
ricadere sul proprietario del sito “finale” di ricezione dei
rifiuti: e comunque, si osserva, che ricadendo la stradella
nel territorio comunale,ed essendo la stessa aperta al
transito (non è stato dedotto né provato il contrario) non
si vede in forza di quale disposizione o principio il comune
si spinga ad affermare che esso fosse esonerato da qualsiasi
obbligo di vigilanza sulla stessa (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 15.12.2017 n. 5911 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
a) la qualificazione giuridica dell’assetto urbanistico di
un‘area va desunta dalle caratteristiche proprie della
medesima: il Giudice non è pertanto vincolato dalle
affermazioni sul punto dell’Amministrazione;
b) per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa la destinazione ad
attrezzature scolastiche ha natura conformativa e non
espropriativa: anche in passato la Corte di Cassazione
nell'affermare il carattere non edificabile della
destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa
ha "l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo,
come destinazione ad un servizio che trascende le necessità
di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella
complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della
ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti".
Di converso, la giurisprudenza amministrativa ha
osservato che “la destinazione a zone per l'istruzione
dell'obbligo, impressa all'area della parte originaria
ricorrente, non comportava, quindi, l'imposizione di un
vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente
alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per
definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna
delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale,
ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico
generale”;
c) la recente giurisprudenza amministrativa di primo grado
concorda con tale opinamento: “il vincolo di destinazione
urbanistica "zona attrezzature di interesse pubblico (S12)"
(attrezzature scolastiche) impresso ad un'area dal piano
regolatore generale non ha natura sostanzialmente
espropriativa (tale da comportarne la decadenza
quinquennale), bensì costituisce un vincolo conformativo con
validità a tempo indeterminato e senza obbligo di
indennizzo, in quanto le attrezzature scolastiche sono
realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in
regime di economia di mercato e non dalla sola mano
pubblica.”.
---------------
1. L’appello è fondato e va accolto, con conseguente riforma
dell’impugnata decisione e reiezione del ricorso di primo
grado, con salvezza degli atti impugnati.
2. La tesi di parte appellata –accolta dal Tar- è quella
per cui il vincolo imposto in passato sull’area avesse
carattere espropriativo; tale tesi sarebbe confortata dalla
circostanza che la stessa amministrazione comunale odierna
appellante tale l’avrebbe considerato in passato.
3. Osserva in contrario senso il Collegio che:
a) la qualificazione giuridica dell’assetto urbanistico di
un‘area va desunta dalle caratteristiche proprie della
medesima: il Giudice non è pertanto vincolato dalle
affermazioni sul punto dell’Amministrazione;
b) per la costante giurisprudenza civile (Cassazione civile
sez. I 17.05.2016 n. 10085) ed amministrativa (Consiglio
di Stato, sez. IV, 04.06.2014 n. 2855) dalla quale il
Collegio non ha intenzione di discostarsi la destinazione ad
attrezzature scolastiche ha natura conformativa e non
espropriativa: anche in passato la Corte di Cassazione
nell'affermare il carattere non edificabile della
destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa
ha "l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo,
come destinazione ad un servizio che trascende le necessità
di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella
complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della
ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti"
(cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 26.05.2010, n.
12862); di converso, la giurisprudenza amministrativa ha
osservato che “la destinazione a zone per l'istruzione
dell'obbligo, impressa all'area della parte originaria
ricorrente, non comportava, quindi, l'imposizione di un
vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente
alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per
definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna
delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale,
ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico
generale” (cfr. Consiglio di Stato., IV, 19.02.2007,
n. 870).
c) la recente giurisprudenza amministrativa di primo grado
concorda con tale opinamento (TAR Napoli, sez. II, 19.07.2016, n. 3623): “il vincolo di destinazione
urbanistica "zona attrezzature di interesse pubblico (S12)"
(attrezzature scolastiche) impresso ad un'area dal piano
regolatore generale non ha natura sostanzialmente
espropriativa (tale da comportarne la decadenza
quinquennale), bensì costituisce un vincolo conformativo con
validità a tempo indeterminato e senza obbligo di
indennizzo, in quanto le attrezzature scolastiche sono
realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in
regime di economia di mercato e non dalla sola mano
pubblica.”.
4. E’ pertanto non condivisibile la premessa maggiore
(avvenuta decadenza di un vincolo preordinato all’esproprio)
sulla quale il Tar con la sentenza impugnata ha fondato
l’obbligo di ritipizzazione.
5. Ciò sarebbe già sufficiente, in termini assorbenti, per
accogliere l’appello.
5.1. Si osserva per completezza che, comunque, l’attuale
inclusione dell’area nel c.d. “Siad” non riverbera
particolari effetti negativi per la parte titolare del
fondo, né potrebbe fondare una domanda di ritipizzazione del
medesimo in quanto, in quanto per condivisa giurisprudenza
di primo grado
(TAR Napoli-Campania, sez. VIII, 08.11.2016, n. 5149)
si ricava che “dall'esame della normativa nazionale e
regionale emerge la chiara volontà del legislatore di
assegnare al S.I.A.D. una funzione esaustiva di ogni
esigenza di carattere sia commerciale sia urbanistico nel
settore della media e grande distribuzione di vendita. Il
legislatore, quindi, non ha inteso duplicare la
programmazione dell'utilizzazione del territorio, separando
in distinti atti la programmazione urbanistica e la
programmazione commerciale. In secondo luogo, l'atto di
individuazione delle aree da destinare agli insediamenti
commerciali costituisce "strumento urbanistico" ed è in tale
strumento che devono essere sia individuate le predette aree
sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie.”.
6. Conclusivamente, l’appello deve essere accolto e per
l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza deve essere
integralmente respinto il ricorso di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.12.2017 n. 5909 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il conferimento di incarichi a soggetti estranei
all’amministrazione è consentito solo nei casi previsti per
legge o in relazione a eventi straordinari, cui non si possa
far fronte con la struttura burocratica esistente.
Nel giudizio di responsabilità
amministrativa, al
giudice contabile è posto il divieto di sindacare nel merito
le scelte
discrezionali dell'amministrazione. Pertanto, l'organo
giurisdizionale
non può sostituirsi all'amministrazione nel compiere scelte
d'opportunità, trasformandosi da "operatore di giustizia" ad
"amministratore". Tuttavia, tale disposizione non può essere
interpretata nel senso che l'azione discrezionale
dell'amministrazione
non sia sottoposta al vaglio di alcun parametro normativo,
sicché la
stessa si trasformi in espressione di puro "arbitrio".
---------------
Affinché l'azione dell'amministrazione sia legittima è
necessario che la
stessa non si ponga in contrasto con la normativa di
riferimento
rappresentata dall'art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001,
dall'art.
1, lett. h), della L.R. n. 48/1991, dall'art. 110, comma 6,
del D.Lgs. n.
267/2000, nonché dall'art. 14 della L.R. n. 7/1992, da cui
si ricava il
consolidato principio secondo il quale il conferimento di
incarichi a
soggetti estranei all'amministrazione è consentito solo nei
casi
previsti dalla legge o in relazione ad eventi straordinari,
ai quali non
si possa far fronte con la struttura burocratica esistente.
Parimenti, l'azione amministrativa non può non conformarsi
ai canoni
di razionalità, economicità, efficienza ed efficacia,
diretto corollario
del principio di rango costituzionale del "buon andamento"
sancito
dall'art. 97, comma 2, Cost..
Secondo costante orientamento di questa Corte, difatti,
"sulla
configurazione di spazi discrezionali -e quindi di aree di
insindacabilità-, svolgono un essenziale effetto
conformatore i
principi di economicità e di efficacia, contenuti nella L. 07.08.1990,
n. 241, art. 1, quali, anche per l'attività regolata dal
diritto pubblico, costituiscono un'ulteriore limite alla
libertà di valutazione conferita
alla p.a.. Tali criteri non esprimono un mero ed enfatico
richiamo ai
principi di legalità e di buona amministrazione contenuti
nell'art. 97
Cost. Si tratta, infatti, non di un vincolo ad un generale
dovere (quale
quello del perseguimento del pubblico interesse affidato al
singolo
organo amministrativo), la cui concreta applicazione dà
luogo non ad
esercizio di discrezionalità amministrativa, ma a vere e
proprie regole
giuridiche, la cui inosservanza può dar luogo alla misura -correttiva
o repressiva- che il giudice deve applicare ad esito della
sua verifica.
Tali principi, quindi, costituiscono una regola di
legittimità dell'azione
amministrativa, la cui osservanza può essere oggetto di
sindacato
giurisdizionale, nel senso che lo stesso comporta il
controllo della loro
concreta applicazione, essendo lo stesso estraneo alla sfera
propriamente discrezionale".
Siffatti fondamentali canoni conformatori assumono, dunque,
rilevanza sul piano della legittimità e non della mera
opportunità
dell'azione amministrativa.
---------------
FATTO
Con sentenza n. 2776/2013 la Sezione Giurisdizionale della
Corte dei
Conti per la Regione Sicilia, accogliendo la domanda
giudiziale che era
stata proposta dalla Procura regionale della medesima Corte,
ha
condannato Ci.Ca., ex sindaco del Comune di Campobello
di
Marzara, al pagamento al predetto Ente locale della somma di
euro
304.481,77, a titolo di risarcimento dei danni derivanti
dagli illegittimi
conferimenti di numerosi incarichi a soggetti estranei
all'Amministrazione comunale.
Avverso il provvedimento suddetto Ci.Ca. ha interposto
gravame dinanzi alla Sezione Giurisdizionale d'Appello della
stessa
Corte, deducendo, in particolare, il difetto di
giurisdizione del giudice
contabile che avrebbe con il suo sindacato, in base alla
tesi
propugnata dall'appellante, invaso la sfera del "merito"
riservata
all'amministrazione con conseguente superamento dei limiti
esterni
della giurisdizione.
Il giudice contabile di seconde cure, rigettando l'eccezione
preliminare
predetta, ha parzialmente riformato il dictum del giudice di
primo
grado confermando la sussistenza della responsabilità
amministrativa
patrimoniale di Ci.Ca. ma rideterminando la somma
dovuta a
titolo di risarcimento del danno a euro 287.438,07, per via
della
decurtazione delle spese dovute per alcuni degli incarichi
esterni
conferiti ritenuti legittimi.
Cir.Ca. ha presentato ricorso per cassazione contro la
sentenza
predetta ex art. 362 c.p.c., riproponendo la questione di
giurisdizione
già formulata nel precedente grado di giudizio.
La Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale
d'Appello della
Corte dei Conti, ha proposto controricorso.
Ragioni della decisione
1. un unico motivo di ricorso Ci.Ci. denuncia la
"violazione
dell'art. 1, co. 1, della I. 20/1994 - violazione dei limiti
esterni alla
giurisdizione contabile e della riserva di amministrazione -
art. 360,
co. 1, n. 1 c.p.c.".
In particolare, seconda la tesi propugnata dal ricorrente,
la sezione
Giurisdizionale della Corte dei Conti avrebbe invaso con il
proprio
sindacato la sfera del merito riservata all'Amministrazione,
"celando
con rilievi di violazione di canoni di buona amministrazione
astratti e
indeterminati" un giudizio d'opportunità formulato
ex
post.
2. La censura è infondata: ai sensi della art. 1, comma 1,
della L. n.
20/1994 (Disposizioni in materia di giurisdizione e
controllo della
Corte dei Conti), nel giudizio di responsabilità
amministrativa, al
giudice contabile è posto il divieto di sindacare nel merito
le scelte
discrezionali dell'amministrazione. Pertanto, l'organo
giurisdizionale
non può sostituirsi all'amministrazione nel compiere scelte
d'opportunità, trasformandosi da "operatore di giustizia" ad
"amministratore". Tuttavia, tale disposizione non può essere
interpretata nel senso che l'azione discrezionale
dell'amministrazione
non sia sottoposta al vaglio di alcun parametro normativo,
sicché la
stessa si trasformi in espressione di puro "arbitrio".
Affinché l'azione dell'amministrazione sia legittima è
necessario che la
stessa non si ponga in contrasto con la normativa di
riferimento
rappresentata dall'art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001,
dall'art.
1, lett. h), della L.R. n. 48/1991, dall'art. 110, comma 6,
del D.Lgs. n.
267/2000, nonché dall'art. 14 della L.R. n. 7/1992, da cui
si ricava il
consolidato principio secondo il quale il conferimento di
incarichi a
soggetti estranei all'amministrazione è consentito solo nei
casi
previsti dalla legge o in relazione ad eventi straordinari,
ai quali non
si possa far fronte con la struttura burocratica esistente
(ex multis
Cass., Sez. Un., n. 10069/2011; Cass., Sez. Un., n.
5288/2009).
Parimenti, l'azione amministrativa non può non conformarsi
ai canoni
di razionalità, economicità, efficienza ed efficacia,
diretto corollario
del principio di rango costituzionale del "buon andamento"
sancito
dall'art. 97, comma 2, Cost..
Secondo costante orientamento di questa Corte, difatti,
"sulla
configurazione di spazi discrezionali -e quindi di aree di
insindacabilità-, svolgono un essenziale effetto
conformatore i
principi di economicità e di efficacia, contenuti nella L. 07.08.1990,
n. 241, art. 1, quali, anche per l'attività regolata dal
diritto pubblico, costituiscono un'ulteriore limite alla
libertà di valutazione conferita
alla p.a.. Tali criteri non esprimono un mero ed enfatico
richiamo ai
principi di legalità e di buona amministrazione contenuti
nell'art. 97
Cost. Si tratta, infatti, non di un vincolo ad un generale
dovere (quale
quello del perseguimento del pubblico interesse affidato al
singolo
organo amministrativo), la cui concreta applicazione dà
luogo non ad
esercizio di discrezionalità amministrativa, ma a vere e
proprie regole
giuridiche, la cui inosservanza può dar luogo alla misura -correttiva
o repressiva- che il giudice deve applicare ad esito della
sua verifica.
Tali principi, quindi, costituiscono una regola di
legittimità dell'azione
amministrativa, la cui osservanza può essere oggetto di
sindacato
giurisdizionale, nel senso che lo stesso comporta il
controllo della loro
concreta applicazione, essendo lo stesso estraneo alla sfera
propriamente discrezionale" (così Cass., Sez. Un., n.
7024/2006).
Siffatti fondamentali canoni conformatori assumono, dunque,
rilevanza sul piano della legittimità e non della mera
opportunità
dell'azione amministrativa (ex plurimis Cass., Sez. Un., n.
10814/2016; Cass., Sez. Un., n. 21217/2015; Cass., Sez. Un.,
n.
25037/2013; Cass., Sez. Un., n. 10069/2011; Cass., Sez. Un.,
n.
14488/2003).
Alla luce delle considerazioni suesposte appare, pertanto,
conforme al
dettato normativo il sindacato del giudice contabile il
quale non ha
compiuto una scelta d'opportunità tra diverse soluzioni
possibili, ma
ha giudicato della legittimità dei provvedimenti di
conferimento di
incarichi esterni secondo il paramento normativo
rappresentato dalle
disposizioni vigenti in materia e dai principi di rango
costituzionale
conformatori dell'attività amministrativa.
Il principio di insindacabilità nel merito delle scelte
discrezionali non
preclude al giudice contabile di esaminare l'operato della
pubblica
amministrazione con riferimento ai parametri dell'efficacia,
dell'efficienza e della economicità, dovendosi escludere che
il giudice
contabile abbia travalicato i limiti esterni della sua
giurisdizione (Corte di cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 13.12.2017 n. 29920). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia la compatibilità comunitaria
dell’esclusione automatica dalla gara per pregressa
risoluzione del contratto.
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Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara –
Risoluzione precedente contratto per carenze in pregressa
esecuzione – Valutazione affidabilità concorrente -
Preclusione – Art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Contrasto principi comunitari – Rimessione Corte di
giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia la questione se i principi comunitari di tutela
del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di cui
al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed
i principi che ne derivano, come la parità di trattamento,
la non discriminazione, la proporzionalità e la effettività,
di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché la disposizione
di cui all’art. 57, comma 4, lett. c) e g), di detta
Direttiva, ostino all’applicazione di una normativa
nazionale, quale quella italiana derivante dall’art. 80,
comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo la
quale la contestazione in giudizio di significative carenze
evidenziate nell’esecuzione di un pregresso appalto, che
hanno condotto alla risoluzione anticipata di un precedente
contratto di appalto, preclude ogni valutazione alla
stazione appaltante circa l’affidabilità del concorrente,
sino alla definitiva statuizione del giudizio civile, e
senza che la ditta abbia dimostrato la adozione delle misure
di self cleaning volte a porre rimedio alle violazioni e ad
evitare la loro reiterazione (1).
---------------
(1) Ad avviso del Tar la sopravvenuta normativa nazionale,
vincolando la Stazione appaltante, con preclusione di ogni
valutazione sull’affidabilità del concorrente, per effetto
della mera contestazione in un giudizio civile della
risoluzione contrattuale, non si presenta consonante con i
principi dell’Unione. Essa lega inscindibilmente il giudizio
interno e quello esterno, impedendo alla stazione appaltante
ogni motivata valutazione sulla gravità dell’errore
professionale che ha dato luogo alla pregressa risoluzione
contrattuale, in violazione dei principio di proporzionalità
ed effettività, e realizza una non corretta trasposizione
della direttiva 2014/24/UE in parte qua.
In particolare, utilizzando nella trasposizione della
direttiva la tecnica del ritaglio, ha costruito la
significativa carenza nell’esecuzione di un precedente
contratto di appalto come ipotesi esemplificativa del grave
illecito professionale (per il quale la direttiva peraltro
prevede la possibilità di accertamento “con mezzi
adeguati”), ma ne ha sterilizzato la portata
applicativa, dal momento che disinnesca l’idoneità della
stessa a fondare motivo di esclusione, con una sostanziale
disapplicazione in parte qua delle previsioni della
direttiva.
Né, ad avviso del Tar, vale obiettare che si tratta di
ipotesi di esclusione facoltativa dalla gara, dal momento
che ciò può rilevare solo nel momento in cui il legislatore
nazionale decide se prevedere o meno una determinata causa
di esclusione facoltativa; laddove invece, come nel caso in
esame, la ipotesi sia stata prevista, il legislatore
nazionale rimane vincolato al raggiungimento degli obiettivi
indicati dalla direttiva, dovendo dotare l’ipotesi stessa
della effettività di applicazione. Pertanto la stessa, una
volta recepita, deve poter operare effettivamente.
Il Tar ritiene pertanto dubbia la conformità al diritto
dell’Unione di siffatta disciplina, sotto vari profili.
Le disposizioni sovranazionali prevedono quale causa di
esclusione da procedure di affidamento la commissione di «gravi
illeciti professionali» che siano stati dimostrati «con
mezzi adeguati» dall’amministrazione aggiudicatrice
(lett. c), o la diversa ipotesi così descritta: «…se
l’operatore economico ha evidenziato significative o
persistenti carenze nell’esecuzione di un requisito
sostanziale nel quadro di un precedente contratto» che
hanno causato «la cessazione anticipata di tale contratto
precedente, un risarcimento danni o altre sanzioni
comparabili» (lett. g), senza mai richiedere «alcun
accertamento definitivo della responsabilità
dell’appaltatore».
Si pone, in definitiva, la questione se, nella materia degli
appalti pubblici, sia conforme ai richiamati principi
euro-unitari la preclusione imperativa di ogni possibilità
di valutazione autonoma e proporzionale della Stazione
appaltante circa l’esclusione da una gara di un concorrente
che sterilizzi le significative carenze evidenziate
nell’esecuzione di precedenti contratti attraverso la mera
proposizione di impugnativa della risoluzione contrattuale,
e sino alla definizione di quel giudizio, con l’effetto di
determinare, nell’ipotesi in cui il giudizio civile si
concluda negativamente per l’operatore economico, ma la gara
si sia svolta in senso a lui favorevole, la lesione del
principio comunitario di affidabilità del concorrente, in
quanto l’appalto sarebbe eseguito da un operatore economico
indiscutibilmente non affidabile (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
ordinanza 13.12.2017 n. 5893 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In via generale, in materia edilizia tutti gli
elementi strutturali concorrono al computo della volumetria
del manufatto, siano essi interrati o meno.
Inoltre, in assenza di una nozione giuridica di costruzione
che, per la materia urbanistica, intenda espressamente far
riferimento esclusivo alle sole opere realizzate sopra il
livello stradale o il piano di campagna, contenuta in
disposizioni di rango primario o secondario, ovvero nelle
norme tecniche di attuazione degli strumenti regolatori,
tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno.
In materia edilizia, i vani interrati sono, infatti,
computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria
dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un
aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla
stabile permanenza dell'uomo o lo strumento urbanistico non
lo escluda espressamente.
Il Collegio condivide, quindi, il principio che, in via di
principio, ai fini del calcolo della volumetria lorda rileva
anche la volumetria interrata. Il suddetto principio,
tuttavia, non è assoluto e opera salvo l’assenza di
specifiche diverse diposizioni previste dalla normativa o
dallo strumento urbanistico.
---------------
Al riguardo il Collegio rileva come, in via generale, in
materia edilizia tutti gli elementi strutturali concorrono
al computo della volumetria del manufatto, siano essi
interrati o meno (TAR Campania Napoli Sez. VII, 07.01.2014,
n. 1; TAR Puglia Bari Sez. III, 26.01.2012, n. 245).
Inoltre, in assenza di una nozione giuridica di costruzione
che, per la materia urbanistica, intenda espressamente far
riferimento esclusivo alle sole opere realizzate sopra il
livello stradale o il piano di campagna, contenuta in
disposizioni di rango primario o secondario, ovvero nelle
norme tecniche di attuazione degli strumenti regolatori,
tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della
volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno (TAR
Lazio Latina Sez. I, 05.02.2016, n. 71).
In materia edilizia, i vani interrati sono, infatti,
computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria
dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un
aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla
stabile permanenza dell'uomo o lo strumento urbanistico non
lo escluda espressamente (TAR Puglia Lecce Sez. I,
09.09.2011, n. 1586).
Il Collegio condivide, quindi, il principio che, in via di
principio, ai fini del calcolo della volumetria lorda rileva
anche la volumetria interrata. Il suddetto principio,
tuttavia, non è assoluto e opera salvo l’assenza di
specifiche diverse diposizioni previste dalla normativa o
dallo strumento urbanistico
(TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 13.12.2017 n. 5885 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Conseguenza sul termine per l’impugnazione della mancata
pubblicazione degli atti di esclusione e di ammissione nel
sito della Stazione appaltante.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione ed
esclusioni – Impugnazione – Dies a quo – Art. 120, comma
2-bis, c.p.a. – Omessa pubblicazione dell’atto sulla
piattaforma telematica della stazione appaltante -
Individuazione.
Sebbene il comma 2-bis dell’art. 120
c.p.a., inserito dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs.
18.04.2016, n. 50, nella disciplina del c.d. rito
super-speciale previsto per l’impugnazione degli atti di
esclusione e di ammissione (d)alle procedure di affidamento
di pubblici lavori, servizi e forniture, faccia riferimento,
ai fini della decorrenza dell’ivi previsto termine
d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla
pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione
sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi
dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, ciò non
implica l’inapplicabilità del generale principio sancito
dall’art. 41, comma 2, c.p.a. e riaffermato nel comma 5,
ultima parte, dell’art. 120 c.p.a., per cui, in difetto
della formale comunicazione dell’atto –o, per quanto qui
interessa, in difetto di pubblicazione dell’atto di
ammissione sulla piattaforma telematica della stazione
appaltante–, il termine decorre dal momento dell’avvenuta
conoscenza dell’atto stesso, purché siano percepibili i
profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera
giuridica dell’interessato in rapporto al tipo di rimedio
apprestato dall’ordinamento processuale (1).
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(1) Ad avviso della Sezione che in difetto di un’espressa e univoca
correlativa espressa previsione legislativa a valenza
derogatoria e in assenza di un rapporto di incompatibilità,
deve escludersi che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a.
abbia apportato una deroga all’art. 41, comma 2, c.p.a. e al
principio generale della decorrenza del termine di
impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto.
La piena conoscenza dell’atto di ammissione della
controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua
pubblicazione sul profilo telematico della stazione
appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e
determina la decorrenza del termine decadenziale per la
proposizione del ricorso (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.12.2017 n. 5870
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Concorsi,
gestore uscente può non essere invitato.
Rotazione nella trattativa privata.
In una procedura negoziata a inviti,
l'applicazione del principio di rotazione
può comportare anche l'esclusione del
precedente gestore; diversamente occorre
motivare puntualmente anche in relazione
alla soddisfazione maturata nel precedente
contratto.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 13.12.2017 n. 5854
rispetto a un ente locale che la stazione
appaltante aveva scelto, per una procedura
negoziata, di non invitare l'affidatario
uscente, scelta ritenuta legittima dai
giudici.
Il collegio ha affermato che il principio di
rotazione, che per espressa previsione
normativa deve orientare le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli
operatori economici da consultare e da
invitare a presentare le offerte, trova
fondamento nella esigenza di evitare il
consolidamento di rendite di posizione in
capo al gestore uscente (la cui posizione di
vantaggio deriva soprattutto dalle
informazioni acquisite durante il pregresso
affidamento), soprattutto nei mercati in cui
il numero di agenti economici attivi non è
elevato.
Da ciò discende, ad avviso del Consiglio di
stato, che, anche al fine di ostacolare le
pratiche di affidamenti senza gara ripetuti
nel tempo che ostacolino l'ingresso delle
piccole e medie imprese e di favorire, per
contro, la distribuzione temporale delle
opportunità di aggiudicazione tra tutti gli
operatori potenzialmente idonei, il
principio in questione comporta, in linea
generale, che l'invito all'affidatario
uscente riveste carattere eccezionale.
La scelta effettuata, di non invitarlo, è
quindi legittima. Diversamente, ove la
stazione appaltante avesse inteso comunque
procedere all'invito di quest'ultimo,
avrebbe dovuto puntualmente motivare tale
decisione, facendo in particolare
riferimento al numero (eventualmente)
ridotto di operatori presenti sul mercato,
al grado di soddisfazione maturato a
conclusione del precedente rapporto
contrattuale ovvero all'oggetto e alle
caratteristiche del mercato di riferimento
(come afferma la delibera 26.10.2016, n.
1097 dell'Autorità nazionale anticorruzione,
linee guida n. 4)
(articolo ItaliaOggi del 22.12.2017). |
APPALTI:
Principio di rotazione - Appalti sotto soglia -
Invito all’affidatario uscente - Carattere eccezionale -
Motivazione.
Il principio di rotazione, obbligatorio per le gare di
lavori, servizi e forniture negli appalti sotto soglia,
trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento
di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui
posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni
acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei
mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è
elevato.
Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di
affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino
l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per
contro, la distribuzione temporale delle opportunità di
aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente
idonei, il principio in questione comporta che l’invito
all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito di quest’ultimo, dovrà puntualmente
motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento
al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul
mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e
alle caratteristiche del mercato di riferimento (cfr. la
delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’ANAC, linee guida n. 4) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2017 n. 5854
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Il principio di rotazione negli appalti sotto soglia.
---------------
Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio
di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Applicabilità – Obbligo.
L’applicazione del principio di
rotazione, previsto dall’art. 36, d.lgs. 18.04.2016, n. 50,
è obbligatorio per le gare di lavori, servizi e forniture
negli appalti cd. “sotto soglia” (1)
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il principio di rotazione ‒che per
espressa previsione normativa deve orientare le stazioni
appaltanti nella fase di consultazione degli operatori
economici da consultare e da invitare a presentare le
offerte‒ trova fondamento nell’esigenza di evitare il
consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore
uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto
dalle informazioni acquisite durante il pregresso
affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di
agenti economici attivi non è elevato.
Tale principio è dunque volto proprio a tutelare le esigenze
della concorrenza in un settore, quale quello degli appalti
“sotto soglia”, nel quale è maggiore il rischio del
consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di
rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del
settore risultati in precedenza aggiudicatari della
fornitura o del servizio.
Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di
affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino
l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per
contro, la distribuzione temporale delle opportunità di
aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente
idonei, il principio in questione comporta, in linea
generale, che l’invito all’affidatario uscente riveste
carattere eccezionale.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque
procedere all’invito di quest’ultimo, dovrà puntualmente
motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento
al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul
mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione
del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e
alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal
senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità
nazionale anticorruzione, linee guida n. 4) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.12.2017 n. 5854
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Recupero sottotetti in Lombardia.
Il TAR Milano ribadisce che gli artt. 63 e seguenti della
legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 –che prevedono
la possibilità di eseguire, in deroga alle previsioni
urbanistiche, interventi di recupero a fini abitativi dei
sottotetti esistenti– possono applicarsi solo qualora un
sottotetto sia effettivamente esistente, intendendosi per
tale un significativo spazio posto fra l’ultima soletta e la
copertura dell’edificio che, proprio perché significativo,
dia luogo ad un locale in qualche modo già fruibile.
Tali disposizioni non sono applicabili qualora lo spazio
consista in una mera intercapedine del tutto inutilizzabile;
a contrario non è invocabile la disposizione contenuta nel
primo comma dell’art. 64 della legge regionale n. 12 del
2005, la quale consente l’effettuazione di sopraelevazioni e
ciò in quanto funzione di tale norma è quella di consentire
interventi atti a conferire al sottotetto esistente le
qualità necessarie per renderlo abitabile e non quella di
consentire interventi volti alla creazione di sottotetti
prima inesistenti.
Aggiunge il TAR che dal comma 4 dell’art. 63 della legge
regionale n. 12 del 2005 –applicabile agli interventi da
eseguirsi su edifici realizzati in forza di titoli
successivi al 31.12.2005– si ricava:
a) che gli interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti
esistenti possono riguardare solo i sottotetti collocati in
edifici che, per almeno il venticinque per cento, abbiano
funzione residenziale; la norma ha lo scopo evidente di
limitare tali interventi, che possono essere eseguiti in
deroga alle previsioni urbanistiche, ai soli casi in cui sia
rinvenibile l’esigenza di ampliamento di una unità
residenziale;
b) che gli interventi di cui si discute possono realizzarsi solo
dopo che sia decorso il termine ivi previsto dal rilascio
del certificato di agibilità dell’edificio; la stessa norma
ha dunque anche lo scopo di limitare gli interventi di
recupero in deroga alla normativa urbanistica a quei casi in
cui l’ampliamento dell’unità abitativa (da attuarsi appunto
mediante il recupero del sottotetto) sia volto a soddisfare
esigenze sopravvenute, sorte dopo un significativo utilizzo
della stessa unità.
Da quanto sopra si ricava dunque, secondo il TAR, che la
normativa sugli interventi di recupero dei sottotetti non
può essere utilizzata come escamotage per realizzare nuove
unità abitative in deroga ai limiti volumetrici imposti
dagli strumenti urbanistici (nel caso in esame, l’intervento
di recupero riguardava il sottotetto di un edificio che non
aveva funzione residenziale e per il quale tale destinazione
era stata conferita proprio con l’atto impugnato; lo stesso
titolo edilizio aveva quindi assentito sia il cambio di
destinazione d’uso sia il recupero del sottotetto) (commento
tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
Ciò premesso, ritiene il Collegio che il ricorso sia
fondato essendo meritevoli di accoglimento due decisive
censure.
La prima di queste è quella che deduce l’inesistenza
di un sottotetto, rilevando che lo spazio su cui
l’interessato vorrebbe realizzare l’intervento di recupero
consisterebbe in una mera intercapedine posta fra la soletta
e la copertura del fabbricato.
In proposito il Collegio osserva che, in
base ad un consolidato principio da sempre espresso dalla
Sezione, gli artt. 63 e seguenti della legge della Regione
Lombardia n. 12 del 2005 –che prevedono la possibilità di
eseguire, in deroga alle previsioni urbanistiche, interventi
di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti–
possono applicarsi solo qualora un sottotetto sia
effettivamente esistente, intendendosi per tale un
significativo spazio posto fra l’ultima soletta e la
copertura dell’edificio che, proprio perché significativo,
dia luogo ad un locale in qualche modo già fruibile. Si è
pertanto precisato che tali disposizioni non sono
applicabili qualora lo spazio consista in una mera
intercapedine del tutto inutilizzabile.
In questa sede si precisa poi che a contrario
non è invocabile la disposizione contenuta nel primo
comma dell’art. 64 della legge regionale n. 12, del 2005, la
quale consente l’effettuazione di sopraelevazioni; e ciò in
quanto funzione di tale norma è quella di consentire
interventi atti a conferire al sottotetto esistente le
qualità necessarie per renderlo abitabile, e non quella di
consentire interventi volti alla creazione di sottotetti
prima inesistenti.
Ciò premesso, va ora osservato che
l’intervento avversato ha ad oggetto uno spazio angusto
caratterizzato dalla forma irregolare della copertura e da
un’altezza molto contenuta, perciò attualmente del tutto
inutilizzabile.
Si deve pertanto ritenere che tale spazio non sia
qualificabile come “sottotetto” e che, di
conseguenza, come correttamente rilevato dall’interessato,
lo stesso non possa essere oggetto di un intervento di
recupero a fini abitativi.
Va per queste ragioni ribadita la fondatezza della censura
in esame.
L’altra censura decisiva è quella che deduce la
violazione dell’art. 63, comma 4, della legge regionale n.
12 del 2005.
In proposito si osserva che dal comma 4 dell’art. 63 della
legge regionale n. 12 del 2005 –applicabile agli interventi
da eseguirsi su edifici realizzati in forza di titoli
successivi al 31.12.2005– si ricava:
a) che gli interventi di recupero a fini abitativi
dei sottotetti esistenti possono riguardare solo i
sottotetti collocati in edifici che, per almeno il
venticinque per cento, abbiano funzione residenziale. La
norma ha lo scopo evidente di limitare tali interventi –che
si ripete possono essere eseguiti in deroga alle previsioni
urbanistiche– ai soli casi in cui sia rinvenibile l’esigenza
di ampliamento di una unità residenziale;
b) che gli interventi di cui si discute possono
realizzarsi solo dopo che sia decorso un triennio dal
momento di rilascio del certificato di agibilità
dell’edificio. La stessa norma ha dunque anche lo scopo di
limitare gli interventi di recupero in deroga alla normativa
urbanistica a quei casi in cui l’ampliamento dell’unità
abitativa (da attuarsi appunto mediante il recupero del
sottotetto) sia volto a soddisfare esigenze sopravvenute,
sorte dopo un significativo utilizzo della stessa unità.
Da quanto sopra si
ricava dunque che la normativa sugli
interventi di recupero dei sottotetti non può essere
utilizzata come escamotage per realizzare nuove unità
abitative in deroga ai limiti volumetrici imposti dagli
strumenti urbanistici.
Nel caso in esame,
l’intervento di recupero dovrebbe riguardare il sottotetto
di un edificio che non aveva funzione residenziale e per il
quale tale destinazione è stata conferita proprio con l’atto
impugnato (lo stesso titolo edilizio ha quindi assentito sia
il cambio di destinazione d’uso che il recupero del
sottotetto).
E’ dunque evidente come, con tale titolo, si sia in sostanza
assentita la creazione di una nuova unità abitativa (anche
se da ricavarsi in un edificio già esistente) per la quale è
stato autorizzato l’immediato recupero del sottotetto. La
violazione della norma invocata dal ricorrente è pertanto
palese.
Ne consegue che, come anticipato, anche questa censura è
fondata.
In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso deve
essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.12.2017 n. 2360 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordinamento statale consente deroghe
alle distanze minime (dai confini) con normative locali, purché però
siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di
determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano
dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (introdotto
dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente
efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato.
---------------
Con riguardo, infine, alla deroga alla disciplina di cui al DM
1444/1968, occorre considerare che l’art. 34 delle norme
tecniche di attuazione del piano delle regole ha riprodotto,
con riguardo alla distanza dai confini, gli standard
previsti dal citato decreto (dettando, quale presupposto
della deroga a tali parametri, la stipulazione di una
convenzione con il vicino, cfr. comma 7).
Ne deriva l’infondatezza dell’assunto –espresso
dall’ufficio tecnico in sede procedimentale per opporsi alle
osservazioni del ricorrente– secondo cui il recupero ai
fini abitativi dei sottotetti esistenti, essendo
classificato come ristrutturazione edilizia (art. 64, comma
2, delle legge regionale 12/2005), potrebbe legittimare una
deroga al regime degli standard (distanze), tenuto conto
che, nel caso che ci occupa, lo strumento urbanistico non ha
fatto altro che richiamare disposizioni normative di rango
superiore, a carattere inderogabile, come, appunto, il
citato DM.
Sul punto vanno, infatti, richiamate le statuizioni della
Corte costituzionale nella sentenza del 16.06.2005, n.
232, secondo cui “l'ordinamento statale consente deroghe
alle distanze minime con normative locali, purché però
siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici
funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di
determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano
dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m.
02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell'art.
41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (introdotto
dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente
efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio
giurisprudenziale consolidato”.
Per le ragioni illustrate, il ricorso dev’essere accolto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.12.2017 n. 2359 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Aggiudicazione - Impugnazione - Termine decadenziale di cui all’art. 120 c.p.a. - Verifica dei
requisiti - Art. 32, cc. 7 e 8 d.lgs. n. 50/2016.
La verifica dei requisiti (art. 32, c. 7, d.lgs. n. 50/2016)
condiziona l’operatività degli effetti giuridici
dell’aggiudicazione, effetti che si producono nei confronti
del solo aggiudicatario e dell’amministrazione
aggiudicatrice e che sono essenzialmente rappresentati dalla
possibilità, per le parti, di procedere alla stipulazione
del contratto.
L’aggiudicazione definitiva, tuttavia, è provvedimento
finale della procedura di gara, perfetto in tutti i suoi
elementi e immediatamente lesivo per tutti coloro che hanno
partecipato alla procedura e non hanno ottenuto
l’aggiudicazione del contratto, i quali –se vogliono evitare
l’effetto della inoppugnabilità- devono impugnarlo entro il
termine decadenziale fissato dall’art. 120 del codice del
processo amministrativo (cfr. adunanza plenaria n. 31/2012,
secondo cui “Il termine per l’impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva, da parte dei concorrenti non
aggiudicatari, inizia a decorrere dal momento in cui essi
hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, co. 1,
lett. a), d.lgs. n. 163/2006, e non dal momento,
eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante
abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso
dei requisiti di gara in capo all’aggiudicatario”.
L’applicazione del principio non trova ostacoli nel testo
dell’art. 32, comma 8, del nuovo codice dei contratti
pubblici.).
Verifica dell’anomalia - Giustificazioni
- Soglia minima utile - Discrezionalità tecnica della P.A.
Nelle gare pubbliche, il procedimento di verifica
dell'anomalia dell'offerta non mira ad individuare
specifiche e singole inesattezze nella sua formulazione ma,
piuttosto, ad accertare in concreto che la proposta
economica risulti nel suo complesso attendibile in vista
della corretta esecuzione dell'appalto; al di fuori dei casi
in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è
possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto
della quale l’offerta deve essere considerata anomala,
poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare
un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé
dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la
pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa
dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un
appalto pubblico (Cons. Stato, Sez. V, 13/02/2017, n. 607 e
25/01/2016, n. 242; Sez. III, 22/01/2016, n. 211 e
10/11/2015, n. 5128); conseguentemente, così come il
giudizio di anomalia, anche l'esame delle giustificazioni
prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia
della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica
dell'amministrazione, per cui soltanto in caso di
macroscopiche illegittimità (quali gravi ed evidenti errori
di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da errori
di fatto) il giudice amministrativo può esercitare il
proprio sindacato di legittimità, ferma restando
l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello
dell'amministrazione.
Costo del personale - Offerta
anormalmente bassa - Norme inderogabili concernenti il
trattamento retributivo - Tabelle ministeriali - Differenza.
In tema di verifica delle offerte anormalmente basse, l’art.
97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016 (che sul punto riprende
il contenuto normativo del previgente art 87, comma 3, del
decreto legislativo 12.04.2006, n. 163), prevede che «[…]
l’offerta è anormalmente bassa in quanto: […] d) il costo
del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi
indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 16».
In tal caso, infatti, non sono ammesse giustificazioni (si
veda il comma 6 dello stesso art. 97 cit.) e l’offerta
economica deve essere esclusa dalla gara, venendo in gioco
l’applicazione di norme inderogabili, per legge o per
contratto, concernenti il trattamento retributivo. Diverso
il caso delle tabelle ministeriali che, per le diverse voci
che incidono sul costo del lavoro, non applicano valori
minimi inderogabili per legge o per contratto, ma utilizzano
valori medi.
Il compito affidato dalla legge all’amministrazione,
nell’ipotesi in cui l’offerta economica indichi valori del
costo del lavoro inferiori a quelli delle tabelle
ministeriali, è quello di verificare –in contraddittorio con
l’impresa offerente- se sussistano elementi che dimostrino
la correttezza della proposta economica, sotto il profilo
del rispetto delle norme legislative e contrattuali sul
costo del lavoro, e la sua congruità e affidabilità sotto il
profilo economico-finanziario, nonostante il mancato
rispetto dei valori medi fissati dal ministero. I commi 1 e
4 dell’art. 97 consentono infatti all’impresa, che abbia
presentato un’offerta sospettata di essere anormalmente
bassa, di presentare giustificazioni in relazione a
qualsiasi elemento, compreso quindi anche il costo del
lavoro come determinato periodicamente nelle tabelle dal
Ministro del lavoro.
Provvedimenti di ammissione o esclusione
- Termine di impugnazione - Decorrenza - Art. 29 d.lgs. n.
50/222016 - Modifica introdotto con l’art. 19 del d.lgs. n.
56/2017.
La modifica introdotta all’art. 29 del d.lgs. n. 50/2016,
con l’art. 19 del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (che ha aggiunto
all’art. 29 cit. il seguente periodo: «Il termine per
l’impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis,
decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo
periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di
motivazione», in vigore dal 20.05.2017), seppure non
possa essere qualificata nei termini di una norma di
interpretazione autentica e quindi retroattivamente
applicabile, si riverbera con relativa sicurezza anche
sull’interpretazione del vecchio testo dell’art. 29 cit. di
cui finisce per confermare la validità di un’interpretazione
costituzionalmente orientata (arg. ex art 24 Cost.) che
afferma la necessità di ancorare la decorrenza del termine
per l’impugnazione dei provvedimenti di ammissione o di
esclusione alla piena conoscenza dei fatti o degli atti dai
quali l’interessato possa evincere l’effetto lesivo della
propria situazione giuridica soggettiva (TAR Sardegna, Sez.
I,
sentenza 12.12.2017 n. 792 - tratto da e link a
www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Garanzie dell’incolpato nel procedimento disciplinare.
---------------
●
Pubblico impiego
privatizzato – Procedimento disciplinare - Adeguato
riscontro probatorio circa l’addebitabilità dei fatti
all’incolpato – Necessità.
●
Pubblico impiego
privatizzato – Procedimento disciplinare – Contraddittorio –
Completa valutazione dei fatti addotti dall’incolpato –
Necessità.
●
Nel procedimento disciplinare è ineludibile la
necessità che vi sia un adeguato riscontro probatorio circa
l’addebitabilità dei fatti di cui l’incolpato è ritenuto
responsabile (1).
●
Nel procedimento disciplinare ai fini della
corretta instaurazione del contraddittorio con l’incolpato
non è sufficiente fermarsi all’audizione o acquisizione
acritica delle deduzioni scritte dell’incolpato, ma deve
integrare una completa valutazione delle circostanze e dei
fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che
deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento
conclusivo del procedimento disciplinare (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il diritto di difesa non ha
un’applicazione piena nell’ambito dei procedimenti
disciplinari (non è cioè paragonabile al diritto di difesa
nel processo penale) e, tuttavia, l’onere della prova non
può essere del tutto obliterato. Com’è noto, per principio
generale, l’onere della prova, sia sul piano sostanziale sia
su quello processuale, spetta a colui che avanza una pretesa
o una domanda, per cui anche nel procedimento disciplinare è
ineludibile la necessità che vi sia un adeguato riscontro
probatorio circa l’addebitabilità dei fatti di cui
l’incolpato è ritenuto responsabile (Cons. St., sez. III,
12.09.2016, n. 3843).
Ciò posto, nel caso esaminato la prova del fatto contestato
è tratta esclusivamente dalle dichiarazioni della parte
offesa dalla condotta ritenuta violativa delle regole
disciplinari. Mutuando utili suggerimenti dalla
giurisprudenza penale, il Tar ha ritenuto che le
dichiarazioni della parte offesa possono essere
legittimamente poste -da sole e in assenza di riscontri
oggettivi esterni- a base dell'affermazione di
responsabilità dell'incolpato, previa verifica, corredata da
idonea motivazione, della credibilità soggettiva e
dell'attendibilità intrinseca del racconto (Cass. pen., sez.
IV, 18.10.2011, n. 44644; id., sez. III, 03.05.2011, n.
28913).
Il vaglio positivo dell´attendibilità del dichiarante deve
essere penetrante e rigoroso, più di quanto non lo sia
quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di
qualsiasi testimone, talché la deposizione della persona
offesa può essere assunta da sola come fonte di prova
unicamente se sottoposta al riscontro di credibilità
oggettiva e soggettiva. La valutazione della credibilità
della persona offesa rappresenta una questione di fatto che
ha una propria chiave di lettura nel compendio
motivazionale.
(2) Negli anni si è andata affermando la distinzione tra il
principio del giusto procedimento (mutuato dal sistema
anglosassone del “due process of law”), che vale
essenzialmente per i procedimenti e i provvedimenti che
producono effetti restrittivi della sfera giuridica
soggettiva dei cittadini, ed il principio di partecipazione,
avente un ambito di applicazione più ampio, che assegna agli
intervenienti nel procedimento un ruolo collaborativo
riferito alla completezza della fase istruttoria e al
miglioramento dei risultati della funzione.
Anche l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE
-proclamata a Nizza il 07.12.2001 e recepita nel Trattato di
Lisbona del 2007- ha ben definito il contenuto sostanziale
rappresentato dal rispetto del diritto “di ogni individuo
-nei confronti delle istituzioni- di essere ascoltato prima
che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento
individuale che gli rechi pregiudizio”.
Di qui il basilare principio, sostanziale e processuale,
concretizzatesi nel diritto dell’incolpato di potersi
difendere, venendo sentito o producendo prove e documenti,
prima che l’organo titolare di potestà sanzionatoria adotti
misure afflittive. Nello stesso senso, secondo
l’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione
Europea, il diritto di difesa “impone che i destinatari
di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro
interessi siano messi in condizione di far conoscere
utilmente il loro punto di vista” (cfr.: Corte di
giustizia, sentenza 24.10.1996, C-32/95 P., Commissione
Comunità europea c. Lisrestal).
Il rispetto di tale regola non può esaurirsi nel passaggio
formale dell’audizione o nell’acquisizione acritica delle
deduzioni scritte dell’incolpato, ma deve integrare una
completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce
degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì
emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del
procedimento disciplinare (TAR
Molise,
sentenza 12.12.2017 n. 529
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Secondo condiviso e costante orientamento
giurisprudenziale:
a) “le associazioni di volontariato possono partecipare alle gare
per l'affidamento di pubblici servizi nei casi in cui
l'attività oggetto di gara sia funzionale allo scopo
associativo dell'ente e compatibile con la disciplina
statutaria di esso”;
b) in particolare, “alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della
giurisprudenza della Corte di Giustizia la nozione
comunitaria di imprenditore non presuppone la coesistenza
dello scopo di lucro dell'impresa, per cui l'assenza di fine
di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad
appalti pubblici. Quanto, in particolare, alle associazioni
di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli
appalti, ove si consideri che la legge quadro sul
volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni,
menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali
o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la
capacità di svolgere attività di impresa. Esse possono
essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali",
a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la
legittimazione ad esercitare in via stabile e principale
un'attività economica organizzata per la produzione e lo
scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a
realizzare finalità d'interesse generale, anche se non
lucrativa … La esposta nozione di imprenditore, tra l'altro,
risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n.
163/2006), che si riferisce all'imprenditore come "operatore
economico" ammesso a partecipate alle gare per la
realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza
ulteriori specificazioni”;
c) con la precisazione che, nell'ambito delle gare per
l'affidamento dei servizi di trasporto infermi ed assistenza
delle urgenze, la partecipazione delle associazioni di
volontariato non altera il confronto concorrenziale tra gli
operatori, ma avvantaggia la stessa stazione appaltante
consentendole di aggiudicare un servizio connotato da
elevati profili socio-sanitari a condizioni più vantaggiose
sia sotto il profilo finanziario che di accessibilità del
servizio stesso.
“La circostanza che le associazioni di volontariato non
perseguano uno scopo di lucro non preclude alle stesse di
poter partecipare alle procedure ad evidenza pubblica
essendo sufficiente che l'offerta economica sia ancorata al
puntuale computo degli oneri derivanti dalla prestazione,
indicando livelli di profitto pari a zero”… “per altro
verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di recente
(su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da questa
Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE su
C-113/2014) la esigenza di tutelare la concorrenza va
bilanciata, anche a livello comunitario, con altri principi
quali quello della solidarietà, della economicità e
dell'equilibrio del bilancio, che, nel trasporto di urgenza
e di infermi, hanno un peso notevole, trattandosi di una
attività dai preminenti profili socio sanitari, che il
soggetto pubblico ha interesse ad offrire alla generalità
alle condizioni più accessibili”;
d) “pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di lucro
non sia elemento idoneo ad escludere, in via di principio,
che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto
dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella
categoria delle attività economiche in concorrenza con gli
altri operatori del settore”.
---------------
Ciò posto, nelle gare pubbliche, aperte a “qualsiasi
operatore economico” (art. 60 d.lgs. n. 50/2016), la c.d.
clausola sociale:
a. “ove richiamata dal bando, ha portata cogente con la conseguenza
che l'offerente non può ridurre ad libitum il numero di
unità da impiegare nell'appalto ma, a tutto concedere, può
impugnare la clausola del bando adducendo che il numero di
unità fino a quel momento adibito al servizio è incongruo e
sovrabbondante”;
b. “va, tuttavia, interpretata nel senso che l'appaltatore
subentrante è obbligato ad assumere prioritariamente gli
stessi addetti che operavano alle dipendenze
dell'appaltatore uscente, ma a condizione che il loro numero
e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione
d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante” "mentre i
lavoratori -che non trovano spazio nell'organigramma
dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente
impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori- sono
destinatari delle misure legislative in materia di
ammortizzatori sociali”;
c. “perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità
dell'occupazione in favore dei medesimi lavoratori già
impiegati dall'impresa uscente nell'esecuzione dell'appalto
- risulta costituzionalmente legittima, quale forma di
tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro
(art. 35 Cost.), se si contempera con l'organigramma
dell'appaltatore subentrante e con le sue strategie
aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di
impresa pure tutelata dall'art. 41 Cost.”.
Ne consegue, allora, che:
1. “la suddetta clausola deve quindi essere interpretata in modo da
non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque,
evitando di attribuirle un effetto automaticamente e
rigidamente escludente”;
2. di contro, “è illegittima la clausola sociale del bando che
scoraggi la partecipazione alla gara e limiti ultroneamente
la platea dei partecipanti, poiché la finalità di garantire
la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi
lavoratori già impiegati dall'impresa uscente
nell'esecuzione dell'appalto non può ledere i principi di
libera concorrenza e libertà d'impresa”.
Dagli esposti principi deriva, quindi, che “nelle gare
pubbliche l'impegno al rispetto delle condizioni
contrattuali e retributive previste in favore del personale
impiegato nell'appalto (c.d. clausola sociale) va assolto in
sede di esecuzione del contratto e non in sede di
partecipazione alla gara”, “dovendo qualificarsi la clausola
sociale non come requisito di partecipazione, ma come
modalità di esecuzione del servizio”, come tale da indicarsi
in tempo utile affinché le imprese possano “valutare, senza
alcuna lesione della "par condicio", la convenienza
dell'offerta da presentare”.
---------------
I. Parte ricorrente, associazione senza scopo di lucro
iscritta all’Albo Regione Campania dei soggetti abilitati,
autorizzati e/o accreditati a partecipare al sistema
integrato di interventi e servizi sociali nonché l’attuale
gestore del servizio trasporto infermi 118 presso l’ASL
Napoli 2 Nord, impugna il bando di indizione della nuova
gara per lo svolgimento triennale del servizio nella parte
in cui l’Amministrazione ha ritenuto di escludere dalla
partecipazione ai lotti 4 (Procida) e 5 (Ischia), quelli
attualmente affidati alla ricorrente, proprio gli enti non
aventi scopo di lucro, riservando la partecipazione alle
sole imprese commerciali a differenza di quanto stabilito
per gli altri 4 lotti sui 6 complessivi in cui è suddivisa
la gara.
I.1. La clausola inibente la partecipazione alle
associazioni di volontariato sarebbe stata motivata in
ragione della considerazione che, trovando, per tali ultimi
lotti, “applicazione l’art. 50 del d.lgs. 50 del 2016
volto a promuovere la stabilità occupazione del personale
impiegato”, non sarebbe stata legittima nei loro
confronti, anche sulla scorta del parere ANAC del
10.02.2016, un’imposizione implicante l’obbligatoria
assunzione di personale dipendente, traducendosi,
quest’ultima, in una indebita ingerenza nella relativa
struttura organizzativa, tale da alterarne la natura
soggettiva, facendone, cioè, venire meno il requisito
costitutivo dell’avvalersi in modo determinante e prevalente
delle prestazioni personali, volontarie e gratuite di propri
aderenti (art. 3, comma 1, l. n. 266/1991, ora, art. 32 del
d.lgs. n. 117/2017).
...
V. Il ricorso è fondato.
V.1. Con motivi di ricorso la parte lamenta, tra gli altri
profili, la violazione dei principi di massima
partecipazione, concorrenza e non discriminazione nelle gare
pubbliche nonché l’erronea applicazione dell’art. 50 del
d.lgs. n. 50/2016 relativo alla cd. clausola sociale.
V.1.1. Le censure sono fondate.
V.1.2. Secondo condiviso e costante orientamento
giurisprudenziale:
a) “le associazioni di volontariato possono partecipare alle
gare per l'affidamento di pubblici servizi nei casi in cui
l'attività oggetto di gara sia funzionale allo scopo
associativo dell'ente e compatibile con la disciplina
statutaria di esso” (TAR Emilia Romagna, Bologna, sez.
II, 23.01.2017 n. 39);
b) in particolare, “alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e
della giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE
23.12.2009, causa C-305/08) la nozione comunitaria di
imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di
lucro dell'impresa, per cui l'assenza di fine di lucro non è
di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici.
Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato,
ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si
consideri che la legge quadro sul volontariato,
nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona
anche le entrate derivanti da attività commerciali o
produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità
di svolgere attività di impresa. Esse possono essere ammesse
alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs.
24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad
esercitare in via stabile e principale un'attività economica
organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di
servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità
d'interesse generale, anche se non lucrativa (cfr. Cons.
Stato n. 283/2013 nonché n. 5882/2012) … La esposta nozione
di imprenditore, tra l'altro, risulta recepita anche dal
Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006), che si riferisce
all'imprenditore come "operatore economico" ammesso a
partecipate alle gare per la realizzazione di opere e
l'affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni”
(Cons. di St., sez. III, 15.01.2016 n. 116, 27.07.2015 n.
3685 e sez. VI, 23.01.2013 n. 387).
c) con la precisazione che, nell'ambito delle gare per
l'affidamento dei servizi di trasporto infermi ed assistenza
delle urgenze, la partecipazione delle associazioni di
volontariato non altera il confronto concorrenziale tra gli
operatori, ma avvantaggia la stessa stazione appaltante
consentendole di aggiudicare un servizio connotato da
elevati profili socio-sanitari a condizioni più vantaggiose
sia sotto il profilo finanziario che di accessibilità del
servizio stesso.
“La circostanza che le associazioni di volontariato non
perseguano uno scopo di lucro non preclude alle stesse di
poter partecipare alle procedure ad evidenza pubblica
essendo sufficiente che l'offerta economica sia ancorata al
puntuale computo degli oneri derivanti dalla prestazione,
indicando livelli di profitto pari a zero”… “per
altro verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di
recente (su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da
questa Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE
su C-113/2014) la esigenza di tutelare la concorrenza va
bilanciata, anche a livello comunitario, con altri principi
quali quello della solidarietà, della economicità e
dell'equilibrio del bilancio, che, nel trasporto di urgenza
e di infermi, hanno un peso notevole, trattandosi di una
attività dai preminenti profili socio sanitari, che il
soggetto pubblico ha interesse ad offrire alla generalità
alle condizioni più accessibili” (Cons. di St., sez. III,
15.01.2016 n. 116);
d) “pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di
lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di
principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di
infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da
classificare nella categoria delle attività economiche in
concorrenza con gli altri operatori del settore” (Cons.
di St. sez. III, 15.01.2016 n. 116).
V.1.3. Ciò posto, nelle gare pubbliche, aperte a “qualsiasi
operatore economico” (art. 60 d.lgs. n. 50/2016), la
c.d. clausola sociale:
a. “ove richiamata dal bando, ha portata cogente con la
conseguenza che l'offerente non può ridurre ad libitum il
numero di unità da impiegare nell'appalto ma, a tutto
concedere, può impugnare la clausola del bando adducendo che
il numero di unità fino a quel momento adibito al servizio è
incongruo e sovrabbondante”;
b. “va, tuttavia, interpretata nel senso che l'appaltatore
subentrante è obbligato ad assumere prioritariamente gli
stessi addetti che operavano alle dipendenze
dell'appaltatore uscente, ma a condizione che il loro numero
e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione
d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante”
(Cons. di St., sez. IV, 02.12.2013 n. 5725) “mentre i
lavoratori -che non trovano spazio nell'organigramma
dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente
impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori- sono
destinatari delle misure legislative in materia di
ammortizzatori sociali” (Cons. di St., sez. V,
28.08.2017 n. 4079; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 27.06.2017
n. 1056; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.02.2017 n. 231);
c. “perseguendo la prioritaria finalità di garantire la
continuità dell'occupazione in favore dei medesimi
lavoratori già impiegati dall'impresa uscente
nell'esecuzione dell'appalto - risulta costituzionalmente
legittima, quale forma di tutela occupazionale ed
espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si
contempera con l'organigramma dell'appaltatore subentrante e
con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di
quella libertà di impresa pure tutelata dall'art. 41 Cost.”
(Cons. di St., sez. V, 28.08.2017 n. 4079).
V.1.4. Ne consegue, allora, che:
1. “la suddetta clausola deve quindi essere interpretata in modo
da non limitare la libertà di iniziativa economica e,
comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente
e rigidamente escludente” (Cons. di St., sez. III,
05.05.2017 n. 2078 e 30.03.2016 n. 1255; TAR Piemonte,
Torino, sez. I, 18.12.2015 n. 1769);
2. di contro, “è illegittima la clausola sociale del bando che
scoraggi la partecipazione alla gara e limiti ultroneamente
la platea dei partecipanti, poiché la finalità di garantire
la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi
lavoratori già impiegati dall'impresa uscente
nell'esecuzione dell'appalto non può ledere i principi di
libera concorrenza e libertà d'impresa” (TAR Calabria,
Reggio Calabria, sez. I, 15.03.2017 n. 209).
V.1.5. Dagli esposti principi deriva, quindi, che “nelle
gare pubbliche l'impegno al rispetto delle condizioni
contrattuali e retributive previste in favore del personale
impiegato nell'appalto (c.d. clausola sociale) va assolto in
sede di esecuzione del contratto e non in sede di
partecipazione alla gara” (TAR Puglia, Lecce, sez. II,
29.07.2014 n. 2024), “dovendo qualificarsi la clausola
sociale non come requisito di partecipazione, ma come
modalità di esecuzione del servizio”, come tale da indicarsi
in tempo utile affinché le imprese possano “valutare,
senza alcuna lesione della "par condicio", la convenienza
dell'offerta da presentare” (Cons. di St., Ad. Plen.,
06.08.2013 n. 19).
V.2. Tanto premesso, l’Amministrazione, nell’escludere
tout court la partecipazione alla gara delle
associazioni di volontariato sul presupposto
dell’impossibilità di imporre loro l’osservanza della
predetta clausola, ha illegittimamente trasformato una
condizione di esecuzione del servizio in requisito di
partecipazione, peraltro, introducendo, in violazione del
principio di tassatività di cui all’art. 80 del d.lgs. n.
50/2016, una causa di esclusione atipica e astratta.
V.2.1. Invero, sul piano prettamente istruttorio, occorre
valutare in concreto, appunto in fase di esecuzione, se
l'adempimento degli obblighi connessi al rispetto della
clausola sociale sia tale da alterare effettivamente la
struttura giuridica dell’associazione partecipante ovvero se
gli impegni assunti rimangano nel quadro di un'assoluta
marginalità delle attività collaterali dell'associazione.
V.2.2. Nel caso di specie, secondo assunto non contestato,
le 15 unità lavorative –oggetto della protezione della
clausola sociale– sono attualmente dipendenti della
ricorrente, gestore in proroga, in quanto già assunte
all’esito dell’aggiudicazione della precedente gara, con un
rapporto tra lavoratori e volontari di 1 a 30 tale da potere
ravvisare proprio quella marginalità che consente di
mantenere inalterato il citato requisito costitutivo, di cui
all’art. 3, comma 1, l. n. 266/1991, della prestazione
personale, volontaria e gratuita dei propri aderenti.
V.2.3. D’altro canto, la medesima la legge 266 del 1991,
all’art. 3 comma 4, vigente all’epoca di indizione della
gara (ora, art. 33 del d.lgs. n. 117/2017), prevede che le
organizzazioni di volontariato, pur avvalendosi in modo
predominante delle prestazioni dei propri aderenti, possano
assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di
lavoro autonomo, in via marginale, cioè, nei limiti
esclusivamente necessari al loro regolare funzionamento
ovvero qualora occorrenti a qualificare e specializzare
l'attività da esse svolte, rientrando, anche per tali
limitazioni, tra i soggetti che possono partecipare alle
gare pubbliche.
Invero, la marginalità dell’attività commerciale delle
associazioni di volontariato volta, cioè, all’offerta dei
beni e servizi sul mercato, costituisce, infatti,
espressione del principio generale del diritto comunitario
di divieto di abuso del diritto. Essa, in particolare, è
volta ad evitare che stiano sul mercato enti aventi la veste
giuridica di onlus ma che, di fatto, avendo un proprio
apparato organizzativo basato su personale dipendente e
svolgendo attività commerciale, beneficino, con effetti
distorsivi della concorrenza, di un regime fiscale e
previdenziale di favore.
VI. Sulla base delle sovresposte considerazioni, assorbite
le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto, essendo
illegittimo il bando di gara per l’affidamento di un
servizio nella parte in cui esclude dalla partecipazione le
associazioni di volontariato presupponendo l’applicazione di
una clausola sociale automaticamente escludente (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 11.12.2017 n. 5815 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento di demolizione di una
costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora,
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo
neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
---------------
Nell’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente
l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate,
in modo da consentire al destinatario della sanzione di
rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando
dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in
particolare anche la descrizione precisa della superficie
occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere
confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi
questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva
ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale
---------------
Col secondo motivo gli appellanti deducono che
l’ordine di demolizione non reca alcuna motivazione circa
l’interesse pubblico perseguito dal comune.
Il mezzo va respinto.
Infatti, come chiarito dalla più autorevole giurisprudenza,
il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva,
al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica
valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed
attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare ( cfr. Ap. n. 9 del 2017).
Con il terzo motivo gli appellanti lamentano la
mancata analitica individuazione, nel contesto
dell’ordinanza demolitoria, dell’area di sedime acquisibile
dal comune in caso di inottemperanza.
Il mezzo è infondato in quanto nell’ingiunzione di
demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica
descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da
consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal
contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in
particolare anche la descrizione precisa della superficie
occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere
confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi
questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva
ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.12.2017 n. 5788 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo una diversa tesi emersa più di recente e che
fa leva sulla integrale applicazione dei generali
presupposti di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del
1990, l’amministrazione non può fondare l’adozione dell’atto
di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità
violata.
Oltre alla verifica del presupposto legalmente determinato,
essa è tenuta a dar conto anche della sussistenza di altri
due elementi costitutivi della complessa fattispecie,
connotati da maggiore elasticità e indeterminatezza: la
ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro
e l’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla
considerazione dell’interesse dei destinatari.
Sicché, le
amministrazioni sono responsabilmente tenute, in primo
luogo, a fondare le proprie determinazioni su uno
“scrupoloso esame delle pratiche; e se successivamente,
emerge una erronea valutazione originaria, sono tenute a
valutare la posizione di “affidamento” dei beneficiari del
titolo rilasciato e a comparare l’interesse pubblico al
“ripristino della legalità”, con quello del privato alla
conservazione della posizione acquisita con il rilascio del
provvedimento favorevole, configurandosi il potere in
autotutela come “discrezionale”, anche quando incide su atti
di primo grado “vincolati”.
---------------
6. Il ricorso è fondato.
7. Va preliminarmente osservato che il ricorso ha ad oggetto
unicamente l’ordinanza adottata dal Comune n. 29/2008, con
cui sono stati annullati il permesso di costruire n. 25/2007
e quello in variante in corso d’opera n. 16/2008.
Deve pertanto respingersi l’eccezione di tardività sollevata
dal Comune con riguardo all’ordinanza di ingiunzione e
sospensione dei lavori del 07.08.2008, impugnata “solo
ove occorra”, ma rispetto alla quale il ricorrente deduce
unicamente la inefficacia quale atto endoprocedimentale,
valendo la stessa anche quale “comunicazione di avvio” del
provvedimento di ritiro, al fine di sollevare il vizio di
illegittimità di quest’ultimo ex art. 7 L. 241/1990.
8. Deve inoltre precisarsi che, a prescindere dal nomen
juris utilizzato dall’amministrazione, il provvedimento
impugnato è qualificabile, ad avviso del Collegio, come atto
di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies L. 241/1990,
essendo stato adottato sulla base della ritenuta
illegittimità originaria dei titoli edilizi rilasciati a
favore del ricorrente (su tale più corretto inquadramento
conviene anche la difesa dell’amministrazione).
9. Tanto premesso va ritenuto che:
9.1. non è fondata la censura di violazione dell’art. 7 l.
241/1990: l’atto di ingiunzione ha avuto anche la finalità di
comunicare all’interessato che, sulla base di una denuncia
da parte di privati circa le irregolarità edilizie, si
avviava un procedimento volto alla “revoca” dei permessi di
costruire. Tale indicazione, seppure non pienamente conforme
alle dettagliate prescrizioni di cui all’art. 7 L. 241/1990, è
di per sé idonea a rendere edotto il ricorrente della
pendenza di un procedimento in autotutela, con indicazione
seppure ancora generica dei motivi, alla cui più specifica
delineazione è ovviamente funzionale la successiva
istruttoria procedimentale.
9.2. Sono inammissibili le doglianze concernenti il vizio di
violazione dell’art. 21-quinquies l. 241/1990, compreso quello
della mancata indicazione dell’indennizzo, non potendo
l’atto gravato, sussumersi nella fattispecie astratta di cui
alla citata norma che disciplina la “revoca” dei
provvedimenti amministrativi.
10. E’ invece fondata la doglianza (sub III del ricorso) di
eccesso di potere per “insufficienza motivazionale”, dovendo
così interpretarsi in sostanza le doglianze del ricorrente
riportate in tale parte dell’atto introduttivo, con le quali
viene dedotta la mancata “esplicitazione” delle ragioni di
interesse pubblico sottese al provvedimento di ritiro, che
non possono essere solo “riconducibili alla generica
esigenza di preteso ripristino della legalità violata”.
Con tale censura viene sottoposta all’esame del Collegio la
controversa questione –da ultimo risolta dal Consiglio di
Stato con Ad. Plen. 8/2017- concernente il contenuto
dell’impegno motivazionale che deve supportare la
determinazione di “annullamento” di un titolo edilizio, in
correlazione ai contrapposti interessi dei privati
destinatari del provvedimento alla “conservazione” della
situazione favorevole, anche nell’ipotesi in cui la
illegittimità originaria del permesso di costruire sia stata
determinata o agevolata dal comportamento dei privati
(esempio attraverso la prospettazione di fatti non
corrispondenti alla realtà, come parrebbe emergere nella
fattispecie in esame stando alla prospettazione
dell’amministrazione resistente).
11. Come di recente evidenziato dalla citata Adunanza
Plenaria, l’orientamento maggioritario era nel senso che
“l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo
(…) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare
l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un
titolo illegittimo determina la sussistenza di una
permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in
capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in
ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato
(in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V,
08.11.2012, n. 5691)” in
particolare, alcuno specifico onere motivazione, oltre alla
indicazione dei presupposti di illegittimità del
provvedimento di primo grado, grava –secondo tale
orientamento- sull’amministrazione specie quando la falsa
rappresentazione dello stato dei luoghi da parte del
beneficiario abbia indotto in errore l’amministrazione. (in
tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 27.08.2012, n.
4619).
Secondo una diversa tesi, però, emersa più di recente e che
fa leva sulla integrale applicazione, anche in tale settore,
dei generali presupposti di cui all’articolo 21-nonies della
l. 241 del 1990, l’amministrazione non può fondare
l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di
ripristinare la legalità violata (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., IV, 15.02.2013, n. 915).
Oltre alla verifica del
presupposto legalmente determinato, essa è tenuta a dar
conto anche della sussistenza di altri due elementi
costitutivi della complessa fattispecie, connotati da
maggiore elasticità e indeterminatezza: la ragionevolezza
del termine di esercizio del potere di ritiro e l’interesse
pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione
dell’interesse dei destinatari (Cons. Stato, VI, 27.01.2017, n. 341).
Alla stregua di tale seconda opzione ermeneutica, le
amministrazioni sono responsabilmente tenute, in primo
luogo, a fondare le proprie determinazioni su uno
“scrupoloso esame delle pratiche; e se successivamente,
emerge una erronea valutazione originaria, sono tenute a
valutare la posizione di “affidamento” dei beneficiari del
titolo rilasciato e a comparare l’interesse pubblico al
“ripristino della legalità”, con quello del privato alla
conservazione della posizione acquisita con il rilascio del
provvedimento favorevole, configurandosi il potere in
autotutela come “discrezionale”, anche quando incide su atti
di primo grado “vincolati”.
12. Nel caso in esame, il Comune dopo aver adottato il
permesso di costruire anche in variante previa una accurata
analisi istruttoria (è emerso agli atti che il permesso di
costruire n. 25 del 2007 è stato rilasciato dopo una
integrazione documentale sollecitata dall’ufficio comunale;
cfr. punto 5 controricorso del Comune), sulla base di una
denuncia-esposto proveniente da terzi, ha attivato il
procedimento in autotutela nel quale però ha dato solo conto
delle “irregolarità” concernenti il “sottotetto” del
fabbricato, da qualificarsi, ad avviso del Comune come “vano
abitabile”, senza alcuna considerazione degli interessi
contrapposti del beneficiario; tale valutazione appare tanto
più esigibile in considerazione della fattispecie concreto,
riguardando il titolo edilizio rilasciato circa un anno
prima, un articolato fabbricato composto da “due vani al
pian terreno, altri due al primo piano e da un unico vano al
secondo”, in parte adibito ad ufficio in parte ad
abitazione, mentre le irregolarità dedotte si riferiscono
solo al contestato “sottotetto”.
13. In conclusione, condividendosi l’orientamento da ultimo
avallato dall’Adunanza Plenaria, il provvedimento deve
ritenersi carente sotto il profilo motivazionale con
conseguente accoglimento del ricorso (TAR Calabria-Catanzaro,
Sez. I,
sentenza 11.12.2017 n. 1929 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Affidamento degli incarichi di difesa in giudizio da parte
della Pubblica amministrazione.
---------------
●
Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Incarico
ad avvocati presso Pubbliche amministrazioni – Avviso
pubblico - Impugnazione – Camera amministrativa – E’
legittimata.
●
Professioni e
mestieri – Avvocati – Incarico presso Pubbliche
amministrazioni – Conferimento – Criterio.
●
La
Camera amministrativa e i suoi organi hanno titolo ad
impugnare l’avviso pubblico con il quale un Comune ha
indetto una procedura per la formazione di un elenco di
avvocati o associazioni di avvocati, in sezioni distinte per
discipline (diritto amministrativo, civile, penale,
tributario, del lavoro) cui attingere per l’affidamento di
incarichi professionali in quanto portatori degli interessi
coinvolti nell’affidamento di incarichi professionali sulla
base della maggiore specializzazione settoriale degli
avvocati che aspirano ad essere iscritti alla sezione degli
avvocati amministrativisti.
●
Il
conferimento del singolo incarico episodico ad un legale,
legato alla necessità contingente, non costituisce appalto
di servizi legali, ma integra un contratto d’opera
intellettuale incompatibile con la specifica disciplina
codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica e
con la stessa procedura dettata per i contratti esclusi
dall’art. 27, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in ragione del
fatto che l’assunzione della difesa di parte in sede
processuale è caratterizzata dall’aleatorietà del giudizio,
dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali,
economici e sostanziali delle prestazioni e dalla
conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle
quali fissare i criteri di valutazione necessari secondo la
disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.
Cionondimeno, venendo in rilevo atti di disposizione di
risorse pubbliche, l’attività di selezione del difensore
dell’ente pubblico, pur non essendo soggetta all’obbligo di
espletamento di una procedura comparativa di stampo
concorsuale, deve essere condotta nel rispetto dei principi
generali dell’azione amministrativa in materia di
imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione, onde
rendere possibile la decifrazione della congruità della
scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di
difesa da soddisfare (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che nel caso sottoposto al suo esame i
criteri individuati dal bando presentino una tale genericità
da rendere plausibile il rilievo che –di fatto- la selezione
sarebbe fondata sull’individuazione dell’offerta più bassa;
ciò è chiaramente in contrasto con la tutela dell’interesse
pubblico che la predeterminazioni di criteri certi ed
obiettivi si proporrebbe di tutelare.
Ed invero, la richiesta specializzazione degli avvocati
appare solo un criterio di orientamento dell’iscrizione
nelle sezioni distinte per materie, mentre l’incarico
verrebbe conferito sulla base del compenso richiesto,
rispetto al quale il temperamento dell’adeguatezza
all’importanza dell’attività e al decoro della professione
appare irrimediabilmente generico. L’avviso non specifica
infatti quali sono, ai fini del controllo di adeguatezza del
compenso, i criteri di misurazione dell’importanza
dell’attività e il limite superato il quale un compenso
potrebbe essere giudicato non rispettoso del decoro della
professione.
Anche i criteri fissati per l’iscrizione degli avvocati
negli elenchi di settore, dai quali si sarebbe dovuto
attingere per il conferimento degli incarichi pertinenti per
materia, appaiono generici. Stabilire che l’iscrizione è
determinata dalle specifiche competenze professionali
acquisite con riguardo alle esperienze professionali
maturate o alla partecipazione a corsi professionali, stages
e convegni su materie inerenti alla sezione per la quale è
chiesta l’iscrizione, non soddisfa il requisito di
oggettività dei criteri che devono presiedere alle selezioni
pubbliche (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 11.12.2017 n. 1289
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
... per l'annullamento:
- dell'avviso pubblico del 07.05.2012 per la formazione di un
elenco di avvocati cui attingere per l'affidamento
d'incarichi legali;
- di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale,
compreso l'elenco eventualmente formato in applicazione del
predetto avviso pubblico, con specifico riferimento al
settore concernente il "diritto amministrativo";
...
La Camera Amministrativa distrettuale e gli altri ricorrenti
-in proprio e quali membri degli organi della Camera
Amministrativa- impugnano l’avviso pubblico con il quale il
comune di Corato ha indetto una procedura per la formazione
di un elenco di avvocati o associazioni di avvocati, in
sezioni distinte per discipline (diritto amministrativo,
civile, penale, tributario, del lavoro) cui attingere per
l’affidamento di incarichi professionali.
L’adesione al bando deve contenere le dichiarazioni
dell’aspirante sui requisiti generali e un curriculum sulle
esperienze professionali acquisite e la partecipazione a
corsi professionali, stages a convegni nelle materie
inerenti al settore per il quale è richiesta l’iscrizione.
L’avviso stabilisce che “ogni singolo incarico legale
verrà conferito, sentito il parere del dirigente del settore
interessato circa la necessità di costituire il Comune di
giudizio, con procedura concorrenziale, con riferimento e
limitatamente al preventivo presentato dal professionista
interpellato che comunque dovrà tener conto dell’adeguatezza
del compenso professionale all’importanza dell’attività e al
decorso della professione in linea con il principio di
adeguatezza e proporzionabilità, mediante interpello di
cinque avvocati individuati nella relativa sezione di
competenza, con il criterio della rotazione e previo
scorrimento sistematico in ordine alfabetico”.
I ricorrenti deducono violazione dell’art. 97 della
Costituzione e falsa applicazione del decreto legislativo n.
163 del 12.04.2006 – violazione dell’art. 2222 e seguenti
del codice civile – eccesso di potere per sviamento ed
erroneità dei presupposti – irrazionalità manifesta.
La procedura indetta dal comune di Corato, poiché prevede
l’affidamento di specifici incarichi, non sarebbe
riconducibile all’appalto di servizi legali disciplinato dal
codice dei contratti pubblici vigente ratione temporis.
In ogni caso, il criterio selettivo individuato nel
preventivo presentato dal professionista sarebbe in
contrasto con la natura fiduciaria dell’incarico e contrario
anche all’interesse della pubblica amministrazione di
dotarsi di servizi di qualità, né tale criterio potrebbe
dirsi temperato dal riferimento alla complessità e
difficoltà dei problemi tecnici implicati nel singolo
affare, la cui valutazione richiede competenze professionali
delle quali il Comune, proprio perché ha bisogno di
affidarsi all’opera di professionisti, evidentemente non
dispone; vaghi e inutilizzabili, come correttivo al criterio
del prezzo più basso, sarebbero poi i riferimenti
all’adeguatezza del compenso offerto all’importanza
dell’attività e al decoro professionale; altrettanto
generici e non oggettivi sarebbero infine i criteri
individuati nell’avviso per l’iscrizione dei professionisti
in uno o più settori dell’elenco dal quale attingere per il
conferimento degli incarichi.
All’udienza del 17.10.2017 il Collegio ha trattenuto il
ricorso in decisione.
1. Sussistono la legittimazione e l’interesse ad agire dei
ricorrenti.
1.1. Sotto il primo profilo la Camera amministrativa e i
suoi organi hanno titolo ad impugnare l’avviso pubblico in
epigrafe in quanto portatori degli interessi coinvolti
nell’affidamento di incarichi professionali sulla base della
maggiore specializzazione settoriale degli avvocati che
aspirano ad essere iscritti alla sezione degli avvocati amministrativisti.
1.2. Sotto il secondo profilo sussiste l’interesse ad
impugnare l’avviso pubblico in quanto gli elenchi
eventualmente formati, seppure venuti a scadenza nelle more
del giudizio dopo dodici mesi dalla formazione, sono
soggetti ad aggiornamento e rinnovo che postulano per loro
natura la conservazione, in qualche misura, degli effetti
della prima iscrizione.
2. Nel merito ha rilievo il fatto che la procedura oggetto
di avviso pubblico ha ad oggetto singoli incarichi di difesa
in giudizio.
2.1.- Ciò stante, non è soggetta alla disciplina del codice
dei contratti pubblici vigente ratione temporis
distinguendosi dai servizi legali di cui all’allegato II B
sub 21 del decreto legislativo n. 163 del 12.04.2006, il cui
affidamento segue le regole prescritte dagli articoli 20 e
21 dello stesso decreto legislativo.
L’orientamento maggioritario della giurisprudenza ritiene
infatti che il conferimento del singolo incarico episodico,
legato alla necessità contingente, non costituisce appalto
di servizi legali, ma integra un contratto d’opera
intellettuale incompatibile con la specifica disciplina
codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica e
con la stessa procedura dettata per i contratti esclusi
dall’art. 27 del d.lgs. n. 163/2006, in ragione del fatto
che l’assunzione della difesa di parte in sede processuale è
caratterizzata dall’aleatorietà del giudizio, dalla non
predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e
sostanziali delle prestazioni e dalla conseguente assenza di
basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di
valutazione necessari secondo la disciplina recata dal
codice dei contratti pubblici.
2.2.- Cionondimeno, venendo in rilevo atti di disposizione
di risorse pubbliche, l’attività di selezione del difensore
dell’ente pubblico, pur non essendo soggetta all’obbligo di
espletamento di una procedura comparativa di stampo
concorsuale, deve essere condotta nel rispetto dei principi
generali dell’azione amministrativa in materia di
imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione, onde
rendere possibile la decifrazione della congruità della
scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di
difesa da soddisfare (in termini Consiglio di Stato
2730/2012; TAR Reggio Calabria n. 38/2016, contra, fra le
altre, TAR Lazio, Latina, sez. I, 20.07.2011, n. 604).
La necessità di controllo dell’azione amministrativa, insita
nel richiamo ai predetti principi, e la natura fiduciaria,
tendenzialmente insindacabile, dell’incarico di assistenza e
rappresentanza legale trovano sintesi nel disposto dell’art.
7 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, specificamente
dettato per attività di prestazione d’opera di cui si
riporta uno stralcio, per quanto di interesse: “Fermo
restando quanto previsto dal comma 5-bis, per specifiche
esigenze, cui non possono far fronte con personale in
servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire
esclusivamente incarichi individuali, con contratti di
lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata
specializzazione anche universitaria, in presenza dei
seguenti presupposti di legittimità:
[…]
d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto
e compenso della collaborazione.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione
universitaria in caso di stipulazione di contratti di
collaborazione [di natura occasionale o coordinata e
continuativa] per attività che debbano essere svolte da
professionisti iscritti in ordini o albi […]”.
Il riferimento alla specializzazione dell’esperto, che deve
essere comprovata e non solo supposta sulla base
dell’appartenenza ad una categoria professionale o del
possesso di un titolo di studio, dà conto dell’esigenza di
una puntuale motivazione delle ragioni concrete che inducono
l’Amministrazione conferente a scegliere la collaborazione
di uno fra più esperti perché ritenuto maggiormente
affidabile in relazione alla durata e all’oggetto e compenso
della collaborazione.
Si tratta, come è evidente, di una procedura selettiva
assimilabile a quella prescritta dall’art. 97 della
Costituzione per l’accesso ai pubblici impieghi, che
richiede una selezione sulla base di criteri predeterminati,
oggettivi e “ripetibili” in sede di controllo
dell’iter motivazionale.
Nel caso in decisione, tuttavia, appare evidente che i
criteri individuati dal bando presentino una tale genericità
da rendere plausibile il rilievo che –di fatto- la selezione
sarebbe fondata sull’individuazione dell’offerta più bassa;
ciò è chiaramente in contrasto con la tutela dell’interesse
pubblico che la predeterminazioni di criteri certi ed
obiettivi si proporrebbe di tutelare.
Ed invero, la richiesta specializzazione degli avvocati
appare solo un criterio di orientamento dell’iscrizione
nelle sezioni distinte per materie, mentre l’incarico
verrebbe conferito sulla base del compenso richiesto,
rispetto al quale il temperamento dell’adeguatezza
all’importanza dell’attività e al decoro della professione
appare irrimediabilmente generico. L’avviso non specifica
infatti quali sono, ai fini del controllo di adeguatezza del
compenso, i criteri di misurazione dell’importanza
dell’attività e il limite superato il quale un compenso
potrebbe essere giudicato non rispettoso del decoro della
professione; con l’effetto che l’unico giudizio del Comune
suscettibile di un sindacato di legittimità, sarebbe quello
che, stante il principio di economicità, lo obbligherebbe a
scegliere l’offerta al prezzo più basso in contrasto con la
natura fiduciaria dell’incarico e i parametri indicati
dall’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001.
Anche i criteri fissati per l’iscrizione degli avvocati
negli elenchi di settore, dai quali si sarebbe dovuto
attingere per il conferimento degli incarichi pertinenti per
materia, appaiono generici. Stabilire che l’iscrizione è
determinata dalle specifiche competenze professionali
acquisite con riguardo alle esperienze professionali
maturate o alla partecipazione a corsi professionali, stages
e convegni su materie inerenti alla sezione per la quale è
chiesta l’iscrizione, non soddisfa il requisito di
oggettività dei criteri che devono presiedere alle selezioni
pubbliche.
È noto infatti che le materie inerenti al diritto civile
vengono in rilevo in tutti i contenziosi, non solo quelli
davanti all’autorità giudiziaria ordinaria e altrettanto può
dirsi per le altre discipline giuridiche che identificano le
sezioni dell’elenco dal quale attingere per il conferimento
degli incarichi; sicché il criterio dell’esperienza
professionale maturata, proprio perché non è univoco in
astratto, potrebbe -in concreto- favorire scelte arbitrarie.
Le stesse considerazioni valgono per la partecipazione a
convegni che, sovente, hanno contenuto multidisciplinare.
3.- Devono pertanto essere accolte le censure di falsa
applicazione del d.lgs. n. 163/2006, di violazione dell’art.
97 della Costituzione (del quale l’art. 7 del d.lgs. n.
165/2001 costituisce attuazione) e di eccesso di potere
sotto il profilo dello sviamento.
Conseguentemente il ricorso, assorbite le questioni non
trattate, deve essere accolto.
Le spese possono essere compensate registrandosi in materia
orientamenti non univoci della giurisprudenza. |
APPALTI:
Mancata previsione della clausola di esecuzione del Piano
finanziario: rapporto tra eterointegrazione e principio di
affidamento nelle concessioni.
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Contatti della pubblica amministrazione - Concessione –
Clausola esecuzione Piano finanziario – Art. 171, comma 3,
lett. b, d.lgs. n. 50 del 2016 – Omessa previsione –
Conseguenza Lex specialis di gara - rapporto tra
eterointegrazione e principio di affidamento.
La mancata previsione, nella lex
specialis di gara, della clausola di cui all’art. 171, comma
3, lett. b, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (relativa all’obbligo,
da parte dell’offerente, di eseguire il Piano finanziario)
non incida sulla validità della procedura, producendosi
quella forma di etero integrazione della lex specialis
pacificamente ammessa e che permette, grazie al principio di
conservazione, di colmarne le lacune del regolamento della
selezione attraverso la diretta applicazione delle clausole
previste dalla legge, con la conseguenza che la legge di
gara resta integrata dalle previsioni delle norme e non
potrà essere dichiarata illegittima in ragione della mancata
menzione delle clausole di legge anche se escludenti (1).
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(1) Ad avviso del Tar
tale integrazione ab externo della legge di gara
determina una qualche tensione con l’ulteriore principio
dell’affidamento in base al quale gli operatori economici
che partecipano ad una pubblica selezione devono poter
contare sulla chiarezza e completezza delle regole di
partecipazione. Al riguardo la Corte di Giustizia (sez. VI,
10.11.2016 - C-162/16, in particolare punto 32), con
riferimento alla nota questione relativa alle conseguenze
della mancata indicazione da parte dei candidati degli oneri
della sicurezza, ha individuato un punto di equilibrio tra
condizioni di partecipazione e tutela dell’affidamento,
affermando che il principio della parità di trattamento e
l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva
2004/18, devono essere interpretati nel senso che ostano
all’esclusione di un offerente dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti. In sostanza la Corte ha
stabilito che l’esclusione del partecipante ad una procedura
di affidamento può essere comminata allorché l’obbligo
rimasto inosservato sia chiaramente statuito dalla legge di
gara ovvero “dalla normativa nazionale”.
Ha aggiunto il Tar che nel caso sottoposto al suo esame, se
è vero che la previsione della dichiarazione di impegno
all’osservanza del piano finanziario è espressamente e
chiaramente sancita dall’art. 171, comma 1, lett. c), del
codice dei contratti, ma è altresì vero che il piano
finanziario costituiva parte integrante dell’offerta e che
pertanto l’impegno vincolante all’osservanza del piano
stesso sorgeva di diritto in base al generale meccanismo
dell’incontro tra proposta e accettazione e che, in ogni
caso, l’obbligo espressamente assunto dalla
controinteressata di adempiere a quanto sancito dal
capitolato d’oneri implicava anche la necessaria osservanza
di quelli previsti nel Piano finanziario, in quanto
richiamati sostanzialmente all’art. 4 del capitolato stesso.
In altri termini, sia in base ai principi civilistici sul
perfezionamento del contratto (scambio tra invito ad
offrire/proposta che replica il meccanismo legge di
gara/offerta) sia in relazione alle specifiche previsioni
della lex specialis (Capitolato d’oneri richiamato
dalla dichiarazione degli offerenti), l’aggiudicataria
poteva vantare un sufficiente affidamento in ordine alla
circostanza di aver assunto l’impegno definitivo al rispetto
del piano finanziario prodotto, con la conseguenza che, in
assenza di una chiara prescrizione in tal senso nella legge
di gara, una specifica assunzione di obblighi sul punto
avrebbe potuto ragionevolmente essere considerata ultronea
ovvero formalistica.
Si vuol dire che l’affidamento dell’aggiudicataria risiede
nel caso di specie nell’evidente sussistenza di un obbligo
di rispettare gli impegni assunti nel progetto presentato a
corredo della propria offerta, con la conseguenza che un
ulteriore dichiarazione in tal senso avrebbe avuto carattere
solo formale e, pertanto, la circostanza che l’obbligo di
renderla non fosse sancito dalla
lex
specialis può
ragionevolmente aver fondato l’affidamento sulla
inessenzialità della stessa da parte dell’aggiudicataria (TAR
Molise,
sentenza 11.12.2017 n. 520
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
IV) Con il quarto motivo, parte ricorrente formula in via
subordinata la domanda di annullamento dell’intera procedura
selettiva per non aver incluso nella lex specialis di gara
la clausola di cui all’art. 171, co. 3, lett. b), del d.lgs.
n. 50/2016 secondo cui la concessione è vincolata alla piena
attuazione del piano finanziario e al rispetto dei tempi
previsti dallo stesso per la realizzazione degli
investimenti in opere pubbliche e che l'offerta deve
espressamente contenere, a pena di esclusione, l’espresso
impegno in tal senso del partecipante.
Anche a voler
prescindere da tale vizio inficiante l’intera procedura,
prosegue l’Associazione Campobasso, l’aggiudicataria avrebbe
dovuto essere esclusa per non aver reso la predetta
dichiarazione di impegno.
Il motivo è infondato sotto entrambi i profili di censura.
Preliminarmente il Collegio rileva che la concessione
oggetto del presente giudizio ha natura economica, non
essendo dubbio che l’attività di gestione dell’impianto
sportivo avvenga con metodo economico ovvero con tendenziale
rimunerazione dei fattori produttivi, ne consegue
l’applicabilità, ai sensi dell’art. 164 del codice dei
contratti, delle norme dettate dalla Parte III, Titolo I,
Capo I del codice dei contratti, che esclude solo le
concessioni di servizi “non economici”.
Ciò posto, ritiene il Collegio che la mancata previsione
della clausola di cui all’art. 171, co. 3, lett. b), del
codice dei contratti non incida sulla validità della
procedura, producendosi quella forma di etero integrazione
della lex specialis pacificamente ammessa e che
permette, grazie al principio di conservazione, di colmarne
le lacune del regolamento della selezione attraverso la
diretta applicazione delle clausole previste dalla legge,
con la conseguenza che la legge di gara resta integrata
dalle previsioni delle norme e non potrà essere dichiarata
illegittima in ragione della mancata menzione delle clausole
di legge anche se escludenti.
E’ chiaro che tale integrazione ab externo della
legge di gara determina una qualche tensione con l’ulteriore
principio dell’affidamento in base al quale gli operatori
economici che partecipano ad una pubblica selezione devono
poter contare sulla chiarezza e completezza delle regole di
partecipazione.
Al riguardo la Corte di Giustizia, con riferimento alla nota
questione relativa alle conseguenze della mancata
indicazione da parte dei candidati degli oneri della
sicurezza, ha individuato un punto di equilibrio tra
condizioni di partecipazione e tutela dell’affidamento,
affermando che: <<il principio della parità di
trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla
direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che
ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti>> (cfr. Corte di
Giustizia CE, Sez. 6, 10.11.2016 - C-162/16, in particolare
punto 32).
In sostanza la Corte ha stabilito che l’esclusione del
partecipante ad una procedura di affidamento può essere
comminata allorché l’obbligo rimasto inosservato sia
chiaramente statuito dalla legge di gara ovvero “dalla
normativa nazionale”.
Ora, venendo al caso de quo, è pur
vero che la previsione della dichiarazione di impegno
all’osservanza del piano finanziario è espressamente e
chiaramente sancita dall’art. 171, co. 1 lett. c), del
codice dei contratti, ma è altresì vero che il piano
finanziario costituiva parte integrante dell’offerta e che
pertanto l’impegno vincolante all’osservanza del piano
stesso sorgeva di diritto in base al generale meccanismo
dell’incontro tra proposta e accettazione e che, in ogni
caso, l’obbligo espressamente assunto dalla
controinteressata di adempiere a quanto sancito dal
capitolato d’oneri implicava anche la necessaria osservanza
di quelli previsti nel Piano finanziario, in quanto
richiamati sostanzialmente all’art. 4 del capitolato stesso.
In altri termini, sia in base ai principi civilistici sul
perfezionamento del contratto (scambio tra invito ad
offrire/proposta che replica il meccanismo legge di
gara/offerta) sia in relazione alle specifiche previsioni
della lex specialis (Capitolato d’oneri richiamato
dalla dichiarazione degli offerenti), l’aggiudicataria
poteva vantare un sufficiente affidamento in ordine alla
circostanza di aver assunto l’impegno definitivo al rispetto
del piano finanziario prodotto, con la conseguenza che, in
assenza di una chiara prescrizione in tal senso nella legge
di gara, una specifica assunzione di obblighi sul punto
avrebbe potuto ragionevolmente essere considerata ultronea
ovvero formalistica.
Si vuol dire che l’affidamento dell’aggiudicataria risiede
nel caso di specie nell’evidente sussistenza di un obbligo
di rispettare gli impegni assunti nel progetto presentato a
corredo della propria offerta, con la conseguenza che un
ulteriore dichiarazione in tal senso avrebbe avuto carattere
solo formale e, pertanto, la circostanza che l’obbligo di
renderla non fosse sancito dalla lex specialis può
ragionevolmente aver fondato l’affidamento sulla
inessenzialità della stessa da parte dell’aggiudicataria.
Del resto, che questa sia la corretta conclusione lo
dimostra lo stesso contratto di concessione da ultimo
depositato in giudizio che, all’art. 4, ribadisce l’obbligo
del concessionario di attenersi agli obblighi assunti con il
progetto presentato in sede di partecipazione, ciò che rende
all’evidenza inutile anche richiedere in questa fase la
dichiarazione in questione, avendo l’aggiudicataria in tal
modo già sottoscritto a tutti gli effetti la dichiarazione
prescritta dal ripetuto articolo 171, co. 1, lett. b), del
codice dei contratti. |
APPALTI:
Si deve richiamare il
costante orientamento della giurisprudenza amministrativa
che, con riguardo alla valutazione di congruità delle
offerte anomale, ha ritenuto che essa sia connotata da
discrezionalità tecnica della stazione appaltante e che
possa formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei
limiti della manifesta illogicità, irragionevolezza ed
errore nei presupposti di fatto.
La giurisprudenza afferma,
inoltre, che la motivazione della commissione di gara deve
essere rigorosa solo in caso di esito negativo, mentre in
caso di valutazione di congruità è ritenuta sufficiente una
motivazione per relationem alle giustificazioni presentate
dall’impresa.
Il giudizio sull'anomalia dell'offerta ha, infatti, natura
globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel
suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali
singole voci di scostamento; tale giudizio non ha per
oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad
accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile.
---------------
Il primo e il
secondo motivo, per l’obiettiva connessione oggettiva
fra gli stessi, possono esaminarsi congiuntamente. Con essi
parte ricorrente lamenta l’inattendibilità dell’offerta per
essere fondata su previsioni irrealistiche di ricavi e di
costi, rispettivamente, in eccesso e in difetto. In ogni
caso il progetto non garantirebbe nell’arco dei 9 anni di
durata della concessione, il rientro dagli investimenti e
dalle ingenti spese sostenute.
I motivi non meritano favorevole considerazione alla stregua
dei seguenti rilievi.
Si deve richiamare, anche in questa sede di merito, il
costante orientamento della giurisprudenza amministrativa
che, con riguardo alla valutazione di congruità delle
offerte anomale, ha ritenuto che essa sia connotata da
discrezionalità tecnica della stazione appaltante e che
possa formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei
limiti della manifesta illogicità, irragionevolezza ed
errore nei presupposti di fatto. La giurisprudenza afferma,
inoltre, che la motivazione della commissione di gara deve
essere rigorosa solo in caso di esito negativo, mentre in
caso di valutazione di congruità è ritenuta sufficiente una
motivazione per relationem alle giustificazioni
presentate dall’impresa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V,
27.07.2017, n. 3702).
Il giudizio sull'anomalia dell'offerta ha, infatti, natura
globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel
suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali
singole voci di scostamento; tale giudizio non ha per
oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad
accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.05.2017, n. 2319; III,
25.11.2016, n. 4990).
Peraltro i principi appena richiamati sono stati elaborati
con riguardo alla valutazione delle offerte anomale, mentre
nella fattispecie oggetto di causa non si fa questione di un
giudizio di congruità, atteso che non sussistono i
presupposti per qualificare anomala l’offerta proposta
dall’aggiudicataria (né ciò è contestato), con la
conseguenza che i margini entro cui sindacare in sede
giurisdizionale la valutazione sul progetto operata dalla
stazione appaltante devono considerarsi ancora più
ristretti, trattandosi di un diretto sindacato sull’offerta
in assenza di una previa valutazione di anomalia.
In ogni caso, pur attestandosi ai noti limiti ravvisati
dalla dominante giurisprudenza amministrativa in materia di
valutazione sulla congruità delle offerte anomale, nel caso
di specie non si potrebbe comunque pervenire ad un giudizio
di insostenibilità dell’offerta proposta dalla
controinteressata, atteso che, anche prendendo per buona la
relazione tecnica prodotta da parte ricorrente, i ravvisati
errori del piano economico presentato dall’aggiudicataria
non inciderebbero in modo sostanziale sulla rimuneratività
dell’offerta; sicché, quand’anche si correggessero le cifre
nel senso indicato dalla Associazione Campobasso, si
perverrebbe solo ad una riduzione dell’utile di gestione,
mentre l’offerta conserverebbe l’equilibrio economico, in
linea con quanto prescritto dall’art. 165, co. 2, del codice
dei contratti.
Stesso discorso vale per le stime sui ricavi che, secondo
quanto evidenziato nella relazione di parte ricorrente, si
fondano su un utilizzo previsto degli impianti sportivi di
tipo prudenziale e che non coincide con il pieno impiego,
con una previsione che ha, quindi, obiettivi margini di
verosimiglianza.
Peraltro, il termine di paragone che parte ricorrente
ravvisa nei costi da essa sostenuti e dai ricavi conseguiti
negli anni in cui ha gestito l’impianto non possono
costituire un riferimento obbligato, ben potendo le
alternative soluzioni gestionali prospettate
dall’aggiudicataria consentire una gestione potenzialmente
più efficiente e improntata quindi ad un incremento dei
ricavi e ad una riduzione dei costi, che non paiono
manifestamente abnormi o fondati su assunti irragionevoli e
rimangono, quindi, incensurabili
(TAR Molise,
sentenza 11.12.2017 n. 520
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Gare,
raggruppamenti secondo le competenze.
Verticale ok se indicata la prestazione.
Il raggruppamento temporaneo di imprese di
tipo verticale può essere costituito
soltanto se la stazione appaltante ha
individuato quali siano le prestazioni
principali dell'appalto.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 07.12.2017 n. 5772
che prende in esame alcuni
profili della disciplina dei raggruppamenti
temporanei di imprese di tipo verticale.
La sentenza parte dalla considerazione che
il tratto peculiare delle due tipologie di
raggruppamenti (verticali e orizzontali)
poggia sul contenuto delle competenze
portate da ciascuna impresa raggruppata ai
fini della qualificazione a una determinata
gara.
In linea generale, nel raggruppamento
orizzontale le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime
competenze (in percentuale) per l'esecuzione
delle prestazioni costituenti l'oggetto
dell'appalto, mentre nel raggruppamento
verticale l'impresa mandataria apporta
competenze incentrate sulla prestazione
prevalente, diverse da quelle delle
mandanti. Quindi nel raggruppamento di tipo
verticale un'impresa, ordinariamente capace
per la prestazione prevalente, si associa ad
altre imprese provviste della capacità per
le prestazioni secondarie scorporabili.
Il Consiglio di stato ha precisato che è
possibile dar vita a raggruppamenti di tipo
verticale (o, più correttamente, di
ammetterli a una gara) solo laddove la
stazione appaltante abbia preventivamente
individuato negli atti di gara, con
chiarezza, le prestazioni principali e
quelle secondarie.
In tale senso l'Adunanza
plenaria di palazzo Spada (pronuncia n. 22
del 13.06.2012) aveva anche ritenuto
illegittimo che fosse il concorrente stesso
a individuare quale fosse la prestazione
principale: «è precluso al partecipante alla
gara procedere di sua iniziativa alla
scomposizione del contenuto della
prestazione, distinguendo fra prestazioni
principali e secondarie, onde ripartirle
all'interno di un raggruppamento di tipo
verticale» e ciò in ragione della disciplina
legale della responsabilità delle imprese
riunite in associazione temporanea, elemento
che giustifica l'attribuzione alla sola
amministrazione dell'individuazione delle
prestazioni principali
(articolo ItaliaOggi del
15.12.11.2017). |
LAVORI PUBBLICI:
Condizione per ammettere alla gara i Raggruppamenti di tipo
verticale.
---------------
Contratti della
Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di
imprese – Raggruppamenti di tipo verticale – Ammissione alla
gara – Condizione – Individuazione nella lex specialis di
prestazioni “principali” e “secondarie”.
La distinzione tra Ati orizzontali e
Ati verticali poggia sul contenuto delle competenze portate
da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione
a una determinata gara: in linea generale, l’Ati orizzontale
è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o
associande) sono portatrici delle medesime competenze per
l’esecuzione delle prestazioni costituenti l’oggetto
dell’appalto, mentre l’Ati verticale è connotata dalla
circostanza che l’impresa mandataria apporta competenze
incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle
delle mandanti, le quali possono avere competenze
differenziate anche tra di loro, sicché nell’Ati di tipo
verticale un’impresa, ordinariamente capace per la
prestazione prevalente, si associa ad altre imprese
provviste della capacità per le prestazioni secondarie
scorporabili; ne consegue che è possibile dar vita a
raggruppamenti di tipo verticale (o, più correttamente, di
ammetterli ad una gara) solo laddove la stazione appaltante
abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con
chiarezza, le prestazioni “principali” e quelle “secondarie”
(1).
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(1)
Cons. St., A.P., 13.06.2012, n. 22.
Ad avviso della Sezione (che richiama in termini
Cons. St., sez. III, 09.05.2012, n. 2689), è,
infatti, precluso al partecipante alla gara procedere di sua
iniziativa alla scomposizione del contenuto della
prestazione, distinguendo fra prestazioni principali e
secondarie, onde ripartirle all’interno di un raggruppamento
di tipo verticale.
Tale divieto si giustifica in ragione della disciplina
legale della responsabilità delle imprese riunite in
associazione temporanea, ai sensi dell’art. 48, comma 5,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, posto che “per i raggruppamenti
verticali, […] la responsabilità dei concorrenti che si
fanno carico delle parti secondarie del servizio è
circoscritta all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva
competenza, talché non pare possibile rimettere alla loro
libera scelta l’individuazione delle prestazioni principali
e di quelle secondarie (attraverso l’indicazione della parte
del servizio di competenza di ciascuno) e la conseguente
elusione della norma in materia di responsabilità solidale,
in assenza di apposita previsione del bando di gara” (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 07.12.2017 n. 5772 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come chiarito dalla Giurisprudenza, al fine di
verificare se una determinata opera abbia carattere
precario, che è condizione per l'accertamento della non
necessarietà del rilascio del relativo permesso di
costruire, occorre verificare la destinazione funzionale e
l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata;
pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali
a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea,
destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo,
entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di
carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il
permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va
valutata con riferimento non alle modalità costruttive,
bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza
che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante.
In sostanza, la precarietà del manufatto, che ne
giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo
sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il
manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce
dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale
dell'opera.
---------------
La società Le.Ca. s.r.l. nel 1997 ottenne dal comune di
Dozza un’autorizzazione provvisoria per installare nell’area
di proprietà box prefabbricati contenenti i servizi igienici
a servizio dello stabilimento.
I vicini La.-Co. hanno impugnato tale autorizzazione con un
primo ricorso al TAR Bologna, lamentando la violazione delle
distanze dal confine e dall’abitazione di loro proprietà.
A distanza di pochi mesi il comune rilasciò una concessione
44/1997 per ristrutturare il complesso costruendo servizi
igienici e strutture di supporto all’attività produttiva al
posto dei box.
I vicini hanno impugnato tale titolo edilizio con un secondo
ricorso.
Il Tar felsineo, riuniti i gravami, con la sentenza in
epigrafe indicata ha: a) dichiarato il primo ricorso
improcedibile b) accolto il secondo ricorso, annullando la
concessione.
A sostegno del decisum il Tribunale ha osservato che
l’opera assentita: a) viola le distanze dal confine e dalla
proprietà altrui b) aumenta la cubatura il che è
incompatibile con la nozione di ristrutturazione c) era
stata autorizzata sulla base di una falsa rappresentazione
delle preesistenze.
La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello oggi
all’esame dalla soccombente che ne ha chiesto l’integrale
riforma.
...
L’appello non è fondato e va pertanto respinto con integrale
conferma della sentenza gravata.
Con la prima parte dell’unico motivo di impugnazione
l’appellante sostiene che in realtà oggetto
dell’autorizzazione ( prima) e della concessione ( poi) sono
i medesimi box prefabbricati sin dall’inizio deputati ad
ospitare i servizi igienici dello stabilimento.
Trattasi di strutture facilmente amovibili, in quanto non
ancorate stabilmente al suolo, e che pertanto potevano
essere installate senza la previa acquisizione di un titolo
edilizio: solo per esigenze di semplificazione la società si
è riferita a tali strutture nella domanda volta ad ottenere
la concessione per la ristrutturazione del complesso
aziendale.
Il mezzo è destituito di ogni fondamento.
Come chiarito dalla Giurisprudenza, al fine di verificare se
una determinata opera abbia carattere precario, che è
condizione per l'accertamento della non necessarietà del
rilascio del relativo permesso di costruire, occorre
verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale
al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le
opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una
esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo
il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza
l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e,
in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va
valutata con riferimento non alle modalità costruttive,
bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza
che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze
meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione
perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio
non può essere considerata temporanea, precaria o
irrilevante.
In sostanza, la precarietà del manufatto, che ne
giustificherebbe il non assoggettamento a concessione
edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo
sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il
manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce
dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale
dell'opera (cfr. ex multis III Sez. n. 4850 del
2013).
Nel caso all’esame i box in questione ospitano tra l’altro i
servizi igienici dello stabilimento (i quali per legge
devono essere esterni agli spazi di lavorazione) e pertanto
è semplicemente irrealistico predicarne la precarietà
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.12.2017 n. 5762 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In
linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del
DM 1444/1968, atteso che quest’ultimo, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge
06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non
possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di
conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968,
essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili,
e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di
impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla
fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario, il
quale peraltro si basava su una presunta natura non
direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel
d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la
ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente ammette la
disapplicazione da parte del giudice amministrativo
dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato,
non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche
in via più generale estesa alla giurisdizione generale di
legittimità.
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4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito precisati,
onde in riforma della sentenza gravata deve essere accolto
il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità
dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e
quindi del primo motivo del ricorso in primo grado, deve
ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza di
questa Sezione (cfr. n. 5322 del 04.08.2016): “…in
linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti
urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del
citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato
emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge
06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non
possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali
(cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di
conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968,
essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili
esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili,
e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite
minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di
impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua
automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla
fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno
strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il
precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il
quale peraltro si basava su una presunta natura non
direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel
d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la
ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo
generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro
disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti
appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si
condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice
amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché
non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione
esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla
giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 03.02.2015, nr. 515)”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del
ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo
stata comunque sollecitata da parte ricorrente la
disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui
ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta
dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in
punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il
predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo
motivo del ricorso in primo grado (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 07.12.2017 n. 5753 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Via,
il verbale è standard. Un solo schema per le
contestazioni ambientali. In arrivo un
decreto del ministro dell'ambiente. Tre le
sanzioni previste.
In arrivo uno schema unico per i verbali di
accertamento e contestazione in materia di
Via (Valutazione di impatto ambientale).
L'autorità competente procederà secondo la
gravità delle infrazioni:
- alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere
eliminate le inosservanze;
- alla diffida con contestuale sospensione dell'attività per un
tempo determinato, ove si manifesti il
rischio di impatti ambientali negativi;
- e, infine, alla revoca del provvedimento di verifica di
assoggettabilità a Via, in caso di mancato
adeguamento alle prescrizioni imposte con la
diffida.
È con il
parere
06.12.2017 n. 2554 che il Consiglio
di Stato, Sez. consultiva, ha espresso il
suo giudizio positivo sullo schema di
decreto del ministro dell'ambiente sulla
«Schema di decreto del Ministro
dell’ambiente e della tutela del territorio
e del mare recante la “Definizione dei
contenuti minimi e i formati dei verbali di
accertamento, contestazione e notificazione
dei procedimenti di cui all’articolo 29 del
decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, come
modificato dall’articolo 18 del decreto
legislativo 16.06.2017, n. 104”». Il decreto è attuativo dell'articolo
29 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152, come modificato dall'articolo 18 del
decreto legislativo 16.06.2017, n. 104.
Obiettivo della norma. L'obiettivo
dell'intervento normativo consiste
nell'agevolare l'azione di accertamento
delle violazioni attraverso l'utilizzo di
contenuti minimi e formati standardizzati.
Il decreto punta anche a limitare,
conseguentemente, la discrezionalità
nell'operato dell'autorità preposta ad
accertare inadempimenti o violazioni della
specifica normativa sulla valutazione
dell'impatto ambientale, garantendone
l'uniformità attraverso la previsione di
contenuti minimi per i verbali prima
ricordati. E imponendo l'applicazione di
specifici formati per la redazione degli
stessi.
Contenuti minimi del verbale. Due gli
allegati al decreto. In particolare,
l'allegato 1 reca i contenuti minimi dei
verbali di accertamento, contestazione e
notificazione relativi ai procedimenti per
le violazioni amministrative in materia di
Via. Esso indica nella specie alcuni dei
seguenti contenuti minimi:
- identificazione del verbale;
- identificazione del trasgressore e dell'obbligato in solido;
- indicazione dei casi di trasgressione previsti dalla normativa
vigente;
- descrizione dettagliata della violazione;
- indicazione delle specifiche norme violate;
- indicazione delle singole attività di accertamento ambientale;
- indicazione del momento e delle circostanze in cui è stata
eseguita la contestazione;
- indicazione delle modalità della notificazione al trasgressore
e/o all'obbligato in solido;
- indicazione dell'autorità competente;
- indicazione dell'importo minimo e massimo della sanzione
pecuniaria e delle modalità di pagamento;
- indicazione delle modalità e dei termini per la presentazione di
scritti difensivi;
- indicazione delle spese del procedimento in caso di emissione di
ordinanza-ingiunzione;
- indicazione delle eventuali dichiarazioni del trasgressore cui la
violazione viene contestata;
- «avvertenze» sulla redazione, le copie e l'invio del verbale;
- indicazione della autorità competente, cui il trasgressore deve
fare riferimento per il seguito del
procedimento;
- indicazione del responsabile del procedimento;
- indicazione dei verbalizzanti;
- l'indicazione dei dati della (eventuale) relazione di notifica
effettuata a mezzo postale.
L'allegato 2 contiene invece lo
schema-format del verbale di accertamento e
contestazione, recante le relative
«Avvertenze» poste a tergo
(articolo ItaliaOggi del
15.12.2017). |
APPALTI: Responsabilità
solidale ampia. Consulta: scatta anche in
caso di subfornitura.
La responsabilità solidale del committente
per i crediti contributivi e retributivi
scatta anche in caso di subfornitura e non
solo in presenza di subappalto; prevale una
lettura estensiva della norma che è
costituzionalmente orientata e, perciò,
legittima.
Così la Corte Costituzionale con la
sentenza 06.12.2017 n.
254 sul giudizio di legittimità
dell'art. 29, comma 2, del dlgs 276/2003
(attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui
alla legge 14.02.2003, n. 30),
promosso dalla Corte di appello di Venezia
in riferimento agli art. 3 e 36 della
Costituzione.
La vicenda vedeva una stazione
appaltante condannata al pagamento di
retribuzioni non corrisposte dall'impresa
(sua) subfornitrice, ai lavoratori di
quest'ultima. Nel ricorso era stata
sollevata la questione incidentale di
legittimità costituzionale della norma,
applicata dal primo giudice, di cui all'art.
29, comma 2, del dlgs 276/2003, la quale
stabilisce che «in caso di appalto di opere
o di servizi, il committente imprenditore o
datore di lavoro è obbligato in solido con
l'appaltatore, nonché con ciascuno degli
eventuali subappaltatori a corrispondere ai
lavoratori i trattamenti retributivi in
relazione al periodo di esecuzione del
contratto di appalto».
Il punto che veniva
posto era che la norma non dovesse essere
applicata oltre i casi espressamente
previsti (appalto e subappalto) e quindi non
in caso di subfornitura; in sostanza, la
fattispecie contrattuale (subfornitura) non
poteva essere ricondotta nell'ambito di
applicazione della legge (subfornitura è
cosa diversa da subappalto).
La Corte, nel
ritenere infondata la questione di
legittimità offre una lettura ampia della
norma e tale da ricomprendere nel suo alveo
anche forme contrattuali non del tutto
omogenee rispetto a quelle contemplate dalla
norma; ciò nonostante dottrina e
giurisprudenza di merito siano divise sulla
configurazione giuridica e sul più corretto
inquadramento sistematico del contratto di
subfornitura (autonomia o meno dal contratto
di appalto). La Corte evidenzia che,
nonostante i diversi orientamenti, in ogni
caso emerge sempre una apertura
all'estensione della responsabilità solidale
del committente ai crediti di lavoro dei
dipendenti del subfornitore che «costituisce
naturale corollario della tesi che configura
la subfornitura come «sottotipo»
dell'appalto e, a maggior ragione, di quella
che sostanzialmente equipara i due negozi».
I giudici precisano che «la ratio
dell'introduzione della responsabilità
solidale del committente, che è quella di
evitare il rischio che i meccanismi di
decentramento, e di dissociazione fra
titolarità del contratto di lavoro e
utilizzazione della prestazione, vadano a
danno dei lavoratori utilizzati
nell'esecuzione del contratto commerciale,
non giustifica una esclusione (che si
porrebbe, altrimenti, in contrasto con il
precetto dell'art. 3 Cost.) della
predisposta garanzia nei confronti dei
dipendenti del subfornitore, atteso che la
tutela del soggetto che assicura una
attività lavorativa indiretta non può non
estendersi a tutti i livelli del
decentramento».
Occorre porsi, infatti,
nella logica della necessaria «tutela dei
dipendenti dell'impresa subfornitrice, in
ragione della strutturale debolezza del loro
datore di lavoro, tutele sarebbero da
considerare ancora più intense e
imprescindibili che non nel caso di un
normale appalto»
(articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedo
disabili anche solo per la notte.
Non compie alcuna irregolarità il lavoratore
che beneficia di un congedo straordinario
retribuito per prendersi cura di un
familiare disabile se concentra la sua
assistenza al malato nelle ore notturne,
facendosi aiutare da altri durante la
giornata.
Lo si evince dalla
sentenza 05.12.2017 n. 29062 con cui
la Sez. lavoro della Corte di Cassazione ha
confermato l'illegittimità del licenziamento
di un uomo, riconoscendogli anche il diritto
a essere reintegrato in azienda, il quale,
durante indagini fatte eseguire dal datore
di lavoro, era stato visto per diversi
giorni presso la sua abitazione e non a casa
della madre disabile grave, dove aveva
spostato la residenza per assisterla durante
il periodo di congedo (due anni) dal lavoro.
Il dipendente si era difeso sottolineando di
aver prestato alla madre un'assistenza
notturna, dato che la donna aveva
manifestato «tendenza alla fuga, insonnia
notturna e tratti di ipersonnia diurna» per
cui vi era stata la necessità per il figlio
di restare sveglio tutta la notte per
evitare «possibili fughe» che già in passato
si erano verificate.
La società datrice di
lavoro aveva però emesso un provvedimento di
licenziamento disciplinare a carico
dell'uomo evidenziando invece che
«l'assistenza, per essere adeguata» a quanto
previsto dalla legge sul congedo «avrebbe
dovuto essere prestata in via principale e
privilegiata» dal dipendente «e solo in via
residuale da altre persone».
Già il tribunale in primo grado aveva
dichiarato l'illegittimità del licenziamento
disponendo la reintegra ex art. 18 dello
Statuto dei lavoratori, mentre la Corte
d'appello aveva modificato la tutela
applicabile condannando la società al
pagamento di 15 mensilità dell'ultima
retribuzione.
La Suprema corte, con la sentenza depositata
ieri, ribadisce le ragioni del lavoratore,
ritenendo «accertato», come emerso dai
giudizi di merito, che egli «prestava
continuativa assistenza notturna alla
disabile, alternandosi durante il giorno con
altre persone», per cui l'addebito
contestatogli dall'azienda era
«insussistente».
«Né può ritenersi», osserva
la Cassazione, «che l'assistenza che
legittima il beneficio del congedo
straordinario possa ritenersi esclusiva al
punto da impedire a chi la offre di dedicare
spazi temporali adeguati alle personali
esigenze di vita, quali la cura dei propri
interessi personali e familiari, oltre alle
ordinarie necessità di riposo e di recupero
delle energie psico-fisiche, sempre che
risultino», rilevano i giudici di piazza
Cavour, «complessivamente salvaguardati i
connotati essenziali di un intervento
assistenziale che deve avere carattere
permanente, continuativo e globale nella
sfera individuale e di relazione del
disabile».
Alla luce di ciò, conclude la Corte, «pur
risultando materialmente accertato» che il
lavoratore «si trovasse in alcune giornate
del giugno 2013 lontano dall'abitazione
della madre non è sufficiente a far ritenere
sussistente il fatto contestato perché una
volta accertato che, ferma la convivenza,
questi comunque prestava continuativa
assistenza notturna alla disabile,
alternandosi durante il giorno con altre
persone, con modalità da considerarsi
compatibili con le finalità dell'intervento
assistenziale, tanto svuota di rilievo
disciplinare la condotta tenuta»
(articolo ItaliaOggi del
06.12.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del
2001 stabilisce che rientrano
nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
quelli consistenti nella demolizione e, successiva,
ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato
preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta
dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più
menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che,
attualmente, possono considerarsi interventi di
ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente
al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione
specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
[…] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo
della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione
e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di
intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione.
---------------
La locuzione “…immobili sottoposti a vincoli ai sensi del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42…” non può che essere
inteso nel senso ampio ritenuto dall’ufficio regionale, non
coincidendo con il singolo edificio ma comprendendo anche le
aree e i terreni oggetto di tutela.
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non
possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della
natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche
nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi
in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità
non già assoluta ma solo relativa.
---------------
La questione centrale sottoposta al Collegio concerne la
qualificazione dell’intervento proposto dalla ricorrente,
ossia se lo stesso vada classificato come ristrutturazione
(ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001
oppure come nuova costruzione (ai sensi dell’art. 3, comma 1,
lett. e), del medesimo decreto).
In particolare costituisce punto nodale della questione la
portata dell’inciso di cui al citato art. 3, comma 1, lett.
d), del DPR n. 380/2001 in punto di definizione degli
interventi di ristrutturazione edilizia per il quale “Rimane
fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione
e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Nel caso di specie, infatti, si è in presenza di un
intervento di demolizione e ricostruzione senza aumento di
volumetria ma con modifica della sagoma, da realizzarsi su
un immobile ricadente in zona E agricola, con destinazione
commerciale giusto provvedimento di condono del 2010, non
specificamente vincolato ma ricadente in zona genericamente
vincolata ai sensi del DM 30.11.1965 (modificato nel
1968) di tutela paesaggistica del territorio del Comune di
Olbia, oltre che nell’ambito del PPR che comprende il Comune
di Olbia.
Occorre dunque stabilire, anzitutto, se la disposizione che
esclude l’ammissibilità degli interventi di demolizione e
ricostruzione con modifica di sagoma di immobili non
specificamente vincolati ma ricadenti nelle zone agricole
ricomprese in ambito vincolato debba trovare applicazione
nel caso di specie.
Orbene, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del
2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia) stabilisce che rientrano
nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
quelli consistenti nella demolizione e, successiva,
ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato
preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta
dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio
dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che,
per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli
interventi di demolizione e ricostruzione dovevano
rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più
menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che,
attualmente, possono considerarsi interventi di
ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente
al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione
specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive
modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione
[…] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola
generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione
che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree
sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali
e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo
della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione
e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite
della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di
intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto
alla categoria della nuova costruzione, con necessaria
applicazione applicati sia dell’art. 26 della LR 8/2015 che
detta disposizioni generali di salvaguardia dei territori
rurali, sia dell’art. 83 delle NTA del PPR.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n.
42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto
dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo
edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto
di tutela (in termini: Cass. Pen., Sez. III, 08.03.2016 n.
33043).
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non
possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della
natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche
nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del
Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi
in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità
non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base
della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento
di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo
paesaggistico e che pacificamente non rispetta il limite
della sagoma preesistente– va correttamente qualificato
come intervento di nuova costruzione.
Sotto questo profilo non è decisiva la circostanza che
l’immobile fosse stato oggetto di un provvedimento di
condono anche in ordine alla destinazione commerciale.
Il condono edilizio è infatti un istituto eccezionale che
consente al richiedente il mantenimento e la conservazione
di un fabbricato abusivamente realizzato ma non lo sottrae
alla disciplina urbanistica applicabile in ragione della sua
localizzazione.
Pertanto –con riguardo al caso di specie- l’eventuale
demolizione dell’immobile in questione comporterà –per il
caso di riedificazione con modifica della sagoma-
l’applicazione della disciplina della nuova costruzione in
zona agricola, con conseguente verifica, ai fini del
rilascio del titolo edilizio, del possesso dei requisiti
oggettivi e soggettivi previsti dalla normativa vigente.
Ciò, del resto, è confermato dall’art. 39, comma 5, della
legge regionale n. 8/2015 in punto di rinnovo del patrimonio
edilizio con interventi di demolizione e ricostruzione, che
all’ultimo alinea precisa che “Nelle zone urbanistiche E ed
H non è ammessa deroga alle vigenti disposizioni regionali”.
La qualificazione nei termini predetti di nuova costruzione
dell’intervento proposto dalla ricorrente conduce quindi
alla reiezione del ricorso che, a ben vedere, muove
interamente dal presupposto non fondato che i lavori oggetto
della DUAAP avessero natura di ristrutturazione edilizia.
In conclusione, quindi, il ricorso si rivela infondato e va
respinto (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 05.12.2017 n. 772 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Festivo,
no straordinari per il vigile. Cassazione.
L'operatore di polizia municipale che presta
servizio in turno e lavora in un giorno
festivo infrasettimanale ha diritto solo ad
una piccola maggiorazione stipendiale senza
possibilità di effettuare un riposo
compensativo o percepire compensi
straordinari. Ma in questo modo viene
differenziato il debito orario degli agenti
di pm da quello degli altri colleghi
dipendenti dal comune.
Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione,
Sez. Lavoro, con l'ordinanza
04.12.2017 n. 28983.
La questione del turno festivo
infrasettimanale della polizia locale è
controversa. Alcuni comuni valutano infatti
questa attività non come una prestazione
ordinaria ma come una diversa fattispecie
che da luogo alla possibilità per il
lavoratore di fruire, al pari di ogni altro
dipendente, del riposo compensativo
corrispondente alla festività non goduta o
del trattamento alternativo, ossia il
compenso per lavoro straordinario festivo.
Altri enti, invece, riconoscono in questa
ipotesi la possibilità di fruire del riposo
compensativo e della maggiorazione prevista
dall'art 24 del ccnl.
Diverse
amministrazioni, infine, considerano il
servizio svolto in un turno ricadente in una
festività infrasettimanale alla stessa
stregua di quello svolto in una qualsiasi
domenica in cui sia previsto il turno e
quindi riconoscendo una piccola
maggiorazione oraria ma senza l'applicazione
del riposo compensativo e dello
straordinario. I giudici del palazzaccio
hanno aderito a quest'ultima
interpretazione. A parere degli ermellini la
prestazione effettuata dal vigile turnista
nel giorno festivo infrasettimanale non
permette di accedere allo straordinario ma
solo alla maggiorazione oraria festiva
prevista dall'art. 22 del ccnl.
In buona
sostanza l'operatore di polizia municipale
inserito in una turnazione oraria non ha
diritto a pretendere nulla per il giorno di
Natale o di Santo Stefano. Ma solo a
richiedere un aumento del compenso orario
per la prestazione effettuata in turno in un
giorno festivo infrasettimanale
(articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per inadempimenti e condotte
negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto
pubblico.
---------------
Contatti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Errore professionale nell'esecuzione di
contratti pubblici – Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 80
del 2016 – Presupposti – Individuazione – Norma innovativa
rispetto alla previsione del Codice previgente –
Conseguenza.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 -nella parte in cui include nei “gravi
illeciti professionali” anche “il tentativo di influenzare
indebitamente il processo decisionale della stazione
appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di
proprio vantaggio”, come pure il fornire “informazioni false
o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero
l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione”- ha carattere
innovativo rispetto alla previsione dettata dall’art. 38,
comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, con la
conseguenza che non è estensibile in via retroattiva a
procedure di affidamento soggette all’abrogato Codice degli
appalti pubblici (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che nelle gare di appalto svoltesi
sotto il vigore del vecchio codice, l’errore professionale
di cui alla lett. f) dell’art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163
andava limitato ai soli inadempimenti e condotte negligenti
commessi nell’esecuzione di un contratto pubblico; esulavano
pertanto dal campo applicativo della predetta norma i fatti,
anche illeciti, occorsi nella prodromica procedura di
affidamento.
In particolare, deve escludersi che ricorra il
«grave errore professionale», previsto dall’art. 38,
lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006. nel caso di illecito
anticoncorrenziale (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 04.12.2017 n. 5704 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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1. Con il primo motivo d’appello il CNS censura la
sentenza del Tribunale amministrativo laddove il giudice di
primo grado ha affermato che un illecito anticoncorrenziale
possa integrare una fattispecie di errore grave
nell’esercizio dell’attività professionale ostativo alla
partecipazione a procedure di affidamento di contratti
pubblici ai sensi della lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163
del 2006. In contrario l’aggiudicatario richiama la
giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione alla
disposizione ora richiamata, che afferma in modo costante
che ai fini di questa causa di esclusione rilevano i soli
errori commessi nell’esecuzione di contratti pubblici (sono
tra l’altro richiamati i precedenti di questo Consiglio di
Stato di cui alle sentenze 19.08.2015, n. 3950 e della VI
Sezione 01.06.2012, n. 3282).
2. Con il secondo motivo d’appello il CNS lamenta che
nel ritenere pretestuosa e manifestamente illogica la
motivazione con cui il consorzio COVAR ha confermato la
propria partecipazione alla gara, una volta esaminata la
rilevanza della sanzione comminatale dall’Autorità garante
per la concorrente e per il mercato, in esecuzione
dell’ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo del
Piemonte (ordinanza del 28.07.2016, n. 275), lo stesso
giudice di primo grado avrebbe esorbitato dai limiti del
sindacato ad esso spettante nei confronti delle valutazioni
discrezionali riservate alla stazione appaltante circa
l’affidabilità dell’operatore economico in relazione alla
causa di esclusione di cui al più volte citato art. 38,
comma 1, lett. f), del previgente codice dei contratti
pubblici.
3. I motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono
fondati.
Deve innanzitutto essere data continuità
all’incontrastato indirizzo di questo Consiglio di Stato che
circoscrive l’errore professionale di cui alla lettera f)
dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 ai soli inadempimenti e
condotte negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto
pubblico, e che per contro esclude dal campo applicativo
della norma i fatti, anche illeciti, occorsi nella
prodromica procedura di affidamento
(da ultimo: Cons. Stato, V, 30.10.2017, n. 4973, 15.06.2017,
n. 2934; in precedenza: Cons. Stato, V, 04.08.2016, n. 3542,
25.02.2016, n. 771, 21.07.2015, n. 3595, alcune delle quali
richiamate dal CNS).
Come specificato nei precedenti in questione,
la delimitazione della fattispecie in esame alle
sole condotte commesse nella fase di esecuzione di contratti
pubblici si giustifica sulla base di ragioni di tipicità e
tassatività della causa ostativa, e dunque per le correlate
ragioni di certezza vantate dagli operatori economici in
ordine ai presupposti che consentono loro di concorrere
all’affidamento di commesse pubbliche
(sulle esigenze di certezza nel settore dei contratti
pubblici ed in particolare con riguardo alle cause di
esclusione dalle relative procedure di affidamento si rinvia
alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
02.06.2016, C-27/15).
4. Nella medesima linea interpretativa,
questo Consiglio di Stato ha escluso che gli estremi del
grave errore professionale possano essere ricavati da
procedimenti penali nei confronti di esponenti dell’impresa
concorrente, per i rischi di sovrapposizione tra la causa
ostativa di cui alla lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163
del 2006 con quella autonoma prevista dalla lettera c) della
medesima disposizione e dunque anche in questo caso in
violazione del principio di tassatività della cause di
esclusione (Cons.
Stato, VI, 02.01.2017, n. 1).
La giurisprudenza amministrativa ha inoltre
precisato che la finalità dell’ipotesi contemplata dalla
lettera f) è di consentire alla stazione appaltante di
valutare la rilevanza del comportamento tenuto dall’impresa
nell’esercizio della sua attività professionale in vista
della corretta esecuzione dell’appalto da affidare;
nell’ambito di questo indirizzo si precisa che il giudizio
demandato all’amministrazione non ha carattere sanzionatorio
ma fiduciario (ex
multis Cons. Stato, IV, 11.07.2016, n. 3070; V,
13.07.2017, n. 3444, 20.02.2017, n. 742, 11.04.2016, n.
1412, 18.06.2015, n. 3107, 15.06.2015, n. 2928, 23.03.2015,
n. 1567, 03.12.2014, n. 5973; VI, 01.09.2017, n. 4161).
5. Da ultimo –come sottolineato negli scritti conclusionali–
questa Sezione ha escluso che ricorra il «grave
errore professionale» previsto dall’art. 38, lett. f),
d.lgs. n. 163 del 2006 l’illecito anticoncorrenziali
(sentenza 17.04.2017, n. 3505).
Nella medesima ottica del principio di
determinatezza delle cause di esclusione da procedure di
affidamento di contratti pubblici poc’anzi richiamato, in
quest’ultimo precedente si è in particolare affermato che la
disciplina di cui al previgente codice dei contratti
pubblici «come pure (la) legge n. 287 del 1990, con
riguardo alle sanzioni pecuniarie irrogate dall’A.G.C.M.,
non prevede alcuna sanzione accessoria rilevante in termini
di esclusione dalla gara».
Per le ragioni sinora esposte –e condivise da questo
collegio- al principio in questione deve essere data
continuità nel presente giudizio.
6. L’opposta tesi propugnata dall’originaria ricorrente Te.
e fatta invece propria dal giudice di primo grado conduce ad
estendere il campo di applicazione della norma in esame ad
ipotesi ad essa non riconducibili.
Quest’ultima si suddivide in due ipotesi, consistenti
nella «grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle
prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce
la gara» e nel «errore grave nell’esercizio della
loro attività professionale», che tuttavia hanno un
nucleo comune, incentrato sullo svolgimento dell’attività di
impresa sulla capacità tecnica e correttezza esecutiva
manifestata dall’operatore economico nello svolgimento di
quest’ultima.
7. Esulano quindi dal perimetro applicativo della norma i
fatti illeciti commessi al di fuori dell’esecuzione di
rapporti contrattuali, a qualsiasi titolo sanzionati
dall’ordinamento. Tali ipotesi risultano infatti
incompatibili sul piano letterale e logico con la nozione di
«errore» impiegata nella lettera f), nel contesto di
una disposizione che per altre cause ostative, relative a
fatti lesivi di interessi generali e non circoscritti alla
sfera imprenditoriale, impiega invece le espressioni «gravi
infrazioni» (lett. e) o «violazioni gravi» (lett.
“g” e “i”); o ancora «hanno violato il divieto»
(lett. d).
8. In contrario rispetto a quanto finora rilevato non induce
il richiamo, operato dal giudice di primo grado, alla
sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea
18.12.2014, C-470/13.
E’ infatti vero che con questa pronuncia il giudice europeo
ha stabilito che nell’ipotesi di «errore grave»
commesso «nell’esercizio dell’attività professionale»
previsto dall’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva
2004/18/CE del 31.03.2004 (relativa al coordinamento delle
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi) «un’infrazione alle
regole della concorrenza, in particolare qualora tale
infrazione sia stata sanzionata con un’ammenda» (§ 35).
Tuttavia, è altrettanto vero –come sottolinea il CNS– che la
pronuncia è stata resa in un giudizio sorto su un rinvio
pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità con il
diritto euro-unitario di previsioni legislative di uno Stato
membro dell’Unione che attribuivano espressa rilevanza
all’infrazione al diritto della concorrenza ai fini della
partecipazione al procedure di affidamento di contratti
pubblici.
La questione esaminata dalla Corte di giustizia era dunque
se potesse essere ricondotta alla nozione utilizzata
dall’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva 2004/18/CE
la fattispecie prevista dalla legislazione ungherese in
materia di contratti pubblici, la quale consente alle
amministrazioni aggiudicatrici di impedire la partecipazione
a procedure di affidamento agli operatori economici che
hanno commesso «un’infrazione connessa alla propria
attività economica e professionale, e constatata con
decisione giurisdizionale passata in giudicato al massimo
cinque anni prima».
9. Invece, nel caso di specie questa “interposizione”
legislativa interna difetta.
Se infatti nel caso esaminato dal giudice europeo si verteva
su una causa ostativa incentrata sull’«infrazione
connessa alla propria attività economica e professionale»,
espressamente prevista dalla legge nazionale, nel caso di
specie l’art. 38, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006 si limita
per contro a riprodurre la formulazione normativa della
direttiva europea, attraverso la nozione di «errore
professionale», non ulteriormente specificata.
La Corte di giustizia ha quindi ritenuto
che l’illecito anticoncorrenziale, rientrante nella causa di
esclusione prevista dal legislatore interno, sia a sua volta
riconducibile alla fattispecie dell’errore grave commesso
nell’esercizio dell’attività professionale prevista dalla
direttiva. Ciò nell’ambito di un giudizio di conformità del
diritto interno rispetto allo strumento normativo
sovranazionale finalizzato ad armonizzare le legislazioni
degli Stati aderenti all’Unione europea, condotto secondo il
tipico approccio “funzionale” che contraddistingue il
diritto di quest’ultima, ovvero incentrato sulla verifica
della corretta attuazione sul piano interno delle finalità
perseguite a livello europeo.
10. Nel caso del previgente codice dei contratti pubblici
manca invece il presupposto normativo “interno” e
cioè l’opzione espressa del legislatore nazionale nel senso
di declinare la nozione europea nel senso di ricondurvi
anche l’illecito antitrust.
A fronte di ciò l’indagine deve essere affidata ai comuni
criteri di interpretativi delle leggi, sanciti dall’art. 12
delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. preleggi).
11. A questo specifico riguardo, la differente formulazione
della norma italiana rispetto a quella ungherese esaminata
dalla Corte di giustizia ha carattere sostanziale:
quest’ultima si riferisce a violazioni di legge commesse
nell’ambito dell’attività di impresa ed a vantaggio di
questa; la seconda, nel limitarsi ad impiegare il concetto
di «grave errore professionale», deve invece
ritenersi limitata ad inadempimenti di obblighi assunti
dall’impresa stessa nei propri rapporti contrattuali.
Quindi, va evidenziato che
le intese restrittive della
concorrenza non possono essere ricondotte all’attività
professionale dell’impresa, ma costituiscono fatti illeciti
commessi appunto a vantaggio di quest’ultima, in violazione
delle norme a tutela del fisiologico esplicarsi delle
attività economiche.
12. Pertanto, de iure condito –e più precisamente secondo il
diritto vigente all’epoca dei fatti di causa– gli assunti
della Te. non possono quindi essere condivisi, come peraltro
ha precisato questa Sezione nella sopra citata sentenza
17.04.2017, n. 3505, sulla base del raffronto con l’attuale
codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo
18.04.2016, n. 50.
Infatti,
premesso che l’art. 80, comma 5, lett. c), di
quest’ultimo testo normativo include nei «gravi illeciti
professionali» anche «il tentativo di influenzare
indebitamente il processo decisionale della stazione
appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di
proprio vantaggio», come pure il fornire «informazioni
false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero
l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione», nel
precedente in esame si è evidenziato che questa previsione
ha carattere innovativo rispetto a quella del previgente
codice e che la stessa non è pertanto estensibile in via
retroattiva a procedure di affidamento soggette a
quest’ultimo.
Alle medesime conclusioni deve quindi giungersi per la gara
oggetto del presente giudizio, anch’essa bandita prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016.
13. Va poi sottolineato che anche in occasione del parere
reso da questo Consiglio di Stato sulle Linee guida ANAC n.
6 (Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto che
possano considerarsi significative per la dimostrazione
delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5,
lett. c), del codice) si è evidenziato che
la nozione di
illecito professionale accolta da quest’ultima disposizione
«abbraccia molteplici fattispecie, anche diverse
dall’errore o negligenza, e include condotte che
intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale,
come si riteneva nella disciplina previgente
[Cons. St., V,
21.07.2015 n. 3595],
ma anche in fase di gara»
(parere della Commissione speciale 03.11.2016 n. 2286).
14. Palesemente inconferente è invece l’ulteriore precedente
della Corte di giustizia richiamato dal giudice di primo
grado, e cioè la sentenza 13.12.2012, C-465/11.
In quel caso la questione pregiudiziale verteva sulla
conformità all’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva
2004/18/CE della legislazione polacca nella parte in cui
prevedeva come causa di esclusione automatica dalle
procedure di gara ipotesi di risoluzione o inadempimento
contrattuali. Quindi, come sottolinea il CNS, nella
pronuncia in esame la Corte di giustizia ha ritenuto tale
ipotesi di esclusione automatica non conforme alla normativa
europea.
15. Sul punto, nondimeno, la Te. ha affermato nei
propri scritti conclusionali che la soluzione cui è
pervenuto il precedente di questa Sezione ora in esame
«appare certamente insoddisfacente sul piano assiologico e
valoriale», nella misura in cui consente alle
amministrazioni di valutare la credibilità di un operatore
economico per inadempimenti commessi nell’esecuzione di
precedenti contratti pubblici «e non anche comportamenti
particolarmente disdicevoli come quelli descritti dall’Agcm
nel provvedimento con cui si è inflitta la pesante sanzione
al Cns».
Ad ulteriore sostegno di questa tesi è richiamato il parere
di questo Consiglio di Stato sullo schema del nuovo codice
dei contratti pubblici, in cui si afferma che: «la condotta
anticoncorrenziale è ritenuta pericolosa dall’ordinamento UE
(e da quello nazionale) non solo quando abbia un effetto violativo delle regole concorrenziali, ma anche quando abbia
soltanto ad oggetto il conseguimento di una siffatta
violazione» (Comm. speciale, 01.04.2016, n. 855).
Richiamata quindi una diffusa giurisprudenza amministrativa
di primo grado che ha affermato il principio opposto, la
Te. ha quindi chiesto, in ragione di questo
contrasto giurisprudenziale e della «obiettiva complessità
delle questioni», di sollevare davanti alla Corte di
giustizia dell’Unione la questione pregiudiziale della
conformità della lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del
2006 all’art. 45, comma 2, lett. d), della citata direttiva
2004/18/CE (secondo il quale -come accennato in precedenza- può essere escluso dalla partecipazione a procedure di
affidamento di contratti pubblici ogni operatore economico
che «nell’esercizio della propria attività professionale,
abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi
mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice»).
16. La richiesta non può tuttavia essere accolta.
In primo luogo, come si è sopra evidenziato
la norma interna
è sostanzialmente riproduttiva di quella europea. Entrambe
si imperniano in particolare sul concetto di grave errore
commesso nell’esercizio dell’attività professionale,
cosicché non si possono nutrire dubbi sulla corretta
trasposizione interna del precetto comunitario.
Deve poi sottolinearsi che,
diversamente da quelle previste
nel comma 1 dell’art. 45 della direttiva, la causa di
esclusione su cui si controverte nel presente giudizio è di
carattere facoltativo: recita infatti il comma 2 dell’art.
45 in esame: «Può essere escluso dalla partecipazione
all'appalto ogni operatore economico». In questo caso la
direttiva europea attribuisce quindi un potere discrezionale
allo Stato membro, che nel caso di specie l’Italia ha
legittimamente ritenuto di esercitare in linea con la
previsione normativa contenuta nella direttiva.
Inoltre, contrariamente a quanto deduce la Te. la questione
non riveste i pretesi caratteri di complessità che ne
giustificherebbero la rimessione alla Corte di giustizia.
Del pari, sono irrilevanti a questo fine i precedenti
contrari dei Tribunali amministrativi, a fronte di un
orientamento di questo Consiglio di Stato invece uniforme
nel senso finora espresso. Quanto al parere 01.04.2016, n.
855, richiamato dall’originaria ricorrente, va rimarcato che
esso concerne il nuovo codice dei contratti pubblici.
17. La richiesta di sollevare la questione pregiudiziale
europea in esame sottende in realtà il tentativo di ricevere
dalla Corte di giustizia l’avallo ad un’interpretazione
analogica, in malam partem, di una norma interna
conforme a quella sovraordinata, di cui costituisce puntuale
attuazione nell’ordinamento giuridico nazionale. Infatti,
con essa non si prospetta un contrasto tra questo duplice
livello normativo, ma si lamenta «sul piano assiologico e
valoriale» l’inidoneità della legge nazionale a “colpire”
le imprese in tesi immeritevoli di aggiudicarsi contratti
pubblici, della quale si prospetta quindi una lettura
interpretativa di carattere additivo volta a colmarne le
lacune.
A fronte di ciò non sussistono quindi i presupposti per
sollevare la questione pregiudiziale, tanto in ragione della
c.d. teoria dell’atto chiaro (sul punto è sufficiente
richiamare la sentenza capostipite della Corte di giustizia
06.10.1982, C-283/81, Cilfit; da ultimo: Cons. Stato, VI,
12.10.2017, n. 4732), quanto sulla base della funzione di “filtro”
che le autorità giurisdizionali nazionali sono chiamate a
svolgere rispetto a interpretativo di carattere soggettivo e
che non esibiscano requisiti minimi di idoneità per
devolvere la questione al giudice europeo (cfr. in questo
senso Cons. Stato, IV, 02.11.2017, n. 5048; V, 22.08.2016,
n. 3667).
18. Le censure del CNS sono fondate anche nella parte
relativa al giudizio di illegittimità espresso dal giudice
di primo grado sulle motivazioni con cui il consorzio Covar
ha confermato l’ammissione alla gara (con provvedimento n.
324 del 26.10.2016), dopo l’ordinanza cautelare di
sospensione emanata su istanza della ricorrente Te. e il
conseguente riesame della questione.
19. Deve premettersi sul punto che il CO. ha formulato il
giudizio di affidabilità professionale del CNS sulla base
delle seguenti considerazioni: innanzitutto le violazioni
accertate dall’Autorità garante della concorrenza e del
mercato, oltre a non essere state accertate con sentenza
passata in giudicato, sono relative ad un servizio diverso
da quello posto a gara (e precisamente: servizi di pulizia
nelle scuole); inoltre, le condotte in questione non hanno
inciso sul corretto svolgimento della procedura di gara in
contestazione, alla quale ha partecipato «un numero di
imprese tale da garantire il rispetto del principio della
libera concorrenza», e in relazione alla quale non vi è
prova «che siano stati conclusi accordi con altri
operatori economici intesi a falsare la concorrenza».
20. Nel giudicare illegittima questa motivazione il
Tribunale amministrativo ha affermato che le circostanze
valorizzate dalla stazione appaltante non sono idonee ad
escludere il grave errore professionale di cui alla lettera
f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, poiché quest’ultimo
comprende «qualsiasi comportamento scorretto che incida
sulla credibilità professionale dell’operatore»; inoltre
non è richiesta «alcuna coincidenza tipologica o
contenutistica tra le vicende professionali poste in
relazione», mentre la rilevanza dell’errore
professionale «non è circoscritta a casi verificatisi
nell’ambito di rapporti contrattuali intercorsi con la
medesima stazione appaltante che bandisce la gara» ma
attiene «indistintamente a tutta la precedente attività
professionale dell'impresa, in quanto elemento sintomatico
della perdita del requisito di affidabilità e di capacità
professionale, influente sull’idoneità dell’impresa a
fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo
pubblico».
21. Alle ragioni puntuali espresse dalla stazione appaltante
il giudice di primo grado ne ha dunque contrapposte ed in
particolare un suo proprio giudizio di inaffidabilità
professionale evidentemente sostitutivo rispetto a quello
dell’amministrazione, così esercitando un sindacato di
merito al di fuori dei casi tassativi previsti dall’art. 134
cod. proc. amm..
A questo riguardo non può che essere richiamato il
precedente di cui alla sentenza delle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione 17.02.2012, n. 2312. Con questa
pronuncia la Suprema Corte ha affermato che esorbita dai
limiti della giurisdizione di legittimità del giudice
amministrativo una decisione del Consiglio di Stato che con
riguardo ad una motivata valutazione espressa della stazione
appaltante sulla causa ostativa di cui alla medesima lett.
f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 -e dunque in un caso
assolutamente in termini con la presente fattispecie– abbia
ecceduto dai limiti della «verifica della non pretestuosità
della valutazione degli elementi di fatto esibiti
dall’appaltante come ragioni del rifiuto», in presenza di
una precisa scelta legislativa che demanda alle
amministrazioni di valutare il punto di rottura
dell’affidabilità dell’operatore economico, pretendendo
invece di stabilire se le ragioni dell’esclusione (in quel
caso) fossero o meno condivisibili.
Ebbene, ciò è appunto quanto ha fatto il Tribunale
amministrativo a fronte di una decisione
dell’amministrazione di segno opposto, e cioè di ammissione
alla gara, con sottostante giudizio di affidabilità
dell’operatore malgrado l’illecito antitrust accertato nei
suoi confronti.
22. In particolare, il consorzio CO. ha escluso che tali
condotte del CNS ne pregiudicassero l’affidabilità per il
servizio di igiene urbana posto a gara, in considerazione
del fatto che nessuna influenza su quest’ultima poteva
ravvisarsi.
Il Tribunale amministrativo ha invece ritenuto che queste
puntuali ragioni fossero inidonee a sorreggere il giudizio
finale espresso dall’amministrazione. Ciò sulla base di un
diverso metro di giudizio, che alla luce di quanto statuito
con riguardo al motivo dell’appello principale è risultato
non conforme alla legge –ed anzi tende a connotare di
contenuti etici il giudizio di affidabilità professionale
demandato alle stazioni appaltanti– e dunque sulla scorta
di apprezzamenti non imposti da norme sovraordinate, ma
collocati nella sfera del merito amministrativo.
23. Dall’accoglimento del secondo motivo dell’appello
principale del CNS discende un’ulteriore ragione per negare
il rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. richiesto dalla
Te. nei confronti della lettera f) del previgente
codice dei contratti pubblici. Essa consiste
nell’irrilevanza della questione interpretativa sull’ambito
di applicazione di quest’ultima disposizione, una volta
accertato che le ragioni che hanno indotto il CO. ad
ammettere alla gara l’aggiudicatario dopo il riesame della
questione relativa all’illecito antitrust commesso dal CNS
sono comunque immuni dalle censure contro di esso svolte
dall’originaria ricorrente.
24. Riformata quindi la statuizione di accoglimento
dell’impugnazione della Te., vanno ora esaminati i motivi
dell’appello incidentale di quest’ultima, che invece il
Tribunale amministrativo ha respinto.
25. Con un primo motivo l’originaria ricorrente
censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha
respinto il motivo relativo alla rilevanza delle condotte
che hanno determinato l’adozione da parte dell’Autorità
nazionale anticorruzione del decreto di commissariamento ex
art. 32 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 (recante Misure
urgenti per la semplificazione e la trasparenza
amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari;
convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114), in relazione a
turbative d’asta commesse da esponenti del CNS in due
procedure di affidamenti di contratti indette da AMA s.p.a.,
municipalizzata di Roma per l’ambiente, nell’ambito della
nota indagine “mafia capitale”.
Sul punto l’originaria ricorrente sostiene che il consorzio
aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso per non avere
reso alcuna dichiarazione di tali precedenti e sottolinea
che il coinvolgimento di quest’ultimo in fatti gravi aventi
rilevanza penale, volti ad alterare gli esiti delle
procedure di affidamento di contratti pubblici, sia «ipoteticamente
riconducibile alla ipotesi di «errore professionale» ex art.
38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006».
La Te. soggiunge al riguardo che l’omissione dichiarativa
non sarebbe quindi sanabile dalla valutazione svolta sul
punto dal COVAR dopo la sospensiva emessa dal Tribunale
amministrativo (con la determinazione più volte citata n.
324 del 26.10.2016).
26. Il motivo è infondato.
Deve in primo luogo sottolinearsi che
l’obbligo dichiarativo
dei precedenti professionali è inteso dalla costante
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato come strumentale
rispetto alle valutazioni discrezionali di competenza delle
stazioni appaltanti in ordine all’affidabilità ex art. 38,
lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006 dei partecipanti a
procedure di affidamento. Si afferma al riguardo che il
fatto in sé è indice di inaffidabilità dell’operatore
economico, tale da giustificare la sua esclusione dalla gara
(ex multis: Cons. Stato, III, 05.05.2014, n. 2289; IV,
04.09.2013, n. 4455; V, 27.09.2017, n. 4527, 17.07.2017, n.
3493, 22.12.2016, n. 5419, 15.12.2016, n. 5290, 04.10.2016,
n. 4108, 26.07.2016, n. 3375, 19.05.2016, n. 2106,
18.01.2016, n. 122, 25.02.2015, n. 943, 11.12.2014, n. 6105,
14.05.2013, n. 2610).
Tuttavia, laddove tale valutazione sia quindi stata svolta,
tanto più in senso positivo, non è consentito al giudice
ricavare una ragione di esclusione di tipo formale rispetto
ad un presupposto sostanziale –l’esistenza di un «grave
errore professionale»- che la stazione appaltante,
nell’esercizio delle attribuzioni ad essa riservate ai sensi
della più volte citata lett. f) del previgente codice dei
contratti pubblici, ha ritenuto sussistente, dandone
adeguata motivazione.
27. Ciò è appunto quanto avvenuto nel caso di specie.
Nel rideterminarsi su sollecitazione del Tribunale
amministrativo anche con riguardo al commissariamento ex
art. 32 d.l. n. 90 del 2014 del CNS il CO. ha infatti
ritenuto che:
- i fatti all’origine di quest’ultimo provvedimento erano stati
«posti in essere fuori dall’esecuzione di un contratto»;
- a presupposto del commissariamento possono essere addotte anche «situazioni
anomale e comunque solo sintomatiche di condotte illecite»,
e dunque ipotesi di reato non ancora accertate in via
definitiva;
- la misura in questione non priva l’impresa della capacità di
contrarre con la pubblica amministrazione;
- contro lo stesso provvedimento era pendente ricorso
giurisdizionale;
- rispetto alle presunte turbative d’asta il CNS «risulta
essersi costituita parte offesa (sic)» nel procedimento
penale;
- infine, a conferma dell’affidabilità del CNS vi è il recente
rinnovo della sua iscrizione nella White list della
Prefettura di Bologna.
28. Dal complesso di queste valutazioni
emerge un chiaro
giudizio di affidabilità professionale dell’aggiudicatario,
malgrado le vicissitudini giudiziarie pregresse, che ancora
una volta deve essere ritenuto legittimo ai sensi della
lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
29. Deve inoltre convenirsi con quanto afferma il CNS nelle
proprie difese e cioè che
il commissariamento ex art. 32, d.l. n. 90 del 2014 non è
codificato quale causa di esclusione dalle procedure di
affidamento di contratti pubblici.
30. Con il secondo motivo dell’appello incidentale la Te.
deduce «ulteriori doglianze riconducibili alla violazione
dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs n. 163/2006»,
consistenti in alcune condanne penali emesse nei confronti
di soggetti operanti per conto del CNS per reati commessi a
vantaggio di quest’ultimo in diverse procedure di
affidamento.
31. Queste censure –dichiarate irricevibili dal Tribunale
amministrativo– sono comunque infondate nel merito.
Si tratta infatti di condotte criminose che non hanno nulla
a che vedere con l’esecuzione di contratti pubblici e che
non possono ancora una volta essere ricondotte all’ipotesi
normativa asseritamente violata.
32. Per fatti di rilievo penale la causa di esclusione che
potrebbe in ipotesi venire in rilievo è quella prevista
dalla lettera c) dell’art. 38 d.lgs. n. 163. Tuttavia, la
Te. non ha dedotto la violazione di questa diversa
fattispecie normativa, la quale richiede tra l’altro che i
reati in questione siano commessi da soggetti che
all’interno dell’impresa siano titolari delle cariche
dettagliatamente elencati nella disposizione di legge in
esame e, inoltre, che tali fatti, purché incidenti sulla
moralità professionale, siano stati definitivamente
accertati.
Sennonché, sul punto nulla viene riferito dall’originaria
ricorrente e sul punto il CNS ha controdedotto, senza alcuna
contestazione, che si tratta o di condanne riportate da
soggetti non facenti parte della propria compagine o di
fatti per i quali non vi è stata ancora una pronuncia
definitiva da parte dell’autorità giudiziaria penale.
Tutto ciò è sufficiente per il rigetto del motivo (si
richiama sul punto il precedente sopra citato costituito
dalla sentenza della VI Sezione di questo Consiglio di
Stato, 02.01.2017, n. 1).
33. Con un ulteriore motivo la Te. assume ancora una volta
violato l’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163 del
2006, con riguardo all’omessa dichiarazione di una
risoluzione contrattuale disposta in danno del CNS
dall’Azienda sanitaria provinciale di Messina (deliberazione
n. 981/CS del 13.04.2012 del commissario straordinario)
34. Il motivo è infondato.
Il CNS ha controdedotto e documentato che l’inadempimento
che ha condotto all’adozione del provvedimento di
risoluzione contrattuale ha riguardato le sole prestazioni
di ristorazione demandate alla società Ge.Cu. s.r.l.,
mandante del raggruppamento di cui l’odierno
controinteressato era mandatario (incaricato dei servizi di
global service, avente anche ad oggetto il portierato, la
gestione del centralino, la pulizia, sanificazione e
disinfezione dei locali). Ciò emerge in modo chiaro dalla
lettura del provvedimento di risoluzione –oggetto di
valutazione anch’esso da parte del CO.– il quale, come
sottolinea il CNS, è in realtà qualificabile come
risoluzione parziale, in quanto avente ad oggetto i soli
servizi di ristorazione affidati alla mandante Ge.Cu., per
inadempimenti contrattuali ascrivibili in via esclusiva a
quest’ultima.
Deve allora essere fatta applicazione del condivisibile
principio espresso da questa Sezione secondo cui
non può
essere esclusa da una gara di appalto un’impresa laddove la
risoluzione contrattuale di un precedente contratto con una
diversa amministrazione appaltante sia conseguente
all’inadempimento imputabile ad altro operatore del
raggruppamento temporaneo
(Cons. Stato, V, 28.09.2015, n.
4512, 26.06.2015, n. 3241).
In caso contrario il giudizio di
affidabilità professionale dell’operatore economico
riposerebbe irragionevolmente su fatti ad esso non
ascrivibili.
...
37. In conclusione, l’appello principale deve essere
accolto.
L’appello incidentale va invece respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Quanto al concetto di “piena conoscenza” (ed
alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza
del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare
quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di
osservare.
La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve
essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere
che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
---------------
E' opportuno richiamare i principi elaborati dalla
giurisprudenza di questo Consiglio in ordine
alla questione della verifica della piena conoscenza dei
titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
a) il termine per impugnare il permesso di costruzione
edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento,
che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei
lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la
tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an
dell’edificazione;
c) dal momento della constatazione della presenza dello
scavo è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi
comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova
edificazione) senza differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di
accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa
differire quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso, perché se
da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali;
e) l’apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la
funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati
e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in
corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far
valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie
posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese
dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili
i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle
attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi),
sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e
senza indugio presso i competenti uffici comunali per
prendere visione del progetto.
Infatti, se per un verso deve
essere assicurata al vicino la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un
intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso
deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare
del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o
colposamente differito nel tempo, al fine di evitare la
creazione di una situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche in contrasto con il principio dell’affidamento.
---------------
8. L’appello è fondato e deve essere accolto.
8.1. Assume rilievo pregiudiziale (in ordine logico secondo
le coordinate ermeneutiche stabilite dall’Adunanza plenaria
n. 5 del 2015), l’esame del quinto motivo di appello, con il
quale si contesta la sentenza del TAR nella parte in cui ha
disatteso l’eccezione di irricevibilità del ricorso è
fondato e deve essere accolto.
Occorre, innanzitutto, chiarire, che il termine per proporre
l’azione di annullamento è quello ordinario di sessanta
giorni, non potendo valere il diverso termine previsto per
l’azione risarcitoria. Infatti, la circostanza che gli
originari ricorrenti abbiano avanzato domanda di
risarcimento in forma specifica, unitamente a quella
caducatoria, non consente ai primi di godere di un doppio
regime temporale per avanzare le loro pretese e quindi, di
poter invocare il più ampio termine previsto per la domanda
di risarcimento in forma specifica, laddove risulti
inutilmente decorso quello per la domanda di annullamento.
La possibilità, infatti, di ottenere tramite la domanda di
risarcimento in forma specifica la stessa utilità, oggetto
della domanda caducatoria, comporterebbe l’elusione costante
del termine decadenziale previsto per la proposizione di
quest’ultima attraverso un meccanismo, che finirebbe per
comportare una disapplicazione non ammissibile della detta
disciplina.
Quanto, invece, al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed
alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza
del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare
quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di
osservare (tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2015 n. 6242; 28.05.2012 n. 3159).
La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve
essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del
provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via
derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere
che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione
dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando
quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la
conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti
del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e
sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e
quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei “motivi aggiunti” -per il
tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori
motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori
atti (già esistenti al momento di proposizione ma ignoti) o
dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente
conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di
sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta-
comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine
al significato della “piena conoscenza”.
Ed infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come
“conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi
aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe
essere considerato residuale.
8.2. Tanto premesso, è opportuno richiamare i principi
elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Cons.
Stato, Sez. IV, n. 1135 del 2016; Id., n. 4701 del 2016;
Id., n. 3067/2017; Id., Sez. VI, n. 6165/2017) in ordine
alla questione della verifica della piena conoscenza dei
titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine
decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
a) il termine per impugnare il permesso di costruzione
edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento,
che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei
lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di
una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la
tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni;
b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva
proposizione del ricorso laddove si contesti l’an
dell’edificazione;
c) dal momento della constatazione della presenza dello
scavo è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi
comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova
edificazione) senza differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di
accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa
differire quest'ultima;
d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far
differire i termini di proposizione del ricorso, perché se
da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la
tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei
confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo,
dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato
l'interesse del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e
non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni giuridiche
contraria ai principi ordinamentali;
e) l’apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la
funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati
e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in
corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far
valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie
posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese
dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili
i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle
attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi),
sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e
senza indugio presso i competenti uffici comunali per
prendere visione del progetto.
Infatti, se per un verso deve
essere assicurata al vicino la tutela in sede
giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un
intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso
deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare
del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela
venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o
colposamente differito nel tempo, al fine di evitare la
creazione di una situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche in contrasto con il principio dell’affidamento
(v. in tale senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3191 ivi i richiami alla giurisprudenza
della Cassazione penale sulla funzione del cartello di
cantiere).
8.3. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di
specie, emerge che gli originari ricorrenti, proprietari
confinanti di un immobile posto di fronte a quello oggetto
dei contestati titoli edilizi, quanto meno alla data del
maggio 2015, hanno avuto piena contezza della esistenza dei
titoli edilizi e della loro portata lesiva, sicché da tale
data è iniziato a decorrere il termine per impugnare i
titoli edilizi, che risulta inutilmente decorso alla data di
notifica del ricorso introduttivo di prime cure (27.10.2015).
Dall’esame dei documenti in atti e dalla circostanze
deducibili dall’esito del contraddittorio risulta, infatti,
che:
I) sulla base del permesso di costruire del 12.09.2012 già in data 21.02.2013 venivano
iniziati i lavori di demolizione dell’immobile preesistente;
II) sulla base del secondo permesso di costruire del 09.12.2014 venivano iniziati i lavori di nuova
edificazione, ossia secondo quanto indicato dagli stessi
ricorrenti nel marzo 2015 lavori propedeutici allo scavo,
nel maggio 2015 completamento dei lavori di scavo; nel
giungo 2015 completamento dei lavori di fondazione;
III) sia
in relazione al primo che al secondo permesso di costruire
venivano apposti i cartelli di cantiere, dotati di tutte le
informazioni previste per legge;
IV) dall’ottobre 2014
veniva esposto un cartello pubblicitario di considerevoli
dimensioni, riportante fotografia dell’immobile erigendo,
dal quale risultava che lo stesso sarebbe stato costituito
da quattro livelli fuori terra;
V) risulta documentalmente
provato lo scambio di elaborati grafici tra professionisti
incaricati dall’odierno appellante e gli originari
ricorrenti inerenti al secondo permesso di costruire;
VI)
nel maggio del 2015 il tecnico di parte ricorrente invitava
il progettista dell’odierna appellante ad effettuare lavori
di consolidamento, al fine di tutelare il condominio dei
ricorrenti.
Se è corretto ipotizzare, infatti, che la prova di piena
conoscenza di un provvedimento deve essere fornita dalla
parte che ha eccepito l'irricevibilità del ricorso, nel caso
di specie non è logico ritenere che anche all’indomani del
maggio 2015 gli originari ricorrenti non fossero edotti
della portata dell’intervento edilizio contestato.
Pertanto, alla luce degli evidenziati elementi fattuali
gravi, precisi, plurimi e concordanti, nonché tenuto conto
della natura delle censure dedotte dall’originaria
ricorrente –incentrate anche sulla impossibilità di
procedere alla demolizione di manufatti ubicati nella zona
per cui è causa nonché sulla diversità di sagoma per ciò che
concerne il primo permesso di costruire del 2012 e sulla
volumetria assentita in relazione al secondo permesso di
costruire del 2014– deve ritenersi incontrovertibilmente
comprovato che l’originaria parte ricorrente, sin dal mese
di maggio 2015, e ben prima per ciò che concerne il primo
permesso di costruire, fosse stata a piena conoscenza
dell’intervento progettato e in grado di valutarne
l’eventuale incidenza lesiva sulla propria sfera giuridica,
a fronte di un ricorso introduttivo del giudizio di primo
grado notificato il 27.10.2015, e dunque ampiamente
oltre il termine di decadenza di cui all’art. 41, comma 2,
cod. proc. amm. (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 04.12.2017 n. 5675
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
La giurisprudenza ritiene che “la summa divisio
circa l'ostensibilità o meno dei pareri legali consiste
nell'individuazione della finalità che l'Amministrazione
persegue con la richiesta del parere, nel senso che il
diniego di accesso è illegittimo nel caso in cui il parere
sia stato acquisito in relazione alla fase istruttoria del
procedimento amministrativo, mentre l'ostensione è
legittimamente negata quando il parere richiesto sia stato
acquisito in rapporto ad una lite già in atto o ad una fase
evidentemente precontenziosa o di lite potenziale al fine di
definire la futura strategia difensiva
dell'Amministrazione”.
“Il parere legale è ostensibile quando esso ha una funzione
endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur
in assenza di un richiamo formale ad esso; mentre se ne nega
l'accesso quando il parere viene espresso al fine di
definire una strategia una volta insorto un determinato
contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni
potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio”.
---------------
I. Con istanza inoltrata via mail all’Amministrazione in
data 26.05.2017, il ricorrente ha richiesto copia informale
del parere legale del 02.08.2016 emesso dal consulente dell’ASUR,
avvocato Ma.Ba., nell’ambito del procedimento disciplinare
n. 3/2016 pendente a suo carico, essendo detto parere stato
citato nel provvedimento adottato in pari data con cui è
stata disposta, nei suoi confronti, la sospensione cautelare
dal servizio.
A seguito di un sollecito inoltrato dal ricorrente in data
23.06.2017, l’ASUR, con nota prot. 71123 assunta in pari
data, ha riscontrato con un diniego l’istanza di accesso,
opponendo la non ostensibilità del parere legale,
caratterizzato, per sua natura, da riservatezza.
Ciò anche in considerazione del fatto che il parere pro
veritate sarebbe stato assunto senza la finalità di
sfociare in un provvedimento amministrativo, ma sarebbe
stato volto a tutelare gli interessi dell’Azienda a fronte
dell’instaurarsi di un possibile contenzioso; inoltre,
all’ostensione dell’atto sarebbe ostativo il punto 19
dell’allegato c) del regolamento aziendale ASUR sulle
modalità di accesso, che appunto sottrae all’accesso i
pareri e le consulenze richiesti dalle strutture aziendali
ai propri dipendenti nell’interesse patrimoniale e non
patrimoniale delle strutture stesse.
Di qui il presente ricorso, con cui il ricorrente, deducendo
l’illegittimità del diniego sotto distinti profili, chiede
la condanna dell’ASUR all’esibizione dell’atto richiesto.
In particolare, egli assume che:
- il provvedimento di sospensione dal servizio richiama il parere
legale, sicché esso deve essere reso disponibile ai sensi
dell’art. 3, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
- la fase preliminare del procedimento disciplinare si inserisce
nel procedimento amministrativo, per cui i relativi atti
sono soggetti al principio della trasparenza che connota
l’attività amministrativa; peraltro, trattandosi di atto
adottato prima dell’emanazione dell’atto amministrativo di
sospensione, come tale estraneo al giudizio civile in corso,
la sua ostensione non sarebbe neppure idonea ad ostacolare
il diritto di difesa e a violare la riservatezza dell’ASUR;
- l’accesso defensionale è consentito dall’ordinamento (art. 24
della legge n. 241 del 1990) e prevale anche su eventuali
interessi contrapposti;
- per principio giurisprudenziale, sono ostensibili i pareri legali
che sono stati espressamente richiamati nella parte motiva
del provvedimento finale;
- in ogni caso, l’ASUR darebbe una lettura distorta e
contraddittoria del punto 19 del proprio regolamento, il
quale non andrebbe riferito, come invece fa
l’Amministrazione, ai documenti relativi a vertenze
giudiziarie, altrimenti si rivelerebbe un inutile doppione
del punto 10 del regolamento medesimo.
L’ASUR, costituita in giudizio, insiste nelle proprie difese
invocando la natura precontenziosa del parere (rispetto al
giudizio iniziato innanzi al giudice del lavoro) e quindi la
sua non ostensibilità, citando, a sostegno delle proprie
argomentazioni, diversa giurisprudenza.
All’esito dell’udienza camerale del 25.10.2017 la causa,
sulle conclusioni delle parti, è stata trattenuta in
decisione.
II. Il ricorso non è fondato per le ragioni che si vanno ad
evidenziare.
La giurisprudenza, condivisibilmente, ritiene che “la
summa divisio circa l'ostensibilità o meno dei pareri legali
consiste nell'individuazione della finalità che
l'Amministrazione persegue con la richiesta del parere, nel
senso che il diniego di accesso è illegittimo nel caso in
cui il parere sia stato acquisito in relazione alla fase
istruttoria del procedimento amministrativo, mentre
l'ostensione è legittimamente negata quando il parere
richiesto sia stato acquisito in rapporto ad una lite già in
atto o ad una fase evidentemente precontenziosa o di lite
potenziale al fine di definire la futura strategia difensiva
dell'Amministrazione” (TAR Lazio Roma, sez. II,
04.01.2016, n. 31).
“Il parere legale è ostensibile quando esso ha una
funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un
procedimento amministrativo che si conclude con un
provvedimento ad esso collegato anche solo in termini
sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale
ad esso; mentre se ne nega l'accesso quando il parere viene
espresso al fine di definire una strategia una volta insorto
un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate
situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio”
(Cons. Stato, sez. V, 05.05.2016, n. 1761).
Gli stessi principi sono stati ribaditi anche di recente
dalla giurisprudenza (TAR Sicilia Catania, sez. I,
31.01.2017, n. 208 e TAR Puglia Lecce, sez. II, 30.01.2017,
n. 171).
Nel caso in esame, il provvedimento disciplinare trasmesso
all’interessato in allegato alla nota prot. 88736 del
03.08.2016, pur evidenziando, nelle premesse, che il parere
legale è stato richiesto al consulente designato “a
miglior inquadramento dell’intero procedimento”, risulta
dettagliatamente e diffusamente motivato indipendentemente
da tale parere quanto alle ragioni che lo hanno determinato.
Non può quindi affermarsi, nella fattispecie (perché ciò non
si evince dal provvedimento amministrativo di sospensione
dal servizio), la funzione endoprocedimentale e strumentale
del parere con riferimento all’adozione dell’atto
conclusivo.
A tal fine, infatti, non rileva il richiamo formale ad esso
contenuto nel provvedimento, né rileva il fatto che vi sia
una coincidenza temporale tra l’acquisizione del parere
legale e l’adozione del provvedimento medesimo, perché ciò
non è sufficiente ad escludere che il parere sia stato
acquisito al solo fine di definire la strategia difensiva in
vista di una situazione potenzialmente idonea a sfociare in
un giudizio (come di fatto accaduto).
Anzi, in termini più sostanziali, avuto riguardo al
contenuto dell’atto conclusivo del procedimento
disciplinare, si ricava che quest’ultimo è stato adottato
all’esito di quanto emerso dagli atti istruttori nel loro
complesso e sulla base dei fatti esaminati e contestati al
ricorrente, diffusamente descritti nella parte motiva; non
vi è invece nessun particolare riferimento al parere pro
veritate del consulente legale quale atto posto a
sostegno della decisione assunta, non potendosi ciò desumere
dalla mera menzione di esso nelle premesse dell’atto.
Per tali ragioni, in linea con la giurisprudenza sopra
richiamata, il Collegio reputa sottratto all’accesso il
parere in questione.
Le argomentazioni che precedono rendono superfluo l’esame
della censura rivolta dal ricorrente contro il punto 19 del
Regolamento ASUR in materia di accesso (peraltro proposta “si
opus”), atteso che esse sono sufficienti ad affermare la
non ostensibilità del parere legale in parola, anche a
prescindere dall’applicazione, al caso in esame, della
citata disposizione regolamentare.
III. In conclusione, il ricorso è infondato e non merita
accoglimento (TAR Marche,
sentenza 04.12.2017 n. 902 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo
l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato
sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 citato (dove
afferma che “la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio
del permesso di costruire” e “la quota di contributo
relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti
al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale
momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione
della entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale
affermazione di principio si trae il corollario della
irretroattività delle determinazioni comunali a carattere
regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e
le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri
concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum”, quindi l’irrilevanza e la
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere
comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori
possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
---------------
Nel caso di specie, la determinazione degli oneri non solo
avviene sulla base di parametri posteriori al titolo
edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la
stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione
errata che sia possibile esigere periodicamente
l’integrazione del pagamento ogni volta che l’importo
tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione
appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche
per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo
edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in
conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato
da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la
determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle
tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta
che “una tantum” al momento del rilascio del permesso
edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per
annualità successive al rilascio del titolo.
E’, pertanto, evidentemente illegittima la pretesa
dell’Amministrazione intimata di addossare alla titolare di
un permesso edilizio rilasciato sei anni prima l’ulteriore
carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento
posto che la determinazione degli oneri concessori al
momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti
di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle
vigenti all’epoca del rilascio.
Anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela
la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa
risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente
in violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n.
241, posto che:
a) non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere,
limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e
le tabelle succedutesi nel tempo;
b) non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con
l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento
ingeneratosi nel privato;
c) in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al
tempo trascorso (sei anni) tra la determinazione originaria
e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo
stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990 prescrive che
il potere di ritiro venga esercitato entro un ragionevole
termine.
---------------
II – Il ricorso è fondato.
III – I provvedimenti impugnati accollano “ex post” alla
ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato sei
anni prima, ulteriori oneri concessori, a titolo di
aggiornamento Istat, cioè in virtù di un meccanismo
legislativo (ex art. 16 D.P.R. n. 380/2001) di adeguamento
automatico del contributo concessorio.
In base alla
direttiva del Consiglio comunale, il Responsabile del SUE ha
chiesto il “conguaglio” (a seguito della rideterminazione in
base a nuovi parametri stabiliti “ex post”) degli oneri
concessori versati dal ricorrente in relazione al permesso
di costruire n. 9/2011.
Il Collegio ritiene di escludere che
si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela
volto a correggere eventuali errori di determinazione o
calcolo, peraltro nemmeno chiaramente evidenziati in atti,
né contestati con una comunicazione di avvio del
procedimento. L’attività comunale appare piuttosto orientata
ad addossare al privato, successivamente al rilascio del
titolo edilizio, costi supplementari forzatamente ascritti
al meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi
ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di
urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle
opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” o,
in relazione alla voce relativa al costo di costruzione,
facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per
l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in
assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta
variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istat”
(art. 16, nono comma).
Il procedimento di revisione mira
dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a
fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati
all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o
costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi
edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico
sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo
l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato
sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 citato (dove
afferma che “la quota di contributo relativa agli oneri di
urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio
del permesso di costruire” e “la quota di contributo
relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del
rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti
al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale
momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione
della entità dell’onere facendo applicazione della normativa
vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale
affermazione di principio si trae il corollario della
irretroattività delle determinazioni comunali a carattere
regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e
le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri
concessori ribadendosi l'integrale applicazione del
principio “tempus regit actum”, quindi l’irrilevanza e la
ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto
al momento del rilascio della concessione edilizia (cfr.,
“ex multis”: Consiglio di Stato n. 1504/2015; TAR Puglia
Lecce n. 1799/2013; TAR Puglia Lecce n. 2164/2013; TAR
Sicilia n. 2581/2016; nonché TAR Puglia Lecce n.
49/2013).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere
comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori
possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi
rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto
deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca
anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la
determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di
parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via
retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale
appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile
esigere periodicamente l’integrazione del pagamento ogni
volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che
tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle
tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di
rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla
base del dato normativo e in conformità dell’orientamento
giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di
discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri
debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la
stessa non possa essere richiesta che “una tantum” al
momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità
di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio
del titolo (Cfr., “ex multis”: TAR Puglia Lecce, III
Sez., 15.01.2013 n. 49).
E’, pertanto, evidentemente
illegittima la pretesa dell’Amministrazione intimata di
addossare alla titolare di un permesso edilizio rilasciato
sei anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal
meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione
degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a
quanto risulta dagli atti di causa- correttamente
determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca del
rilascio.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche
qualificando come conseguenza del potere di autotutela la
richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa
risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente
in violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990
n. 241, posto che:
a) non risulta chiaramente il vizio
originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente
a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
b)
non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con
l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento
ingeneratosi nel privato;
c) in particolare non viene data
alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso (sei
anni) tra la determinazione originaria e la successiva
rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies
della legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro
venga esercitato entro un ragionevole termine.
IV - In conclusione, per le ragioni esposte, vista
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, il ricorso deve
essere accolto (TAR Molise,
sentenza 04.12.2017 n. 490 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI:
Se la mancata ricezione della Pec dipende dal
fatto che la casella del difensore risulta piena, motivo che
ha comporta il rifiuto del messaggio da parte del sistema,
la notifica si considera ugualmente valida.
----------------
Casella Pec piena: la notifica della cancelleria è valida?
Responsabile l’avvocato che non svuota la casella di posta
elettronica certificata e per questa ragione non riceve le
e-mail della cancelleria.
Sei un avvocato e, come tutti i tuoi colleghi, hai la posta
elettronica certificata (Pec) per ricevere le notifiche da
parte della cancelleria del Tribunale e dagli altri
avvocati. Magari ricevi poche Pec e, per questo, non ti curi
di svuotare periodicamente la casella così come invece fai,
di tanto in tanto, con quella delle e-mail tradizionali.
Proprio per questo non ti sei mai chiesto cosa potrebbe
succedere se un giorno, proprio perché hai la casella di
posta elettronica certificata piena, la Pec dovesse tornare
indietro al mittente? Che valore avrebbe la notifica: si
potrebbe considerare ugualmente valida oppure andrebbe
ripetuta, magari nelle forme tradizionali con l’ufficiale
giudiziario?
La risposta al tuo più che legittimo interrogativo è stata
fornita dalla Cassazione con una sentenza di venerdì scorso
[1 - Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.12.2017 n. 54141].
La pronuncia è di particolare interesse per tutti i
professionisti, per legge tenuti ad avere un indirizzo email
certificato: essa spiega infatti come comportarsi quando il
destinatario di una pec ha esaurito lo spazio libero, magari
per un eccesso di spam o perché non si è curato di svuotare
la casella. Vediamo dunque cosa hanno detto i giudici
supremi.
Se la casella mail relativa alla Pec dell’avvocato è piena,
la mancata notifica da parte della cancelleria è imputabile
solo al destinatario che avrebbe dovuto accorgersi, per
tempo, di aver esaurito i giga di spazio o, in caso di un
eccesso di posta indesiderata, installare un software
antispam per evitare messaggi affollassero il suo indirizzo
di posta. Se, del resto, non fosse così, sarebbe fin troppo
facile per l’avvocato, dopo aver adempiuto all’obbligo di
attivare un abbonamento di posta elettronica certificata,
riempirlo fino ad esaurire lo spazio e tornare a ricevere le
notifiche alla vecchia maniera, ossia con l’ufficiale
giudiziario. Con conseguente inutilità del nuovo sistema
imposto dalla legge per tagliare i tempi e i costi del
processo civile.
Dunque, se la mancata ricezione della Pec dipende dal fatto
che la casella del difensore risulta piena, motivo che ha
comporta il rifiuto del messaggio da parte del sistema, la
notifica si considera ugualmente valida.
La pronuncia elenca una serie di accorgimenti che il
professionista è tenuto ad adoperare per il corretto
funzionamento della casella Pec. Ad esempio è tenuto a «dotare
il terminale informatico utilizzato di software idoneo a
verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio
in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a
prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica
indesiderati», a conservare «le ricevute di avvenuta
consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia», a
munirsi di una casella di posta elettronica certificata che
«deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle
specifiche tecniche, a dotarsi di servizio automatico di
avviso dell’imminente saturazione della propria casella di
posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva
disponibilità dello spazio disco a disposizione».
Deve in definitiva ritenersi regolarmente perfezionata la
comunicazione o la notificazione mediante deposito in
cancelleria [2 -
Art. 16, c. 6, dl n. 179/2012] nel caso in cui la
mancata consegna del messaggio di Pec sia imputabile al
destinatario, ciò che si verifica quando il destinatario
medesimo, venendo meno agli obblighi previsti dalla legge [3
-
Art. 20 del dm 44/2011], non si doti dei
necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi
l’efficienza (commento tratto da e link a
www.laleggepertutti.it).
---------------
MASSIMA
2. Il difensore si duole del mancato ricevimento, in
proprio e quale domiciliatario dei propri assistiti,
dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale fissata
avanti al tribunale di Livorno per il giorno 29/06/2017.
Sulla base degli atti, cui questa Corte di legittimità ha
ritenuto di accedere in ragione del tipo di doglianza
propostale, emerge che le tre notifiche all' avv. Al.Bo. (in
proprio e quale difensore di fiducia dei due indagati)
dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale avanti al
tribunale di Livorno per il giorno 29/06/2017, effettuate
tutte tramite posta elettronica certificata (d'ora in poi
PEC) all'indirizzo ...@pec.ordineavvocatilivorno.it, furono
trasmesse il giorno 21/06/2017 (ore 11.05 la prima, ore
11.06 le altre due) con esito "mancata ricezione".
Da successivi accertamenti sugli avvisi estrapolati dal
sistema delle notifiche telematiche, di cui si dà conto
nella nota della cancelleria del tribunale di Livorno in
data 26/10/2017, è emerso che la "mancata ricezione",
in tutti e tre i casi, è da individuarsi nella "casella
piena" del destinatario, che ciò ha comportato il
rifiuto del messaggio da parte del sistema.
3. Va premesso che la PEC è il sistema che,
per espressa previsione di legge
(d.P.R.
11.02.2005, n. 68), consente di
inviare e-mail con valore legale equiparato a una
raccomandata con ricevuta di ritorno;
in ambito penale, essa è espressamente prevista, dall'art.
16, comma 4, d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito dalla l.
17.12.2012, n. 221, «per le notificazioni a persona
diversa dall'imputato a norma dell'art. 148 c.p.p., comma
2-bis, artt. 149 e 150 c.p.p., e art. 151 c.p.p., comma 2».
Il sistema di posta certificata, grazie ai
protocolli di sicurezza utilizzati, è in grado di garantire
la certezza del contenuto, non rendendo possibili modifiche
al messaggio, sia per quanto riguarda i contenuti che
eventuali allegati.
Senza entrare nella compiuta disamina della disciplina
prevista per la PEC, ai fini della vicenda in esame è
sufficiente premettere che il termine "certificata"
si riferisce al fatto che il gestore del servizio del
mittente rilascia a costui «la ricevuta di accettazione
nella quale sono contenuti i dati di certificazione che
costituiscono prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio
di posta elettronica certificata»
(art.
6, comma 1, d.P.R. 11.02.2005, n. 68, recante "Regolamento
recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica
certificata, a norma dell'articolo 27 della L. 16.01.2003,
n. 3").
Allo stesso modo, «il gestore di posta
elettronica certificata utilizzato dal destinatario fornisce
al mittente, all'indirizzo elettronico del mittente, la
ricevuta di avvenuta consegna»
(art. 6, comma 2), la quale, per espressa
previsione normativa, «fornisce al mittente prova che il
suo messaggio di posta elettronica certificata è
effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico
dichiarato dal destinatario e certifica il momento della
consegna tramite un testo, leggibile dal mittente,
contenente i dati di certificazione».
Nel caso in cui, invece, il messaggio di
posta elettronica certificata non risulti consegnabile, «il
gestore comunica al mittente, entro le ventiquattro ore
successive all'invio, la mancata consegna tramite un avviso
secondo le modalità previste dalle regole tecniche di cui
all'articolo 17»
(art. 8). In un'evenienza del genere -ossia nel caso in cui
il messaggio inviato tramite PEC non risulti consegnabile-
la disciplina muta a seconda della causa della mancata
consegna, se, cioè, essa sia imputabile o meno al
destinatario.
Va, infatti, premesso che l'art. 20 del
d.m. 21/02/2011 n. 44
(recante "Regolamento concernente le regole tecniche per
l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in
attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo
07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi
dell'articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge
29.12.2009, n. 193, convertito nella legge 22.02.2010, n. 24"),
disciplina i "requisiti della casella di PEC del
soggetto abilitato esterno", imponendo a costui una
serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto
funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare
ricezione dei messaggi di posta elettronica.
In particolare, il "soggetto abilitato
esterno"
-ossia, nel caso che ci occupa, il difensore della parte
privata- ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. m), d.m. n. 44
del 2011:
a) «è tenuto a dotare il terminale informatico
utilizzato di software idoneo a verificare l'assenza di
virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza
e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di
messaggi di posta elettronica indesiderati»
(comma 2);
b) «è tenuto a conservare, con ogni mezzo
idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi
trasmessi al dominio giustizia»
(comma 3);
c) è tenuto a munirsi di una casella di posta
elettronica certificata che «deve disporre di uno spazio
disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui
all'articolo 34»
(comma 4);
d) «è tenuto a dotarsi di servizio automatico
di avviso dell'imminente saturazione della propria casella
di posta elettronica certificata e a verificare l'effettiva
disponibilità dello spazio disco a disposizione»
(comma 5).
Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al
destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli
obblighi previsti dall'art. 20 d.m. n. 44 del 2011, non si
doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne
verifichi l'efficienza.
Orbene, nel primo caso -ossia quando la trasmissione via PEC
non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario-
trova applicazione l'art. 16, comma 6, d.l. n. 179 del 2012,
secondo cui le notificazioni e le comunicazioni «sono
eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria».
Peraltro, nonostante la mancata ricezione della
comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario è
comunque nella condizione di prendere cognizione degli
estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema
invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo
che il difensore destinatario, accedendovi, viene informato
dell'avvenuto deposito.
Ai sensi dell'art. 16, comma 4, d.m. n. 44 del 2011,
infatti, «nel caso in cui viene generato un avviso di
mancata consegna previsto dalle regole tecniche della posta
elettronica certificata (...) viene pubblicato nel portale
dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche
stabilite ai sensi dell'articolo 34, un apposito avviso di
avvenuta comunicazione o notificazione dell'atto nella
cancelleria o segreteria dell'ufficio giudiziario,
contenente i soli elementi identificativi del procedimento e
delle parti e loro patrocinatori».
La notifica depositata in cancelleria è a disposizione
dell'avvocato, il quale, per estrarne copia, ai sensi
dell'art. 40, comma 1-ter, d.P.R. n. 115 del 2002, deve
pagare il decuplo dei diritti normalmente dovuti.
Diversa è invece l'ipotesi in cui la notificazione non si è
potuta effettuare telematicamente per causa non imputabile
al destinatario; in tal caso, ai sensi del comma 8 del
citato art. 16, "si applicano gli articoli 148 e seguente
del codice di procedura penale" e la notificazione,
pertanto, avviene nelle forme ordinarie previste dal codice
di rito.
In conclusione, va affermato il seguente principio di
diritto: «Deve ritenersi regolarmente
perfezionata la comunicazione o la notificazione mediante
deposito in cancelleria, ai sensi dell'art. 16, comma 6,
d.l. n. 179 del 2012, nel caso in cui la mancata consegna
del messaggio di PEC sia imputabile al destinatario, ciò che
si verifica quando il destinatario medesimo, venendo meno
agli obblighi previsti dall'art. 20 d.m. n. 44 del 2011, non
si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne
verifichi l'efficienza».
4. Venendo al caso in esame, risulta che le comunicazioni
dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale avanti al
tribunale di Livorno per il 29/06/2017, sebbene accettate
dal sistema, non furono ricevute a motivo della "casella
piena" del destinatario; si è perciò in
presenta di una mancata consegna per causa imputabile al
destinatario, il quale, evidentemente, non ha adempiuto
all'obbligo di dotarsi di servizio automatico di avviso
dell'imminente saturazione della propria casella di posta
elettronica certificata e di verificare l'effettiva
disponibilità dello spazio disco a disposizione,
di cui all'art. 20, comma 5, d.m. n. 44 del 2011.
Di conseguenza, la comunicazione si è regolarmente
perfezionata mediante deposito in cancelleria, ai sensi
dell'art. 16, comma 6, d.l. n. 179 del 2012 (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.12.2017 n. 54141). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E' legittimo
l’avviso di fissazione di udienza comunicato mediante PEC
solo ad uno dei due avvocati difensori.
Ex art. 136, primo comma, c.p.a., ai
fini dell’efficacia delle comunicazioni di segreteria è
sufficiente che vada a buon fine una sola delle
comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il
collegio difensivo, disciplina peraltro ricognitiva di un
principio generale espressione di una “sintesi equilibrata
fra il diritto di difesa e l’esigenza di economia di atti”.
Invero, “è da presumere, in mancanza di espressa volontà
contraria della parte, che il mandato alle liti conferito a
più difensori sia disgiunto”, mentre “l'eventuale carattere
congiuntivo del mandato professionale opera soltanto nei
rapporti tra la parte ed il singolo procuratore, onerato
verso la prima dell'obbligo di informare l'altro o gli altri
procuratori”.
---------------
6. All’udienza del 21.11.2017 il difensore di parte
ricorrente ha chiesto il rinvio della trattazione della
causa poiché l’avviso di fissazione di udienza è stato
comunicato mediante PEC solo all’avvocato Di Bo. e non
anche all’avvocato Sa.. La causa, preso atto della memoria
depositata dal Comune di Sorrento, è stata trattenuta in
decisione.
7. Il Collegio ritiene di dover esaminare in primo luogo la
questione del difetto di comunicazione dell’avviso di
fissazione dell’udienza pubblica all’avv. Ca.Sa.,
sollevata dal difensore di parte ricorrente nel corso
dell’udienza pubblica.
7.1. Il rilievo non ha fondamento.
L’avviso di fissazione dell’udienza è stato ritualmente
comunicato tramite PEC (consegnata il 18.09.2017) all’avv. Di
Bo., difensore inserito nel mandato ad litem
assieme all’avv. Sa.. Tale comunicazione è idonea a
raggiungere lo scopo a cui è destinata e a porre il
ricorrente nella situazione di esercitare pienamente il
proprio diritto di difesa.
La regolarità della comunicazione è, infatti, pienamente
conforme alla disciplina processuale (art. 136, primo comma,
c.p.a. “ai fini dell’efficacia delle comunicazioni di
segreteria è sufficiente che vada a buon fine una sola delle
comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il
collegio difensivo”), disciplina peraltro ricognitiva di un
principio generale espressione di una “sintesi equilibrata
fra il diritto di difesa e l’esigenza di economia di atti”
(cfr. Cons. Stato ord. 2708/2017, Cass. 10635/2017 ove si
precisa che “è da presumere, in mancanza di espressa volontà
contraria della parte, che il mandato alle liti conferito a
più difensori sia disgiunto”, mentre “l'eventuale carattere
congiuntivo del mandato professionale opera soltanto nei
rapporti tra la parte ed il singolo procuratore, onerato
verso la prima dell'obbligo di informare l'altro o gli altri
procuratori”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 01.12.2017 n. 5714 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il principio giurisprudenziale secondo cui è
consentito l'intervento costruttivo diretto purché si
accerti la presenza sull’intero comprensorio di sufficienti
opere di urbanizzazione primaria e secondaria (tale da
rendere evidentemente del tutto superflua o inutile la
formazione dello strumento attuativo), essendo state
completamente realizzate le finalità cui quest’ultimo è
preordinato, non è applicabile nelle ipotesi in cui, per
effetto di una edificazione disomogenea (anche abusiva), ci
si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento
idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di recupero
o completamento della zona (in tali casi, si deve infatti
ritenere che riprenda vigore la regola generale –di cui è
espressione l'art. 12 d.P.R. n. 380/2001– che, in materia di
governo del territorio, impone il rispetto delle norme del
PRG che prevedano, per una determinata zona, la
pianificazione di dettaglio).
A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che
<<l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto
per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche
al fine di un armonico raccordo con il preesistente
aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata>>.
---------------
2.10. Nella fattispecie oggetto di giudizio, dunque,
legittimamente l’amministrazione comunale, successivamente
ai rilievi espressi dall’amministrazione provinciale, ha
ritenuto di procedere ad un approfondimento istruttorio,
addivenendo alla conclusione della non congruità degli
standard urbanistici prescritti per la Z.T.O. C2
complessivamente considerata, in specie con riferimento alle
aree da destinare ad attività collettive ed a verde
attrezzato e parcheggio.
2.11. A tale riguardo, peraltro, il Collegio ritiene anche
di evidenziare che il principio giurisprudenziale secondo
cui è consentito l'intervento costruttivo diretto purché si
accerti la presenza sull’intero comprensorio di sufficienti
opere di urbanizzazione primaria e secondaria (tale da
rendere evidentemente del tutto superflua o inutile la
formazione dello strumento attuativo), essendo state
completamente realizzate le finalità cui quest’ultimo è
preordinato, non è applicabile nelle ipotesi in cui, per
effetto di una edificazione disomogenea (anche abusiva), ci
si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento
idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e
talora definendo ex novo un disegno urbanistico di
recupero o completamento della zona (cfr., ex multis,
CdS, IV, 21.08.2013 n. 4200; TAR Campania, Salerno, II,
23.02.2012 n. 372; in tali casi, si deve infatti ritenere
che riprenda vigore la regola generale –di cui è espressione
l'art. 12 d.P.R. n. 380/2001– che, in materia di governo del
territorio, impone il rispetto delle norme del PRG che
prevedano, per una determinata zona, la pianificazione di
dettaglio).
A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che <<l'esigenza
di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il
rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine
di un armonico raccordo con il preesistente aggregato
abitativo, allo scopo di potenziare le opere di
urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più
limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed
urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione
della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di
altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata>>
(CdS., IV, 13.10.2010 n. 7486; 01.10.2007 n. 5043 e
15.05.2002 n. 2592; V, 01.12.2003 n. 7799 e 06.10.2000 n.
5326) (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 01.12.2017 n. 5712 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001 e annullamento d’ufficio.
---------------
●
Edilizia – Abusi – Sanatoria – Accertamento di conformità ex
art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 – Presupposti –
Individuazione.
●
Edilizia – Abusi
– Sanatoria – Dichiarata illegittimo in sede penale –
Accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001 – Annullamento d’ufficio – Motivazione – Criterio di
sufficienza.
●
L’accertamento di conformità di cui all’art. 36,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è subordinato alla verifica della
c.d. doppia conformità delle opere oggetto della sanatoria,
ossia alla verifica di conformità rispetto alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della
esecuzione delle opere sia al momento della presentazione
della domanda di accertamento in sanatoria (1).
●
L’accertamento dell’illegittimità della
concessione in sanatoria, pronunciato dal giudice ordinario
in sede penale, determina la dequotazione dell’obbligo di
motivare sulla sussistenza di un interesse pubblico
specifico e concreto all’annullamento dell’accertamento di
conformità di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che il rilascio di un permesso in
sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina
l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori
che consentano di rendere il manufatto conforme alla
disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al
momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano
logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione
di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione
circa la doppia conformità dell’opera, dimostrando che tale
conformità non sussiste se non attraverso l’esecuzione di
modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa
presentazione della domanda di accertamento in sanatoria) (Cons.
St., sez. VI, 04.07.2014, n. 3410).
(2) Ad avviso del Tar in queste ipotesi, infatti, l’amministrazione
non deve argomentare in maniera diffusa sulla sussistenza di
un interesse pubblico a procedere all’autoannullamento
dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36, d.P.R.
06.06.2001, n. 380 dovendo, anzi, provvedere (sempre) ad
annullare gli atti dichiarati illegittimi dal giudice penale
a meno che non emerga un interesse pubblico specifico e
concreto a non provvedere all’autoannullamento dell’atto.
In altri termini, in questi casi, la valutazione che deve
essere effettuata dall’amministrazione si volge non alla
ricerca, in positivo, di una ragione per annullare in
autotutela, ma alla ricerca, in negativo, di una ragione per
non annullare (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 01.12.2017 n. 746
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
10. - Sulla base di quanto appena precisato, si possono
esaminare le questioni sollevate con i motivi di ricorso,
cercando di ordinarle intorno ai presupposti normativi
indicati dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.
10.1. - In primo luogo, appaiono del tutto evidenti i vizi
di legittimità che l’amministrazione comunale ha posto alla
base dell’autoannullamento.
L’accertamento di cui all’art. 36 del
D.P.R. n. 380/2001 è subordinato, infatti, alla verifica
della c.d. doppia conformità delle opere oggetto della
sanatoria, ossia alla verifica di conformità rispetto alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo
della esecuzione delle opere sia al momento della
presentazione della domanda di accertamento in sanatoria.
Il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni,
con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla
realizzazione di lavori che consentano di rendere il
manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al
momento della domanda o al momento della decisione,
contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida
direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o
prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia
conformità dell’opera, dimostrando che tale conformità non
sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche
ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione
della domanda di accertamento in sanatoria).
Il punto è ormai pacifico in giurisprudenza: si veda, ex
multis, Cons. St., VI, 04.07.2014, n. 3410.
Nel caso di specie, la concessione in sanatoria n. 81/2013,
come si è già veduto, si pone in contrasto col paradigma
normativo sopra delineato, posto che è stata rilasciata a
condizione che fossero eseguite ulteriori opere, come
risulta dalla piana lettura della concessione (cfr. doc. 55
di parte ricorrente) e come puntualmente rilevato nella
motivazione dell’impugnato provvedimento di annullamento
d’ufficio.
10.2. - Anche il secondo vizio di legittimità, rilevato dal
giudice penale e fatto proprio dall’amministrazione
comunale, deve ritenersi fondato, tenuto conto che
l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146
del d.lgs. n. 42 del 2004 può essere adottata «per i
lavori realizzati in assenza o difformità
dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano
determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero
aumento di quelli legittimamente realizzati» (art. 167,
comma 4, del d.lgs. n. 42/2004).
10.3. - Per concludere sul punto, le censure sollevate dalla
ricorrente sono infondate, quindi, sia nella parte in cui si
deduce l’assenza di una autonoma valutazione
dell’amministrazione in ordine alle illegittimità rilevate
dal giudice penale, sia nella parte in cui si lamenta il
difetto di motivazione sui profili sopra esaminati.
11. - La seconda questione attiene alla carente
motivazione dell’annullamento d’ufficio in ordine alle
ragioni di interesse pubblico (ulteriori rispetto al mero
ripristino della legalità) e alla prevalenza di queste
sull’interesse della società ricorrente alla conservazione
del provvedimento annullato.
Peraltro, le critiche formulate dalla ricorrente non tengono
conto dei riflessi sull’attività amministrativa di quanto
emerge dagli accertamenti derivanti dai provvedimenti
giurisdizionali sopra richiamati, e in particolare dalle
conseguenze che l’accertamento della illegittimità della
concessione in sanatoria (di cui alla determinazione n.
81/2013), pronunciato dal giudice ordinario in sede penale,
produce in termini di vincoli giuridici sulla successiva
attività dell’amministrazione comunale.
Anche a non voler seguire la risalente tesi secondo cui
l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi
assume i contorni della doverosità giuridica per
l’amministrazione competente, quando
l’invalidità dell’atto sia stata dichiarata in una sentenza
del giudice ordinario passata in giudicato
(per effetto di quanto previsto dall’art. 4 della legge n.
2248/1865, All. E, legge cont. amm.), non
si può non tenere conto del fatto che l’accertamento
dell’illegittimità dell’atto determina, quantomeno, la
dequotazione (per
usare una fortunata espressione)
dell’obbligo di motivare sulla sussistenza di un interesse
pubblico specifico e concreto all’annullamento.
In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione non deve
argomentare in maniera diffusa sulla sussistenza di un
interesse pubblico a procedere all’autoannullamento,
dovendo, anzi, provvedere (sempre) ad annullare gli atti
dichiarati illegittimi dal g.o. a meno che non emerga un
interesse pubblico specifico e concreto a non provvedere
all’autoannullamento dell’atto.
In altri termini, in questi casi, la valutazione che deve
essere effettuata dall’amministrazione si volge non alla
ricerca, in positivo, di una ragione per annullare in
autotutela, ma alla ricerca, in negativo, di una ragione per
non annullare.
E nel caso di specie, non emergono elementi che avrebbero
sorretto una decisione diversa dall’autoannullamento,
nemmeno sotto il profilo di una pretesa tutela
dell’affidamento della ricorrente fondata sulla apparente
legittimità della concessione in sanatoria o maturata per il
tempo trascorso tra il rilascio dell’atto invalido e il
successivo provvedimento di annullamento d’ufficio.
Infatti, come risulta dalla documentazione in atti, il
procedimento in autotutela è stato tempestivamente avviato
dal Comune di Carloforte, ai sensi dell’art. 7 della legge
n. 241 del 1990, con la nota del 30.06.2014 (cfr. doc. 60 di
parte ricorrente); ossia, a poco più di un anno dalla
determinazione n. 81/2013, del 13.06.2013, concernente
l’accertamento in conformità; e a poco più di un mese
dall’ordinanza emessa dal Tribunale penale di Cagliari (del
19.05.2014).
Pertanto, la tempestività della decisione
dell’amministrazione comunale, nonché il particolare
sviluppo che da tempo aveva assunto la vicenda in esame
(basti pensare alle descritte vicende legate al procedimento
penale), escludono che il privato possa avere maturato un
affidamento incolpevole. |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ pur vero che l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001,
secondo la più recente giurisprudenza del Consiglio di
Stato, è applicabile nelle ipotesi in cui il titolo edilizio
sia affetto sia da vizi formali-procedimentali che di natura
sostanziale.
Con la conseguenza che l’amministrazione comunale può
rimuovere anche vizi sostanziali del permesso di costruire,
purché questi siano emendabili («L’art. 38 t.u. n. 380 del
2001 […] va interpretato nel senso che in caso di
annullamento del titolo edilizio per vizi sostanziali la
sanatoria (recte, la rinnovazione del titolo, l’emanazione
di un nuovo permesso di costruire) è consentita qualora si
sia trattato di vizi emendabili, che possono essere rimossi,
ed è preclusa soltanto qualora si tratti di vizi
inemendabili»).
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12. - Anche il quarto e il quinto motivo non
sono fondati.
E’ pur vero che l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, secondo la
più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (seguita
anche dalla Sezione: si veda TAR Sardegna, sez. II,
30.01.2017, n. 61), è applicabile nelle ipotesi in cui il
titolo edilizio sia affetto sia da vizi
formali-procedimentali che di natura sostanziale; con la
conseguenza che l’amministrazione comunale può rimuovere
anche vizi sostanziali del permesso di costruire, purché
questi siano emendabili («L’art. 38 t.u. n. 380 del 2001
[…] va interpretato nel senso che in caso di annullamento
del titolo edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte,
la rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo
permesso di costruire) è consentita qualora si sia trattato
di vizi emendabili, che possono essere rimossi, ed è
preclusa soltanto qualora si tratti di vizi inemendabili»:
cfr. Consiglio di Stato sez. VI 10.09.2015 n. 4221).
Nel caso di specie, tuttavia, si tratta di difformità (tra
le opere realizzate e quelle consentite con l’originaria
concessione) non emendabili, ove si tenga conto di quanto
risulta dallo stesso provvedimento di accertamento in
sanatoria (di cui alla determinazione del responsabile del
settore Area Tecnica, del 13.06.2013, n. 81, annullata con
il provvedimento impugnato col ricorso in epigrafe) in cui
si rileva la eccedenza volumetrica derivante dalla
esecuzione «di n. 2 vani finiti, di cui uno destinato a
bagno, con altezza interna superiore ai mt. 2,40: interventi
che sono in contrasto con gli strumenti adottati sia al
momento della realizzazione dell’opera (P.U.C.) che al
momento della domanda …».
Vizio sostanziale non emendabile; e, difatti, non emendato
nemmeno in sede di accertamento in conformità di cui
all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, se non attraverso la
condizione (illegittima, come si è già veduto) della
esecuzione di ulteriori lavori idonei a ricondurre l’altezza
dei vani predetti al di sotto dei 2,40 mt. (il che avrebbe
escluso i relativi volumi dal calcolo della cubatura
assentita con la originaria concessione edilizia).
13. - In conclusione, il ricorso deve essere integralmente
respinto (TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 01.12.2017 n. 746
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Rinvio alla Ue sulla fusione fra offerenti.
Modifica della compagine in gara.
Definire la portata del divieto di modificazione soggettiva della compagine
offerente in caso di accordi che prevedano fusioni per incorporazioni.
È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza
non definitiva
30.11.2017 n. 5621
(con rimessione alla Corte
Ue) su un profilo interpretativo di identità
giuridica ed economica fra gli operatori prequalificati e quelli che
presenteranno offerte.
La vicenda aveva preso in considerazione un accordo concluso fra holding che
controllano due operatori prequalificati in un momento compreso fra la
prequalifica e la presentazione delle offerte. A tale proposito i giudici
hanno chiarito che, anche se l'art. 28, par. 2, della direttiva 2014/24/Ue
fosse da intendere nel senso di fissare il principio di tendenziale
immodificabilità soggettiva fra i soggetti prequalificati e quelli che
formulano le offerte, il diritto dell'Ue non vieterebbe comunque
un'operazione di fusione per incorporazione realizzato prima della
presentazione delle offerte.
La sentenza evidenzia che si potrebbe ritenere che il principio del divieto
di modificazione soggettiva dei concorrenti non operi, per così dire, «in
senso statico» (cioè soltanto nei momenti rilevanti della procedura di
gara), ma anche «in senso dinamico», impedendo qualunque accordo che possa
avere quale oggetto o quale effetto quello di modificare anche in futuro la
composizione soggettiva dei partecipanti.
Se fosse così, però, le
conseguenze sarebbero difficilmente gestibili dalle amministrazioni
aggiudicatrici e vi sarebbe il rischio continuo di produrre illegittimità ex
post degli atti di gara (anche a molto tempo di distanza dalle gare), il che
si porrebbe in evidente contrasto con il generale principio della stabilità
delle situazioni giuridiche tutelato a livello europeo.
Da qui la richiesta di chiedere alla Corte Ue se la norma della direttiva
debba essere interpretata nel senso di imporre una piena identità giuridica
ed economica fra prequalificati e offerenti in una procedura ristretta,
vietando quindi un accordo concluso fra le holding (che controllano due
operatori prequalificati) finalizzato alla fusione per incorporazione (dopo
la presentazione dell'offerta) (articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017). |
LAVORI PUBBLICI:
Alla Corte di giustizia UE la questione concernente
l’esistenza di un principio di identità giuridica ed
economica tra i soggetti prequalificati e quelli offerenti
nella procedura c.d. ristretta.
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Contratti
pubblici – Procedura ristretta – Operatori prequalificati ed
offerenti – Identità giuridica ed economica – Accordo fra
holding che controllano due operatori prequalificati ––
Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.
Va rimessa alla Corte di giustizia la
questione se l’articolo 28, paragrafo 2, primo periodo della
Direttiva 2014/24/UE, debba essere interpretato nel senso di
imporre una piena identità giuridica ed economica fra gli
operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte
nell’ambito della procedura ristretta e se, in particolare,
tale disposizione debba essere interpretata nel senso di
ostare a un accordo concluso fra le holding che controllano
due operatori prequalificati in un momento compreso fra la
prequalifica e la presentazione delle offerte, laddove:
a) tale accordo abbia per oggetto e per effetto (inter alia) la
realizzazione di una fusione per incorporazione di una delle
imprese prequalificate in un’altra di esse (operazione,
peraltro, autorizzata dalla Commissione europea);
b) gli effetti dell’operazione di fusione si siano perfezionati
dopo la presentazione dell’offerta da parte dell’impresa
incorporante (ragione per cui al momento della presentazione
dell’offerta, la sua composizione non risultava mutata
rispetto a quella esistente al momento della prequalifica);
c) l’impresa in seguito incorporata (la cui composizione non
risultava modificata alla data ultima per la presentazione
delle offerte) abbia comunque ritenuto di non partecipare
alla procedura ristretta, verosimilmente in attuazione del
programma contrattuale stabilito con l’accordo stipulato fra
le holding (1).
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(1) I.- Con l’esaustiva ordinanza in epigrafe (redatta
conformemente alle raccomandazioni approvate dalla Corte di
giustizia per il caso di rinvio pregiudiziale di
interpretazione 2016/C 439/01 in G.U. dell’Unione europea
25.11.2016) la quinta sezione del Consiglio di Stato rimette
alla Corte di giustizia una articolata questione concernente
la eventuale necessità dell’identità giuridica ed economica,
fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno
offerte, nelle procedure ristrette.
La questione è sorta nell’ambito di un complesso contenzioso
proposto avverso gli esiti di una procedura ristretta
indetta dal soggetto attuatore per conto del Ministero dello
Sviluppo economico ai fini dell’affidamento di una
concessione di costruzione, manutenzione e gestione della
rete passiva a Banda Ultra Larga di proprietà pubblica nelle
cc.dd. ‘aree bianche’ presenti nelle Regioni Abruzzo,
Molise, Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto.
Dopo aver respinto alcuni dei motivi di appello (in quanto
indipendenti dall’interpretazione e applicazione del diritto
dell’Unione europea), l’ordinanza è passata ad affrontare i
restanti vizi da approfondire alla luce delle norme
sovranazionali.
Il quesito di fondo viene precisato in relazione alla
necessità di stabilire se l’ordinamento UE imponga (e in che
misura) un principio di necessaria identità giuridica ed
economica tra i soggetti prequalificati e quelli offerenti.
L’ordinanza esprime anche il punto di vista della Sezione
rimettente (come richiesto dalle ricordate istruzioni,)
secondo cui, anche se l’art. 28, par. 2, della Direttiva
2014/24/UE fosse da intendere nel senso di fissare il
principio di tendenziale immodificabilità soggettiva fra i
soggetti prequalificati e quelli che formulano le offerte,
il diritto dell’UE non vieterebbe comunque un’operazione di
fusione per incorporazione come quella in questione.
Peraltro, viene espressamente fatta salva la soluzione
opposta laddove la Corte di giustizia affermasse che
l’ordinamento euro unitario vieta, invece, in via di
principio la conclusione di accordi fra operatori
concorrenti e partecipanti alla medesima gara il cui oggetto
o effetto sia quello di comportare una fusione per
incorporazione fra gli stessi.
II.- La questione rimessa, nei termini appena riassunti, dalla
quinta sezione riguarda in particolare le procedure
ristrette, in cui la presentazione dell’offerta è preceduta
da una fase di “prequalificazione”; occorre
verificare se l’impresa, prequalificatasi singolarmente,
possa poi presentare offerta in a.t.i..
In linea di tendenza la giurisprudenza ha ritenuto che
imprese singole, ciascuna prequalificatasi, possono
associarsi in a.t.i. nella successiva fase di presentazione
dell’offerta.
Tanto, in base alla considerazione che il legislatore ha
inteso favorire il fenomeno del raggruppamento di imprese e
individuare la presentazione dell’offerta come momento della
procedura, da cui scatta il divieto di modificabilità
soggettiva della composizione dei partecipanti, in quanto le
norme vigenti fanno riferimento all’offerta, che è cosa
diversa dalla richiesta di invito; pertanto, in presenza di
disposizioni espresse che non consentono la modifica della
composizione dei partecipanti dopo l’offerta e in assenza di
analogo divieto per la fase della prequalificazione, deve
escludersi che si possa pervenire in via pretoria ad un
divieto, non sancito dal legislatore (Cons. Stato, sez. VI,
20.02.2008 n. 588, in Riv. giur. edilizia 2008, 3, I, 870).
Altra giurisprudenza, e l’Autorità di vigilanza, hanno
tuttavia ritenuto che una impresa prequalificatasi
singolarmente non potrebbe presentare offerta quale
capogruppo di a.t.i. con impresa non previamente
qualificatasi, perché ciò impedisce alla stazione appaltante
la corretta verifica del possesso dei requisiti in capo ai
concorrenti (cfr. Tar Lazio, sez. III, 14.03.2011 n. 2236;
Autorità, parere 31.07.2008 n. 206).
Ancora di recente risulta essere stata ammessa quantomeno la
rimodulazione del raggruppamento temporaneo tra la
prequalifica e l'offerta (cfr. Tar per il Lazio, Latina,
sez. I, 30.07.2016, n. 514, secondo cui “Non rileva ai
fini dell'applicazione del divieto di modificazioni
soggettive del raggruppamento ex art. 37 comma 9, d.lgs.
12.04.2006 n. 163 la circostanza che l'originaria mandataria
in fase di prequalifica abbia poi assunto, in sede di
presentazione dell'offerta, la veste di mandante dopo aver
dichiarato di aver chiesto, in base agli articoli 161, comma
6, e 186-bis r.d. 16.03.1942 n. 267, l'ammissione al
concordato preventivo «con continuità aziendale» (che non è
ostativo alla partecipazione alle gare in veste di
mandante); in tal caso, infatti, non trova applicazione
l'orientamento giurisprudenziale che ammette le modifiche
soggettive determinate da ragioni organizzative e non
dall'esigenza di sottrarsi alla sanzione dell'esclusione
poiché risulta applicata la normativa in materia di
concordato con continuità aziendale che vieta l'assunzione
della veste di capogruppo mandataria da parte del soggetto
che abbia chiesto o sia stato ammesso a tal tipo di
concordato”).
Cfr. altresì Consiglio di Stato, sez. V, 31.03.2014, n.
1548, secondo cui “nel caso di procedure ristrette o
negoziate deve ritenersi ammessa, in difetto di espresso
divieto del bando di gara, la partecipazione alla stessa,
sotto forma di a.t.i., di imprese che si sono prequalificate
separatamente, non ricorrendo in ciò una violazione
dell'art. 37 comma 12, d.lgs. 12.04.2006 n. 163”; nonché
Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1243, secondo
cui “nelle gare pubbliche d'appalto, la validità della
costituzione di un'Associazione temporanea di impresa deve
essere giudicata con esclusivo riferimento al momento della
formulazione dell'offerta, dovendosi ritenere legittime le
offerte congiuntamente presentate da imprese appositamente e
tempestivamente raggruppate, singolarmente invitate, anche
quando la loro costituzione in A.t.i. è intervenuta dopo la
fase di prequalificazione”.
III.- Per completezza si segnala quanto segue:
a)
Corte giustizia Unione europea, Grande sezione, 24.05.2016,
C-396/14, MT Højgaard, richiamata dalla
rimessione in commento (oggetto della News US in data
31.05.2016), secondo la quale: “il principio di parità di
trattamento degli operatori economici, di cui all’art. 10
direttiva 2004/17/Ce del parlamento europeo e del consiglio,
31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, in combinato
disposto con l’art. 51 della medesima, deve essere
interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola
tale principio se autorizza uno dei due operatori economici
che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato,
in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a
subentrare a tale raggruppamento in seguito allo
scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio,
a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto
pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale
operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti
dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la
continuazione della sua partecipazione a tale procedura non
comporta un deterioramento della situazione degli altri
offerenti sotto il profilo della concorrenza”;
b) sul tema dei mutamenti soggettivi delle
imprese in corso di gara, dei rapporti fra cessione di
azienda e accertamento requisiti nel regime del vecchio
codice dei contratti pubblici, cfr.
Cons. Stato, Sez. III, 13.03.2017, n. 1152, in
Diritto & Giustizia, 28.03.2017, con nota di BOMBI, nonché
oggetto della News US in data 30.03.2017, che ha rimesso
all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le seguenti
questioni: “a) se, ai sensi dell'art. 76, comma 11,
d.P.R. 05.10.2010, n. 207, debba affermarsi il principio per
il quale, in mancanza dell'attivazione del procedimento ivi
contemplato (nuova richiesta di attestazione SOA), la
cessione del ramo d'azienda comporti sempre, in virtù
dell'effetto traslativo, il venir meno della qualificazione,
o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una
valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione,
contemplate dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto
suscettibili di dare vita ad un nuovo soggetto e di
sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il
cessionario se ne sia definitivamente spogliato, ed invece
esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del
compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle
parti come trasferimento di "rami aziendali", si
riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia
funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al
soggetto cedente di ottenere la qualificazione; b) se
l'accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede
di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro,
oppure se, nei casi in cui l'organismo SOA accerti ex post
il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente,
nonostante l'avvenuta cessione di una parte del compendio
aziendale, l'attestazione possa anche valere ai fini della
conservazione della qualificazione senza soluzione di
continuità”;
c) sulla natura del contratto di avvalimento,
Cons. Stato, Ad. plen., 03.07.2017, n. 3, oggetto
della News US in data 13.07.2017, secondo cui “in ipotesi
di cessione di un ramo d'azienda, l'accertamento positivo
effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica
periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di
qualificazione da parte dell'impresa cedente, comporta la
conservazione dell'attestazione da parte della stessa senza
soluzione di continuità”;
d) per una casistica completa sui limiti di
intervento della stazione appaltante in caso di modifiche
soggettive (sia pure sotto l’egida dell’art. 51 del vecchio
codice dei contratti), cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 08.02.2017, n. 549;
e) in dottrina, in riferimento al nuovo codice
dei contratti pubblici, sulla scrematura degli offerenti e
sui limiti alla presentazione delle offerte nella procedura
ristretta, sulla c.d. forcella, sulle vicende soggettive
dell’esecutore, sulla incidenza delle vicende societarie
(fusione, incorporazione, cessione e affitto azienda)
nell’accertamento dei requisiti generali, sulle modifiche
soggettive di a.t.i. e consorzi, si veda R. DE NICTOLIS, I
nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1097 ss.; 1304 ss.;
1544 ss.; 783 ss.; 745 ss. (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
non definitiva
30.11.2017 n. 5621 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Alla Corte di giustizia la questione della piena identità
giuridica ed economica, fra gli operatori prequalificati e
quelli che presenteranno offerte, nelle procedure ristrette.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Procedura
ristretta - Identità giuridica ed economica fra gli
operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte
- Accordo concluso fra le holding che controllano due
operatori prequalificati in un momento compreso fra la
prequalifica e la presentazione delle offerte – Art. 28,
par. 2, primo periodo Direttiva 2014/24/UE – Rimessione
Corte di giustizia.
E’ rimessa alla Corte di giustizia
la questione se l’art. 28, par. 2, primo periodo della
Direttiva 2014/24/UE, debba essere interpretato nel senso di
imporre una piena identità giuridica ed economica fra gli
operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte
nell’ambito della procedura ristretta e se, in particolare,
tale disposizione debba essere interpretata nel senso di
ostare a un accordo concluso fra le holding che controllano
due operatori prequalificati in un momento compreso fra la
prequalifica e la presentazione delle offerte, laddove:
a) tale accordo abbia per oggetto e per effetto (inter alia) la
realizzazione di una fusione per incorporazione di una delle
imprese prequalificate in un’altra di esse (operazione,
peraltro, autorizzata dalla Commissione europea);
b) gli effetti dell’operazione di fusione si siano perfezionati
dopo la presentazione dell’offerta da parte dell’impresa
incorporante (ragione per cui al momento della presentazione
dell’offerta, la sua composizione non risultava mutata
rispetto a quella esistente al momento della prequalifica);
c) l’impresa in seguito incorporata (la cui composizione non
risultava modificata alla data ultima per la presentazione
delle offerte) abbia comunque ritenuto di non partecipare
alla procedura ristretta, verosimilmente in attuazione del
programma contrattuale stabilito con l’accordo stipulato fra
le holding (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che, anche se l’art. 28, par. 2,
della Direttiva 2014/24/UE fosse da intendere nel senso di
fissare il principio di tendenziale immodificabilità
soggettiva fra i soggetti prequalificati e quelli che
formulano le offerte, il diritto dell’UE non vieterebbe
comunque un’operazione di fusione per incorporazione quale
quella realizzata nel caso in esame per effetto dell’Accordo
Quadro del 10.10.2016 (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
non definitiva
30.11.2017 n. 5621 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'iscrizione camerale dell'impresa
partecipante alla gara.
Nell'impostazione del nuovo codice appalti, l'iscrizione
camerale è assurta a requisito di idoneità professionale
(art. 83, commi 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50/2016),
anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei
partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e
c) del medesimo comma. Utilità sostanziale della
certificazione camerale è quella di filtrare l'ingresso in
gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità
coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento
pubblico. Da tale ratio -nell'ottica di una lettura
del bando fedele ai principi vigenti in materia di
contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto
dell'oggetto e della funzione dell'affidamento (1363 1367
1369 c.c.)- si desume la necessità di una congruenza
contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze
descrittive della professionalità dell'impresa, come
riportate nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e
l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso
di prestazioni in esso previste.
Per attività 'conferente' rispetto a quella oggetto
dell'appalto non può che essere intesa l'attività prevalente
svolta dall'impresa, sia perché si tratta di quella
qualificante ai fini dell'iscrizione alla CCIAA (restando
invece sullo sfondo le indicazione sancite nell'oggetto
sociale, che nulla dicono in ordine all'effettivo
svolgimento delle attività medesime).
La corrispondenza contenutistica tra risultanze descrittive
del certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto
non deve tradursi in una perfetta ed assoluta
sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di
riferimento, ma va appurata secondo un criterio di
rispondenza alla finalità di verifica della richiesta
idoneità professionale, e quindi in virtù di una
considerazione non già atomistica e frazionata, bensì
globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto (TAR
Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 30.11.2017 n. 1887 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Dicatio ad patriam.
Il TAR Milano richiama l’orientamento giurisprudenziale
formatosi sull’istituto della “dicatio ad patriam”,
secondo il quale detto istituto è un modo di costituzione di
una servitù di uso pubblico, che consiste nel comportamento
del proprietario di un bene, per lo più immobile, che, pur
se non intenzionalmente diretto alla produzione dell'effetto
di dar vita al diritto di uso pubblico, denoti in modo
univoco la volontà di mettere la cosa a disposizione di una
comunità indeterminata di cittadini, con carattere di
continuità e non di mera precarietà e tolleranza, per
soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività
"uti cives".
Ricorrendo gli indicati presupposti, la servitù di uso
pubblico deve ritenersi perfezionata con l'inizio dell'uso
stesso, senza che sia necessario il decorso di un congruo
periodo di tempo o un atto negoziale o un procedimento di
espropriazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
Anzitutto, occorre rimarcare che la
qualificazione degli impegni assunti, mediante la
stipulazione della convenzione approvata l’11.02.1997, dagli
originari proprietari delle aree comprese nel perimetro del
piano di recupero dev’essere ricondotta al modello degli
accordi sostitutivi del provvedimento di cui all’art. 11
della legge 241/1990
(cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 15.12.2000, n.
1262; id., 11.12.2001, n. 15641; id. 07.02.2002, n. 1763).
Da tale inquadramento discende:
a) sul piano processuale, la competenza a conoscere dell’odierna
vicenda del giudice amministrativo;
b) sul piano sostanziale, l’applicazione dei principi del codice
civile in materia di obbligazione e contratti, in quanto
compatibili.
Ciò premesso, le obbligazioni contenute
nella citata convenzione –sia quelle riguardanti la cessione
delle aree finalizzate all’esecuzione delle opere di
urbanizzazione (artt. 5 e 6), sia quella concernente la
manutenzione in perpetuo delle aree asservite all’uso
pubblico (art. 11)– costituiscono espressione dell’avvenuta
intesa tra l’Amministrazione comunale e i privati
proprietari per la definizione di un preciso assetto delle
aree incluse nel piano di recupero.
Si aggiunga, poi, che tali obbligazioni
sono connotate dal carattere della ambulatorietà, funzionale
ad assicurare l’adempimento delle stesse anche a fronte di
fenomeni di circolazione della proprietà dei fondi
interessati (cfr.
Corte di Cassazione, sez. II, 28.06.2013, n. 16401, secondo
cui “l’assunzione, da parte del
proprietario del fondo, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione primaria e di una quota degli oneri delle
opere di urbanizzazione secondaria (…) costituisce
un’obbligazione propter rem, dovendo dette opere essere
eseguite da coloro che sono proprietari al momento del
rilascio della concessione edilizia, i quali ben possono
essere soggetti diversi da quelli che stipularono la
convenzione, per avere da questi acquistato una parte del
suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di) lotti)" e
ritenuta pienamente applicabile anche alle convenzioni di
lottizzazione ex art. 28 della legge 1150/1942,
richiamate dai ricorrenti (cfr., sul punto, Corte di
Cassazione civile, 20.12.1994, n. 10947).
Nella specie, in esito al perfezionamento
della vendita delle aree controverse dagli originari
proprietari alla società Un. s.r.l., e da quest’ultima –in
seconda battuta– ai soggetti che hanno costituito il
condominio (i
quali hanno conferito mandato irrevocabile alla medesima
società per sottoscrivere la convenzione di cessione con il
Comune: il che è avvenuto con atto del 26.01.2010),
si è determinata a carico di questi ultimi la
traslazione dell’obbligo manutentivo connotato da una
stabilità nel tempo (“in perpetuo”) che trova ragione
nel vincolo di asservimento delle aree in questione all’uso
in favore di un complesso di soggetti indeterminati, ma
considerati uti cives, secondo l’istituto giuridico
della dicatio ad patriam
(cfr. Corte di Cassazione civile, II, 21.05.2001, n. 6924),
costituente un titolo di acquisto legittimo e quindi ben
lontano dal poter essere ritenuto affetto da nullità, nei
termini dedotti dai ricorrenti.
La previsione di cui all’art. 6 della convenzione, in
combinato disposto con il successivo art. 11, si pone,
dunque, in linea di continuità con il consolidato
orientamento in forza del quale la “dicatio
ad patriam è un modo di costituzione di una servitù di uso
pubblico, che consiste nel comportamento del proprietario di
un bene, per lo più immobile, che, pur se non
intenzionalmente diretto alla produzione dell'effetto di dar
vita al diritto di uso pubblico, denoti in modo univoco la
volontà di mettere la cosa a disposizione di una comunità
indeterminata di cittadini, con carattere di continuità e
non di mera precarietà e tolleranza, per soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives".
Ricorrendo gli indicati presupposti, la servitù di uso
pubblico deve ritenersi perfezionata con l'inizio dell'uso
stesso, senza che sia necessario il decorso di un congruo
periodo di tempo o un atto negoziale o un procedimento di
espropriazione (da
ultimo, Cass. 07.05.1992 n. 5262; Cass. sez. un. 03.02.1988
n. 1072)”
(cfr. Corte di Cassazione, 10.12.1994, n. 10574) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 29.11.2017 n. 2291 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Effetto espulsivo delle attività già insediate da parte di
un nuovo strumento urbanistico.
In ordine agli effetti dell’approvazione
di un nuovo strumento urbanistico sulle attività esistenti,
il TAR Milano richiama l’orientamento della giurisprudenza
in forza del quale si è statuita l’illegittimità di un
effetto espulsivo delle attività già insediate sul
presupposto che, se è vero che la programmazione urbanistica
è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità
nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del
territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur
sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi
coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente
se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica
generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di
interessi, anche privati.
Gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a
disciplinare la futura attività di trasformazione e di
sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia
diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui
subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già
eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali
conservano la loro precedente e legittima destinazione pur
se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo
deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli
interventi necessari per integrarne o mantenerne la
funzionalità.
La programmazione urbanistica non può, in definitiva,
introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi
esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi
di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di
settore (commento
tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto per le
seguenti ragioni.
Con la sentenza n. 2592 del 27.10.2011 la IV Sezione di
questo Tribunale, modificando l’ordine di esame dei riuniti
ricorsi, ha così statuito:
1) il ricorso proposto dall’Officina meccanica Ca. G. & C. s.n.c.,
iscritto al RG 29/2010, con cui è stato impugnato il
provvedimento di annullamento del permesso di costruire in
sanatoria (condono edilizio) n. 24/C rilasciato in data
19.12.2007, è stato respinto in ragione del fatto che “dall’esame
del provvedimento impugnato, che ha annullato il permesso di
costruire in sanatoria n. 24/C del 19.12.2007, emerge che,
in seguito al raffronto tra gli allegati grafici acclusi
alla richiesta di condono e quelli prodotti unitamente alla
concessione edilizia originaria del fabbricato –n. 459 del
25.10.1994, quale variante alla concessione n. 207 del
22.04.1994–, gli uffici comunali hanno riscontrato delle
differenti destinazioni d’uso all’interno della superficie
del fabbricato che non sarebbero mai state oggetto di
sanatoria. Pertanto, la richiesta di condono ha avuto ad
oggetto degli interventi su un fabbricato già in origine
avente destinazione abusiva, da cui è scaturita la
determinazione dell’Amministrazione di annullare il condono
rilasciato in precedenza”;
2) il ricorso proposto dai signori Co. e Ru., iscritto al RG
1166/2009, è stato accolto nella parte in cui l’impugnazione
è stata rivolta all’annullamento del condono n. 25/C, ossia
alla realizzazione di una struttura fissa in ampliamento del
fabbricato esistente (mentre è stato dichiarato improcedibile relativamente alle opere condonate con il
permesso in sanatoria 24/C, oggetto del sopra citato
giudizio), e ciò sul presupposto che “risulta illegittimo
un condono richiesto in relazione ad interventi effettuati
su un’opera già in origine (parzialmente) abusiva e a sua
volta non condonata”;
3) il ricorso proposto dai signori Co. e Ru. iscritto al RG
4566/2000, con cui è stata impugnata l’autorizzazione del
responsabile dell’area tecnica mediante la quale si era
assentita l’installazione di una copertura mobile scorrevole
su ruote a protezione del personale addetto al carico e
scarico degli automezzi, è stato accolto per difetto di
motivazione.
Alla luce di quanto pronunciato e del passaggio in giudicato
della sentenza per effetto della perenzione disposta dal
Consiglio di Stato con decreto n. 1159/2017, il manufatto è,
pertanto, da ritenere inoppugnabilmente abusivo.
L’Amministrazione, però, non è rimasta inerte, anzi ha
prontamente adempiuto all’obbligo conformativo derivante
dalla sentenza del giudice di prime cure emettendo le
ordinanze nn. 2151 e 2152 del 14.07.2012.
Con la prima di queste si è ingiunto ai titolari della ditta
Ca., ai sensi dell’art. 34 del DPR 380/2001, “la
rimessione in pristino e la modifica della destinazione
d'uso del fabbricato insistente sul mapp. n. 317, Foglio 4
Sezione Censuaria di Penzano, riportando il fabbricato come
da Concessione Edilizia in sanatoria n. 459 in data
25.10.1995 a fronte dell'annullamento del condono n. 24/C
(modifiche a fabbricato esistente con cambio destinazione
d'uso di una porzione pari al 50%)”, risultando, da
ultimo, che sarebbe in atto la demolizione d’ufficio, come
ha prospettato la difesa comunale nella memoria di replica
del 26.10.2017.
Con la seconda ordinanza si è, invece, ingiunto, ai sensi
dell’art. 31, comma 2, del DPR 380/2001, la “completa e
integrale demolizione e/o rimozione della struttura ad
ampliamento del fabbricato artigianale”: ordine che
sarebbe stato spontaneamente ottemperato.
Ad avviso del Collegio è, pertanto, pienamente smentito
l’assunto dei ricorrenti secondo cui sarebbe ravvisabile, a
carico del Comune, una violazione o un’elusione della
sentenza n. 2592/2011.
Tali vicende fanno da sfondo alle ulteriori questioni
dibattute in giudizio, concernenti la legittimità della
previsione del PGT che ha escluso alcune specifiche
destinazioni d’uso (U 2, U 6.1, U 6.2, U 6.3, U 6.4, U 7, U
13, U 15), di contro confermando “le destinazioni d'uso,
diverse dalla residenza, in atto alla data di adozione del
PGT. In particolare, le attività esistenti alla data di
adozione del PGT, compatibili con la classe di azzonamento
acustico vigente, sono confermate, fino alla cessazione
delle stesse, nel limite del 50% della SLP esistente e/o
realizzabile” (art. 23 NTA del piano delle regole).
Richiamando tale disposizione, l’Amministrazione comunale ha
puntualizzato, nella memoria del 13.10.2017 (pag. 4), che
l’esercizio dell’officina meccanica da parte della società
Ca., sussunta nella destinazione U 13, non sarebbe
ammissibile (quindi procrastinabile).
Tale affermazione, rapportata alla piana disciplina
urbanistica sopra illustrata, risponde al vero, essendo la
destinazione U 13 espressamente annoverata tra quelle
escluse nell’area oggetto del contendere.
Residua, invece, la questione se la medesima previsione sia
legittima nella parte in cui ha consentito il mantenimento
–ancorché alle condizioni più dettagliatamente enunciate–
delle attività esistenti.
Neppure sotto tale profilo, però, il ricorso è fondato.
In primo luogo, occorre considerare che nel testo
dell’osservazione n. 17 del 05.09.2012 i ricorrenti hanno
fatto “rilevare che sono da tempo in contenzioso con la
ditta Ca. proprietaria del lotto confinante con
azione legale ben nota e conosciuta dalla A.C. avverso
l’esercizio di (…) edificazione abusiva di manufatti oltre i
limiti edilizi concessi dal P.R.G.; destinazione d'uso del
manufatto non conforme sia per quantità (oltre il 20% del
totale) sia per tipologia, in quanto nei locali di ragione
Ca. viene esercitata attività artigianale produttiva
di tipo pesante, non di servizio alla residenza e ammessa
esclusivamente nella zona D - produttiva intensiva - del
vigente P.R.G.”.
Hanno soggiunto che “le nuove previsioni di P.G.T.
ammetterebbero, per contro: la sanabilità della maggior
costruzione abusivamente edificata; la sanabilità della
destinazione d'uso (abusivamente esercitata e non conforme
sia al previgente P.R.G. che alla previsione di P.G.T. per
quanto concerne i nuovi insediamenti) inquadrabile nella
fattispecie U13 - artigianato produttivo manifatturiero di
tipo laboratoriale”.
Fermo quanto si è in precedenza detto in ordine
all’esclusione della destinazione U 13, viceversa
erroneamente ritenuta dai ricorrenti come ammissibile,
il
Collegio reputa che dirimenti considerazioni derivino dal
richiamo alle statuizioni espresse dalla Corte
costituzionale in materia di partecipazione al procedimento
di formazione dei piani urbanistici.
Nella sentenza n. 23 del 20.03.1978, infatti, il Giudice
delle Leggi ha osservato che “i soggetti privati non
partecipano al procedimento formativo dei piani regolatori
nella veste di vere e proprie parti, presentando
osservazioni "a tutela del proprio interesse"
(secondo il criterio enunciato da questa Corte, nella
sentenza n. 13 del 1962) ma svolgono
attività puramente collaborative, in vista di una più
compiuta valutazione degli interessi pubblici in gioco.
Non a caso, si considerano irricevibili le osservazioni che
non abbiano di mira la soddisfazione delle comuni esigenze
cui tendono i piani regolatori, ma consistano in reclami
rivolti a difendere particolari interessi privati.
Parallelamente, si esclude che sussista l'obbligo di
respingere le osservazioni stesse motivando in maniera
specifica e puntuale, ma si suole affermare che basta una
motivazione sintetica, nella quale si adducano le ragioni di
pubblico interesse che stanno a fondamento della
pianificazione progettata.
Ed anzi si ritiene sufficiente che l'amministrazione
comunale abbia preso comunque in esame i rilievi così
presentati; mentre non si configura neanche un dovere di
esame, per quanto riguarda le denunce successivamente
inviate alle autorità cui spetta l'approvazione del piano”.
Nella specie, risulta evidente che l’interesse (dichiarato)
dei ricorrenti alla legittimità della pianificazione
coincide perfettamente con l’interesse (concreto, ma
privato) ad ottenere il materiale smantellamento
dell’insediamento della ditta Ca..
Il mantenimento di talune attività anche a seguito
dell’approvazione di un nuovo strumento urbanistico è, però,
questione sulla quale la giurisprudenza ha espresso
posizioni chiare e consolidate.
Si è, in particolare,
statuita l’illegittimità di un effetto
espulsivo delle attività già insediate sul presupposto che “se
è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da
un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di
un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le
scelte pianificatorie devono pur sempre garantire
un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti,
dovendo l'amministrazione valutare attentamente se
l'astratto miglioramento della situazione urbanistica
generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di
interessi, anche privati. (…) Gli strumenti urbanistici sono
essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di
trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo
che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni
cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere
già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i
quali conservano la loro precedente e legittima destinazione
pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo
deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli
interventi necessari per integrarne o mantenerne la
funzionalità (Consiglio di Stato, sez. V - 19/02/1997 n.
176).
La programmazione urbanistica non può, in definitiva,
introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi
esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi
di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di
settore e che sono stati più volte evidenziati dalla
giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione
(sentenza 31/05/1986 n. 185)” (cfr., da ultimo, TAR
Lombardia–Brescia, 15.03.2017, n. 374).
La disciplina trasfusa nell’impugnato art. 23 delle norme
tecniche del piano delle regole di Eupilio, sul punto,
risulta improntata, secondo il Collegio, alla ragionevole
verifica di compatibilità dell’attività da mantenere in
essere con la classe di azzonamento acustico e con una
significativa limitazione (50%) della SLP esistente e/o
realizzabile, dunque con la tutela di interessi pubblici
certamente prevalenti rispetto alle ragioni private dei
ricorrenti.
In conclusione, il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 29.11.2017 n. 2289 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Consulta ribadisce la competenza statale esclusiva in
materia di tutela del paesaggio e delle aree protette.
---------------
Edilizia e
urbanistica – Regioni a statuto ordinario - Governo del
territorio – Potestà legislativa – Disciplina della
rilevanza paesaggistica delle costruzioni – Estensione –
Incostituzionalità.
E’ illegittimo l’art. 1, comma 129,
della legge regionale n. 4 del 2011, nella parte in cui,
sostituendo l’art. 2, comma 1, della legge reg. Campania n.
13 del 1993, prevede che non costituiscono attività
rilevanti ai fini paesaggistici le installazioni «quali
tende ed altri mezzi autonomi di pernottamento, quali
roulotte, maxi caravan e case mobili», anche se «collocate
permanentemente entro il perimetro delle strutture ricettive
regolarmente autorizzate» in un’area naturale protetta. (1)
---------------
(1) I.- Con la sentenza in epigrafe la Consulta ha ritenuto
fondata la questione di illegittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 129, della legge regionale della Campania
n. 4 del 2011, nella parte in cui, sostituendo l’art. 2,
comma 1, della legge regionale n. 13 del 1993, prevede che
non costituiscono attività rilevanti ai fini paesaggistici
le installazioni «quali tende ed altri mezzi autonomi di
pernottamento, quali roulotte, maxi caravan e case mobili»,
anche se «collocate permanentemente entro il perimetro
delle strutture ricettive regolarmente autorizzate».
II.- L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 02.02.2015, n. 469 la VI sezione del Consiglio
di Stato, adita nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto
l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione di trentuno
case mobili, di quattro strutture in ferro e di sette
roulotte allestite in un’area naturale protetta, ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 129, della legge della Regione Campania 15.032011,
n. 4, in riferimento agli artt. 3, 9, 32 e 117, secondo
comma, lettera s), e terzo comma della Costituzione, nella
parte in cui, innovando la disciplina dei campeggi dettata
dall’art. 2 della legge della Regione Campania 26.03.1993,
n. 13, modifica il comma 1 del citato art. 2, consentendo
che opere permanentemente infisse al suolo, e perciò
destinate ad immutare con carattere stabile l’assetto
edilizio, urbanistico e paesistico di un parco nazionale,
siano realizzate in assenza di qualsivoglia previo scrutinio
di compatibilità con gli interessi pubblici che insistono su
tale territorio.
Secondo il giudice remittente:
a) la legge regionale invaderebbe la competenza esclusiva statale
in «materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e
dei beni culturali» in contrasto con l’art. 117, secondo
comma, lettera s), Cost., sottraendo la corrispondente
porzione del paesaggio vincolato alla pubblica funzione di
tutela riservata allo Stato ed esercitata attraverso la
previsione generale dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004,
in tema di autorizzazione paesaggistica per gli interventi
nelle zone vincolate, e dell’art. 13 della legge n. 394 del
1991, che richiede il previo nulla osta dell’Ente parco, per
le opere stabilmente infisse nel suolo, realizzate nelle
aree dei parchi nazionali e «destinate ad immutare con
carattere stabile l’assetto edilizio, urbanistico e
paesistico di un parco nazionale».
La sottrazione di tali opere al regime delle autorizzazioni
paesaggistiche ed ambientali, di competenza statale, si
porrebbe pertanto in contrasto non solo con l’art. 9, comma
2 Cost. ma anche con l’art. 32 stante il legame inscindibile
tra la protezione dell’ambiente e la tutela del diritto
fondamentale alla salute;
b) sussisterebbe una violazione dell’art. 3 Cost. sotto il
profilo della irragionevolezza della previsione normativa in
esame, che senza alcuna apprezzabile ragione, accorda un
regime di favore per gli interventi di installazione di un
campeggio rispetto ad altre opere, destinate a far fronte a
diverse, più pregnanti esigenze, aventi il medesimo impatto
sul territorio;
c) vi sarebbe anche violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost,
per contrasto con i principi fondamentali posti dalla
legislazione statale in materia di governo del territorio, e
segnatamente dall’allora vigente art. 3, comma 5, lett.
e.5), d.P.R. n. 380 del 2001 (successivamente modificato
dall’art. 41, comma 4, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito
con modifiche dalla l. 09.08.2013, n. 98 e quindi dall'art.
10-ter, comma 1, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito con
modifiche dalla l. 23.05.2014, n. 80) che, tra gli "interventi
di nuova costruzione", ricomprendeva, all’epoca, “l'installazione
di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di
qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili,
imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti
di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che
non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
III.- La decisione della Consulta.
Con la sentenza di cui in epigrafe la Consulta, condividendo
le argomentazioni del giudice a quo, ha dichiarato fondata
la questione di costituzionalità in quanto:
d) il potere di intervento delle Regioni in materia di “governo
del territorio” non si estende alla disciplina della
rilevanza paesaggistica degli allestimenti mobili, che
incide sul regime autorizzatorio tratteggiato dall’art. 146
del d.lgs. n. 42 del 2004 ed è riconducibile alla competenza
esclusiva dello Stato in materia di ambiente;
e) spetta alla legislazione statale determinare presupposti
e caratteristiche dell’autorizzazione paesaggistica, delle
eventuali esenzioni e delle semplificazioni della procedura,
in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore
intangibile dell’ambiente;
f) l’autorizzazione paesaggistica, finalizzata alla protezione
ambientale, è assoggettata a «una disciplina uniforme,
valevole su tutto il territorio nazionale» (sentenze n.
189 del 2016, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010; nello stesso
senso, sentenza n. 232 del 2008, citate in motivazione), che
rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto
dell’ambiente (sentenza n. 641 del 1987, punto 2.2. del
Considerato in diritto);
g) la competenza esclusiva statale risponde a ineludibili
esigenze di tutela e sarebbe vanificata dall’intervento di
una normativa regionale che sancisse in via indiscriminata
–come avviene nel caso di specie– l’irrilevanza
paesaggistica di determinate opere, così sostituendosi
all’apprezzamento che compete alla legislazione statale.
IV.- Si segnala per completezza:
h) per l’affermazione di identico principio di cui alla
massima, anche con riferimento alle Regioni a statuto
speciale cfr. Corte cost., 14.06.2016, n. 189 in Giur.
cost., 2016, 1384;
i) in generale sul potere del legislatore statale, tramite
l'emanazione delle disposizioni previste dal codice dei beni
culturali e del paesaggio, qualificate norme di grande
riforma economico-sociale, di vincolare la potestà
legislativa primaria delle regioni a statuto speciale cfr.
da ultimo Corte cost. 24.07.2013, n. 238 in Foro it., 2013,
I, 3025; Riv. Giur. Ambiente 2014, 1, 39 con nota di
TUMBIOLO (cui si rinvia per ogni approfondimento), secondo
cui:
I) “È incostituzionale l’art. 3 l.reg. Valle
d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui prevede
l’esenzione dall’obbligo del rilascio di autorizzazione
paesaggistica per una serie di interventi che la normativa
statale subordina invece a tale autorizzazione o ad
autorizzazione paesaggistica semplificata”;
II) È incostituzionale l’art. 9 l.reg. Valle
d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui prevede che la
commissione regionale per il paesaggio, e non la sola
soprintendenza, possa esprimere parere vincolante in merito
alle istanze relative a provvedimenti riguardanti
l’applicazione di sanzioni demolitorie per abusi edilizi e
per la conversione delle demolizioni in indennità o sanzioni
pecuniarie;
III) È incostituzionale l’art. 10 l.reg. Valle
d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui delega alla
giunta regionale la possibilità di stabilire limiti
qualitativi e quantitativi, ai fini della tutela del
paesaggio, di ammissibilità dei progetti relativi agli
interventi di cui all’art. 3 stessa l. reg.;
j) in dottrina, sulla competenza esclusiva statale in materia di
ambiente cfr. BOMBI, La tutela dell'ambiente è di competenza
esclusiva dello Stato, in Dir. e giust. 2013, 1588;
MASTRODONATO, La prevalenza statale e il ruolo regionale
nella giurisprudenza sulla tutela dell'ambiente, in Foro amm.
CDS2011, 1817; MAESTRONI, La Corte Costituzionale
restituisce allo Stato la competenza piena ed esclusiva in
materia di tutela dell'ambiente, in Riv. giur. amb. 2010,
326;
k) Corte cost., 15.02.2017, n. 36 (in Foro it., 2017, I, 1140; Riv.
dir. navigaz., 2017, 261, con nota di ROSATO cui si rinvia
per ogni approfondimento sui rapporti di competenza fra lo
Stato e le regioni in materia di ambiente, paesaggio e
riserve naturali), che, con riferimento alle aree marine
protette, ha ribadito il principio per cui «la disciplina
delle aree protette rientra nella competenza esclusiva dello
Stato in materia di "tutela dell'ambiente" ex art. 117,
secondo comma, lett. s), Cost., ed è contenuta nella legge
n. 394 del 1991, che detta i principi fondamentali della
materia, ai quali la legislazione regionale è chiamata ad
adeguarsi»; in argomento si veda altresì Corte cost.,
18.07.2014, n. 212 in Giur. Cost. 2014, 4, 3385 e Corte
Cost., 06.07.2012, n. 171 in Riv. giur. edilizia 2012, 4,
887;
l) sulla natura del t.u. edilizia, sull’eccesso di delega da cui
sarebbe affetto, sui rapporti Stato e Regioni in materia di
governo del territorio, nonché sulla individuazione dei
principi fondamentali all’interno del t.u. ed., cfr.:
I) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2, in
Urbanistica e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e
Giust. amm., 2008, fasc. 2, 181 (m), con nota di ARDANESE;
II) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 8, n. STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233
(m), con nota di VIPIANA PERPETUA;
III)
Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (in Foro it.,
2017, I, 2569, nonché oggetto della
News US in data 18.07.2016 cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento), secondo cui “È
incostituzionale l’art. 10, 1º comma, l.reg. Marche
13.04.2015 n. 16, nella parte in cui consente di derogare
alla disciplina statale in materia di distanze tra gli
edifici, limitatamente alla modifica dell’art. 35 l.reg.
Marche 04.12.2014 n. 33, che ha sostituito all’espressione
originaria «ovvero di ogni altra trasformazione», la
diversa espressione «e di ogni trasformazione»;
IV) A. RUSSO e S. AMOROSINO, in Testo unico
dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano,
2015, 3 ss. e 25 ss. (Corte
Costituzionale,
sentenza 29.11.2017 n. 246 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul tratto distintivo della concessione
dall'appalto di servizi.
L'affidamento del servizio di tesoreria
comunale deve essere qualificato in termini di rapporto
concessorio.
●
Quando l'operatore privato si assume i rischi della gestione
del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente
mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone,
tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui
può affermarsi che è la modalità della remunerazione il
tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi.
Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma
in concreto i rischi economici della gestione del servizio,
rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà
appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull'amministrazione.
●
Deve essere qualificato in termini di rapporto concessorio
l'affidamento del servizio di tesoreria comunale, il quale,
se pure presenta un oggetto più ampio del rapporto in
discussione, comunque al pari di questo appare
caratterizzato dal conferimento di funzioni pubblicistiche,
con conseguente devoluzione delle relative controversie alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi
dell'art. 133 cpa (con esclusione di quelle concernenti
indennità, canoni ed altri corrispettivi): pertanto, anche
nel caso di specie, riguardante un profilo di risoluzione
del rapporto avente ad oggetto il servizio pubblico di
accertamento e riscossione delle entrate tributarie di un
ente locale, deve concludersi per la sussistenza della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi
dell'art. 133, co. 1, lett. c), cpa (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 28.11.2017 n. 5600 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Le domande (stragiudiziali) di accesso, se non
compiute dai diretti interessati, debbono essere sorrette da
specifica procura, affinché la domanda possa essere
considerata rituale.
La giurisprudenza in proposito così si è orientata:
-
“La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che
vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo
legale, ma -in tale caso- deve essere accompagnata, per
asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte
del soggetto interessato, da copia di apposito mandato od
incarico professionale, ovvero dalla sottoscrizione
congiunta dell'interessato stesso. In assenza di una
sottoscrizione congiunta o di una procura speciale l'istanza
di accesso è irrituale, e non fa sorgere in capo
all'Amministrazione, ed ai soggetti alla stessa equiparati,
un obbligo di provvedere";
-
“Ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. 27.06.1992 n.
352, un avvocato che intenda presentare istanza formale di
accesso ai documenti, in luogo del soggetto interessato deve
essere munito di apposita procura speciale".
---------------
... per ottenere l’accesso agli atti di cui alla richiesta
del 6-6-17.
...
Ad avviso del Collegio il ricorso è inammissibile (su tale
questione sollevata d’ufficio le parti sono state avvisate
ex art. 73, c. 3, CPA).
Invero risulta “per tabulas” che la domanda di accesso del
06.06.2017 è a sola firma del difensore avv. Sp..
Sul punto il Collegio rileva che le domande (stragiudiziali)
di accesso, se non compiute dai diretti interessati, debbono
essere sorrette da specifica procura, affinché la domanda
possa essere considerata rituale.
Non così è avvenuto nel caso di specie, dove (solo) il
difensore ha presentato la domanda.
La giurisprudenza in proposito così si è orientata.
“La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che
vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo
legale, ma -in tale caso- deve essere accompagnata, per
asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte
del soggetto interessato, da copia di apposito mandato od
incarico professionale, ovvero dalla sottoscrizione
congiunta dell'interessato stesso. In assenza di una
sottoscrizione congiunta o di una procura speciale l'istanza
di accesso è irrituale, e non fa sorgere in capo
all'Amministrazione, ed ai soggetti alla stessa equiparati,
un obbligo di provvedere" (TAR Lazio Roma, sez. III, 02.07.2008 , n. 6365).
“Ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. 27.06.1992 n.
352, un avvocato che intenda presentare istanza formale di
accesso ai documenti, in luogo del soggetto interessato deve
essere munito di apposita procura speciale" (TAR Sicilia
Palermo, sez. III, 25.09.2006, n. 1950).
Ne consegue che il ricorso è inammissibile (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 28.11.2017 n. 2765 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Posto che il terzo che intende contestare la
conformità di una attività intrapresa con SCIA può
unicamente sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3,
cod. proc. amm., nel caso di specie l’Amministrazione ha
fornito il richiesto riscontro, pur se in senso negativo per
la ricorrente, dal momento che con la nota ... ha
rappresentato la conformità del manufatto per effetto della
sopravvenuta concessione integrativa n. 20 del 2014.
Da qui l’inammissibilità dell’azione di accertamento, dal
momento che ove -come nel caso di specie- il Comune
riscontri in senso negativo l’istanza sollecitatoria del
terzo non ritenendo sussistenti i presupposti per
l’esercizio dei poteri inibitori o di autotutela nei
confronti della SCIA, quest’ultimo ha l’onere di proporre
immediata impugnazione, trattandosi di provvedimento
immediatamente e direttamente lesivo della pretesa azionata,
risultando l’azione “contra silentium” inammissibile una
volta che l’inerzia dell’Amministrazione sia venuta meno già
al momento della stessa proposizione del ricorso.
---------------
Come noto, sulla questione della tutela del terzo nei
confronti della SCIA sussiste ancor oggi ampio contrasto
giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il potere di sollecitazione
in capo al terzo non sarebbe sottoposto ad alcun termine
prevedendolo il vigente Codice del processo amministrativo
(art. 31, comma 2, cod. proc. amm.) soltanto per la
proposizione dell’azione “contra silentium”.
Secondo altra tesi, dopo la scadenza del termine di 60 o 30
giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio (art.
19, comma 3) il terzo potrebbe sollecitare sempre senza
termine l’intervento dell’Amministrazione ma nei limiti
sostanziali per l’esercizio del potere di autotutela di cui
al comma 4 dell’art. 19.
Altra opzione esegetica, ancora, ritiene invece che il
potere di sollecitazione del terzo pur nel silenzio della
legge sia soggetto ad un termine che non può che coincidere
con quello generale decadenziale per la tutela delle
posizioni di interesse legittimo, decorrente dalla
conoscenza della lesività dell’intervento, secondo i
principi del tutto pacifici vigenti in materia edilizia.
Nel caso della s.c.i.a., infatti, il terzo è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti
sfavorevoli per il soggetto segnalante.
Recentemente è
stata rimessa alla Corte Costituzionale, per contrasto con
gli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1, Cost., in relazione
all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed
all'art. 6, par. 3, del Trattato UE, e 117, comma 2, lett.
m), Cost., la questione di legittimità dell'art. 19, comma
6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui omette
di prevedere il termine entro il cui il terzo può avanzare
l'istanza di sollecitazione delle verifiche sulla S.C.I.A..
Ritiene il Collegio, nelle more della pendenza della
questione di costituzionalità, che pur nel silenzio della
legge sia ricavabile dal sistema il principio secondo cui il
potere di sollecitazione del terzo non possa dirsi
esercitabile senza termine, essendo esso invece
individuabile nel generale termine decadenziale di sessanta
giorni decorrente dalla lesività dell’intervento, e ciò per
diverse ragioni.
Anzitutto il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del potere inibitorio sull’attività
oggetto di SCIA, interesse che al pari di tutti gli altri
deve essere esercitato entro il generale termine
decadenziale oggi codificato dall’art. 41 comma 2, cod.
proc. amm.; diversamente opinando vi sarebbe una evidente quanto
ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla
posizione del terzo che intende contrastare un intervento
edilizio assentito con permesso di costruire, onerato di
impugnare il titolo abilitativo nel termine di 60 giorni
dalla “piena conoscenza” generalmente intesa come momento di
fine lavori.
In secondo luogo vi sarebbe una manifesta lesione
dell’affidamento del soggetto che presenta la SCIA in merito
alla conformità alla legge della propria attività oltre che
della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico,
risultando egli esposto per un tempo del tutto indeterminato
all’esercizio da parte del terzo del potere di
sollecitazione, in netto contrasto con i principi
informatori della novella legislativa di cui alla legge 124
del 2015 “Madia”.
Sarebbe inoltre del tutto irragionevole la positiva
previsione nel testo dell’art. 19 della legge 241 del '90 di
precisi termini perentori per l’esercizio dei poteri di
vigilanza e controllo esercitabili d’ufficio, dovendosi il
potere inibitorio di cui al comma terzo esercitare entro 30
o 60 giorni ed il potere di autotutela di cui al comma
quarto entro 18 mesi (giusto il richiamo all’art. 21-nonies
come riformato dalla legge 124 del 07.08.2015 n. 124) ove
si opinasse nel senso di lasciare invece indeterminata
l’iniziativa del terzo volta a sollecitare l’esercizio di
tali poteri.
---------------
6. - Va parimenti accolta l’eccezione di inammissibilità
sollevata nei confronti della domanda di accertamento
proposta ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 L. 241/1990 e
dell’art. 31 cod. proc. amm. nei confronti della presunta
inerzia del Comune di Perugia nell’esercizio del potere di
autotutela/inibitorio in riferimento alle SCIA presentate
dal controinteressato.
6.1. - Posto che il terzo che intende contestare la
conformità di una attività intrapresa con SCIA può
unicamente sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3,
cod. proc. amm. (ex multis TAR Lombardia Brescia sez. I,
09.01.2017, n. 28) nel caso di specie l’Amministrazione
ha fornito il richiesto riscontro, pur se in senso negativo
per la ricorrente, dal momento che con la nota prot. 197658
ha rappresentato la conformità del manufatto per effetto
della sopravvenuta concessione integrativa n. 20 del 2014.
Da qui l’inammissibilità dell’azione di accertamento, dal
momento che ove -come nel caso di specie- il Comune riscontri
in senso negativo l’istanza sollecitatoria del terzo non
ritenendo sussistenti i presupposti per l’esercizio dei
poteri inibitori o di autotutela nei confronti della SCIA,
quest’ultimo ha l’onere di proporre immediata impugnazione,
trattandosi di provvedimento immediatamente e direttamente
lesivo della pretesa azionata, risultando l’azione “contra silentium” inammissibile una volta che l’inerzia
dell’Amministrazione sia venuta meno già al momento della
stessa proposizione del ricorso (TAR Basilicata, sez. I,
15.03.2016, n. 259).
7. - Tanto premesso, risultano manifestamente tardive le
censure avverso la SCIA dell’08.11.2012, conosciuta
dalla ricorrente quantomeno alla data della propria istanza
di accesso del 31.01.2014.
7.1. - Come noto sulla questione della tutela del terzo nei
confronti della SCIA sussiste ancor oggi ampio contrasto
giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il potere di sollecitazione
in capo al terzo non sarebbe sottoposto ad alcun termine
prevedendolo il vigente Codice del processo amministrativo
(art. 31, comma 2, cod. proc. amm.) soltanto per la
proposizione dell’azione “contra silentium” (ex multis
TAR Piemonte, sez. II, 01.07.2015, n. 1114).
Secondo altra tesi, dopo la scadenza del termine di 60 o 30
giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio (art.
19, comma 3) il terzo potrebbe sollecitare sempre senza
termine l’intervento dell’Amministrazione ma nei limiti
sostanziali per l’esercizio del potere di autotutela di cui
al comma 4 dell’art. 19 (Consiglio di Stato, sez. VI, 03.11.2016, n. 4610; TAR Lombardia Milano sez. II, 15.04.2016 n. 735).
Altra opzione esegetica, ancora, ritiene invece che il
potere di sollecitazione del terzo pur nel silenzio della
legge sia soggetto ad un termine che non può che coincidere
con quello generale decadenziale per la tutela delle
posizioni di interesse legittimo, decorrente dalla
conoscenza della lesività dell’intervento, secondo i
principi del tutto pacifici vigenti in materia edilizia
(Consiglio di Stato, sez. IV, 12.11.2015, n. 5161;
TAR Toscana, sez. III, 03.10.2016, n. 1423).
Nel caso della s.c.i.a., infatti, il terzo è titolare di un
interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti
sfavorevoli per il soggetto segnalante.
7.2. - Come evidenziato dalle stesse parti recentemente è
stata rimessa alla Corte Costituzionale, per contrasto con
gli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1, Cost., in relazione
all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed
all'art. 6, par. 3, del Trattato UE, e 117, comma 2, lett.
m), Cost., la questione di legittimità dell'art. 19, comma
6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui omette
di prevedere il termine entro il cui il terzo può avanzare
l'istanza di sollecitazione delle verifiche sulla S.C.I.A.
(TAR Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667).
7.3. - Ritiene il Collegio, nelle more della pendenza della
questione di costituzionalità, che pur nel silenzio della
legge sia ricavabile dal sistema il principio secondo cui il
potere di sollecitazione del terzo non possa dirsi
esercitabile senza termine, essendo esso invece
individuabile nel generale termine decadenziale di sessanta
giorni decorrente dalla lesività dell’intervento, e ciò per
diverse ragioni.
Anzitutto il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del potere inibitorio sull’attività
oggetto di SCIA, interesse che al pari di tutti gli altri
deve essere esercitato entro il generale termine
decadenziale oggi codificato dall’art. 41 comma 2, cod.
proc. amm. (Consiglio di Stato sez. VI, 15.04.2010, n.
2139); diversamente opinando vi sarebbe una evidente quanto
ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla
posizione del terzo che intende contrastare un intervento
edilizio assentito con permesso di costruire, onerato di
impugnare il titolo abilitativo nel termine di 60 giorni
dalla “piena conoscenza” generalmente intesa come momento di
fine lavori (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 626; id. sez. IV, 25.05.2017, n. 2453,
id. sez. IV, 13.01.2017, n. 66; TAR Sicilia, Catania,
sez. II, 22.08.2017, n. 2066).
In secondo luogo vi sarebbe una manifesta lesione
dell’affidamento del soggetto che presenta la SCIA in merito
alla conformità alla legge della propria attività oltre che
della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico,
risultando egli esposto per un tempo del tutto indeterminato
all’esercizio da parte del terzo del potere di
sollecitazione, in netto contrasto con i principi
informatori della novella legislativa di cui alla legge 124
del 2015 “Madia”.
Sarebbe inoltre del tutto irragionevole la positiva
previsione nel testo dell’art. 19 della legge 241 del '90 di
precisi termini perentori per l’esercizio dei poteri di
vigilanza e controllo esercitabili d’ufficio, dovendosi il
potere inibitorio di cui al comma terzo esercitare entro 30
o 60 giorni ed il potere di autotutela di cui al comma
quarto entro 18 mesi (giusto il richiamo all’art. 21-nonies
come riformato dalla legge 124 del 07.08.2015 n. 124) ove
si opinasse nel senso di lasciare invece indeterminata
l’iniziativa del terzo volta a sollecitare l’esercizio di
tali poteri.
Ragion per cui l’azione di accertamento esercitata ai sensi
dell’art. 31 cod. proc. amm. così come l’azione di
annullamento della nota del 13.11.2015 è comunque in
parte qua irricevibile (TAR Umbria,
sentenza 28.11.2017 n. 724 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Danno
da fermo cantiere.
Secondo il TAR Milano,
per provare il danno per fermo cantiere
causato da un’ordinanza di sospensione
lavori occorre il deposito della
documentazione comprovante gli avvenuti
pagamenti delle prestazioni inutilizzate e
non semplicemente una relazione peritale che
si limita a prendere in considerazione, in
maniera astratta, i costi della mano d’opera
desumibili dal bollettino prezzi informativi
delle opere edili.
Né si può ritenere che a tale carenza
probatoria possa ovviarsi attraverso la
determinazione in via equitativa del danno
ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., che può
essere applicata solo quando la parte
interessata abbia quantomeno fornito la
prova dell’esistenza del danno subito e non
sia in grado, per ragioni oggettive, di
provarne l’ammontare
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
Il sig. Ba.Al., odierno
ricorrente, è proprietario di un fabbricato
situato sul territorio del Comune di Sesto
San Giovanni, catastalmente identificato al
foglio 35, mappali 267, 268, 269 e 270.
In data 04.08.2010, il sig. Ba. ha
presentato al Comune di Sesto San Giovanni
una denuncia di inizio attività, finalizzata
all’esecuzione di un intervento di
manutenzione straordinaria riguardante il
predetto immobile.
Il Comune, con provvedimento del 18.10.2012, ha ordinato la sospensione dei lavori
ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.P.R.
n. 380 del 2001.
Con successiva nota del 10.12.2012, lo
stesso Comune ha chiesto al ricorrente una
serie di documenti funzionali alla
valutazione di conformità dell’intervento
oggetto della suindicata DIA. Secondo il
medesimo ricorrente questa nota sarebbe
confermativa dell’ordine di sospensione
lavori in precedenza impartito.
Avverso tali atti è diretto il ricorso in
esame. Oltre alla domanda di annullamento è
stata proposta domanda risarcitoria.
Si è costituito in giudizio, per opporsi
all’accoglimento delle domande avverse, il
Comune di Sesto San Giovanni.
La Sezione, con ordinanza n. 125 del 25.01.2013, ha respinto l’istanza
cautelare.
In prossimità dell’udienza di discussione
del merito le parti hanno depositato
memorie, insistendo nelle loro conclusioni.
Tenutasi la pubblica udienza in data 31.10.2017, la causa è stata trattenuta in
decisione.
Il Collegio deve preliminarmente rilevare
che, come ammesso dallo stesso ricorrente
nella memoria depositata in data 29.09.2017,
la domanda di annullamento è
divenuta improcedibile in quanto diretta
contro atti ormai privi di efficacia.
Invero, come noto, ai sensi dell’art. 27,
terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001,
l’ordinanza di sospensione lavori ha
un’efficacia temporale limitata (non
superiore a quarantacinque giorni). Ne
deriva che sia l’ordinanza di sospensione
lavori del 18.10.2012 che la nota del
10.12.2012 (a dire del ricorrente
confermativa della prima) non esplicano
ormai alcun effetto, essendo all’evidenza
abbondantemente scaduto il suindicato
termine. Ne deriva ulteriormente che,
ovviamente, allo stato, non sussiste più
interesse ad ottenerne l’annullamento (si
veda in tal senso, fra le tante, TAR
Lazio Roma, sez. II, 04.04.2017, n.
4225).
Va pertanto ribadita l’improcedibilità della
relativa domanda.
Per quanto riguarda la domanda risarcitoria,
ritiene il Collegio che la stessa sia
infondata in quanto il ricorrente non ha
fornito alcuna prova del danno subito.
Va invero osservato che, nell’atto
introduttivo del giudizio, la parte si
limita ad affermare di aver subito un danno
per fermo cantiere per l’importo di euro
mille giornaliere.
Successivamente, e precisamente in data 21.01.2013, la stessa parte ha depositato
in giudizio una relazione peritale nella
quale si osserva che il fermo cantiere
avrebbe determinato un danno ammontante ad
euro 893,60 giornalieri per un totale di
euro 57.190,40. La perizia tuttavia non fa
riferimento alle somme effettivamente ed
inutilmente sborsate dal ricorrente, ma si
limita a prendere in considerazione, in
maniera astratta, i costi della mano d’opera
desumibili dal bollettino prezzi informativi
delle opere edili della Provincia di Milano,
relativo all’anno 2012.
Questa documentazione tuttavia non prova che
il ricorrente, nel periodo di fermo
cantiere, abbia davvero sostenuto questi
costi.
Né si può ritenere che a tale carenza
probatoria possa ovviarsi attraverso la
determinazione in via equitativa del danno
ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. Invero,
per pacifica opinione giurisprudenziale,
questa norma può essere applicata solo
quando la parte interessata abbia quantomeno
fornito la prova dell’esistenza del danno
subito e non sia in grado, per ragioni
oggettive, di provarne l’ammontare (cfr.,
fra le tante, Cassazione civile, sez. III 17.10.2016, n. 20889).
Nel caso di specie, come visto, parte
ricorrente non ha neppure fornito la prova
dell’esistenza del danno; e comunque si deve
escludere che la stessa fosse
impossibilitata a fornire la prova del suo
ammontare essendo a tal fine sufficiente il
deposito della documentazione comprovante
gli avvenuti pagamenti delle prestazioni
inutilizzate.
La domanda risarcitoria deve essere,
pertanto, respinta.
In conclusione, per le ragioni illustrate,
deve essere dichiarata l’improcedibilità
della domanda di annullamento, mentre la
domanda risarcitoria deve essere respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.11.2017 n. 2272 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Poiché lo scopo perseguito dal legislatore è
quello di evitare intercapedini dannose, le distanze tra
fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per
le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare,
perpendicolare ed ortogonale e la relativa disciplina non
trova pertanto applicazione “quando i fabbricati sono
disposti ad angolo e non hanno fra loro pareti contrastanti
perché ciò che rileva è la distanza fra opposte pareti”, che
è quanto accade nel caso di specie in cui la proiezione
della nuova parete chiusa progettata in ampliamento del
deposito crollato non interseca il portico delle ricorrenti.
---------------
Parimenti infondato è anche il quarto motivo, con il
quale le ricorrenti lamentano il mancato rispetto della
distanza di 10 m tra pareti finestrate.
Infatti come controdedotto dalla controinteressata, senza
replica sul punto da parte delle ricorrenti, dalla
documentazione versata in atti e, in particolare, dalla
tavola 6 del progetto (cfr. doc. 9 allegato alle difese
della controinteressata nell’elenco documenti depositato in
giudizio l’11.11.2016), l’edificio in progetto in realtà
rispetta la distanza di 10 m, perché la porzione del muro
che secondo le ricorrenti viola le distanze, viene dalle
stesse misurata in modo scorretto.
Infatti in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il
quale, poiché lo scopo perseguito dal legislatore è quello
di evitare intercapedini dannose, le distanze tra fabbricati
non si misurano in modo radiale, come avviene per le
distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare,
perpendicolare ed ortogonale (ex pluribus cfr.
Cassazione civile, sez. II, 07.04.2005, n. 72859) e la
relativa disciplina non trova pertanto applicazione “quando
i fabbricati sono disposti ad angolo e non hanno fra loro
pareti contrastanti perché ciò che rileva è la distanza fra
opposte pareti” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
05.10.2005, n. 5348), che è quanto accade nel caso di specie
in cui la proiezione della nuova parete chiusa progettata in
ampliamento del deposito crollato non interseca il portico
delle ricorrenti.
Il quarto motivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 27.11.2017 n. 1063 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropriazioni
per pubblica utilità: l'avviso agli
espropriandi deve indicare i nominativi e le
particelle.
E' pacifico che in tema
di espropriazione per pubblica utilità
l'avviso di cui all'art. 11 del d.P.R. n.
327/2001 debba contenere, per essere
legittimo, l'indicazione delle particelle e
dei nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo, avendo lo scopo
di essere idoneo a garantire l'effettiva
conoscenza, di guisa che il proprietario
inciso sia posto in grado di optare o non
per la partecipazione procedimentale in
chiave difensiva.
In sostanza, in forza di quanto previsto
dagli artt. 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001,
all’appellato andava inviato l'avviso di
avvio del procedimento e del deposito degli
atti volti a promuovere l'adozione dell'atto
dichiarativo di pubblica utilità, con
l'indicazione del nominativo del
responsabile del procedimento.
Il mancato assolvimento del duplice obbligo
di comunicazione ha quindi implicato
l'illegittimità dell'atto dichiarativo della
pubblica utilità e degli altri atti
successivi, a nulla rilevando che
l'interessato abbia avuto comunque
conoscenza del procedimento. Peraltro, tale
obbligo di comunicare l'avvio del
procedimento non può considerarsi superfluo
neanche se afferente ad una procedura di
rinnovazione di precedente progetto di opera
pubblica o di dichiarazione di pubblica
utilità conosciuta da parte dei proprietari
interessati.
La mancata comunicazione ex art. 11, d.P.R.
n. 327/2001 lede infatti il diritto di
quest’ultimi a partecipare in chiave
difensiva al procedimento, determinando
l'illegittimità del provvedimento così
assunto, senza potersi invocare neppure la
previsione del comma 2 dell'art. 21-octies,
della legge n. 241 del 1990, per prevenire
la pronuncia caducatoria.
---------------
11. L’appello non è fondato, a prescindere
dall’eccezione di inammissibilità dello
stesso formulata dall’appellato nella sua
memoria di costituzione del 21.12.2016.
12. Innanzitutto, non può essere condivisa
la tesi del comune di Cleto in ordine
all’inammissibilità del ricorso di primo
grado. Secondo parte appellante, la delibera
impugnata, la n. 6 del 22.07.2016, non
avrebbe avuto carattere lesivo essendo di
mera riapprovazione del progetto definitivo
dell’opera.
Il procedimento di esproprio, invece, era
già stato completato e non impugnato con una
serie di provvedimenti assunti nell’anno
2014 e pubblicati nell’albo pretorio dello
stesso Comune (non essendo intervenuto
all’epoca l’acquisto del bene da parte
dell’appellato non sarebbe stata fatta la
comunicazione diretta allo stesso).
Dagli atti di causa emerge però che i
procedimenti espropriativi precedenti alla
delibera impugnata sono stati attivati
sull’erroneo presupposto della proprietà
comunale del bene nel frattempo passata al
signor Van Ho. con gli atti di compravendita
richiamati in premessa (segnatamente i
ruderi della ex chiesa del SS. Rosario
venduta allo stesso dall’ente proprietario,
cioè la Parrocchia Santa Maria Assunta di
Cleto).
Tale cessione, in quanto relativa ad un bene
vincolato, è stata poi autorizzata dal
Ministero dei Beni e delle Attività
Culturali con provvedimento prot. 3672 del
25.06.2015, comunicato con atto prot. 9853
del 17.09.2015 al comune di Cleto che non ha
esercitato il diritto di prelazione. In ogni
caso, i provvedimenti del 2014 non sono mai
stati comunicati all’appellato.
La delibera impugnata del 2016 non è stata
dunque un atto meramente ricognitivo,
giacché si è resa necessaria, come evidenzia
lo stesso Comune, per le “varie esigenze
contrapposte pervenendo alla conclusione
della necessità dell’esproprio del bene”,
con una nuova valutazione dei fatti.
Tale delibera, con cui in sostanza si è
approvato il progetto, si è dichiarata la
pubblica utilità, si è adottato il decreto
di esproprio e stabilita l’immissione nel
possesso, ha superato, incorporandola e
sostituendola, la precedente delibera
consiliare risalente all’anno 2014, è stata
poi impugnata nei termini dall’appellato.
13. Quanto all’erronea conclusione del Tar
sulla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento di cui alla delibera impugnata
(n. 6/2016), va rilevato che l’art.
21-octies della legge n. 241/1990,
richiamato dalla parte appellante, non può
trovare applicazione nella materia
espropriativa nella quale è necessario dar
modo agli interessati di partecipare al
procedimento.
Per tale ragione, il giudice di primo grado
ha ritenuto manifestamente fondato il mezzo
d’impugnazione nel quale si lamentava la
violazione degli artt. 11 e 16 del D.P.R.
327/2001, nonché dell’art. 7 della legge n.
241 del 1990, avendo il signor Ho.
dimostrato come la comunicazione di avvio
del procedimento gli fosse stata spedita tra
il 20 ed il 21.07.2016, ossia
contestualmente alla data (20-22.07.2016) di
adozione della delibera impugnata, che, come
sopra detto, ha recato la dichiarazione di
pubblica utilità, la riapprovazione del
progetto inerente i ruderi della chiesa del
SS. Rosario di Cleto e l’assegnazione dei
termini per lo svolgimento della procedura
espropriativa.
14. D’altra parte, è pacifico che in tema di
espropriazione per pubblica utilità l'avviso
di cui all'art. 11 del d.P.R. n. 327/2001
debba contenere, per essere legittimo,
l'indicazione delle particelle e dei
nominativi, quali indefettibili elementi
diretti ad individuare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo, avendo lo scopo
di essere idoneo a garantire l'effettiva
conoscenza, di guisa che il proprietario
inciso sia posto in grado di optare o non
per la partecipazione procedimentale in
chiave difensiva (cfr. ex multis,
Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.04.2013, n.
2070).
In sostanza, in forza di quanto previsto
dagli artt. 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001,
all’appellato andava inviato l'avviso di
avvio del procedimento e del deposito degli
atti volti a promuovere l'adozione dell'atto
dichiarativo di pubblica utilità, con
l'indicazione del nominativo del
responsabile del procedimento.
Il mancato assolvimento del duplice obbligo
di comunicazione ha quindi implicato
l'illegittimità dell'atto dichiarativo della
pubblica utilità e degli altri atti
successivi, a nulla rilevando che
l'interessato abbia avuto comunque
conoscenza del procedimento. Peraltro, tale
obbligo di comunicare l'avvio del
procedimento non può considerarsi superfluo
neanche se afferente ad una procedura di
rinnovazione di precedente progetto di opera
pubblica o di dichiarazione di pubblica
utilità conosciuta da parte dei proprietari
interessati (cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 09.12.2010, n. 8688).
La mancata comunicazione ex art. 11, d.P.R.
n. 327/2001 lede infatti il diritto di
quest’ultimi a partecipare in chiave
difensiva al procedimento, determinando
l'illegittimità del provvedimento così
assunto, senza potersi invocare neppure la
previsione del comma 2 dell'art. 21-octies,
della legge n. 241 del 1990, per prevenire
la pronuncia caducatoria (cfr. Tar per il
Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I,
03.10.2016, n. 411).
15. Per le ragioni sopra esposte, l’appello
va respinto e per l’effetto va confermata la
sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.11.2017 n. 5480 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - URBANISTICA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Lottizzazione
abusiva materiale - Atto amministrativo illegittimo -
Mancanza delle condizioni previste dalla legge -
Realizzazione di opere edilizie con finalità commerciale in
zona agricola - Falsa dichiarazione della preesistenza
dell'immobile al 1/09/1967 - Artt. 30 e 44, d.P.R. n.
380/2001.
In materia di violazione dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del
2001, la non conformità dell'atto amministrativo alla
normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni
legislative statali e regionali in materia
urbanistico-edilizia e alle previsioni degli strumenti
urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia
illecito, e cioè frutto di attività criminosa, ma anche
nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia
espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste
dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che
regolano l'esercizio del potere, non vertendosi in tali casi
in una disapplicazione dell'atto amministrativo (Cass., sez.
2, 26/06/2014, n. 31229; sez. 3, 28/09/2006, n. 40425).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Prassi
contraria alla legge - Mancato rispetto delle norme che
regolano l'esercizio del potere - DIRITTO AGRARIO - Opere
edilizie realizzate a fini commerciali in zone qualificate
agricole - Lottizzazione abusiva materiale.
Si può configurare lottizzazione abusiva materiale, anche
nel caso di opere edilizie realizzate a fini commerciali in
zone qualificate agricole dagli strumenti di pianificazione.
Nella specie, la lottizzazione è stata attuata sia mediante
una serie di opere, sulla base di titoli illegittimi,
consistenti nell'originaria edificazione di un fabbricato
residenziale in zona agricola, nel successivo ampliamento
dello stesso con illegittimo mutamento di destinazione d'uso
a fabbricato commerciale, nell'accorpamento ad esso di
terreni agricoli su cui sono state edificate ulteriori opere
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.11.2017 n. 53388
- tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Residui da lavori di demolizione o di
costruzione - Natura di rifiuto del fresato di asfalto -
Artt. 183, 184, 184-bis, 256, 260 d. L.vo n.152/2006.
I materiali che residuano da lavori di demolizione o di
costruzione, che hanno ad oggetto strade o opere simili
(quale, come nel caso in esame, la nuova costruzione di una
pista aeroportuale) devono farsi rientrare nel novero dei
rifiuti, perché l'articolo 184, comma 1, lettera b), del
T.U.A., definisce, ex positivo iure, rifiuti speciali quelli
derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché
quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando
la possibilità di gestire gli stessi come sottoprodotti,
ricorrendo le condizioni di cui all'articolo 184-bis TUA.
Ne consegue che il materiale derivante dalle attività
incluse nella lista di cui alla lettera b) del terzo comma
dell'articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per presunzione
ex lege iuris tantum (circostanza, del resto,
confermata per quanto attiene l'attività di scarifica del
manto stradale mediante fresatura a freddo qualificata al
punto 7.6.1 come rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del
05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi
interpretare l'inciso "fermo restando quanto disposto
dall'articolo 184-bis", nel senso cioè che la regola è
che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in
via di eccezione) la possibilità che dette sostanze
derivanti da quelle attività costituiscano, in presenza di
tutte le condizioni previste dall'articolo 184-bis,
sottoprodotti.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Sottoprodotti -
Onere della prova.
In materia di gestione dei rifiuti, ai fini della
qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali
incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un
determinato materiale sia destinato con certezza ed
effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore
utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez.
3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari; Sez. 3, n.
41836 del 30/09/2008, Castellano).
RIFIUTI - Nozione di sottoprodotto - Fresato
d'asfalto - Giurisprudenza amministrativa e giurisprudenza
di legittimità - Interpretazioni e differenze - Codice
Europeo dei Rifiuti (CER).
L'art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e
non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a),
qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti
condizioni: la sostanza o l'oggetto deve trarre origine da
un processo di produzione, di cui costituisca parte
integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di
tale sostanza od oggetto; deve esserne certa l'utilizzazione
nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di
produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o
di terzi; la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato
direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla
normale pratica industriale; l'ulteriore utilizzo è legale,
ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo
specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i
prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non
porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la
salute umana.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che il fresato
d'asfalto, pur essendo contemplato dal Codice Europeo dei
Rifiuti (CER), può essere trattato alla stregua di un
sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e
venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che
ne preveda l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione,
senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito,
precisando che resta comunque ferma la qualifica di "rifiuto"
del fresato d'asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello
smaltimento, esso è soggetto a tutte le norme che valgono
per la categoria dei rifiuti, mentre può essere qualificato
sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo stesso è inserito in
un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun
trattamento diverso dalla normale pratica industriale in un
impianto che ne preveda l'impiego nello stesso ciclo di
produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale
come componente del prodotto finale trattato nell'ambito
dello stesso impianto (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del
2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il
c.d. "fresato d'asfalto" -che viene solitamente
definito come il materiale solido di risulta dell'attività
di scarifica (scarificazione) del manto stradale mediante
fresatura, costituito da bitume ed inerti, qualificato come
rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del 05.02.1998 e dal Codice
Europeo dei Rifiuti- rientri nella nozione di rifiuto.
RIFIUTI - Nozione di "trattamento" - Normale
pratica industriale - Interpretazione restrittiva.
La nozione di "trattamento" da considerare ai fini
dell'individuazione della sussistenza dei requisiti di cui
al d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, diretta ad
accertare quando detto trattamento possa ritenersi
rientrante nella normale pratica industriale, implica il
ricorso ad un'interpretazione meno estensiva dell'ambito di
operatività della disposizione in esame e tale da escludere
dal novero della normale pratica industriale tutti gli
interventi manipolativi del residuo diversi da quelli
ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale
esso viene utilizzato.
Ne consegue che, quando il riutilizzo non è integrale,
inevitabilmente una parte della sostanza prodotta è rifiuto
in quanto oggettivamente destinata all'abbandono e
l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti,
in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati,
comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di
disfarsi, con l'ulteriore conseguenza che la giacenza del
materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in una
sede diversa dal luogo di produzione del rifiuto) integra la
fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza
del rifiuto.
RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico
illecito di rifiuti - Pluralità di condotte - Comportamenti
non occasionali - Conseguimento di un ingiusto profitto -
Nozione di "ingente quantitativo dei rifiuti" - Pluralità
delle operazioni svolte - Criteri del profitto ingiusto -
Giurisprudenza.
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito
di rifiuti (art. 260, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) sanziona
una pluralità di condotte che si risolvono in una qualunque
delle operazioni tassativamente elencate dalla norma
consistenti nella cessione, ricezione, trasporto,
esportazione, importazione e, in ogni caso, nella gestione
abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel contesto di
una struttura organizzata tendenzialmente destinata ad
operare con continuità.
Trattasi di un reato abituale, che si perfeziona soltanto
attraverso la realizzazione di più comportamenti non
occasionali della stessa specie, finalizzati al
conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria
predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione
professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di
gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo
(Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao; Sez. 3, n. 44629
del 22/10/2015, Bettelli; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009,
Caserta).
Sicché, l'ingente quantitativo dei rifiuti, necessario a
configurare il delitto di attività organizzata per il
traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al quantitativo
complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità
delle operazioni svolte, anche quando queste ultime,
singolarmente considerate, possono essere qualificate di
modesta entità (Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe; Sez.
3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006, Costa; Sez. 3, n.
40827 del 06/10/2005, Carretta).
Infine, per la configurabilità del reato di traffico
illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve assumere
necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere
costituito anche da vantaggi di altra natura (Sez. 3, n.
40828 del 06/10/2005, Fradella), potendo infatti essere
costituito anche da vantaggi non patrimoniali o comunque da
un complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n.
28158 del 02/07/2007, Costa) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 22.11.2017 n. 53136 -
tratto da e link a
www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
La gestione del materiale derivante dalla scarifica del
manto stradale come sottoprodotto integra il reato di cui
all'art. 256 Tua.
Integra il reato previsto dall'art. 256,
comma primo, lett. a), del D.L.vo. 03.04.2006, n. 152 il
reimpiego di materiale inerte derivante dall'attività di
scarifica del manto stradale nel processo produttivo di
conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato essere
qualificato come sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis
del citato D.L.vo. neppure all'esito della modifica
introdotta dall'art. 12 del D.L.vo. 03.12.2010, n. 205
(massima tratta da www.tuttoambiente.it).
---------------
MASSIMA
3. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo
di vizi di
manifesta illogicità, sicché insuscettibile di essere
sottoposto al sindacato di
legittimità, i Giudici del merito, con doppia conforme
motivazione, hanno precisato che, a seguito del sopralluogo
compiuto dai Carabinieri del N.O.E.,
venne accertato che durante il periodo compreso tra il 08.05.2008 e il 31.03.2009, in Capoterra, località "Marzaloi" era stata
trasportata e conferita
una ingente quantità di conglomerato bituminoso (altrimenti
detto "fresato
d'asfalto") derivante dalle attività di rifacimento della
pista aerea dell'aeroporto
di Elmas.
Il terreno suindicato risultò di proprietà della Sar.Co.Bit. S.r.l. e
pertinenza di un impianto della società collegata
Con.Mo.Ter. S.r.l. specializzata
nella produzione di conglomerati bituminosi.
I Giudici del merito hanno ritenuto provata un'attività di
trasporto continua e
accuratamente pianificata di detto materiale, eseguita con
mezzi pesanti che
dall'aeroporto di Elmas giungevano poi all'impianto di
Capoterra, desumendo ciò
dal rinvenimento di numerosi "report" acquisiti dai
Carabinieri tramite il curatore
del fallimento della Con.Mo.Ter. S.r.l.
I report in questione vennero infatti annotati, in via del
tutto informale, dai
dipendenti impegnati nelle attività di trasporto al fine di
assicurare una
documentazione seppur minima dei conferimenti di
conglomerato bituminoso
operati dalla Sar.Co.Bit. S.r.l. verso la Con.Mo.Ter. S.r.l.
L'attività continuativa di trasporto e di conferimento delle
miscele presso
l'agro di Ma. venne comunque anche confermata dalle
dichiarazioni rese dal
teste Ca.Uc., dichiarazioni ulteriormente
corroborate da quelle rese da
altro testimone (Do. De An.).
Lo stesso imputato, It.Me., aveva confermato che vi fu
un trasporto
continuo di miscela bituminosa dall'aeroporto di Elmas verso
l'impianto di
Ma..
Sulla base di ciò e di ulteriori risultanze, i Giudici del
merito hanno ritenuto
che il conglomerato conferito presso l'impianto di Ma.,
nel periodo compreso
tra l'08.05. e il 25.09.2008, avesse natura di
rifiuto essendo destinato
per contratto all'abbandono ed essendo stato, per la maggior
parte, derelitto;
hanno inoltre ritenuto che le attività di trasporto e di
conferimento nella località
suindicata incrementarono una discarica già esistente su
quel sito, formata
anche da batterie esauste e da pneumatici fuori uso, nonché
da altre migliaia di
metri cubi di sostanza analoga.
Sulla base degli elementi probatori raccolti, hanno dunque
qualificato come
abusive le attività di trasporto e di conferimento, in
quanto svolte senza
autorizzazione e senza redigere la documentazione
espressamente richiesta dalla
normativa di settore; hanno ritenuto che le stesse fossero
state svolte con
continuità e con organizzazione di uomini e mezzi: sempre
con le medesime
modalità e caratteristiche. In particolare, furono sempre
identiche le società che
organizzarono la movimentazione dei mezzi; identica era la
natura del materiale trasportato e identici furono anche gli
autisti preposti alla guida dei mezzi di
trasporto.
Sempre secondo la ricostruzione dei fatti operata dai
Giudici del merito,
l'intera attività di trasporto e conferimento del materiale
avvenne secondo
operazioni pianificate accuratamente, condotte dalle due
società di capitali
nell'esercizio delle rispettive attività di impresa in
esecuzione del contratto
d'appalto e delle commesse ad esso pertinenti.
Tali circostanze comprovavano anche il perseguimento di un
ingiusto profitto
da parte delle società Sar.Co.Bit. e Con.Mo.Ter. avendo
dette società organizzato
il trasporto del conglomerato bituminoso, proveniente dal
rifacimento della pista
aerea dell'aeroporto di Elmas, avendone disposto il
conferimento presso
l'impianto di Ma., in vista di un successivo riutilizzo
nel ciclo produttivo, ed
ottenendo anche un notevole risparmio sui costi che
avrebbero dovuto altrimenti
sostenere qualora la gestione del materiale fosse avvenuta
nel pieno rispetto
della normativa di settore.
4. Ciò posto, la prima questione da esaminare è, nell'ordine
logico, se il
materiale trasportato nell'impianto di Ma. vada
qualificato come
sottoprodotto, secondo la tesi esposta dai ricorrenti, o
come rifiuto, secondo il
convergente approdo cui sono giunti i Giudici del merito.
4.1. Nel corso del primo giudizio, il Tribunale ha ritenuto
di disattendere la
tesi difensiva, secondo la quale il materiale bituminoso
andava qualificato come
sottoprodotto.
In particolare la difesa aveva sostenuto che il trasporto
presso la località
"Ma." avvenne al solo fine di assicurane il trattamento
nell'impianto della
Con.Mo.Ter. in vista di un successivo reimpiego nel ciclo di
rifacimento della
pista aerea di Elmas, secondo quanto disposto dal contratto
d'appalto.
Il Tribunale ha invece ritenuto che tale tesi poteva
ritenersi fondata solo per
un periodo successivo all'arco temporale interessato
dall'imputazione, atteso che
la seconda variante al contratto d'appalto (del 17.12.2008)
venne approvata solo
dopo che le attività di trasporto, così come documentate nei
report, erano state
compiute da tempo ovvero quando la destinazione di rifiuto
era già stata
impressa in maniera definitiva e irreversibile.
A parere del Tribunale le miscele bituminose avrebbero
potuto qualificarsi in
termini di sottoprodotto solo laddove fosse stata certa sin
dall'origine la
destinazione al reimpiego.
Per contro, ha ritenuto certa sin dall'origine la sua
destinazione in discarica,
pervenendo alla conclusione di ritenere pienamente integrato
il reato di cui
all'articolo 260 d.lgs. n. 152/2006 sotto il profilo
oggettivo e soggettivo.
4.2. La Corte di appello ha condiviso il percorso
argomentativo del Tribunale
ed ha fornito adeguata risposta alle obiezioni difensive
che, con i ricorsi per
cassazione, sono state sostanzialmente riproposte negli
stessi termini.
Per rendersene conto è opportuno riportare le rationes
decidendi della Corte
del merito, la quale ha esaminato la comune tesi difensiva
fondata sul rilievo,
ritenuto dirimente, che il fresato derivante dalle
operazioni di scarificazione della
vecchia pista aeroportuale dovesse essere reimpiegato quale
componente del
manto di copertura della nuova pista.
La Corte distrettuale ha stimato l'assunto erroneo sia
perché non ha ritenuto
vero che il fresato dovesse essere per intero riutilizzato;
sia perché l'accezione di
sottoprodotto impiegata è stata ritenuta non corrispondente
alla rigorosa
definizione che la legge dà dei materiali qualificabili come
sottoprodotti.
Dopo aver riportato la definizione normativa di
sottoprodotto vigente al
momento dei fatti e introdotta dall'articolo 2, comma 20,
d.lgs. n. 4 del 2008,
che sostituì per intero il testo dell'articolo 183 d.lgs. n.
152 del 2006 concernente
le definizioni normative e dopo aver riportato anche la
definizione di
sottoprodotto data dal successivo d.lgs. n. 205 del 2010,
che ha nuovamente
riformulato il citato articolo 183 e, con specifico
riferimento ai sottoprodotti, ha
introdotto nel d.lgs. n. 152 del 2006 l'articolo 184-bis, la
Corte del merito ha
affermato come, con riferimento alla vicenda in esame, vi
fosse una sostanziale
continuità normativa tra la definizione dei sottoprodotti
vigente all'epoca dei fatti
e quella subentrata nel 2010.
La Corte di appello ha quindi chiarito come fosse certo che
il fresato
derivante dalla scarificazione dell'asfalto della vecchia
pista aeroportuale
derivasse da un processo lavorativo che non era funzionale
alla sua produzione;
anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella
fase dello
smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di
asfalto esistente per
poter realizzare la nuova pista.
Quanto poi al requisito della previsione certa del
riutilizzo, la Corte del
merito ha osservato come i difensori avessero sottolineato
che sarebbe stato
certo fin dall'inizio dei lavori il reimpiego del fresato
derivante dalla scarificazione
del vecchio strato d'asfalto.
A questo proposito, la Corte distrettuale ha posto in
evidenza come, per
stessa ammissione difensiva, il fresato non dovesse essere
riutilizzato per intero
perché, come stabilito nel primo capitolato d'appalto e
comprovato dalle
dichiarazioni dell'ing. Massimo Rodriguez, era previsto che
il fresato derivante
dalla scarificazione doveva essere riutilizzato per la nuova
pista nella misura del
55%; pertanto, il restante 45% non sarebbe stato
riutilizzato e perciò costituiva
a tutti gli effetti un rifiuto.
Alla luce di ciò, è apparso irrilevante che, con la perizia
di variante
approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè quando i lavori
andavano avanti ormai da
tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Ma.
erano stati eseguiti), si
era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20%
del fresato da
riutilizzare nella nuova pista, l'impiego del restante
fresato per la realizzazione
delle "strips" (fasce laterali rispetto alla pista in senso
stretto) mischiandolo e
costipandolo con altro materiale inerte: la variante non
poteva evidentemente
mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già
abbandonato e
costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell'ipotesi
che esso fosse stato poi
effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso soltanto a
fine 2008.
La Corte territoriale ha precisato come il concetto fosse
stato espresso
efficacemente anche dalla consulente, dr.ssa Si.Fa.,
la quale aveva
chiarito che "colui che deve e vuole riutilizzare come
sottoprodotto lo deve
dichiarare immediatamente e deve poi fare che ci sia
assoluta certezza, ma in
fase iniziale, non a metà strada o a fine lavoro" (ud.
20.6.2013, pag. 29).
E' stato poi ritenuto che difettasse in radice un requisito
essenziale del
sottoprodotto, e cioè il fatto che potesse essere
riutilizzato "tal quale", senza
essere sottoposto a trattamenti preventivi o trasformazioni
preliminari.
Secondo la Corte d'appello, è certo invece che, almeno per
la quota da
riutilizzare come componente della nuova pista, dovesse
essere sottoposto a un
trattamento che ne mutava in modo radicale le
caratteristiche.
Al riguardo, è stato ritenuto decisivo che il fresato fosse
trasferito proprio a
Marzaloi, presso la Con.Mo.Ter., che gestiva un impianto di
produzione di
conglomerati bituminosi.
Ciò, di per sé, è stato considerato come indicativo della
necessità di
sottoporre il fresato da riutilizzare a un processo di
trasformazione, rientrando in
una nozione di comune esperienza il fatto che il materiale
grezzo, polveroso e
sassoso, proveniente dalla scarificazione del precedente
asfalto, non viene
reimmesso "tal quale" a integrare il nuovo fondo ma è
impiegato per realizzare,
mediante appositi macchinari, un diverso materiale -evidentemente non
polveroso, né sassoso- con caratteristiche del tutto
diverse di pastosità,
elasticità e relativa morbidezza.
E, con specifico riferimento al caso in esame, la Corte di
appello non ha
mancato di sottolineare come il consulente, dr. Antonello
Angius, avesse
spiegato che il conglomerato bituminoso utilizzato per lo
strato di base della
pista principale —cioè proprio quello per il quale era
previsto il reimpiego del
fresato di cui si discute— era prodotto a caldo in un
impianto esterno (ud.
20.06.2013, pag. 51).
Dal testo della sentenza impugnata, risulta che lo stesso
concetto è stato
espresso dal dr. An. nella sua relazione scritta,
richiamata dall'appello Me. a pag. 2-3, trovando ciò
specifica conferma nelle leali dichiarazioni dell'ing.
Si.Po., consulente tecnico della difesa, la quale, pur
avendo sostenuto —evidentemente al fine di corroborare la tesi difensiva— che
il fresato sarebbe
stato riutilizzato "tal quale", poco dopo, in palese
contraddizione, ha precisato
che per realizzare il conglomerato bituminoso "il reimpiego
è stato fatto a caldo,
quindi l'hanno portato nell'impianto di Capoterra, l'hanno
miscelato con un
conglomerato vergine e poi hanno riportato tutta la miscela
in aeroporto" (ud.
05.11.2013, pag. 29).
Nello spiegare le tecniche di miscelazione per il reimpiego
del fresato, l'ing.
Po. ha anche sottolineato che, mentre la tecnica a freddo
permette di
riutilizzare il 100% del fresato, che viene reimpastato
direttamente sul sito con
una macchina apposita e mischiato con nuovo bitume, cemento
e acqua
polverizzata, la tecnica a caldo non permette di conoscere a
priori la quantità
utilizzabile perché dipende da quanto bitume è rimasto
aggregato agli inerti dopo
la fresatura e soprattutto non si conosce l'esatta pezzatura
dell'inerte dopo che
viene fresato. In questa prospettiva, occorre tener conto
delle prestazioni
meccaniche che si vogliono ottenere e proprio in ragione di
ciò, dopo i test del
Politecnico di Milano, fu deciso di abbassare la percentuale
di fresato presente
nel conglomerato bituminoso destinato alla nuova pista (ud.
05.11.2013, pag. 31-
33).
Da ciò la Corte di appello ha tratto la logica convinzione
che, ai fini del suo
riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato
bituminoso, il fresato non
veniva impiegato "tal quale" ma era sottoposto a una
lavorazione a caldo che,
attraverso la miscelazione con altre componenti vergini,
dava luogo a un
materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò
avveniva affinché il
prodotto risultante potesse soddisfare le specifiche
caratteristiche merceologiche
richieste per l'asfalto della nuova pista aeroportuale,
caratteristiche che il fresato
"tal quale" non aveva, con la conseguenza che è stato
escluso in modo certo,
persino sulla base di acquisizioni probatorie indicate dalla
stessa difesa negli atti
d'impugnazione, che il fresato d'asfalto costituisse un
sottoprodotto in senso
stretto, mentre costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
5. Le conclusioni, cui sono giunti i Giudici del merito,
sono corrette ed
immuni dai rilievi giuridici sollevati dai ricorrenti
perché, nella specie, il materiale
raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, né alla
stregua delle versione
originaria contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, né alla
stregua della versione
introdotta dal d.lgs. n. 4 del 2008, ratione temporis
vigente, e neppure alla
stregua della nuova definizione dei sottoprodotti recata dal
d.lgs. 03.04.2006,
n. 152, articolo 184-bis, inserito dal d.lgs. 03.12.2010, n. 205, art. 12, con
la sottolineatura che gli approdi interpretativi devono
ritenersi confermati anche a seguito dell'entrata in vigore
(in data 02.03.2017) del decreto ministeriale
13.10.2016, n. 264 (G.U. 15.02.2017 n. 38 -
Regolamento recante
criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della
sussistenza dei requisiti per
la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e
non come rifiuti).
Quindi, l'affermazione contenuta nella sentenza di secondo
grado, secondo
la quale vi è piena continuità normativa tra le disposizioni
che, nel definire la
nozione di sottoprodotto, si sono succedute nel tempo, è
senza dubbio corretta.
La nuova disposizione legislativa, introdotta dal d.lgs. n.
205 del 2010 che è
invocata dai ricorrenti per supportare la tesi che non si
trattasse di rifiuto,
richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l'altro, da
un lato, che la sostanza o
l'oggetto potesse essere utilizzato direttamente senza alcun
ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett.
c), e, da un altro lato,
che la sostanza o l'oggetto fosse originato da un processo
di produzione, di cui
costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non
fosse la produzione di
tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a).
Sul punto, questa Sezione ha affermato che integra il reato
previsto dall'art.
256, comma primo, lett. a), del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152
il reimpiego di
materiale inerte derivante dall'attività di scarifica del
manto stradale nel
processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo
lo scarificato
essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis del citato D.Lgs.
neppure all'esito della modifica introdotta dall'art. 12 del D.Lgs.
03.12.2010, n. 205 (Sez. 3, n. 7374 del 19/01/2012, Aloisio, Rv.
252101).
Si è visto come sia stato accertato che il fresato derivante
dalla
scarificazione dell'asfalto della vecchia pista aeroportuale
originasse da un
processo lavorativo che non era funzionale alla sua
produzione; anzi il processo
produttivo era funzionale, almeno nella fase dello
smantellamento della vecchia
pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter
realizzare la nuova pista.
In ogni caso, opportunamente, i Giudici del merito, come
sarà più chiaro in
seguito, hanno anche accertato che il fresato derivante
dalle operazioni di
scarificazione della vecchia pista aeroportuale, oltre a
difettare di altri necessari
requisiti, richiedeva adeguate operazioni di recupero per
poter essere riutilizzato
e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e
trattamenti, tramite apposito
impianto non collocato in loco e dove il fresato di asfalto
doveva essere
appositamente trasportato.
E' pacifico, tant'è che gli stessi ricorrenti se ne fanno
carico, che una
sostanza, per essere qualificata come sottoprodotto, deve
soddisfare
cumulativamente tutti i requisiti di cui all'articolo
184-bis TUA, con la
conseguenza che, se anche uno solo dei requisiti non è
soddisfatto, la sostanza
non può rientrare nella nozione di sottoprodotto.
L'art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e
non rifiuto ai sensi
dell'art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od
oggetto che soddisfi tutte
le seguenti condizioni: la sostanza o l'oggetto deve trarre
origine da un processo
di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui
scopo primario non sia
la produzione di tale sostanza od oggetto; deve esserne
certa l'utilizzazione nel
corso dello stesso e/o di un successivo processo di
produzione e/o di
utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; la
sostanza o l'oggetto può
essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla
normale pratica industriale; l'ulteriore utilizzo è legale,
ossia la sostanza o
l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i
requisiti pertinenti riguardanti i
prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non
porterà a impatti
complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Ciò posto, occorre partire dalla premessa, aderente al dato
normativo, che i
materiali che residuano da lavori di demolizione o di
costruzione, che hanno ad
oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in
esame, la nuova
costruzione di una pista aeroportuale) devono farsi
rientrare nel novero dei
rifiuti, perché l'articolo 184, comma 1, lettera b), del T.U.A., definisce,
ex positivo
iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di
demolizione, costruzione, nonché
quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando
la possibilità di gestire
gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di
cui all'articolo 184-bis
TUA.
Ne consegue che il materiale derivante dalle attività
incluse nella lista di cui
alla lettera b) del terzo comma dell'articolo 184 TUA
costituiscono rifiuti per
presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto,
confermata per quanto
attiene l'attività di scarifica del manto stradale mediante
fresatura a freddo
qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall'allegato 1 al
D.M. del 05.02.1998
e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi
interpretare l'inciso "fermo
restando quanto disposto dall'articolo 184-bis", nel senso
cioè che la regola è
che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in
via di eccezione) la
possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività
costituiscano, in
presenza di tutte le condizioni previste dall'articolo
184-bis, sottoprodotti.
In tale quadro, secondo il Collegio,
vanno letti gli arresti
cui è pervenuta, sul
tema della natura dei residui da demolizione del manto
stradale, la
giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4978
del 06/10/2014;
Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 21/05/2013),
la quale si è
espressa nel senso
di ritenere astrattamente possibile qualificare il fresato
d'asfalto come
sottoprodotto, in presenza (appunto) di tutte le condizioni
prescritte dall'articolo
184-bis, del T.U.A.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che
il fresato
d'asfalto, pur
essendo contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER),
può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando
venga inserito in un ciclo produttivo e
venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto
che ne preveda
l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza
operazioni di stoccaggio a tempo
indefinito, precisando che resta comunque ferma la qualifica
di "rifiuto" del
fresato d'asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello
smaltimento, esso è
soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei
rifiuti, mentre può
essere qualificato sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo
stesso è inserito in un ciclo
produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun
trattamento diverso dalla
normale pratica industriale in un impianto che ne preveda
l'impiego nello stesso
ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del
materiale come
componente del prodotto finale trattato nell'ambito dello
stesso impianto (Cons.
Stato, Sez. IV, n. 4151 del 2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il
c.d. "fresato
d'asfalto" -che viene solitamente definito come il
materiale solido di risulta
dell'attività di scarifica (scarificazione) del manto
stradale mediante fresatura,
costituito da bitume ed inerti, qualificato come rifiuto
dall'allegato 1 al D.M. del
05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti- rientri
nella nozione di rifiuto.
In realtà, il nucleo che, in questa delicata materia del
diritto ambientale,
sorregge tale consolidato orientamento, dovendo per ovvie
ragioni l'analisi
essere limitata alle pronunce intervenute dopo la novella
del 2010, è tutto nel
senso che, in taluni casi, la presunzione legale iuris
tantum della qualifica di
rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di
sottoprodotto della sostanza
derivante dalle predette attività (da ultimo, Sez. 3, n.
37168 del 09/06/2016,
Bindi, non mass.), laddove, trattandosi di invocare una
condizione per
l'applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario
dei rifiuti, incombe
sull'interessato l'onere di provare che tutti i requisiti,
richiesti dall'articolo 184-
bis per attribuire alla sostanza la qualifica di
sottoprodotto, siano stati osservati
(" ... fermo restando quanto disposto dall'articolo
184-bis"), mentre al giudice
compete la verifica se il materiale probatorio fornito dalla
parte abbia assolto tale
onere.
In questo senso è anche il decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 che,
all'articolo 4, nel dettare le condizioni generali di
applicabilità, esordisce
affermando che, ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, i residui di produzione, cui all'articolo 2,
comma 1, lettera b), ossia
"ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente
prodotto in un processo di
produzione e che può essere o non essere un rifiuto") sono
sottoprodotti e non
rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati
prodotti
volontariamente e come obiettivo primario del ciclo
produttivo, sono destinati ad
essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo,
dal produttore
medesimo o da parte di terzi e, a tal fine, in ogni fase
della gestione del residuo, è necessario fornire la
dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) dell'articolo 4 del
decreto.
Nel caso in esame, non soltanto i ricorrenti non hanno
affatto osservato
l'onere sugli stessi incombente anzi, come sottolineato
nella sentenza
impugnata, sono emerse circostanze di segno opposto,
confermative della natura
di rifiuto del materiale derivante dall'attività di
scarificazione del manto della
pista aeroportuale, con specifico riferimento, al di là
della "provenienza" del
fresato e di cui si è già trattato, ai requisiti
dell'utilizzo, della certezza
dell'utilizzo e della compatibilità del trattamento con la
nozione di sottoprodotto.
5.1. Quanto al requisito dell'utilizzo, è incontroverso che,
nel periodo
oggetto della contestazione, esso non sia stato integrale.
Tuttavia, non è più previsto, con la novella del 2010, che
il riutilizzo della
sostanza (nel caso in esame, del fresato di asfalto) debba
essere integrale e ciò
si spiega col fatto che il produttore può decidere di
disfarsi, in parte, del
sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto.
Ne consegue che, quando il riutilizzo non è integrale,
inevitabilmente una
parte della sostanza prodotta è rifiuto in quanto
oggettivamente destinata
all'abbandono e l'eventuale recupero è condizionato a
precisi adempimenti, in
mancanza dei quali detti materiali vanno considerati,
comunque, cose di cui il
detentore ha l'intenzione di disfarsi, con l'ulteriore
conseguenza che la giacenza
del materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in
una sede diversa dal
luogo di produzione del rifiuto) integra la fase dello
stoccaggio e pone il
problema della permanenza del rifiuto.
5.2. Quanto poi al requisito della certezza dell'utilizzo
del sottoprodotto, si
richiede che sia "certo che la sostanza o l'oggetto sarà
utilizzato, nel corso dello
stesso o di un successivo processo di produzione o di
utilizzazione, da parte del
produttore o di terzi".
Sebbene la norma del 2008 indicasse espressamente il momento
della
produzione come quello in cui deve sussistere la certezza
del riutilizzo,
richiedendo che fosse anche preventivamente individuato il
processo di
produzione o di utilizzazione in cui questo deve avvenire,
la dottrina ha
segnalato come tali condizioni, quantunque non replicate con
la novella del 2010,
siano da ritenersi implicite nel sistema.
E' stato infatti osservato che solo la fase della produzione
è quella in cui, a
seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore,
si può stabilire se
egli si disfi o abbia intenzione di disfarsi della sostanza,
nel qual caso si è in
presenza di un rifiuto ovvero intenda procedere ad un
riutilizzo di essa
all'interno del circuito produttivo, nel qual caso,
ricorrendo tutte le altre
condizioni, si è in presenza di un sottoprodotto e tale
opzione deve emergere,
senza soluzione di continuità, nel momento della produzione
e non può subentrare dopo che la sostanza abbia assunto la
natura di rifiuto, con la
conseguenza che, dovendosi individuare nel momento della
produzione quello in
cui vanno verificate le condizioni perché possa parlarsi di
sottoprodotto, è
evidente che ciò non può che avvenire prima del suo utilizzo
e che quest'ultimo
deve essere preventivamente individuato e programmato, a
prescindere
dall'espressa previsione normativa.
La questione è strettamente collegata con quella della prova
della certezza
del riutilizzo e, per le ragioni in precedenza enunciate, la
giurisprudenza di
legittimità è ferma nel ritenere che, in materia di gestione
dei rifiuti, ai fini della
qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali
incombe
sull'interessato l'onere di fornire la prova che un
determinato materiale sia
destinato con certezza ed effettività, e non come mera
eventualità, ad un
ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura
eccezionale e derogatoria
rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014,
dep. 2015, Giaccari,
Rv. 262129; Sez. 3,n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv.
241504).
Nel caso in esame, siccome è incontroverso che sin
dall'inizio il fresato non
dovesse essere utilizzato per intero, è invece certo che una
parte cospicua di
esso (pari al 45%) non sarebbe stata riutilizzata e perciò
costituiva a tutti gli
effetti un rifiuto.
Pertanto, non potendo la certezza dell'utilizzo subentrare
dopo che la
sostanza aveva già assunto la natura di rifiuto, è apparso,
a ragione, irrilevante
che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè
quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran
numero di trasporti di
fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si era stabilito,
quale compensazione per
la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova
pista, l'impiego del
restante fresato per la realizzazione delle "strips" (fasce
laterali rispetto alla pista
in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro
materiale inerte: la
variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le
caratteristiche del
materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti
rifiuto, anche
nell'ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente
impiegato per il nuovo uso
deciso successivamente.
5.3. A seguito del decreto legislativo n. 205 del 2010, la
lettera c) del primo
comma dell'articolo 184-bis prevede che "la sostanza o
l'oggetto può essere
utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla normale
pratica industriale".
Anche questa ulteriore e necessaria condizione è stata
ritenuta mancante
nel senso che il fresato non poteva essere riutilizzato "tal
quale", dovendo invece
essere sottoposto, almeno per la quota da riutilizzare come
componente della
nuova pista, a un trattamento diverso dalla normale pratica
industriale che ne
mutava in modo radicale le caratteristiche.
In altri termini, ai fini del suo riutilizzo quale
componente del nuovo
conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato
"tal quale" ma era
sottoposto, nel caso di specie, a una lavorazione a caldo
che, attraverso la
miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un
materiale del tutto
diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il
prodotto derivato potesse
soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche
richieste per l'asfalto della
nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato
"tal quale" non aveva.
Quindi, non risulta dimostrato, anzi è emerso l'esatto
contrario, che il
fresato di asfalto fosse stato o potesse essere utilizzato
direttamente, senza
alcun ulteriore trattamento diverso dalla "normale pratica
industriale".
Tale ultima nozione non può infatti ricomprendere, come ha
chiarito la
giurisprudenza di legittimità, quelle attività che
comportano trasformazioni così
radicali del materiale trattato tanto da stravolgerne
l'originaria natura (Sez. 3, n.
17453 del 17/04/2012, Busé, in motiv.), al pari di quelle
che si risolvono, come
nel caso di specie, in una vera e propria attività di
recupero di rifiuti.
Invero, dall'accertamento di merito contenuto nella sentenza
impugnata, è
risultato evidente che i materiali derivanti dalla
scarificazione della vecchia pista
aeroportuale non venivano utilizzati direttamente, poiché
erano sottoposti ad
una specifica procedura di "trattamento", la cui nozione è
ricavabile dal d.lgs. n.
36 del 2003, art. 2, comma 1, lett. h) "Attuazione della
direttiva 1999/31/CE
relativa alle discariche di rifiuti" e si riferisce ai
"processi fisici, termici, chimici o
biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano
le caratteristiche dei
rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura
pericolosa, di facilitarne il
trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo
smaltimento in condizioni di
sicurezza", con la conseguenza che tale attività comporta un
mutamento
strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza
trattata, sicché, se
tale è il "trattamento", anche operazioni di minor impatto
sul residuo, definite
"mininnali", individuabili in operazioni quali la cernita,
la vagliatura, la
frantumazione o la macinazione, ne determinano una
modificazione
dell'originaria consistenza, rientrando in tale concetto
(Sez. 3, n. 17453 del
17/04/2012, cit. in motiv.).
Essendo pertanto questa la
nozione di "trattamento"
da considerare ai fini dell'individuazione della sussistenza
dei requisiti di cui al
d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, la giurisprudenza
di legittimità ha
osservato che la verifica -diretta ad accertare quando
detto trattamento possa
ritenersi rientrante nella normale pratica industriale-
implica il ricorso ad
un'interpretazione meno estensiva dell'ambito di operatività
della disposizione in
esame e tale da escludere dal novero della normale pratica
industriale tutti gli
interventi manipolativi del residuo diversi da quelli
ordinariamente effettuati nel
processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.
Tale
lettura della norma,
suggerita dalla dottrina e che considera conforme alla
normale pratica industriale quelle operazioni che l'impresa
normalmente effettua sulla materia prima che il
sottoprodotto va a sostituire, è sembrata maggiormente
rispondente ai criteri
generali di tutela dell'ambiente cui si ispira la disciplina
in tema di rifiuti, rispetto
ad altre pur autorevoli opinioni che, ampliando
eccessivamente il concetto,
rendono molto più incerta la delimitazione dell'ambito di
operatività della
disposizione e più alto il rischio di una pratica
applicazione che ne snaturi, di
fatto, le finalità, con la precisazione che tale soluzione
interpretativa, in ogni
caso, non può prescindere da un puntuale accertamento in
fatto da parte del
giudice del merito, il quale dovrà necessariamente
analizzare tutti gli aspetti
significativi della vicenda processuale che consentano di
verificare la effettiva
sussistenza dei presupposti di applicabilità della
disciplina prevista per i
sottoprodotti (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in
motiv.).
A tale delicato compito non si sono sottratti, nel caso di
specie, il Giudici del
merito che, in considerazione del trattamento subito dal
fresato di asfalto, hanno
desunto la mancanza di questo altro e fondamentale requisito
richiesto dal d.lgs.
n. 152 del 2006, articolo 184-bis per la configurazione del
sottoprodotto.
Sotto quest'ultimo aspetto, va sottolineato come il
precitato decreto
ministeriale n. 264 del 2016 abbia fornito, all'articolo 6
(Utilizzo diretto senza
trattamenti diversi dalla normale pratica industriale),
indicazioni non contrastanti
con l'interpretazione giurisprudenziale del concetto di
normale pratica industriale,
laddove ha precisato, al comma 1, che, ai fini e per gli
effetti dell'articolo 4,
comma 1, lettera c), non costituiscono normale pratica
industriale i processi e le
operazioni necessari per rendere le caratteristiche
ambientali della sostanza o
dell'oggetto idonee a soddisfare, per l'utilizzo specifico,
tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e a non portare
a impatti complessivi negativi sull'ambiente, salvo il caso
in cui siano effettuate
nel medesimo ciclo produttivo, secondo quanto disposto al
comma 2.
In base al quale, invece, rientrano, in ogni caso, nella
normale pratica
industriale le attività e le operazioni che costituiscono
parte integrante del ciclo
di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate
allo specifico fine di
rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della
sostanza o dell'oggetto
idonee a consentire e favorire, per l'utilizzo specifico,
tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e a non portare
ad impatti complessivi negativi sull'ambiente (articolo 6,
comma 2, DM n. 264
del 2016).
Ciò posto, in disparte la questione della natura certamente
non integrativa
della norma penale di tale decreto, appare chiaro come la
definizione di normale
pratica industriale appaia coerente con la tesi più
restrittiva espressa in
precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, giacché si
esclude che possano
rientrare in quella nozione "i processi e le operazioni
necessari per rendere le caratteristiche ambientali della
sostanza o dell'oggetto idonee a soddisfare, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti", comprese
dunque le operazioni cd. minimali, salvo che non
costituiscano parte integrante
del ciclo di produzione del residuo in modo che sia
garantito l'utilizzo del
sottoprodotto "tal quale" (cioè nello stesso stato in cui è
generato dal processo di
produzione), circostanza che i giudici del merito, con
logica ed adeguata
motivazione, hanno correttamente escluso.
5.4. Conclusivamente, nel caso in questione, i ricorrenti,
da una parte, non
hanno assolto l'onere della prova, sugli stessi incombente,
circa l'osservanza di
tutte le condizioni richieste dall'articolo 184-bis d.lgs.
n. 152 del 2006 per
ritenere che il fresato di asfalto, ricavato dalle
operazioni di scarificazione della
vecchia pista aeroportuale, potesse rientrare nella
categoria del sottoprodotto,
fermo restando che costituisce una quaestio facti, demandata
al giudice di merito
ed insindacabile in sede di legittimità se giuridicamente
corretta e se sorretta,
come nella specie, da adeguata motivazione esente da vizi di
manifesta illogicità,
quella diretta a stabilire se una sostanza abbia o meno
natura di sottoprodotto o
di rifiuto.
6. Esclusa la natura di sottoprodotto del fresato di asfalto
reiteratamente
trasportato da Elmas a Capoterra nell'impianto di Marzolai,
devono ritenersi
manifestamente infondati anche gli altri due motivi di
impugnazione articolati dal
ricorrente Me..
A dimostrazione della loro manifesta infondatezza, va
ricordato che il delitto
di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti
(art. 260, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) sanziona una pluralità di condotte che si
risolvono in una
qualunque delle operazioni tassativamente elencate dalla
norma consistenti nella
cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione
e, in ogni caso, nella
gestione abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel
contesto di una struttura
organizzata tendenzialmente destinata ad operare con
continuità.
Trattasi di un reato abituale, che si perfeziona soltanto
attraverso la
realizzazione di più comportamenti non occasionali della
stessa specie, finalizzati
al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria
predisposizione di
una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi
e capitali, che sia in
grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo
continuativo (Sez. 3, n.
52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920; Sez. 3, n. 44629
del 22/10/2015,
Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009,
Caserta, Rv. 245605).
La norma incriminatrice, poi, non si limita a punire
l'illecita gestione
organizzata, ma richiede in aggiunta che le condotte di
gestione siano connotate
dal requisito dell'abusività.
Dal testo della sentenza impugnata risulta e non è
controverso che, per i
trasporti e la gestione del fresato in questione, le imprese
appaltatrici non
avessero richiesto e tanto meno ottenuto alcuna
autorizzazione.
Non è nemmeno contestabile che il fresato in questione, da
qualificare come
rifiuto, fosse oggetto di un traffico e che i quantitativi
interessati siano stati
ingenti.
La Corte di appello è pervenuta a tale conclusione, come già
in precedenza
anticipato, sulla base dei numerosi "report" dei camionisti
attestanti il
conferimento del fresato all'impianto di Marzaloi nonché
sulla base delle
dichiarazioni del teste De An. e dell'imputato Me.,
che hanno offerto un
quadro sufficientemente preciso del traffico di fresato di
asfalto tra il cantiere
aeroportuale di Elmas e l'impianto di Marzaloi (pagina 14 e
15 della sentenza
impugnata).
Il carattere ingente dei rifiuti trasportati abusivamente è
stato desunto dagli
stessi quantitativi indicati principalmente dai report degli
autotrasportatori,
essendo risultato che il fresato trasportato abusivamente
era pari a ben 17.500
metri cubi.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel
senso che l'ingente
quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il
delitto di attività organizzata
per il traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al
quantitativo complessivo di rifiuti
trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte,
anche quando queste
ultime, singolarmente considerate, possono essere
qualificate di modesta entità
(Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667; Sez. 3,
n. 12433 del
15/11/2005, dep. 2006, Costa, Rv. 234009; Sez. 3, n. 40827
del 06/10/2005,
Carretta, Rv. 232348).
E' stato poi ritenuto indiscutibile il carattere organizzato
e sistematico di
tale traffico, trattandosi di trasporti strumentali
all'esecuzione di uno specifico e
grosso appalto, che richiedeva la movimentazione seriale,
coordinata e per un
tempo non breve di un gran numero di uomini e di mezzi oltre
che di quantitativi
ingenti di materiali qualificabili come rifiuti.
La Corte del merito ha infine dato atto come l'elemento
soggettivo del
delitto in contestazione non sia stato posto in discussione,
almeno in termini
espressi, in alcuno dei due gravami e, quanto all'ingiusto,
profitto, ha osservato
come l'effettuazione dei trasporti in forma abusiva
sgravasse le società
appaltatrici dagli oneri, rilevanti sia sul piano
finanziario che su quello
amministrativo e burocratico, connessi alla regolarizzazione
della
movimentazione del fresato. Si trattò di un risparmio
significativo anche in
ragione dell'esigenza di portare a termine con celerità
lavori così importanti e
urgenti come quelli di riqualificazione dell'aeroporto
internazionale di Cagliari-Elmas (pag. 15 e 16 della sentenza impugnata).
Tale conclusione è perfettamente in linea con l'indirizzo
espresso dalla
giurisprudenza di legittimità secondo il quale,
per la
configurabilità del reato di
traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve
assumere necessariamente
carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da
vantaggi di altra
natura (Sez. 3, n. 40828 del 06/10/2005, Fradella, Rv.
232351), potendo infatti
essere costituito anche da vantaggi non patrimoniali o
comunque da un
complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n. 28158
del 02/07/2007,
Costa, Rv. 236907).
Al cospetto di ciò, le obiezioni del ricorrente si
connotano, oltre che per la
loro manifesta infondatezza, anche per la portata
tipicamente fattuale, laddove il
ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione, ha
introdotto censure di
merito che non possono rientrare nell'orizzonte cognitivo
del giudice di
legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di
cassazione doglianze con le
quali, deducendosi apparentemente una carenza logica od
argomentativa della
decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione
del giudizio valutativo
sul materiale probatorio, operazione non consentita nel
giudizio di cassazione
all'interno del quale non è possibile innestare censure che
implicano la soluzione
di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte,
come nel caso in
esame, dal giudice del merito (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 22.11.2017 n. 53136). |
APPALTI:
Se le richieste di chiarimenti delle imprese sono tempestive
e rilevanti, la proroga del termine di presentazione delle
offerte è atto dovuto.
Quando le richieste di chiarimento sono
tempestive ed impongono informazioni supplementari
significative, la proroga del termine di presentazione delle
offerte è atto doveroso, in quanto non necessitante di
valutazioni comparative fra gli interessi pubblici e privati
coinvolti.
E’ pur vero che il presupposto fattuale, ossia la
significatività della questione oggetto di quesito, implica
apprezzamenti soggettivi, ma ciò è comune a tutti i
provvedimenti vincolati che abbiano a presupposto un fatto,
al ricorrere del quale il legislatore riconnette il doveroso
esercizio del potere.
---------------
A mente dell’art. 79, comma 3, del dlgs 50/2016 “Le stazioni
appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle
offerte in modo che gli operatori economici interessati
possano prendere conoscenza di tutte le informazioni
necessarie alla preparazione delle offerte nei casi
seguenti: a) se, per qualunque motivo, le informazioni
supplementari significative ai fini della preparazione di
offerte adeguate, seppur richieste in tempo utile
dall'operatore economico, non sono fornite al più tardi sei
giorni prima del termine stabilito per la ricezione delle
offerte……”.
La disposizione si limita a fissare l’obbligo di proroga del
termine in caso di mancata risposta dell’amministrazione ai
quesiti (rilevanti e significativi) nel termine
contestualmente dato. La mancata risposta è dunque l’evento
omissivo che autorizza gli offerenti a confidare nella
proroga, o comunque a considerarla plausibile.
---------------
E’ pur verso che l’art. 74, comma 4, del D.Lgs. 50/2016
statuisce “Sempre che siano state richieste in tempo utile,
le ulteriori informazioni sul capitolato d'oneri e sui
documenti complementari sono comunicate dalle stazioni
appaltanti a tutti gli offerenti che partecipano alla
procedura d'appalto almeno sei giorni prima della scadenza
del termine stabilito per la ricezione delle offerte”.
Tuttavia la norma dev’essere letta in uno con quella dettata
dall’art. 79, comma 5, in forza della quale –deve ritenersi-
anche quando le informazioni supplementari non sono state
richieste in tempo utile le amministrazioni aggiudicatrici
possono (questa volta) discrezionalmente valutare la
proroga.
---------------
1. Secondo l’appellante, l’art. 79, comma 3, del D.Lgs. n.
50/2016 consentirebbe di escludere che la proroga del
termine di presentazione delle offerte sia un atto a
contenuto vincolato, atteso che esso –contrariamente a
quanto sostenuto dal TAR– riconosce all’Amministrazione il
potere di non prorogare i termini di gara in caso di quesiti
insignificanti. In ogni caso il difetto di motivazione,
censurato con il ricorso introduttivo in primo grado, non
rientrerebbe tra le “violazioni di norme sul procedimento”
contemplate dall’art. 21-octies, comma 2, della legge
241/1990.
1.1. Il motivo non è fondato.
Come sottolineato dal primo giudice, quando le richieste di
chiarimento sono tempestive ed impongono informazioni
supplementari significative, la proroga del termine di
presentazione delle offerte è atto doveroso, in quanto non
necessitante di valutazioni comparative fra gli interessi
pubblici e privati coinvolti. E’ pur vero che il presupposto
fattuale, ossia la significatività della questione oggetto
di quesito, implica apprezzamenti soggettivi, ma ciò è
comune a tutti i provvedimenti vincolati che abbiano a
presupposto un fatto, al ricorrere del quale il legislatore
riconnette il doveroso esercizio del potere.
1.2. Non convincente è poi il tema di indagine –suggerito
dall’appellante– circa la sussumibilità del vizio di
motivazione nei cd. vizi formali di cui all’art. 21-octies.
La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che per gli atti
vincolati è sufficiente che in concreto sussistano i
presupposti per provvedere richiesti dalla legge, essendo
sempre possibile per l'amministrazione, anche alla luce
della norma di cui all'art. 21-octies, comma 2, L.
07.08.1990, n. 241, dimostrarne, pure in giudizio,
l'esistenza (da ultimo Cons. Stato Sez. V, 29.04.2016, n.
1645). Da qui l’irrilevanza del vizio se inteso in senso
meramente formale.
2. Con ulteriore motivo l’appellante sostiene che,
nell’affermare la legittimità del provvedimento impugnato,
il Giudice di prime cure avrebbe altresì omesso di
considerare che la proroga è stata disposta a ridosso della
scadenza del termine di presentazione delle offerte, quando
i concorrenti ormai confidavano legittimamente che
l’Amministrazione non avesse intenzione di fornire alcun
ulteriore chiarimento.
Nel delineato contesto, il TAR avrebbe omesso di considerare
che la singolare tempistica prevista dall’art. 79, comma 3,
lett. a), del nuovo codice appalti (sei giorni prima del
termine di presentazione delle offerte) avrebbe dovuto
radicare in capo all’Amministrazione un consistente obbligo
motivazionale in ordine alle ragioni per cui le integrazioni
informative dovessero considerarsi talmente significative
per la presentazione di offerte adeguate, da rendere
necessaria una tardiva risposta ai quesiti.
2.1. Anche questo motivo è infondato.
A mente dell’art. 79, comma 3, cit. “Le stazioni
appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle
offerte in modo che gli operatori economici interessati
possano prendere conoscenza di tutte le informazioni
necessarie alla preparazione delle offerte nei casi
seguenti: a) se, per qualunque motivo, le informazioni
supplementari significative ai fini della preparazione di
offerte adeguate, seppur richieste in tempo utile
dall'operatore economico, non sono fornite al più tardi sei
giorni prima del termine stabilito per la ricezione delle
offerte……”.
La disposizione si limita a fissare l’obbligo di proroga del
termine in caso di mancata risposta dell’amministrazione ai
quesiti (rilevanti e significativi) nel termine
contestualmente dato. La mancata risposta è dunque l’evento
omissivo che autorizza gli offerenti a confidare nella
proroga, o comunque a considerarla plausibile, ossia il
contrario di quanto sostenuto dall’appellante.
3. Con un terzo motivo di gravame l’appellante deduce
l’erroneità delle statuizioni rese dal Giudice di prime cure
nella parte in cui, per dimostrare la legittimità delle
determinazioni assunte dall’amministrazione, evidenziano la
presenza di richieste di chiarimenti tardive, di contenuto
rilevante ai fini della presentazione dell’offerta.
Sul punto l’appellante contesta in primis la tesi del
TAR secondo la quale la sanzione dell’inammissibilità
–prevista dalla lex specialis– andrebbe riferita alle
modalità di formulazione delle richieste di chiarimenti (i.e.,
tramite pec) e non ai tempi. In ogni caso, anche a voler
considerare in via eccezionale e derogatoria la richiesta
tardiva ammissibile, la motivazione della proroga –questa
volta discrezionale ai sensi del comma 5 dell’art. 79 cit.–
avrebbe dovuto essere molto più corposa e rigorosa.
3.1. Anche questo motivo è infondato.
E’ pur verso che l’art. 74, comma 4, del D.Lgs. 50/2016
-espressamente richiamato dalle disposizioni del
disciplinare riguardanti i “Chiarimenti”- statuisce
in che “Sempre che siano state richieste in tempo utile,
le ulteriori informazioni sul capitolato d'oneri e sui
documenti complementari sono comunicate dalle stazioni
appaltanti a tutti gli offerenti che partecipano alla
procedura d'appalto almeno sei giorni prima della scadenza
del termine stabilito per la ricezione delle offerte”.
Tuttavia la norma dev’essere letta in uno con quella dettata
dall’art. 79, comma 5, in forza della quale –deve ritenersi-
anche quando le informazioni supplementari non sono state
richieste in tempo utile le amministrazioni aggiudicatrici
possono (questa volta) discrezionalmente valutare la
proroga.
Alla luce di ciò appare non dirimente stabilire se la
sanzione di cui al disciplinare di gara sia riferita alle
modalità di inoltro della richiesta di chiarimenti, ovvero
ai tempi della stessa, atteso che –come del resto già
chiarito dal primo giudice– il disciplinare dev’essere
comunque “interpretato sistematicamente rispetto alla
possibilità ammessa dalla legge di dare evasione anche alle
richieste di chiarimenti tardive”.
3.2. Quanto alla congruità e sufficienza della motivazione è
lo stesso appellante a riconoscere che “In effetti,
attraverso tali chiarimenti l’Amministrazione, a fronte di
un importo complessivo pari a 11.000.000 annui (in parte
costituito, per 3.000.000 annui, da prestazioni da rendere a
pazienti extraregionali), ha ammesso che il ribasso dovesse
applicarsi esclusivamente per la quota parte riferibile ai
pazienti liguri (i.e., 800.000.000 annui)”. L’importanza
del chiarimento era cioè così rilevante ed assorbente, da
non ammettere, in concreto, ipotesi alternative.
4. Da ultimo l’appellante contesta le conclusioni
rassegnate dai giudici di primo grado in punto di pubblicità
della proroga, in quanto la modifica di elementi
fondamentali della procedura di gara –quali il termine per
la presentazione delle offerte e la definizione della base
d’asta su cui dovevano essere applicati gli sconti– avrebbe
dovuto essere disposta con modalità analoghe a quelle
utilizzate per la pubblicazione del bando o comunque tramite
comunicazione diretta a tutti i soggetti partecipanti, pena
la grave violazione della par condicio dei concorrenti.
4.1. La censura non è in grado di incrinare le condivisibili
argomentazioni adoperate dal primo giudice, dirette ad
evidenziare l’obbligo, stabilito dal disciplinare a carico
dei “concorrenti”, di impegnarsi a verificare durante
tutto l’esperimento della procedura di gara il sito internet
della stazione appaltante con specifico riferimento ai
chiarimenti.
Del resto non trattavasi di provvedimenti individuali di
carattere impeditivo o ablatorio, quanto di provvedimenti
ampliativi delle possibilità partecipative, diretti a tutti
i partecipanti (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 22.11.2017 n. 5424 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di
lottizzazione abusiva - Realizzazione di uno stabile
insediamento abitativo - Campeggio - Attività autorizzata -
Impatto negativo sull'assetto territoriale" - Artt. 3 e 30
d.P.R. n. 380/2001.
L'esistenza di un'attività, sia pure autorizzata, di
campeggio e similare (come nel caso di specie) non è
incompatibile con la figura del reato di lottizzazione
abusiva, ove la stessa venga radicalmente mutata in uno
stabile insediamento abitativo e di rilevante impatto
negativo sull'assetto territoriale.
Pertanto, non è sufficiente limitarsi a prendere atto del
dato meramente formale dell'esistenza delle autorizzazioni
richieste per ritenere che l'area sia legittimamente
destinata a "campeggio", competendo ai Giudici di
merito accertare che non vi sia stato, attraverso la
realizzazione di uno stabile insediamento abitativo, uno
stravolgimento dell'assetto del territorio (Cass. sez. 4 n.
13496 del 15/02/2017).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA -
Lottizzazione abusiva - Natura di reato progressivo - Atti
di frazionamento o opere già eseguite - Configurabilità -
Momento consumativo del reato - Giurisprudenza.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva configura un
reato progressivo nell'evento che sussiste anche quando
l'attività posta in essere sia successiva agli atti di
frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali
iniziali attività, pur integrando la configurazione del
reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae
con gli interventi successivi, incidenti sull'assetto
urbanistico. Ne consegue che il momento consumativo o
perdura nel tempo fino a quando l'offesa tipica raggiunge,
attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato
ad un altro successivo, una sempre maggiore gravità (Cass.
sez. 3 n. 24985 del 20/05/2015; sez. 3 n. 15289 del
25/02/2004).
Pertanto, il reato di lottizzazione abusiva non può
rientrare, "né nella categoria del reato istantaneo con
effetti permanenti, in quanto si ha una successione di varie
condotte che si protraggono nel tempo e che sono
strettamente collegate tra loro dal punto di vista
finalistico e causale, né nella categoria del reato
continuato poiché non si ha "a parte rei" una pluralità di
illeciti penali unificati nel medesimo disegno criminoso,
quanto piuttosto una pluralità di condotte realizzate da
soggetti diversi o dal medesimo soggetto senza che, in tale
ultimo caso, si realizzi un concorso di reati (di
lottizzazione) quanto piuttosto ... uno spostamento in
avanti del momento consumativo del reato stesso" (Cass.
Sez. 3 n. 25182 del 07/03/2014) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.11.2017 n. 52827
- tratto da e link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
La gara telematica rispetto ad una tradizionale
gara d'appalto offre il vantaggio di una maggiore sicurezza
nella "conservazione" dell'integrità delle offerte.
La gestione telematica della gara offre il vantaggio di una
maggiore sicurezza nella "conservazione"
dell'integrità delle offerte in quanto permette
automaticamente l'apertura delle buste in esito alla
conclusione della fase precedente e garantisce l'immodificabilità
delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione
compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della
gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla
data e all'ora di seduta della gara, specificata in fase di
creazione della procedura. Le stesse caratteristiche della
gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la
possibilità di modifica delle offerte.
Infatti, le fasi di gara seguono una successione temporale
che offre garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità
e segretezza delle offerte e i sistemi provvedono alla
verifica della validità dei certificati e della data e ora
di marcatura; l'affidabilità degli algoritmi di firma
digitale e marca temporale garantiscono la sicurezza della
fase di invio/ricezione delle offerte in busta chiusa. Nella
gara telematica la conservazione dell'offerta è affidata
allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga,
nelle more, modificata proprio attraverso l'imposizione
dell'obbligo di firma e marcatura nel termine fissato per la
presentazione delle offerte (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.11.2017 n. 5388 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Legislazione emergenziale e titoli
abilitativi - Necessità di comunicazione/iscrizione - D.Lgs.
172/2008 - D.Lgs. 4/2008 - Art. 212, c. 8, d.Lgs.152/2006.
In tema di legislazione emergenziale sui rifiuti, la
disgiuntiva "o" dell'art. 6, lett. d), d.Lgs. 172/2008 tra
"iscrizione" o "comunicazione" non autorizza a ritenere che
questa possa surrogare la prima, ma solo che vi siano dei
casi in cui è possibile la sola comunicazione e dei casi in
cui sia necessaria l'iscrizione, con la sanzione per la
relativa assenza.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti -
Trasporto di rifiuti speciali in assenza della relativa
iscrizione o autorizzazione - Iscrizione all'albo -
Necessità - Art. 212, d.Lgs. 152/2006.
Per poter esercitare legittimamente le operazioni di
raccolta e trasporto da parte degli appartenenti alla
categoria prevista, è necessaria l'iscrizione all'albo,
provvedimento rispetto a cui la comunicazione costituisce
solo un presupposto necessario che però non produce effetti
equipollenti.
Ed invero, l'art. 212, d.Lgs. 152/2006,
prevede al comma 8 che "I produttori iniziali di rifiuti
non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e
trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali
di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta
e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non
eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, non
sono soggetti alle disposizioni di cui ai commi 5, 6, e 7 a
condizione che tali operazioni costituiscano parte
integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa
dalla quale i rifiuti sono prodotti. Detti soggetti non sono
tenuti alla prestazione delle garanzie finanziarie e sono
iscritti in un'apposita sezione dell'albo in base alla
presentazione di una comunicazione alla sezione regionale o
provinciale dell'albo territorialmente competente che
rilascia il relativo provvedimento entro i successivi trenta
giorni".
Ciò significa che nel caso specifico è necessaria
l'iscrizione che non può essere surrogata dalla mera
comunicazione (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2017 n. 52632
- link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Le condanne devono essere dichiarate tutte, anche se vecchie
e per fatti depenalizzati.
La segnalazione all'Autorità di
vigilanza sui contratti pubblici, al fine dell'inserimento
di un'annotazione nel casellario informatico delle imprese,
si configura come atto prodromico ed endoprocedimentale e,
come tale, non impugnabile, poiché esso non è dotato di
autonoma lesività, potendo essere fatti valere eventuali
suoi vizi, unicamente in via derivata, impugnando il
provvedimento finale dell'Autorità di vigilanza, unico atto
avente natura provvedimentale e carattere autoritativo,
stante peraltro che l'impresa concorrente potrebbe ritenere
non pregiudizievole dei propri interessi l'esclusione dalla
specifica gara ma lesivi gli effetti connessi
all'annotazione nel casellario informatico, non ricorrendone
i presupposti di legge.
Peraltro, va altresì ricordato come la segnalazione del
provvedimento di esclusione all'Autorità di vigilanza e la
conseguente annotazione costituiscano atti dovuti.
---------------
Nelle procedure di evidenza pubblica la incompletezza delle
dichiarazioni lede di per sé il principio di buon andamento
dell'amministrazione, inficiando ex ante la possibilità di
una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in
ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara.
Una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è
già di per sé stessa lesiva degli interessi tutelati, a
prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no di
partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa
dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio
all'Amministrazione una valutazione ex ante in ordine alla
gravità dei reati non dichiarati; si tratta pertanto di un
comportamento tutt'altro che innocuo in quanto priva di
certezza la decisione compiuta dalla stazione appaltante in
ordine all'ammissione delle imprese che hanno omesso di
dichiarare condanne.
Nelle gare pubbliche, nel caso di omessa dichiarazione di
condanne penali riportate dal concorrente, è legittimo il
provvedimento di esclusione non sussistendo in capo alla
stazione appaltante l'ulteriore obbligo di vagliare la
gravità del precedente penale di cui è stata omessa la
dichiarazione, conseguendo il provvedimento espulsivo alla
omissione della prescritta dichiarazione, che invece deve
essere resa completa ai fini dell'attestazione del possesso
dei requisiti di ordine generale con particolare riferimento
alla lett. c) del comma 1 dell'art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n.
163 e deve contenere tutte le sentenze di condanna subite, a
prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione
con il requisito della moralità professionale, la cui
valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante.
---------------
2. Passando all’analisi del merito dell’appello, lo stesso
appare fondato nei termini già evidenziati in sede
cautelare.
Entrambi gli elementi posti a fondamento della sentenza
impugnata risultano correttamente censurati: sia sul punto
della sopraggiunta depenalizzazione, in quanto è pacifico
che il legale rappresentante dell’impresa odierna appellata
abbia subito le numerose condanne di cui ai decreti penali
contestati e che non le abbia dichiarate; sia sul punto
della buona fede, attesa la piena consapevolezza in ordine
al fatto di aver subito le condanne oggetto di
contestazione.
Dal punto di vista del quadro normativo applicato ex dPR
207/2010, i presupposti dell’annotazione emergono nella
specie alla luce dell’art. 8, comma 2, lett. s): “falsità
nelle dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle
condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di
gara e per l'affidamento dei subappalti”.
La medesima norma distingue l’operatività delle singole
ipotesi di annotazione nel casellario informatico: mentre
alcuni dati sono inseriti da parte delle SOA, secondo le
modalità telematiche previste dall'Autorità; altri, fra cui
quelli di cui alla lettera s), sono inseriti, a cura
dell'Autorità, a seguito di segnalazioni da parte delle
amministrazioni aggiudicatrici.
In materia la giurisprudenza (cfr. ad es. Consiglio di
Stato, sez. VI, 12/06/2012, n. 3428) ha evidenziato come la
segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici, al fine dell'inserimento di un'annotazione nel
casellario informatico delle imprese, si configura come atto
prodromico ed endoprocedimentale e, come tale, non
impugnabile, poiché esso non è dotato di autonoma lesività,
potendo essere fatti valere eventuali suoi vizi, unicamente
in via derivata, impugnando il provvedimento finale
dell'Autorità di vigilanza, unico atto avente natura
provvedimentale e carattere autoritativo, stante peraltro
che l'impresa concorrente potrebbe ritenere non
pregiudizievole dei propri interessi l'esclusione dalla
specifica gara ma lesivi gli effetti connessi
all'annotazione nel casellario informatico, non ricorrendone
i presupposti di legge. Peraltro, va altresì ricordato come
la segnalazione del provvedimento di esclusione all'Autorità
di vigilanza e la conseguente annotazione costituiscano atti
dovuti (cfr. ex multis sez. VI, 23/05/2012, n. 3002).
Nella fattispecie in esame l’Autorità ha fatto buon governo
del potere richiamato. Infatti, è pacifico che il legale
rappresentante abbia reso una dichiarazione non veritiera, e
quindi falsa nei termini rilevanti ai fini della norma
richiamata, in quanto non attestante le diverse condanne
subite. Altrettanto evidente è l’assenza dell’invocata buona
fede, in specie in relazione alla piena consapevolezza del
soggetto in ordine alla circostanza di aver subito tali
condanne; al riguardo, l’aver prodotto un certificato che,
per le proprie caratteristiche giuridicamente note agli
operatori del settore, non poteva contenere il riferimento
alle predette condanne, lungi dal dimostrare la buona fede
può assumere rilievo nei termini opposti, quale tentativo di
evitare il riferimento a condanne storicamente consolidate,
seppur concernenti reati oggetto di successiva
depenalizzazione legislativa.
In linea generale va ricordato che nelle procedure di
evidenza pubblica la incompletezza delle dichiarazioni lede
di per sé il principio di buon andamento
dell'amministrazione, inficiando ex ante la
possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile
decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico
alla gara; una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o
incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi
tutelati, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no
di partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa
dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio
all'Amministrazione una valutazione ex ante in ordine
alla gravità dei reati non dichiarati; si tratta pertanto di
un comportamento tutt'altro che innocuo in quanto priva di
certezza la decisione compiuta dalla stazione appaltante in
ordine all'ammissione delle imprese che hanno omesso di
dichiarare condanne.
Nelle gare pubbliche, nel caso di omessa dichiarazione di
condanne penali riportate dal concorrente, è legittimo il
provvedimento di esclusione non sussistendo in capo alla
stazione appaltante l'ulteriore obbligo di vagliare la
gravità del precedente penale di cui è stata omessa la
dichiarazione, conseguendo il provvedimento espulsivo alla
omissione della prescritta dichiarazione, che invece deve
essere resa completa ai fini dell'attestazione del possesso
dei requisiti di ordine generale con particolare riferimento
alla lett. c) del comma 1 dell'art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n.
163 e deve contenere tutte le sentenze di condanna subite, a
prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione
con il requisito della moralità professionale, la cui
valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante
(cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 28/09/2015, n.
4511).
Ciò non può che valere a maggior ragione in ordine alla
sussistenza dei presupposti per l’annotazione di competenza
dell’autorità odierna appellante, in quanto concernente
l’estensione dei predetti principi al settore degli appalti
anche oltre la partecipazione alla singola gara in cui è
stata resa la dichiarazione non veritiera.
3. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è
fondato e va accolto, con conseguente riforma della sentenza
appellata e rigetto del ricorso di primo grado (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 20.11.2017 n. 5331 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di falso
ideologico nella valutazione tecnica - Limiti alla
discrezionalità tecnica - Verifica di conformità della
situazione fattuale a parametri predeterminati - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Pubblico ufficiale - Falso ideologico -
Criteri di valutazione - Elementi per la configurabilità -
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Attestato della compatibilità
paesaggistica - Falsità dell'autorizzazione paesaggistica.
E' configurabile il reato di falso ideologico nella
valutazione tecnica in un contesto implicante la valutazione
e accettazione di parametri normativamente determinati (Sez.
3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M. in proc. Pasteris e altri,
non mass.; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e
altro).
Se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia
libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua
attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il
documento che contiene il giudizio non è destinato a provare
la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa
riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni
normative che dettano criteri di valutazione, si è in
presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che
vincola la valutazione ad una verifica di conformità della
situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di
conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato.
In altri termini la discrezionalità tecnica è vincolata alla
verifica della conformità della situazione fattuale alle
previsioni normative con conseguente integrazione del reato
di falso ideologico se detto giudizio di conformità non sia
rispondente ai parametri normativi.
Nella specie, la valutazioni di compatibilità ambientale
espressa nell'autorizzazione paesaggistica rilasciata era
fondate su presupposti urbanistici contrastanti con i
parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento
edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore
di un fondo agricolo su fascia costiera, senza destinazione
agricola dell'intervento perché privo del requisito in capo
al soggetto beneficiario, parametri che vengono anche in
rilievo ai fini ambientali e sul giudizio di valorizzazione
del sito (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.11.2017 n. 52605
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianti di
depurazione - INQUINAMENTO AMBIENTALE - Caratteristiche e
configurabilità del delitto - Deterioramento significativo o
compromissione ambientale altamente probabile - Art. 452-bis
cod. pen. - Getto pericoloso di cose - Art. 674 cod. pen. -
Art. 137, 256, d.lgs. n. 152/2006.
Il delitto di inquinamento ambientale, di cui all'art.
452-bis cod. pen., è reato di danno, integrato da un evento
di danneggiamento che, nel caso del "deterioramento",
consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce
oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo
apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente
l'uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una
attività non agevole, mentre, nel caso della
"compromissione", consiste in uno squilibrio funzionale che
attiene alla relazione del bene aggredito con l'uomo e ai
bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare, e
ai fini del sequestro preventivo (nel caso di depuratori) è
sufficiente accertare il deterioramento significativo o la
compromissione come altamente probabili, desunti dalla
natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi.
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO -
Configurabilità del reato di inquinamento ambientale - Art.
452-bis cod. pen. - Deterioramento ambientale significativo
o altamente probabile - Reato di disastro ambientale di cui
all'art. 452-quater c.p..
Ai fini della configurabilità del reato di inquinamento
ambientale, di cui all'art. 452- bis cod. pen., non è
richiesta una tendenziale irreversibilità del danno; ne
consegue che le condotte poste in essere successivamente
all'iniziale deterioramento o compromissione del bene non
costituiscono un "post factum" non punibile, ma integrano
invece singoli atti di un'unica azione lesiva che spostano
in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la
compromissione o il deterioramento diventano irreversibili,
o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal
successivo reato di disastro ambientale di cui all'art.
452-quater dello stesso codice (Sez. 3, n. 15865 del
31/01/2017 - dep. 30/03/2017, Rizzo; conf. Sez. 3, n. 10515
del 27/10/2016 - dep. 03/03/2017, Sorvillo).
Sicché, il deterioramento significativo può ritenersi
altamente probabile, in considerazione della natura degli
scarichi (provenienti da depuratori che non depurano, anzi
le acque in uscita sono peggiori delle acque in entrata,
come motivatamente accertato dal provvedimento impugnato),
della durata degli stessi e dalle misurazioni delle materie
inquinanti «notevolmente superiori ai limiti di cui alla
tabella 3, allegato 5, del d.lgs. 152/2006».
INQUINAMENTO AMBIENTALE - DANNO
AMBIENTALE - Condotta abusiva - Assenza di autorizzazione o
autorizzazioni scadute o palesemente illegittime -
Violazione di leggi statali o regionali ovvero di
prescrizioni amministrative.
La condotta "abusiva" di inquinamento ambientale, idonea ad
integrare il delitto di cui all'art. 452-bis cod. pen.
(disposizione introdotta dalla legge 22.05.2015, n. 68),
comprende non soltanto quella svolta in assenza delle
prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni
scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate
alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta
in essere in violazione di leggi statali o regionali -ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale-
ovvero di prescrizioni amministrative (fattispecie di
inquinamento di acque marine, derivante da un'attività di
bonifica di fondali effettuata in spregio delle relative
prescrizioni progettuali) (Sez.3, n. 46170 del 21/09/2016 -
dep. 03/11/2016, P.M. in proc. Simonelli; conf. Sez. 3, n.
15865 del 31/01/2017 - dep. 30/03/2017, Rizzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.11.2017 n. 52436
- link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
SPESE PROCESSUALI/ Le più recenti
pronunce della Corte di cassazione sul tema.
Compenso unico per più parti. Se la
posizione è identica e la difesa è dello
stesso legale
In tema di liquidazione delle spese del
giudizio in caso di difesa di più parti
aventi identica posizione processuale e
costituite con lo stesso avvocato, è dovuto
un compenso unico secondo i criteri fissati
dalla legge.
Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
con l'ordinanza
10.10.2017 n. 23729, che si inscrive
nel novero di una serie di recenti pronunce
in tema di spese processuali.
Vediamole.
PROCEDIMENTO PER DECRETO INGIUNTIVO E SPESE
PROCESSUALI
Nel procedimento per decreto ingiuntivo, la
fase che si apre con la presentazione del
ricorso e si chiude con la notifica del
decreto non costituisce un processo autonomo
rispetto a quello che si apre con
l'opposizione, ma dà luogo ad un unico
giudizio, nel quale il regolamento delle
spese processuali, che deve accompagnare la
sentenza con cui è definito, va effettuato
in base all'esito finale della lite, con
instaurazione del contraddittorio che viene
differita, per scelta proprio del creditore
attore, al momento della notifica del
decreto.
Ad affermarlo sono stati i giudici della VI
Sez. civile - 2 della Corte di Cassazione
con l'ordinanza
16.11.2017 n. 27234.
Tal momento segna, quindi, hanno aggiunto
gli Ermellini, il prodursi, sotto il punto
di vista sostanziale, della domanda
giudiziale di adempimento, ed è al momento
della notifica della domanda che il medesimo
creditore deve valutare la permanenza del
proprio interesse al processo, per essere
tuttora fondata la sua pretesa, stante il
mancato pagamento del debitore.
Nel caso in cui il debitore abbia provveduto
all'integrale pagamento della sorte capitale
anteriormente all'emissione del
provvedimento monitorio, le spese
processuali relative alla fase monitoria ben
possono essere poste a carico
dell'ingiungente, in quanto la fondatezza
del decreto, ai fini del giudizio di
soccombenza inerente alla liquidazione delle
spese di lite, va comunque verificata non al
momento del deposito del ricorso, ma a
quello della notificazione del decreto.
Nella stessa pronuncia i giudici di piazza
Cavour hanno, altresì, evidenziato che tale
situazione risulta essere diversa, anche per
un ormai consolidato orientamento dettato
dalla giurisprudenza (si vedano: Cass. sez.
2, 10/01/1996, n. 164; Cass. sez. 1,
10/12/1984, n. 6485), dalla valutazione di
soccombenza su cui poggia la
regolamentazione delle spese processuali che
si richiama alla riconducibilità causale, a
fini risarcitori, alla mora debendi
dell'intimato delle spese legali liquidate
per un decreto ingiuntivo non notificato, a
causa dell'intervenuto pagamento della somma
capitale successivo alla richiesta di
emissione.
SULLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE DI LITE: LA
NORMA È ELASTICA
Con altra
ordinanza
26.09.2017 n. 22333 (Sez. III
civile), poi, sempre i giudici della Suprema
corte hanno ribadito che la norma di cui
all'art. 92, comma 2 c.p.c., nella parte in
cui consente al giudice di disporre la
compensazione delle spese di lite allorché
concorrano «gravi ed eccezionali ragioni», è
norma elastica, che il legislatore ha
previsto per adeguarla a un dato contesto
storico-sociale o a speciali situazioni (non
esattamente ed efficacemente determinabili a
priori, ma da specificare in via
interpretativa da parte del giudice del
merito, con un giudizio censurabile in sede
di legittimità, in quanto fondato su norme
giuridiche), cui anche l'oggettiva
opinabilità delle questioni affrontate e
l'oscillante soluzione ad esse data in
giurisprudenza vanno invero ricondotte ove
sintomo dell'atteggiamento soggettivo del
soccombente, in quanto cioè ricollegabili
alla considerazione delle ragioni che lo
hanno indotto ad agire o a resistere in
giudizio.
Il thema decidendum sottoposto
all'attenzione della Cassazione, vedeva che
con sentenza la Corte d'appello - quale
giudice del rinvio disposto da Cassazione -
ha respinto la domanda di risarcimento del
danno ex art. 96 c.p.c. dalla società Alfa
srl (pure) spiegata nei confronti dei sigg.
Tizio e Caio, per essersi costituiti nel
giudizio di rinvio insistendo nelle
eccezioni circa l'insussistenza nella specie
dei diritti di prelazione e di riscatto
dalla medesima vantati quale conduttrice di
complesso immobiliare sito in (omissis),
venduto all'asta pubblica nell'ambito di un
giudizio di scioglimento della comunione tra
i predetti sigg. Tizio e Caio -proprietari e
locatori nonché acquirenti dello stesso-
finalmente riconosciutile spettanti
all'esito della cassazione come sopra
disposta della precedente pronunzia di
rigetto emessa dal giudice del gravame di
merito.
Avverso la suindicata pronunzia del
giudice del rinvio la società Alfa srl
propone ricorso per Cassazione.
PIÙ PARTI IN CAUSA: QUANDO È DOVUTO UN UNICO
COMPENSO
E infine, in tema di liquidazione delle
spese del giudizio, i giudici della Corte di
cassazione con l'ordinanza
10.10.2017 n. 23729 hanno
sottolineato che in caso di difesa di più
parti aventi identica posizione processuale
e costituite con lo stesso avvocato, è
dovuto un compenso unico secondo i criteri
fissati dagli artt. 4 e 8 del dm n. 55 del
2014 (salva la possibilità di aumento nelle
percentuali indicate dalla prima delle
disposizioni citate), senza che rilevi la
circostanza che il comune difensore abbia
presentato distinti atti difensivi (art. 4
del dm cit.), né che le predette parti
abbiano nominato, ognuna, anche altro
(diverso) legale, in quanto la «ratio» della
disposizione di cui all'art. 8, comma 1, del
dm n. 55 del 2014, è quella di fare carico
al soccombente solo delle spese nella misura
della più concentrata attività difensiva
quanto a numero di avvocati, in conformità
con il principio della non debenza delle
spese superflue, desumibile dall'art. 92,
comma 1 c.p.c.
Nel caso di specie Tizio e Caio propongono
ricorso per cassazione articolato in tre
motivi avverso il provvedimento del giudice
dell'esecuzione del tribunale, nei confronti
di Sempronio, Tizietto e Beta srl, i quali
resistono con distinti benché identici
controricorsi.
Questa la vicenda: intrapresa una esecuzione
immobiliare da Sempronio, quale legale
rappresentante della Beta srl, nei confronti
di Caietto e Sempronia e di Alfa, i debitori
presentavano istanza di conversione del
pignoramento; dopo il deposito di tale
istanza, interveniva la Tiziolino per un
cospicuo credito proprio; gli esecutati
proponevano opposizione al provvedimento di
conversione che teneva conto come tempestivo
del credito della creditrice intervenuta nel
determinare l'importo dovuto ai fini della
conversione del pignoramento; il giudice
dell'esecuzione, a definizione della fase
sommaria, emetteva un provvedimento con il
quale dichiarava inammissibile in quanto
tardiva l'opposizione agli atti esecutivi,
senza fissare un termine per l'inizio della
fase di merito. Avverso questo provvedimento
propongono ricorso per cassazione gli
esecutati.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione
in camera di consiglio, in applicazione
degli artt. 376, 380-bis e 375 cod. proc.
civ., su proposta del relatore, in quanto
ritenuto inammissibile.
Il Collegio, all'esito della camera di
consiglio, preso atto delle argomentazioni
contenute nella memoria del ricorrente,
ritiene di condividere la soluzione proposta
dal relatore.
E pertanto, in applicazione di un principio
di diritto ormai consolidato nella
giurisprudenza, in tema di opposizione agli
atti esecutivi, nel regime dell'art. 618,
comma 2 c.p.c., l'ordinanza con la quale il
giudice dell'esecuzione provvede a definire
la fase sommaria, concedendo (o meno) i
provvedimenti di cui al primo inciso del
citato comma omettendo di fissare il termine
perentorio per l'iscrizione a ruolo della
causa di merito, non è impugnabile con il
ricorso straordinario previsto dall'art.
111, comma 7, Cost., essendo priva del
carattere della definitività.
Sottolineando
che l'iscrizione della causa a ruolo ai fini
della prosecuzione dell'opposizione ex art.
617 c.p.c. con la cognizione piena è
ammissibile anche a prescindere dalla
fissazione del predetto termine e, comunque,
di esso può essere chiesta la fissazione al
giudice dell'esecuzione, con istanza da
proporsi ai sensi dell'art. 289 del codice
di rito (si vedano: Cass. n. 25064 del 2015;
in termini, Cass. n. 3082 del 2017)
(articolo ItaliaOggi
Sette del
27.11.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il diniego di atti afferenti a un procedimento
penale può riguardare esclusivamente quelli coperti da
segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di
attività di indagine compiute dalla Polizia Giudiziaria, su
delega del P.M., atti per i quali, in assenza di
autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa in radice l'ostensibilità.
Il diniego di ostensione presuppone, pertanto, una effettiva
valutazione dell'atto di cui si chiede l'ostensione atteso
che il segreto istruttorio penale viene in considerazione
con riferimento agli atti compiuti dall'autorità
amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento e
va comunque esplicitato nell’atto di diniego.
Infatti, non ogni denuncia di reato presentata dalla p.a.
all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto
istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in
quanto, se la denuncia è presentata dalla p.a.
nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni
amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione
dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la p.a. che trasmette
all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell'esercizio della propria istituzionale attività
amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente
sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del
1990.
---------------
5. Il ricorso è fondato.
Per giurisprudenza costante, il diniego di atti afferenti a
un procedimento penale può riguardare esclusivamente quelli
coperti da segreto istruttorio penale, perché formatisi in
occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia
Giudiziaria, su delega del P.M., atti per i quali, in
assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa in
radice l'ostensibilità.
Il diniego di ostensione presuppone, pertanto, una effettiva
valutazione dell'atto di cui si chiede l'ostensione atteso
che il segreto istruttorio penale viene in considerazione
con riferimento agli atti compiuti dall'autorità
amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento
(TAR Lazio, sez. II 01.02.2017 n. 1644) e va comunque
esplicitato nell’atto di diniego (TAR Toscana sez. II
13.01.2017 n. 23).
Infatti, non ogni denuncia di reato presentata dalla p.a.
all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto
istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in
quanto, se la denuncia è presentata dalla p.a.
nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni
amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione
dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la p.a. che trasmette
all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa
nell'esercizio della propria istituzionale attività
amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è
in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto
istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente
sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del
1990 (Consiglio di Stato sez. VI 29.01.2013 n. 547).
5.1. Orbene, nel caso concreto il ricorrente ha chiesto
accesso ad atti sicuramente antecedenti l’inizio di un
eventuale procedimento penale, atti che lo riguardano
direttamente e che sono necessari per la tutela, anche
futura, dei suoi diritti.
La Polizia Municipale non ha riferito di operare quale
organo di polizia giudiziaria, e ha differito l’accesso in
modo del tutto immotivato e sbrigativo, con ciò
contravvenendo a elementari regole di trasparenza e buon
andamento.
Così facendo ha violato l’art. 22 l. 241/1990, perfettamente
applicabile nel caso di specie.
6. Il ricorso va dunque accolto, ordinandosi alla parte
resistente di provvedere all’ostensione degli atti richiesti
con l’istanza del 03.03.2017, entro trenta giorni dalla
comunicazione della presente decisione e avendo riguardo
alla normativa vigente sul coinvolgimento dei
controinteressati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 16.11.2017 n. 11353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Confisca non
menzionato nell'originario provvedimento di sequestro e nel
successivo provvedimento di confisca - Articolo 44 d.p.r. n.
380/2001.
E' legittima la confisca di un fabbricato costruito su un
terreno sottoposto a sequestro e poi a confisca, ancorché
non menzionato nell'originario provvedimento di sequestro e
nel successivo provvedimento di confisca, in quanto, essendo
vigente nel nostro ordinamento il principio di accessione, i
beni costruiti sul fondo appartengono al relativo
proprietario (articolo 934 del codice civile), con la
conseguenza che l'edificazione di un nuovo fabbricato resta
automaticamente esposta alla misura patrimoniale che
colpisce il bene principale (Sez. 5, n. 44994 del
27/10/2011, Albanese).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Misure
cautelari reali - Confisca obbligatoria (cd. "urbanistica")
- Limiti all'esecutività immediata dei provvedimenti
restitutori dei beni sottoposti a sequestro preventivo.
In tema di misure cautelari reali, qualora ricorra, come
nella specie, un'ipotesi di confisca obbligatoria (nel caso
di specie, cd. "urbanistica"), deve escludersi l'esecutività
immediata dei provvedimenti restitutori dei beni sottoposti
a sequestro preventivo pur al cospetto di una sentenza di
proscioglimento o di non luogo a procedere ed anche
nell'ipotesi in cui non ne sia stata disposta espressamente
la confisca, potendo quest'ultima intervenire perfino in
sede esecutiva.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - DIRITTO
PROCESSUALE CIVILE - Sequestro preventivo di un edificio
confiscabile - Differenza tra effetti civili e penali -
Reato di lottizzazione abusiva - Principio di accessione.
La confisca urbanistica, prevista dal secondo comma
dell'articolo 44 del d.p.r. n. 380 del 2001, ha un effetto
estensivo ope legis, investendo l'intera area interessata
dalla lottizzazione e, quindi, tanto i terreni quanto le
opere abusivamente costruite su di essi. Ne consegue che nel
reato di lottizzazione abusiva, il "principio di accessione"
è normativamente declinato in quanto vanno confiscate, expressis verbis, oltre ai terreni abusivamente lottizzati,
le opere abusivamente costruite sui terreni, in conformità
alla ratio che sostiene il provvedimento ablativo, diretta a
purgare, con la confisca e l'acquisizione di diritto e
gratuitamente al patrimonio del comune, tutta la zona
interessata alla lottizzazione, salvi i diritti dei terzi in
buona fede, con la conseguenza che, per opere abusivamente
costruite, devono intendersi anche i manufatti o i corpi di
fabbrica realizzati sui terreni lottizzati proprio perché la
condotta lottizzatoria può essere integrata da opere
edilizie o da opere di urbanizzazione che conferiscono alla
zona stessa una articolazione apprezzabile in termini di
trasformazione urbanistica, predisponendo i terreni ad
accogliere insediamenti non consentiti o non programmati.
Su
questi presupposti, infatti, la giurisprudenza di
legittimità è pervenuta alla conclusione di ritenere
configurabile il reato di lottizzazione abusiva non soltanto
nel caso in cui oggetto della condotta illecita siano
terreni illegittimamente frazionati, ma anche nel caso in
cui si tratti di edifici già costruiti, in quanto
l'alienazione frazionata dei singoli immobili, per il
principio dell'accessione, è intimamente connessa al
frazionamento in lotti del terreno su cui tali immobili sono
stati edificati (Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi).
Mentre, in sede di procedimento di prevenzione il principio
civilistico dell'accessione riceve una applicazione di segno
inverso, dovendosi dare rilievo al bene di maggior valore
economico, essendo necessario colpire i beni prodotti in
conseguenza dell'accaparramento di profitti illeciti ed in
forza del reimpiego di detti profitti proprio nella
realizzazione dei fabbricati (magari su terreni
legittimamente appartenenti a terzi), il che impedisce, sul
piano economico e funzionale, di scinderne l'unitaria
valutazione, rendendoli insuscettibili di una separata
utilizzazione, posto che, in siffatti casi, il terreno,
quando il valore dei fabbricati è superiore, accresce di
valore per effetto dell'edificazione, sebbene abusiva dei
manufatti che su di esso insistono, con la conseguenza che
una meccanica applicazione del principio di accessione
determinerebbe l'aggiramento della disciplina penalistica
diretta a colpire i patrimoni illeciti.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro
preventivo di un edificio confiscabile - Confisca di un bene
immobile realizzato con somme di denaro di illecita
provenienza su terreno di provenienza lecita.
Il sequestro preventivo di un edificio confiscabile a norma
dell'art. 12-sexies, commi primo e secondo, D.L. 08.06.1992 n. 306, convertito con modif. nella L.
08.08.1992 n.
356, si estende alle pertinenze dell'edificio e al suolo sul
quale è stato realizzato, ancorché la provenienza del suolo
sia legittima (Sez. U., n. 1152 del 25/09/2008, dep. 2009,
Petito), precisando che può essere disposta la confisca di
un bene immobile, realizzato con somme di denaro di illecita
provenienza su terreno di provenienza lecita, in quanto i
due beni, sul piano economico e funzionale devono essere
valutati unitariamente, non potendo essere suscettibili di
un'utilizzazione separata, dovendosi dare maggior rilievo,
in ambito penalistico, al superiore valore economico del
fabbricato -bene principale- del quale il terreno,
indipendentemente dalla sua estensione, segue il regime
giuridico, quale pertinenza, in conformità agli scopi della
disciplina di prevenzione (ex multis, Sez. 6, n. 16151 del
04/02/2014, Cusimano; Sez. 6, n. 18807 del 30/10/2012, dep.
2013, Martino) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2017 n. 52056
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Abuso di ufficio
- Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del
potere - Art. 323, cod. pen. - Art. 10, 44, lett. b), d.P.R.
n. 380/2001 - Art. 21-septies L. n. 241/1990.
Il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità
del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta
"carenza di potere in astratto", vale a dire l'ipotesi in
cui l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in
realtà nessuna norma le attribuisce.
Attraverso l'art.
21-septies della L. n. 241 del 1990 il legislatore,
nell'introdurre in via generale la categoria normativa della
nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a
tale radicale patologia il solo difetto assoluto di
attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del
potere, cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma
giuridica attributiva del potere esercitato con il
provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente
rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d.
"carenza di potere in concreto", ossia del potere pur
astrattamente sussistente esercitato senza i presupposti di
legge (Cons. St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso
senso, tra le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del
17/11/2015; Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons.
St., Sez. 5, n. 4323 del 30/08/2013).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di
abuso d'ufficio - Condotta in violazione delle norme -
Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico servizio - Art. 323, cod. pen..
Ai fini della sussistenza del reato di abuso d'ufficio di
cui all'art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta
in essere "nello svolgimento delle funzioni o del servizio".
Ciò non comporta l'espunzione dalla fattispecie delle
condotte poste in essere in violazione delle norme che
disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico
ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma solo di
quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi
dell'art. 21-septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara,
ai fini della nullità dell'atto, la carenza di potere al
provvedimento amministrativo che manca degli elementi
essenziali).
In caso di difetto assoluto di attribuzione,
l'ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri
o l'ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli
eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non
sarebbero causalmente riconducibili all'ufficio o al
servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative
estemporaneamente poste in essere dall'autore del reato
spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi
di altre norme (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.11.2017 n. 52053
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EDILIZIA PRIVATA:
In ordine alla questione se la decadenza della
concessione edilizia operi anche in assenza di un’apposita
dichiarazione amministrativa, il Collegio intende aderire
all'indirizzo, anche recentemente ribadito da questo
Consiglio, secondo il quale l’operatività della decadenza
della concessione edilizia necessita in ogni caso
dell’intermediazione di un formale provvedimento
amministrativo, seppur avente efficacia dichiarativa di un
effetto verificatosi ex se e direttamente.
---------------
L’art. 15, comma 2, del T.U. 380/2001 esclude qualsiasi
sospensione automatica del termine di durata del permesso
edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica
proroga.
Più precisamente, anche laddove si sia in presenza del c.d.
factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato
che voglia impedire la decadenza del titolo è sempre onerato
della proposizione di una richiesta di proroga
dell’efficacia del titolo stesso.
Infatti, la conseguenza di prolungare la durata degli
effetti favorevoli dell’originario titolo, ivi compresa la
possibilità di realizzare le opere già autorizzate divenute
contrastanti con la normativa urbanistica sopravvenuta, è in
ultima analisi subordinata al riconoscimento, demandato alla
P.A., di una incolpevole impossibilità di ultimazione dei
lavori da parte del privato.
Ciò esclude qualunque automaticità di ogni effetto
sospensivo, dovendosi adeguatamente ponderare le ragioni
poste a fondamento della proroga del termine.
---------------
Tuttavia, la particolarità della vicenda in esame porta a
mitigare il detto principio, che in generale il Collegio
condivide.
A tal fine, giova ricordare che nel caso in esame il decorso
del termine per l’esecuzione delle opere autorizzate con
permesso di costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in
data 24.12.2009, è inutilmente decorso durante tutto il
periodo in cui ha avuto efficacia il sequestro del cantiere
disposto dall’Autorità Giudiziaria nonché il provvedimento
sindacale di sospensione lavori, che hanno reso impossibile
la prosecuzione delle opere per più di quattro anni.
Quest’ultimo provvedimento di sospensione non può dirsi
causato dalla società ricorrente. Invero, lo stesso è
riconducibile alla sola determinazione comunale di
sospensione lavori, seguita al diniego di sanatoria emesso
(oltretutto illegittimamente) dal Comune stesso.
Alla luce delle circostanze innanzi ricordate è pertanto
pacifico che l’Amministrazione comunale era già a conoscenza
del periodo in cui non è stato possibile procedere con i
lavori, tanto è vero che lo stesso è derivato da un
provvedimento di sospensione dalla stessa emesso.
Ne consegue che nel caso di specie non può assumere alcuna
utilità un’istanza del privato volta a fare valere tale
circostanza, la quale avrebbe poi dovuto essere oggetto di
valutazione da parte del Comune. Un accertamento di tal
genere appare, stante la peculiarità della fattispecie, del
tutto superfluo, risolvendosi in un’inutile aggravio del
procedimento.
Come anticipato la soluzione a cui il Collegio intende
pervenire nel caso in esame non appare in contrasto con
l’orientamento già espresso da questa Consiglio.
Invero, come già ricordato, la non automatica operatività
dell’effetto sospensivo e la necessità di una apposita
istanza di proroga da parte del privato trovano la loro
giustificazione nell’esigenza che l’amministrazione possa
oggettivamente apprezzare l’idoneità dell’evento impeditivo
a giustificare la proroga dei termini.
Nel caso in esame tale valutazione è evidentemente ultronea,
posto che l’evento impeditivo della esecuzione dei lavori è
consistito in un fatto di cui l’Amministrazione stessa,
deputata a vagliare la meritevolezza dell’istanza di
proroga, è stata all’origine. Perciò, non può in tal caso
ragionevolmente pretendersi una apposita richiesta del
concessionario di proroga del termine per la ultimazione dei
lavori.
Non solo, come già ricordato, nella specifica vicenda il
provvedimento comunale di sospensione dei lavori ha avuto
luogo a seguito del diniego della sanatoria del 24.02.2011.
Tale provvedimento, oltre a quello di sospensione dei lavori
e all’ingiunzione di demolizione, è stato annullato dalla
sentenza n. 4628/2014 dell’11.09.2014 di questa Sezione, in
riforma della sentenza del TAR Valle d’Aosta n. 72/2012. A
seguito della citata pronuncia il Comune in data 30.09.2015,
ripronunciandosi sull’istanza di sanatoria, concedeva il
richiesto permesso di costruire in sanatoria parziale.
Alla luce di tale evenienza la proroga del termine per la
conclusione dei lavori deve, quindi, ritenersi conseguenza
logica dell’effetto conformativo della richiamata decisione
del Consiglio di Stato, derivando la stessa direttamente dal
giudicato formatosi sulla sentenza di annullamento.
In tal senso si è già espressa la giurisprudenza, chiarendo
che “la proroga del termine di efficacia del titolo edilizio
costituisce una doverosa forma di restitutio in integrum in
favore del ricorrente, il quale va reintegrato nella stessa
posizione sostanziale in cui si sarebbe trovato in assenza
degli atti comunali illegittimi ed alla quale deve essere
restituita l’utilità di cui è rimasta illegittimamente
privata” .
---------------
Il motivo è fondato per le ragioni di seguito indicate.
La questione pone il problema se la decadenza operi anche in
assenza di un’apposita dichiarazione amministrativa, come
sostenuto dal Comune con il conforto di una parte della
giurisprudenza, soprattutto di primo grado (Cfr. Tar Sicilia
Catania, Sez. I, 16.02.2015, n. 528; Tar Sicilia Palermo,
Sez. II, 14.03.2014, n. 746; Tar Lazio Roma, Sez. II-bis,
28.06.2005, n. 5370), oppure necessiti di una dichiarazione,
all’esito di un apposito procedimento (Cfr. Cons. St., Sez.
V, 26.06.2000, n. 3612).
Il Collegio intende aderire a quest’ultimo indirizzo, anche
recentemente ribadito da questo Consiglio, secondo il quale
l’operatività della decadenza della concessione edilizia
necessita in ogni caso dell’intermediazione di un formale
provvedimento amministrativo, seppur avente efficacia
dichiarativa di un effetto verificatosi ex se e
direttamente (Cfr. Cons. St. 22.10.2015 n. 4823).
Quanto alla necessaria interlocuzione con il privato
attraverso gli apposti strumenti partecipativi,
rappresentati nel caso di specie dagli artt. 12 e 16 della
Legge Regionale 06.08.2007 n. 19, deve parimenti ricordarsi
che la giurisprudenza ha avuto di modo di precisare che la
perdita di efficacia della concessione di costruzione per
mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini
prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale
provvedimento dell’Amministrazione anche ai fini del
necessario contraddittorio col privato circa l’esistenza dei
presupposti di fatto e di diritto che possono legittimarne
la determinazione (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent.
12.05.2011, n. 2821; Cons. St., Sez. IV, sent. 29.01.2008,
n. 249; Cons. St., Sez. VI, sent. 17.02.2006, n. 671).
Alla luce dei principi innanzi ricordati deve osservarsi che
nel caso di specie la perdita di efficacia della concessione
di costruzione è desumibile solo indirettamente dal
provvedimento impugnato, emesso senza alcuna comunicazione
di avvio del procedimento, né alcun preavviso di rigetto
dell’istanza in violazione degli artt. 12 e 16 della Legge
Regionale 06.08.2007 n. 19.
E’ dunque pacifico che l’amministrazione non ha mai emesso
uno specifico provvedimento di decadenza, reso all’esito di
un procedimento partecipato dalla parte privata. In
particolare, è importante sottolineare l’assenza di ogni
coinvolgimento della società ricorrente, la quale ben
avrebbe potuto rappresentare idonee ragioni atte, nella
peculiarità del caso in esame, a portare in ipotesi ad una
valutazione diversa della fattispecie, così come si desume
dalle deduzioni a conforto del secondo motivo di ricorso.
In altre parole, la mancata attivazione di un apposito
procedimento e la conseguente mancata attivazione delle
relative garanzie procedimentali non si risolve in un mero
vizio formale, bensì in un effettivo pregiudizio alla
posizione soggettiva dell’appellante.
Con il secondo motivo di ricorso la società Le Re. ha
censurato il provvedimento comunale sotto i diversi profili
della violazione e falsa applicazione dell’art. 60, comma 7,
della Legge Regionale Valle d’Aosta 06.04.1998 n. 11:
Difetto assoluto di istruttoria. Violazione del giusto
procedimento. Errata valutazione dei presupposti di fatto e
di diritto. Secondo l’appellante, contrariamente a quanto
opinato dal Comune di Ayas, il termine per l’esecuzione dei
lavori non era decorso, con conseguente insussistenza
dell’onere per l’interessato di richiedere il rilascio di un
nuovo titolo.
In base a tale prospettazione, il decorso del termine per
l’esecuzione delle opere autorizzate con permesso di
costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in data
24.12.2009, sarebbe rimasto automaticamente sospeso
–quantomeno– per il periodo del sequestro del cantiere, che
ha reso impossibile la prosecuzione dei lavori nel periodo
di tempo tra il 14.04.2011 ed il 25.06.2015.
Il Tar ha disatteso tale prospettazione, ritenendo non “ipotizzabile
nell’attuale sistema giuridico la sospensione automatica del
titolo edilizio, essendo sempre necessaria, al fine di
ottenere la sospensione, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento da
parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il
titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto
del termine ab origine fissato in relazione al factum
principis o ad una causa di forza maggiore”.
L’appellante contesta tale statuizione, evidenziando come
appare del tutto irragionevole subordinare la proroga del
termine per la conclusione dei lavori all’istanza del
privato anche ove l’impedimento alla realizzazione delle
opere sia la diretta conseguenza degli atti adottati dalla
medesima amministrazione.
Il motivo è fondato per le ragioni di seguito esposte.
Il Collegio non disconosce il principio ribadito anche
recentemente da questa Sezione (sent. 03.08.2017 n. 3887), e
che deve essere tenuto fermo, secondo il quale l’articolo
15, comma 2, del T.U. 380/2001 esclude qualsiasi sospensione
automatica del termine di durata del permesso edilizio, e
quindi a maggior ragione una sua automatica proroga. Più
precisamente, anche laddove si sia in presenza del c.d.
factum principis o di cause di forza maggiore,
l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo è
sempre onerato della proposizione di una richiesta di
proroga dell’efficacia del titolo stesso.
Infatti, la conseguenza di prolungare la durata degli
effetti favorevoli dell’originario titolo, ivi compresa la
possibilità di realizzare le opere già autorizzate divenute
contrastanti con la normativa urbanistica sopravvenuta, è in
ultima analisi subordinata al riconoscimento, demandato alla
P.A., di una incolpevole impossibilità di ultimazione dei
lavori da parte del privato. Ciò esclude qualunque
automaticità di ogni effetto sospensivo, dovendosi
adeguatamente ponderare le ragioni poste a fondamento della
proroga del termine.
Tuttavia, la particolarità della vicenda porta nel caso di
specie a mitigare il detto principio, che in generale il
Collegio condivide.
A tal fine, giova ricordare che nel caso in esame il decorso
del termine per l’esecuzione delle opere autorizzate con
permesso di costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in
data 24.12.2009, è inutilmente decorso durante tutto il
periodo in cui ha avuto efficacia il sequestro del cantiere
disposto dall’Autorità Giudiziaria nonché il provvedimento
sindacale di sospensione lavori, che hanno reso impossibile
la prosecuzione delle opere per più di quattro anni.
Quest’ultimo provvedimento di sospensione, non può dirsi
causato dalla società ricorrente, come sostenuto dal Comune
nella propria memoria di costituzione. Invero, lo stesso è
riconducibile alla sola determinazione comunale di
sospensione lavori, seguita al diniego di sanatoria emesso
(oltretutto illegittimamente) dal Comune stesso.
Alla luce delle circostanze innanzi ricordate è pertanto
pacifico che l’Amministrazione comunale era già a conoscenza
del periodo in cui non è stato possibile procedere con i
lavori, tanto è vero che lo stesso è derivato da un
provvedimento di sospensione dalla stessa emesso. Ne
consegue che nel caso di specie non può assumere alcuna
utilità un’istanza del privato volta a fare valere tale
circostanza, la quale avrebbe poi dovuto essere oggetto di
valutazione da parte del Comune. Un accertamento di tal
genere appare, stante la peculiarità della fattispecie, del
tutto superfluo, risolvendosi in un’inutile aggravio del
procedimento.
Come anticipato la soluzione a cui il Collegio intende
pervenire nel caso in esame non appare in contrasto con
l’orientamento già espresso da questa Consiglio. Invero,
come già ricordato, la non automatica operatività
dell’effetto sospensivo e la necessità di una apposita
istanza di proroga da parte del privato trovano la loro
giustificazione nell’esigenza che l’amministrazione possa
oggettivamente apprezzare l’idoneità dell’evento impeditivo
a giustificare la proroga dei termini.
Nel caso in esame tale valutazione è evidentemente ultronea,
posto che l’evento impeditivo della esecuzione dei lavori è
consistito in un fatto di cui l’Amministrazione stessa,
deputata a vagliare la meritevolezza dell’istanza di
proroga, è stata all’origine. Perciò, non può in tal caso
ragionevolmente pretendersi una apposita richiesta del
concessionario di proroga del termine per la ultimazione dei
lavori.
Non solo, come già ricordato, nella specifica vicenda
all’attenzione del Collegio, il provvedimento comunale di
sospensione dei lavori ha avuto luogo a seguito del diniego
della sanatoria del 24.02.2011. Tale provvedimento, oltre a
quello di sospensione dei lavori e all’ingiunzione di
demolizione, è stato annullato dalla sentenza n. 4628/2014
dell’11.09.2014 di questa Sezione, in riforma della sentenza
del TAR Valle d’Aosta n. 72/2012. A seguito della citata
pronuncia il Comune in data 30.09.2015, ripronunciandosi
sull’istanza di sanatoria, concedeva il richiesto permesso
di costruire in sanatoria parziale.
Alla luce di tale evenienza la proroga del termine per la
conclusione dei lavori deve, quindi, ritenersi conseguenza
logica dell’effetto conformativo della richiamata decisione
del Consiglio di Stato, derivando la stessa direttamente dal
giudicato formatosi sulla sentenza di annullamento. In tal
senso si è già espressa la giurisprudenza, chiarendo che “la
proroga del termine di efficacia del titolo edilizio
costituisce una doverosa forma di restitutio in integrum in
favore del ricorrente, il quale va reintegrato nella stessa
posizione sostanziale in cui si sarebbe trovato in assenza
degli atti comunali illegittimi ed alla quale deve essere
restituita l’utilità di cui è rimasta illegittimamente
privata” (Cons. St. Sez. IV, sentenza 16.06.2016 n.
2666).
In definitiva, l’appello deve trovare accoglimento,
dovendosi di conseguenza riformare la sentenza del Tar Valle
D’Aosta n. 59/2016 ed accogliere il ricorso della società Le
Re. S.a.s. (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.11.2017 n. 5285 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Atto di transazione e poteri in autotutela della P.A..
Il Consiglio di Stato ritiene infondata
la pretesa di una Amministrazione, che aveva stipulato un
atto di transazione, di ripetere le somme corrisposte al
privato in esecuzione della transazione sottoscritta, quale
conseguenza dell’annullamento in autotutela degli atti
prodromici alla stipulazione dello stesso contratto.
Nella
fattispecie, gli atti in autotutela erano stati adottati,
non in relazione a vizi di legittimità del procedimento
amministrativo prodromico alla stipulazione di dette
transazioni, bensì in relazione a pretesi vizi del
sinallagma contrattuale, i quali, attraverso un espediente
di natura formale, erano stati configurati
dall'amministrazione quali vizi di legittimità degli atti
presupposti al fine di esercitare inesistenti poteri
esorbitanti nei confronti della controparte privata
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
2.– La pretesa dell’Amministrazione appellante di
ripetere le somme corrisposte al ricorrente in esecuzione
della transazione sottoscritta nell’anno 2003, quale
conseguenza dell’annullamento in autotutela degli atti
prodromici alla stipulazione dello stesso contratto, è
infondata.
2.1.‒ Va rimarcato che, per porre fine al contenzioso
instaurato con il ricorrente, l’Amministrazione appellante
autorizzava la composizione transattiva della lite. Con
scrittura privata, le parti, premessa l’esistenza del detto
contenzioso, convenivano il riconoscimento di una somma da
parte dell’Amministrazione in favore del ricorrente e la
rinuncia da parte di quest’ultimo al giudizio
precedentemente instaurato, oltre che agli interessi nel
frattempo maturati sulle somme non versate.
L’atto in esame
ricalca il tipo contrattuale di cui all’art. 1965 c.c., e
segnatamente: ha per oggetto un rapporto giuridico avente,
almeno nella opinione delle parti, carattere di incertezza
e, nell’intento di far cessare la situazione di dubbio
venutasi a creare, i contraenti si fanno delle concessioni
reciproche.
2.2.– Su queste basi, l’annullamento in autotutela delle
ordinanze commissariali n. 1382, 1383, 1384 del 17.07.2003 che avevano autorizzato la transazione, non poteva
avere come effetto quello di caducare il contratto
precedentemente stipulato.
Pur qualificati dall’Amministrazione come espressione del
potere di autotutela, gli atti di secondo grado esprimono,
nella sostanza, nulla più che la volontà
dall’amministrazione di sciogliersi unilateralmente da un
vincolo contrattuale ritenuto invalido, e senza previamente
ottenere, a tal fine, un intervento giurisdizionale del
giudice competente.
Tale facoltà di recesso non era prevista
(come invece è richiesto dall’art. 21-sexies, della legge n.
241 del 1990), né dalla legge –esistono, infatti, norme
specifiche che attribuiscono all’amministrazione la facoltà
di incidere unilateralmente sui contratti stipulati con i
privati (artt. 108, 109, 176 del d.lgs. n. 50 del 2016),
sugli accordi “accessivi” ai provvedimenti concessori (art.
21-quinquies, della legge n. 241 del 1990), sulle
convenzioni pubblicistiche (art. 11, comma 4, della legge n.
241 del 1990)– né dal contratto.
Si verte, inoltre, al di
fuori delle fattispecie tipiche in cui l’annullamento degli
atti prodromici alla stipulazione di un contratto ad
evidenza pubblica può incidere sull’efficacia di
quest’ultimo (cfr. gli artt. 121 ss. del codice del processo
amministrativo).
Gli atti di asserita autotutela, oggetto del presente
giudizio, sono stati del resto adottati, non in relazione a
vizi di legittimità del procedimento amministrativo
prodromico alla stipulazione di dette transazioni, bensì in
relazione a pretesi vizi del sinallagma contrattuale, i
quali, attraverso un espediente di natura meramente formale,
sono stati configurati dall’amministrazione quali “vizi di
legittimità” degli atti presupposti al solo fine di
esercitare inesistenti poteri “esorbitanti” nei confronti
della controparte privata.
Tale espediente consentirebbe alla pubblica amministrazione
–in aperta contraddizione con il principio di sistema, di
cui all’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990,
secondo cui: «[l]a pubblica amministrazione, nell'adozione
di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme
di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente»– di “disattivare” unilateralmente l’art. 1969 c.c., secondo
cui è rilevante il solo errore di diritto sulla situazione
costituente presupposto della “res controversa” e quindi su
un antecedente logico della transazione, e non quello che
cade su una questione che sia stata oggetto di controversia
fra le parti (il cosiddetto “caput controversum”).
Nel caso
di specie, l’errore di diritto –consistito nella
inosservanza della norma che impedisce l’avanzamento «se non
vi siano posti vacanti nei ruoli organici dei singoli gradi»
(art. 89 del r.d. n. 484 del 1936)–, incidendo sulle
reciproche concessioni, attiene direttamente all’oggetto
della transazione e non già ad un suo presupposto.
2.3.‒ Deve aggiungersi che, diversamente opinando, avremmo
che, paradossalmente, il ricorrente, oltre a dover
restituire le somme erogate in forza della transazione
stipulata, non potrebbe neppure più adire l’autorità
giurisdizionale per il riconoscimento dei suoi diritti,
avendo rinunciato all’azione proprio in attuazione della
transazione.
3.– L’appello, dunque, va respinto (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 15.11.2017 n. 5278 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).). |
APPALTI:
Gare con offerta economicamente più vantaggiosa: la mancata
previsione di sub-pesi e sub-punteggi per ciascun criterio
di valutazione qualitativa dell'offerta non è indice di
indeterminatezza dei criteri di valutazione.
La mancata previsione di sub-pesi e
sub-punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa
dell'offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di
valutazione: ciò in quanto la possibilità di individuare
sub-criteri è, infatti, meramente eventuale, com’è palese
dall'espressione «ove necessario» dell'art. 83, comma 4, del
Codice dei contratti pubblici.
Inoltre la giurisprudenza ha chiarito come “la scelta
operata dall'Amministrazione appaltante, in una procedura di
aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione
delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali
singoli elementi, specificamente indicati nella lex
specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale
del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è
espressione dell'ampia discrezionalità attribuitale dalla
legge per meglio perseguire l’interesse pubblico; e come
tale è sindacabile in sede di legittimità solo allorché sia
macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale ed
i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non
consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta”.
---------------
Posto che l'offerta costituisce l'atto con cui un soggetto
propone di obbligarsi ad effettuare determinate prestazioni,
e che è fisiologicamente rivolta a provocare un'eventuale
accettazione da parte del destinatario (accettazione a sua
volta foriera, secondo lo schema logico del "sinallagma", di
ulteriori reciproche obbligazioni), non appare revocabile in
dubbio che essa debba essere connotata dalla massima
precisione espressiva.
La precisione del contenuto della proposta costituisce, in
altri termini, elemento essenziale di caratterizzazione
della offerta.
Ne consegue che un'offerta formulata in modo impreciso (o
vago, sommario, generico) non può che essere considerata
inidonea -siccome affetta da un vizio che la rende
inefficace (se non addirittura radicalmente invalida)- ad
adempiere alla sua funzione. Ciò a maggior ragione
allorquando l'offerta venga formulata nell'ambito (e nel
contesto) di una procedura concorsuale (id est: di una
gara), e sia dunque destinata a costituire oggetto di una
valutazione comparativa volta alla stesura di una
graduatoria di merito.
---------------
L’incompletezza dell’offerta tecnica, carente di un elemento
essenziale al fine della valutazione della sua idoneità da
parte della Commissione giudicatrice, è tale da ingenerare
un’incertezza assoluta del suo contenuto che ne rende
doverosa l’esclusione dalla gara.
---------------
Con il primo motivo di appello, l’A.T.I. Ci. censura
sul punto la sentenza; ed evidenzia come, contrariamente a
quanto ivi ritenuto, con tale motivo di ricorso, proposto in
via gradata rispetto ai precedenti, essa avesse in realtà
inteso dolersi di un’illegittimità propria degli atti
impugnati idonea ad inficiare l’intera procedura di gara: il
motivo era, infatti, rivolto ad evidenziare il vizio della
motivazione dell’attività valutativa delle offerte tecniche
da parte della Commissione in ragione della genericità dei
criteri di valutazione fissati ab origine nella
lex specialis, in assenza della previsione di
sub-criteri e sotto-punteggi.
Il motivo di appello in esame è infondato.
Invero, il Collegio rileva in primo luogo come la sentenza,
pur ritenendo che tale censura non avesse portata
demolitoria dell’intera gara, non ha tuttavia pretermesso di
esaminare sul punto il ricorso principale, concludendo così
per l’infondatezza di tale motivo di ricorso anche nel
merito.
Infatti, la sentenza appellata, da un lato, dà atto
che il disciplinare di gara, contrariamente a quanti addotto
dalla ricorrente, conteneva una regolamentazione alquanto
analitica dei criteri di valutazione dell’offerta; sicché si
doveva escludere che i concorrenti non fossero stati posti
nelle condizioni di calibrarla adeguatamente; dall’altro
richiama, conformandovisi, il consolidato orientamento
giurisprudenziale per cui la mancata previsione di
sub-criteri di valutazione non costituisce, di per sé,
motivo di illegittimità della lex specialis di gara.
Tale prospettazione è condivisibile.
Infatti, in primo luogo, il Disciplinare di gara
disciplinava, a pagina 27, i criteri motivazionali alla
stregua dei quali la Commissione avrebbe dovuto valutare i
criteri numero 1 ("cantierizzazione") e numero 2 ("varianti
migliorative").
Nello specifico, era stabilito che il Seggio di gara, per la
valutazione del criterio n. 1, avrebbe dovuto "considerare
migliore soluzione quella offerta per la quale la relazione
dimostri che la concezione organizzativa e la struttura
tecnico-organizzativa offrono una elevata garanzia della
qualità della attuazione della prestazione, con
l'individuazione delle criticità e di soluzioni per la loro
risoluzione. In particolare sarà preferita l'offerta che
garantisce la maggiore previsione sulla gestione del
cantiere, limita le interferenze e fornisce strumenti di
gestione accurati, precisione nei dettagli (composizione
delle squadre di lavoro, imprese esecutrici e mezzi
impiegati)".
Per la valutazione del criterio n. 2, invece, si sarebbe
dovuto "considerare migliore proposta quella che dimostri
di garantire maggiore durabilità, funzionalità”.
Pertanto è insussistente l’addotta genericità sul punto
della lex specialis, tale da comportare la carenza di
motivazione delle valutazioni della Commissione di gara
sulle offerte tecniche dei concorrenti; si deve, al
contrario, ritenere che, nel caso di specie, siano stati
piuttosto bene predefiniti da parte dell’Amministrazione
aggiudicatrice i criteri di valutazione, in modi
sufficientemente precisi e dettagliati, sì da delimitare il
giudizio della Commissione e consentire di ricostruire
l’iter logico-giuridico seguito da questa nella valutazione
delle offerte tecniche, controllandone logicità e congruità.
In secondo luogo, il Collegio condivide e intende dare
continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale in
base al quale la mancata previsione di sub-pesi e
sub-punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa
dell'offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di
valutazione: ciò in quanto la possibilità di individuare
sub-criteri è, infatti, meramente eventuale, com’è palese
dall'espressione «ove necessario» dell'art. 83, comma
4, del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre la giurisprudenza ha chiarito come “la scelta
operata dall'Amministrazione appaltante, in una procedura di
aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione
delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali
singoli elementi, specificamente indicati nella lex
specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale
del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è
espressione dell'ampia discrezionalità attribuitale dalla
legge per meglio perseguire l’interesse pubblico; e come
tale è sindacabile in sede di legittimità solo allorché sia
macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale ed
i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non
consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta”
(Cons. Stato, V, 18.06.2015, n. 3105; III, 02.05.2016, n.
1661; V, 08.04.2014 n. 1668).
L’evenienza va, tuttavia, per quanto detto in relazione
all’analiticità dei criteri di valutazione come indicati
dalla lex concorsualis, esclusa nel caso oggetto di
giudizio.
Neppure può
condividersi la tesi dell’appellante in merito alla
possibilità per la stazione appaltante di ricorrere, nel
caso di specie, all’istituto contemplato dall’art. 46, comma
1, d.lgs. n. 163 del 2006: rimedio che consente
all’Amministrazione aggiudicatrice di chiedere ai
concorrenti chiarimenti sulle proprie offerte, senza che ciò
comporti richiesta o accettazione di alcuna modifica sul
punto.
Ciò per l’ovvia ragione che nessun chiarimento utile
l’Impresa Ci. avrebbe potuto fornire circa l’individuazione
dell’area di allestimento del cantiere, non essendo
rinvenibile in merito la formazione di una volontà certa e
determinata dell’A.T.I. appellante, in quanto detto profilo
risultava rimesso a una successiva determinazione mediante
un’intesa con l’Autorità portuale di Venezia, ovvero
stipulabile, nel caso di aree collocate all’esterno della
laguna ed al di fuori della competenza della Committente,
finanche con terzi soggetti.
Del resto, tale eventualità non era contemplata in via
meramente alternativa ad una effettiva e concreta
determinazione dell’area in esame già in fase di gara.
Si deve pertanto concludere per l’incompletezza del
contenuto dell’offerta tecnica formulata dall’A.T.I. Ci., a
causa della carenza di un elemento essenziale.
Ciò in conformità del consolidato orientamento
giurisprudenziale in base al quale "posto che l'offerta
costituisce l'atto con cui un soggetto propone di obbligarsi
ad effettuare determinate prestazioni, e che è
fisiologicamente rivolta a provocare un'eventuale
accettazione da parte del destinatario (accettazione a sua
volta foriera, secondo lo schema logico del "sinallagma", di
ulteriori reciproche obbligazioni), non appare revocabile in
dubbio che essa debba essere connotata dalla massima
precisione espressiva. La precisione del contenuto della
proposta costituisce, in altri termini, elemento essenziale
di caratterizzazione della offerta. Ne consegue che
un'offerta formulata in modo impreciso (o vago, sommario,
generico) non può che essere considerata inidonea -siccome
affetta da un vizio che la rende inefficace (se non
addirittura radicalmente invalida)- ad adempiere alla sua
funzione. Ciò a maggior ragione allorquando l'offerta venga
formulata nell'ambito (e nel contesto) di una procedura
concorsuale (id est: di una gara), e sia dunque destinata a
costituire oggetto di una valutazione comparativa volta alla
stesura di una graduatoria di merito" (Cons. giust. amm.
Sic., 18.01.2017, n. 23).
Ne consegue che l’offerta formulata dall’A.T.I. appellante,
non soddisfacendo i requisiti sopra rammentati, avrebbe
dovuto ritenersi inammissibile e, pertanto, andava esclusa
dalla gara.
Tale conclusione non viola il principio di tassatività delle
cause di esclusione nelle gare pubbliche, già codificato
nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163,
applicabile ratione temporis al caso di specie, posto
che l’incompletezza dell’offerta tecnica, carente di un
elemento essenziale al fine della valutazione della sua
idoneità da parte della Commissione giudicatrice, è tale da
ingenerare un’incertezza assoluta del suo contenuto che ne
rende doverosa l’esclusione dalla gara.
In tal senso è del resto orientata la costante
giurisprudenza amministrativa (si vedano ex multis
Cons. Stato, V, 14.04.2016, n. 1494; V, 11.12.2015, n. 5655;
V, 27.03.2015, n. 1601)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.11.2017 n. 5245 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mancato ritiro del titolo edilizio non costituisce causa
di decadenza del permesso di costruire.
Il TAR Milano, dopo aver precisato che
il permesso di costruire diviene efficace già al momento del
suo rilascio, non essendo a tal fine necessario che lo
stesso venga comunicato o ritirato dal destinatario, esclude
che il mancato ritiro del permesso di costruire costituisca
causa di decadenza dello stesso; conseguentemente,
l’intervento realizzato conformemente al titolo edilizio
rilasciato, ma non ritirato, non può dirsi abusivo e non
possono ad esso applicarsi le misure sanzionatorie rivolte
alla repressione dell’attività edilizia abusiva
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 4 del 24.05.2016, con cui il Comune di Merate ha ordinato alla Fi.
s.r.l. -in liquidazione- “la demolizione integrale
dell’edificio sopra descritto, identificato alla sez. Sabbioncello, Fg. 4, mappale 2309 sub. 2-3-4-703-704, entro
il termine di 90 (novanta) giorni dalla data di notifica
della presente ordinanza” ed ha altresì precisato che
“decorso inutilmente il termine di cui sopra senza che sia
stato ottemperato a quanto sopra ordinato, il bene e l’area
di sedime, di superficie pari a mq. 460 circa, nonché quella
necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche,
alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, di
mq. 1.130 circa….saranno acquisti di diritto gratuitamente
al patrimonio del Comune, ai sensi del terzo comma del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380” ;
...
1. Fi. s.r.l., odierna ricorrente, è proprietaria di due
fabbricati situati nel territorio del Comune di Merate,
censiti in catasto alla zona censuaria di Sabbioncello, Fg. 4,
mappale 2309, sub. 2-3-4-703-704. I due fabbricati sono
adiacenti sebbene collocati su due differenti livelli.
2. Il Comune di Merate, con ordinanza n. 4 del 24.05.2016, rilevato che sui predetti immobili sono stati eseguiti
interventi ritenuti in totale difformità dai permessi di
costruire che ne avevano assentito la realizzazione ed il
recupero, ha ordinato la totale demolizione degli stessi.
3. Contro tale provvedimento è principalmente diretto il
ricorso in esame. Oltre alla domanda di annullamento è stata
proposta domanda risarcitoria.
4. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il
Comune di Merate.
5. La Sezione, con ordinanza n. 1215 del 20.09.2016,
ha accolto l’istanza cautelare.
6. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le
parti hanno depositato memorie insistendo nelle loro
conclusioni.
7. Tenutasi la pubblica udienza in data 13.10.2017, la
causa è stata trattenuta in decisione.
8. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo
meritevole di accoglimento il primo motivo avente carattere
assorbente.
9. Con tale motivo la parte sostiene che, contrariamente da
quanto ritenuto dal Comune, le opere realizzate sugli
immobili di cui si discute non sarebbero abusive in quanto
assentite dal permesso di costruire n. 11258 rilasciato in
data 25.02.2014. Né, a dire della stessa parte,
potrebbe ritenersi che tale permesso di costruire sia
decaduto in ragione del suo mancato ritiro, giacché l’art.
15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 sanziona con la
decadenza solo il mancato inizio e la mancata fine dei
lavori nei termini ivi previsti, e non anche il mancato
ritiro del titolo.
10. Al riguardo il Collegio osserva innanzitutto che
il
permesso di costruire diviene efficace già al momento del
suo rilascio, non essendo a tal fine necessario che lo
stesso venga comunicato o ritirato dal destinatario (cfr.
Consiglio di Stato, sez. IV, 21.12.2015, n. 5791; id.,
22.08.2013, n. 4255).
11. Si deve poi ancora osservare che l’art. 15, secondo
comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 –dopo aver stabilito che
il termine di inizio lavori non può essere superiore ad un
anno dal rilascio del titolo e che quello di ultimazione non
può superare i tre anni dall’inizio lavori– dispone che la
mancata osservanza di tali termini comporta la decadenza di
diritto del permesso di costruire.
12. La norma non sanziona invece con la decadenza né il
mancato ritiro del titolo stesso, né il ritardato o mancato
pagamento del contributo di costruzione; fattispecie
quest’ultima specificamente contemplata dall’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001 la quale prevede come rimedio
l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata
all’entità del contributo non pagato e al ritardo accumulato
e, nei casi di più grave ritardo, la possibilità per i
comuni di tutelarsi mediante la riscossione coattiva.
13. Si deve dunque escludere che il mancato ritiro del
permesso di costruire costituisca causa di decadenza dello
stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.06.2000, n.
3612; TAR Marche, sez. I, 09.01.2015, n. 5).
14. Tanto premesso, va ora osservato che, nel provvedimento
impugnato, il Comune di Merate:
a) non contesta
specificamente la violazione dei termini di inizio e fine
lavori (tale contestazione è contenuta per la prima volta
nelle memorie difensive, sicché non può in questa sede
tenersene conto, salva la possibilità di muoverla in sede di riesercizio del potere);
b) riconosce che l’intervento
sanzionato è conforme, sia per sagoma che volumetria, al
permesso di costruire n. 11258 del 25.02.2014 (né tale
circostanza, allegata dal ricorrente nel ricorso, viene
specificamente contestata dall’Amministrazione resistente).
Cionondimeno viene predicata l’abusività dell’intervento
stesso, rilevandosi che il suddetto permesso di costruire
sarebbe decaduto in ragione del suo mancato ritiro (si veda
pag. 2 dell’ordinanza n. 4 del 24.05.2016 laddove si
afferma espressamente che <<…tale permesso, però, come già
rilevato in premessa risulta decaduto di validità in quanto
mai ritirato>>).
15. Questa conclusione, per le ragioni sopra illustrate, non
può essere però condivisa.
16. Si deve pertanto ritenere che, siccome l’intervento
sanzionato è conforme al suddetto titolo edilizio, esso non
può dirsi abusivo e, conseguentemente, non possono ad esso
applicarsi le misure sanzionatorie rivolte alla repressione
dell’attività edilizia abusiva (salva la possibilità per il
Comune, ove ne ricorrano i presupposti, di disporre
l’annullamento in autotutela del titolo qualora ritenga
effettivamente che, come prospettato nelle memorie, lo stato
di fatto non sia conforme a ciò che è stato in precedenza
assentito).
17. Va dunque ribadita la fondatezza della censura e, in
accoglimento di essa, va disposto l’annullamento
dell’ordinanza n. 4 del 24.05.2016.
18. Non può essere invece accolta la domanda risarcitoria
essendo essa del tutto generica: manca l’allegazione (e, a
maggior ragione, la prova) degli specifici fatti costitutivi
del danno (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.11.2017 n. 2173 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti,
spoils system limitato. Niente incarichi
fiduciari. Serve una comparazione. La
Cassazione: i manager p.a. hanno un
interesse legittimo al rispetto delle
procedure.
Gli incarichi dirigenziali ai dirigenti di
ruolo non possono avere natura fiduciaria e
pertanto alle amministrazioni non è da
riconoscere un potere discrezionale di
assegnarli. Al contrario, costituisce una
precisa obbligazione del datore di lavoro
attribuire gli incarichi a seguito delle
procedure comparative imposte dalla legge,
in mancanza delle quali scatta la
responsabilità per danno da risarcire.
L'ordinanza 10.11.2017
n. 26694 della Corte di Cassazione,
Sez. lavoro, chiarisce ancora una volta
l'illegittimità del modo di intendere lo
spoils system da parte di molte
amministrazioni pubbliche, nonostante
l'ormai consolidata giurisprudenza della
Corte costituzionale che a partire dalle
sentenze 103 e 104 del 2007 ha chiarito come
la fiduciarietà possa limitarsi solo alle
poche decine di dirigenti delle
amministrazioni statali, posti in posizione
estremamente di contatto con gli organi di
governo, tanto da contribuire con essi a
definire l'indirizzo politico.
Nel caso di specie, l'ordinanza degli
ermellini riguarda il comune di Roma ed una
vertenza piuttosto risalente nel tempo,
riferita ad incarichi dirigenziali
attribuiti ad personam, senza nessuna
comparazione tra i vari dirigenti
potenzialmente interessati. La Cassazione,
in linea con quanto avevano sancito i
giudici della Corte d'appello contro la cui
sentenza il Comune di Roma ha presentato
ricorso, nega radicalmente la teoria del
comune ricorrente, secondo la quale «non può
essere negata la facoltà di scegliere, su
base fiduciaria, fra tutti coloro che siano
in possesso dei requisiti richiesti
dall'incarico». Esattamente all'opposto, la
Cassazione stabilisce che la sentenza
impugnata «ha correttamente disatteso la
tesi della non necessità della valutazione
comparativa e della assoluta
discrezionalità» della scelta del dirigente
da incaricare.
Le amministrazioni, dunque,
sono obbligate ad attivare la procedura
comparativa regolata dall'articolo 19, comma
1, del dlgs 165/2001, rispettando i principi
di correttezza e buona fede, applicabili nel
caso di specie come strumenti per
l'attuazione del principio di buon andamento
fissato dall'articolo 97 della Costituzione.
Di conseguenza, conclude la sentenza della
Suprema corte, laddove «l'amministrazione
non abbia fornito nessun elemento circa i
criteri e le motivazioni seguiti nella
selezione dei dirigenti ritenuti
maggiormente idonei agli incarichi da
conferire, è configurabile inadempimento
contrattuale, suscettibile di produrre danno
risarcibile».
La sentenza spiega che non esiste, in capo
ai dirigenti, un diritto ad un certo
incarico, ma l'interesse legittimo al
rispetto delle procedure necessarie per
selezionare i dirigenti. Il giudice, quindi,
non può sostituirsi all'amministrazione e
decidere a quale dirigente assegnare
l'incarico, ma può e deve accertare la
violazione dell'obbligazione a disporre le
procedure comparative
(articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017).
---------------
MASSIMA
CONSIDERATO
1. che il primo motivo di ricorso
denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. «violazione
e/o falsa applicazione dell'art. 19 d.lgs.
165/2001, dell'art. 109 d.lgs. 267/2000,
dell'art. 22, comma 2, C.C.N.L. Enti Locali
- Dirigenza 1996 e delle deliberazioni della
Giunta Comunale di Roma n. 3052/97 e 28/01»
e sostiene che all'amministrazione non può
essere negata la facoltà di scegliere, su
base fiduciaria, fra tutti coloro che siano
in possesso dei requisiti richiesti
dall'incarico oggetto di conferimento,
sicché le valutazioni comparative,
richiamate da questa Corte nelle sentenze
citate dal giudice di appello, non possono
essere ritenute obbligatorie, né l'ente è
obbligato ad indicare nel provvedimento le
ragioni della scelta;
2. che la seconda censura lamenta la
«violazione e/o falsa applicazione degli
artt. 1218 e 1226 cod. civ. nonché degli
artt. 112, 113 e 132 n. 4 c.p.c.» perché
non poteva essere riconosciuta, neppure a
titolo di risarcimento del danno, la
differenza fra la retribuzione, anche
accessoria, prevista per l'incarico apicale
e quella effettivamente corrisposta al
Tempesta, in quanto non erano stati assunti
il livello di responsabilità e l'obbligo di
risultato;
3. che è consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte il principio secondo cui «in
tema di impiego pubblico privatizzato,
nell'ambito del quale anche gli atti di
conferimento di incarichi dirigenziali
rivestono la natura di determinazioni
negoziali assunte dall'amministrazione con
la capacità e i poteri del privato datore di
lavoro, le norme contenute nell'art. 19,
comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165
obbligano l'Amministrazione datrice di
lavoro al rispetto dei criteri di massima in
esse indicati, anche per il tramite delle
clausole generali di correttezza e buona
fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.),
applicabili alla stregua dei principi di
imparzialità e di buon andamento di cui
all'art. 97 Cost.. Tali norme.... obbligano
la P.A. a valutazioni comparative,
all'adozione di adeguate forme di
partecipazione ai processi decisionali e ad
esternare le ragioni giustificatrici delle
scelte; laddove, pertanto, l'Amministrazione
non abbia fornito nessun elemento circa i
criteri e le motivazioni seguiti nella
selezione dei dirigenti ritenuti
maggiormente idonei agli incarichi da
conferire, è configurabile inadempimento
contrattuale, suscettibile di produrre danno
risarcibile»
( Cass. 12.10.2010 n. 21088);
3.1. che questa Corte ha anche precisato che
non vanno confusi il diritto soggettivo
al conferimento dell'incarico e l'interesse
legittimo di diritto privato correlato
all'obbligo imposto alla pubblica
amministrazione di agire nel rispetto dei
canoni generali di correttezza e buona fede
nonché dei principi di imparzialità,
efficienza e buona andamento consacrati
nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non
può pretendere dal giudice un intervento
sostitutivo e chiedere l'attribuzione
dell'incarico, ma può agire per il
risarcimento del danno, ove il pregiudizio
si correli all'inadempimento degli obblighi
gravanti sull'amministrazione
(Cass. 23.09.2013 n. 21700; Cass. 14.04.2015
n. 7495; Cass. 24.09.2015 n. 18972);
4. che pertanto la sentenza impugnata ha
correttamente disatteso la tesi, riproposta
anche in questa sede dalla difesa di Roma
Capitale, della non necessità della
valutazione comparativa e della assoluta
discrezionalità della scelta;
5. che quanto alla sussistenza ed alla
liquidazione del danno la Corte territoriale
ha condiviso le argomentazioni contenute
nella sentenza del Tribunale, che, come si
evince dalla trascrizione contenuta nel
ricorso, aveva fatto ricorso alla
liquidazione equitativa, considerando, da
un lato, la vasta esperienza
professionale del Te. ed il cospicuo numero
di incarichi conferiti senza valutazione
comparativa, dall'altro che il
dirigente non poteva essere certo del
conferimento anche in caso di corretto
adempimento degli obblighi contrattuali per
cui il grado di probabilità doveva essere
quantificato nella misura del 60% ed allo
stesso doveva essere commisurato il
risarcimento;
5.1. che a fronte di domanda di risarcimento
del danno da perdita di chance il
giudice del merito è chiamato ad effettuare
una valutazione che si svolge su due
diversi piani in quanto occorre
innanzitutto che, sulla base di elementi
offerti dal lavoratore, venga ritenuta
sussistente una concreta e non meramente
ipotetica probabilità dell'esito positivo
della selezione e solo qualora detto
accertamento si concluda in termini positivi
vi potrà essere spazio per la valutazione
equitativa del danno, da effettuare in
relazione al canone probabilistico riferito
al risultato utile perseguito;
5.2. che in tal modo non viene risarcito un
danno probabile in quanto «il danno è
certo quanto all'an debeatur perché certo è
l'inadempimento di un'obbligazione
strumentale da parte del datore di lavoro
(quella di effettuare la scelta secondo un
determinato criterio e comunque secondo
correttezza e buona fede), obbligazione che
ha un contenuto patrimoniale. Il criterio
probabilistico gioca solo sul piano della
quantificazione del danno nel più generale
ambito della liquidazione equitativa»
(Cass. n. 5119 del 2010);
5.3. che a detti principi si è
sostanzialmente attenuta, attraverso il
rinvio per relationem alla sentenza
di primo grado, la Corte territoriale la
quale, inoltre, ha correttamente commisurato
il risarcimento al trattamento retributivo
che il dirigente avrebbe percepito in caso
di attribuzione dell'incarico, posto che «la
concreta ed effettiva occasione perduta di
conseguire un determinato bene, non è una
mera aspettativa di fatto, ma un'entità
patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed
economicamente suscettibile di valutazione
autonoma, che deve tenere conto della
proiezione sulla sfera patrimoniale del
soggetto» (Cass. 25.08.2014 n. 18227 e
Cass. 15.05.2015 n. 10030); |
APPALTI: Appalti,
niente fretta ai ricorrenti incidentali.
Appalti, niente fretta per il ricorrente
incidentale.
Con la
sentenza non
definitiva 10.11.2017 n. 5182, il
Consiglio di Stato -Sez. III- si
pronuncia sul termine del ricorso
incidentale nel rito superaccelerato in
materia di pubblici appalti (art. 120, co. 2-bis, cpa).
Un concorrente presentava ricorso
al Tar Campania lamentando illegittimità
dell'ammissione alla procedura delle altre
concorrenti. Una delle società, la cui
ammissione in gara era stata contestata
dalla ricorrente principale, proponeva a sua
volta ricorso incidentale contestando
l'ammissione della ricorrente principale.
Il Tar riteneva tardivo il ricorso
incidentale perché proposto oltre 30 giorni,
da computare a partire dalla conoscenza
della ammissione della ricorrente principale
mediante pubblicazione sul profilo del
committente (art. 29, dlgs 50/2016). Il
ricorso principale veniva rigettato. La
società controinteressata, il cui ricorso
incidentale era stato dichiarato tardivo,
proponeva appello incidentale, contestando
la dichiarazione di irricevibilità della
impugnazione incidentale e chiedendo che il
ricorso incidentale fosse accolto con
conseguente improcedibilità dell'appello
principale.
Il Consiglio di stato ha
esaminato in via pregiudiziale l'appello
incidentale, arrivando a conclusioni opposte
rispetto al Tar. Il giudice d'appello ha
ritenuto che il termine per la proposizione
del ricorso incidentale contro l'ammissione
alla gara del ricorrente principale decorra
dalla notificazione del ricorso principale e
non dalla pubblicazione del provvedimento di
ammissione sul profilo del committente. Tale
decorrenza non si pone in contrasto con
l'esigenza acceleratoria del rito ex art.
120, co. 2-bis cpa.
Inoltre, la decorrenza
del termine per la proposizione del ricorso
incidentale dalla notifica del ricorso
principale non costituisce un aggravamento
della durata del processo, posto che il
ricorrente principale può proporre motivi
aggiunti e lo stesso art. 120, co. 6-bis, cpa prevede il ricorso incidentale. Ma è dal
punto di vista sistematico che
l'interpretazione adottata dal giudice di
primo grado non convince il giudice
d'appello.
Facendo decorrere il termine per
la contestazione della ammissione del
ricorrente principale dalla pubblicazione
del provvedimento di ammissione sul profilo
del committente il ricorso incidentale
verrebbe ad assumere la caratteristica di
ricorso principale, con la conseguente
necessità per il giudice di esaminarlo in
ogni caso. Ogni partecipante alla gara
sarebbe obbligato a proporre l'impugnazione
della ammissione prima ancora di avere
notizia di analoghe iniziative proposte nei
suoi confronti dagli altri concorrenti, in
contrasto l'interpretazione
costituzionalmente corretta dell'articolo 24
della Costituzione.
Sulla base di tali
argomenti l'appello principale avverso la
dichiarazione di tardività del ricorso
incidentale è stato accolto. Tuttavia il Cds
ha ritenuto tale ricorso incidentale
infondato nel merito
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.11.2017). |
CONSIGLIERI
COMUNALI:
Partecipate. Il diritto di accesso agli atti non si può estendere
troppo.
Il diritto di accesso previsto dall'art. 43, comma 2, del dlgs 267/2000 in
favore dei consiglieri comunali non può estendersi anche agli atti delle
società partecipate dal Comune in forma minoritaria.
Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 09.11.2017 n. 5176.
Secondo
il Collegio non sussiste alcun diritto del consigliere regionale di accedere
agli atti di una società partecipata in misura minoritaria dalla Regione e
che comunque non svolge un servizio pubblico atteso che, in tal caso, la
società stessa non può ritenersi «dipendente» dalla Regione, non possedendo
quest'ultima una partecipazione maggioritaria e non svolgendo la società
partecipata un servizio pubblico.
L'accesso richiesto, quindi, non può
trovare giustificazione in relazione alla pretesa cura dell'interesse
pubblico connesso al mandato conferito.
Nel caso in esame un consigliere
regionale della Regione Lombardia aveva presentato alla Giunta regionale
istanza di accesso agli atti, volta ad acquisire copia del verbale di una
seduta del cda di Arexpo S.p.A., società a partecipazione mista. Più
precisamente le quote di partecipazione, all'epoca dei fatti di causa, erano
di proprietà della Regione Lombardia e del Comune di Milano nell'eguale
misura pari al 34,67%, nonché dell'Ente autonomo Fiera Internazionale di
Milano, in misura pari al 27,66% e, per il restante 3%, della Città
Metropolitana di Milano e del Comune di Rho.
Tale società infatti era stata
costituita dalla Regione Lombardia e da altri enti per gestire l'Expo
(articolo ItaliaOggi Sette del
20.11.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Il diritto di accesso agli atti dei consiglieri
comunali (art. 43, comma 2, T.U. Enti locali) non può
estendersi anche alle società partecipate (dal Comune) in
forma minoritaria, tanto più quando tali società non
svolgano attività di gestione di servizi pubblici.
---------------
7. L’appello è fondato alla stregua delle osservazioni che
seguono.
7,1. Deve innanzitutto rilevarsi che non è contestato il
capo della sentenza che ha dichiarato tardiva l’impugnazione
del diniego di accesso alla copia integrale del verbale
della riunione del Consiglio di Amministrazione di Arexpo
S.p.A. del 17.03.2016: su tale capo si è formato pertanto il
giudicato.
7.2. Deve quindi esaminarsi la correttezza della sentenza
nella parte in cui ha ritenuto illegittimo il diniego di
Arexpo di fornire al consigliere regionale copia dell’ordine
del giorno di quella riunione.
Non è in discussione il fondamento di tale richiesta che
risiede nell’asserito pieno espletamento della funzione di
consigliere regionale e quindi nel controllo che questi può
esercitare sull’attività regionale e sugli enti che a
quest’ultima si ricollegano, tanto che il giudice di primo
grado ha richiamato a supporto della pretesa della
ricorrente in primo grado l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n.
267 del 2000.
Sennonché la Sezione deve osservare che la giurisprudenza ha
già rilevato che il diritto di accesso ivi contemplato non
può estendersi anche alle società partecipate (dal Comune)
in forma minoritaria, tanto più quando tali società non
svolgano attività di gestione di servizi pubblici (Cons.
Stato, sez. V, 17.01.2014, n. 200): del resto la norma in
questione espressamente prevede il diritto di accesso in
relazione alle attività delle aziende comunali e degli
dipendenti, situazione che non è predicabile nel caso di
specie giacché Arexpo non può ritenersi “dipendente”
dalla Regione Lombardia, dal momento che quest’ultima non
possiede una partecipazione maggioritaria e non svolge un
servizio pubblico (circostanza di fatto che non è stata
neppure contestata), così che in definitiva l’accesso
richiesto non può trovare giustificazione in relazione alla
pretesa cura dell’interesse pubblico connesso al mandato
conferito e cioè ai fini del controllo del comportamento
complessivo dell’ente (in funzione dell’interesse pubblico
da perseguire) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 09.11.2017 n. 5176 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dall'articolo 3, comma 1, lett. e.5, del Testo
Unico dell'Edilizia è possibile infatti trarre una nozione
di opera precaria fondata non sulle caratteristiche dei
materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle
stesse al suolo quanto piuttosto sul riscontro oggettivo
delle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse
siano dirette a soddisfare.
La norma qualifica quindi come interventi di nuova
costruzione (come tali assoggettati al previo rilascio del
titolo abilitativo), l'installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che
siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro oppure
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee.
---------------
9. L’appello non è fondato.
10. L’appellante, con i diversi motivi di censura sopra
descritti, ha contestato la sentenza impugnata e le
determinazioni assunte dal comune di Roma in ordine a taluni
lavori abusivi realizzati su un terreno di proprietà del suo
dante causa. In sostanza, la stessa ha ribadito quanto
eccepito in primo grado circa il fatto che gli interventi
sanzionati in realtà avessero riguardato un immobile già
esistente (un capannone) e di conseguenza che non fosse
necessaria una concessione edilizia, trattandosi al più di
interventi di risanamento.
Ha inoltre lamentato che l’Amministrazione non avrebbe
individuato con certezza il bene oggetto di demolizione e di
acquisizione, non avrebbe tenuto conto che i lavori eseguiti
erano stati comunicati dal suo dante causa allo stesso
Comune e che, quanto ai prefabbricati, gli stessi avevano
carattere provvisorio e che il provvedimento di acquisizione
sarebbe stato adottato in modo generico e sproporzionato
rispetto agli abusi contestati.
Il Tar avrebbe poi disatteso due motivi proposti con il
ricorso di primo grado sulla non adottabilità del
provvedimento di demolizione, per l’intervenuta scadenza del
termine di 60 giorni decorrente dal provvedimento di
sospensione dei lavori, e sull’interpretazione data ai
lavori eseguiti, in particolare i cordoli, ritenuti opere
edilizie di fondazione. Il Tribunale non avrebbe infine
tenuto conto dell’intervenuta archiviazione del procedimento
penale a carico del suo dante causa per le stesse opere
abusive.
11. Ciò detto, va innanzitutto rilevato che risulta smentito
per tabulas che le opere sanzionate fossero
preesistenti (i lavori oggetto di causa sarebbero stati di
semplice risanamento di un capannone esistente già dal
1942). Deve, infatti, essere condivisa la conclusione del
giudice di primo grado sul punto e cioè che le diverse opere
realizzate non possono affatto ritenersi limitate al
rifacimento del predetto capannone, con invarianza della sua
consistenza sagomale e volumetrica.
Come rilevato dal Tar nella sentenza impugnata, il lavori
realizzati in assenza di titolo sono stati accertati dai
vigili urbani come eseguiti in epoca recente (cfr. nota del
XVIII Gruppo polizia municipale al comune di Roma del
20.11.1995) e comunque gli stessi per la loro caratteristica
costruttiva (cfr. verbali della polizia municipale) sono
tali da essere incoerenti con una costruzione degli anni ‘40
(presenza di materiali quali pannelli di plastica o tettoie
in materiale similare).
12. D’altra parte, la stessa ricorrente riconosce che sono
stati realizzati dei nuovi manufatti (in particolare, dei
prefabbricati) per i quali comunque sarebbe stata necessaria
una concessione edilizia, a prescindere dalle
caratteristiche costruttive, vista la loro utilizzazione
prolungata nel tempo.
Dall'articolo 3, comma 1, lett. e.5, del Testo Unico
dell'Edilizia (in parte qua riproduttivo della
disciplina normativa applicabile ratione temporis), è
possibile infatti trarre una nozione di opera precaria
fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati
né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto
piuttosto sul riscontro oggettivo delle esigenze (di natura
stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.
La norma qualifica quindi come interventi di nuova
costruzione (come tali assoggettati al previo rilascio del
titolo abilitativo), l'installazione di manufatti leggeri,
anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che
siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro oppure
depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a
soddisfare esigenze meramente temporanee (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 27.04.2016, n. 1619).
13. Pertanto, essendo necessaria una concessione edilizia il
Comune ha inevitabilmente dovuto adottare un provvedimento
demolitorio ai sensi dell’art. 9 della legge n. 47 del 1985
in ragione dell’abusività delle opere e della loro
contrarietà agli strumenti edilizi, cui è conseguito, stante
l’inottemperanza dello stesso, l’atto di acquisizione al
patrimonio comunale.
14. Tale acquisizione, contrariamente a quanto affermato nel
ricorso, risulta poi avere un oggetto determinato
rappresentato dalle opere individuate nell’ordinanza di
demolizione del 20.09.1995 (un manufatto in pali di legno e
lamiere; la realizzazione, su un plateatico in conglomerato
cementizio di mq. 150 di superficie, di un manufatto avente
struttura portante in legno prelavorato tamponato con
pannellature in plastica, coperto da un tetto a due falde;
una tettoia in pali e legno, anche essa tamponata con
materiali plastico, adibita a magazzino e deposito; un
prefabbricato abitabile con porta di accesso e finestre di
mq. 25 circa di superficie e 2,20 di altezza con impianto
elettrico e telefonico ed adibito ad ufficio, e di altre
strutture prefabbricate in lamiera).
15. Inoltre, sempre in ordine all’acquisizione, va rilevata
l’omessa impugnativa del citato e presupposto provvedimento
di demolizione del 20.09.1995 (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
08.05.2014, n. 2368; sez. IV, 08.11.2010, n. 2368; sez. V,
25.05.2003, n. 2859), circostanza quest’ultima che determina
la limitazione dell’esame delle censure solo ai vizi propri
dell’atto di acquisizione (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
08.05.2014, n. 2368) e la inammissibilità dell’impugnativa
per invalidità derivata degli atti successivi all’ordine di
demolizione.
16. Con esclusivo riferimento a questi ultimi, si deve in
primo luogo ritenere infondato il rilievo sulla carenza di
potere del Dirigente la 18^ Circoscrizione del comune di
Roma ad emanarla. Secondo parte appellante, l’acquisizione
doveva essere disposta dal Sindaco, ma tale affermazione non
considera il generale principio di distinzione tra le
competenze sindacali e quelle dei dirigenti comunali,
competenti questi ultimi all’adozione di tutti gli atti di
gestione ad essi riferiti, compresi quelli inerenti al
settore urbanistico edilizio.
17. Non appaiono inoltre fondate le ulteriori e disomogenee
doglianze in ordine allo stesso provvedimento di
acquisizione, in particolare quella relativa alla lamentata
sproporzione tra le opere individuate come abusive e i beni
acquisiti. Questi ultimi sono stati, come detto, individuati
in relazione all’ordinanza di demolizione del 20.09.1995 e
considerati in termini di consistenza ai sensi dell’art. 7,
comma 3, della legge n. 47 del 1985.
18. Né può ritenersi fondata la tesi dell’appellante secondo
cui l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione sarebbe
stata giustificata dalla legittimità degli interventi
eseguiti dal suo dante causa. Secondo la stessa, i lavori
sarebbe stati tacitamente autorizzati stante il silenzio
serbato dall’Amministrazione sulle comunicazioni, varie
volte rivolte al Comune dal suo dante causa (per ultimo il
01.01.1994).
Ma, come rileva correttamente il Tar, la determinazione
dirigenziale n. 759 del 18.07.1995, impugnata con il primo
ricorso, aveva accertato la esecuzione di cordoli di
fondazione in cemento armato su una superficie di ben 120
mq., nonché la costruzione di muri in blocchetti di tufo e
la elevazione di pilastri in ferro per altezze comprese da
mt. 2,20 a mt. 3,50.
In sostanza, opere edilizie di fondazione palesemente
preordinate alla realizzazione di strutture diverse da
quelle necessarie per la semplice risanamento del
preesistente capannone e per le quali era necessario il
rilascio di una concessione e non una semplice denuncia di
inizio di attività
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.11.2017 n. 5172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La scadenza dei termini di efficacia della
sospensione cautelare dei lavori non priva l’Amministrazione
del potere di adottare l’ingiunzione di demolizione.
Il provvedimento di sospensione dei lavori, in quanto volto
a mantenere la res adhuc integra nelle more dell'emanazione
dell'ordinanza di demolizione, ha infatti natura cautelare
ed efficacia temporalmente circoscritta ma non rappresenta
un antecedente procedimentale necessario del provvedimento
di demolizione.
Con la conseguenza che il termine fissato nel provvedimento
o dall’art. 4 della legge n. 47 del 1985 (ora dall'art. 27
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) per adottare
l'ordinanza di demolizione dopo l'emanazione di quella di
sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di
efficacia di tale ultimo ordine, e non già quale termine
perentorio entro cui l'Amministrazione è tenuta ad emettere
l'ordine di demolizione.
---------------
9. L’appello non è fondato.
...
19. Non è fondata anche la censura alla sentenza in ordine
alle conclusioni dalla stessa raggiunte circa la
inadottabilità dell’ordine di demolizione del 18.07.1995.
Essendo scaduto il termine di 60 giorni decorrenti dalla
notifica dell’ordine di sospensione, l’Amministrazione,
secondo l’appellante, non avrebbe potuto provvedere.
La scadenza dei termini di efficacia della sospensione
cautelare dei lavori, tuttavia, non priva l’Amministrazione
del potere di adottare l’ingiunzione di demolizione. Il
provvedimento di sospensione dei lavori, in quanto volto a
mantenere la res adhuc integra nelle more
dell'emanazione dell'ordinanza di demolizione, ha infatti
natura cautelare ed efficacia temporalmente circoscritta ma
non rappresenta un antecedente procedimentale necessario del
provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
02.02.2017, n. 445).
Con la conseguenza che il termine fissato nel provvedimento
o dall’art. 4 della legge n. 47 del 1985 (ora dall'art. 27
comma 3, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) per adottare
l'ordinanza di demolizione dopo l'emanazione di quella di
sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di
efficacia di tale ultimo ordine, e non già quale termine
perentorio entro cui l'Amministrazione è tenuta ad emettere
l'ordine di demolizione (cfr. Tar per l’Umbria, Perugia,
sez. I, 23.10.2014, n. 516)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.11.2017 n. 5172 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Impianto per la
produzione di calcestruzzo - Emissioni in atmosfera non
autorizzate - Natura del reato - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -
Autorizzazione - Necessità - Controllo preventivo degli
organi di vigilanza - Pericolo per l'ambiente - Artt. 267,
269 e 279 d.lgs. n. 152/2006 - GIURISPRUDENZA.
Il reato di cui agli artt. 269, comma 1, e 279, comma 1,
d.lgs. n. 152 del 2006 è un reato permanente, formale e di
pericolo, che non richiede neppure che l'attività inquinante
abbia avuto effettivo inizio, essendo sufficiente la sola
sottrazione della stessa al controllo preventivo degli
organi di vigilanza (Sez. 3, n. 28764 del 09/06/2015,
Amoruso; Sez. 3, n. 24334 del 13/05/2014, Boni; Sez. 3, n.
192 del 24/10/2012, Randa).
Tale contravvenzione prescinde,
dunque, dalla circostanza che le emissioni superino i valori
limite stabiliti, in quanto non costituisce un reato di
danno ma, per l'appunto, di mera condotta, la cui ratio si
ravvisa nella necessità che la pubblica amministrazione
possa esercitare un controllo preventivo su attività
potenzialmente dannose per l'ambiente.
Ne consegue che per
la sua configurabilità è sufficiente la produzione di
emissioni in atmosfera in assenza della prescritta
autorizzazione, essendo sanzionata la realizzazione della
attività sottraendola ai controlli preventivi stabiliti
dall'ordinamento a tutela dell'ambiente, a prescindere dalla
effettiva produzione di emissioni nocive o superiori ai
limiti fissati (per tutte, Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012,
Rancio; Sez. 3, n. 48474 del 19/07/2011, Papa; Sez. 3, n.
35232 del 28/06/2007, Fongaro).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni in
atmosfera - Reato di cui agli artt. 269 e 279, c. 1, d.lgs.
n. 152/2006 - Reato permanente, formale e di pericolo -
Inizio attività inquinante - Ininfluenza - Sottrazione
dell'attività al controllo preventivo degli organi di
vigilanza - Conseguenze potenzialmente dannose per
l'ambiente.
Per la configurabilità del reato di cui agli artt. 269 e
279, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, trattandosi di reato
permanente, formale e di pericolo, non si richiede neppure
che l'attività inquinante abbia avuto inizio, essendo
sufficiente la sola sottrazione della stessa al controllo
preventivo degli organi di vigilanza sia il pericolo che la
libera disponibilità dell'impianto, privo di autorizzazione,
potesse, attraverso il suo utilizzo, provocare, mediante
emissioni in atmosfera, conseguenze potenzialmente dannose
per l'ambiente.
Inoltre, nella specie, è stata esclusa la
rilevanza delle dichiarazioni e delle attestazioni del
consulente chimico circa la conformità alla normativa
dell'impianto, evidenziando la necessità di un accertamento
al riguardo da parte degli organi ispettivi a ciò preposti.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Violazione
di legge - Vizi della motivazione - Requisiti minimi di
coerenza, completezza e ragionevolezza - Art. 125 cod. proc.
pen.
Nella violazione di legge sono ricompresi anche i vizi della
motivazione così radicali da rendere l'apparato
argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto
mancante o comunque privo dei requisiti minimi di coerenza,
completezza e ragionevolezza, come tale inidoneo a rendere
comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice, con
conseguente violazione dell'art. 125 cod. proc. pen. (Cass.,
Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov; Sez. 5, Sentenza
n. 43068 del 13/10/2009, Bosi; Sez. 6, n. 6589 del
10/01/2013, Gabriele; da ultimo, Sez. 2, n. 18951 del
14/03/2017, Napoli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.11.2017 n. 50632
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori
nel termine di legge.
La decadenza della concessione edilizia (ora
permesso di costruire) per mancato inizio lavori nel termine
previsto si verifica per legge in modo automatico tanto che
non residua all’amministrazione alcun margine per
valutazioni di ordine discrezionale.
Da ciò deriva che il provvedimento di
annullamento della proroga della concessione edilizia,
motivato dalla intervenuta decadenza della concessione
edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine
di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un
provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la
comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
La giurisprudenza ha individuato
varie ipotesi
nelle quali la mancanza di un serio intento costruttivo
avrebbe potuto giustificare la declaratoria di decadenza del
permesso di costruire:
- parziale recinzione del fondo,
accompagnata dallo sbancamento del terreno e dall’esecuzione
dei lavori di scavo;
- presenza di un setto di muratura
di laterizio o l’installazione di un contatore di energia
elettrica e del cartello di cantiere, ovvero il taglio di
alcuni alberi nella zona interessata alla costruzione
dell’ampliamento;
- semplice sbancamento del terreno;
- sola esecuzione dei lavori di
scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a
punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi
che dimostrino il reale proposito del titolare della
concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro
ultimazione ed al completamento dell'opera;
- modesti sbancamenti di terreno oramai
ricoperti di acqua e vegetazione o la mera comunicazione
dell’inizio dei lavori.
Al contrario, a titolo di esempio,
basterebbe: aver impiantato il cantiere,
aver eseguito demolizioni o scavi di entità significativa,
aver picchettato il terreno, etc., vale a dire aver
posto in essere le attività materiali che la dottrina e la
giurisprudenza maggioritaria reputano idonee a integrare un
effettivo inizio dei lavori e, dunque, sostanziano un serio
intento costruttivo.
---------------
MASSIMA
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la società
ricorrente ha lamentato che l’impugnato provvedimento non
sarebbe stato preceduto dalla trasmissione dell’avviso di
avvio del procedimento, così ledendosi le prerogative di
partecipazione procedimentale sancite dalla legge 241/1990.
Sul punto, ad avviso del Collegio è la successione degli
atti e provvedimenti che hanno caratterizzato la vicenda
controversa, nonché la loro stretta interrelazione, ad
avallare l’esistenza di una mai interrotta interlocuzione
amministrativa tra le parti.
Segnatamente:
1) in data 18.12.2012 è stato emesso il permesso di
costruire oggetto del contendere;
2) con deliberazione di Consiglio comunale n. 74 del
20.12.2012 è stato adottato il nuovo PGT;
3) in data 28.12.2012 la ricorrente ha ritirato il titolo
edilizio ed ha, altresì, comunicato l’inizio dei lavori;
4) in data 15.01.2013 il Comune di Como ha disposto la
decadenza del permesso di costruire;
5) la società ricorrente ha impugnato tale provvedimento
innanzi al TAR Lombardia–Milano (giudizio R.G. 820/2013),
sospeso in via cautelare con ordinanza n. 439 del 18.04.2013;
6) in data 13.06.2013, pertanto, la ricorrente ha confermato,
via PEC, di voler riprendere i lavori;
7) con deliberazione di Consiglio comunale n. 32 il del
13.06.2013 PGT è stato approvato;
8) a seguito di appello cautelare proposto dal Comune di
Como, con ordinanza n. 2682 del 12.07.2013 è stata riformata
l’ordinanza n. 439/2013 del TAR;
9) in data 09.10.2013 la società ricorrente ha formulato una
“domanda/comunicazione” per avvalersi della proroga biennale
dei termini di inizio e fine lavori ex art. 30 del DL
69/2013;
10) in data 12.11.2013 il Comune di Como ha comunicato che
tale proroga non sarebbe stata concedibile in ragione del
sopraggiunto contrasto del titolo edilizio con l’approvato
strumento urbanistico: assunto sostanziato dal fatto che il
provvedimento di decadenza, ancorché sub judice, fosse
valido ed efficace;
11) con sentenza n. 2 del 03.01.2014 la Sezione ha accolto il
ricorso avverso l’impugnato provvedimento di decadenza;
12) in data 24.12.2015 la società ricorrente ha comunicato
la “ripresa” dei lavori;
13) in data 21.01.2016 è stato effettuato dai tecnici
comunali un sopralluogo in esito al quale è stato rilevato
che “lo stato dei luoghi dell’area in questione (…) è
rimasto pressoché invariato, ad eccezione della parziale
rimozione della vegetazione spontanea (nel frattempo
rinfoltitasi)”;
14) in data 21.03.2016 è stato, quindi, emesso il
provvedimento impugnato nel presente giudizio, nel quale si
è fatto richiamo al sopra citato sopralluogo, concludendosi
che nulla sarebbe mutato “rispetto alle precedenti verifiche
effettuate il 10.01.2013 ed il 03.07.2013, stante l’assenza di
operai, di deposito di materiali e di mezzi di cantiere”.
A quanto rilevato va, poi, aggiunto il consolidato
orientamento della giurisprudenza, secondo cui “la decadenza
della concessione edilizia (ora permesso di costruire) per
mancato inizio lavori nel termine previsto si verifica per
legge in modo automatico tanto che non residua
all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine
discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di
annullamento della proroga della concessione edilizia,
motivato dalla intervenuta decadenza della concessione
edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine
di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un
provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la
comunicazione di avvio del procedimento” (cfr., tra le
tante, TAR Lazio-Latina, 27.11.2015, n. 788).
...
Con il terzo motivo la ricorrente ha, poi, dedotto che
sussisterebbe un serio intento costruttivo, comprovato
dall’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis
della legge fallimentare e dal conferimento dell’appalto dei
lavori “alla società Pu.Gi. s.r.l. di Como, giusto
contratto del 16.12.2015” (cfr. pag. 14).
Tale censura può essere esaminata congiuntamente al primo
dei tre profili sviluppati con il quarto motivo, con cui si
è sostenuto che la “ripresa” dei lavori, oggetto della
comunicazione del 24.12.2015, sarebbe stata riconosciuta
dallo stesso Comune resistente a dimostrazione della
circostanza che l’attività edilizia sarebbe stata
effettivamente iniziata il 28.12.2012 e successivamente
interrotta a causa delle vicende contenziose (cfr. pag. 16).
La difesa dell’Amministrazione ha eccepito l’erroneità di
tale assunto e che neppure la sentenza n. 2/2014 deporrebbe
per la fondatezza della tesi della ricorrente.
Ciò precisato, un’obiettiva analisi della motivazione della
sopra citata pronuncia evidenzia che:
1) “il permesso di costruire è stato adottato il 18.12.2012
e rilasciato all’interessata in data 28.12.2012 (…), mentre
la comunicazione di inizio lavori è stata protocollata lo
stesso 28.12.2012”;
2) “il Comune di Como ha effettuato il sopralluogo assunto a
presupposto della decadenza in data 11.01.2013”;
3) “il permesso di costruire di cui trattasi è stato
rilasciato alla Società nella giornata di venerdì,
28.12.2012, in pieno periodo feriale, per l’approssimarsi
del Capodanno ed in una stagione con condizioni climatiche
sfavorevoli (circostanze, queste, che costituiscono fatto
notorio ai sensi dell’art. 115, comma 2°, del codice di
procedura civile)”, da ciò conseguendo che sarebbe
“irragionevole la pretesa del Comune, di far discendere la
prova dell’intento costruttivo dalla realizzazione,
nell’ultimo scorcio dell’anno 2012, in pieno periodo feriale
ed in pieno inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio
dell’opera (a nulla rilevando quanto successivamente
accertato, ma non emergente dal provvedimento qui gravato)”.
Non essendosi statuito in ordine all’effettivo inizio dei
lavori, deve ritenersi infondato sia l’assunto della
ricorrente secondo cui sarebbe dirimente, a fini probatori,
la comunicazione del 28.12.2012, sia l’assunto del Comune
secondo cui sarebbe stata raggiunta la prova del mancato
inizio dei medesimi lavori entro il 31.12.2012.
Ne deriva che, una volta pubblicata la sentenza n. 2 del
03.01.2014 (che ha fatto cessare gli effetti dell’ordinanza
cautelare n. 2682/2013 del Consiglio di Stato), la società
ricorrente avrebbe potuto/dovuto iniziare i lavori entro un
anno ai sensi dell’art. 15, comma 2, del DPR 380/2001.
In tale contesto va incardinata la comunicazione, in teoria
tempestiva, di “ripresa” del 24.12.2015, alla quale ha
fatto, però, seguito una concreta verifica da parte
dell’Amministrazione mediante un sopralluogo esperito in
data 21.01.2016, in esito al quale –come più sopra si è
detto– è stato rilevato che “lo stato dei luoghi dell’area
in questione (…) è rimasto pressoché invariato, ad eccezione
della parziale rimozione della vegetazione spontanea (nel
frattempo rinfoltitasi)”.
Si tratta di una situazione che, dai documenti allegati in
atti, non sarebbe sostanzialmente mutata sin dal rilascio
all’Immobiliare Stradivari del titolo edilizio precedente a
quello controverso (permesso di costruire n. 21951 del
21.01.2005), e che, anche rispetto alle vicende odiernamente
controverse, la società ricorrente non ha in alcun modo
contestato sul piano di fatto, e che, quindi, deve ritenersi
pacifica ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del
processo amministrativo.
La giurisprudenza ha individuato –già al tempo del rilascio
del primo titolo edilizio all’impresa St., ma
l’orientamento pretorio e rimasto immutato–
varie ipotesi
nelle quali la mancanza di un serio intento costruttivo
avrebbe potuto giustificare la declaratoria di decadenza del
permesso di costruire: parziale recinzione del fondo,
accompagnata dallo sbancamento del terreno e dall’esecuzione
dei lavori di scavo (cfr. TAR Campania-Napoli, 25.09.2008, n. 10890);
presenza di un setto di muratura
di laterizio o l’installazione di un contatore di energia
elettrica e del cartello di cantiere, ovvero il taglio di
alcuni alberi nella zona interessata alla costruzione
dell’ampliamento (cfr. TAR Veneto, 23.01.2008, n. 174);
semplice sbancamento del terreno (cfr. TAR Lombardia-Milano,
08.03.2007, n. 372); sola esecuzione dei lavori di
scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a
punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi
che dimostrino il reale proposito del titolare della
concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro
ultimazione ed al completamento dell'opera (cfr. TAR
Campania–Napoli, 05.01.2006, n. 59; TAR Lazio–Roma,
28.06.2005, n. 5370; TAR Lazio–Latina, 23.02.2007, n. 133);
modesti sbancamenti di terreno oramai
ricoperti di acqua e vegetazione o la mera comunicazione
dell’inizio dei lavori (cfr. sempre TAR Lazio–Roma, 28.06.2005, n. 5370).
Diverso sarebbe stato nel caso la ricorrente avesse provato
–a titolo di esempio– di aver impiantato il cantiere, di
aver eseguito demolizioni o scavi di entità significativa,
di aver picchettato il terreno, etc., vale a dire di aver
posto in essere le attività materiali che la dottrina e la
giurisprudenza maggioritaria reputano idonee a integrare un
effettivo inizio dei lavori e, dunque, sostanziano un serio
intento costruttivo.
Ne deriva che anche nell’ipotesi di mancato contrasto del
titolo controverso con il sopravvenuto PGT (rilievo, questo,
sulla base del quale è stata dedotta la violazione del
principio ne bis in idem) difetterebbe, comunque,
l’essenziale condizione prevista dall’art. 15, comma 4, del
DPR 380/2001 (vale a dire l’effettivo inizio dei lavori).
Ragione per cui l’impugnato provvedimento di decadenza del
permesso di costruire n. 51435/2012 è legittimo sia sul
piano dei presupposti normativi sia dal punto di vista della
retrostante istruttoria procedimentale.
In conseguenza dell’infondatezza del ricorso:
- possono ritenersi assorbiti gli ulteriori profili di
censura dedotti con il quarto motivo, riguardanti
l’impugnazione di previsioni pianificatorie che avrebbero
limitato lo jus aedificandi;
- deve respingersi la domanda risarcitoria, peraltro
proposta in modo del tutto generico.
Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono
quantificate, ai sensi del DM 55/2014, in €. 1.500,00, oltre
accessori, che la società Ca.Im. s.r.l. dovrà
corrispondere al Comune di Como (TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 07.11.2017 n. 2111 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Obbligo
di bonifica dei siti inquinati.
Il TAR Milano ribadisce
che l’obbligo di bonifica dei siti inquinati
grava sul responsabile dell’inquinamento e
non sul mero proprietario dell’area.
Il TAR
richiama l’orientamento della giurisprudenza
secondo il quale, ai sensi degli art. 242,
comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del
2006, una volta riscontrato un fenomeno di
potenziale contaminazione di un sito, gli
interventi di caratterizzazione, messa in
sicurezza d'emergenza o definitiva, di
bonifica e di ripristino ambientale possono
essere imposti dalla P.A. solo ai soggetti
responsabili dell'inquinamento, quindi ai
soggetti che abbiano in tutto o in parte
generato la contaminazione con un
comportamento commissivo od omissivo, legato
all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità.
Aggiunge il TAR che, non essendo
configurabile una sorta di responsabilità
oggettiva facente capo al proprietario o al
possessore dell'immobile in ragione di tale
sola qualità, dal quadro normativo emergono
le seguenti regole:
1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto
soltanto ad adottare le misure di
prevenzione;
2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e
ripristino gravano solo sul responsabile
della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo
244, comma 2);
3) se il responsabile non è individuabile o non provveda gli
interventi necessari sono adottati
dall'amministrazione competente (articolo
244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere
recuperate agendo in rivalsa verso il
proprietario, che risponde nei limiti del
valore di mercato del sito dopo l'esecuzione
degli interventi medesimi (art. 253, comma
4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un
onere reale e di un privilegio speciale
immobiliare (art. 253, comma 2) (cfr.
Consiglio di Stato, sezione VI, 05.10.2016,
n. 4099, la quale rinvia alla sentenza della
Corte di Giustizia dell'Unione Europea del
04.03.2015 - sez. terza, nella causa
C-534/13 - e l'ordinanza del medesimo organo
del 06.10.2015 - sez. ottava, nella causa
C-592/13; cfr. anche TAR Lombardia, Milano,
sezione IV, 13.10.2016, n. 1860)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
3.2.1. Il primo motivo di
ricorso è fondato.
3.2.2. Invero, non è revocabile in dubbio
che, secondo la condivisibile
giurisprudenza, l’obbligo di bonifica dei
siti inquinati grava sul responsabile
dell’inquinamento (la locuzione “chi inquina
paga”), e non sul proprietario dell’area per
tale: “Ai sensi degli art. 242, comma 1, e
244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, una
volta riscontrato un fenomeno di potenziale
contaminazione di un sito, gli interventi di
caratterizzazione, messa in sicurezza
d'emergenza o definitiva, di bonifica e di
ripristino ambientale possono essere imposti
dalla Pa solo ai soggetti responsabili
dell'inquinamento, quindi ai soggetti che
abbiano in tutto o in parte generato la
contaminazione con un comportamento
commissivo od omissivo, legato
all'inquinamento da un preciso nesso di
causalità. In proposito, non essendo
configurabile una sorta di responsabilità
oggettiva facente capo al proprietario o al
possessore dell'immobile in ragione di tale
sola qualità, dal quadro normativo emergono
le seguenti regole:
1) il proprietario, ai
sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto
soltanto ad adottare le misure di
prevenzione;
2) gli interventi di
riparazione, messa in sicurezza, bonifica e
ripristino gravano solo sul responsabile
della contaminazione, cioè sul soggetto al
quale sia imputabile, almeno sotto il
profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo
244, comma 2);
3) se il responsabile non è
individuabile o non provveda gli interventi
necessari sono adottati dall'amministrazione
competente (articolo 244, comma 4);
4) le
spese sostenute per effettuare tali
interventi possono essere recuperate agendo
in rivalsa verso il proprietario, che
risponde nei limiti del valore di mercato
del sito dopo l'esecuzione degli interventi
medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia
di tale diritto di rivalsa, il sito è
gravato da un onere reale e di un privilegio
speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”
(così C.d.S., VI, 05.10.2016, n. 4099,
la quale rinvia alla sentenza della Corte di
Giustizia dell'Unione Europea del 04.03.2015 -sez. terza, nella causa C-534/13- e
l'ordinanza del medesimo organo del 06.10.2015 -sez. ottava, nella causa
C-592/13; cfr. anche TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 13.10.2016, n. 1860).
3.2.3. Invero, già all’epoca in cui era
stato emesso il provvedimento impugnato, che
la Al. non fosse responsabile, pur
parzialmente, della contaminazione non
veniva negato dalla stessa Amministrazione
resistente, oltre che dalle Autorità di
controllo (cfr. supra sub 2.2.1.).
3.2.4. I nuovi documenti prodotti dalla
ricorrente, il cui contenuto è poi esposto
nell’ultima sua memoria confermano
l’estraneità di Al..
In particolare, nel report conclusivo del
cd. Progetto Plumes, finanziato dalla
Regione Lombardia, proprio con riferimento
al trend di concentrazioni rilevate negli
anni 2009-2014 nel piezometro PZ1 (quello di
cui è stato richiesto lo spurgo ad Al.) e
con l'obiettivo di localizzare la zona
esterna al sito Al. di provenienza della
contaminazione osservata nel medesimo
piezometro, ARPA Lombardia ha confermato che
"risulta plausibile l'ipotesi che la
sorgente dell'inquinamento da Cr VI (cromo
esavalente) sia situata entro una distanza
di circa 300 m dal piezometro” suddetto
(cfr. Progetto Plumes, Sintesi report
conclusivo, febbraio 2015, doc. 13 di parte
ricorrente, pagg. 97-99).
3.3.1. Escluso dunque che ad Al.
potessero essere imposte prescrizioni
diverse ed ulteriori da quelle che essa
aveva già volontariamente deciso di
osservare, quale responsabile della
contaminazione, è altresì escluso che tali
ulteriori prescrizioni le potessero essere
imposte quale proprietaria.
3.3.2. Invero, l’art. 245 del d.lgs.
03.04.2006, n. 152, intitolato agli obblighi
d’intervento e di notifica da parte dei
soggetti non responsabili della potenziale
contaminazione, al II comma stabilisce che
“Fatti salvi gli obblighi del responsabile
della potenziale contaminazione di cui
all'articolo 242, il proprietario o il
gestore dell'area che rilevi il superamento
o il pericolo concreto e attuale del
superamento della concentrazione soglia di
contaminazione (CSC) deve darne
comunicazione alla regione, alla provincia
ed al comune territorialmente competenti e
attuare le misure di prevenzione secondo la
procedura di cui all'articolo 242”, con
l’ulteriore precisazione che è “comunque
riconosciuta al proprietario o ad altro
soggetto interessato la facoltà di
intervenire in qualunque momento
volontariamente per la realizzazione degli
interventi di bonifica necessari nell'ambito
del sito in proprietà o disponibilità”.
3.4.1. Tali misure di prevenzione –comunque
distinte dagli interventi di riparazione,
messa in sicurezza, bonifica e ripristino, i
quali gravano solo sul responsabile della
contaminazione– sono definite dall’art.
240, I comma, lett. i), del d.lgs. cit.,
come “le iniziative per contrastare un
evento, un atto o un'omissione che ha creato
una minaccia imminente per la salute o per
l'ambiente, intesa come rischio
sufficientemente probabile che si verifichi
un danno sotto il profilo sanitario o
ambientale in un futuro prossimo, al fine di
impedire o minimizzare il realizzarsi di
tale minaccia”;
3.4.2. Ebbene, è evidente che le
prescrizioni introdotte con il provvedimento
gravato nei confronti di Al. (sopra sub
1.4. e 1.5.) non sono affatto destinate a
impedire un imminente evento dannoso, nel
contenuto intervallo di tempo tra quando il
proprietario dell’area contaminata ha
acquisito consapevolezza della minaccia, e
l’Autorità competente è posta in grado di
affrontare l’evento critico.
3.4.3. Al contrario, l’Autorità richiede qui
ad Al. interventi di riparazione e di
messa in sicurezza, non contingenti ma
continuativi, e evidentemente non riferibili
alla fase iniziale di una emergenza.
È insomma evidente come, in specie,
l’Autorità cerchi di ampliare gli oneri
gravanti sul proprietario rispetto a quelli
stabiliti per legge, senza tener conto che
le misure di prevenzione sono dirette a
contrastare una minaccia ambientale
imminente, che possa realizzarsi in un
futuro prossimo, e non riguardano, dunque,
né situazioni in cui l'inquinamento sia un
fenomeno già ampiamente diffuso, né
interventi che richiedano soluzioni tecniche
incompatibili con la salvaguardia immediata
del bene.
3.5. Il secondo motivo di ricorso può essere
ritenuto assorbito dall’accoglimento del
primo, da cui deriva in radice l’esclusione
dell’obbligo di ulteriori adempimenti a
carico della ricorrente, diversi da quelli
già in precedenza accettati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 06.11.2017 n. 2088 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Tutte
le parole hanno un peso. Lede l'onore
assimilare la persona a esseri ripugnanti.
DIRITTO DI CRITICA/ Le recenti pronunce sul
tema della Corte di Cassazione.
Il diritto di critica non si concreta nella
mera narrazione veritiera di fatti, ma si
esprime in un giudizio che, come tale, non
può che essere soggettivo rispetto ai fatti
stessi, fermo restando, però, che il fatto
presupposto e oggetto della critica deve
corrispondere a verità.
Così la Corte di Cassazione, Sez. III
civile, con l'ordinanza
26.10.2017 n. 25420, che si inscrive nel novero di
una serie di recenti pronunce in tema di
diritto di critica.
Vediamole.
LE PAROLE HANNO UN PESO
Assume rilievo determinante la valenza
sociale delle parole, al di là e al di fuori
della specifica intenzione di chi le
adopera, con la conseguenza che
obiettivamente lesive dell'onore sono quelle
espressioni con le quali si «disumanizza» la
vittima, assimilandola a cose, animali o
concetti comunemente ritenuti ripugnanti,
osceni, disgustosi.
È quanto ribadito dai giudici della quinta
sezione penale della Corte di Cassazione,
Sez. V penale, con
la
sentenza
03.11.2017 n. 50187.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì
ribadito nella sentenza in commento che, in
ossequio anche a un ormai consolidato
orientamento dettato dalla giurisprudenza,
il diritto di critica va a concretizzarsi in
un giudizio valutativo che postula
l'esistenza del fatto assunto a oggetto o
spunto del discorso critico e una forma
espositiva non ingiustificatamente
sovrabbondante rispetto al concetto da
esprimere, e, conseguentemente, esclude la
punibilità di coloriture e iperboli, toni
aspri o polemici, linguaggio figurato o
gergale, purché tali modalità espressive
siano proporzionate e funzionali
all'opinione o alla protesta, in
considerazione degli interessi e dei valori
che si ritengono compromessi.
Ed è la stessa Cassazione (si veda: sez. 5,
n. 37397 del 24/06/2016, C, Rv. 267866) che
in particolare, ha evidenziato come «il
requisito della continenza postula una forma
espositiva corretta della critica rivolta,
ossia strettamente funzionale alla finalità
di disapprovazione e che non trasmodi nella
gratuita e immotivata aggressione
dell'altrui reputazione».
Occorre, pertanto, una sorta di verifica
della strumentalità dell'espressione nel
bilanciamento tra la protezione della
fondamentale libertà di espressione e
l'esigenza di assicurare il rispetto dei
diritti della persona, pur aspra, adoperata
rispetto alle finalità di critica e coglie,
nel superamento di tale fondamentale
requisito funzionale, la gratuità della
condotta.
E, come sottolineato dai giudici, tale
momento valutativo è certo strettamente
legato agli obiettivi comunicativi
perseguiti e allo specifico contesto nel
quale l'espressione è adoperata, ma è
necessariamente correlato anche al contenuto
di quest'ultima, in quanto la pur
giustificata critica dell'operato altrui
impone, comunque, il rispetto di quelli che
sono e restano limiti invalicabili, posti
dall'art. 2 Cost., a tutela della dignità
umana, con la conseguenza che alcune
modalità espressive sono oggettivamente (e
dunque per l'intrinseca carica di disprezzo
e dileggio che esse manifestano o per la
riconoscibile volontà di umiliare il
destinatario) da considerarsi offensive e,
quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto
pronunciate, tranne che siano
riconoscibilmente utilizzate ioci causa
(sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015, Foti, Rv.
263711).
DIRITTO DI CRITICA: DA NON
CONFONDERE COL DIRITTO DI CRONACA
Il diritto di critica non si concreta, come
quello di cronaca, nella mera narrazione
veritiera di fatti, ma si esprime in un
giudizio che, come tale, non può che essere
soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo
restando, però, che il fatto presupposto e
oggetto della critica deve corrispondere a
verità, sia pure non assoluta, ma
ragionevolmente putativa per le fonti da cui
proviene o per altre circostanze oggettive,
così come accade per il diritto di cronaca.
Lo hanno sottolineato sempre i giudici della
Corte di Cassazione (III Sez. civile) con
l'ordinanza
26.10.2017 n. 25420.
Inoltre, sempre nell'ordinanza di cui sopra,
si legge che in tema di diffamazione, «è
necessario e sufficiente che ricorra il dolo
generico, anche nelle forme del dolo
eventuale, cioè la consapevolezza di
offendere l'onore e la reputazione altrui,
la quale si può desumere dalla intrinseca
consistenza diffamatoria delle espressioni
usate (Cass., 20.12.2007, n. 26964,
che richiama la giurisprudenza penale di
questa Corte in materia)».
Circa poi la sussistenza di un danno non
patrimoniale, quale conseguenza
pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi
dell'art. 1223 cod. civ., quale norma
richiamata dall'art. 2056 cod. civ.) di una
lesione suscettibile di essere risarcita,
gli Ermellini hanno ribadito che deve essere
oggetto di allegazione e di prova, sebbene a
tale ultimo fine possano ben utilizzarsi
anche le presunzioni semplici, là dove,
proprio in materia di danno causato da
diffamazione a mezzo della stampa, idonei
parametri di riferimento possono rinvenirsi,
tra gli altri, dalla diffusione dello
scritto, dalla rilevanza dell'offesa e dalla
posizione sociale della vittima (Cass., 25.05.2017, n. 13153).
SI PUÒ CRITICARE L'OPERATO
DEL FUNZIONARIO PUBBLICO
E, infine, circa le critiche mosse da un
cittadino a un funzionario pubblico, i
giudici della Corte di Cassazione (Sez. feriale
penale,
sentenza
21.09.2017 n. 43139) hanno ricordato il principio
di diritto secondo il quale i cittadini
hanno il diritto di segnalare liberamente
alle autorità competenti i comportamenti dei
funzionari pubblici che ritengano irregolari
o illegali.
Tale principio si attaglia perfettamente al
caso sottoposto all'attenzione della Suprema
corte, dove il cittadino Tizio aveva
denunciato agli organi preposti al controllo
dell'azione del funzionario Caio la condotta
che questi aveva tenuto, nel trattare una
pratica di suo interesse, che appariva,
nella fase in cui era stata sporta la
denuncia, irregolare, come aveva ex post
dimostrato la ritenuta responsabilità
dell'ente pur sotto il solo profilo della
responsabilità precontrattuale.
Tizio con una lettera inviata al sindaco e
al magistrato della Corte dei conti, aveva
inteso denunciare una condotta, che aveva
ritenuto scorretta, tenuta da un funzionario
del comune in una pratica di suo interesse.
Lo stesso aveva utilizzato un linguaggio
contenuto, limitandosi a prefigurare che il
funzionario non avesse rispettato il suo
dovere di imparzialità. Del resto il
funzionario pubblico si era prima
interessato della pratica per poi dichiarare
che intendeva astenersene.
Se è vero che, ex post, il tribunale
amministrativo regionale aveva affermato che
Tizio non aveva diritto a essere risarcito,
lo stesso giudice aveva, nel contempo,
affermato che l'ente era incorso in una
responsabilità di tipo precontrattuale.
Ne discende che, ferma rimanendo la
contenutezza del linguaggio utilizzato nella
missiva (peraltro indirizzata proprio agli
organi di controllo dell'operato del
funzionario la cui condotta si era
sottoposta a critica), nella stessa non si
erano superati i limiti della pertinenza
dell'argomentazione e della verità dei fatti
esposti, almeno in relazione alla posizione
soggettiva del ricorrente e all'andamento
della pratica di suo interesse
(articolo ItaliaOggi
Sette del
20.11.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
disciplinare pesante. Condanna in primo
grado? Sospensione dall'attività. Sezioni
unite della Corte di cassazione sugli
effetti delle decisioni in campo penale.
In tema di disciplinare
avvocati, la condanna penale in primo grado
è di per sé sufficiente a far scattare la
sospensione cautelare dall'esercizio della
professione forense:
lo hanno chiarito le Sezioni unite civili della
Corte di Cassazione nella
sentenza
03.11.2017 n. 26148.
La vicenda trae origine dalla condanna in
primo grado a tre anni e tre mesi di un
legale il quale, in qualità di assessore ai
lavori pubblici, era stato ritenuto
responsabile di alcuni illeciti penali
commessi durante il suo mandato; in
considerazione della condanna e del fatto
che l'accaduto era stato riportato su un
articolo di giornale, il Consiglio
distrettuale di disciplina aveva provveduto
a comminargli la sospensione cautelare di
sei mesi dall'esercizio della professione
forense «rilevando che lo stesso aveva
commesso reati oggettivamente gravi e
soggettivamente legati alla sua qualità
pubblica (assessore provinciale) oltre che
di iscritto all'ordine forense, “e in quanto
tale destinatario di ancora maggiori
obblighi di carattere etico e
comportamentale”».
Avverso tale delibera il libero
professionista propone ricorso al Cnf che
respinge ogni doglianza sul presupposto che
la sospensione cautelare non è una sanzione
disciplinare e che il legislatore, a seguito
della riforma dell'ordinamento forense, ha
provveduto a tipizzarne i presupposti
applicativi così «escludendo l'esistenza di
un potere discrezionale di applicazione da
parte degli organi competenti al di fuori
dei casi espressamente previsti».
Dello stesso parere è stato anche il Supremo
consesso, il quale ha evidenziato come ratio
della norma sia quella di prevedere
l'applicazione di una misura cautelare con
un «provvedimento amministrativo non
giurisdizionale a carattere provvisorio ed
urgente in ipotesi tipiche di accertata
rilevante gravità».
Ove la norma in questione dovesse essere
applicata solo all'esito di un accertamento
definitivo ed irretrattabile di
responsabilità penale la sospensione
cautelare finirebbe con il diventare
un'inutile duplicazione della sanzione
disciplinare non assolvendo alla funzione di
tutela dell'immagine della categoria
professionale degli avvocati, proprio nel
momento di maggior risonanza della notizia
(articolo ItaliaOggi
Sette del
13.11.2017). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
House providing. Assunzioni, decide il giudice ordinario.
Spetta al giudice ordinario decidere le controversie relative alle procedure
seguite dalle società in house providing per l'assunzione del personale
dipendente.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza
02.11.2017 n.
5074.
Muovendo dal ragionamento fatto precedentemente dalle Sezioni unite della
Cassazione, secondo cui le società in house costituiscono in realtà mere
articolazioni della pubblica amministrazione, i giudici di Palazzo Spada
rilevano che però, per quanto attiene l'attività di reclutamento del proprio
personale, non si ravvisa tale equiparazione, per cui deve essere mantenuta
ferma la giurisdizione ordinaria, trattandosi di atti posti in essere da un
soggetto di diritto privato nell'esercizio di poteri privatistici.
Tale principio di diritto troverebbe conferma anche nell'art. 19 del recente
T.u. sulle società pubbliche 19.08.2016 n. 175, che ribadisce i principi
della normativa del 2008 in ordine al reclutamento del personale da parte
delle società a controllo pubblico. In particolare, il comma 4 dell'art. 19
prevede che: «Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei
provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale»
(articolo ItaliaOggi Sette del
20.11.2017).
---------------
MASSIMA
4. Ritenuto che la società Sa.Pu. s.p.a. è una società ad intera
partecipazione pubblica, che gestisce servizi pubblici locali in regime di
in house providing per conto del Comune di Salerno;
5. Ricordato che
le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza 27.03.2017, n. 7759, hanno
affermato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in materia di
controversie relative alle procedure di assunzione di personale alle
dipendenze di società c.d in house providing;
6. Osservato che il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite muove dalla
considerazione che i principi affermati con la sentenza a Sezioni Unite del
25.11.2013, n. 26283, secondo cui
le società in house costituiscono in realtà mere articolazioni della
pubblica amministrazione, devono essere intesi con riferimento alla sola
materia del danno erariale e dunque devono ritenersi rilevanti unicamente ai
fini di radicare la giurisdizione della Corte dei Conti.
In relazione alla attività di reclutamento del proprio personale, invece,
per le Sezioni Unite non si ravvisa una tale equiparazione tra le società
in house e le pubbliche amministrazioni, per cui deve essere mantenuta
ferma la giurisdizione ordinaria, trattandosi di atti posti in essere da un
soggetto di diritto privato nell’esercizio di poteri privatistici;
7. Rilevato ancora che secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite,
tale principio di diritto trova conferma nell’art. 19 del recente T.U. sulle
società pubbliche 19.08.2016 n. 175, che ribadisce i principi della
normativa del 2008 in ordine al reclutamento del personale da parte delle
società a controllo pubblico. In particolare, il comma 4 dell’art. 19
prevede che: “Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei
provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale.”
Alla luce di ciò, –ad avviso delle Sezioni Unite–
deve dedursi la perdurante giurisdizione del giudice ordinario sulle
controversie relative alle procedure seguite dalle società cosiddette in
house providing per l’assunzione di personale dipendente.
8. Ritenuto che in adesione a tale orientamento giurisprudenziale della
Corte di Cassazione, la sentenza appellata ha correttamente declinato la
giurisdizione in favore del giudice ordinario, dinanzi al quale la presente
controversia potrà essere riassunta secondo la disciplina della traslatio
iudicii; |
TRIBUTI: Ici/Imu,
conta solo il catasto. Ai fini
dell'esenzione è decisiva la classificazione
D/10. Cambio di rotta della Cassazione: le
precedenti pronunce sono orientamento
minoritario.
Per l'esenzione Ici, ma la stessa regola
vale per l'Imu, conta solo la categoria
catastale.
La Corte di Cassazione, Sez. V civile, mette
ordine e con l'ordinanza
31.10.2017 n. 25936 smentisce alcune
pronunce emanate anche di recente sui
fabbricati rurali strumentali, perché
ritiene che si tratti di un orientamento
minoritario, e afferma che è decisiva per
l'esenzione dalle imposte locali solo la
loro classificazione catastale nella
categoria D/10.
Esclude, dunque, che per
avere diritto all'esenzione sia sufficiente
per questi immobili la loro destinazione
all'esercizio dell'attività agricola. Per i
giudici di piazza Cavour, «l'orientamento di
legittimità così delineato non è scevro da
alcuni precedenti di segno contrario (v.
Cass. 16973/2015; 10355/2015; 14013/2012 e
talune altre), secondo i quali l'esenzione
dall'Ici dovrebbe venire riconosciuta in
ragione del solo carattere di ruralità
concretamente rivestito dall'immobile (nel
senso, ricordato, di strumentalità
all'esercizio dell'attività agricola), a
prescindere dal suo classamento catastale.
Si tratta però di voci, largamente
minoritarie, che si ritiene in questa sede
di dover disattendere».
In realtà, la Cassazione negli ultimi anni
ha avuto un comportamento oscillante
sull'esenzione per i fabbricati rurali
strumentali. Con quest'ultima pronuncia
smentisce quanto sostenuto con le sentenze
sopra citate e afferma la validità del
vecchio principio contenuto nella sentenza a
sezioni unite 18565/2009, secondo cui
l'agevolazione spetta per i fabbricati
strumentali all'attività agricola solo se
inquadrati catastalmente nella categoria
D/10. Non è sufficiente che il contribuente
utilizzi, di fatto, il fabbricato per lo
svolgimento dell'attività agricola, a
prescindere dall'inquadramento catastale.
Non sempre in linea con la Cassazione è
stata la giurisprudenza di merito. Per
esempio, la Commissione tributaria regionale
di Cagliari (sent. 29/2016) ha ritenuto che
per il riconoscimento dell'esenzione non
conta la categoria catastale. L'immobile
strumentale va considerato rurale se
utilizzato per la manipolazione,
trasformazione, conservazione,
valorizzazione o commercializzazione dei
prodotti agricoli dei soci. Per l'Agenzia
del territorio (circ. 2/2012), non conta più
la classificazione catastale per avere
diritto al trattamento agevolato per i
fabbricati rurali: possono mantenere le loro
categorie originarie. È sufficiente
l'annotazione catastale, tranne per
fabbricati strumentali che siano per loro
natura censibili nella categoria D/10.
---------------
Il provvedimento non è
retroattivo.
Il provvedimento che attribuisce la
categoria D/10 a un fabbricato rurale ha
natura costitutiva e non dichiarativa.
Dunque, non può avere effetto retroattivo.
Com'è noto hanno diritto all'esenzione Ici,
ma lo stesso vale per l'Imu, i possessori di
fabbricati strumentali censiti nella
categoria D/10, perché solo l'inquadramento
in questa categoria certifica la loro
ruralità.
L'annotazione in catasto non serve
per i fabbricati delle cooperative a
certificare la loro ruralità e ad attribuire
alla categoria la retroattività per gli anni
precedenti alla presentazione dell'istanza,
in quanto per i fabbricati aventi funzioni
produttive connesse alle attività agricole è acclarato il requisito della ruralità solo
se censiti nella categoria D/10. Per gli
immobili strumentali non accatastati o non
accatastabili nella suddetta categoria,
invece, la ruralità va riconosciuta in
presenza dell'annotazione ottenibile
mediante domanda alle Entrate.
Lo prevedono
le norme del decreto del Mef del 26/7/2012,
che ha dato attuazione all'art. 13 del dl
201/2011, e le indicazioni che ha fornito
l'Agenzia del territorio con la circ. n. 2/T
del 07/08/2012. L'art. 1, comma 1, del
decreto ministeriale prevede che «ai
fabbricati rurali destinati ad abitazione e
ai fabbricati strumentali all'esercizio
dell'attività agricola è attribuito il
classamento, in base alle regole ordinarie,
in una delle categorie catastali previste
nel quadro generale di qualificazione».
In
base al comma 2 dello stesso articolo, ai
fini dell'iscrizione negli atti del catasto
della sussistenza del requisito di ruralità
in capo ai fabbricati rurali, «diversi da
quelli censibili nella categoria D/10, è
apposta una specifica annotazione»
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.11.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, cui va garantita
soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l’adozione del provvedimento repressivo.
Stante il carattere vincolato dell’attività, tale da rendere
non necessaria neppure la comunicazione di avvio dell’iter,
è da escludere la configurabilità stessa di un autovincolo
da parte dell’Amministrazione, atteso che l’esito del
procedimento non può che essere strettamente conseguente
alle risultanze istruttorie.
---------------
Nei procedimenti a iniziativa d’ufficio, l’Amministrazione
non è tenuta a comunicare lo schema finale del provvedimento
che intende adottare, non essendo previsto normativamente un
istituto assimilabile alla comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda, operante con riferimento ai
procedimenti a istanza di parte, ai sensi dell’articolo
10-bis della legge n. 241 del 1990.
---------------
Ai fini della legittimità di un provvedimento non è
necessario che la motivazione contenga un’analitica
confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte
dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla
motivazione si evinca che l’amministrazione abbia
effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle
osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione
della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del
provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative.
---------------
8. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono
di seguito.
9. I ricorrenti allegano, anzitutto, con il primo e
il secondo motivo di ricorso, che l’Amministrazione
avrebbe disatteso il vincolo che si sarebbe imposta nel
definire l’oggetto del procedimento, prima con la
comunicazione di avvio del procedimento, e poi con il
verbale di sopralluogo.
In questa prospettiva, essi evidenziano che l’ordinanza di
demolizione afferma la totale difformità delle opere anche
rispetto alla concessione edilizia del 1993, che non era
stata richiamata nella comunicazione di avvio del
procedimento, e che l’illecito edilizio ipotizzato nel
verbale di sopralluogo consisteva in una mera difformità
parziale, e non invece nella difformità totale rispetto ai
titoli edilizi, indicata poi nel provvedimento finale.
9.1 Al riguardo, è sufficiente richiamare il consolidato
indirizzo giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, per il
quale l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non
richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con
riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario (Cons. Stato, Sez. VI,
14.03.2014, n. 1292; Id., 04.03.2013, n. 1268; Id., Sez. IV,
04.02.2013, n. 666), cui va garantita soltanto la
possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento
fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del
provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez. V, 07.06.2015,
n. 3051).
Stante il carattere vincolato dell’attività, tale da rendere
non necessaria neppure la comunicazione di avvio dell’iter,
è da escludere la configurabilità stessa di un autovincolo
da parte dell’Amministrazione, atteso che l’esito del
procedimento non può che essere strettamente conseguente
alle risultanze istruttorie.
9.2 D’altro canto, nel caso di specie le garanzie di
partecipazione procedimentale dei ricorrenti risultano
essere state ampiamente garantite.
Non solo, infatti, risulta la partecipazione della proprietà
e del tecnico di parte al sopralluogo che ha consentito di
accertare lo stato dei luoghi, ma gli interessati sono stati
anche resi edotti, anteriormente allo svolgimento delle
verifiche fattuali, dell’avvio del procedimento, e messi
così pienamente in grado di interloquire con
l’Amministrazione; facoltà di cui si sono effettivamente
avvalsi.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale
non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla
comunicazione di avvio del procedimento o a quanto
ipotizzato nelle conclusioni espresse dai tecnici nel
verbale di sopralluogo, non potrebbe in ogni caso
costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di
partecipazione procedimentale. E ciò non solo perché –come
detto– il provvedimento adottato costituisce, per sua
natura, l’esito vincolato dell’istruttoria procedimentale
svolta, ma anche per l’ulteriore ragione che, nei
procedimenti a iniziativa d’ufficio, l’Amministrazione non è
tenuta a comunicare lo schema finale del provvedimento che
intende adottare, non essendo previsto normativamente un
istituto assimilabile alla comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento della domanda, operante con riferimento ai
procedimenti a istanza di parte, ai sensi dell’articolo
10-bis della legge n. 241 del 1990.
9.3 Le censure vanno quindi respinte.
10. I ricorrenti lamentano, poi, sempre nel primo motivo di
impugnazione, la circostanza che –a loro avviso–
l’Amministrazione avrebbe omesso di prendere in
considerazione l’apporto procedimentale da essi reso
mediante la produzione di una memoria.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della
legittimità di un provvedimento non è necessario che la
motivazione contenga un’analitica confutazione delle
osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo
invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che
l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro
complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la
corretta formazione della propria volontà o del proprio
giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n.
4928).
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del
provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato,
Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez.
II-ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, l’apporto
procedimentale dei signori Ra. risulta essere stato preso in
considerazione, atteso che la memoria da essi prodotta a
seguito della comunicazione di avvio del procedimento è
stata richiamata esplicitamente nel verbale di sopralluogo.
Anzi –come ammesso dagli stessi interessati– le conclusioni
espresse dai tecnici nel verbale di sopralluogo hanno
persino fatto proprie alcune considerazioni espresse nella
suddetta memoria, con riferimento alla questione attinente
al diritto di uso pubblico sulla strada vicinale.
Quanto alle ulteriori argomentazioni esposte in sede
procedimentale dagli odierni ricorrenti, queste erano
dirette a illustrare le ragioni per le quali, secondo i
signori Ra., il potere repressivo non avrebbe potuto essere
esercitato. Tali ragioni, tuttavia, sono implicitamente
confutate dal richiamo, contenuto nell’ordinanza di
demolizione, alle norme di legge dalle quali l’esercizio di
tale potere discende, quale esito vincolato; norme delle
quali peraltro –come meglio si dirà nel prosieguo–
l’Amministrazione risulta aver fatto buon governo.
10.3 Anche sotto questo profilo, le censure dei ricorrenti
vanno quindi rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza ha da tempo chiarito che “(...) l’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; e non può
ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può
avere legittimato, né l'interessato può dolersi del fatto
che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente
i dovuti atti repressivi (idem)”.
---------------
I ricorrenti invocano l’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale, in alcuni casi determinati, deve darsi
rilievo all’affidamento del proprietario al mantenimento
dell’opera abusiva.
Occorre, tuttavia, osservare che tale orientamento
–sottoposto con ordinanza della Sez. VI del Consiglio di
Stato n. 1337 del 24.03.2017 al vaglio dell’Adunanza
Plenaria– subordina comunque la rilevanza dell’interesse
individuale ad evitare la sanzione edilizia al riscontro di
ben precise e rigorose condizioni.
Non a caso, le ipotesi
nelle quali viene riconosciuta rilevanza all’affidamento dei
privati vengono qualificate da questo stesso indirizzo
giurisprudenziale come autentici casi-limite, riscontrabili
solo ove sia pacificamente accertato che:
- l’acquirente ed
attuale proprietario del manufatto non sia responsabile
dell’abuso;
- l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di
eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi;
- sia
decorso un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la
realizzazione dell’abuso il successivo acquisto, e più
ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi.
---------------
11. Nel primo e nel terzo motivo di
impugnazione si lamenta, poi, la mancata considerazione
dell’affidamento dei ricorrenti e la violazione del
principio di proporzionalità.
11.1 In proposito, deve tuttavia osservarsi che la
giurisprudenza, anche della Sezione, ha da tempo chiarito
che “(...) l’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (es.
Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010); e non può
ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione
di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può
avere legittimato, né l'interessato può dolersi del fatto
che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente
i dovuti atti repressivi (idem)” (così, ex multis:
Cons. Stato, Sez. VI, 14.03.2014, n. 1292; nello stesso
senso: Cons. Stato, Sez. VI, 05.05.2016, n. 1774; Id.,
23.10.2015, n. 4880; Id., 29.01.2015, n. 406; Id.,
05.01.2015, n. 13; Id., 04.03.2013, n. 1268; Id.,
28.01.2013, n. 498; Id., Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702;
04.05.2012 n. 2592; Id., 20.07.2011, n. 4403; Id., Sez. V,
11.07.2014, n. 4892; Id., 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37; Id., 04.08.2016, n.
1567; Id., 26.05.2016, n. 1096; Id., 27.08.2014, n. 2261).
11.2 I ricorrenti invocano l’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale, in alcuni casi determinati, deve darsi
rilievo all’affidamento del proprietario al mantenimento
dell’opera abusiva (Cons. Stato, Sez. VI, 08.04.2016, n.
1393; Id., 14.08.2015 n. 3933; Id., 18.05.2015, n. 2512;
Id., Sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; Id., Sez. V, 15.07.2013,
n. 3847).
Occorre, tuttavia, osservare che tale orientamento
–sottoposto con ordinanza della Sez. VI del Consiglio di
Stato n. 1337 del 24.03.2017 al vaglio dell’Adunanza
Plenaria– subordina comunque la rilevanza dell’interesse
individuale ad evitare la sanzione edilizia al riscontro di
ben precise e rigorose condizioni. Non a caso, le ipotesi
nelle quali viene riconosciuta rilevanza all’affidamento dei
privati vengono qualificate da questo stesso indirizzo
giurisprudenziale come autentici casi-limite, riscontrabili
solo ove sia pacificamente accertato che: l’acquirente ed
attuale proprietario del manufatto non sia responsabile
dell’abuso; l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di
eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; sia
decorso un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la
realizzazione dell’abuso il successivo acquisto, e più
ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri
repressivi (in questo senso, v. ancora: Cons. Stato, Sez. VI,
n. 3933 del 2015, cit.; Id., Sez. IV, n. 1016 del 2014,
cit., nonché il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria
dall’ordinanza n. 1337 del 2017).
11.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, nessuna di tali
condizioni risulta riscontrabile, atteso che, anzitutto, gli
attuali proprietari ammettono di essere autori dell’illecito
edilizio, per cui –già per questo profilo– deve escludersi
qualsivoglia affidamento meritevole di tutela al
mantenimento della situazione di fatto. D’altro canto,
l’epoca di realizzazione dell’abuso è controversa tra le
parti, e –in ogni caso– non risulta affatto che
l’Amministrazione abbia lungamente tollerato l’illecito dopo
esserne venuta a conoscenza.
Emerge, infatti, dagli atti che l’attuale stato dei luoghi
sia stato accertato soltanto con il sopralluogo del gennaio
2016, mentre in precedenza al Comune risultava la
realizzazione della recinzione con semplice rete metallica,
senza opere murarie, secondo quanto previsto dalla licenza
edilizia del 1972. Ciò si evince, in particolare, dalla
circostanza che, nella nota del 1980, sopra richiamata, il
Sindaco aveva rassicurato alcuni privati, autori di un
esposto, sulle caratteristiche della recinzione. Inoltre,
nell’istanza presentata dagli odierni ricorrenti nel 1992,
al fine di ottenere la concessione edilizia per la
realizzazione di un diverso tratto di recinzione, le opere
oggetto del presente giudizio vengono indicate
nell’elaborato progettuale come “recinzione esistente
paline e rete” (v. doc. 7 del Comune).
11.4 La fattispecie oggetto del presente giudizio, pertanto,
non risulta comunque riconducibile ai casi-limite
considerati dalla suddetta giurisprudenza. Conseguentemente,
deve confermarsi il carattere vincolato del provvedimento.
Circostanza, questa, che esclude anche uno spazio di
applicazione dell’invocato principio di proporzionalità.
Da ciò il rigetto delle censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo l’orientamento della giurisprudenza
dominante, sono esenti dal regime del permesso di costruire
solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia
permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di
immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in
rete metalliche, sorrette da paletti in ferro o di legno e
senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la
posa in essere di una recinzione rientra tra le
manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius
excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle
singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica o da opera muraria.
---------------
In ogni caso, deve rilevarsi che, anche laddove si fosse
trattato di opera soggetta a semplice segnalazione di inizio
attività, ciò non determinerebbe, di per sé, l’illegittimità
dell’ordine di demolizione.
Deve, infatti, tenersi presente che, ai sensi dell’articolo
27, comma 2, primo periodo del d.P.R. n. 380 del 2001, il
dirigente o il responsabile deve provvedere alla demolizione
e al ripristino dello stato dei luoghi, tra l’altro, “quando
accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza
titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o
da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di
inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici
(...), nonché in tutti i casi di difformità dalle norme
urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici
(...)”; e ciò indipendentemente dal titolo necessario
all’esecuzione dell’intervento.
Conseguentemente, laddove l’opera realizzata senza titolo,
pur soggetta astrattamente a segnalazione certificata di
inizio attività, non sia conforme alle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, deve esserne
disposta la demolizione.
Si tratta, del resto, di una previsione del tutto in linea
con il tenore dell’articolo 37, comma 1, del d.P.R. n. 380
del 2001, ove l’applicazione della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi edilizi –realizzati in assenza
della o in difformità dalla segnalazione certificata di
inizio attività– di cui all’articolo 22, commi 1 e 2:
disposizioni, queste, che richiamano espressamente la
conformità urbanistica delle opere.
Anche sotto questo profilo, resta, perciò, confermato che
soltanto in presenza del requisito della conformità
urbanistica le opere realizzate senza titolo, ma
astrattamente soggette a segnalazione certificata di inizio
attività, vanno sottoposte alla sanzione pecuniaria, invece
che alla demolizione. Quest’ultima sanzione non può, invece,
essere evitata laddove non sia riscontrabile il predetto
requisito di conformità.
---------------
13. In considerazione di quanto sopra esposto, vanno pure
rigettate le doglianze di difetto di motivazione, variamente
articolate nel terzo e nel quarto motivo di
ricorso, laddove si lamenta la mancata adeguata
considerazione della situazione di fatto e di diritto e
l’omessa illustrazione dei profili di totale difformità
riscontrati dall’Amministrazione.
13.1 L’illustrazione della situazione dei luoghi, il
richiamo dei precedenti titoli abilitativi e il riferimento
alla fattispecie di illecito edilizio riscontrata dal
Comune, con il rinvio all’articolo 31 del d.P.R. n. 380 del
2001, costituiscono, infatti, motivazione sufficiente del
provvedimento –vincolato– assunto dall’Amministrazione.
D’altro canto, come anticipato, la determinazione assunta
risulta rispondente al paradigma normativo.
13.2 Deve anzitutto osservarsi che, secondo l’orientamento
della giurisprudenza dominante, cui la Sezione ha già
manifestato adesione, “sono esenti dal regime del
permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino
un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria
installazione e di immediata asportazione (quali, ad
esempio, recinzioni in rete metalliche, sorrette da paletti
in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto
entro tali limiti la posa in essere di una recinzione
rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che
comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la
delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire quando la
recinzione costituisca opera di carattere permanente,
incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto
edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da
un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete
metallica o da opera muraria (cfr. fra le tante TAR Puglia,
Bari, sez. III, 10/05/2013, n. 714)” (così: TAR
Lombardia, Milano, Sez. II, 20.05.2014, n. 1306; in termini:
TAR Puglia, Bari, Sez. III, 15.09.2015, n. 1236; cfr. anche
Cons. Stato, Sez. VI, 26.01.2015, n. 333; Id., Sez. V,
09.04.2013, n. 1922; TAR Umbria, 07.08.2013 n. 434; TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 07.03.2011 n. 430).
Alla stregua di tale indirizzo, l’opera richiedeva,
pertanto, il permesso di costruire.
13.3 In ogni caso, deve rilevarsi che, anche laddove si
fosse trattato di opera soggetta a semplice segnalazione di
inizio attività, ciò non determinerebbe, di per sé,
l’illegittimità dell’ordine di demolizione.
13.3.1 Deve, infatti, tenersi presente che, ai sensi
dell’articolo 27, comma 2, primo periodo del d.P.R. n. 380
del 2001, il dirigente o il responsabile deve provvedere
alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi, tra
l’altro, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere
eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o
adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere
e spazi pubblici (...), nonché in tutti i casi di difformità
dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici (...)”; e ciò indipendentemente dal titolo
necessario all’esecuzione dell’intervento.
Conseguentemente, laddove l’opera realizzata senza titolo,
pur soggetta astrattamente a segnalazione certificata di
inizio attività, non sia conforme alle norme urbanistiche e
alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, deve esserne
disposta la demolizione.
Si tratta, del resto, di una previsione del tutto in linea
con il tenore dell’articolo 37, comma 1, del d.P.R. n. 380
del 2001, ove l’applicazione della sanzione pecuniaria è
limitata ai soli interventi edilizi –realizzati in assenza
della o in difformità dalla segnalazione certificata di
inizio attività– di cui all’articolo 22, commi 1 e 2:
disposizioni, queste, che richiamano espressamente la
conformità urbanistica delle opere.
Anche sotto questo profilo, resta, perciò, confermato che
soltanto in presenza del requisito della conformità
urbanistica le opere realizzate senza titolo, ma
astrattamente soggette a segnalazione certificata di inizio
attività, vanno sottoposte alla sanzione pecuniaria, invece
che alla demolizione. Quest’ultima sanzione non può, invece,
essere evitata laddove non sia riscontrabile il predetto
requisito di conformità.
13.3.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il
provvedimento impugnato –non censurato sul punto dai
ricorrenti– afferma espressamente che “l’intervento in
questione risulta in contrasto con la vigente normativa
urbanistica e pertanto non può essere oggetto di sanatoria”.
Nel dettaglio, il verbale di sopralluogo ha evidenziato che
il mappale 963 è destinato in parte ad “Ambiti per attività
produttive – APCr Edifici e complessi produttivi in ambiti
residenziali” e in parte ad “Aree MV mobilità e viabilità
locale di progetto”, mentre il mappale 3017 (ex 97) è
destinato in parte a “Sistema rurale-paesistico-ecologico:
ARA – aree di rilevanza locale per l’attività agricola, APA
– ambiti di valore ecologico e paesistico/ecologico, A3 –
ambito pedecollinare del Pilastrello coincidente con la zona
tampone di primo livello BZP definita dal vigente PTCP della
Provincia di Como” e in parte ad “Aree MV mobilità e
viabilità locale di progetto”.
E, al riguardo, la difesa comunale ha affermato che la
recinzione ricade nella porzione del fondo destinata a
mobilità e viabilità locale di progetto, e per questa
ragione non è conforme al Piano di Governo del Territorio.
La stessa difesa ha, inoltre, segnalato che le
caratteristiche dell’opera sono comunque incompatibili anche
con le previsioni dettate per la residua parte del mappale
3017, ove sono consentiti solo steccati tradizionali in
legno.
Non è peraltro necessario approfondire ulteriormente, in
questa sede, la destinazione dell’area nella quale ricade il
manufatto, atteso che –come anticipato– l’insussistenza del
requisito della conformità urbanistica è stata espressamente
affermata dal provvedimento impugnato, il quale non è stato
censurato nel ricorso per questa parte.
13.3.3 Deve quindi ribadirsi che, nel caso di specie,
l’irrogazione della sanzione demolitoria era, in ogni caso,
imposta dalle risultanze istruttorie, richiamate
nell’ordinanza impugnata.
13.4 Quanto alla totale difformità delle opere rispetto alla
licenza edilizia del 1972, questa emerge dalla circostanza
che il manufatto allora assentito era un’opera del tutto
precaria, e destinata a essere rimossa –secondo quanto
riconosciuto dagli stessi ricorrenti– al manifestarsi
dell’esigenza dell’allargamento della strada.
L’intervento concretamente realizzato, consistendo in
un’opera stabile, per la presenza di un basamento murario, è
perciò totalmente difforme rispetto al titolo edilizio. Né
può assumere alcuna rilevanza, in senso contrario, la
valutazione delle dimensioni del cordolo di sostegno della
rete metallica, trattandosi di un dato che non influisce sul
riscontro delle caratteristiche funzionali dell’opera
concretamente realizzata, in contrasto con quanto indicato
nel titolo edilizio.
14. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui esposte, il
ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI:
Comodato, Imu ko. Esente
l'immobile concesso ad altri. Ctp Reggio
Emilia sui benefici per gli enti non profit.
Esente dall'Imu l'immobile che un ente non
commerciale non utilizza direttamente e che
concede in comodato gratuito ad altro ente
non profit per lo svolgimento di attività
didattica. L'agevolazione fiscale non è
condizionata dall'uso del bene da parte
dell'ente possessore. Non si perde, tra
l'altro, il diritto al trattamento agevolato
se la concessione in uso gratuito del bene
non crea alcun effetto discorsivo,
considerata la ratio della norma di legge.
In questo senso si è espressa la commissione
tributaria provinciale di Reggio
nell'Emilia, Sez. II, con la sentenza 25.10.2017 n.
271.
Per i giudici tributari non c'è alcun motivo
per disconoscere l'agevolazione qualora
l'immobile venga utilizzato da un ente non
commerciale diverso rispetto a quello che ne
è titolare, in quanto il requisito del
possesso non è imposto dalla norma di legge.
Tra l'altro, l'uso in comodato del bene
immobile non provoca effetti discorsivi.
In realtà, la presa di posizione della
commissione provinciale è in linea con
quanto sostenuto dal ministero dell'economia
e delle finanze (risoluzione 4/2013), ma si
pone in contrasto con l'interpretazione che
ha fornito la Cassazione sulla questione de
qua. Per i giudici di legittimità, se un
ente concede in comodato un immobile a un
altro ente, che vi svolge l'attività con
modalità non commerciali, non ha diritto
all'esenzione Imu e Tasi poiché non lo
utilizza direttamente.
La Cassazione ha chiarito che l'esenzione
esige l'identità soggettiva tra il
possessore, ovvero il soggetto passivo delle
imposte locali, e l'utilizzatore
dell'immobile.
L'interpretazione del Mef non tiene conto
delle pronunce sia della Corte
costituzionale (ordinanze 429/2006 e
19/2007) che della Cassazione, secondo cui
per fruire dell'esenzione l'ente non
commerciale dovrebbe non solo possedere, ma
anche utilizzare direttamente l'immobile.
Quindi, è richiesta una duplice condizione:
l'utilizzazione diretta degli immobili da
parte dell'ente possessore e l'esclusiva
loro destinazione a attività peculiari che
non siano produttive di reddito.
Si ritiene
che l'agevolazione non possa essere
riconosciuta nel caso di utilizzazione
indiretta, ancorché eventualmente assistita
da finalità di pubblico interesse. Requisito
essenziale per fruire dell'esenzione è il
suo possesso qualificato da parte dell'ente.
Per l'esonero dalle imposte locali, infatti,
non è sufficiente il possesso di fatto.
Altrimenti l'agevolazione si estenderebbe al
soggetto titolare. L'uso indiretto da parte
dell'ente che non ne sia possessore non
consente al proprietario di fruire
dell'esenzione.
L'esenzione totale o
parziale.
Va ricordato che in seguito alle modifiche
normative che sono intervenute sulla
materia, oltre all'esenzione totale, è stata
riconosciuta anche l'esenzione parziale Imu
e Tasi per gli enti non profit, valutate le
condizioni d'uso in concreto dell'immobile.
Il beneficio parziale, però, non può valere
per l'Ici. Per quest'ultimo tributo, in
effetti, era richiesta la destinazione
esclusiva dell'immobile per finalità non
commerciali.
L'evoluzione della norma che
riconosce i benefici fiscali per una parte
dell'immobile non può avere effetti
retroattivi. Ancorché si tratti della stessa
norma che disciplina l'agevolazione, non può
essere riconosciuta l'esenzione parziale
Ici, come avviene per Imu e Tasi, se parte
dell'immobile è destinata a un'attività
svolta con modalità commerciali, tra quelle
elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera
i), del decreto legislativo 504/1992.
Pertanto la disciplina Imu, che si applica
anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione
anche qualora l'unità immobiliare abbia
un'utilizzazione mista. L'agevolazione si
applica solo sulla parte nella quale si
svolge l'attività non commerciale, sempre
che sia identificabile. La parte
dell'immobile dotata di autonomia funzionale
e reddituale permanente deve essere iscritta
in catasto e la rendita produce effetti a
partire dal 01.01.2013. Nel caso in cui
non sia possibile accatastarla
autonomamente, il beneficio fiscale spetta
in proporzione all'utilizzazione non
commerciale dell'immobile che deve risultare
da apposita dichiarazione.
Le posizioni della
Cassazione sulle esenzioni.
È da tempo piuttosto controverso il
trattamento fiscale che deve essere
riservato a gli immobili posseduti dagli
enti non profit, considerato che la loro
destinazione non sempre può essere
qualificata non commerciale. La Corte di
cassazione, con l'ordinanza 23548/2011, ha
stabilito che un fabbricato utilizzato per
l'assistenza di pensionati che pagano delle
rette mensili è soggetto al pagamento
dell'Ici perché l'attività è svolta con
finalità commerciali. Per i giudici di
piazza Cavour, che hanno mantenuto nel tempo
una certa coerenza su questo tema, il
beneficio dell'esenzione dall'imposta non
spetta per gli immobili degli enti
ecclesiastici «aventi fine di religione e di
culto», «che siano destinati allo
svolgimento di attività oggettivamente
commerciali».
Ancora più netta e rigida è
stata la posizione assunta con la sentenza
4342/2015, secondo cui l'esenzione Ici
prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera
i), del decreto legislativo 504/1992 «è
limitata all'ipotesi in cui gli immobili
siano destinati in via esclusiva allo
svolgimento di una delle attività di
religione o di culto» indicate nella legge
222/1985 e, dunque, non si applica ai
fabbricati di proprietà di enti
ecclesiastici nei quali si svolga attività
sanitaria, non rilevando neppure la
destinazione degli utili eventualmente
ricavati al perseguimento di fini sociali o
religiosi, che costituisce un momento
successivo alla loro produzione e non fa
venir meno il carattere commerciale
dell'attività
(articolo ItaliaOggi
Sette del
20.11.2017). |
CONDOMINIO:
L'amministratore è buon padre. Ha
l'obbligo di svolgere le sue funzioni con
diligenza. La Cassazione ha indicato come
valutare la condotta di recupero crediti in
condominio.
L'amministratore condominiale è tenuto a
svolgere la propria attività con diligenza.
È questo il criterio per misurare il
corretto adempimento delle sue obbligazioni
e per valutare se una data condotta, in
mancanza di una disposizione specifica, sia
o meno dovuta. E così, ma soltanto per il
periodo anteriore all'entrata in vigore
della riforma del condominio, si può
ritenere che l'amministratore non fosse
tenuto ad attivarsi per ottenere un decreto
ingiuntivo nei confronti dei condomini
morosi, ma che per assolvere ai propri
obblighi fosse sufficiente inviare agli
stessi una semplice diffida di pagamento. Al
contrario, oggigiorno, in forza
dell'espressa previsione di cui al comma 9
dell'art. 1129 c.c., l'amministratore ha un
preciso limite temporale entro il quale
attivarsi giudizialmente per il recupero del
credito.
Queste le riflessioni che sorgono alla
lettura della recente
ordinanza 20.10.2017 n. 24920 della VI
Sez. civile della Corte di Cassazione.
Il caso concreto.
Nella specie un condominio aveva citato in
giudizio il precedente amministratore per
essere tenuto indenne dai pregiudizi
economici derivati dal tardivo pagamento del
premio della polizza relativa
all'assicurazione dell'edificio
condominiale. Il tribunale, con sentenza del
2009, pur avendo accertato che la condotta
tenuta dall'ex amministratore fosse
risultata inadempiente agli obblighi
contrattuali, aveva rigettato la domanda
risarcitoria per i danni derivanti dalla
mancanza di copertura assicurativa
relativamente all'incendio del tetto e aveva
condannato quest'ultimo a rimborsare al
condominio soltanto la metà delle spese
processuali.
Il provvedimento era stato appellato sia dal
condominio, in via principale, che dal
precedente amministratore, in via
incidentale. I giudici di secondo grado, con
sentenza dell'ottobre del 2013, proprio in
accoglimento di quest'ultimo gravame,
avevano però dichiarato l'assenza di
responsabilità contrattuale del precedente
amministratore, avendo accertato che la
mancanza di liquidità sul conto corrente
condominiale a causa della quale non era
stato possibile provvedere al pagamento del
premio era stata originata proprio dalla
morosità di alcuni condomini.
La Corte aveva
infatti ritenuto che i meri solleciti di
pagamento inviati dal medesimo ai morosi
fossero sufficienti ai fini dell'adempimento
delle proprie obbligazioni, non essendo lo
stesso tenuto né a procedere al recupero
giudiziale delle spese condominiali non
versate né tantomeno ad anticipare le somme
occorrenti al pagamento della polizza
assicurativa. Di qui il ricorso in
Cassazione da parte del condominio.
La diligenza
dell'amministratore condominiale.
Il rapporto tra amministratore e condomini,
come ritenuto dalla giurisprudenza e
definitivamente chiarito dalla legge n.
220/2012, deve essere qualificato come un
contratto di mandato con rappresentanza. I
diritti e gli obblighi dell'amministratore
sono quindi stabiliti dalla legge (in
particolare dal codice civile, sia dagli
artt. 1703 ss. che dagli artt. 1117 ss.),
dal regolamento condominiale e dalle
deliberazioni assembleari. Ebbene, l'art.
1710 c.c. impone al mandatario di svolgere
il proprio compito con la diligenza del buon
padre di famiglia, dunque con un livello di
attenzione e di applicazione per così dire
medio.
Ma, più in generale, è l'art. 1176 c.c. a
individuare nella diligenza il criterio di
valutazione dell'adempimento delle
obbligazioni. Volta per volta, quindi, nel
decidere se l'amministratore abbia o meno
tenuto la condotta che era lecito aspettarsi
in una data occasione, soprattutto in
mancanza di una previsione espressa in tal
senso, occorrerà fare riferimento al
predetto criterio di diligenza. Senza
dimenticare che i principali e più generali
obblighi dell'amministratore, ex art. 1130
c.c., sono quelli di disciplinare l'uso
delle cose comuni e la fruizione dei
servizi, di riscuotere i contributi ed
erogare le spese occorrenti per la gestione
del condominio, nonché di compiere gli atti
conservativi relativi alle parti comuni
dell'edificio.
La decisione della Suprema
corte.
Nel caso di specie la sesta sezione civile,
preso atto dell'accertamento in fatto nel
corso dei giudizi di merito dell'attività
svolta dall'amministratore convenuto per il
sollecito scritto dei condomini morosi, ha
ritenuto corretta la decisione assunta dalla
Corte di appello in riforma della sentenza
di primo grado sul punto della
discrezionalità dell'amministratore nel fare
ricorso, in casi del genere, allo strumento
del decreto ingiuntivo (ossia della
richiesta giudiziale, ex art. 63 disp. att.
c.c., di emissione di un ordine di pagamento
immediatamente esecutivo sulla base delle
risultanze contabili del consuntivo e/o del
preventivo approvato dall'assemblea).
Secondo la Cassazione, infatti, detta
disposizione «non prevede un obbligo, ma
solo una facoltà di agire in via monitoria
contro i condomini morosi», visto che la
norma riporta testualmente che
l'amministratore «può ottenere decreto di
ingiunzione...». In altri termini, secondo i
giudici di legittimità, al fine di evitare
di essere considerato inadempiente rispetto
al proprio obbligo generale di riscuotere i
contributi dai condomini, all'amministratore
basta sollecitare questi ultimi per iscritto
al pagamento, dunque metterli in mora.
---------------
Dopo la riforma agire è
obbligatorio.
I fatti dei quali la Suprema corte è stata
chiamata a occuparsi nella decisione in
questione (si veda articolo principale in
pagina) risalgono ad alcuni anni prima
dell'entrata in vigore della legge n.
220/2012 di riforma del condominio. Occorre
quindi chiedersi se, alla luce delle
numerose novità normative nel frattempo
intervenute, possano considerarsi ancora
valide le conclusioni alle quali sono
pervenuti i giudici di legittimità.
È vero, infatti, che a seguito della
riforma, pur se l'art. 63 disp. att. c.c.,
per la parte del suo primo comma richiamata
in sentenza, sia rimasto inalterato, è stato
introdotto uno specifico comma dell'art.
1129 c.c., il quale ora prevede
espressamente che «salvo che sia stato
dispensato dall'assemblea, l'amministratore
è tenuto ad agire per la riscossione forzosa
delle somme dovute dagli obbligati entro sei
mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale
il credito esigibile è compreso, anche ai
sensi dell'art. 63, primo comma, disp. att.
c.c.».
La disposizione in questione ha
ribadito (lo prevedeva già il predetto art.
63 disp. att. c.c.) che non è necessaria
l'autorizzazione dell'assemblea per
procedere al recupero degli oneri
condominiali (salvo che l'amministratore ne
venga espressamente esonerato con delibera
per una o più posizioni singole), ma ha
altrettanto chiaramente evidenziato che
l'amministratore ha l'obbligo di attivarsi
per la riscossione di tali somme entro un
termine prestabilito (ovvero entro sei mesi
dalla chiusura dell'esercizio nel quale il
credito esigibile è compreso).
Anche in questo caso si è a lungo discusso
se per adempiere a tale obbligo fosse
sufficiente che l'amministratore mettesse in
mora i condomini in arretrato nei pagamenti,
sollecitandoli al versamento delle spese
comuni. Tuttavia l'utilizzo dell'aggettivo
«forzosa» per qualificare tale attività di
riscossione ha convinto tutti gli interpreti
che il riferimento legislativo fosse inteso
all'avvio delle necessarie procedure
giudiziarie. Per procedere alla riscossione
forzata, infatti, serve ottenere
preventivamente un titolo giudiziale di
condanna del debitore al pagamento delle
somme dovute, attraverso un procedimento
ordinario di cognizione o «anche ai sensi
dell'art. 63, primo comma, disp. att. c.c.»,
ovvero mediante richiesta di un decreto
ingiuntivo immediatamente esecutivo
(soluzione che, per via della maggiore
brevità del relativo procedimento,
rappresenta sicuramente la scelta
preferibile).
Oggigiorno, in forza di quanto previsto dal
predetto art. 1129, comma 9, c.c.,
l'amministratore, a fronte del mancato
pagamento degli oneri condominiali, è quindi
tenuto, in ragione dell'obbligo di cui al
parimenti già citato art. 1130, comma 1, n.
3, c.c. e della diligenza con cui deve
adempiervi, a sollecitare per iscritto i
morosi a procedere al pagamento.
Tuttavia, entro il termine massimo di sei
mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale
il credito esigibile è compreso, lo stesso è
altresì obbligato a fornire mandato a un
legale per il recupero del credito in via
giudiziaria, salvo eventuale dispensa da
parte dell'assemblea. In caso contrario non
si potrà più dire che l'amministratore abbia
diligentemente svolto il proprio mandato nei
confronti della compagine condominiale
(articolo ItaliaOggi
Sette del
06.11.2017). |
VARI: Illeciti
via web puniti ovunque. Si risponde dove il
danneggiato ha i propri interessi. La Corte
di giustizia europea ha deciso sulla
competenza giurisdizionale in materia.
Se si compiono atti illeciti tramite web,
parliamo di diffamazione ma non solo, si può
essere chiamati a rispondere non solo nel
Paese di residenza del danneggiato ma anche
nel luogo in cui tale persona fisica o
giuridica ha il centro dei propri interessi.
Lo dice la
sentenza 17.10.2017
causa C-194/16
della Grande sezione della Corte di
giustizia, che ha deciso la causa
che verteva proprio sulla competenza
giurisdizionale dei giudici civili per il
risarcimento del danno derivante da illeciti
commessi per il tramite della rete.
La Corte dell'Ue ha stabilito infatti che
l'interpretazione delle disposizioni
comunitarie vigenti conduce
all'identificazione della competenza del
giudice dello Stato membro nel quale la
persona fisica o giuridica ha il centro dei
propri interessi sia per le domande di
rettifica o di rimozione dei contenuti
illeciti (diffamatori, nel caso di specie),
che per quelle di risarcimento totale del
danno.
La Corte è pervenuta alle suddette
conclusioni a seguito del rinvio
pregiudiziale operato dalla Suprema corte
dell'Estonia in una controversia che vedeva
opposti una società svedese e due soggetti
estoni, diffamati su un blog dalla prima.
L'autorità estone aveva interrogato la Corte
Ue anzitutto per conoscere se la competenza
per tali fatti diffamatori potesse radicarsi
di fronte a qualsiasi Stato membro in cui
tali contenuti fossero accessibili.
Inoltre,
il tribunale estone aveva chiesto ai
magistrati di Strasburgo se per i medesimi
fatti commessi nei confronti di una persona
giuridica (nella specie una società) la
competenza a decidere dovesse o meno essere
attribuita ai giudici dello Stato ove
l'impresa ha il centro dei propri interessi,
precisando altresì –per il caso affermativo– i criteri atti a stabilire ove risiedano
detti interessi. La risposta della Corte di
giustizia, nel contesto specifico di
illeciti commessi via internet, ha offerto
un'interpretazione peculiare dell'art. 7,
punto 2, del Regolamento 1215/2012, il quale
stabilisce che in caso di illeciti civili
dolosi o colposi, una persona domiciliata
nell'Ue, può essere convenuta dianzi il
giudice del luogo in cui il fatto è
avvenuto, asserendo che una persona lesa nei
propri diritti della personalità deve essere
in grado di «esperire un'azione di
risarcimento per la totalità del danno
cagionato di fronte ai giudici dello Stato
membro in cui si trova il centro dei propri
interessi».
L'incardinazione della causa
risarcitoria nel luogo ove è sito il centro
dei propri interessi, secondo la Corte di
giustizia, rispecchia –nel caso di offese
all'onore o alla reputazione– il luogo in
cui il danno cagionato si concretizza. Lo
stesso principio vale per le lesioni
all'immagine della persona giuridica che,
ove questa svolga la parte essenziale della
propria attività economica in uno Stato
diverso da quello in cui ha la sede legale,
potrà fare riferimento al medesimo criterio
di collegamento valevole per la persona
fisica. La lettura di questa sentenza ci
porta a rilevare che la sua valenza
vincolante in tutta l'Unione europea, non si
allinea appieno con i precedenti
giurisprudenziali italiani.
Oltre alla
storica decisione Dulberg (sent. 27.12.2000, sez. V) con cui la Corte di cassazione
penale attribuì al giudice del luogo ove il
soggetto diffamato aveva preso conoscenza
dell'offesa all'onore e alla reputazione la
competenza a giudicare il reo della
diffamazione on-line, rileva –in un caso
analogo a quello preso in esame dal
tribunale di Strasburgo– la sentenza della
Corte di cassazione civile a Sezioni unite
del 13.10.2009, n. 21661, la quale,
facendo riferimento alle fattispecie di
offese comunicate a mezzo della televisione
(come pure via internet), stabilì che la
competenza civile in materia di risarcimento
del danno derivante da tali illeciti dovesse
ricercarsi nel luogo di residenza della
persona offesa, anziché nel luogo di
consumazione del reato, in quanto la persona
offesa in tale sede «sarà in grado di
attivarsi a difesa della propria reputazione
con minore dispendio di tempo e di risorse
economiche».
Appare pertanto non
ulteriormente procrastinabile il superamento
delle barriere che si frappongono al varo di
regole valevoli a livello planetario, atte a
disciplinare un fenomeno ultraterritoriale
(articolo ItaliaOggi Sette del
20.11.2017).
---------------
MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande
Sezione) dichiara:
1) L’articolo 7, punto 2, del regolamento
(UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 12.12.2012, concernente
la competenza giurisdizionale, il
riconoscimento e l’esecuzione delle
decisioni in materia civile e commerciale,
deve essere interpretato nel senso che una
persona giuridica la quale lamenti che, con
la pubblicazione su Internet di dati
inesatti che la riguardano e l’omessa
rimozione di commenti sul proprio conto,
sono stati violati i suoi diritti della
personalità, può proporre un ricorso diretto
alla rettifica di tali dati, alla rimozione
di detti commenti e al risarcimento della
totalità del danno subito dinanzi ai giudici
dello Stato membro nel quale si trova il
centro dei propri interessi.
Quando la persona giuridica interessata
esercita la maggior parte delle sue attività
in uno Stato membro diverso da quello della
sua sede statutaria, tale persona può citare
l’autore presunto della violazione sulla
base del luogo in cui il danno si è
concretizzato in quest’altro Stato membro.
2) L’articolo 7, punto 2, del regolamento n. 1215/2012 deve essere
interpretato nel senso che una persona la
quale lamenti che, con la pubblicazione su
Internet di dati inesatti che la riguardano
e l’omessa rimozione di commenti sul proprio
conto, sono stati violati i suoi diritti
della personalità, non può proporre un
ricorso diretto alla rettifica di tali dati
e alla rimozione di detti commenti dinanzi
ai giudici di ciascuno Stato membro nel cui
territorio siano o siano state accessibili
le informazioni pubblicate su Internet. |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimazione a impugnare un
permesso di costruire da parte del proprietario confinante è
sufficiente la semplice “vicinitas”, ossia la dimostrazione
di uno stabile collegamento materiale fra il suolo del
ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in
tal caso la necessità di dare dimostrazione di un
pregiudizio specifico e ulteriore.
---------------
Più in generale, il rilievo del
permesso di costruire non si esaurisce nell’ambito
pubblicistico (ossia nel rapporto fra cittadino richiedente
e p. a. concedente), ma si estende al rapporto privatistico
fra proprietari confinanti.
La normativa edilizia, infatti,
nella parte in cui impone standard costruttivi, agisce
necessariamente anche sui rapporti interprivati, il che del
resto è confermato dal fatto stesso che un soggetto che si
ritenga leso dal permesso di costruire rilasciato al
proprietario finitimo può, a sua scelta e anche
cumulativamente, impugnare l’atto autorizzativo di fronte al
g.a. e/o esperire di fronte all’a.g.o. le azioni a tutela
della proprietà, in questo secondo caso chiedendo la
disapplicazione del provvedimento autorizzativo illegittimo.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare,
hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla
tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili
nella nozione di “maggiore fruibilità dell’immobile”) sia
alla tutela dell’interesse pubblico ad un corretto e “sano”
sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede
di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare
il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici.
---------------
Preliminarmente, va esaminata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso,
per carenza d’interesse ad agire, sollevata dalla difesa
della società controinteressata Ri.Ca. s.r.l..
L’eccezione, per la cui articolazione si richiama quanto
osservato in narrativa, è, nella misura in cui pretenderebbe
di far discendere l’inammissibilità del gravame dalla
dedotta assenza di un concreto pregiudizio per la proprietà
del ricorrente, del quale è, peraltro, incontestata la
qualifica di proprietario confinante, priva di pregio,
conformemente all’orientamento prevalente della
giurisprudenza, espresso, tra le altre, nella massima
seguente: “Ai fini della legittimazione a impugnare un
permesso di costruire da parte del proprietario confinante è
sufficiente la semplice “vicinitas”, ossia la dimostrazione
di uno stabile collegamento materiale fra il suolo del
ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in
tal caso la necessità di dare dimostrazione di un
pregiudizio specifico e ulteriore” (Consiglio di Stato, sez.
V, 23/10/2013, n. 5132).
Più in generale, è stato anche rilevato che: “Il rilievo del
permesso di costruire non si esaurisce nell’ambito
pubblicistico (ossia nel rapporto fra cittadino richiedente
e p. a. concedente), ma si estende al rapporto privatistico
fra proprietari confinanti.
La normativa edilizia, infatti,
nella parte in cui impone standard costruttivi, agisce
necessariamente anche sui rapporti interprivati, il che del
resto è confermato dal fatto stesso che un soggetto che si
ritenga leso dal permesso di costruire rilasciato al
proprietario finitimo può, a sua scelta e anche
cumulativamente, impugnare l’atto autorizzativo di fronte al
g.a. e/o esperire di fronte all’a.g.o. le azioni a tutela
della proprietà, in questo secondo caso chiedendo la
disapplicazione del provvedimento autorizzativo illegittimo.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare,
hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla
tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili
nella nozione di “maggiore fruibilità dell’immobile”) sia
alla tutela dell’interesse pubblico ad un corretto e “sano”
sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede
di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare
il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici”
(TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09/04/2015, n. 1050) (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 13.10.2017 n. 1480 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI
- Deposito sul terreno di rifiuti speciali
non pericolosi - Materiale edili, sfridi di
marmo, rocce, terre di scavo - Discarica non
autorizzata - Configurabilità - Artt. 255,
256, c. 3, d.lgs. n. 152/2006.
Configura realizzazione di un discarica non
autorizzata, integrando il reato di cui
all'art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, il
reiterato deposito sul terreno di rifiuti
speciali non pericolosi costituiti da
materiale edili, sfridi di marmo, rocce,
terre di scavo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.10.2017 n. 46454 - link a www.ambietediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti -
Natura di reato "permanente" e/o "istantanea con effetti
eventualmente permanenti" - Accertamento della natura
giuridica della condotta - Decorso del termine di
prescrizione - Fattispecie: materiale proveniente da
demolizioni - Artt. 183 e 256, d.lgs. n.152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti ha natura "permanente"
se l'attività illecita è prodromica al successivo recupero o
smaltimento, delle cose abbandonate, e, quindi, la condotta
cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori
rispetto a quella del rilascio, o, invece, natura "istantanea
con effetti eventualmente permanenti", se l'attività
illecita si connota per una volontà esclusivamente
dismissiva dei rifiuti, che, per la sua episodicità,
esaurisce gli effetti della condotta fin dal momento
dell'abbandono e non presuppone una successiva attività
gestoria volta al recupero o allo smaltimento.
Ai fini dell'accertamento della natura giuridica della
condotta e, conseguentemente, del "dies a quo" per il
decorso del termine di prescrizione, costituiscono
significativi indici rivelatori della permanenza la
sistematica pluralità di azioni di identico o analogo
contenuto ovvero la pertinenza del rifiuto al circuito
produttivo dell'agente (Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014 -
dep. 15/07/2014, Ottonello) (nella specie la quantità dei
rifiuti, la eterogeneità degli stessi ed il luogo, depongono
per la non episodicità della condotta. Nell'area risultava
depositato, in modo sparso, materiale proveniente da
attività edilizia e rocce da scavo; quindi in considerazione
della natura disomogenea dei vari cumuli di rifiuti, il
giudice di merito escludeva che gli stessi potessero essere
oggetto di attività di recupero di rifiuti prodotti in loco)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.10.2017 n. 46355
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Notifica via posta, ricevuta
essenziale.
Ai fini del perfezionamento della notifica
di un atto tributario eseguita a mezzo
posta, nonché della sua dimostrazione in
sede di giudizio, l'avviso di ricevimento è
prova essenziale e la dichiarazione di
avvenuta consegna del plico, certificata dal
direttore dell'ufficio postale, non può
ritenersi documento equipollente al primo.
È quanto si legge nell'ordinanza
06.10.2017 n. 23470 della Corte di
Cassazione, Sez. VI civile.
Il caso riguarda un eccepito difetto di
notifica, in relazione a un'intimazione di
pagamento avente come presupposto una
cartella di natura erariale. I gradi di
merito si concludevano in senso favorevole
alla parte contribuente, innescando il
ricorso per Cassazione proposto dall'agente
della riscossione contro la sentenza emessa
dalla Ctr di Bari.
In particolare, i giudici
d'appello non avevano ritenuto valida
l'attestazione di avvenuta consegna del
plico contenente l'atto impugnato, redatta
dal direttore dell'ufficio postale di
recapito della raccomandata, in presenza
dello smarrimento dell'originale dell'avviso
di ricevimento, sottoscritto da
destinatario.
La Corte di cassazione ha rigettato il
ricorso, ritenendo non validamente provata
la notifica dell'atto tributario, poiché la
stessa, se eseguita a mezzo posta, può
essere dimostrata soltanto attraverso
l'esibizione dell'avviso di ricevimento o di
un suo duplicato. All'uopo l'attestazione
del direttore dell'ufficio postale non può
ritenersi equipollente al duplicato di cui
all'art. 8 del dpr n. 655/82, poiché non
reca la sottoscrizione del ricevente, né dà
conto delle circostanze della consegna. Il
citato articolo 8, infatti, prevede che «in
caso di smarrimento dell'avviso
l'interessato non ha diritto ad alcuna
indennità, ma può richiedere alla
Amministrazione che gli venga rilasciato
gratuitamente un duplicato dell'avviso
stesso firmato dal destinatario o munito
della dichiarazione di cui al primo comma».
In sostanza, la Cassazione ha indicato la
via che l'agente della riscossione avrebbe
dovuto seguire, per sopperire allo
smarrimento dell'avviso di ricevimento: la
citata norma consente di richiedere
all'ufficio postale un duplicato dell'avviso
di ricevimento, documento che si può
utilizzare per comprovare l'avvenuta
notifica. Qualunque altro mezzo, invece,
risulta inefficace.
Al rigetto del ricorso, la Suprema corte ha
fatto seguire una significativa condanna
alle spese di giudizio, a carico del
ricorrente agente della riscossione.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con ricorso in Cassazione affidato a un
motivo, nei cui confronti la parte
contribuente ha resistito con controricorso,
l'agente della riscossione impugnava la
sentenza della Ctr della Puglia, relativa a
un avviso d'intimazione per Irpef 2007,
lamentando la violazione degli artt. 19 e 21
del dlgs n. 546/1992 e dell'art. 26 del dpr n.
602/1973, nonché dell'art. 8 del dpr n.
655/1982, in relazione all'art. 360, primo
comma, n. 3 c.p.c., in quanto, erroneamente i
giudici d'appello non avrebbero ritenuta
valida l'attestazione di avvenuta consegna
del plico contenente l'atto impugnato,
redatta dal direttore dell'ufficio postale
di recapito della raccomandata, in presenza
dello smarrimento dell'originale dell'avviso
di ricevimento, sottoscritto da
destinatario.
Il collegio ha deliberato di
adottare la presente decisione in forma
semplificata In via preliminare, il ricorso
è inammissibile, per difetto di
autosufficienza, ex art. 366, primo comma, n.
6 c.p.c., in quanto, la parte ricorrente non
ha riportato in ricorso, né indicato la
collocazione topografica nell'ambito della
documentazione afferente alle fasi di
merito, della predetta attestazione
rilasciata dal direttore dell'ufficio
postale, così da mettere in condizione
questa Corte di esaminare tale documento al
fine del giudizio di equipollenza con
l'originale smarrito.
Nel merito, il motivo
sarebbe, comunque, infondato, in quanto è
insegnamento di questa Corte quello secondo
cui: «La notifica a mezzo del servizio
postale non si esaurisce con la spedizione
dell'atto, ma si perfeziona con la consegna
del relativo plico al destinatario e
l'avviso di ricevimento prescritto dall'art.
149 cod. proc. civ. è il solo documento
idoneo a provare sia l'intervenuta consegna,
sia la data di essa, sia l'identità della
persona a mani della quale è stata eseguita;
ne consegue che, ove tale mezzo sia stato
adottato per la notifica dell'avviso di
accertamento, la mancata produzione
dell'avviso di ricevimento comporta
conseguentemente l'invalidità della
notifica, e l'illegittimità della cartella
di pagamento basata sull'avviso di
accertamento, in quanto non preceduta dalla
regolare notifica al contribuente
dell'avviso predetto» (Cass. ordd. nn.
14861/2012, 2790/2016, 23213/2014).
Nel caso di
specie, la decisione della Ctr si pone in
evidente contrasto con il principio di
diritto sopra enunciato, in quanto,
l'attestazione del direttore dell'ufficio
postale non è equipollente al duplicato di
cui all'art. 8 del dpr n. 655/1982, in
quanto non reca la sottoscrizione del
ricevente, né dà conto delle circostanze
della consegna. Le spese di lite seguono la
soccombenza e sono liquidate come in
dispositivo
(articolo ItaliaOggi
Sette del
06.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo giurisprudenza consolidata, il ricorso
proposto nei confronti di un Comune per l’annullamento di
una concessione edilizia ottenuta dal vicino in asserita
violazione delle norme sulle distanze legali investe un
rapporto pubblicistico con l’ente territoriale e tutela un
interesse legittimo all’uso del potere urbanistico in modo
conforme a legge, di talché la relativa controversia rientra
nella giurisdizione del giudice amministrativo, a differenza
di quelle eventualmente instaurate tra privati proprietari
per l’accertamento dei presupposti per far luogo alla
riduzione in pristino o al risarcimento del danni, che
spettano, invece, alla cognizione del giudice ordinario.
---------------
Per giurisprudenza assolutamente consolidata, ai fini della
decorrenza del termine di impugnazione di una concessione
edilizia da parte di terzi l'effetto lesivo si atteggia
diversamente a seconda che si contesti l'illegittimità del
permesso di costruire per il solo fatto che esso sia stato
rilasciato (ad esempio, per contrasto con l'inedificabilità
assoluta dell'area) ovvero che si contesti il contenuto
specifico del progetto edilizio per presunta violazione
delle distanze minime tra fabbricati.
In questo secondo caso, il mero inizio dei lavori non è
sufficiente -da solo- a far decorrere il termine di
impugnazione, in quanto esso non contiene informazioni
sufficienti sul contenuto specifico del progetto edilizio
assentito, atte a farne immediatamente percepire l'effetto
concretamente lesivo per il soggetto terzo interessato.
Ne consegue che "la piena conoscenza” idonea a far decorrere
il termine per l'impugnazione di un permesso di costruire,
in difetto della prova della reale conoscenza dei caratteri
del progetto assentito, può ritenersi raggiunta solo con il
completamento quando le opere abbiano oggettivamente
raggiunto una consistenza tali da renderne chiara
l'illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive
del confinante.
---------------
Va adesso esaminata l'eccezione di difetto di giurisdizione
sollevata dalla controinteressata secondo la quale,
concernendo le censure di parte ricorrente le modalità di
esecuzione dell'opera e, segnatamente, il mancato rispetto
delle distanze tra edifici, la controversia spetterebbe alla
cognizione del giudice ordinario.
L'eccezione è infondata e va disattesa atteso che, secondo
giurisprudenza consolidata, il ricorso proposto nei
confronti di un Comune per l’annullamento di una concessione
edilizia ottenuta dal vicino in asserita violazione delle
norme sulle distanze legali investe un rapporto
pubblicistico con l’ente territoriale e tutela un interesse
legittimo all’uso del potere urbanistico in modo conforme a
legge, di talché la relativa controversia rientra nella
giurisdizione del giudice amministrativo, a differenza di
quelle eventualmente instaurate tra privati proprietari per
l’accertamento dei presupposti per far luogo alla riduzione
in pristino o al risarcimento del danni, che spettano,
invece, alla cognizione del giudice ordinario (cfr. Cass.
civ. Sez. Unite, 22.092016, n. 18571 e giurisprudenza ivi
citata; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 678).
E’ infondata anche l’eccezione di tardività formulata
dall’amministrazione comunale e dalla controinteressata
poiché per giurisprudenza assolutamente consolidata ai fini
della decorrenza del termine di impugnazione di una
concessione edilizia da parte di terzi l'effetto lesivo si
atteggia diversamente a seconda che si contesti
l'illegittimità del permesso di costruire per il solo fatto
che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con
l'inedificabilità assoluta dell'area) ovvero che -come nel
caso di specie- si contesti il contenuto specifico del
progetto edilizio per presunta violazione delle distanze
minime tra fabbricati; in questo secondo caso, il mero
inizio dei lavori non è sufficiente -da solo- a far
decorrere il termine di impugnazione, in quanto esso non
contiene informazioni sufficienti sul contenuto specifico
del progetto edilizio assentito, atte a farne immediatamente
percepire l'effetto concretamente lesivo per il soggetto
terzo interessato; ne consegue che "la piena conoscenza”
idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione di un
permesso di costruire, in difetto della prova della reale
conoscenza dei caratteri del progetto assentito, può
ritenersi raggiunta solo con il completamento quando le
opere abbiano oggettivamente raggiunto una consistenza tali
da renderne chiara l'illegittimità e la lesività per le
posizioni soggettive del confinante (tra le tante, cfr.
Consiglio di Stato, Ad. Plen. 29.07.2011, n. 15; Cons.
Stato, sez. IV, 25.07.2016, n. 3319 e 31.07.2008, n. 3849;
sez. VI, 16.09.2011, n. 5170) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 05.10.2017 n. 2303 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le norme sulle
distanze legali –la cui inderogabilità è strettamente
connessa all’interesse pubblico presidiato dalla norma che è
quello della salubrità dell'edificato e che non va confuso
con l'interesse del frontista a mantenere la riservatezza o
la prospettiva- si applicano soltanto agli edifici che si
fronteggiano.
---------------
Il limite di distanza, di cui all’art. 9, primo comma, n. 2,
D.M. n. 1444/1968, si computa con riferimento ad ogni punto
dei fabbricati e non anche alle sole parti che si
fronteggiano e prescindendo dal fatto che essi siano o meno
in posizione parallela.
---------------
il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una
abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico non
può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo
sempre fornire il ricorrente, in casi come quello in esame,
la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti
impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad
esempio, di concreta compromissione del diritto alla salute
ed all'ambiente e, in tale direzione, non è dato comprendere
quale sarebbe l'interesse concreto e attuale del ricorrente
a dolersi della violazione delle distanze tra l’erigendo
fabbricato e altre costruzioni di proprietà di terzi (cfr.
anche Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2016, n. 265 sui principi
della “giurisdizione soggettiva” ove si afferma che il
ricorso non è mera "occasione" del sindacato giurisdizionale
sull'azione amministrativa e che “la verifica della
legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non
va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è
finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa
sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte
attrice”).
---------------
Quanto all’eccezione
d’inammissibilità del ricorso formulata dalle parti
resistenti in relazione all’allocazione della erigenda opera
rispetto all’immobile di proprietà del ricorrente (che
secondo le parti resistenti non sarebbe “frontista”),
sono necessarie alcune preliminari precisazioni tenuto conto
in particolare che le norme sulle distanze legali –la cui
inderogabilità è strettamente connessa all’interesse
pubblico presidiato dalla norma che è quello della salubrità
dell'edificato e che non va confuso con l'interesse del
frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva (
cfr. tra le tante, Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n.
4374)- si applicano soltanto agli edifici che si
fronteggiano (Corte di Cassazione, Sezione II, 04.03.2011,
n. 5158).
Innanzitutto, in punto di fatto, va chiarito che il lato
dell’erigendo edificio posizionato sulla via A. De Gasperi
si colloca in posizione antistante a quello del ricorrente e
fronteggia sul predetto lato, sebbene in modo parziale,
l’immobile del ricorrente; ciò si evince chiaramente dagli
elaborati prodotti dalle parti, e la pur parziale “sovrapposizione
di circa cm. 50 con l'edifico del ricorrente” rilevata
dal verificatore non incide sulla qualità di “frontista”
del ricorrente, tenuto conto che il limite di distanza, di
cui all’art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, si
computa con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non
anche alle sole parti che si fronteggiano e prescindendo dal
fatto che essi siano o meno in posizione parallela (cfr, tra
le tante, Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015 n. 2661); il
ricorrente non è, invece, frontista rispetto agli altri 3
lati dell’erigendo edificio identificati come lato via
Petrarca, lato Nord e lato Sud, nei confronti dei quali
viene meno il requisito di partenza per l'applicazione
dell'invocata normativa sulle distanze, che è -come detto-
la natura frontistante delle pareti, con conseguente
inammissibilità, in parte qua, del ricorso, per
difetto di legittimazione attiva e per carenza d’interesse.
A tale riguardo, e tenuto conto delle specifiche censure
riguardanti la violazione delle norme sulle distanze, va
precisato che il mero criterio della vicinitas di un
fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento
urbanistico non può ex se radicare la legittimazione
al ricorso, dovendo sempre fornire il ricorrente, in casi
come quello in esame, la prova concreta del vulnus
specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera
giuridica, in termini, ad esempio, di concreta
compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente
(Cons. Stato Sez. IV, 01.07.2013 n. 3543; 05.06.2012, n.
3300; 30.11.2010, n. 8364) e, in tale direzione, non è dato
comprendere quale sarebbe l'interesse concreto e attuale del
ricorrente a dolersi della violazione delle distanze tra
l’erigendo fabbricato e altre costruzioni di proprietà di
terzi (cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2016, n. 265
sui principi della “giurisdizione soggettiva” ove si
afferma che il ricorso non è mera "occasione" del sindacato
giurisdizionale sull'azione amministrativa e che “la
verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi
impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale,
ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della
pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte
attrice”).
Per la rimanente parte il ricorso è infondato.
Non sussiste alcuna violazione delle distanze tra le pareti
dell’immobile del ricorrente e le pareti f.t. dell’erigendo
edificio sulla via A. De Gasperi dato che la distanza tra le
predette pareti è di metri 20,50 e rispetta quindi sia “la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”, ex art 9, comma 1° n. 2)
del DM 1444/1968, sia la “distanze minima” di metri
19,50 (metri 12 di sede stradale + metri 7,50 per lato della
sede stradale) ex art. 9, comma 1°, n. 3) del citato D.M..
Per ciò che riguarda, invece, il muro perimetrale del piano
seminterrato, la distanza tra questo e l’edificio del
ricorrente è di metri 18,60, quindi il progetto pur
rispettando la distanza minima assoluta di 10 metri tra
pareti finestrate, non rispetterebbe la maggiore distanza di
metri 19,50 in presenza di strada pubblica interposta tra i
due edifici; va tuttavia rilevato che il muro perimetrale
del piano interrato con altezza variabile da metri 0,00 a
metri 1,20 corrispondente alla pendenza del terreno
dislivello del terreno non possa essere qualificato –in
ragione delle oggettive caratteristiche costruttive rilevate
dal verificatore– quale “costruzione” soggetta al
rispetto delle distanze, atteso che la parte emergente di
detto muro (metri 1,20 nella parte più alta ) “risulta
funzionale al solo livellamento del terreno” che come
sopra rilevato “in corrispondenza del tratto antistante
la via Alcide de Gasperi presenta una pendenza di metri 1,20”
( v. pagg. 11-12 relazione di verificazione), mentre non c’è
in atti alcuna prova oggettiva che il dislivello sia stato
creato artificialmente.
Ne consegue l’infondatezza di tutti i rilievi concernenti la
violazione delle distanza tra edifici e i distacchi dalla
sede stradale calcolati dal muro perimetrale seminterrato e
non dalla parete fuori terra del costruendo edificio
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 05.10.2017 n. 2303 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianto di
autolavaggio - Smaltimento delle acque reflue -
Autorizzazione - Necessità - Art. 137 dlgs n. 152/2006 -
RIFIUTI - Trattamento dei fanghi - Contratto con una ditta
specializzata - Ininfluenza.
In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, integra la
fattispecie prevista dall'art. 137 del decreto Legislativo
n. 152 del 2006 lo scarico, (nella specie: impianto di
autolavaggio), delle acque reflue nella rete fognaria in
assenza della prescritta autorizzazione, a prescindere dalla
esistenza o meno di un contratto con una ditta specializzata
per il trattamento dei fanghi derivanti dallo svolgimento
dell'attività (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2017 n. 44439
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EDILIZIA PRIVATA:
L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale
delle opere abusive, prevista dall'art. 7, comma 3, della
legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380
del 2001) è un atto dovuto senza alcun contenuto
discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge
(novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi.
Dopo aver accertato l'inottemperanza all'ordine di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, il
provvedimento di acquisizione gratuita delle opere abusive e
dell'area di sedime è quindi consequenziale e dunque non
autonomamente impugnabile in mancanza di tempestiva
impugnazione dell'ordine stesso.
---------------
In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario, la posizione di quest'ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del
1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che
risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto
al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che,
essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
---------------
6. L’appello non è fondato.
7. Il Tar nella sentenza impugnata correttamente rileva
l’inammissibilità del ricorso in ragione della mancata
impugnativa degli atti presupposti al provvedimento con il
quale il Comune ha poi disposto l’acquisizione delle opere
abusive e dell’area di sedime al suo patrimonio.
8. In sostanza, la determinazione comunale di acquisizione
del prefabbricato abusivo, avente dimensioni di mt. 15,60
per m. 7,20, e dell’area di sedime e di pertinenza dello
stesso manufatto, per un’estensione catastale di mq 1047, è
stata la diretta ed inevitabile conseguenza dei
provvedimenti con i quali la stessa Amministrazione comunale
ha respinto la sua domanda di sanatoria ed ha ingiunto la
demolizione.
9. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle
opere abusive, prevista dall'art. 7, comma 3, della legge
28.02.1985 n. 47 (ora art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380 del
2001) è infatti un atto dovuto senza alcun contenuto
discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento
dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge
(novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino
dello stato dei luoghi (cfr. ex multis, Cons. Stato,
sez. V, 18.12.2002, n. 7030).
10. Dopo aver accertato l'inottemperanza all'ordine di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi il
25.09.2001 ed ancora il 27.04.2004, il provvedimento di
acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di
sedime è stato quindi consequenziale e dunque non
autonomamente impugnabile in mancanza di tempestiva
impugnazione dell'ordine stesso (cfr. Cons. Stato, sez. V,
24.03.2011, n. 1793).
12. Né rileva in senso contrario quanto dichiarato
dall’appellante in ordine alla sua estraneità all’abuso
commesso. Sul punto, infatti, va evidenziato che in materia
di abusi edilizi commessi da persona diversa dal
proprietario, la posizione di quest'ultimo può ritenersi
neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del
1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento
all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area
di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che
risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto
al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che,
essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per
impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2016, n. 358).
11. Nel caso di specie tutto ciò non risulta avvenuto, anzi
l’appellante ha proposto, insieme all’indicato responsabile
dell’abuso, due domande di sanatoria per le opere realizzate
in assenza di titolo, la prima l’11.06.2001 (respinta con il
citato provvedimento del 25.06.2001) e la seconda il
24.09.2001.
12. Relativamente a quest’ultima istanza, cui l’appellante
fa riferimento per invocare la sospensione dei procedimenti
sanzionatori, va poi osservato che la stessa è stata
comunque archiviata dal Comune, essendo meramente ripetitiva
di quella in precedenza presentata (cfr. provvedimento n.
16482 del 01.10.2001).
13. Il provvedimento di acquisizione impugnato, peraltro, è
stato adottato nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 7,
comma 3, della legge n. 47 del 1985 per l’individuazione
dell’area interessata (non superiore a dieci volte la
complessiva superficie utile abusivamente costruita).
14. Non essendo pertanto utilmente censurata la sentenza
appellata, il ricorso va respinto e per l’effetto la stessa
va confermata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.09.2017 n. 4547 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
Multe in salita.
Non valgono le multe in città per eccesso di
velocità se la strada è carente di una
corsia di emergenza. Ovvero di una banchina
idonea alla sosta occasionale dei veicoli.
Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Firenze, Sez.
II civile, con la
sentenza
26.09.2017 n. 3055.
Il controllo automatico dell'eccesso di
velocità in centro abitato è ammesso solo
sulle strade urbane di scorrimento. Ovvero
sulle strade con caratteristiche simili alle
superstrade.
Anche se il codice stradale non specifica
nulla sulla dimensione della banchina a
parere del tribunale l'assimilazione tra
corsia di emergenza e la banchina deriva
dalla classificazione dell'autostrada.
Dunque se anche la banchina deve esser
dedicata alla sosta di emergenza una strada
urbana di scorrimento senza una banchina
larga perde questa classificazione. E
l'autovelox non può sanzionare in automatico
(articolo ItaliaOggi
Sette del
06.11.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Senza verbale non c'è punizione.
Tar Lazio sul locale notturno troppo
chiassoso.
Non basta fare visita al locale notturno che
continua imperterrito a somministrare alcol
anche oltre alle due di notte per ottenere
una adeguata misura punitiva. Se infatti la
polizia municipale non redige nemmeno un
verbale l'ordine di chiusura del locale
resterà sulla carta.
Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, con
la
sentenza
25.09.2017 n. 9891.
Una pattuglia della polizia locale di Roma
capitale ha pizzicato il gestore di locale
notturno che somministrava alcol oltre al
limite orario consentito dalla legge.
A seguito di questo accertamento gli agenti
non hanno però redatto alcun verbale
limitandosi a relazionare qualche mese dopo
alla locale prefettura che ha poi disposto
l'ordine di chiusura temporaneo
dell'esercizio commerciale. Contro questa
determinazione punitiva l'interessato ha
proposto con successo ricorso al Tar.
Non basta accertare una violazione e
relazionare all'ufficio territoriale del
governo per formalizzare la violazione
prevista dall'art. 6/2° della legge n.
160/2007. Il trasgressore non è stato
infatti messo nella condizione di
partecipare all'accertamento e per questo
motivo l'ordine del prefetto deve essere
annullato
(articolo ItaliaOggi
Sette del
06.11.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: Sulle
moto fuoristrada decide la regione.
Il divieto di circolazione in collina con i
mezzi fuoristrada lo adotta la regione. Ma
in questo caso non si applicano le regole
stradali e quindi le multe sono salate e
differenziate.
Lo ha evidenziato il TAR Piemonte, Sez. I,
con la
sentenza 09.08.2017 n. 965.
La regolazione dell'uso dei mezzi
fuoristrada non è mai stata definitivamente
chiarita dal legislatore. Da una parte c'è
chi ritiene, come la Federazione
motociclisti italiani, che anche sui
sentieri e sulle strade sterrate valgano le
regole del codice della strada che prevede
una generale libertà di circolazione, salvo
indicazioni contrarie adeguatamente
segnalate.
A parere del collegio, invece, nel caso
sottoposto all'esame del Tar trovano
applicazione le disposizioni regionali circa
l'uso del territorio e la protezione
dell'habitat naturale. Dunque spetterà alla
regione regolare la circolazione dei veicoli
fuoristrada sulle strade sterrate adottando
disposizioni ad hoc.
Come quelle della regione Piemonte che tra
l'altro consentono ai singoli comuni di
introdurre deroghe al generale divieto di
circolazione ma solo su tracciati
permanenti, previa adeguata valutazione
dell'impatto ambientale
(articolo ItaliaOggi del
08.12.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel provvedimento di annullamento della d.i.a., oltre a
richiamarsi tutti gli atti allo stesso presupposti, si è
evidenziato come la violazione delle distanze tra le
costruzioni e la presenza di soggetti controinteressati
fossero elementi sufficienti a determinare un tale esito,
ciò anche sul presupposto dell’assenza di un affidamento
meritevole di tutela, tenuto pure conto del contenzioso
instaurato in sede civile.
Invero, la normativa in materia di autotutela e le garanzie
contenute nella stessa hanno la finalità di tutelare i
soggetti incolpevoli e in buona fede, ma certamente non può
andare a vantaggio di coloro che hanno deliberatamente posto
in essere dei comportamenti in violazione di precetti
giuridici, soprattutto laddove tali prescrizioni siano
finalizzata a tutelare interessi superindividuali, come
quelli legati all’ordinato assetto del territorio e al
corretto esercizio dell’attività edilizia.
In ogni caso vale rammentare che l’eliminazione d’ufficio di
un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato, non necessita di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non
sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato.
---------------
Il mancato completamento
delle pratiche edilizie ha impedito il consolidarsi del
titolo edilizio e quindi nulla poteva precludere
all’Amministrazione di intervenire in autotutela a
dichiarare l’invalidità della d.i.a.
È pacifico, infatti,
che i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa
essere produttiva di effetti sono la completezza e la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di
trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la
dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto
dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta,
sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal
potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori.
---------------
Nemmeno è fondata l’eccepita sopravvenuta possibilità
di realizzare l’intervento edilizio ai sensi dell’art. 30
del decreto legge n. 69 del 2013 –peraltro solo affermata,
ma non dimostrata–, giacché, di regola, è richiesto il
rispetto del requisito della doppia conformità laddove si
intenda sanare un manufatto abusivo.
La domanda finalizzata
al rilascio del permesso di costruire in sanatoria richiedeva, quindi, la previa
verifica della sussistenza della c.d. doppia conformità,
ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica
ed edilizia sia al momento delle realizzazione
dell’intervento che al momento della sanatoria, quale
requisito imprescindibile ai fini del rilascio della
sanatoria di opere edilizie, certamente non sussistente
nella fattispecie de qua.
---------------
Laddove ci si trovi al cospetto di attività vincolata, come
quella relativa alla procedura di sanatoria di cui al caso
de quo, non è necessaria la comunicazione del preavviso di
diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, atteso
che tale garanzia non è invocabile in relazione a
provvedimenti di carattere vincolato, né risulta applicabile
a procedimenti connotati, ex lege, da tratti di assoluta
specialità, quale si configura, appunto, la procedura di
condono edilizio.
---------------
4. Con il complesso delle censure contenute nei due ricorsi –fatta eccezione per quella rubricata al n. 2 del ricorso
R.G. n. 1226/2016, da scrutinare singolarmente– si assume
l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto
adottati in palese contrasto con le prescrizioni contenute
nell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, ossia in
violazione di un limite temporale ragionevole e in assenza
della esplicitazione di un interesse pubblico concreto e
attuale all’annullamento del titolo; oltretutto il permesso
di costruire presentato nel 2007 sarebbe stato integrato in
maniera adeguata in data 15.03.2010 dal dante causa dei
ricorrenti e ciò avrebbe consentito di procedere alla
ristrutturazione edilizia dell’immobile anche mediante
demolizione integrale e ricostruzione nel rispetto della
sagoma, non risultando pertinente le circostanze afferenti
alla distanza con il fabbricato sito in Via Ampere n. 109 e
al connesso contenzioso in sede civile.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Come ammesso dal tecnico del dante causa dei ricorrenti con
l’istanza del 15.03.2010 (all. 16 del Comune), le opere
realizzate in esito alla presentazione della d.i.a. del 2002
sono “in contrasto con la normativa vigente”, ovvero sia con
l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 che con l’art. 27 del
Regolamento edilizio, avuto riguardo al confinante edificio
di Via Ampere n. 109; la corretta conformazione delle stesse
avrebbe richiesto la demolizione e il contestuale
arretramento di una parte della struttura e una modifica
delle fondazioni, che la parte istante chiede di trasformare
in sanzioni di tipo pecuniario.
Anche in data 18.02.2008, è stata redatta una relazione da parte del tecnico
progettista che ha ammesso un aumento di volumetria e la
violazione delle distanze con il fabbricato sito in Via
Ampere n. 109 (all. 25 del Comune). Inoltre va richiamata la
sentenza della Corte d’Appello di Milano, II, 28.08.2012, n. 2829, che ha condannato il dante causa dei
ricorrenti alla parziale demolizione di alcuni manufatti
proprio per la violazione delle distanze tra fabbricati
(all. 23 del Comune).
Pertanto, all’accertata abusività delle opere edilizie
consegue la legittimità sia dell’annullamento del titolo
abilitativo che dell’ordine di demolizione delle stesse,
senza che residui in capo all’Amministrazione alcun margine
di discrezionalità; nel caso di specie poi, oltre alle
espresse ammissioni di parte, si sono susseguiti tutti gli
innumerevoli atti comunali, in precedenza richiamati, che in
un rilevante lasso di tempo hanno cercato di indurre il
dante causa dei ricorrenti a conformare l’intervento
edilizio sia alla normativa sulle distanze che alle
disposizioni scaturenti dalle pronunce dei giudici civili.
Nessuna posizione di buona fede, quindi, può ritenersi
maturata in capo al dante causa dei ricorrenti, con il
conseguente venir meno di qualsiasi ipotesi di legittimo e
incolpevole affidamento, che invece presuppone
l’accertamento di un comportamento improntato ai canoni
della lealtà e della salvaguardia tipici della buona fede in
capo al privato (Consiglio di Stato, IV, 17.05.2012, n.
2852; TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170;
14.04.2017, n. 879; in senso contrario, Consiglio di
Stato, IV, ord. 19.04.2017, n. 1830).
Del resto, il Comune piuttosto che inibire in radice
l’intervento edilizio ha cercato in più occasioni di indurre
la parte privata a conformarlo alla normativa edilizia, ma
tali tentativi non sono mai andati a buon fine (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170).
Nel provvedimento di annullamento della d.i.a., oltre a
richiamarsi tutti gli atti allo stesso presupposti, si è
evidenziato come la violazione delle distanze tra le
costruzioni e la presenza di soggetti controinteressati
fossero elementi sufficienti a determinare un tale esito,
ciò anche sul presupposto dell’assenza di un affidamento
meritevole di tutela, tenuto pure conto del contenzioso
instaurato in sede civile: la normativa in materia di
autotutela e le garanzie contenute nella stessa hanno la
finalità di tutelare i soggetti incolpevoli e in buona fede,
ma certamente non può andare a vantaggio di coloro che hanno
deliberatamente posto in essere dei comportamenti in
violazione di precetti giuridici, soprattutto laddove tali
prescrizioni siano finalizzata a tutelare interessi
superindividuali, come quelli legati all’ordinato assetto
del territorio e al corretto esercizio dell’attività
edilizia (Consiglio di Stato, IV, 31.08.2016, n. 3735).
In ogni caso vale rammentare che l’eliminazione d’ufficio di
un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto
dell’interessato, non necessita di un’espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non
sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti
proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
(TAR Campania, Napoli, IV, 13.12.2016, n. 5726).
4.2. Inoltre va sottolineato come il mancato completamento
delle pratiche edilizie ha impedito il consolidarsi del
titolo edilizio e quindi nulla poteva precludere
all’Amministrazione di intervenire in autotutela a
dichiarare l’invalidità della d.i.a. È pacifico, infatti,
che i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa
essere produttiva di effetti sono la completezza e la
veridicità delle dichiarazioni contenute
nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di
trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la
dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto
dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta,
sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal
potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori
(TAR Puglia, Bari, III, 30.05.2017, n. 560; TAR
Campania, Napoli, III, 13.01.2016, n. 140).
4.3. Nemmeno è fondata l’eccepita sopravvenuta possibilità
di realizzare l’intervento edilizio ai sensi dell’art. 30
del decreto legge n. 69 del 2013 –peraltro solo affermata,
ma non dimostrata–, giacché, di regola, è richiesto il
rispetto del requisito della doppia conformità laddove si
intenda sanare un manufatto abusivo. La domanda finalizzata
al rilascio del permesso di costruire in sanatoria (pratica
8995/2007: all. 4 al ricorso), richiedeva quindi la previa
verifica della sussistenza della c.d. doppia conformità,
ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica
ed edilizia sia al momento delle realizzazione
dell’intervento che al momento della sanatoria, quale
requisito imprescindibile ai fini del rilascio della
sanatoria di opere edilizie, certamente non sussistente
nella fattispecie de qua (cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194; TAR Lombardia, Milano, II, 30.05.2017, n. 1211).
4.4. Ciò determina il rigetto delle scrutinate doglianze,
contenute in entrambi i ricorsi.
5. Con una ulteriore censura –rubricata al n. 2 del ricorso
R.G. n. 1226/2016– si assume la violazione dell’art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990, giacché il preavviso di
rigetto, con annessa richiesta di integrazione documentale,
sarebbe stato inviato al dante causa dei ricorrenti in un
momento in cui lo stesso era già defunto e il Comune non
avrebbe poi rinnovato la comunicazione agli eredi.
5.1. La doglianza è infondata.
Laddove ci si trovi al cospetto di attività vincolata, come
quella relativa alla procedura di sanatoria di cui al caso
de quo, non è necessaria la comunicazione del preavviso di
diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, atteso
che tale garanzia non è invocabile in relazione a
provvedimenti di carattere vincolato, né risulta applicabile
a procedimenti connotati, ex lege, da tratti di assoluta
specialità, quale si configura, appunto, la procedura di
condono edilizio (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.02.2016, n. 505; TAR Lombardia, Milano, II, 29.06.2016,
n. 1312).
Oltretutto non risulta che al Comune sia stato comunicato il
decesso del dante causa dei ricorrenti e che questi ultimi
si siano premurati di intervenire spontaneamente nel
procedimento di sanatoria attivato.
5.2. Pertanto la censura va respinta (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 28.07.2017 n. 1706 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Legittimo
modificare l'utile atteso dell'offerta. Se
si riduce, l'impresa può intervenire.
Legittimo modificare l'utile atteso di una
offerta per una gara d'appalto se si deve
giustificare il ribasso eccessivo.
È quanto ha precisato il TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, con la
sentenza 21.07.2017 n. 1657
che affronta il tema del giudizio di
congruità di una offerta economica e delle
giustificazioni addotte dal concorrente.
I giudici premettono che se è vero che il
concorrente sottoposto a valutazione non può
fornire «giustificazioni tali da integrare
un'operazione di finanza creativa,
modificando, in aumento o in diminuzione, le
voci di costo e mantenendo fermo l'importo
finale», è però anche vero che ciò non
esclude che l'offerta possa essere
modificata rispetto all'utile atteso, che
può essere ridotto.
In ogni caso, si legge nella sentenza, resta
fermo il principio per cui in un appalto
l'offerta, una volta presentata, non è
suscettibile di modificazione, pena la
violazione della par condicio tra i
concorrenti, ma questo non toglie che,
avendo la verifica di anomalia la finalità
di stabilire se l'offerta sia, nel suo
complesso e nel suo importo originario,
affidabile o meno, «il giudizio di anomalia
deve essere complessivo e deve tenere conto
di tutti gli elementi, sia di quelli che
militano a favore, sia di quelli che
militano contro l'attendibilità dell'offerta
nel suo insieme».
E' quindi legittimo che, a fronte di
determinate voci di prezzo giudicate
eccessivamente basse e dunque inattendibili,
l'impresa possa dimostrare che, per
converso, altre voci sono state inizialmente
sopravvalutate e che in relazione alle
stesse è in grado di conseguire un concreto,
effettivo, documentato e credibile
risparmio, che compensa il maggior costo di
altre voci.
Anche in relazione a quanto affermato dalla
giurisprudenza i giudici lombardi ritengono
quindi legittimo un aggiustamento di singole
voci di costo, che trovi il suo fondamento
in sopravvenienze di fatto o normative, che
comportino una riduzione dei costi, o in
originari e comprovati errori di calcolo, o
in altre ragioni plausibili; è anche
pacificamente ammesso che l'impresa possa
intervenire riducendo l'utile esposto, a
condizione che tale voce non risulti del
tutto azzerata
(articolo ItaliaOggi del
28.07.2017).
---------------
MASSIMA
- in relazione ai profili da ultimo
esaminati, vale ricordare che, per
consolidata giurisprudenza (cfr. di recente
TAR Lombardia Milano, sez. IV, 12.01.2017,
n. 63, che riprende un orientamento più
volte ribadito dal Tribunale e condiviso
dalla prevalente giurisprudenza):
a) in sede di apprezzamento dell’offerta anomala,
così come in sede di giudizio di congruità
dell’offerta in sé non eccedente la soglia
di anomalia, il concorrente sottoposto a
valutazione non può fornire giustificazioni
tali da integrare un’operazione di “finanza
creativa”, modificando, in aumento o in
diminuzione, le voci di costo e mantenendo
fermo l’importo finale; nondimeno, ciò non
esclude che l’offerta possa essere
modificata in taluni suoi elementi,
compresi, in particolare, quelli relativi
all’utile atteso, che può essere ridotto
(cfr. tra le tante TAR Lazio Roma, sez. II,
26.09.2016, n. 9927; TAR Lombardia Milano,
sez. IV, 01.06.2015, n. 1287; Consiglio di
Stato, sez. IV, 07.11.2014, n. 5497; Tar
Lombardia Milano, sez. III, 03.12.2013, n.
2681; Consiglio di Stato, Sez. IV,
07.02.2012, n. 636; Consiglio di Stato, Sez.
VI, 21.05.2009, n. 3146);
b) resta fermo il principio per cui in un appalto
l’offerta, una volta presentata, non è
suscettibile di modificazione -pena la
violazione della par condicio tra i
concorrenti– ma ciò non toglie che, avendo
la verifica di anomalia la finalità di
stabilire se l’offerta sia, nel suo
complesso e nel suo importo originario,
affidabile o meno, il giudizio di anomalia
deve essere complessivo e deve tenere conto
di tutti gli elementi, sia di quelli che
militano a favore, sia di quelli che
militano contro l’attendibilità dell’offerta
nel suo insieme;
c) di conseguenza, si ritiene ammissibile che, a
fronte di determinate voci di prezzo
giudicate eccessivamente basse e dunque
inattendibili, l’impresa dimostri che, per
converso, altre voci sono state inizialmente
sopravvalutate e che in relazione alle
stesse è in grado di conseguire un concreto,
effettivo, documentato e credibile
risparmio, che compensa il maggior costo di
altre voci
(cfr., al riguardo, Consiglio di Stato, sez.
VI, 21.05.2009, n. 3146);
d) la giurisprudenza ritiene coerenti con lo scopo
del giudizio di anomalia e con il rispetto
dei principi di parità di trattamento e
divieto di discriminazione una modifica
delle giustificazioni delle singole voci di
costo (rispetto alle giustificazioni
eventualmente già fornite), lasciando, però,
le voci di costo invariate, ovvero un
aggiustamento di singole voci di costo, che
trovi il suo fondamento in sopravvenienze di
fatto o normative, che comportino una
riduzione dei costi, o in originari e
comprovati errori di calcolo, o in altre
ragioni plausibili;
e) è anche pacificamente ammesso che l’impresa
possa intervenire riducendo l’utile esposto,
a condizione che tale voce non risulti del
tutto azzerata, perché ciò che importa è che
l’offerta rimanga nel complesso seria
(cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
07.02.2012, n. 636; id., 23.07.2012, n.
4206; Consiglio di Stato, sez. VI,
20.09.2013, n. 4676);
f) resta fermo che la valutazione di anomalia non
ha per oggetto la ricerca di specifiche e
singole inesattezze dell’offerta economica,
mirando piuttosto ad accertare che l’offerta
sia attendibile e affidabile nel suo
complesso
(cfr. ex multis, Consiglio di Stato,
sez. IV, 09.02.2016, n. 520; Consiglio di
Stato, sez. VI, 05.06.2015, n. 2770);
- nel caso di specie, le incongruenza tra
offerta e giustificazioni fornite
dall’aggiudicataria sono, da un lato,
di valore tale da non inficiare l’offerta
complessiva, tanto che la ricorrente neppure
ha sviluppato il tema dell’effettiva
incidenza di simili profili sul complesso
dell’offerta, dall’altro, idonee ad
essere assorbite dal valore dell’utile
previsto, che, come ricordato, rientra tra
le voci suscettibili di variazione in sede
di giustificazione, secondo l’orientamento
giurisprudenziale suindicato. |
EDILIZIA PRIVATA:
In linea di
diritto, quale che sia la qualificazione regionale
come restauro, risanamento o ristrutturazione, è
pacifico nella giurisprudenza come i nuovi volumi
assumano rilevanza a fini delle distanze. In
sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi in
ampliamento dell'edificio originario sì dà vita ad
un nuovo edificio, che deve conseguentemente
osservare la norma sulla distanza minima.
Sulla scorta di tali indicazioni di principio sono
stati più volte compresi nei manufatti rilevanti a
fini di distanze, in quanto palesemente in grado di
dar vita a intercapedini contrarie alla finalità
della norma, i muri di contenimento.
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle
norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il
muro di contenimento, che producano un dislivello o
aumentino quello già esistente per la natura dei
luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad
incidere sull'osservanza delle norme in tema di
distanza dal confine.
---------------
Nel
merito il ricorso è fondato in ordine a due dei
profili dedotti, il primo ed il quinto.
Sul primo versante, in tema di distanze,
ancora di recente la sezione (cfr. ad es. sent.
1231/2016) ha richiamato i principi più volte
richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione
(cfr. sent. n. 1406/2013 confermata in appello).
Pertanto, in linea di diritto, quale che sia la
qualificazione regionale come restauro, risanamento
o ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza
anche del Collegio come i nuovi volumi assumano
rilevanza a fini delle distanze. In sostanza,
qualora si realizzino nuovi volumi in ampliamento
dell'edificio originario sì dà vita ad un nuovo
edificio, che deve conseguentemente osservare la
norma sulla distanza minima (cfr. ad es. sentenza
1621/2009).
Sulla scorta di tali indicazioni di principio sono
stati più volte compresi nei manufatti rilevanti a
fini di distanze, in quanto palesemente in grado di
dar vita a intercapedini contrarie alla finalità
della norma, i muri di contenimento (cfr. ex
multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e
Consiglio di Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria
1406 cit.). Va quindi ribadito che ai fini
dell'osservanza delle norme sulle distanze dal
confine, il terrapieno e il muro di contenimento,
che producano un dislivello o aumentino quello già
esistente per la natura dei luoghi, costituiscono
nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza
delle norme in tema di distanza dal confine (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 18.07.2017 n. 626). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
Condizionatori, ballatoi vietati.
Gli altri condomini devono poter installare
impianti simili. Una ordinanza della
Cassazione sul principio del pari utilizzo
delle parti comuni.
Condizionatori vietati sul ballatoio se
impediscono agli altri condomini di usarne a
loro volta per l'installazione di un
impianto simile.
Lo ha stabilito la II Sez. sezione civile
della Corte di Cassazione con la recente
ordinanza
13.07.2017 n. 17400.
L'apposizione dell'impianto di
condizionamento sulle parti comuni, anche se
ammessa in via generale, deve quindi
avvenire nel rispetto di tutta una serie di
adempimenti.
Vediamo meglio quali sono.
Il caso concreto.
Nella specie
l'amministratore di un condominio si era
rivolto al giudice di pace per ottenere la
rimozione dell'apparecchiatura esterna
dell'impianto di condizionamento installata
sul ballatoio da una coppia di condomini. La
sentenza, che aveva ordinato la rimozione
dell'impianto, era stata quindi impugnata da
questi ultimi dinanzi al tribunale, che ne
aveva a sua volta confermato il contenuto.
Di qui il ricorso per Cassazione, nel quale
i condomini lamentavano la violazione e la
falsa applicazione dell'art. 1102 c.c.. A
loro dire, infatti, entrambi i giudici di
merito avevano errato nel ritenere che nel
caso concreto la predetta disposizione del
codice civile sarebbe stata rispettata
soltanto ove lo spazio a disposizione sul
ballatoio avesse consentito l'installazione
di impianti simili per ognuno dei condomini
proprietari delle unità immobiliari poste al
medesimo piano.
La decisione della Suprema corte.
La seconda
sezione civile della Cassazione, nel
ricordare il principio del pari utilizzo
delle parti comuni di cui all'art. 1102
c.c., ha quindi evidenziato come l'esercizio
di questo diritto sia sottoposto a due
limiti fondamentali: il divieto di alterarne
la destinazione e il divieto di impedire
agli altri partecipanti di farne parimenti
uso. Nella specie le risultanze acquisite
nel corso dei giudizi di merito avevano
evidenziato come l'impianto realizzato dai
ricorrenti, occupando il 60% della
superficie disponibile sul ballatoio,
impedisse l'installazione di analoghi
apparecchi da parte degli altri condomini
del piano.
Così stando le cose, i giudici di
legittimità hanno quindi ritenuto che, in
mancanza del consenso di questi ultimi,
l'installazione costituisse una lesione del
loro diritto al pari utilizzo del ballatoio.
La Suprema corte ha inoltre considerato non
pertinente sul punto la giurisprudenza in
materia di uso turnario dei beni comuni,
poiché nella specie il carattere non
transitorio dell'installazione avrebbe
definitivamente alterato il rapporto di
equilibrio tra i condomini nel godimento del
ballatoio.
Le altre problematiche connesse
all'installazione dei condizionatori in
condominio: il rispetto del decoro
architettonico.
Una volta risolta
positivamente la questione dell'utilizzo
delle parti comuni, l'installazione del
condizionatore non deve però ledere il
decoro architettonico dell'edificio (art.
1120 c.c.). Con quest'ultimo concetto si
intende l'estetica del fabbricato data
dall'insieme delle linee e delle strutture
ornamentali che ne costituiscono la nota
dominante e che imprimono alle varie parti
dell'immobile, nonché al suo insieme, una
determinata e armonica fisionomia.
La
giurisprudenza ha ad esempio precisato che
un voluminoso corpo estraneo sporgente, come
un condizionatore di grandi dimensioni,
altera certamente l'aspetto e il valore
estetico della facciata di uno stabile e,
quindi, l'impianto in casi del genere deve
essere rimosso. Per i condizionatori di
dimensioni più contenute è invece necessario
valutare caso per caso. Solitamente il
relativo accertamento viene condotto dal
giudice di merito mediante l'ausilio di un
perito tecnico.
Il rispetto del regolamento condominiale e
di quello edilizio.
Il regolamento di
condominio può contenere clausole che
vietino qualsiasi opera che, anche senza
arrecare un pregiudizio all'edificio, sia
tale da modificarne l'estetica. Tuttavia una
simile clausola, che comprime l'esercizio
connesso al diritto di proprietà esclusiva,
è di natura contrattuale e, di conseguenza,
perché sia valida, deve essere accettata da
tutti i condomini, non essendo sufficiente
la sola maggioranza.
Ma spesso i regolamenti
prevedono anche l'obbligo di previa
comunicazione all'amministratore della
modifica che si intende apportare alle parti
comuni oppure l'obbligo di subordinare i
lavori alla preventiva accettazione da parte
dell'assemblea. In casi del genere,
valutando caso per caso la legittimità della
clausola, la violazione del procedimento
previsto dal regolamento legittima i
condomini ad agire in giudizio per chiedere
la rimozione del condizionatore, nonché il
risarcimento dei danni.
Un ulteriore limite all'installazione del
condizionatore sulle pareti perimetrali
dell'edificio può derivare poi dal
regolamento edilizio comunale. Infatti gli
enti locali, nell'ambito della propria
autonomia statutaria e normativa, sono
tenuti a disciplinare l'attività edilizia
che si svolge sul proprio territorio,
includendo nel regolamento norme in materia
di decoro architettonico che possono
riguardare anche le facciate degli edifici e
quindi l'installazione su di esse di
impianti di climatizzazione. È allora
consigliabile chiedere informazioni
preventive anche all'ufficio tecnico
comunale prima di impegnarsi in lavori del
genere.
Il divieto di immissioni.
Il motore del
condizionatore, che deve essere collocato
necessariamente all'esterno dell'edificio
per il suo funzionamento, produce una serie
di immissioni quali il rumore, lo
stillicidio d'acqua dovuto alla condensa e
un getto di vapore d'aria calda. Per questo
motivo l'installazione dell'apparecchio deve
avvenire nel rispetto delle norme previste
dal codice civile a tutela della proprietà.
In casi del genere trova applicazione l'art.
844 c.c., che vieta le immissioni di fumo,
calore, esalazioni, rumori, scuotimenti
qualora superino la normale tollerabilità.
Il limite oltre il quale le immissioni si
ritengono non tollerabili è relativo e si
deve valutare in relazione al caso concreto
e al luogo in cui le immissioni si propagano
(e non a quello da cui derivano). Per quanto
riguarda il rumore, in particolare, la
giurisprudenza ha adottato il c.d. criterio
comparativo, in base al quale si presume
tollerabile il suono che non superi i tre
decibel rispetto al rumore di fondo della
zona senza disturbi.
Ciò premesso, si può
affermare che la normale tollerabilità si
riferisca a immissioni di modesta entità,
tenuto conto degli interessi opposti e dei
rapporti di buon vicinato.
Inoltre è bene precisare che se l'impianto
di climatizzazione è troppo rumoroso si
rischia anche una condanna per disturbo alle
occupazioni e al riposo delle persone.
Infatti la Suprema Corte ha in proposito
sottolineato che, per la sussistenza della
contravvenzione prevista dal primo comma
dell'art. 659 c.p., è sufficiente la
dimostrazione che la condotta posta in
essere dall'agente sia tale da poter
disturbare il riposo e le occupazioni di un
numero indeterminato di persone, anche se
una sola di esse si sia in concreto
lamentata.
Non si potrà quindi installare
all'esterno un condizionatore troppo
rumoroso ove questo arrechi disturbo ai
vicini. Ma se il rumore emesso dall'impianto
è percepito in misura inferiore ai tre
decibel rientra nella normale tollerabilità
e il vicino non potrà opporsi all'utilizzo
dell'apparecchio
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.07.2017). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Il silenzio non è impugnabile.
Amministrazione non obbligata a rispondere
alle istanze. Così si è espressa la Corte
costituzionale in merito al diniego tacito
di autotutela.
Nel nostro ordinamento giuridico non
sussiste alcun obbligo dell'amministrazione
di rispondere alle istanze di autotutela
presentate dai contribuenti dopo
l'emanazione di un atto divenuto definitivo.
Dunque, non può essere impugnato innanzi al
giudice tributario il diniego di autotutela
dopo il silenzio-rifiuto
dell'amministrazione pubblica. E questo non
determina un vuoto di tutela per coloro che
sono interessati a ottenere un provvedimento
ad hoc in seguito alle domande rivolte al
fisco.
In questi termini si è espressa la Corte
Costituzionale, con la
sentenza
13.07.2017 n. 181.
A giudizio della Consulta, la ratio della definitività dei provvedimenti
amministrativi e della loro inoppugnabilità
risiede nell'esigenza dell'ordinamento di
dare certezza ai rapporti giuridici. Imporre
all'amministrazione di pronunciarsi sulle
istanze di autotutela e ammettere l'azione
giudiziale contro il silenzio,
significherebbe aprire la porta «alla
possibile messa in discussione dell'obbligo
tributario consolidato a seguito dell'atto
impositivo definitivo. L'autotutela
finirebbe quindi per offrire una
generalizzata «seconda possibilità» di
tutela, dopo la scadenza dei termini per il
ricorso contro lo stesso atto impositivo». E
«per giunta azionabile sine die
dall'interessato, il quale potrebbe
riattivare in ogni momento il circuito
giurisdizionale, superando il principio
della definitività del provvedimento
amministrativo».
Per la Corte
costituzionale, invece, è con la disciplina
dell'annullamento d'ufficio da parte
dell'amministrazione pubblica che il
legislatore ha operato «un bilanciamento non
irragionevole tra l'interesse pubblico alla
corretta esazione dei tributi e l'interesse
alla stabilità dei rapporti giuridici di
diritto pubblico». Questa regola verrebbe
sacrificata da una «scelta legislativa che
imponesse all'amministrazione di
pronunciarsi sull'istanza di autotutela del
contribuente».
Pertanto, è escluso che vi
sia un «vuoto di tutela». Contro il
provvedimento amministrativo, infatti, il
destinatario può far valere i suoi diritti e
interessi legittimi innanzi al giudice
competente a decidere.
Le regole sull'autotutela.
Va ricordato che
il provvedimento di autotutela può
comportare l'annullamento totale o parziale
dell'atto emanato, qualora vengano
riscontrati vizi o errori nel procedimento
di accertamento del tributo. Il
provvedimento di rettifica parziale non può
essere considerato un nuovo accertamento e
quindi non può essere impugnato.
Tuttavia,
per l'esercizio del potere di autotutela non
è richiesta alcuna istanza del contribuente.
Il potere non viene meno se la controversia
pende innanzi al giudice, né se sia
intervenuta una pronuncia né se l'atto sia
divenuto definitivo per mancata impugnazione
entro il termine di decadenza. Soltanto il
giudicato sostanziale (vale a dire la
sentenza non più impugnabile con i mezzi
ordinari che non abbia pronunciato solo su
questioni di rito) impedisce l'emanazione
del provvedimento di riesame.
L'orientamento della giurisprudenza sugli
atti non definitivi.
Mentre la Consulta
richiama il corretto orientamento della
Cassazione (sentenze 7511/2016; 23765/2015;
24058/2014 e via dicendo), secondo il quale
il potere esercitabile d'ufficio da parte
del fisco, dopo che l'atto sia divenuto
definitivo, dipende da valutazioni
largamente discrezionali e non è comunque
«uno strumento di protezione del
contribuente», del tutto diversa è la
posizione della giurisprudenza in ordine
agli obblighi che incombono
sull'amministrazione in presenza di atti non
definitivi.
Al riguardo, sia i giudici di
legittimità che di merito hanno fatto
derivare delle conseguenze negative dalla
mancata risposta dell'amministrazione. Per
esempio, la commissione tributaria
provinciale di Campobasso, prima sezione,
con la sentenza 195/2014 ha sostenuto che il
comportamento dell'amministrazione
finanziaria deve essere sempre trasparente.
Questo principio impone delle risposte
precise se vengono contestati errori o
omissioni commessi dal fisco nell'attività
di accertamento.
È sempre necessario
adottare un provvedimento di accoglimento o
di rigetto dell'istanza di autotutela
proposta dal contribuente, entro il termine
per ricorrere innanzi al giudice tributario.
In caso contrario l'amministrazione deve
essere condannata a pagare un indennizzo per
aver dato luogo a un giudizio che poteva
essere evitato. Si tratta di un
comportamento dettato da mala fede o colpa
grave che dà luogo a una responsabilità
aggravata. L'ente impositore ha un obbligo
non solo morale, ma anche giuridico di
emettere un provvedimento espresso
conclusivo del procedimento amministrativo.
Per i giudici molisani, tenuto conto che il
termine di legge per proporre ricorso contro
un atto di accertamento non può essere
superiore a 60 giorni, in presenza di
un'istanza di autotutela del contribuente
«l'ente impositore ha l'obbligo, non solo
morale, ma giuridico di emettere il
provvedimento conclusivo, positivo o
negativo che sia, del predetto procedimento,
prima della scadenza del termine».
Altrimenti vengono lesi i diritti del
contribuente e l'amministrazione finanziaria
risponde per responsabilità aggravata. In
base a quanto disposto dall'articolo 96 del
codice di procedura civile anche il fisco
può essere condannato a un
«indennizzo/punizione da determinare
equitativamente» da parte del giudice.
Questa sanzione è posta a carico della
«parte che, con il suo comportamento, anche preprocessuale, ha dato luogo a un giudizio
che doveva essere evitato».
Anche la
Cassazione (sentenza 698/2010) in passato ha
stabilito che gli interessati possono
rivolgersi al giudice ordinario per ottenere
il risarcimento dei danni, materiali ed
esistenziali, subiti in seguito al mancato o
ritardato annullamento di un atto impositivo
illegittimo.
---------------
Stessa linea
sull'annullamento parziale.
I provvedimenti di autotutela parziale non
sono impugnabili innanzi alle commissioni
tributarie.
Lo ha chiarito la Corte di
Cassazione, Sez. V civile, con la
sentenza
15.04.2016 n. 7511, con la quale ha rettificato un
proprio precedente orientamento che aveva
ritenuto contestabile l'annullamento
parziale.
I giudici di legittimità
richiamano nella sentenza una propria
pronuncia, dalla quale si discostano. Con la
sentenza 14243/2015, infatti, si erano
espressi in maniera difforme, ritenendo
impugnabile l'annullamento parziale di un
atto impositivo definitivo, trattandosi di
un provvedimento che, pur se riduttivo
dell'accertamento originario, non poteva
privare «il contribuente della possibilità
di difesa».
Con la sentenza 7511, invece,
superano questo orientamento e affermano
che, anche a fronte di un annullamento
parziale o di un provvedimento di autotutela
di portata riduttiva rispetto alla pretesa
impositiva contenuta negli atti divenuti
definitivi, il contribuente non è più
legittimato a proporre ricorso al giudice
tributario. Un'autonoma impugnabilità del
nuovo atto può essere consentita solo «se di
portata ampliativa rispetto all'originaria
pretesa»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.07.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Basta locali rumorosi, ledono i
diritti umani.
Stop ai locali fracassoni; lo impone il
diritto Ue.
La Corte di Cassazione, Sez. II Civile, con
ordinanza 04.07.2017 n. 16408 ha
respinto il ricorso del titolare del bar che
si è visto dover risarcire con 30 mila euro
la coppia che viveva nell'appartamento
soprastante il locale.
Secondo il più recente orientamento della
Corte, precisa la sentenza, il danno non
patrimoniale conseguente ad immissioni
illecite è risarcibile indipendentemente da
un danno biologico «documentato»,
quando sia riferibile alla lesione del
diritto al normale svolgimento della vita
familiare all'interno della propria
abitazione e del diritto alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita
quotidiane, trattandosi di diritti
costituzionalmente garantiti.
La cui tutela, peraltro, è rafforzata
dall'art. 8 della Convenzione europea per i
diritti dell'uomo, norma alla quale il
giudice interno è tenuto ad uniformarsi. In
sostanza, considerata la natura del
pregiudizio, la relativa prova può essere
fornita anche mediante presunzioni, sulla
base delle nozioni di comune esperienza.
Com'è avvenuto nel caso sottoposto
all'attenzione del Collegio, per la coppia
che per diversi anni, nella loro casa di
abitazione e per di più prevalentemente
nelle ore notturne, ha subito I rumori fonte
di stress, facendo da ciò derivare una
lesione della sfera personale e
dell'integrità psico-fisica. E ciò anche se
non è stato possibile per ambedue i coniugi,
ma soltanto per la moglie, provare il danno
biologico subito
(articolo ItaliaOggi del
07.07.2017).
---------------
MASSIMA
Con il primo motivo la
ricorrente, denunciando la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056
c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.,
censura la statuizione di condanna al
risarcimento dei danni, liquidati in via
equitativa, non sussistendo né la prova
dell'esistenza di un danno risarcibile (e
dell'impossibilità della sua
quantificazione), né la prova della
perdurante sussistenza di immissioni
rumorose oltre la normale tollerabilità.
Contesta altresì la sussistenza del
presupposto per dar luogo ad una
liquidazione equitativa del danno.
Il motivo è destituito di fondamento.
Secondo il più recente orientamento di
questa Corte,
il danno non patrimoniale conseguente ad
immissioni illecite è risarcibile
indipendentemente da un danno biologico "documentato",
quando sia riferibile alla lesione del
diritto al normale svolgimento della vita
familiare all'interno della propria
abitazione e del diritto alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita
quotidiane, trattandosi di diritti
costituzionalmente garantiti, la cui tutela
è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 Conv.
Eur. Dir. Uomo, norma alla quale il giudice
interno è tenuto ad uniformarsi
(Cass. Ss.Uu. 2611/2017; Cass. 20927/2015 e
Cass. 26899/2014).
Ne consegue che,
considerata la natura del pregiudizio
oggetto di tutela, la relativa prova può
essere fornita anche mediante presunzioni,
sulla base delle nozioni di comune
esperienza.
A tale orientamento, cui il Collegio ritiene
di dare continuità, si è uniformata la Corte
territoriale, la quale ha specificamente
riconosciuto ai signori Fu. e Pe. il
risarcimento del danno non patrimoniale, in
conseguenza dell'accertata esposizione per
diversi anni, nella loro casa di abitazione
e per di più prevalentemente nelle ore
notturne, ad immissioni rumorose eccedenti
la normale tollerabilità, di per sé fonti di
stress, facendo da ciò derivare una lesione
della sfera personale e dell'integrità
psico-fisica dei medesimi.
Ha dunque riconosciuto il danno non
patrimoniale conseguente ad immissioni
illecite al signor Fu., pur in assenza di
prova di un danno biologico documentato,
mentre con riferimento alla signora Pe. ha
ritenuto provata, sulla base della ampia
documentazione clinica acquisita, la
sussistenza di una vera e propria patologia
ansioso-depressiva, direttamente causata
dalla situazione di inquinamento acustico
cui era esposta, ritenendo dunque provata,
nei confronti di quest'ultima, con
accertamento di fatto adeguatamente
motivato, la sussistenza di un vero e
proprio danno biologico eziologicamente
riconducibile alle immissioni illegittime,
con esiti permanenti. |
LAVORI PUBBLICI:
Con cessione ramo azienda Soa in
bilico. Sentenza cds.
La cessione del ramo d'azienda non comporta
automaticamente la perdita della
qualificazione Soa (certificazione
obbligatoria per gli appalti), occorrendo
procedere a una valutazione in concreto
dell'atto di cessione, da condursi sulla
base degli scopi perseguiti dalle parti e
dell'oggetto del trasferimento.
Questo è il parere espresso in seduta
plenaria dal Consiglio di stato con la
sentenza 03.07.2017 n. 3
sulla conservazione
dell'attestazione sull'attestazione Soa in
caso di cessione di ramo di azienda.
È
possibile che la cessione di parti
dell'azienda, ancorché qualificate come ramo
aziendale, si riferisca a porzioni prive di
autonomia funzionale nel contesto
dell'impresa e comunque non significative,
quindi non sia tale da generare la perdita
in capo al cedente (e il correlato acquisto
in capo al cessionario) dei requisiti di
qualificazione.
Se non sono trasferiti i
requisiti di qualificazione, non possono
esserlo le qualificazioni che ad essi si
riferiscono. Pertanto occorre escludere in
linea di principio a danno del cedente
qualsiasi automatismo decadenziale
conseguente alla cessione d'azienda
(articolo ItaliaOggi del
06.07.2017). |
APPALTI: Società
con socio unico, i requisiti per le gare.
Accertata moralità professionale di tutti.
Verifica dei requisiti di moralità
professionali anche per i rappresentanti
legali e i direttori tecnici di società con
socio unico.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez.
V, con la
sentenza 30.06.2017 n. 3178.
La vicenda riguardava la
verifica della sussistenza dei requisiti
morali in capo ai soggetti muniti di poteri
di rappresentanza e direzione tecnica in
seno a un concorrente di una gara di
appalto, società di capitali con socio
unico. I giudici si pronunciano sul tenore
dell'articolo 38 del dlgs 163/2006 (norma oggi
trasfusa con modifiche nell'articolo 80 del dlgs 50/2016) che ha esteso il novero dei
soggetti delle società di capitali di cui
occorre accertare la moralità professionale
ai fini dell'ammissione alle gare pubbliche
ricomprendendovi il «socio di maggioranza in
caso di società con meno di quattro soci».
Per il Consiglio di stato la disposizione
deve innanzitutto essere interpretata nel
senso che, in assenza di specificazioni
circa la natura giuridica del socio,
l'espressione testuale («socio di
maggioranza») vale tanto per la persona
fisica, quanto per la persona giuridica, in
conformità ad un approccio sostanzialistico
alla normativa. Per il collegio la legge
attribuisce rilievo ai requisiti di moralità
di tutti i soggetti che condizionano la
volontà degli operatori che stipulano
contratti con la pubblica amministrazione, a
prescindere dalla circostanza che siano
persone fisiche o giuridiche, in ossequio ai
principi di lealtà, correttezza, trasparenza
e buona amministrazione.
In secondo luogo, la sentenza chiarisce che
la norma indica solamente una soglia minima
di partecipazione azionaria: la
dichiarazione è richiesta al socio, persona
fisica o giuridica, che detenga almeno la
maggioranza del pacchetto azionario. Ciò
premesso, per i giudici l'onere dichiarativo
grava anche sul socio unico dal momento che
è titolare di un ruolo decisionale e
gestionale sulla società di carattere
esclusivo e perciò più penetrante rispetto a
quello del socio di maggioranza.
Di conseguenza, la stazione appaltante è
tenuta a verificare la sussistenza dei
requisiti morali in capo ai soggetti muniti
di poteri di rappresentanza e direzione
tecnica in seno alla persona giuridica socio
unico della società di capitali offerente
(articolo ItaliaOggi del
07.07.2017).
---------------
MASSIMA
Con la prima doglianza la
Re.Co.St.So.Co. e la CO. deducono che la
costituenda ATI fra la De. e la Gi.Pu. & Fi.
avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara in
quanto i legali rappresentanti della Suez
It. s.p.a., e della So.Fin.–So.Fi.In.
s.p.a., in liquidazione, uniche socie,
rispettivamente, della De. e della Gi.Pu. &
Fi., non avrebbero reso le dichiarazioni di
cui all’art. 38, comma 1, lett. b) e c), del
D.Lgs. 12/04/2016 n. 163.
La doglianza è fondata.
Con recente sentenza che il Collegio
condivide, questa Sezione ha affermato che:
<<non è ragionevole ed
anche priva di razionale giustificazioni la
limitazione della verifica sui reati ex art.
38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 solo con
riguardo al socio unico persona fisica o al
socio di maggioranza persona fisica per le
società con meno di quattro soci, atteso che
la garanzia di moralità del concorrente che
partecipa a un appalto pubblico non può
limitarsi al socio persona fisica, ma deve
interessare anche il socio persona giuridica
per il quale il controllo ha più ragione di
essere, trattandosi di società collegate in
cui potrebbero annidarsi fenomeni di
irregolarità elusive degli obiettivi di
trasparenza perseguiti.
Se lo spirito del Codice dei contratti
pubblici è improntato ad assicurare legalità
e trasparenza nei procedimenti degli appalti
pubblici, occorre garantire l'integrità
morale del concorrente sia se persona fisica
che persona giuridica.
In caso contrario, verrebbe violato il
principio della par condicio dei concorrenti
in quanto una società concorrente con socio
unico o socio di maggioranza che sia persona
fisica sarebbe soggetto alla dichiarazione e
non invece un concorrente che sia persona
giuridica>>
(Cons. Stato, Sez. V, 23/06/2016, n. 2813).
Pertanto,
il menzionato art. 38, laddove estende il
novero dei soggetti delle società di
capitali di cui occorre accertare la
moralità professionale ai fini
dell'ammissione alle gare pubbliche
ricomprendendovi il “socio di maggioranza
in caso di società con meno di quattro soci”,
dev’essere interpretato in base alle
seguenti direttrici ermeneutiche:
a)
in assenza di specificazioni circa la natura
giuridica del socio, l'espressione testuale
vale tanto per la persona fisica, quanto per
la persona giuridica, in conformità ad un
approccio sostanzialistico alla normativa
che attribuisce rilievo ai requisiti di
moralità di tutti i soggetti che
condizionano la volontà degli operatori che
stipulano contratti con la pubblica
amministrazione, a prescindere dalla
circostanza che siano persone fisiche o
giuridiche, in ossequio ai principi di
lealtà, correttezza, trasparenza e buona
amministrazione;
b)
la medesima espressione indica solamente una
soglia minima di partecipazione azionaria,
nel senso che la dichiarazione è richiesta
al socio, persona fisica o giuridica, che
detenga almeno la maggioranza del pacchetto
azionario. A fortiori, quindi, l’onere
dichiarativo grava sul socio unico,
rivestendo egli un ruolo decisionale e
gestionale sulla società di carattere
esclusivo e perciò più penetrante rispetto a
quello del socio di maggioranza.
Da qui la necessità di verificare la
sussistenza dei requisiti morali in capo ai
soggetti muniti di poteri di rappresentanza
e direzione tecnica in seno alla persona
giuridica socio unico della società di
capitali offerente.
Nel caso di specie, è incontroverso che
rappresentanti legali e direttori tecnici
della Su.It. s.p.a., e della So.Fin.–So.Fi.In.
s.p.a., in liquidazione, non abbiano
presentato la dichiarazione di cui all’art.
38, comma 1, lett. c), richiesta dal
paragrafo 14.25, punto 3, del disciplinare
di gara, ma, comunque, necessaria, per
pacifica giurisprudenza, anche in caso di
assenza di una specifica previsione in tal
senso nella lex specialis della
procedura, atteso che il comma 2 del
medesimo articolo 38, introduce un vincolo
dichiarativo ex lege che integra
automaticamente eventuali carenze della
disciplina di gara (Cons. Stato, A.P.
07/06/2012, n. 21; Sez. V, 12/10/2016, n.
4219).
Ne consegue che le appellanti principali
avrebbero dovuto essere escluse dalla gara
non essendo nemmeno possibile -diversamente
da quanto dalle stesse affermato- sanare
l’omessa dichiarazione mediante soccorso
istruttorio.
Difatti, per consolidato orientamento
giurisprudenziale,
nelle procedure ad evidenza pubblica,
preordinate all'affidamento di un appalto
pubblico, l'omessa dichiarazione da parte
del soggetto tenutovi, di tutte le condanne
penali eventualmente riportate, anche se
attinenti a reati diversi da quelli
contemplati nell'art. 38, comma 1, lett. c),
D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, comporta
l’esclusione dalla gara del concorrente a
cui è riferibile la lacuna senza possibilità
che questa possa essere sanata attraverso il
soccorso istruttorio, il quale non può
essere utilizzato per sopperire a
dichiarazioni (riguardanti elementi
essenziali) radicalmente mancanti, ma
soltanto per chiarire o completare
dichiarazioni o documenti già comunque
acquisiti agli atti di gara
(cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. V,
27/07/2016, n. 3402). |
ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI:
Notifica al soggetto che
rappresenta l'ente.
Qualora l'amministrazione finanziaria
ipotizzi l'esistenza di un amministratore di
fatto, ritenuto responsabile effettivo delle
violazioni tributarie commesse dalla
società, le notifiche degli atti d'indagine
e dell'avviso di accertamento devono essere
effettuate anche nei confronti del soggetto
che rappresenta formalmente l'ente
giuridico, secondo i riferimenti che si
trovano nei pubblici registri. Di contro, se
le notifiche vengono rivolte esclusivamente
agli amministratori di fatto, ciò si traduce
nell'illegittimità dell'accertamento, poiché
viene a mancare l'elemento della
notificazione (almeno da tentarsi) nei
confronti della persona giuridica, che è
rappresentata dal soggetto che risulta dal
registro imprese.
È l'interessante principio che si legge
nella
sentenza
30.06.2017 n. 548/01/17 della Ctp
di Frosinone (presidente Francesco Galli,
relatore Gina Antoniani).
La vertenza riguarda l'impugnazione di un
avviso di accertamento notificato a un
contribuente della provincia frusinate,
ritenuto amministratore di fatto della
società a responsabilità limitata che
avrebbe, secondo la tesi delle Entrate,
spesato dei costi relativi ad operazioni
inesistenti.
Il ricorso introduttivo insisteva
particolarmente sul fatto che l'avviso di
accertamento e il presupposto verbale di
constatazione non fossero stati regolarmente
notificati al legale rappresentante della
società, un cittadino greco, regolarmente
nominato con atto notarile e risultante dal
registro imprese. I verificatori, invece,
ritenendo che tale rappresentanza fosse
fittizia, avevano proceduto unicamente nei
confronti del rappresentante di fatto.
La Ctp di Frosinone ha accolto tale
doglianza, richiamando l'orientamento della
Corte di cassazione secondo cui la notifica
alla persona giuridica deve essere fatta
mediante consegna alla persona che
rappresenta l'ente (o agli altri legittimati
indicati dalle norme), facendo riferimento a
ciò che risulta nei pubblici registri: è
irrilevante, in tal senso, la notifica
all'amministratore di fatto, poiché egli non
rappresenta la società, ancorché la gestisca
nella sostanza.
Per ragioni di certezza,
dunque, le notifiche rivolte alla società
devono essere effettuate secondo i
riferimenti del registro imprese; in
difetto, l'accertamento notificato al solo
amministratore di fatto è illegittimo.
In ragione della complessità delle questioni
trattate, il collegio frusinate ha ritenuto
opportuno compensare le spese di giudizio.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'art. 145 cod. proc. civ. e il
dpr n. 600 del 1973, art. 60, prevedono che
( ).
La sede effettiva della società s'individua
privilegiando il luogo dell'amministrazione
principale della società, come determinabile
sulla base di elementi oggettivi e
riconoscibili dai terzi. Pertanto, qualora
gli organi direttivi e di controllo di una
società si trovino presso la sua sede
statutaria e in quel luogo le decisioni di
gestione di tale società siano assunte in
maniera riconoscibile dai terzi, la
presunzione introdotta dal regolamento
comunitario n. 1346 del 2000 non è
superabile.
Viceversa, laddove il luogo
dell'amministrazione principale della
società non si trovi presso la sua sede
statutaria, la presenza di valori sociali
nonché l'esistenza di attività di gestione
degli stessi in uno stato membro diverso da
quello della sede statuaria di tale società
possono essere considerati elementi
sufficienti a superare detta presunzione, a
condizione che una valutazione globale di
tutti gli elementi rilevanti consenta di
stabilire che, sempre in maniera
riconoscibile dai terzi, il centro effettivo
di direzione e di controllo della società
stessa, nonché della gestione dei suoi
interessi, sia situato in tale altro stato
membro.
Questo concetto è stato ribadito
dalla Suprema corte di cassazione, sezioni
unite civili, con sentenza n. 5419 del 18.03.2016 (Cfr. anche Ctr Campania sent,
18.11.2015, n. 10249).
Nel nostro caso né il p.v.c. né l'avviso di
accertamento impugnato, sono stati
notificati alla società nella sua sede
sociale e/o al rappresentante legale della
stessa.
Di ciò è puntuale conferma nel dpr n. 600
del 1973, art. 62, secondo cui «la
rappresentanza dei soggetti diversi dalle
persone fisiche, quando non sia
determinabile secondo la legge civile, è
attribuita ai fini tributari alle persone
che ne hanno l'amministrazione anche di
fatto».
Nel caso di specie non è contestato che ( )
srl disponesse di un proprio amministratore
e legale rappresentante nominato secondo le
procedure di legge.
Gli atti tributari sono atti recettivi, vale
a dire producono effetti solo se e dal
momento in cui sono portati a conoscenza del
destinatario. Il mezzo attraverso il quale
si perfeziona tale conoscenza è la notifica.
Con il procedimento di notifica, l'atto
entra nella sfera di conoscenza del
destinatario.
Trattasi di una conoscenza «legale» che
prescinde dall'effettiva conoscenza
dell'atto da parte del destinatario.
In questo caso, poiché l'indirizzo estero
del legale rappresentante era (ed è) noto
all'amministrazione finanziaria, le
notifiche potevano essere fatte sia per il
tramite del servizio postale (raccomandata
con ricevuta di ritorno), sia con la
procedura convenzionale o consolare ex art.
142 c.p.c.
(articolo ItaliaOggi
Sette del
06.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Demolire l'abuso è atto dovuto.
La rimozione parziale va valutata in corso
d'opera. Tar Campania sull'incidenza
dell'impossibilità di ripristino dello stato
dei luoghi.
In presenza di un intervento edilizio
realizzato in assenza del prescritto titolo
abilitativo l'ordine di demolizione
costituisce atto dovuto, mentre la
possibilità di non procedere alla rimozione
delle parti abusive quando ciò sia di
pregiudizio alle parti legittime costituisce
solo un'eventualità della fase esecutiva,
subordinata alla circostanza
dell'impossibilità del ripristino dello
stato dei luoghi.
Lo hanno ribadito i giudici della IV Sez.
del TAR Campania-Napoli
con la
sentenza
27.06.2017 n. 3504.
La questione sottoposta all'attenzione dei
giudici amministrativi partenopei vedeva il
ricorrente Tizio nella qualità di
proprietario di una abitazione che impugnava
con ricorso, l'ordine di demolizione
ripristino dei luoghi con eliminazione dei
pilastri e relativa tompagnatura realizzati
in adiacenza all'abitazione.
A seguito di accertamenti da parte dei
vigili urbani si era constatato che Tizio,
senza alcun titolo edilizio, stava
procedendo alla sopraelevazione
dell'abitazione, mediante la posa in opera
di tre pilastri e relativa tompagnatura.
Tizio deduceva violazione della normativa
urbanistica ed edilizia e violazione delle
norme sul giusto procedimento; si doleva, in
ogni caso, dell'erroneità dei presupposti.
Censurava, infine, il vizio di motivazione e
l'erroneità delle acquisizioni istruttorie.
Evocava, inoltre, vizi del procedimento e
sproporzione della sanzione demolitoria.
Il Comune si era costituito e concludeva per
l'infondatezza del ricorso.
Nel caso di specie i giudici napoletani
hanno respinto il motivo che si appellava a
pretese carenze procedimentali. Esse, in
realtà, non sussistono, in quanto i
procedimenti iniziati ad istanza di parte
non abbisognano di comunicazione di avvio
del procedimento, così che non è stato
violato l'articolo 7 della legge 241/1990.
Tali omissioni, non inficiano la legittimità
di siffatti provvedimenti proprio per la
loro assoluta vincolatezza.
Infatti, alla stregua del disposto
dell'articolo 21-octies della legge 241 del
1990 non può essere utilmente lamentata la
violazione delle diverse garanzie
partecipative previste dalla medesima legge
sul procedimento (sul punto, ex multis,
Tribunale amministrativo regionale della
Campania, IV Sezione, n. 4873/2012, nonché
Tribunale amministrativo regionale della
Campania, sez. VIII, 05.05.2011, n. 2497
e cfr. ancora, più di recente, Consiglio di
stato, sez. IV, 06.07.2012, n. 3969).
I giudici hanno, infine, dichiarato
infondato anche il profilo relativo
all'asserita carenza motivazionale, essendo
sufficiente, al fine dell'applicazione della
connessa demolizione, evidenziare la
mancanza del titolo edilizio e la
sussistenza di un'opera che richiede il
rilascio del permesso di costruire
(articolo ItaliaOggi
Sette del
31.07.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Motivi solo formali, esclusioni illegittime.
TAR LOMBARDIA 1/ Decisione sui concorsi.
Deve ritenersi illegittima l'esclusione da
un concorso basata su elementi non
sostanziali, ma solo su circostanze formali
imposte dal sistema informatico.
Questo è quanto ha sancito il TAR
Lombardia-Milano, Sez. III, con la
sentenza
27.06.2017 n. 1449.
Nel caso in esame il Miur aveva emanato un
bando di concorso per il reclutamento di
personale docente. Tale bando aveva previsto
che le domande di partecipazione potessero
essere presentate tramite il portale del
personale scuola.
Una docente, in possesso dei requisiti
richiesti, aveva presentato tale domanda di
partecipazione che veniva regolarmente
inserita, registrata e riprodotta in formato
pdf con un numero di protocollo. Al momento
della pubblicazione dell'elenco dei docenti
ammessi al concorso, però, il nome della
docente non era comparso e il Miur aveva
attribuito la cancellazione della domanda al
malfunzionamento del sistema informatico e
al fatto che le operazioni di accesso da
parte della candidata avrebbero prima
modificato e poi cancellato la domanda.
Pertanto, secondo il Miur, il mancato
inoltro sarebbe stato imputabile alla
docente che, invece, a sua volta aveva
impugnato il provvedimento di esclusione da
parte del ministero.
Il Tar accoglie il ricorso.
Secondo il Collegio, infatti, una volta che
una domanda di partecipazione abbia
acquisito un numero di protocollo, la
circostanza che eventuali ulteriori accessi
possano determinare la cancellazione della
stessa costituisce un problema di
funzionamento della piattaforma informatica.
Pertanto, le conseguenze non possono in
alcun modo ricadere sui partecipanti.
Inoltre, la domanda di partecipazione
presentata in via telematica deve
considerarsi un vero e proprio documento
informatico che dovrà essere protocollato e
conservato.
Deve, quindi, essere ritenuta illegittima
l'esclusione che non attiene ad elementi
sostanziali quali la mancanza di requisiti
di partecipazione, l'oggettiva tardività
della domanda, l'uso di strumenti di
redazione e trasmissione diversi da quelli
prescritti dal bando, l'incertezza assoluta
ed oggettiva sulla riferibilità dell'istanza
ad un soggetto determinato, ecc. ma attiene
solo a circostanze formali imposte dal
Sistema informatico e non imputabili al
richiedente
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.07.2017).
---------------
MASSIMA
Ad avviso del Collegio la tesi
dell’Amministrazione non può essere
condivisa.
Una volta che la domanda di partecipazione
abbia acquisito un numero di protocollo (su
tale punto non vi è contestazione),
la
circostanza di fatto che eventuali ulteriori
accessi possano determinare la cancellazione
della domanda stessa costituisce un problema
di funzionamento della piattaforma
informatica, le cui conseguenze non possono
ricadere sui partecipanti, dovendosi
ritenere che l'utilizzo dello strumento
informatico e dei mezzi di comunicazione
telematica debbano essere considerati come
serventi rispetto all'attività
amministrativa (cfr. Tar Bari, sez. I, 27.06.2016, n. 806 e 807;
09.06.2016, n.
765).
Il bando prevedeva che le domande potessero
essere presentate esclusivamente attraverso
istanza telematica ai sensi del D.lgs.
82/2005 (Codice dell’Amministrazione
digitale).
L’art. 2, comma 1 del predetto decreto
legislativo, nel fissare i criteri di
appropriatezza ed adeguatezza per
l’organizzazione e la gestione della
modalità digitale, li riferiscono “al
soddisfacimento degli interessi degli
utenti”.
Il successivo art. 9 stabilisce che l’uso
delle nuove tecnologie deve promuovere una
maggiore partecipazione di tutti i
cittadini, residenti e non, al processo
democratico, con l’espresso obiettivo di
“facilitare l'esercizio dei diritti politici
e civili” e migliorare la qualità degli atti
normativi e amministrativi.
L’art. 12 prevede poi che “Le pubbliche
amministrazioni nell'organizzare
autonomamente la propria attività utilizzano
le tecnologie dell'informazione e della
comunicazione per la realizzazione degli
obiettivi di efficienza, efficacia,
economicità, imparzialità, trasparenza,
semplificazione e partecipazione nel
rispetto dei principi di uguaglianza e di
non discriminazione, nonché per l'effettivo
riconoscimento dei diritti dei cittadini e
delle imprese di cui al presente Codice”.
Richiamati tali principi, va osservato che
la domanda di partecipazione presentata per
via telematica deve considerarsi un vero e
proprio documento informatico e tali devono
essere ritenute anche le eventuali domande
di “cancellazione”, le cui informazioni
devono essere debitamente protocollate e
conservate (cfr. DPCM
03.12.2013 e 13.11.2014 recanti “Regole tecniche in
materia di formazione, trasmissione, copia,
duplicazione, riproduzione e validazione
temporale dei documenti informatici nonché
di formazione e conservazione dei documenti
informatici delle pubbliche amministrazioni
ai sensi degli articoli 20, 22, 23-bis,
23-ter, 40, comma 1, 41, e 71, comma 1, del
Codice dell'amministrazione digitale di cui
al decreto legislativo n. 82 del 2005”).
Ora, nel caso di specie, a fronte di una
domanda di partecipazione -da ritenersi
esistente, stante la sua avvenuta
protocollazione– non risulta essere stata
“formata” alcuna domanda di cancellazione
dell’istanza precedentemente inviata.
In una fattispecie analoga è stato
condivisibilmente ritenuta “la manifesta
irragionevolezza, ingiustizia ed
irrazionalità di un sistema di presentazione
delle domande di partecipazione ad un
concorso che, a causa di meri
malfunzionamenti tecnici, giunga ad
esercitare impersonalmente un’attività
amministrativa sostanziale, disponendo
esclusioni de facto riconducibili a mere
anomalie informatiche” (cfr. Tar Lazio sez. III-bis
04.04.2017 n. 4195).
Deve ritenersi illegittima l’esclusione
basata su elementi non sostanziali (quali la
mancanza di requisiti di partecipazione,
l'oggettiva tardività della domanda, l'uso
di strumenti di redazione e trasmissione
diversi da quelli prescritti dal bando,
l'incertezza assoluta ed oggettiva sulla
riferibilità dell'istanza ad un soggetto
determinato, ecc.) ma solo su circostanze
formali imposte dal Sistema informatico, non
(esclusivamente) imputabili al richiedente.
Siffatta esclusione collide, infatti, con i
principi di imparzialità, trasparenza,
semplificazione, partecipazione, uguaglianza
e non discriminazione, nonché con i più
generali principi di ragionevolezza,
proporzionalità, favor partecipationis che
improntano di sé l'azione amministrativa
nella particolare materia concorsuale, anche
se gestita in modalità telematica (Tar
Toscana sez. I 05.06.2017 n. 758).
Nella configurazione, organizzazione e
gestione dei propri sistemi informatici le
amministrazioni, ancor prima che i principi
e i criteri specifici dettati da norme
tecniche, debbono osservare e perseguire
quelli più generali fissati per tutta
l'azione amministrativa dalla L. n. 241 del
1990 ed in particolare:
a) criteri di
economicità, di efficacia, di imparzialità,
di pubblicità e di trasparenza secondo le
modalità previste dalla legge stessa e dalle
altre disposizioni che disciplinano singoli
procedimenti, nonché dai principi
dell'ordinamento comunitario;
b) criterio di
non aggravare il procedimento se non per
straordinarie e motivate esigenze imposte
dallo svolgimento dell'istruttoria;
c)
obbligo di chiara, convincente e congrua
motivazione;
d) espressività e
significatività dell'azione amministrativa;
e) strumentalità dell'informatica ad
accrescere l'efficienza degli apparati
pubblici e ad agevolare il cittadino
nell'accesso allo svolgimento delle
pubbliche funzioni ed ai pubblici servizi,
nell'esercizio dei propri diritti e
nell'adempimento dei propri obblighi, doveri
ed oneri.
Dunque devono ritenersi non conformi a tali
principi sistemi informatici che si
risolvano in un aggravamento per il
cittadino, costringendolo, ad esempio, a
redigere di nuovo un intero modello
informatico -spesso (come nella specie)
lungo, complesso e di difficile comprensione
intellettuale o visibilità materiale- per
un banale errore, dimenticanza o svista.
Ove non rispondente alle finalità indicate
dalla legge la tecnologia rischia di creare
sistemi illegittimi (Tar Toscana cit.).
Nel caso di specie la sintetica relazione
dell’Amministrazione dimostra come il
sistema si presentasse farraginoso e non
immediatamente comprensibile, individuando
in una colonna, soltanto attraverso singole
lettere (E, I, S, U, A, D), le diverse
funzioni attivabili (accesso, inserimento,
inoltro, aggiornamento, cancellazione),
peraltro neppure corrispondenti all’iniziale
della relativa parola italiana.
La stessa relazione conferma che le
operazioni di modifica comportavano
“l’annullamento dell’istanza precedentemente
inviata e la necessità di ripetere
l’inoltro”. E ciò a fronte dell’assenza di
un documento informatico che desse conto
della cancellazione della domanda,
determinandosi così una sorta di
“espropriazione” automatica da parte del
sistema informatico di qualsiasi potere
valutativo, motivazionale e decisorio (anche
con riferimento a quello di soccorso
istruttorio) spettante all'amministrazione.
L'informatizzazione dei procedimenti non può
infatti portare all'obliterazione della
verifica degli atti in possesso della P.A.
(TAR Veneto Sez. I, 09.02.2017, n.
144). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'ecotassa parola al giudice tributario.
TAR LOMBARDIA 2/ Ambiti giurisdizionali.
La giurisdizione in materia di «ecotassa»
spetta al giudice tributario e non al
tribunale amministrativo regionale.
Questo è quanto ha affermato il TAR
Lombardia-Milano,
Sez. III, con la
sentenza 27.06.2017 n.
1453.
Nel caso in esame un'azienda che svolge
attività di trattamento di rifiuti speciali
non pericolosi aveva impugnato il
provvedimento con cui la regione Lombardia
aveva respinto la sua istanza di riduzione
del tributo per conferimento di rifiuti in
discarica (cosiddetta «ecotassa»).
La difesa regionale aveva subito eccepito il
difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo.
L'eccezione risulta fondata.
Infatti, le norme statali e regionali che
istituiscono e disciplinano questo tributo
speciale qualificano espressamente tale
imposizione come tributo determinando la
base imponibile, i criteri di determinazione
dell'imposta, il soggetto passivo, ovvero
tutti gli elementi essenziali
dell'obbligazione tributaria.
L'obbligo di pagamento dell'ecotassa sorge
da presupposti interamente regolati dalla
legge, senza che siano riservati alla p.a.
spazi di discrezionalità.
I giudici amministrativi rilevano, poi, come
riguardo alla ecotassa ricorrano i criteri
stabiliti dalla giurisprudenza
costituzionale per qualificare come
tributari alcuni prelievi, cioè la
doverosità della prestazione, la mancanza di
un rapporto sinallagmatico tra le parti e il
collegamento di tale prestazione alla spesa
pubblica: tutto ciò porta ad affermare,
senza ombra di dubbio, la giurisdizione del
giudice tributario da intendersi come
«imprescindibilmente collegata unicamente
alla natura fiscale del rapporto».
In relazione, infine, all'applicazione
dell'art. 133, comma 1, lett. p), c.p.a. in
ordine alla giurisdizione esclusiva del g.a.
sulle controversie relative al ciclo di
rifiuti, si osserva che l'oggetto della
controversia deve essere sempre collegato
con l'esercizio del potere da parte della
p.a.
Quando invece, come nel caso di specie, la
questione sia meramente patrimoniale e
risultino a essa estranee le modalità
attraverso cui il potere viene esercitato,
la controversia rimane fuori dalla
giurisdizione amministrativa, sebbene in
ambiti ricollegabili alla sua giurisdizione
esclusiva
(articolo ItaliaOggi
Sette del
24.07.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittimo l’ordine di ripristino nella fattispecie di
opere (abusive) realizzabili mediante CILA, oggettivamente
sanzionabili solo con pena pecuniaria.
Nella fattispecie non risulta mutuabile
la richiamata (dal Comune resistente) giurisprudenza in tema
di poteri di controllo dell’Amministrazione sulla c.d.
“legittimazione all’intervento”, che postula, ai fini
inibitori (e ripristinatori), che la stessa Amministrazione
disponga effettivamente di detti poteri, il che non è, in
ragione della dequotazione dell’intervento (soggetto solo a
CILA a termini dell’art. 6-bis del DPR 380/2001) tra quelli
sottoposti al regime dell’edilizia libera.
Invero, (cfr. Cons. di Stato, parere adunanza Commissione
speciale 21.07.2016, in particolare punti 5.3 e 5.5.2):
- "…il legislatore non ha previsto altri poteri sanzionatori oltre
quello di comminare una sanzione pecuniaria…la differenza
con la SCIA è sotto questo profilo assai netta, poiché in
quel caso, ex art. 19, comma 3, della l. n. 241,
l’amministrazione “adotta motivati provvedimenti di divieto
di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa”.
Ci si trova, quindi, di fronte a un confronto tra un potere
meramente sanzionatorio (in caso di CILA), con un potere
repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di
“autotutela” (con la SCIA).
Ad avviso di questo Consiglio di Stato, tale differenza si
spiega alla stregua dei principi di proporzionalità e di
adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il
legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il
controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le
attività private non determinino un significativo impatto
sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere
chiamato di “semplificazione progressiva”, concludendo che,
“in sostanza, l’attività assoggettata a CILA non solo è
libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di
quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico,
da espletare sulla base di procedimenti formali e di
tempistiche perentorie, ma deve essere “soltanto” conosciuta
dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che,
effettivamente, le opere progettate importino un impatto
modesto sul territorio”.
---------------
L’intervento de quo è soggetto solo, ricorrendo la mancata
presentazione della CILA, al pagamento di una sanzione
pecuniaria e non a ripristino, ferma l’inerenza di ulteriori
questioni ad ambiti meramente civilistici.
---------------
In sede di controllo dell’attività edilizia, non incombe
all’Amministrazione l’indagine approfondita dell’assetto
proprietario, con la conseguenza che, ove il richiedente
alleghi il proprio diritto, e non risulti, con sufficiente
chiarezza, altrimenti, il Comune non possa legittimamente
denegare (in nessun caso) l’ammissibilità dell’intervento,
fermi i diritti dei terzi e salva la proposizione delle
relative questioni nelle competenti sedi; e men che meno,
dunque, potrebbe precludere l’attività edilizia “libera.
---------------
...
per l'annullamento, previa sospensione:
a - dell'ordinanza n. 6 prot. n. 1501 del 10.04.2017 a firma
congiunta del Responsabile del Procedimento e del
Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Corbara,
notificata alla ricorrente in data 18.04.2017, recante
"ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi per opere
eseguite in assenza di CILA", relativamente alla
realizzazione di due muretti al piano interrato dello
stabile sito alla via ... n. 62;
b - della nota a firma del Responsabile dell'Area Tecnica
del Comune di Corbara prot. n. 1067 del 10.03.2017,
notificata in data 18.04.2017, di riscontro alle
osservazioni presentate dalla ricorrente alla comunicazione
di avvio del procedimento;
c - di tutti gli atti resi nel corso del procedimento e, in
specie, della nota del Responsabile dell'Area Tecnica prot.
n. 438 del 31.01.2017 e del verbale del 30.01.2017 relativo
al sopralluogo effettuato il 25.01.2017;
...
-
Ritenuto che, con il ricorso all’esame, Lu. De St. ha
contestato gli atti meglio in epigrafe individuati con i
quali il Comune di Corbara ha inteso, all’esito del relativo
procedimento, intimare il ripristino dello stato dei luoghi
in relazione ad opere (realizzazione di due muretti in
blocchi dello spessore di cm 8 e rivestiti in pietra locale,
dell’altezza di circa mt 0,60 e per una lunghezza di mt
3,00, quello posto sul versante est, e di mt 2,55, per
quello posto sul versante ovest, che la ricorrente
ridefinisce “fioriere, poggiate a terra, costitute da una
sottostante base in muretti privi di fondazione alti circa
cm 50”, come da note tecniche depositate in atti, a firma
dell’arch. Sa.Or.), qualificate richiedenti CILA
ai sensi dell’art. 6-bis del DPR 380/2001, deducendo
violazione di legge sotto diversi profili (erroneità della
sanzione ripristinatoria a fronte della previsione legale di
sola sanzione pecuniaria ex art. 6, comma 7, del DPR
380/2001; ulteriore violazione di legge atteso che le opere
in questione risalirebbero al 2005, con conseguente decorso
del termine ragionevole per l’esercizio dell’eventuale ius
poenitendi; inerenza della questione, stante il peculiare
regime edilizio cui le opere sono sottoposte, a interessi
meramente privatistici; erronea valutazione dello stato di
fatto stante la natura esclusiva e non condominiale del
diritto di proprietà della ricorrente sull’area de qua; non
ricorrenza di alcun interesse ambientale a tutelarsi);
-
Considerato che il Comune resistente ha giustificato i
provvedimenti impugnati sul rilievo della natura
condominiale dell’area di intervento e del mancato acquisito
assenso da parte del Condominio, dal che faceva discendere
la carente legittimazione da parte della ricorrente
all’intervento de quo, come già fatto constare con
comunicazione in data 10.03.2017 (n. prot. 1067), intervento,
peraltro, che assumeva risalente non già al 2005 ma ai mesi
di giugno/luglio 2016;
-
Ritenuto il ricorso manifestamente fondato e, dunque,
suscettibile di decisione in forma semplificata, come
rappresentato alle parti in sede di udienza camerale;
-
Ritenuto, nello specifico, fondato il primo, dirimente,
motivo di ricorso con il quale la ricorrente ha denunciato
l’illegittimità dell’ordine di ripristino trattandosi di
opere, realizzabili mediante CILA, oggettivamente
sanzionabili solo con pena pecuniaria;
-
Ritenuto che la eventuale carenza di legittimazione
all’intervento (per essere l’area in questione di asserita
proprietà condominiale e non esclusiva) non modifica la
natura dell’intervento stesso e il connesso regime
sanzionatorio;
-
Ritenuta, in proposito, non mutuabile la richiamata (dal
Comune resistente) giurisprudenza in tema di poteri di
controllo dell’Amministrazione sulla c.d. “legittimazione
all’intervento”, che postula, ai fini inibitori (e
ripristinatori), che la stessa Amministrazione disponga
effettivamente di detti poteri, il che non è, in ragione
della dequotazione dell’intervento (soggetto solo a CILA a
termini dell’art. 6-bis del DPR 380/2001) tra quelli
sottoposti al regime dell’edilizia libera (cfr. Cons. di
Stato, parere adunanza Commissione speciale 21.07.2016,
in particolare punti 5.3 e 5.5.2, testualmente riprodotti:
“…il legislatore non ha previsto altri poteri sanzionatori
oltre quello di comminare una sanzione pecuniaria…la
differenza con la SCIA è sotto questo profilo assai netta,
poiché in quel caso, ex art. 19, comma 3, della l. n. 241,
l’amministrazione “adotta motivati provvedimenti di divieto
di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa”.
Ci si trova, quindi, di fronte a
un confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso
di CILA), con un potere repressivo, inibitorio e
conformativo, nonché di “autotutela” (con la SCIA).
Ad
avviso di questo Consiglio di Stato, tale differenza si
spiega alla stregua dei principi di proporzionalità e di
adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il
legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il
controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le
attività private non determinino un significativo impatto
sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere
chiamato di “semplificazione progressiva”, concludendo che,
“in sostanza, l’attività assoggettata a CILA non solo è
libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di
quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico,
da espletare sulla base di procedimenti formali e di
tempistiche perentorie, ma deve essere “soltanto” conosciuta
dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che,
effettivamente, le opere progettate importino un impatto
modesto sul territorio”);
-
Ritenuto, per quanto precede, che l’intervento de quo sia
soggetto solo, ricorrendo la mancata presentazione della CILA, al pagamento di una sanzione pecuniaria e non a
ripristino, ferma l’inerenza di ulteriori questioni ad
ambiti meramente civilistici;
-
Ritenuto, ancora in conformità a consolidata giurisprudenza
amministrativa (anche del Supremo Consesso), che, in sede di
controllo dell’attività edilizia, non incombe
all’Amministrazione l’indagine approfondita dell’assetto
proprietario (per quanto è dato evincere dalla
documentazione versata in causa, essendo in contestazione, e
non affatto acclarata nel senso della natura condominiale,
la proprietà dell’area di intervento), con la conseguenza
che, ove il richiedente alleghi il proprio diritto, e non
risulti, con sufficiente chiarezza, altrimenti, il Comune
non possa legittimamente denegare (in nessun caso)
l’ammissibilità dell’intervento (cfr. Cons. di Stato, nn. 4676/2012
e 4968/2011, ex pluris), fermi i diritti dei terzi e salva
la proposizione delle relative questioni nelle competenti
sedi; e men che meno, dunque, potrebbe precludere l’attività
edilizia “libera”;
-
Ritenuto che l’intervento de quo neppure rilevi sotto il
profilo paesaggistico, rilievo, invero, non espressamente
formulato nel provvedimento impugnato (che contesta
unicamente l’assenza di previa CILA, ma non il contrasto con
vincoli di sorta ovvero la necessità di previa conformazione
agli stessi), trattandosi di manufatti insistenti in area
completamente interrata e sottostante il solaio di copertura
del piano rialzato dell’intero compendio immobiliare;
venendo in rilievo, dunque, nella fattispecie, il disposto
di cui all’art. 149, comma 1, lett. a), del D.lgs. 42/2004
(cfr. note tecniche in atti, depositate da parte
ricorrente);
-
Ritenuto, per le ragioni che precedono e assorbiti tutti gli
altri motivi, il ricorso fondato, con conseguente necessità
di annullamento degli atti impugnati come confluiti, nella
loro estrinsecazione effettivamente lesiva per la
ricorrente, e dunque apprezzabile nella presente sede,
nell’atto sub a) dell’epigrafe;
-
Ritenuto che l’annullamento di cui sopra esclude la
configurabilità, in capo alla ricorrente, di danni
risarcibili, con conseguente reiezione della domanda
risarcitoria proposta
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.06.2017 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: I
totem informativi esenti da pubblicità.
Le immagini e le rappresentazioni riportate
sui totem informativi, collocati all'interno
del centro commerciale, non possono
considerarsi dei mezzi pubblicitari, così da
dover scontare la relativa imposizione, se
svolgono la precipua funzione di
identificazione del prodotto
commercializzato (con le relative
caratteristiche) e individuazione del luogo
di esercizio dell'attività.
È quanto si legge nella sentenza n. 35/01/17
della Ctp di Lodi.
La vertenza nasce
dall'impugnazione di un avviso di
accertamento relativo all'imposta comunale
sulla pubblicità, notificato a una società
di capitali con sede di esercizio ubicata
all'interno di un centro commerciale. In
particolare, la concessionaria del comune
richiedeva il pagamento dell'imposta per i
messaggi pubblicitari esposti sui totem
collocati nei corridoi della struttura
commerciale.
Secondo la ricorrente, invece,
le rappresentazioni non potevano
considerarsi come dei mezzi pubblicitari, in
quanto volte principalmente a individuare il
tipo di prodotto commercializzato
(riportandone addirittura la descrizione
degli ingredienti) e perché posizionati
all'interno del centro commerciale, per
individuare il luogo di esercizio
dell'attività.
La Ctp di Lodi ha accolto il ricorso,
rivelandosi decisiva l'analisi della
documentazione fotografica prodotta in atti,
relativa ai presunti messaggi pubblicitari
apposti sui totem. I giudici tributari hanno
ritenuto che tali rappresentazioni, peraltro
collocate nei luoghi di esercizio
dell'attività, debbano considerarsi più come
una «lista degli ingredienti» che come un
mezzo pubblicitario. La funzione, infatti, è
quella di individuare il tipo di prodotto
commercializzato e di esporne le
caratteristiche; oltre che, naturalmente, di
indicare il luogo ove l'attività viene
esercitata.
Per tali ragioni, il collegio ha ritenuto di
annullare l'avviso di accertamento, pur
compensando le spese di giudizio in ragione
della peculiarità dell'argomento trattato.
Il principio è, per certi aspetti,
assimilabile a quello applicato da numerose
commissioni tributarie per le
rappresentazioni sulle cabine automatiche
per le fototessere. Le affissioni sulle
cabine fotografiche, infatti, rappresentano
l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di
indicare il luogo (o i luoghi succursali)
ove viene in concreto svolta l'attività: di
conseguenza, se dette affissioni rispettano
il limite dimensionale di 5 mq, per le
stesse non è dovuta alcuna imposta comunale
sulla pubblicità (sul tema, si può citare la
sentenza n. 331/02/16 della Ctp di Brescia).
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con atto pervenuto presso questa commissione
(Rgr n° 131/16), la ricorrente propose
ricorso contro l'avviso di accertamento
emesso da ( ) srl, soc. uni personale,
concessionaria per l'imposta comunale sulla
pubblicità per il comune di ( ), in
relazione alla stessa imposta dovuta per
l'anno 2016, in merito a mezzi pubblicitari
(totem), ubicati all'interno di un centro
commerciale. ( ). In pratica risulta che la
soc. concessionaria abbia semplicemente
rilevato dei mezzi pubblicitari esposti
dalla ricorrente e per i quali la stessa
soc. ricorrente ha omesso la dichiarazione
di esposizione di tali mezzi e il pagamento
della relativa imposta; quindi venne emesso
l'avviso impugnato per il recupero di quanto
dovuto.
Per quanto alle altre
contestazioni/eccezioni e motivi di ricorso,
sia di diritto che di merito, le parti si
riportano agli atti depositati e ai
rispettivi scritti difensivi.
La trattazione del ricorso avviene in
pubblica udienza ed al termine della
esposizione dei fatti da parte del Relatore
e dell'audizione delle parti presenti, il
collegio si ritira in camera di consiglio e
decide come da separato dispositivo.
Motivi della decisione
Il collegio così riunito, esaminati gli atti
e i documenti di causa, nonché le ragioni in
fatto e in diritto addotte dalle parti,
ritiene il ricorso fondato e quindi da
accogliere per quanto di ragione.
Il collegio osserva che dalla documentazione
fotografica versata in atti si evince
chiaramente che i mezzi pubblicitari in
contestazione sono ubicati all'interno e/o
all'ingresso dell'esercizio commerciale cui
si riferiscono e gli stessi identificano il
tipo di prodotto che viene somministrato,
con i relativi ingredienti di cui lo stesso
è composto, essendo in tal modo, più simili
ad una lista degli ingredienti che a un
mezzo pubblicitario.
Quindi, in relazione a
quanto sopra, nonché considerate le
dimensioni dei totem in contestazione e
tenuto conto di quanto disposto dall'art. 10
della l. n. 448/2001 e degli art. n. 14 e 17
del dlgs n. 446/1997, nel caso trattato non
ricorrono i presupposti per
l'assoggettamento a tassazione degli
asseriti mezzi pubblicitari contestati. Ciò
comporta l'accoglimento del ricorso, stante
la sua fondatezza.
Pertanto, le
considerazioni che precedono sono assorbenti
e rendono irrilevante ogni altra eccezione
sia di diritto che di merito, quindi, alla
luce di quanto sopra esposto ed allo stato
dei fatti, null'altro emergendo e nessun
altro atto risultando, il Collegio ritiene
di poter aderire alle ragioni addotte dal
ricorrente, quindi accoglie il ricorso e
annulla l'atto impugnato; la peculiarità
dell'argomento trattato giustifica la
compensazione fra le parti delle spese del
giudizio, il tutto come risulta dal seguente
dispositivo.
La Commissione tributaria provinciale di
Lodi accoglie il ricorso. Spese compensate
(articolo ItaliaOggi
Sette del
26.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio in questione ricade su area
con vincolo ambientale ex D.Lgs. n. 42 del 2004, sicché ai
sensi dell’art. 20, comma 8, del DPR n. 380 del 2001
l’istituto del silenzio-assenso non può trovare
applicazione.
Inoltre, ai fini della formazione del titolo autorizzativo
tacito risulta comunque necessario che l’istanza di permesso
di costruire sia corredata di tutta la documentazione
prescritta per il rilascio del titolo compresa, quindi, la
dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001
del progettista abilitato circa “la conformità del progetto
agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai
regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme
relative all'efficienza energetica”, nel caso in esame
carente.
---------------
La ricorrente ha impugnato l’atto indicato in epigrafe con
il quale il Comune di Martina Franca ha comunicato il
diniego definitivo sull’istanza di permesso di costruire,
depositata in data 02.09.2013, per la realizzazione di opere
di ristrutturazione su di un immobile di proprietà della
società Sc.Im., già oggetto di condono edilizio ex art. 31
della Legge n. 47 del 1985.
La ricorrente ha esposto in fatto che sull’istanza in
questione, oltre ai pareri favorevoli degli uffici
competenti (Sportello Unico per l’Edilizia, Commissione
Paesaggio e Soprintendenza), il Comune aveva rilasciato
l’autorizzazione paesaggistica n. 98 del 2015, senza
tuttavia poi concludere il procedimento mediante il rilascio
del titolo autorizzativo; con atto depositato il 27.05.2016
la Sc.Im., ritenendo formato sulla domanda il
silenzio-assenso ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, aveva
quindi notiziato il Comune che in data 03.06.2016 avrebbe
iniziato i lavori; a fronte di tale comunicazione, l’Ente
civico aveva dapprima comunicato ex art. 10-bis della legge
n. 241 del 1990 i motivi ostativi all’accoglimento
dell’istanza e, successivamente, nonostante le osservazioni
fatte pervenire dall’interessata, negato definitivamente il
permesso di costruire.
Il Comune, alla base del diniego di permesso di costruire
ha, da un lato, contestato l’applicabilità dell’istituto del
silenzio assenso, ricadendo l’immobile in questione su area
vincolata; dall’altro, ha articolato i seguenti motivi
ostativi: il progetto risulta in contrasto con l’art. 4
delle NTA del PRG che espressamente prevede “gli edifici
in contrasto con le destinazioni di zona ed i tipi previsti
dal presente PRG non potranno essere trasformati né ampliati”
e l’intervento previsto in progetto di “ristrutturazione
edilizia” è qualificato, ex art. 3, comma 1, lettera d),
del DPR n. 380 del 2001 quale “intervento rivolto a
trasformare gli organismi edilizi”; l’istanza presentata
è carente della dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR
n. 380 del 2001 del progettista abilitato, avendo il tecnico
attestato la sola conformità del progetto alle norme
igienico sanitarie e non anche “agli strumenti
urbanistici approvati ed adottati”; la destinazione
d’uso residenziale del fabbricato in progetto contrasta con
la destinazione di zona a viabilità; l’intervento di
ristrutturazione non rispetta la volumetria e la sagoma
dell’edificio esistente.
La ricorrente ha censurato la decisione assunta dall’Ente
innanzitutto perché, a suo dire, sull’istanza presentata in
data 2 settembre 2013 si sarebbe formato il silenzio-assenso
ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, avendo essa depositato
il progetto conformemente a quanto ivi previsto (compresa
l’asseverazione del progettista circa la conformità del
progetto alla disciplina edilizia e urbanistica,
contrariamente da quanto affermato dall’Ente nel diniego) ed
ottenuto tutti i pareri necessari (tra cui l’autorizzazione
paesaggistica), senza ottenere una risposta dall’Ente nei
termini di legge.
La censura non può essere condivisa.
Invero, come correttamente evidenziato dal Comune di Martina
Franca, l’intervento edilizio in questione ricade su area
con vincolo ambientale ex D.Lgs. n. 42 del 2004, sicché ai
sensi dell’art. 20, comma 8, del DPR n. 380 del 2001
l’istituto del silenzio-assenso non può trovare
applicazione.
Inoltre, ai fini della formazione del titolo autorizzativo
tacito risulta comunque necessario che l’istanza di permesso
di costruire sia corredata di tutta la documentazione
prescritta per il rilascio del titolo compresa, quindi, la
dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001
del progettista abilitato circa “la conformità del
progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati,
ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di
settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività
edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme
relative all'efficienza energetica”, nel caso in esame
carente, essendosi il tecnico della Sc.Im. limitato ad
attestare la conformità del progetto alle norme vigenti in
materia di barriere architettoniche e norme igienico
sanitarie, senza invece confermare la conformità del
progetto anche agli strumenti urbanistici approvati e
adottati.
Sulla base di tali motivi, pertanto, le censure svolte in
ricorso circa l’asserita formazione del titolo autorizzativo
per silenzio vanno respinte, che conseguente infondatezza
dei richiami ivi contenuti sulla necessità di intervenire
mediante autotutela per paralizzare gli effetti
dell’invocato assenso tacito (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 1025 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropri,
indennizzi dal giudice ordinario.
Le questioni attinenti alla determinazione
ed alla corresponsione dell'indennità di
espropriazione in conseguenza dell'adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa,
esulano dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, essendo espressamente
attribuite al giudice ordinario.
A ribadirlo sono stati i giudici della I
Sez. del TAR Veneto con la
sentenza
22.06.2017 n. 598.
Nella sentenza in commento i giudici
amministrativi veneziani hanno poi
sottolineato come, in ossequio anche a un
ormai orientamento giurisprudenziale dettato
dall'Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato con decisione n. 7 del 24.05.2007,
spetterebbe un indennizzo al proprietario
nel caso di reiterazione del vincolo
preordinato all'esproprio (introdotto dalla
Corte Costituzionale con la sentenza n. 179
del 20.05.1999) e non ha rilevanza per
la verifica della legittimità dei
provvedimenti di primo grado, che hanno
disposto l'approvazione dello strumento
urbanistico con la conseguente reiterazione
del vincolo: i profili attinenti alla
spettanza o meno dell'indennizzo e al suo
pagamento non attengono, infatti, alla
legittimità del procedimento, ma riguardano
questioni di carattere patrimoniale, che
presuppongono la conclusione del
procedimento di pianificazione, devolute
alla cognizione della giurisdizione civile
(tra le altre si vedano: Cds., Sez. IV, n.
2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n. 1214;
Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 02.03.2015, n. 595; Tar Sicilia, Catania, Sez. I,
09.10.2007, n. 1631).
Aggiungendo
inoltre che il vincolo preordinato
all'esproprio è parte essenziale del
procedimento ablativo e possiede, allo
stesso tempo, valore di previsione
urbanistica, essendo intimamente connesso
con lo strumento di pianificazione
territoriale. In ultimo i giudici veneti
hanno richiamato un altro arresto dettato
dalla giurisprudenza (Cds., Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; Tar Toscana, Sez. I,
27.01.2017, n. 147) secondo il quale la
copertura finanziaria e la relativa
attestazione non costituiscono requisito di
validità del provvedimento amministrativo,
rappresentandone, semmai, condizione di
esecutività: ciò, in quanto la copertura
finanziaria non attiene alla volizione
contenuta nell'atto, ma concerne il distinto
profilo dell'esistenza di stanziamenti di
bilancio necessari a fare fronte agli oneri
finanziari da esso rivenienti
(articolo ItaliaOggi
Sette del
31.07.2017).
---------------
MASSIMA
Il Collegio ritiene in via preliminare
di dover precisare l’ambito della propria
indagine, sgombrando il campo da taluni
equivoci insiti nella ricostruzione dei
fatti e nella prospettazione delle doglianze
offerte dalla parte ricorrente.
In primo luogo, deve
affermarsi
–in accoglimento dell’apposita eccezione
della difesa comunale– il
difetto di giurisdizione di questo Tribunale
a conoscere di tutte le censure riguardanti
la misura dell’indennità di reiterazione del
vincolo espropriativo, nonché la misura
dell’indennità provvisoria di esproprio,
trattandosi di doglianze di ordine
patrimoniale, la cui cognizione è devoluta
al giudice ordinario.
In particolare, per quanto concerne
l’indennità per la reiterazione del vincolo
espropriativo, la sig.ra Pa. contesta:
a) nel ricorso originario, la misura simbolica di tale indennità,
prevista nell’impugnata deliberazione
consiliare n. 68/2000 nella misura di £.
15.000.000 (terzo motivo);
b) nei primi motivi aggiunti, la riproposizione, da parte della
P.A., a titolo di indennità, della stessa
somma già offerta con la citata
deliberazione n. 68/2000 (€ 8.000,00), senza
alcuna considerazione del tempo trascorso
(terzo motivo). La ricorrente reitera,
altresì, la doglianza formulata con il terzo
motivo del ricorso originario;
c) nei secondi motivi aggiunti, la mancata previsione, negli atti
ivi impugnati, compreso il decreto di
esproprio, di una qualunque somma a titolo
di indennità per la reiterazione del vincolo
(secondo motivo aggiunto). La ricorrente
reitera, altresì, le censure proposte con il
terzo motivo del ricorso originario e del
primo ricorso per motivi aggiunti.
Con riguardo, invece, all’indennità
provvisoria di esproprio, la ricorrente
lamenta, nel terzo motivo del primo
ricorso e del secondo ricorso per motivi
aggiunti, che per la determinazione
della stessa la P.A. abbia considerato
l’area di sua proprietà come avente
destinazione agricola. Lamenta, inoltre, che
detta indennità sia stata calcolata sulla
base della superficie catastale dell’area in
esame, mentre l’espropriazione avrebbe
riguardato la superficie effettiva di
siffatta area, che sarebbe maggiore, per mq.
178, di quella catastale (sesto motivo del
secondo gruppo di motivi aggiunti).
Orbene, non è chi non veda
come tutte le doglianze ora riportate
attengano alla determinazione del quantum,
rispettivamente, dell’indennità prevista
dall’art. 39, comma 1, del d.P.R. n.
327/2001 per la reiterazione del vincolo
espropriativo e dell’indennità provvisoria
di esproprio. Si tratta, quindi, di
doglianze a contenuto patrimoniale circa la
misura delle suddette indennità, la cui
cognizione è attribuita al giudice ordinario
dal comma 3 del medesimo art. 39 per la
prima delle indennità sopra elencate
(cfr. C.d.S., Sez. IV, 06.05.2010, n. 2627;
TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 20.12.2013, n.
3100) e dall’art. 53 del
d.P.R. n. 327 cit., nonché dall’art. 133,
comma 1, lett. g), c.p.a. per l’indennità di
esproprio
(cfr. C.d.S., Sez. IV, 14.03.2016, n. 987).
Ed invero, come affermato dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con
decisione n. 7 del 24.05.2007,
il principio della spettanza di un
indennizzo al proprietario nel caso di
reiterazione del vincolo preordinato
all’esproprio
(introdotto dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n. 179 del 20.05.1999)
non ha rilevanza per la verifica
della legittimità dei provvedimenti di primo
grado, che hanno disposto l’approvazione
dello strumento urbanistico con la
conseguente reiterazione del vincolo: i
profili attinenti alla spettanza o meno
dell’indennizzo e al suo pagamento non
attengono, infatti, alla legittimità del
procedimento, ma riguardano questioni di
carattere patrimoniale, che presuppongono la
conclusione del procedimento di
pianificazione, devolute alla cognizione
della giurisdizione civile
(cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV,
n. 2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n.
1214; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
02.03.2015, n. 595; TAR Sicilia, Catania,
Sez. I, 09.10.2007, n. 1631).
Dal canto loro, le
questioni attinenti alla determinazione ed
alla corresponsione dell’indennità di
espropriazione in conseguenza dell’adozione
di atti di natura espropriativa o ablativa,
esulano dalla giurisdizione del giudice
amministrativo, essendo espressamente
attribuite al giudice ordinario in base al
disposto dell’art. 133, comma 1, lett. g),
c.p.a.
(cfr., tra le ultime, TAR Campania, Napoli,
Sez. V, 04.11.2016, n. 5069).
Da quanto detto discende, in definitiva, che
va dichiarato il difetto di giurisdizione di
questo giudice amministrativo a conoscere
delle censure poc’anzi elencate, contenute
nel terzo motivo del ricorso originario, nel
terzo motivo del primo ricorso per motivi
aggiunti, nonché nel secondo, terzo e sesto
motivo del secondo ricorso per motivi
aggiunti. |
LAVORI PUBBLICI:
Non innovando rispetto al passato, anche l’art. 9
del d.P.R. n. 327/2001 configura la
reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano
urbanistico generale.
L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che
la medesima funzione urbanistica possa essere svolta anche
dall’approvazione del progetto preliminare o definitivo,
che, una volta deliberata dal Consiglio Comunale,
costituisce adozione della variante allo strumento
urbanistico.
A ciò consegue che il vincolo preordinato all’esproprio è
parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo
stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo
intimamente connesso con lo strumento di pianificazione
territoriale.
Quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19, comma 2,
cit., l’adozione della variante allo strumento urbanistico
può ben discendere dall’approvazione del progetto
preliminare ad opera del Consiglio Comunale (e nello stesso
senso deponeva pure l’art. 1, quinto comma della l. n.
1/1978, non a caso richiamato nella proposta di
deliberazione approvata con la deliberazione consiliare).
---------------
Da quanto appena esposto discende:
- l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di motivi
aggiunti, attesa la tempestività del decreto di esproprio,
emesso il 28.06.2006, quindi entro il termine di cinque
anni dall’acquisto di efficacia della dichiarazione di p.u.
dell’opera ex art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 327/2001,
tenuto conto che, come appena visto, la citata dichiarazione
di p.u. è intervenuta con la deliberazione della Giunta
Comunale n. 32 del 19.01.2006;
- l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario, poiché,
secondo la giurisprudenza, all’approvazione del progetto
preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di
un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità
dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del
d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa
fino al reperimento degli specifici fondi;
- l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario, giacché
la fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori
e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato
solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare,
inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione
implicita di pubblica utilità.
---------------
Sempre in via preliminare, va, poi, rimosso l’equivoco in
cui è incorsa la ricorrente con l’assumere che la
deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68 del
29.12.2000 –impugnata con il ricorso originario–
recasse la dichiarazione di p.u. dell’opera per cui è causa
(completamento degli impianti sportivi comunali), sebbene in
tale sede fosse stato approvato il progetto preliminare
dell’opera e non già quello definitivo.
Tale assunto è sviluppato nei dettagli dalla ricorrente nel
quarto motivo del primo ricorso per motivi aggiunti e nel
quinto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti, con i
quali, rispettivamente, si deducono:
a) l’illegittimità
della deliberazione n. 32/2006, poiché la stessa recherebbe
una proroga oltre i limiti di legge della dichiarazione di p.u., che –nella prospettiva della sig.ra Parise– sarebbe
già stata emessa con la deliberazione n. 68/2000;
b) la
tardività del decreto di esproprio rispetto alla medesima
deliberazione n. 68/2000, in base all’argomentazione per cui
quest’ultima, contenendo l’adozione di una variante parziale
al P.R.G., non potrebbe che configurarsi quale dichiarazione
di p.u. dell’opera.
Il suddetto assunto è, peraltro, sotteso
anche ad altre censure della ricorrente, ed in specie alle
censure che non tengono conto della natura di semplice
progetto preliminare del progetto approvato con la
deliberazione n. 68 cit..
Ad avviso del Collegio, l’assunto in questione è del tutto
privo di fondamento.
In particolare, la circostanza che la deliberazione n.
68/2000 cit. recasse l’adozione di una variante urbanistica
non significa per nulla –come pretende la ricorrente– che
la stessa contenesse, altresì, la dichiarazione di p.u.
dell’opera, né tantomeno significa che il progetto ivi
approvato avesse solo la denominazione –ma non il contenuto– di un progetto preliminare, come parimenti adombra la
ricorrente.
Al riguardo si osserva che, non innovando rispetto al
passato, anche l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la
reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano
urbanistico generale. L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327
cit. prevede, poi, che la medesima funzione urbanistica
possa essere svolta anche dall’approvazione del progetto
preliminare o definitivo, che, una volta deliberata dal
Consiglio Comunale, costituisce adozione della variante allo
strumento urbanistico. A ciò consegue che il vincolo
preordinato all’esproprio è parte essenziale del
procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore
di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con
lo strumento di pianificazione territoriale (TAR Puglia,
Lecce, Sez. III, 10.03.2015, n. 816).
Anzitutto, quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19,
comma 2, cit., l’adozione della variante allo strumento
urbanistico può ben discendere dall’approvazione del
progetto preliminare ad opera del Consiglio Comunale (e
nello stesso senso deponeva pure l’art. 1, quinto comma
della l. n. 1/1978, non a caso richiamato nella proposta di
deliberazione approvata con la deliberazione del Consiglio
Comunale di Bonavigo n. 68/2000).
In secondo luogo, l’approvazione del progetto definitivo
dell’opera de qua è testualmente avvenuta con la
deliberazione della Giunta Comunale n. 32/2006, impugnata
con il primo gruppo di motivi aggiunti, la quale, nel
dispositivo, dà atto che l’approvazione del progetto
definitivo stesso, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n.
327/2001, equivale a dichiarazione di p.u. dell’opera.
In terzo luogo, i documenti allegati alla deliberazione n.
68/2000, depositati dalla difesa comunale il 26.03.2001 (docc.
2 e 3: relazione tecnica e quadro economico di spesa),
confermano che quello approvato con la deliberazione n. 68
cit. era solo il progetto preliminare dell’opera pubblica.
In altre parole, da tutti i documenti in atti si evince che
la qualificazione formale del progetto approvato con la
deliberazione de qua è quella di “progetto preliminare”;
peraltro, anche sul piano dei contenuti è solo con la
deliberazione n. 32/2006 che è stato approvato un progetto
avente le caratteristiche del progetto definitivo, recando
esso in allegato, tra l’altro, il piano particellare
d’esproprio (cfr. TAR Lazio, Latina, 04.03.2004, n.
92).
Del resto, in nessuna parte della deliberazione n. 68 cit.
si rinviene la dichiarazione di p.u.: donde, in ultima
analisi, l’infondatezza delle argomentazioni della
ricorrente.
Da quanto appena esposto discende:
- l’infondatezza del quarto motivo del primo gruppo di motivi
aggiunti, in quanto la deliberazione n. 32/2006 reca per la
prima volta la dichiarazione di p.u. dell’opera, e non la
proroga di una pregressa dichiarazione che sarebbe stata
contenuta nella deliberazione n. 68/2000;
- l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di motivi
aggiunti, attesa la tempestività del decreto di esproprio,
emesso il 28.06.2006, quindi entro il termine di cinque
anni dall’acquisto di efficacia della dichiarazione di p.u.
dell’opera ex art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 327/2001,
tenuto conto che, come appena visto, la citata dichiarazione
di p.u. è intervenuta con la deliberazione della Giunta
Comunale n. 32 del 19.01.2006;
- l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario, poiché,
secondo la giurisprudenza (TAR Puglia, Bari, Sez. II, 16.06.2005, n. 2919), all’approvazione del progetto
preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di
un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità
dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del
d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa
fino al reperimento degli specifici fondi;
- l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario, giacché
la fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori
e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato
solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare,
inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione
implicita di pubblica utilità (C.d.S., Sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; id., 14.12.2002, n. 6917; TAR
Calabria, Reggio Calabria, 03.10.2005, n. 1745) (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n.
267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I
provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio
finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di
regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che
l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria,
lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla
previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n.
142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con
l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante
la copertura.
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che,
proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva
dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche
comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata,
pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle
opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di
legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale
copertura finanziaria del progetto approvato.
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la
relativa attestazione non costituiscono requisito di
validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone,
semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la
copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta
nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di
stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri
finanziari da esso rivenienti.
---------------
Ne discende l’infondatezza:
- dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita carenza di
mezzi finanziari non è sufficiente, di per sé, a provare lo
sviamento di potere lamentato dalla ricorrente (secondo cui
essa indicherebbe che il vero fine avuto di mira dalla P.A.
fosse quello di “prenotare” l’area di sua proprietà
attraverso il vincolo espropriativo).
In argomento si
rammenta che, secondo la giurisprudenza, lo sviamento di potere –consistente
nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua
funzione tipica– deve essere supportato da precisi e
concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle
divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione
istituzionale, non bastando mere supposizioni o indizi che
non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima
finalità perseguita in concreto dalla P.A..
---------------
Infine, va sgombrato il campo dall’ulteriore equivoco, per
cui l’asserita assenza e/o insufficienza della copertura
finanziaria per il progetto in esame avrebbero inciso sulla
legittimità e, quindi, sulla validità dei provvedimenti di
approvazione del progetto stesso.
Il punto richiede una precisazione.
Ad avviso del Collegio, la ricorrente è legittimata a
sollevare la questione ora riportata, nella misura in cui
lamenta come l’asserita carenza di mezzi finanziari
precluderebbe al Comune di versarle le somme che le spettano
a titolo indennitario; tuttavia, va escluso che la presenza
di adeguati mezzi finanziari costituisca requisito di
legittimità degli atti impugnati ed in specie delle
deliberazioni nn. 68/2000 e 32/2006, nonché della
determinazione n. 29/2006.
Ed invero, il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n.
267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I
provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano
impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio
finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di
regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che
l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria,
lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla
previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n.
142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con
l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante
la copertura (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 25.05.2005, n. 2718; TAR Campania, Napoli, Sez. V,
06.05.2015, n. 2503; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 02.12.2014, n. 3029).
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che,
proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva
dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche
comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata,
pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle
opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di
legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale
copertura finanziaria del progetto approvato (C.d.S., Sez.
IV, 29.08.2013, n. 4315).
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la
relativa attestazione non costituiscono requisito di
validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone,
semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la
copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta
nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di
stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri
finanziari da esso rivenienti (cfr. C.d.S., Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; TAR Toscana, Sez. I, 27.01.2017, n. 147).
Ne discende l’infondatezza:
- del quarto motivo del ricorso introduttivo (di cui già si è
sottolineata l’infondatezza sotto distinto e concorrente
profilo);
- dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita carenza di
mezzi finanziari non è sufficiente, di per sé, a provare lo
sviamento di potere lamentato dalla ricorrente (secondo cui
essa indicherebbe che il vero fine avuto di mira dalla P.A.
fosse quello di “prenotare” l’area di sua proprietà
attraverso il vincolo espropriativo). In argomento si
rammenta che, secondo la giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 08.01.2013, n. 32; TAR Lazio, Latina, Sez. I,
07.06.2013, n. 524), lo sviamento di potere –consistente
nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua
funzione tipica– deve essere supportato da precisi e
concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle
divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione
istituzionale, non bastando mere supposizioni o indizi che
non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima
finalità perseguita in concreto dalla P.A.;
- del primo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti;
- del secondo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, a mezzo
del quale si censura il mancato inserimento dell’opera
nell’elenco annuale degli interventi per l’anno 2006, tenuto
conto che la deliberazione di approvazione del progetto
definitivo (n. 32) è stata assunta dalla Giunta Comunale il
19.01.2006, cosicché a nulla varrebbe che l’opera sia
inserita nel programma triennale per il 2005/2007 e
nell’elenco annuale degli interventi per il 2005. Al
riguardo, peraltro, si evidenzia che la deliberazione del
Consiglio Comunale di Bonavigo n. 2 del 03.02.2006, di
approvazione del bilancio di previsione per il 2006, ha
impegnato la spese per la realizzazione dell’opera pubblica,
e che l’opera è prevista alle pagg. 29 e 93 della relazione
previsionale e programmatica del Comune, anch’essa approvata
con la ricordata deliberazione n. 2/2006 (cfr. docc. 5 e 6
depositati dalla difesa comunale il 4 maggio 2006);
- del terzo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, nella parte
in cui si lamenta con esso non già l’insufficienza
dell’indennità per la reiterazione del vincolo (questione
che, come detto, è devoluta al G.O.), ma l’illogicità della
spesa prevista per la realizzazione dell’opera pubblica;
- del terzo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, anche qui
nella parte in cui si sostiene che l’inadeguatezza della
somma offerta a titolo di indennità provvisoria di esproprio
–unitamente alla pretesa insufficienza dei mezzi finanziari
complessivamente previsti– costituirebbero indizi dello
sviamento di potere poc’anzi ricordato (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Tassa
rifiuti con la prova. L'inutilizzabilità
della casa da indicare.
In tema di rifiuti, per essere esclusi dalla
tassazione di un immobile per
inutilizzabilità dello stesso, non è
sufficiente la situazione «di fatto» ma
soltanto ove questa sia indicata dal
contribuente nella denuncia originaria o di
variazione.
Lo ha stabilito la V Sez. civile della
Corte di Cassazione nell'ordinanza
16.06.2017 n. 15044.
La vertenza trae origine
dall'impugnazione degli avvisi di
accertamento per Tarsu relativa agli anni
ricompresi tra il 2003 e il 2007. Il giudice
regionale della Puglia aveva escluso la
tassazione dell'immobile posseduto dal
contribuente per l'inutilizzabilità dello
stesso, malgrado questa inutilizzabilità non
fosse mai stata denunciata dal contribuente,
che anzi aveva ottenuto per la medesima
unità la deduzione Ici «prima casa».
La
Cassazione ha ribaltato la decisione di
giudici regionali e rinviato la causa per un
nuovo esame. «In base alla norma generale
dell'articolo 62, comma 1, dlgs n. 507/1993»,
spiegano gli Ermellini, «la Tarsu è dovuta
per il solo fatto della detenzione
immobiliare, sicché le deroghe ammesse
dall'articolo 62, comma 2, non operano per
la mera situazione di fatto, ma soltanto ove
questa sia indicata dal contribuente nella
denuncia originaria o di variazione»
(Cassazione 3772/2013).
Al di là di ogni
disputa interpretativa quindi, l'articolo
62, comma 1, del dlgs. 507/1993 non lascia
alcun dubbio: la tassa è dovuta in ragione
dell'occupazione o del possesso del locale,
indipendentemente da quella che in realtà
sia la situazione di fatto per il diverso
uso che se ne possa fare. Quindi il
contribuente che voglia ottenere
l'esclusione dal tributo, ne dovrà informare
il comune con una variazione adeguata che
gli possa consentire l'esonero in presenza
di unità immobiliari che non producono
rifiuti.
Secondo la Corte di cassazione,
infatti, al contribuente non sarà consentito
recuperare successivamente alla mancata
variazione così come aveva, invece,
stabilito il ministero nella cm 22.06.1994, n. 95/E/5/2806, paragrafo III. La
parola passa adesso ai giudici di rinvio
(articolo ItaliaOggi del
19.07.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Limiti alla privacy.
Prevalgono le norme sull'edilizia.
Gli Ermellini sul bilanciamento col diritto
di proprietà.
La privacy non batte le distanze legali tra
edifici. Non si può costruire un manufatto
in violazione delle disposizioni sulle
distanze legali con il pretesto di tutelare
la propria riservatezza.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con
la
sentenza 15.06.2017
n. 14916 della II Sez. civile, con la quale pone
un limite alla privacy.
Il nodo del contendere nei rapporti di
vicinato nel caso concreto è stato una
tettoia in legno su un terrazzo che una
signora aveva installato per garantire
meglio la sua riservatezza.
Ma la tettoia non rispettava la normativa
edilizia sulle distanze tra le costruzioni.
Quale norma prevale? Quella della edilizia o
quella sulla riservatezza?
Nel corso del giudizio la Corte di appello
ha affermato che la mera violazione delle
distanze legali non può, certamente,
ritenersi prevalente rispetto al diritto
alla privacy ed alla sicurezza delle persone
fisiche.
La Corte di cassazione è di diverso parere e
boccia l'affermazione della Corte di appello
in maniera decisa.
Il rispetto delle distanze legali, si legge
nelle sentenza, non fa un passo indietro in
presenza di esigenze di riservatezza e di
non meglio specificata sicurezza. La
normativa del Codice civile, integrata dai
regolamenti locali, si fonda sulla necessità
di tutelare plurime esigenze, nel reciproco
contemperamento, fra le quali non è estranea
quella della riservatezza. L'esigenza di
tutelare la privacy, mette in evidenza la
pronuncia in commento, è quindi già tenuta
in conto dal legislatore nello stabilire la
disciplina.
E cioè non si può invocare maggiore spazio
per la privacy rispetto a quella già
considerata, anche implicitamente, nelle
regole sulle distanze.
Così la Cassazione: la pretesa d'introdurre
limitazioni e deroghe non legislativamente
previste assumendone l'utilità al fine di
assicurare la riservatezza costituisce un
evidente errore.
La privacy non può essere una deroga
esterna. D'altra parte anche nel regolamento
europeo n. 2016/679 il diritto alla privacy
non è assoluto, ma va bilanciato con altri
diritti.
Nel caso specifico la Cassazione si è
trovata a dover bilanciare il diritto alla
riservatezza con il diritto alla proprietà:
un bilanciamento che è stato trovato dalla
Cassazione nella legislazione edilizia,
anche se anteriore alla disciplina sulla
riservatezza.
Questo principio potrà essere utilizzato
anche in altri ambiti e la regola derivante
è quella per cui la normativa sulla privacy
non abroga direttamente la legislazione
esistente, anche quando non assicura un
grado soddisfacente di tutela della
riservatezza individuale
(articolo ItaliaOggi dell'01.07.2017). |
APPALTI: Il fatturato può essere il triplo del bando.
Il Tar Calabria sui requisiti minimi.
Legittima la previsione del bando di gara
che richiede un fatturato triennale globale
pari a tre volte l'importo dell'affidamento;
ragionevole in quanto c'è trasferimento del
rischio di domanda.
È quanto afferma il TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la
sentenza 15.06.2017 n. 963 per un
affidamento di una concessione di valore
stimato pari a 65 mila euro per la quale era
stato richiesto un fatturato pari a euro 195
mila nel triennio 2014/2014/2015 (peraltro
un triennio errato dal momento che la gara è
stata bandita nel 2017).
In primo luogo i
giudici ritengono legittimo il ricorso in
quanto afferente un elemento potenzialmente
escludente la partecipazione alla gara: la
previsione di requisiti di partecipazione,
di natura economico-finanziaria «vale a perimetrare la platea dei potenziali
partecipanti, e se tali requisiti sono
manifestamente sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della gara, il bando
di gara ha una immediata efficacia lesiva,
incidendo sull'interesse attuale alla
partecipazione» e quindi può essere
impugnato.
Pertanto è esercitabile il
sindacato giudiziale, attivato con
l'impugnazione immediata del bando di gara,
qualora tali requisiti siano manifestamente
sproporzionati, discriminanti e abnormi, in
relazione all'oggetto complessivo del
contratto e delle sue peculiarità.» Nel
merito la sentenza rileva che la
quantificazione del requisito, ancorché non
disciplinata nel codice (che non fissa dei
range entro i quali definire il requisito
minimo) va valutata in rapporto ai principi
generali che si ritrovano nell'articolo 30
del decreto 50/2016, applicabile anche alle
concessioni di servizi sotto soglia.
La
norma stabilisce che «le stazioni appaltanti
non possono limitare in alcun modo
artificiosamente la concorrenza allo scopo
di favorire o svantaggiare indebitamente
taluni operatori economici o, nelle
procedure di aggiudicazione delle
concessioni, compresa la stima del valore,
taluni lavori, forniture o servizi» (comma
2).
Nel caso di specie, però, per il Tar
avete previsto un fatturato triennale te
volte superiore all'importo stimato della
concessione, soprattutto in relazione alla
considerazione che nella concessione vi è un
trasferimento del rischio della domanda, non
appare irragionevole, sproporzionato,
abnorme o discriminante. Quindi il bando è
corretto
(articolo ItaliaOggi del
30.06.2017).
---------------
MASSIMA
6. Ai fini della disamina della
questione di ammissibilità sollevata da
parte resistente con riguardo a tutte le
censure spiegate in ricorso, per esigenze di
sinteticità, imposte anche dal rito speciale
ex art. 120 c.p.a., si richiama ex art. 88,
co. 2, lett. d), c.p.a. la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. III, 10.08.2016, n.
3595, secondo cui “nelle
gare pubbliche, soggiacciono all'onere della
immediata impugnazione le sole clausole che
impediscano la partecipazione o impongano
oneri manifestamente incomprensibili o del
tutto sproporzionati ovvero che rendano
impossibile la stessa formulazione
dell'offerta, mentre per le altre
previsioni, comprese quelle concernenti i
criteri di valutazione e attribuzione dei
punteggi, l'interesse al ricorso nasce con
gli atti che ne facciano applicazione, quali
l'esclusione o l'aggiudicazione definitiva a
terzi, in quanto effettivamente lesivi della
situazione giuridica tutelata”.
La previsione di requisiti di
partecipazione, di natura
economico-finanziaria nel caso di specie,
vale a perimetrare la platea dei potenziali
partecipanti, e se tali requisiti sono
manifestamente sproporzionati “per
eccesso” rispetto ai contenuti della
gara, il bando di gara ha una immediata
efficacia lesiva, incidendo sull’interesse
attuale alla partecipazione
(cfr. Cons. St., Ad Plen. 29.01.2003, n. 1;
Cons. St., sez. IV, 13.03.2014, n. 1243).
Va ancora premesso che
i principi generali in materia di procedure
ad evidenza pubblica si rinvengono oggi
nell'art. 30 del decreto legislativo n.
50/2016, applicabile anche alle concessioni
di servizi sottosoglia,
come quella oggetto della gara in
controversia,
il quale prevede, da un lato, che
l'affidamento e l'esecuzione di appalti di
opere, lavori, servizi, forniture e
concessioni "garantisce la qualità delle
prestazioni e si svolge nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia,
tempestività e correttezza" (co. 1);
dall’altro, che "le stazioni
appaltanti non possono limitare in alcun
modo artificiosamente la concorrenza allo
scopo di favorire o svantaggiare
indebitamente taluni operatori economici o,
nelle procedure di aggiudicazione delle
concessioni, compresa la stima del valore,
taluni lavori, forniture o servizi” (co.
2).
Cosicché,
fermo restando il potere
dell’amministrazione di prevedere requisiti
di capacità anche particolarmente rigorosi o
superiori a quelli previsti dalla legge, è
invece esercitabile il sindacato giudiziale,
attivato con l’impugnazione immediata del
bando di gara, qualora tali requisiti siano
manifestamente sproporzionati, discriminanti
e abnormi, in relazione all’oggetto
complessivo del contratto e delle sue
peculiarità.
7. Alla luce di tali premesse, la doglianza
concernente la presunta irragionevolezza del
requisito del fatturato triennale, quale
dimostrazione della potenziale capacità
economico-finanziaria dell’operatore non è
fondata.
Nel caso di specie, la valutazione di
manifesta sproporzionalità deve tener conto
di due fattori: il valore complessivo del
servizio messo a gara, pari a 65.000 euro, e
la circostanza che, trattandosi di una
concessione di servizi e non di un appalto,
tale valore è solo “stimato”, ovvero
“calcolato ai sensi degli artt. 35 e 167
del D.lgs. 50/2016 (…) sulla base di una
stima presunta (desunta dai dati storici)
del numero annuo di interventi da
effettuare, al netto degli interventi senza
individuazione del veicolo responsabile,
sulle strade di competenza dell’ente”
(non essendo peraltro vincolante l’art. 167
D.Lgs. 50/2016, trattandosi di una
concessione sotto soglia).
La previsione di un fatturato tre volte
maggiore del valore stimato non risulta
manifestamente irragionevole, considerato
che il fulcro della concessione è il
trasferimento in capo al concessionario del
rischio operativo e che, sotto questo
profilo, il fatturato globale ottenuto in un
triennio di svolgimento di servizi analoghi
a quelli messi a gara contribuisce a
garantire l’affidabilità del contraente, ai
fini del raggiungimento dell’equilibrio
economico-finanziario nell’intero periodo di
efficacia del servizio.
Non ha invece alcuna efficacia lesiva, in
questa sede, la clausola del bando di gara
che riferisce il fatturato al triennio
2014/2014/2015 e di cui si contesta
l’erroneità: l’impresa non ha spiegato le
ragioni per cui l’indicazione di un
determinato arco temporale, piuttosto che di
un altro, avrebbe l’effetto di impedire o
rendere eccessivamente gravosa la
partecipazione alla gara. |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Nullità testuale della vendita per mancata effettuazione
delle menzioni urbanistiche. Sanabilità: natura eccezionale
delle stessa.
La nullità prevista dal legislatore in
caso di omessa indicazione (o allegazione) nel contratto di
compravendita di beni immobili dei titoli edilizi
legittimanti il bene compravenduto è una nullità di tipo
formale che può essere sanata solo nei modi tipici previsti
dal legislatore medesimo, anche perché la sanatoria di un
atto nullo è ipotesi del tutto eccezionale nel sistema delle
nullità del codice civile e, pertanto, non è possibile
alcuna interpretazione analogica o estensiva delle norme che
la regolano.
---------------
3.- Il terzo motivo di ricorso attiene alla
violazione è falsa applicazione del combinato disposto
dell'articolo 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985 e
dell'articolo 2, comma 57, della legge n. 662 del 1996, in
relazione all'articolo 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché
all'art. 360, numeri 4 e 5, cod. proc. civ.
L'appellante al fine di provare la concessione in sanatoria
dell'immobile compravenduto ai sensi dell'articolo 35, comma
12, della legge n. 47 del 1985 depositava in sede di appello
copia conforme della domanda di concessione in sanatoria
relativa all'immobile in oggetto con il bollettino di
pagamento dell'oblazione in unica soluzione.
Pertanto, a mente del combinato disposto ex articolo 40,
comma 3, della legge n. 47 del 85 e dell'articolo 2, comma
57, della legge n. 662 del 1996, non vi era alcuna ragione
giuridica per non accogliere la domanda di produzione
documentale del promissario acquirente.
Così facendo, pertanto, la Corte avrebbe omesso di esaminare
completamente i fatti allegati, trattandosi tra l'altro di
un fatto decisivo per il giudizio. Inoltre in relazione alla
motivazione del rigetto dell'ammissione della prova non
sarebbe intellegibile l'iter logico seguito con violazione
del diritto di difesa. Anzi la motivazione sarebbe in
contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite con la
citata sentenza n. 23825 del 2009.
Nel caso di specie, l'atto di compravendita, essendo
successivo all'entrata in vigore della legge n. 662 del 1996
dovrebbe essere assoggettato a tale disciplina che introduce
un'ipotesi di sanatoria ancora più un rilevante di quella
della legge del 1985, sanando gli atti tra vivi la cui
nullità non sia stata ancora dichiarata mediante la
concessione in sanatoria. Secondo il ricorrente dunque la
concessione in sanatoria produrrebbe l'effetto di validare
ope legis l'atto dichiarato nullo, e dunque, la
stessa poteva essere prodotta in sede di appello.
4.- I motivi, che per la loro evidente connessione possono
essere trattati unitariamente, sono infondati.
La decisione della Corte d'Appello circa l'inammissibilità
della produzione documentale della domanda in sanatoria è
conforme alla giurisprudenza di questa Corte quanto al
dispositivo, ma deve essere corretta nella motivazione.
La prova documentale prodotta in appello dal ricorrente è
inammissibile, non perché si tratti di una prova nuova che
non può essere ammessa nel giudizio di appello, ai sensi
dell'art. 345 cod. proc. civ., quanto piuttosto perché tale
produzione documentale è irrilevante.
4.1- Va premesso che il contratto intercorso tra Lucchese e
Basile è stato qualificato, sin dal primo grado, come
contratto definitivo di vendita del terreno e non come
contratto preliminare. Su questo punto si è formato il
giudicato, non essendo stata specificamente impugnata la
relativa statuizione né come motivo di appello, né tantomeno
come motivo di ricorso per cassazione.
Dunque, trattandosi di un contratto definitivo, traslativo
del diritto, trova applicazione la giurisprudenza secondo la
quale «La nullità prevista dagli artt.
17 e 40 della legge n. 47 del 1985 (omessa dichiarazione
degli estremi della concessione edilizia dell'immobile
oggetto di compravendita, ovvero degli estremi della domanda
di concessione in sanatoria) riveste carattere formale (e
non meramente virtuale) riconducibile, per l'effetto, nel
sistema generale delle invalidità, all'ultimo comma
dell'art. 1418 cod. civ., attesane la funzione di tutela
dell'affidamento dell'acquirente, con la conseguenza che, ai
fini della sua legittima predicabilità, è sufficiente che si
riscontri la mancata indicazione nell'atto degli estremi
della concessione, senza che occorra interrogarsi sulla
reale esistenza di essa, e con la conseguenza, ancora, che
la eventuale "conferma", pur prevista dalla citata legge 47
del 1985, deve risolversi in un nuovo e distinto atto,
mediante il quale si provveda alla comunicazione dei dati
mancanti o all'allegazione dei documenti, avente i medesimi
requisiti formali del precedente, ed in forme che non
ammettono equipollenti»
(Sez. 2, Sentenza n. 8147 del 2000).
Nella motivazione della sentenza citata si afferma che
la legge n. 47 del 1985 eleva a requisito formale
del contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni o
allegazioni ed è la loro assenza che di per sé comporta la
nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità
dell'immobile che ne costituisce l'oggetto. Ciò in coerenza
con il duplice obiettivo perseguito dalla legge di
soddisfare l'esigenza di tutela dell'affidamento
dell'acquirente e l'esigenza di prevenzione degli abusi.
La sanzione della nullità formale tutela, infatti,
l'affidamento dell'acquirente alla regolarità del bene
oggetto del contratto, perché egli attraverso la
dichiarazione del venditore è adeguatamente informato circa
la sua situazione giuridica. La funzione informativa assolta
dalla prescrizione di forma presenta inoltre il vantaggio di
ridurre le indagini e i costi necessari per accertare la
reale conformità del bene alle norme urbanistiche.
Ai fini della nullità è invero sufficiente che si riscontri
la mancata indicazione nell'atto degli estremi della
concessione, senza che occorra interrogarsi sulla reale
esistenza di essa. La sanzione della nullità formale,
inoltre, persegue contemporaneamente l'obiettivo di
disincentivare l'abusivismo. L'indicazione degli estremi
della concessione sarebbe infatti preclusa nel caso in cui
tale concessione manchi: per tale via, l'irregolarità
dell'immobile finisce per riflettersi sulla validità del
negozio giuridico che lo riguarda.
Gli atti nulli per la mancata indicazione di quanto
richiesto possono essere confermati anche da una sola delle
parti con atto successivo, qualora la mancata indicazione
non sia dipesa dall'insussistenza della concessione al
momento in cui gli atti erano stati stipulati.
La conferma ex artt. 17 e 40 legge 28.02.1985, n. 47, ha,
secondo alcuni autori, un vero e proprio effetto sanante nel
senso di far riacquistare validità all'atto originariamente
nullo: con questa conferma, si rimuove la causa di nullità
del negozio originario. Si configura una situazione
indubbiamente singolare e in contrasto col principio
dell'insanabilità del negozio nullo.
Comunque si voglia vedere questa singolare conferma prevista
nella legge n. 47 del 1985, e cioè come vera e propria
sanatoria idonea a far riacquistare validità all'atto
originariamente nullo, oppure, secondo quanto sostenuto da
altri autori, come dichiarazione di scienza con funzione
integrativa dell'atto originario, come ipotesi equiparata
agli artt. 590 e 799 cod. civ., come tipico esempio di
accertamento negoziale, come, infine, conferma di un atto
solo apparentemente nullo, è, pero, ben certo che deve
trattarsi di nuovo e distinto atto avente la stessa forma
del precedente, mediante il quale si provveda alla
comunicazione dei dati mancanti o all'allegazione dei
documenti.
La legge prescrive, dunque, un atto di conferma o di
convalida dell'atto nullo da redigere in forme che non
ammettono equipollenti.
4.2- Il collegio ritiene di dare continuità al citato
orientamento interpretativo ribadendo che
la nullità prevista dal legislatore in caso di omessa
indicazione (o allegazione) nel contratto di compravendita
di beni immobili dei titoli edilizi legittimanti il bene
compravenduto è una nullità di tipo formale che può essere
sanata solo nei modi tipici previsti dal legislatore
medesimo, anche perché la sanatoria di un atto nullo è
ipotesi del tutto eccezionale nel sistema delle nullità del
codice civile e, pertanto, non è possibile alcuna
interpretazione analogica o estensiva delle norme che la
regolano.
In conclusione deve essere corretta la motivazione della
Corte d'Appello perché l'inammissibilità della produzione
documentale della domanda di concessione in sanatoria
effettuata dal ricorrente nel giudizio di appello deriva
dalla sua irrilevanza ai fini della declaratoria di nullità
del contratto di compravendita e non dal suo carattere di
novità, ai sensi dell'art. 345 cod. proc. civ.
La correzione della motivazione nei termini anzidetti,
esclude la cassazione della sentenza, essendo il dispositivo
conforme al diritto (art. 384, ultimo comma, cod. proc.
civ.) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 14.06.2017 n. 14804). |
APPALTI SERVIZI: Fatturato
e canone danno il valore della concessione.
Stima a carico dell'amministrazione.
La stima di una concessione va fatta in
relazione al fatturato generato dalla
concessione e non solo in base al canone
della concessione; tale determinazione
spetta all'amministrazione.
Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. III,
con la
sentenza
14.06.2017 n. 2926 relativa a un
bando di gara che aveva stimato il valore
della concessione soltanto in base al canone
della concessione.
I giudici, innanzitutto, richiamano quanto
l'Autorità per la vigilanza sui lavori
pubblici aveva affermato nel 2002 precisando
che il valore di una concessione non può
essere computato con riferimento al
cosiddetto «ristorno» e cioè al costo o
canone della concessione, ma deve essere
calcolato sulla base del fatturato generato
dal consumo dei prodotti da parte degli
utenti del servizio.
La sentenza censura che
il bando abbia fatto riferimento al solo
canone di concessione dal momento che anche
le norme delle direttive europee (direttiva
2014/23) richiedono che la stima di una
concessione comprende il «fatturato totale
del concessionario generato per tutta la
durata del contratto, al netto dell'Iva,
stimato dall'amministrazione aggiudicatrice
o dall'ente aggiudicatore, quale
corrispettivo dei lavori e dei servizi».
Si
tratta di principi trasfusi nell'art. 167
del codice dei contratti pubblici una norma
che, se non è applicabile ratione temporis
alla fattispecie in esame, risulta comunque
idonea a orientare un'interpretazione delle
norme previgenti conforme al diritto
europeo, consentendo di escludere anche
nell'assetto anteriore che il valore della
concessione potesse essere riconnesso sic et
simpliciter all'importo del canone concessorio
(donde la superfluità della questione
pregiudiziale che parte appellante ha
chiesto fosse sollevata).
Infine la determinazione del soggetto
gravato da tale onere (determinazione del
fatturato) non può essere demandata al
concorrente e quindi spetta
all'amministrazione.
Quindi la stazione appaltante, in quanto
soggetto «interno», lo farà
attingendo «a informazioni diverse e
ulteriori che certamente rientrano nella sua
sfera di controllo, cosi da agevolmente
desumere il dato da indicare quale valore
della concessione, non potendo questo
ridursi al solo fatturato del precedente
gestore»
(articolo ItaliaOggi del
23.06.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento,
responsabilità senza dubbi.
Il responsabile dell'inquinamento deve
essere puntualmente e precisamente
individuato da parte dell'autorità
amministrativa, sulla base di un rigoroso
accertamento, anche in caso di vicende
societarie complesse.
Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
con
sentenza
13.06.2017 n. 1326.
La questione concerne l'area conosciuta come
«ex polveriera Montedison», oggetto di
attività produttive cessate da poco meno di
un cinquantennio. Con nota del 04.07.2015
il Comune di Taino aveva comunicato alla
società Edison spa «in quanto
responsabile e consapevole dell'inquinamento»,
l'avvio del procedimento per la bonifica dei
terreni contaminati ordinando di presentare
un progetto operativo di bonifica. Tale
comunicazione veniva impugnata dal momento
che la società si dichiarava esonerata da
qualsiasi responsabilità.
Il Tar accoglie il ricorso. Il Comune,
infatti, si era rivolto ad Edison spa, sulla
base di una visura camerale relativa a
Montedison srl da cui risultano, a partire
dal 1999, i trasferimenti d'azienda, le
fusioni, le scissioni e i subentri
coinvolgenti numerose società, senza
procedere ad un rigoroso e dettagliato
accertamento.
A fronte di tale complessità dei rapporti
societari del più articolato «Gruppo
Montedison» l'individuazione di Edison
spa quale successore «a titolo universale»,
appare affermazione indimostrata priva di
alcuna evidenza documentale. Il Comune si
era limitato a una sommaria descrizione
delle presunte successioni societarie di un
gruppo che nel corso di oltre un
cinquantennio risulta essere stato oggetto
di modificazioni complesse e articolate.
Inoltre, la Direttiva 2004/35/Ce all'art. 2
definisce come «operatore», cui si
connette la responsabilità per danno
ambientale «qualsiasi persona fisica o
giuridica, sia essa pubblica o privata, che
esercita o controlla un'attività
professionale».
I giudici rilevano che, pur volendo far
riferimento ad una nozione ampia di
operatore economico, nel caso di specie «sono
del tutto assenti un'analisi e un
accertamento in concreto del ruolo
effettivamente svolto dalla società
ricorrente con specifico riferimento al ramo
industriale interessato e ritenuto
“responsabile” della condotta inquinante»,
tenuto conto della complessa articolazione
del Gruppo
(articolo ItaliaOggi
Sette del
10.07.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi
ha inquinato va puntualmente individuato
Il responsabile dell'inquinamento deve
essere puntualmente e precisamente
individuato da parte dell' autorità
amministrativa, sulla base di un rigoroso
accertamento, anche in caso di vicende
societarie complesse.
Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano,
Sez. III, con la
sentenza
13.06.2017 n. 1326.
La questione oggetto del presente giudizio
concerne l'area conosciuta come «ex
polveriera Montedison», oggetto di attività
produttive cessate da poco meno di un
cinquantennio. Con nota del 04.07. 2015 il
comune di Taino aveva comunicato alla
società Edison spa «in quanto responsabile e
consapevole dell'inquinamento», l'avvio del
procedimento per la bonifica dei terreni
contaminati ordinando di presentare un
progetto operativo di bonifica. Tale
comunicazione veniva impugnata dal momento
che la società si dichiarava esonerata da
qualsiasi responsabilità.
Il Tar accoglie il ricorso.
Il Comune, infatti, si era rivolto a Edison
spa, sulla base di una visura camerale
relativa a Montedison srl da cui risultano,
a partire dal 1999, i trasferimenti
d'azienda, le fusioni, le scissioni e i
subentri coinvolgenti numerose società,
senza procedere ad un rigoroso e dettagliato
accertamento.
A fronte di tale complessità dei rapporti
societari del più articolato «Gruppo
Montedison» l'individuazione di Edison spa
quale successore «a titolo universale»,
appare affermazione indimostrata priva di
alcuna evidenza documentale. Il Comune si
era limitato a una sommaria descrizione
delle presunte successioni societarie di un
gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un
cinquantennio, risulta essere stato oggetto
di modificazioni complesse e articolate,
composto da molteplici società svolgenti
attività tra loro differenti.
Inoltre, la Direttiva 2004/35/Ce all'art. 2
definisce come «operatore», cui si connette
la responsabilità per danno ambientale (cfr.
2° e 18° Considerando), «qualsiasi persona
fisica o giuridica, sia essa pubblica o
privata, che esercita o controlla
un'attività professionale».
I giudici
rilevano che, pur volendo far riferimento a
una nozione ampia di operatore economico,
nel caso di specie sono del tutto assenti
un'analisi e un accertamento in concreto del
ruolo effettivamente svolto dalla società
ricorrente con specifico riferimento al ramo
industriale interessato e ritenuto
«responsabile» della condotta inquinante,
tenuto conto della complessa articolazione,
anche nel tempo, del Gruppo Montedison
(articolo ItaliaOggi
Sette del
26.06.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti,
l'anzianità non basta. Oltre ai 5 anni di
esperienza serve la specializzazione. Il
tribunale di Pavia fissa i paletti per il
conferimento di incarichi a contratto.
Non basta la sola esperienza lavorativa di
cinque anni in posizioni utili per l'accesso
alla dirigenza per assegnare incarichi
dirigenziali «a contratto».
La sentenza 09.06.2017 n. 169 del TRIBUNALE di Pavia, nelle
vesti di giudice del lavoro, annullando un incarico dirigenziale
a contratto per carenza di requisiti del
destinatario, fornisce una visione molto
chiara e innovativa in giurisprudenza delle
regole derivanti dagli articoli 110, comma
1, del dlgs 267/2000 e 19, comma 6, del dlgs
165/2001.
Il giudice del lavoro ha riconosciuto la
propria giurisdizione sulla procedura di
assegnazione di un incarico a contratto,
sulla base della giurisprudenza della
Cassazione per la quale procedure non
caratterizzate dalla presenza di una
commissione che con poteri decisori e
vincolanti stili una graduatoria fuoriescono
dalla giurisdizione amministrativa e vanno
verso quella ordinaria: nel caso di specie,
la selezione per l'incarico a contratto era
connotata da assenza di graduatoria e
discrezionalità della scelta finale.
Tuttavia, i canoni interpretativi ai quali
si è attenuto il giudice ordinario non
risultano molto diversi da quelli ai quali
farebbe riferimento il Tar. Per quanto la
giurisdizione del giudice del lavoro sia
attenta ai rapporti civilistici e, quindi,
al rispetto dei principi di «buona fede e
correttezza», in ripetuti passaggi la
sentenza richiama puntualmente le norme di
legge e anche il principio di «buona
amministrazione», come elementi fondamentali
della legittimità dell'azione pubblica.
La sentenza considera necessario che le
amministrazioni locali subordinino gli
incarichi a contratto alle tre tipologie di
professionalità che i dirigenti «esterni»
debbono possedere, ai sensi dell'articolo
19, comma 6, del dlgs 165/2001: «a)
esperienza maturata per almeno cinque anni
in posizioni dirigenziali, b) particolare
specializzazione professionale, culturale e
scientifica desumibile dalla formazione
universitaria e post-universitaria, da
pubblicazioni scientifiche e da concrete
esperienze di lavoro maturate per almeno un
quinquennio nelle pubbliche amministrazioni,
anche presso amministrazioni statali, ivi
comprese quelle che conferiscono incarichi,
in posizioni funzionali previste per
l'accesso alla dirigenza; c) provenienza da
settori della ricerca universitaria e
scientifica e della docenza universitaria».
Nel caso di specie, il candidato il cui
incarico è stato annullato dal giudice non
possedeva né la prima né la terza tipologia
di competenze, ma solo la seconda.
La sentenza evidenzia che la norma contiene
la «e» che abbina inscindibilmente la
particolare specializzazione professionale
all'esperienza di lavoro almeno
quinquennale. Dunque, ai fini del legittimo
conferimento degli incarichi a contratto,
non è sufficiente la mera anzianità di 5
anni in posizioni che potenzialmente
consentano di accedere alla dirigenza
mediante concorsi: infatti, in questo caso,
la specializzazione professionale non
sarebbe «particolare», ma ordinaria,
posseduta da chiunque abbia un'anzianità di
servizio di cinque anni.
Il giudice, però, non ha annullato
l'incarico per questo motivo: infatti, la
difesa del ricorrente non ha opposto (come
avrebbe potuto) l'illegittimità del
regolamento comunale che in contrasto con la
legge considera l'anzianità di 5 anni come
alternativa alla particolare esperienza
professionale.
L'assunzione a contratto è stata annullata
per altre due ragioni. In primo luogo, il
comune mediante il bando si era vincolato a
sentire a colloqui i 22 candidati che
avevano presentato domanda. Invece, il
sindaco ha ritenuto di non tenere alcuno
colloquio con i candidati interni (perché
già conosciuti) e solo alcuni con i
candidati esterni; il ricorrente, quindi,
non ha avuto modo di essere sentito in fase
selettiva. In secondo luogo, il soggetto
prescelto non dispone dei requisiti di
particolare specializzazione professionale:
infatti, ha una specializzazione
professionale esclusivamente in materia
urbanistica e non di lavori pubblici,
oggetto dell'incarico; inoltre, al momento
della selezione il servizio prestato in
posizione per l'accesso alla dirigenza era
perfino inferiore ai 5 anni.
Il Tribunale, quindi, conclude che
l'incaricato non possiede nemmeno i titoli
per accedere alla selezione, non solo per
ricevere l'incarico e per questa ragione lo
annulla. Gli effetti, dunque, delle
decisioni del giudice del lavoro finiscono
per essere identici a quelle del Tar
(articolo ItaliaOggi del
16.06.2017). |
APPALTI:
Turbativa d'asta, ampliata la
sanzionabilità. Sentenza della suprema
corte.
Importante e recentissima precisazione della
Cassazione che amplia i comportamenti
sanzionabili tramite l'ipotesi delittuosa
della turbativa d'asta.
Secondo la Suprema
corte si ha che tutte le condotte tipiche
che si inseriscono nell'ambito della
procedura di incanto, anche se intervenute
successivamente alla chiusura dell'asta
integrano il reato di turbata libertà degli
incanti (Corte di Cassazione, Sez. II
penale,
sentenza
08.06.2017 n. 28388).
In altri termini la Corte ritiene che il
legislatore abbia voluto sanzionare tutti
gli eventuali interventi turbativi che si
inseriscono nell'intera procedura di
assegnazione e non soltanto quelli relativi
al momento dell'asta. La volontà del
legislatore di rendere perseguibili tutte le
condotte illecite che si inseriscono nella
procedura di incanto emerge chiaramente
dalla scelta di usare il termine «gara» e
non piuttosto quello di «asta».
La sentenza stabilisce che «trattandosi di
una fattispecie a formazione progressiva che
si sviluppa attraverso la creazione di un
vincolo di indisponibilità, e procede,
mediante l'indizione della gara, con
l'aggiudicazione provvisoria del bene a
seguito della formulazione delle offerte e
la successiva vendita, che sostanzia e
perfeziona la vicenda traslativa, è proprio
alla vendita definitiva che deve aversi
riguardo per determinare il confine
giuridico della “gara” tipizzata dalla
norma».
Tale tesi trova riscontro nella circostanza
che le opposizioni all'aggiudicazione di un
bene oggetto di una procedura esecutiva
immobiliare possono essere fatte valere sino
alla vendita del medesimo bene.
La sentenza, in relazione all'ambito
applicativo della disposizione che prevede
il reato di turbata libertà degli incanti,
ha ritenuto che la sua circoscrizione «al
solo momento dell'asta significherebbe
vanificare le finalità di tutela perseguite
dal legislatore, che non possono ricondursi
esclusivamente alla protezione del momento
in cui vengono effettuate le offerte, ma
pervadono l'intera procedura di vendita e
assegnazione, ove è prevalente l'interesse
di carattere pubblicistico volto alla
soddisfazione dei crediti nell'ottica del
rispetto della par condicio creditorum,
alla tutela della certezza del diritto e ad
assicurare l'utilità sociale»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
03.07.2017).
---------------
MASSIMA
5.2. Infondato è il secondo motivo
di ricorso con cui si contesta la
configurabilità del reato di cui all'art.
353 cod. pen. essendo le condotte contestate
intervenute successivamente alla chiusura
dell'asta e dovendosi, pertanto, ritenere le
stesse un post factum non punibile.
Al riguardo, correttamente
la Corte territoriale ha osservato come
l'utilizzo del termine "gara" in
luogo di "asta" nella disposizione di
cui all'art. 353 cod. pen. sia chiaramente
indicativo dell'intenzione del legislatore
di sanzionare non solo le turbative
materiali allo svolgimento delle procedure
di incanto, ma tutte le condotte tipiche che
si inseriscono nell'ambito della procedura,
falsandone l'esito.
Trattandosi, invero, di una fattispecie a
formazione progressiva che si sviluppa
attraverso la creazione di un vincolo di
indisponibilità, e procede, mediante
l'indizione della gara, con l'aggiudicazione
provvisoria del bene a seguito della
formulazione delle offerte (e il successivo
ed eventuale incanto) e la successiva
vendita, che sostanzia e perfeziona la
vicenda traslativa, è proprio alla vendita
definitiva che deve aversi riguardo per
determinare il confine giuridico della "gara"
tipizzata dalla norma.
Ciò, del resto, è
confermato dalle stesse disposizioni del
codice di procedura civile, che riconducono
sotto un unico alveo le disposizioni
relative all'incanto, all'aggiudicazione
provvisoria, nonché alla successiva
assegnazione definitiva (condizionata a
diversi adempimenti), separandone, invece,
solo la fase relativa alle operazioni di
vendita.
Ulteriore conferma deriva anche dal fatto
che le eventuali opposizioni
all'aggiudicazione di un bene oggetto di una
procedura esecutiva immobiliare possono
essere fatte valere, salvo la prova della
collusione del debitore con
l'aggiudicatario, sino al perfezionamento
della vicenda traslativa, vale a dire sino
alla vendita del bene, momento
giuridico-temporale successivo
all'aggiudicazione provvisoria che si
conclama nell'emissione da parte del giudice
dell'esecuzione del decreto di trasferimento
dell'immobile dal debitore esecutato
all'aggiudicatario definitivo.
Del resto, ridurre l'ambito
applicativo della disposizione in esame al
solo momento dell'asta significherebbe
vanificare le finalità di tutela perseguite
dal legislatore, che non possono ricondursi
esclusivamente alla protezione del momento
in cui vengono effettuate le offerte, ma
pervadono l'intera procedura di vendita e
assegnazione, ove è prevalente l'interesse
di carattere pubblicistico volto alla
soddisfazione dei crediti nell'ottica del
rispetto della par condicio creditorum
(al fine di realizzare compiutamente ed
autoritativamente la responsabilità
patrimoniale del debitore di cui all'art.
2740 cod. civ.), alla tutela della certezza
del diritto e ad assicurare l'utilità
sociale. |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Procedimento
amministrativo, l’affidamento del privato è tutelabile solo
se ragionevole.
A fronte dell’attività di pianificazione
urbanistica, non si può sostenere in linea generale che il
privato vanti un interesse pretensivo in senso stretto ad una più favorevole
qualificazione di aree di sua proprietà.
---------------
Ritiene il collegio, in astratto, che sia configurabile nei
rapporti tra amministrazione e cittadino un affidamento
tutelabile nell’ambito del procedimento amministrativo,
quale che sia il non semplice inquadramento dogmatico della
posizione giuridica soggettiva lesa.
L’affidamento è ascrivibile alle categorie generali del
diritto e non costituisce autonoma posizione giuridica
soggettiva; esso tuttavia pacificamente può qualificare la
posizione del privato nel rapporto procedimentale, nel caso
di specie, nella fase tra l’adozione della variante
favorevole ed il suo annullamento.
In sostanza è teoricamente possibile che, ferma la acclarata
non spettanza di alcun bene della vita, la condotta
dell’amministrazione nella fase strettamente procedimentale
di esercizio del potere abbia ingenerato un legittimo
affidamento tutelabile in capo al privato, di cui si reclama
in questa sede tutela.
D’altro canto si legge in Cass. SU 8057/2016 che: “l'azione
amministrativa illegittima -composta da una sequela di atti
intrinsecamente connessi- non può essere scissa in
differenti posizioni da tutelare. E' l'agire provvedimentale
nel suo complesso che è messo in discussione, mentre
l'affidamento –nella legittimità di tali atti- non è altro
che un profilo riflesso senza alcuna incidenza ai fini
dell'affermazione della giurisdizione”.
In definitiva, quindi, l’affidamento ingenerato dall’azione
amministrativa è un riflesso tutelabile di detta azione, non
idoneo ad incidere sul riparto di giurisdizione là dove
l’attività contestata, come nel caso di specie, costituisca
indubbiamente un esercizio di potere.
---------------
La domanda di parte ricorrente viene vagliata al fine di
verificare se l’agire procedimentale dell’amministrazione
abbia effettivamente ingenerato un legittimo affidamento in
capo alla ricorrente.
Il principio dell’affidamento, di derivazione germanica, si
qualifica nell’ordinamento comunitario come principio comune
alle tradizioni degli stati membri; in ambito privatistico è
stato codificato all’art. 1.8. dei principi UNIDROIT che
afferma il principio del “nemo venire contra facutm proprium”
e considera tutelabile l’affidamento “ragionevole”.
Esso trova anche spazio nel diritto pubblico ed è principio
oggi accettato quello secondo cui il procedimento
amministrativo possa anche essere valutato alla luce
dell’affidamento che ingenera o consolida nei destinatari
dell’azione amministrativa.
Tuttavia, mentre risulta più semplice configurare un
affidamento là dove l’amministrazione eventualmente muti le
proprie scelte per ragioni di opportunità o superiore
interesse pubblico -magari tenendo condotte astrattamente
incoerenti, pur nell’ambito di più possibili scelte
legittime– e così “travolgendo” eventuali posizioni
consolidate dei privati, più complesso è configurare un
affidamento tutelabile a fronte di attività amministrativa
illegittima.
La casistica annovera l’apparenza legittima o la presenza di
ulteriori condotte dell’amministrazione che, al di là
dell’attività illegittima, abbiano ingenerato nel privato un
legittimo affidamento; ancora la stessa legge n. 241/1990
individua il decorso di un significativo lasso di tempo
quale presupposto per ingenerare un “ragionevole”
affidamento.
---------------
... per l'accertamento del diritto della società ricorrente
ad essere risarcita per i danni in ragione del comportamento
gravemente colposo dell' Amministrazione comunale intimata,
consistito nel conferimento di una nuova disciplina
urbanistica ad area di proprietà per mezzo di una procedura
amministrativa annullata dalla Regione Piemonte in quanto
illegittima e confermata tale dal Giudice amministrativo;
e per la condanna dell'Amministrazione resistente a
risarcire il danno subito con interessi e rivalutazione
monetaria sino alla data di effettivo pagamento.
...
Ritiene il collegio necessaria una breve premessa per
individuare la posizione giuridica soggettiva lesa di cui
parte ricorrente chiede tutela risarcitoria.
L’amministrazione ha adottato una variante favorevole a
parte ricorrente annullata dalla Regione in autotutela;
l’annullamento, impugnato sia dal Comune che dalla società,
è stato confermato in sede giurisdizionale. Parte ricorrente
pertanto non può vantare un interesse oppositivo rispetto al
provvedimento di autotutela, in quanto trattasi di
provvedimento legittimo.
La società non pare al collegio neppure vantare un interesse
pretensivo. Ciò in quanto, da un lato, la pianificazione
urbanistica è attività altamente discrezionale, rispetto
alla quale i privati possono al più vantare aspettative di
mero fatto ad una più favorevole qualificazione delle aree
di proprietà (è infatti indubbio che, nonostante la non linearissima esposizione di cui al ricorso, l’area di via
Cartman -di interesse di parte ricorrente- non era né
edificabile né suscettibile di “atterraggio” di diritti
edificatori maturati altrove sino alla adozione della
variante poi annullata), dall’altro la variante è anche
risultata illegittima.
Non è condivisibile l’impostazione di parte ricorrente là
dove ascrive la illegittimità della variante -per la quale
è stata impropriamente seguita la procedura della variante
parziale anziché quella della variante strutturale- ad un
vizio di mera forma o procedura, quasi sussistesse comunque
un interesse pretensivo fondato nel merito.
L’alternativa tra variante parziale e variante strutturale
infatti non è ascrivile a questione di mera forma o
procedura, visto che diversi sono i poteri decisori
spettanti ai più attori pubblici coinvolti in un atto
complesso nelle due tipologie di varianti e che la variante
parziale illegittimamente ha emarginato la Regione la quale
–legittimamente– è intervenuta in autotutela.
A ciò si aggiunga, come già evidenziato, che, a fronte
dell’attività di pianificazione urbanistica, non si può
sostenere in linea generale che il privato vanti un
interesse pretensivo in senso stretto ad una più favorevole
qualificazione di aree di sua proprietà.
In definitiva non sembra che la posizione giuridica
soggettiva spesa dalla ricorrente possa ascriversi
all’(insussistente) interesse pretensivo ad una variante
strutturale a sé favorevole.
La posizione giuridica soggettiva, come detto, neppure è
facilmente qualificabile interesse oppositivo; vero è,
infatti, che con l’adozione della variante la parte ha
consolidato una posizione di vantaggio, sennonché il
legittimo annullamento del provvedimento favorevole non può
che far concludere che quella posizione di vantaggio non era
legittima, e quindi non sarebbe tutelabile in sé.
Parte ricorrente pare piuttosto dolersi di una sorta di
violazione del proprio affidamento ingenerato in sede
procedimentale.
Ritiene il collegio, in astratto, che sia configurabile nei
rapporti tra amministrazione e cittadino un affidamento
tutelabile nell’ambito del procedimento amministrativo,
quale che sia il non semplice inquadramento dogmatico della
posizione giuridica soggettiva lesa.
L’affidamento è ascrivibile alle categorie generali del
diritto e non costituisce autonoma posizione giuridica
soggettiva; esso tuttavia pacificamente può qualificare la
posizione del privato nel rapporto procedimentale, nel caso
di specie, nella fase tra l’adozione della variante
favorevole ed il suo annullamento.
In sostanza è teoricamente possibile che, ferma la acclarata
non spettanza di alcun bene della vita, la condotta
dell’amministrazione nella fase strettamente procedimentale
di esercizio del potere abbia ingenerato un legittimo
affidamento tutelabile in capo al privato, di cui si reclama
in questa sede tutela. D’altro canto si legge in Cass. SU
8057/2016 che: “l'azione amministrativa illegittima
-composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi-
non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare.
E' l'agire provvedimentale nel suo complesso che è messo in
discussione, mentre l'affidamento –nella legittimità di
tali atti- non è altro che un profilo riflesso senza alcuna
incidenza ai fini dell'affermazione della giurisdizione”.
In definitiva, quindi, l’affidamento ingenerato dall’azione
amministrativa è un riflesso tutelabile di detta azione, non
idoneo ad incidere sul riparto di giurisdizione là dove
l’attività contestata, come nel caso di specie, costituisca
indubbiamente un esercizio di potere.
La domanda di parte ricorrente viene dunque vagliata al fine
di verificare se l’agire procedimentale dell’amministrazione
abbia effettivamente ingenerato un legittimo affidamento in
capo alla ricorrente.
Il principio dell’affidamento, di derivazione germanica, si
qualifica nell’ordinamento comunitario come principio comune
alle tradizioni degli stati membri; in ambito privatistico è
stato codificato all’art. 1.8. dei principi UNIDROIT che
afferma il principio del “nemo venire contra facutm proprium”
e considera tutelabile l’affidamento “ragionevole”.
Esso trova anche spazio nel diritto pubblico ed è principio
oggi accettato quello secondo cui il procedimento
amministrativo possa anche essere valutato alla luce
dell’affidamento che ingenera o consolida nei destinatari
dell’azione amministrativa.
Tuttavia, mentre risulta più semplice configurare un
affidamento là dove l’amministrazione eventualmente muti le
proprie scelte per ragioni di opportunità o superiore
interesse pubblico -magari tenendo condotte astrattamente
incoerenti, pur nell’ambito di più possibili scelte
legittime– e così “travolgendo” eventuali posizioni
consolidate dei privati, più complesso è configurare un
affidamento tutelabile a fronte di attività amministrativa
illegittima.
La casistica annovera l’apparenza legittima o la presenza di
ulteriori condotte dell’amministrazione che, al di là
dell’attività illegittima, abbiano ingenerato nel privato un
legittimo affidamento; ancora la stessa legge n. 241/1990
individua il decorso di un significativo lasso di tempo
quale presupposto per ingenerare un “ragionevole”
affidamento.
Nel caso di specie non può non rilevarsi che l’attività
amministrativa da cui la ricorrente aveva tratto vantaggio
era, pacificamente, illegittima. La variante, approvata a
dicembre 2008, già ad aprile 2009 veniva annullata in
autotutela sicché certamente manca qualsivoglia presupposto
di lungo decorso del tempo che, al limite, potrebbe
giustificare il maturare di un affidamento.
E’ pur vero che il provvedimento in autotutela è stato
oggetto di impugnativa ma l’amministrazione ha
legittimamente scelto di difendere il proprio operato,
sicché la pendenza di un contenzioso non qualifica certo in
termini di acquiescenza l’atteggiamento dell’amministrazione
che difende il proprio atto.
In sostanza nella vicenda mancano i presupposti di fatto
perché potesse configurarsi un legittimo e ragionevole
affidamento tutelabile.
D’altro canto, come correttamente osservato
dall’amministrazione, la ricorrente ha acquisito terreni
collinari ben prima della variante, sicché la scelta non può
certo essere stata condizionata da un atto rispetto al
quale, al più, poteva vantare una aspettativa di fatto;
inoltre la società non ha perso i diritti edificatori che le
derivano dalla disciplina di piano regolatore delle aree
collinari. Per contro non vi può essere alcuna legittima
pretesa (o affidamento) della società a che detti diritti
edificatori possano atterrare in aree già di sua proprietà o
in specifiche aree non in tal senso deputate dal piano
regolatore.
La modifica di piano ha avuto brevissima durata ed è stata
posta in discussione da una delle autorità preposte al
potere pianificatorio sicché, nella complessiva azione
amministrativa, non vi erano certo i presupposti per un
tutelabile “ragionevole” affidamento o, peggio, per una
apparente legittimità dell’azione amministrativa.
La ricorrente, nella memoria depositata per l’udienza di
merito, ricostruisce l’intera vicenda a partire dalla
propria originaria scelta di acquisire aree “collinari” per
“guadagnare” capacità edificatoria da far “atterrare”
altrove: la ricostruzione non pare al collegio poter essere
presa in considerazione. La domanda risarcitoria si
focalizza in ricorso sul danno presuntivamente derivante
dall’annullamento della variante, quindi su un singolo
episodio della pianificazione urbanistica; la restante e
pregressa vicenda è frutto di scelte libere della ricorrente
che, liberamente, ha percorso soluzioni dall’esito non
garantito così assumendosi il rischio di non riuscire a
portare a termine una vantaggiosissima speculazione
edilizia, ove la pianificazione fosse evoluta nella
direzione auspicata.
La domanda risarcitoria non può quindi trovare accoglimento
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 08.06.2017 n. 713 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Permessi
104, maturano le ferie.
Beneficiare dei permessi ex art. 33, legge 104/1992
per l’assistenza al
parente portatore di handicap, non incide
sull’ammontare delle ferie
regolarmente spettanti.
A stabilirlo è stata
la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con
ordinanza
07.06.2017 n. 14187.
La Corte d’appello
riformava la sentenza del
Tribunale e dichiarava illegittima la
decurtazione di due giorni di ferie
annuali in conseguenza del godimento dei
permessi concessi ex art. 33
della legge n. 104 del 1992 e per l’effetto
condannava la società datrice
ad accreditare all’appellante quattro giorni
di ferie relative agli anni
2004 e 2005. Avverso tale pronuncia
ricorreva la società.
Ciò di cui si
discute –ha esordito il Collegio- è la
limitazione della computabilità,
ai fini delle ferie, dei permessi di cui
all’art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104.
La stessa Corte,
nel decidere una analoga
controversia relativa alla computabilità di
detti permessi ai fini della
tredicesima mensilità, riteneva che la
limitazione della computabilità
dei permessi di cui all’art. 33, comma 3,
della legge 05.02.1992, n.
104, opera soltanto nei casi in cui essi
debbano cumularsi effettivamente
con il congedo parentale ordinario - che può
determinare una
significativa sospensione della prestazione
lavorativa e con il congedo
per malattia del figlio, per i quali
compete un’indennità inferiore alla
retribuzione normale (diversamente
dall’indennità per i permessi ex
lege n. 104 del 1992 commisurata all’intera
retribuzione), risultando
detta interpretazione idonea ad evitare che
l’incidenza sulla retribuzione
possa essere di aggravio della situazione
dei congiunti del
portatore di handicap e disincentivare
l’utilizzazione del permesso.
Nel caso in specie, il giudice di appello
con argomentazioni conformi
a quanto affermato dalla Suprema corte ha
ritenuto che nel caso
specifico i permessi, accordati per
l’assistenza al genitore portatore
di handicap, concorressero nella
determinazione dei giorni di ferie
maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato.
Infatti, il diritto alle
ferie assicurato dall’art. 36, u.c.
garantisce il ristoro delle energie a
fronte della prestazione lavorativa svolta,
e che tale ristoro si rende
nei fatti necessario anche a fronte
dell’assistenza a un invalido,
che comporta un aggravio in termini di
dispendio di risorse fisiche e
psichiche. Inoltre, determinante è la
considerazione che i permessi
per l’assistenza ai portatori di handicap
poggiano sulla tutela dei disabili
predisposta dalla normativa interna -e in
primis dagli artt. 2,
3, 38 Cost.- e internazionale quali sono
la Direttiva 2000/78/Ce del
Consiglio del 27.11.2000 e la
Convenzione Onu sui diritti delle
persone con disabilità ratificata e resa
esecutiva in Italia con legge 03.03.2009, n. 18.
Significativamente, la
Convenzione Onu prevede
il sostegno e la protezione da parte della
società e degli Stati non
solo per i disabili, ma anche per le loro
famiglie, ritenute strumento
indispensabile per contribuire al pieno ed
uguale godimento dei diritti
delle persone con disabilità. Ragioni di
coerenza con la funzione dei
permessi e con i principi indicati impongono
quindi l’interpretazione
della disposizione maggiormente idonea ad
evitare che l’incidenza
sull’ammontare della retribuzione possa
fungere da aggravio della
situazione economica dei congiunti del
portatore di handicap e disincentivare
l’utilizzazione del permesso stesso. In
forza delle suesposte
considerazioni, il ricorso è stato
rigettato (articolo ItaliaOggi del
29.09.2017).
----------------
MASSIMA
- Che ciò di cui si discute
è la limitazione della computabilità, ai
fini delle ferie, dei permessi di cui
all'art. 33, comma 3, della legge
05.02.1992, n. 104.
- Che questa Corte nel decidere una analoga controversia relativa
alla computabilità di detti permessi ai fini
della tredicesima mensilità, rispetto alla
quale analogamente che per le ferie e con
rinvio all'art. 7 della legge 1204 del 1971
poi trasfusa nel d.lgs. n. 151 del 2001, ha
ritenuto che "la
limitazione della computabilità (....) dei
permessi di cui all'art. 33, comma 3, della
legge 05.02.1992, n. 104, in forza del
richiamo operato dal successivo comma 4
all'ultimo comma dell'art. 7 della legge
30.12.1971, n. 1204 (abrogato dal d.lgs.
26.03.2001, n. 151, che ne ha tuttavia
recepito il contenuto negli artt. 34 e 51),
opera soltanto nei casi in cui essi debbano
cumularsi effettivamente con il congedo
parentale ordinario -che può determinare una
significativa sospensione della prestazione
lavorativa- e con il congedo per malattia
del figlio, per i quali compete un'indennità
inferiore alla retribuzione normale
(diversamente dall'indennità per i permessi
ex lege n. 104 del 1992 commisurata
all'intera retribuzione), risultando detta
interpretazione idonea ad evitare che
l'incidenza sulla retribuzione possa essere
di aggravio della situazione dei congiunti
del portatore di handicap e disincentivare
l'utilizzazione del permesso"
(cfr. Cass. 07/07/2014 n. 15345).
- Che il giudice di appello con argomentazioni conformi a quanto
affermato da questa Corte nella richiamata
sentenza ha ritenuto che nel caso specifico
i permessi, accordati per l'assistenza al
genitore portatore di handicap,
concorressero nella determinazione dei
giorni di ferie maturati dal lavoratore che
ne ha beneficiato.
- Che infatti, il diritto alle ferie assicurato
dall'art. 36, u.c. garantisce il ristoro
delle energie a fronte della prestazione
lavorativa svolta, e che tale ristoro si
rende nei fatti necessario anche a fronte
dell'assistenza ad un invalido, che comporta
un aggravio in termini di dispendio di
risorse fisiche e psichiche.
- Che inoltre sotto il profilo sistematico, determinante è la
considerazione che i
permessi per l'assistenza ai portatori di
handicap poggiano sulla tutela dei disabili
predisposta dalla normativa interna
-ed in primis dagli artt. 2, 3, 38
Cost.- ed internazionale
-quali sono la Direttiva 2000/78/CE del
Consiglio del 27.11.2000 e la Convenzione
ONU sui diritti delle persone con disabilità
ratificata e resa esecutiva in Italia con L.
03.03.2009, n. 18. Significativamente, la
Convenzione ONU prevede il sostegno e la
protezione da parte della società e degli
Stati non solo per i disabili, ma anche per
le loro famiglie, ritenute strumento
indispensabile per contribuire al pieno ed
uguale godimento dei diritti delle persone
con disabilità (v. in particolare il punto x
del preambolo e l'art. 19, punto b, art. 23,
comma 3, art. 28, comma 1 e comma 2, lett.
c).
- Che ragioni di coerenza con la funzione dei
permessi e con i principi indicati impongono
quindi l'interpretazione della disposizione
maggiormente idonea ad evitare che
l'incidenza sull'ammontare della
retribuzione possa fungere da aggravio della
situazione economica dei congiunti del
portatore di handicap e disincentivare
l'utilizzazione del permesso stesso
(soluzione che trova conforto nel parere n.
3389 del 09/11/2005 del Consiglio di Stato,
richiamato dalla Corte d'appello). |
TRIBUTI: Aree
pertinenziali, è dirimente l'accatastamento
col fabbricato.
Un terreno edificabile iscritto in catasto
unitamente a un fabbricato industriale
veniva sottoposto ad accertamento da parte
del Comune per la porzione non occupata dal
fabbricato. Ribatteva, con ricorso per
Cassazione, la proprietà, sostenendo
l'unitarietà dei due beni conclamata
dall'accatastamento nell'unico mappale.
La Corte di Cassazione, Sez. V civile, con
l'ordinanza
07.06.2017 n.
14117, accoglie il ricorso
del contribuente. Andiamo ad esaminare in
dettaglio i termini della questione,
particolarmente spinosa ai fini
dell'imposizione.
I Giudici rilevano che la definizione di
fabbricato discende dall'art. 2 del Dlgs. n.
504/1992 ed è tale l'unità immobiliare
iscritta o iscrivibile al catasto edilizio
urbano; ciò fa sorgere, in capo al soggetto
passivo, l'obbligo di corrispondere l'Ici
afferente. Il successivo art. 5 stabilisce
che la base imponibile dei fabbricati è data
dalla rendita risultante in catasto, vigente
al 1° gennaio dell'anno d'imposta,
moltiplicata per i rispettivi coefficienti.
Esiste, perciò, una stretta e
imprescindibile relazione, ai fini della
determinazione della base imponibile, tra
l'iscrizione o iscrivibilità catastale
dell'unità immobiliare (così come definita
dalle norme catastali) e la sua rendita. Da
tale correlazione discende che il dato
catastale (unità immobiliare e rendita)
costituisce un fatto oggettivo, non
contestabile da nessuna delle parti (Comune
e contribuente), del rapporto obbligatorio
concernente l'imposta.
Contribuente e Comune
possono contestare l'atto di accatastamento
o di attribuzione della rendita e, in
particolare, il Comune, con la richiesta di
modifica del classamento, motiverà le
ragioni per le quali ad un terreno,
raffigurato in un unico mappale, facente
parte di un unico complesso comprendente
anche il fabbricato, debba essere attribuito
un diverso valore sulla base dell'astratta
edificabilità.
Secondo la Corte il Comune, con una autonoma
iniziativa, si è discostato dalle risultanze
catastali, che conferivano al complesso
immobiliare una condizione di unitarietà,
dando erroneamente rilevanza al carattere di
edificabilità dell'area rispetto a quello
della sua accessorietà, aspetto che la
stessa Corte ha più volte cassato.
Pertanto,
laddove vi sia l'unicità catastale di un
complesso immobiliare comprendente il
fabbricato e il terreno, occorre sempre dare
risalto alla definizione di fabbricato ai
sensi del citato art. 2 in quanto in essa si
fissa il rapporto di accessorietà tra i due
cespiti, e, quindi, il Comune non può
ascrivere autonomamente al terreno un
diverso valore in forza della sua
edificabilità.
La Corte suggerisce, però, al
Comune la strada per rendere tale attività
conforme alla normativa: la contestazione
del classamento unitario.
Se, effettivamente, sussistono ragioni
fondate in base alle quali si possa ritenere
non corretta l'unitarietà catastale tra
fabbricato e terreno, mancando la richiesta
funzionalità diretta e accessorietà, allora
l'Ente potrà, utilizzando le procedure
previste dall'art. 1, commi 336-337, L. n.
311/2004, richiedere lo stralcio dell'area
dal fabbricato con la costituzione di un
autonomo cespite tassabile, attraverso tale
operazione, si avrebbe una rideterminazione
dell'ammontare della rendita del fabbricato
originario non più comprensiva del terreno
frazionato. Spetterà, pertanto, all'Ente
vagliare l'effettiva sussistenza dei
presupposti per intraprendere tale percorso
(articolo ItaliaOggi del
07.07.2017). |
ENTI LOCALI - VARI: Multe
stradali, spazio ai ricorsi. Associazione di
consumatori può agire contro i comuni. Una
sentenza del Tribunale amministrativo della
Lombardia coinvolge Altroconsumo.
L'associazione Altroconsumo può agire
legittimamente anche contro l'inefficienza
dei Comuni, ai sensi dell'art. 1, dlgs
198/2009, in materia di notifiche dei
verbali del Codice della strada.
Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, sez. III,
con la
sentenza
07.06.2017 n. 1267.
Altroconsumo aveva proposto ricorso nei
confronti del Comune di Milano lamentando
l'inefficienza dell'ente, ai sensi dell'art.
1, dlgs 198/2009, in materia di notifiche
dei verbali del Codice della strada.
Aveva rilevato, infatti, una prassi del
Comune di notificare tali verbali oltre i
termini di legge e questo coincideva con
l'avvio delle rilevazioni di sette nuovi
autovelox comunali. L'associazione aveva,
quindi, chiesto al Tar di adottare i
provvedimenti necessari per ripristinare la
legalità del servizio di rilevazione e
notifica dei verbali di infrazione.
A fronte del ricorso il comune aveva
eccepito, a sua volta, la mancanza di
connessione diretta dell'associazione
ricorrente con gli interessi di consumatori
che l'amministrazione, con i nuovi presidi
sulla sicurezza stradale, intendeva invece
tutelare. Il Tar ritiene l'eccezione
infondata.
Per quanto riguarda la
qualificazione dei trasgressori del Codice
della strada quali utenti di una delle
attività soggette all'azione di efficientamento collettivo, occorre rilevare
che dalla lettura dell'art. 1, dlgs 198/2009
si evince che, nell'ambito delle svolgimento
della funzione pubblica soggetta ad azione
correttiva rientra, nell'interpretazione
comune, anche la funzione sanzionatoria.
Deve quindi ritenersi che anche gli utenti
dell'attività sanzionatoria possano essere
tutelati con questa azione da comportamenti
delle pubbliche amministrazioni che, per la
loro ripetitività, incidono in modo
collettivo sulle loro posizioni giuridiche,
sebbene questi abbiano di regola carattere
individuale.
Per quanto riguarda, poi, la legittimazione
dell'Associazione Altroconsumo occorre
rammentare che, secondo l'art. 1, dlgs
198/2009, comma 4 «Ricorrendo i
presupposti di cui al comma 1, il ricorso
può essere proposto anche da associazioni o
comitati a tutela degli interessi dei propri
associati, appartenenti alla pluralità di
utenti e consumatori di cui al comma 1»
(articolo ItaliaOggi
Sette del
10.07.2017). |
TRIBUTI: Accesso
pure senza preavviso. Tassa rifiuti.
Non è illegittimo l'accesso presso
l'immobile del contribuente per verificare
la superficie soggetta alla tassa rifiuti
senza un preavviso e una preventiva
autorizzazione. Né sussiste un obbligo
dell'amministrazione comunale di instaurare
un contraddittorio preventivo con il
contribuente o di richiedere informazioni e
documenti prima di disporre l'ispezione
dell'immobile.
È quanto ha stabilito la Ctr di Milano, Sez. XXXII, con la
sentenza 607/2017.
Per i giudici d'appello, non è illegittimo
l'accesso presso l'immobile occupato dal
contribuente per il controllo della
superficie imponibile, finalizzato
all'accertamento della Tarsu, ma lo stesso
vale per la Tari, senza un preventiva
autorizzazione e in mancanza di un preavviso
che precede l'ispezione. E non sussiste un
obbligo normativo che impone un
contraddittorio preventivo o la richiesta di
documenti prima dell'accesso.
In realtà,
però, le norme di legge prevedono la
comunicazione di un preavviso prima
dell'accesso, debitamente autorizzato dal
sindaco per la Tarsu e del funzionario
responsabile per la Tari. Tuttavia la
Cassazione, con la sentenza 15438/2010, ha
chiarito che il preavviso di accesso agli
immobili per l'accertamento della tassa
rifiuti risponde a ragioni di mera
opportunità e cortesia. Quindi, la sua
mancanza non determina l'invalidità della
procedura di verifica della superficie
imponibile e, per l'effetto, dell'avviso di
accertamento notificato al contribuente.
Sempre la Cassazione (sentenza 22764/2004)
ha stabilito che la misurazione della
superficie non è condizionata da una
preliminare istruttoria. Il comune può
accedere presso l'immobile, anche nel caso
in cui non richieda preventivamente al
contribuente atti e documenti. Sono
attribuiti determinati poteri all'ente al
fine di controllare i dati contenuti nelle
denunce o da acquisire in sede di
accertamento d'ufficio, tramite la
rilevazione della misura e la destinazione
delle superfici.
Inoltre, è sempre in
facoltà dell'amministrazione utilizzare i
dati acquisiti ai fini di altro tributo
ovvero richiedere a uffici o enti pubblici,
anche economici, dati e notizie rilevanti
per l'accertamento. Anche al soggetto che
occupa l'immobile possono essere richiesti
atti e documenti o risposte ai questionari
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
TRIBUTI:
Aree edificabili, rettifica ad
hoc. Per variare il valore ai fini Ici, Imu,
Tasi.
Dichiarazione ad hoc per rettificare il
valore delle aree edificabili. Il
contribuente, infatti, non ha diritto al
rimborso di Ici, Imu e Tasi se paga su un
valore di mercato delle aree edificabili
dichiarato che è più elevato rispetto a
quello deliberato dalla giunta municipale. I
valori stimati dalla giunta sono meramente
indicativi e non impongono
all'amministrazione comunale di restituire
il tributo versato in misura superiore al
dovuto. Il titolare dell'area in questi casi
ha l'obbligo di presentare una dichiarazione
di variazione e di rettificare il valore
denunciato.
Lo ha stabilito la Commissione tributaria
provinciale di Roma, con la sentenza 18.05.2017 n.
12192/38/2017.
Per i giudici tributari, il comune di
Fiumicino «ha operato legittimamente nel non
dar corso al rimborso, in quanto la
ricorrente ha effettuato i versamenti in
base a quanto dichiarato, e non ha
presentato una dichiarazione rettificativa
che potesse dare origine al rimborso di
somme non dovute».
Dunque, se il possessore di un'area dichiara
un determinato valore al metro quadro è
tenuto a pagare l'Ici in base a quanto
denunciato, anche se l'immobile ha subito
una riduzione di valore negli anni
successivi. La riduzione della base
imponibile può dipendere da eventuali
variazioni urbanistiche. La stessa regola
vale per Imu e Tasi.
Va ricordato che la dichiarazione per le
imposte locali produce effetti anche per gli
anni successivi a quello in cui è stata
presentata, se l'interessato non denuncia al
comune che sono intervenute modifiche. La
denuncia è ultrattiva ed esplica effetti
giuridici anche per gli anni d'imposta
successivi, se non vengono segnalate le
variazioni.
Il valore dell'area si determina prendendo a
base il valore di mercato, facendo
riferimento a: zona territoriale di
ubicazione, indice di edificabilità,
destinazione d'uso consentita, oneri per
eventuali lavori di adattamento del terreno
necessari per la costruzione e, infine, ai
prezzi medi rilevati sul mercato di aree
aventi le stesse caratteristiche.
I valori possono essere deliberati anche
dalla giunta comunale, sulla base di una
perizia redatta dall'ufficio tecnico
(articolo ItaliaOggi del
14.06.2017). |
TRIBUTI: Niente
Ici su fabbricati accatastati F3.
Il classamento catastale di un fabbricato in
corso di costruzione nella categoria F/3,
essenziale ai negozi civilistici su cosa
futura, non è valido presupposto per
l'assoggettamento dello stesso all'imposta
comunale sugli immobili. Tale classamento,
infatti, non segnala una capacità
contributiva autonoma rispetto a quella
evidenziata dalla proprietà dell'area
edificabile.
È quanto si legge nella
sentenza 11.05.2017 n.
11694 della Corte di Cassazione, Sez.
V civile.
La vertenza si origina con la notifica di un
avviso di accertamento Ici, imposta pretesa
dal comune di Foggia in relazione a dei
fabbricati in corso di costruzione,
accatastati nella categoria F/3 «unita in
corso di costruzione». Secondo l'ente
impositore, l'iscrizione catastale del
fabbricato era presupposto sufficiente per
il suo assoggettamento all'imposta, in base
all'articolo 2, comma 1, lett. a), del dlgs
504/1992 secondo cui «per fabbricato si
intende l'unità immobiliare iscritta o che
deve essere iscritta nel catasto edilizio
urbano».
Il secondo periodo di detta norma,
poi, detta un criterio alternativo
(ultimazione dei lavori o anteriore
utilizzazione) che acquista rilievo solo
quando il fabbricato non sia ancora iscritto
al catasto; l'ultimazione dei lavori o
l'utilizzazione antecedente, infatti, può
dar luogo a tassazione in difetto di
accatastamento, solo perché rivela che il
fabbricato doveva essere iscritto in catasto
(per cui l'iscrizione o l'obbligo di
iscrizione rimane presupposto sufficiente e
preponderante).
Tuttavia, precisa la Cassazione, ai fini
impositivi è significativo unicamente
l'accatastamento reale e non quello c.d.
«fittizio», istituzionalmente privo di
rendita, di cui alla categoria F/3.
L'accatastamento in questa categoria,
infatti, che risulta essenziale per compiere
atti negoziali aventi a oggetto una cosa
futura, non integra il presupposto
impositivo descritto dall'articolo 5 del dlgs 504/1992. Con la conseguenza che, in
presenza di una tale situazione, resta
soggetta all'imposta soltanto l'area
edificabile e non anche, in via autonoma, il
fabbricato in corso di costruzione. Ciò,
precisa la Cassazione, fermo restando
l'aspetto relativo alla verifica della
pertinenza di tale classamento.
Alla luce dell'oggettiva incertezza della
fattispecie, esplicitamente affermata dalla
Corte nella sentenza in commento, le spese
del giudizio sono state interamente
compensate.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
( ) Si è quindi affermato che l'iscrizione
in catasto o la sussistenza delle condizioni
di iscrizione è presupposto sufficiente
perché l'unità immobiliare sia considerata
«fabbricato» e sia quindi assoggettata a
imposta (Cass. 10.10.2008, n. 24924, Rv.
605153). Si è aggiunto che il criterio
alternativo descritto nel secondo periodo
(ultimazione dei lavori o anteriore
utilizzazione) acquista rilievo solo quando
il fabbricato non sia ancora iscritto al
catasto, giacché l'iscrizione realizza di
per sé il presupposto principale
dell'assoggettamento all'imposta (Cass. 23.06.2010, n. 15177, Rv. 613895).
Si è
altresì precisato che l'ultimazione dei
lavori o l'utilizzazione antecedente può dar
luogo a tassazione in difetto di
accatastamento, solo perché rivela che il
fabbricato doveva essere iscritto in
catasto, fermo che l'iscrizione o l'obbligo
di iscrizione è presupposto sufficiente
(Cass. 30.04.2015, n. 8781, Rv. 635335).
Questi princìpi vanno condivisi, in quanto
la struttura normativa collega la qualifica
di «fabbricato» come bene tassabile
all'iscrizione catastale o all'obbligo di
iscrizione, ponendo l'ultimazione dei lavori
o l'utilizzazione antecedente nel ruolo di
indici sussidiari, valevoli per l'ipotesi
che sia stato omesso il dovuto
accatastamento. Occorre chiarire che a
questi fini è significativo unicamente
l'accatastamento reale, perché
l'accatastamento c.d. fittizio,
istituzionalmente privo di rendita, non
fornisce la base imponibile ex art. 5, dlgs
504/1992, né evidenzia una fattispecie
autonoma per capacità contributiva.
Il classamento nella categoria fittizia F/3
(«unità in corso di costruzione»), pur
essenziale ai negozi civilistici su cosa
futura, non segnala una capacità
contributiva autonoma rispetto a quella
evidenziata dalla proprietà del suolo
edificabile. In presenza di un tale classamento, quindi, e fermi i controlli
pubblici sulla relativa appropriatezza,
l'imposta può attingere solo l'area
edificatoria, con la base imponibile fissata
dall'art. 5, comma 6, dlgs 504/1992 (valore
dell'area tolto il valore del fabbricato in
corso d'opera). ( )
3. Vale il seguente
principio di diritto: «in tema di imposta
comunale sugli immobili, l'accatastamento di
un nuovo fabbricato nella categoria fittizia
delle unità in corso di costruzione non è
presupposto sufficiente per
l'assoggettamento a imposta del fabbricato
stesso, salva la tassazione dell'area
edificatoria e la verifica sulla pertinenza
del classamento».
4. Il ricorso deve essere respinto, poiché
il giudice d'appello non si è discostato dal
principio enunciato al § 3; tuttavia,
l'oggettiva incertezza della fattispecie
impone di compensare le spese di questo
giudizio
(articolo ItaliaOggi
Sette del
03.07.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9 del DM 02.04.1968 n. 1444, recante “limiti di
distanza tra i fabbricati”, prevede, tra
l’altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: “nelle altre zone, con
riferimento a “nuovi edifici”… “in tutti i
casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”.
Le stesse disposizioni, dettate con
riferimento agli strumenti urbanistici ad
esse successivi, si impongono
inderogabilmente, al punto da sostituire per
inserzione automatica eventuali disposizioni
contrastanti.
La finalità del DM n. 1444 del 1968 di
prescrivere precise distanze tra fabbricati
è infatti quella di garantire sia
l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla
salute dei cittadini, evitando il prodursi
di intercapedini malsane e lesive della
salute degli abitanti degli immobili.
Le distanze previste dall’art. 9 cit. sono
dunque coerenti con il perseguimento
dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta,
anche in tema di distanze, dal codice
civile.
---------------
L’intervento assentito consiste nella
soprelevazione di un primo e secondo piano
su un fabbricato preesistente posto sul
confine. Tali opere sono da considerarsi
pertanto come una “nuova costruzione” ai
fini del rispetto della distanza di 10 metri
imposta dal DM n. 1444/1968, dall’art. 5 del
Regolamento edilizio e dall’art. 57 delle
NTA al PRG.
In particolare, il limite di 10 m. di
distanza, di cui al già citato art. 9, primo
comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, da
computarsi con riferimento ad ogni punto dei
fabbricati e non anche alle sole parti che
si fronteggiano, presuppone la presenza di
due “pareti” che si fronteggiano, delle
quali almeno una finestrata.
Più precisamente, la giurisprudenza ha
affermato che il limite predetto presuppone
“pareti munite di finestre qualificabili
come vedute”.
Di talché, sussiste la tassatività delle
disposizioni dello stesso decreto e la loro
operatività al momento del rilascio del
titolo edilizio con riferimento alla
situazione concreta, a prescindere dalla
distanza delle abitazioni già esistenti,
dalla loro eventuale abusività o da altre
disposizioni in senso contrario contenute
negli strumenti urbanistici.
---------------
... per la riforma della
sentenza 19.03.2014 n. 790 del
Tar per la Puglia, Sede staccata di Lecce,
Sez. III, resa tra le parti, concernente la
realizzazione di una sopraelevazione
sull’immobile di proprietà dei signori
An.Sc. e Ma.Bu..
...
10. L’appello è fondato.
11. Non possono infatti essere condivise le
conclusioni del Tar di Lecce il quale ha
considerato infondate le censure formulate
nel ricorso introduttivo del giudizio
(violazione della prescrizione inderogabile
dettata dall’art. 9, comma 2, del DM 02.04.1968 n. 1444 e degli artt. 873 e 907
codice civile).
11.1. Il giudice di primo grado ha ritenuto,
in particolare, che l’abitazione con la
parete finestrata ad una distanza dal
confine inferiore a cinque metri e ad una
distanza inferiore a tre metri dalla
preesistente casa di abitazione a piano
terra, abilitasse i vicini, in virtù
dell’originaria prevenzione della loro
costruzione sul confine, alla
sopraelevazione.
12. In realtà, la controversia andava
esaminata con riferimento all’applicabilità
o meno della disciplina di cui all’art. 9
del DM n. 1444/1968 alla sopraelevazione
realizzata dai coniugi Sc. e Bu.,
tenendo conto della distanza dell’intervento
edilizio dalla parete finestrata
dell’appellante.
12.1. In particolare, l’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444, recante “limiti di
distanza tra i fabbricati”, prevede, tra
l’altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: “nelle altre zone, con
riferimento a “nuovi edifici”… “in tutti i
casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti”.
12.2. Le stesse disposizioni, dettate con
riferimento agli strumenti urbanistici ad
esse successivi, si impongono
inderogabilmente, al punto da sostituire per
inserzione automatica eventuali disposizioni
contrastanti (cfr. Cass. civ., sez. II, 12.02.2016 n. 2848; Cons. Stato, sez. IV,
16.04.2015 n. 1951).
12.3. La finalità del DM n. 1444 del 1968 di
prescrivere precise distanze tra fabbricati
è infatti quella di garantire sia
l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo
dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla
salute dei cittadini, evitando il prodursi
di intercapedini malsane e lesive della
salute degli abitanti degli immobili (Cons.
Stato, sez. IV, 29.02.2016 n. 856).
12.4. Le distanze previste dall’art. 9 cit.
sono dunque coerenti con il perseguimento
dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei
proprietari degli immobili finitimi alla
nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta,
anche in tema di distanze, dal codice civile
(cfr. Cons. stato, sez. IV, 03.08.2016,
n. 3510).
12.5. Ciò premesso, va dunque verificato se
il provvedimento impugnato risulti adottato
in violazione della norma di diritto
pubblico in tema di distanze, nel senso che
il nuovo manufatto si ponga in contrasto con
le finalità di tutela dell’interesse
pubblico al quale la norma è
teleologicamente orientata.
12.6. L’intervento assentito con permesso di
costruire n. 120 del 02.04.2013 consiste
nella soprelevazione di un primo e secondo
piano su un fabbricato preesistente posto
sul confine. Tali opere sono da considerarsi
pertanto come una “nuova costruzione” ai
fini del rispetto della distanza di 10 metri
imposta dal DM n. 1444/1968, dall’art. 5 del
Regolamento edilizio e dall’art. 57 delle NTA al PRG (cfr. Cass. civ. sez. II, 27.03.2014, n. 7291).
12.7. In particolare, il limite di 10 m. di
distanza, di cui al già citato art. 9, primo
comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, da computarsi
con riferimento ad ogni punto dei fabbricati
e non anche alle sole parti che si
fronteggiano (Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015 n. 2661), presuppone la presenza
di due “pareti” che si fronteggiano, delle
quali almeno una finestrata (Cons. stato,
sez. IV, 26.11.2015 n. 5365; id., 19.06.2006 n. 3614). Più precisamente, la
giurisprudenza ha affermato che il limite
predetto presuppone “pareti munite di
finestre qualificabili come vedute”.
12.8. Orbene, nel caso di specie ricorre
l’ipotesi di due pareti di edifici, delle
quali almeno una finestrata da cui si può
vedere direttamente la proprietà dei signori
Sc. e Bu., e dunque proprio il
caso testualmente disciplinato dall’art. 9
del DM 1444/1968.
12.9. In sostanza, può dunque essere
condivisa la prospettazione di parte
appellante che nel primo motivo di appello
ha rilevato la tassatività delle
disposizioni dello stesso decreto e la loro
operatività al momento del rilascio del
titolo edilizio con riferimento alla
situazione concreta, a prescindere dalla
distanza delle abitazioni già esistenti,
dalla loro eventuale abusività o da altre
disposizioni in senso contrario contenute
negli strumenti urbanistici (cfr. Cass.
civ., sez. II, 30.03.2006, n. 7563).
13. Per le ragioni sopra esposte, l’appello
va accolto e, per l’effetto, va totalmente
riformata la sentenza impugnata con
conseguente accoglimento del ricorso
proposto in primo grado e l’annullamento del
permesso di costruire oggetto del presente
giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.05.2017 n. 2086 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: Rifiuti
speciali, esenzioni senza dichiarazioni.
In caso di effettiva e provata produzione di
rifiuti speciali, con smaltimento a carico
del contribuente, l'esenzione dalla tassa
rifiuti comunale spetta anche nel caso in
cui non sia stata prodotta l'apposita
dichiarazione. La spettanza del diritto,
infatti, non può essere consumata dalla sola
omissione dichiarativa, quando si sia in
presenza di circostanze effettivamente e
adeguatamente provate.
Sono le conclusioni a cui giunge la Ctp di
Bergamo nella sentenza
18.04.2017 n. 255/04/2017.
Il collegio tributario ha annullato un
avviso di accertamento emesso dal comune di
Credaro (Bg), relativo alla Tarsu per l'anno
2009. In particolare, l'Ufficio tributi
contestava la mancata presentazione della
dichiarazione ai fini della Tarsu, onere che
incombeva sulla società contribuente,
specialmente in virtù dell'asserita
produzione di rifiuti speciali, fatto che
avrebbe determinato l'esenzione dalla tassa
(limitatamente alle aree di produzione di
tali rifiuti).
Nel corso del giudizio, la società
depositava la documentazione che provava lo
smaltimento autonomo dei rifiuti speciali,
ritenendo quindi di dover corrispondere la
Tarsu soltanto per le aree destinate a
uffici. La Ctp ha accolto le doglianze,
rimproverando, tra le righe, il comune per
non aver attivato un contraddittorio
endoprocedimentale, nel corso del quale si
sarebbero potuti appurare i fatti concreti.
La produzione di rifiuti speciali, smaltiti
in maniera indipendente dal servizio
pubblico, consente di non corrispondere la
tassa comunale. Tuttavia, sosteneva il
comune, l'esenzione non spetta perché la
società avrebbe dovuto proporre la
dichiarazione ai fini Tarsu, denunciando le
aree in cui venivano prodotti rifiuti
speciali. I giudici tributari, tuttavia,
hanno dato maggior peso alla sostanza,
ritenendo che l'omissione dichiarativa non
potesse pregiudicare l'esenzione.
Nelle motivazioni, la Ctp svolge anche un
breve richiamo all'obbligo del
contraddittorio, menzionando l'articolo 12
della legge n. 212/2000 e aggiungendo che
l'attuazione di detto confronto avrebbe
consentito quantomeno di ascoltare le
ragioni del contribuente.
In definitiva, la Commissione ha annullato
l'avviso di accertamento emesso dal comune,
ma ha ritenuto di dover compensare le spese
di giudizio, proprio in ragione dell'omessa
presentazione della dichiarazione da parte
della società.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA
SENTENZA
La società ricorrente impugna l'avviso
d'accertamento con il quale il comune di ( )
le imputa l'omessa dichiarazione/denuncia di
variazione dell'occupazione delle aree site
alla via ( ), per cui chiede il pagamento di
5.045,00 per dovuta tassa, sanzioni,
interessi, addizionali e tributo provinciale
per 1o smaltimento dei rifiuti solidi urbani
(Tarsu), relativamente all' anno 2009.
Premesso che la società ricorrente riconosce
d'aver omesso la presentazione della
dichiarazione Tarsu per il sito di ( ),
precisa, tuttavia, che tutta la superficie
occupata è destinata alla produzione di
rifiuti speciali, circostanza questa non
potuta dimostrare stante il mancato
contraddittorio preventivo con l'ufficio
comunale. ( )
Diversamente la ( ) fa presente, in primo
luogo, che il comune di ( ) ha commesso
I'errore di non aver assoggettato a
tassazione soltanto gli spazi occupati da
uffici, corridoi e locali di servizio, dal
momento che le aree produttive sono escluse
da tassazione giacché produttive di rifiuti
speciali, il cui smaltimento è opera e a
costo della stessa società produttrice, che
si avvale di una impresa di autotrasporti di
una impresa di servizi ecologici, come
provato dalle fatture di costo ricevute.
Infine, la ricorrente eccepisce la decadenza
parziale dell'ufficio comunale dal
pretendere quanto richiesto, giacché i
presunti versamenti non effettuati possono
essere richiesti entro il 31 dicembre del
quinto anno successivo a quello in cui la
dichiarazione o il versamento sono stati o
avrebbero dovuto essere effettuati.
Si deve riconoscere che la ( ),esercitando
l'attività di lavorazione di elastomeri e
termoplastici, produce, come principali
rifiuti, scarti di gomme, che devono
considerarsi i frutti speciali, la cui
eliminazione, come dimostrato dalle fatture
di costo, regolarmente pagate, è avvenuta
senza l'ausilio dell'ente comunale nel cui
territorio opera.
I1 comune di ( ) commette, perciò, un errore
nella valutazione delle caratteristiche
oggettive, strutturali e produttive degli
immobili da assoggettare a Tarsu, i cui
spazi oggetto della tassazione sono
solamente le aree, di complessivi metri
quadrati 425, destinate a uffici, a corridoi
e a locali di servizio.
Per questo motivo, devesi annullare l'avviso
d'accertamento impugnato, anche perché non
si è instaurato un contraddittorio
preventivo fra le parti, come previsto
dall'art. 12 della legge 212/2000, che
avrebbe in qualche modo consentito di
riconoscere le ragioni del contribuente.
L'avvenuta omissione, da parte della società
ricorrente, della dichiarazione Tarsu per il
sito di ( ), non producendo alcun
disconoscimento del diritto di cui si
discute, consente di compensare tra le parti
le spese di giudizio.
PQM la Commissione accoglie il ricorso e
annulla l'avviso d'accertamento ( ), emesso
in data 27.11.2015 dal comune di ( ).
Compensa le spese
(articolo ItaliaOggi
Sette del
19.06.2017). |
TRIBUTI: Terreni
a uso pubblico con esenzione Imu.
I terreni edificabili che abbiano ricevuto
un «piano integrato d'intervento» con
l'istituzione di una servitù perpetua di uso
pubblico e l'asservimento, sempre a uso
pubblico, sia dei parcheggi interrati che
del sovrastante porticato, sono esenti da
Imu; il vincolo urbanistico, infatti,
preclude quelle forme di trasformazione del
suolo che siano riconducibili alla nozione
tecnica di edificazione.
Lo ha stabilito la sezione prima della
Commissione tributaria provinciale di
Bergamo nella
sentenza
14.04.2017 n. 252/1/2017.
Quanto affermato dalla Commissione
provinciale lombarda risolve a favore del
contribuente l'aspetto controverso dei
terreni, sia pure inseriti in una zona
edificabile che, tuttavia, abbiano perso
definitivamente la possibilità di
edificazione, in maniera incontrovertibile.
La vertenza trae origine dall'impugnazione
da parte di una società di capitali di un
accertamento Imu con cui il comune di
Calusco d'Adda (Bg) assoggettava a imposta
una area destinata a parcheggio pubblico.
L'Ufficio tributi del comune riteneva che
l'area assoggettata a uso pubblico fosse,
comunque, inserita nel piano regolatore
generale, e in base alle previsioni degli
strumenti urbanistici fosse tassabile.
La
Commissione provinciale, forte anche
dell'insegnamento recente della Cassazione,
ha accolto il ricorso annullando l'atto
impositivo. «Insegna la Suprema Corte di
cassazione nella sentenza n. 5992/2015»,
osservano i giudici provinciali, che il
presupposto di imposta per le aree urbane è
limitato dagli articoli 1 e 2 del dlgs
n. 504/1992 ai «terreni edificabili»,
intendendosi per tali quelli destinati alla
edificazione per espressa previsione degli
strumenti urbanistici.
In verità, sembra
ormai superato quell'orientamento della
Cassazione che riteneva che un terreno
inserito nel Piano regolatore generale
avesse insita una certa vocazione
edificatoria, chiarendo, invece, che
l'utilizzo pubblicistico dell'area, ne
annulli ogni potenzialità edificatoria.
I
giudici provinciali aggiungono che nel caso
in cui l'area sia stata vincolata
concretamente con un utilizzo pubblicistico
(verde pubblico, attrezzature pubbliche,
parcheggio pubblico ecc.) la classificazione
apporta un vincolo di destinazione che
preclude ai privati tutte quelle forme di
trasformazione del suolo che sono
riconducibili alla nozione tecnica di
edificazione, rendendo inapplicabile il
tributo.
---------------
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Con atto in data 02.03.2011 è
stato poi convenuto, tra le stesse parti,
con specifico riguardo alle porzioni
dell'area messa a disposizione dal privato
(sub. 9 e sub.2), rispettivamente,
l'asservimento a uso pubblico di parcheggi
interrati e assoggettamento a uso pubblico
di porticato.
In relazione a tale situazione di fatto,
mentre la società ricorrente rivendica
l'esenzione Imu in base alla «servitù di uso
pubblico» e alla conseguente in
configurabilità della pertinenza, il comune
fa valere l'assoggettabilità all'imposta
delle stesse aree richiamando quella
giurisprudenza di merito che, escludendo la
configurabilità di un diritto reale nel caso
di servitù di uso pubblico, qualifica l'area
assoggettata alla stessa servitù come «area
edificabile» in base alle previsioni degli
strumenti urbanistici (art. 2, lett. b, dlgs
n. 504/1992) e perciò identifica nel
proprietario dell'immobile il oggetto
passivo dell'imposta (art. 3 dlgs cit.).
La questione controversa è se il vincolo di
destinazione urbanistica, generale o
specifica e convenzionale, sottragga l'area
al regine fiscale dei suoli edificabili, ai
fini dell'Ici e dell'Imu.
Va premesso che un'area destinata a uso
pubblico è sottoposta a un vincolo di
destinazione che preclude ai privati tutte
quelle trasformazioni del suolo che sono
riconducibili alla nozione tecnica di
edificazione.
Un'area con tali caratteristiche non può
essere qualificata come fabbricabile, ai
sensi del dlgs n. 504 del 1992, art. 1,
comma 2, e, quindi, il possesso della stessa
non può essere considerato presupposto
dell'imposta comunale in discussione (Cass.
Sez. V 25/03/2015, n. 5992; 21/04/2011 n.
9196; 24/10/2008 n. 25672).
Insegna la Suprema Corte che il presupposto
di imposta per le aree urbane è limitato
dagli artt. 1-2 dlgs n. 504/1992 ai «terreni
fabbricabili», intendendosi per tali quelli
destinati alla edificazione per espressa
previsione degli strumenti urbanistici
ovvero, quale criterio meramente suppletivo,
in base alle effettive possibilità di
edificazione.
Nel caso in cui la zona o l'area sia stata
concretamente vincolata a un utilizzo
meramente pubblicistico (verde pubblico,
attrezzature pubbliche, parcheggio pubblico
ecc.), la classificazione apporta un vincolo
di destinazione che preclude ai privati
tutte quelle forme di trasformazione del
suolo che sono riconducibili alla nozione
tecnica di edificazione (in argomento: Cass.
14/06/2007 n. 13917, 20/11/2006 n. 24585)
In conclusione, il ricorso va accolto. ( )
(articolo ItaliaOggi
Sette del
12.06.2017). |
CONDOMINIO: Condominio,
corsi obbligatori. Nulla la nomina
dell'amministratore senza aggiornamento.
Pronuncia del tribunale di Padova:
adempimento da rispettare entro il 9/10 di
ogni anno.
È nulla la delibera di nomina
dell'amministratore condominiale che non
abbia provveduto a frequentare un valido
corso di formazione annuale. Né è possibile
recuperare l'anno successivo le ore di
aggiornamento periodico previste per
l'annualità precedente e che devono essere
acquisite entro il 9 ottobre di ogni anno.
Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Padova nella
sentenza 24.03.2017 n. 818.
I requisiti dell'amministratore
condominiale. Con l'art. 71-bis delle
disposizioni di attuazione del codice civile
introdotto ex novo dalla legge n. 220/2012
sono stati per la prima volta individuati i
requisiti minimi che ogni amministratore
deve possedere per aspirare a tale incarico
e per mantenerlo validamente nel tempo (si
veda la tabella in pagina).
In particolare,
agli amministratori è stato richiesto di
frequentare annualmente un corso di
aggiornamento periodico in materia di
amministrazione condominiale.
Soltanto con
il decreto del ministero della giustizia n.
140/2014 sono stati però indicati il monte
ore minimo annuale (pari a 15), le modalità
per l'organizzazione dei corsi e l'elenco
delle materie da trattare. Il suddetto
decreto è entrato in vigore il 09.10.2014 e, poiché nel regolamento ministeriale
non si parla di anno solare, si è inteso
comunemente che l'arco temporale annuale
entro il quale adempiere al nuovo obbligo
decorra dal 9 ottobre di ogni anno. È
importante evidenziare come anche la citata
sentenza del tribunale di Padova abbia
espressamente avallato tale interpretazione.
Le conseguenze del mancato rispetto
dell'art. 71-bis disp. att. c.c. Ma quali
sono le conseguenze della mancanza, iniziale
o sopravvenuta, dei requisiti di cui sopra
in capo all'amministratore condominiale? E,
più nello specifico, che cosa accade se
quest'ultimo non frequenta i corsi di
aggiornamento annuale?
La domanda non appare di facile soluzione,
ferma restando l'illegittimità di tale
condotta. L'art. 71-bis disp. att. c.c.,
infatti, non chiarisce questo aspetto.
Poiché, come è noto, la contrarietà a legge
delle delibere assembleari può comportare
tanto l'annullabilità quanto la nullità
delle stesse, con conseguenze molto diverse
in tema di termini di impugnazione, natura
ed effetti della sentenza, si è aperto fin
da subito un interessante dibattito sul
punto.
Vi è anche da considerare il fatto che le
ipotesi di nullità delle deliberazioni
condominiali, all'indomani della storica
sentenza delle sezioni unite della
Cassazione n. 4806/2005, sono state
ricondotte dalla giurisprudenza ai casi più
gravi e, per così dire, eccezionali.
La recente sentenza del tribunale di Padova,
per quanto sostanzialmente non motivata sul
punto, rappresenta comunque un primo
indubbio punto di riferimento su un terreno
alquanto scivoloso e rende consigliabile, se
non addirittura doverosa, la verifica in
sede assembleare del possesso dei requisiti
di legge dell'amministratore al momento
della nomina e del rinnovo dell'incarico. Le
conseguenze della nullità di siffatta
delibera, così come accade nell'altro noto
caso, previsto però espressamente dall'art.
1129 c.c., della mancata presentazione del
preventivo (si veda ItaliaOggi Sette del
23/05/2016), sono infatti molto gravi e
possono avere un impatto rilevante sulla
vita del condominio.
Proprio perché la
dichiarazione della nullità retroagisce alla
data dell'assemblea, la nomina
dell'amministratore è da considerarsi come
mai avvenuta, rimanendo la deliberazione
assembleare del tutto priva di effetti.
Questo vuol dire che i condomini dovranno in
tutta fretta procedere alla nomina di un
nuovo amministratore e dovranno anche
interrogarsi sulla sorte degli atti medio
tempore posti in essere dal soggetto che di
fatto ha gestito il condominio pur senza
essere stato validamente incaricato.
Quest'ultimo, poi, dovrebbe anche essere
tenuto a restituire al condominio il
compenso già eventualmente incassato,
potendo tutto al più richiedere un
indennizzo per le attività effettivamente
espletate in favore dei condomini. Vi è da
osservare che questa situazione di
incertezza potrebbe protrarsi anche per
molto tempo, mettendo a dura prova la
gestione condominiale. E questo non solo a
causa del tempo necessario ad accertare in
sede giudiziale il vizio da cui è affetta la
delibera di nomina ma per il peculiare
regime giuridico dei vizi di nullità, che
possono essere sollevati dal soggetto
interessato senza limiti di tempo, quindi
anche ben al di là dei rigidi termini di
decadenza che viceversa caratterizzano le
impugnazioni delle delibere assembleari.
In altri termini, la deliberazione di nomina
dell'amministratore potrebbe essere
contestata dai condomini (ma anche da
soggetti terzi interessati) ben oltre i 30
giorni di cui all'art. 1137 c.c., quindi
anche a distanza di mesi o, addirittura, di
anni
(articolo ItaliaOggi
Sette del
26.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nella nozione di nuova costruzione di cui
all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 rientrano non solo
l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma anche
gli interventi di ristrutturazione che, anche in ragione
dell’entità delle modifiche apportate al volume ed alla
collocazione del fabbricato rendono l’opera realizzata nel
suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
---------------
Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente si
duole che il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato
senza che fosse rispettata la prescrizione di cui all’art.
41-sexies della l. n. 1150/1942. La norma in questione
prescrive che per le “nuove costruzioni” debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi.
E’ pur vero che, come dedotto in ricorso, la giurisprudenza
ha talvolta esteso il concetto di “nuova costruzione”
anche ad interventi di ristrutturazione; tuttavia,
analizzando la casistica, si evince che siffatta estensione
è stata ammessa, sulla base della ratio normativa, in
ipotesi di intervenenti radicali che hanno ad esempio
comportato mutamento di destinazione d’uso dell’immobile
ovvero moltiplicazione delle unità abitative.
L’interpretazione estensiva, in sostanza, si giustifica in
ragione dell’importanza dell’intervento.
Si legge ad esempio in Cons. St., sez. V, 04.11.2014, n.
5444 che “nella nozione di nuova costruzione di
cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 rientrano non
solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma
anche gli interventi di ristrutturazione che, anche in
ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed
alla collocazione del fabbricato rendono l’opera realizzata
nel suo complesso oggettivamente diversa da quella
preesistente”.
Nel caso di specie è stato realizzato un recupero a fini
abitativi di un sottotetto, senza creazione di nuove unità
abitative. Non si ritiene quindi che l’opera sia
oggettivamente diversa dalla preesistente sì da giustificare
l’obbligo di creazione di parcheggio ad uso privato.
La censura è quindi infondata (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 17.03.2017 n. 391 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La nozione di naturale vocazione edificatoria può essere
appropriatamente impiegata soltanto nel contesto
delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al
diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di un’edificabilità di fatto–
contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle
scelte pianificatorie dell’amministrazione.
E tali scelte, per costante giurisprudenza, costituiscono
espressione di ampia discrezionalità, e non sono perciò
sindacabili dal giudice amministrativo, a meno che risultino
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste,
ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che
si intendono in concreto soddisfare.
---------------
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha chiaramente inteso
–in continuità rispetto alle previsioni del previgente PRG– preservare i profili di pregio architettonico e
paesaggistico degli antichi complessi rurali, sottoponendoli
a una disciplina apposita, calibrata in relazione alle
diverse situazioni (“cascine prevalentemente destinate
all’attività agricola”, “cascine dismesse dall’uso agricolo
già rifunzionalizzate” e “cascine da rifunzionalizzare”).
Tale disciplina è inoltre applicata in modo
generalizzato alle cascine censite sul territorio comunale,
ed è evidentemente diretta a operare una tutela in via
urbanistica di profili di interesse lato sensu culturale.
La
scelta operata è perciò sorretta dalla funzionalizzazione
alla tutela di interessi costituzionali primari, contemplati
dall’articolo 9 della Costituzione, in adesione a un
concetto di urbanistica quale funzione strumentale
all’ordinato sviluppo del territorio, in relazione alle
concrete vocazioni dei luoghi, ai valori paesaggistici e
ambientali e alle esigenze economico-sociali del territorio.
---------------
Per costante giurisprudenza, le osservazioni successive
all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in
funzione di interessi generali e non individuali, per cui
l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove
contrastino con gli interessi e le considerazioni generali
sottese allo strumento urbanistico.
---------------
13.2 Non può poi accogliersi la prospettazione di parte ricorrente,
secondo la quale l’irragionevolezza delle scelte
pianificatorie deriverebbe dall’obliterazione della
vocazione edificatoria dell’area.
La nozione di naturale vocazione edificatoria può essere
infatti appropriatamente impiegata soltanto nel contesto
delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al
diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di un’edificabilità di fatto–
contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle
scelte pianificatorie dell’amministrazione (Cons. Stato,
Sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
E tali scelte, per
costante giurisprudenza, costituiscono espressione di ampia
discrezionalità, e non sono perciò sindacabili dal giudice
amministrativo, a meno che risultino inficiate da
arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da
travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si
intendono in concreto soddisfare (cfr.,
ex multis, Cons.
Stato, Sez. IV, 22.05.2014, n. 2649; Id., 25.11.2013, n. 5589; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281).
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha chiaramente inteso
–in continuità rispetto alle previsioni del previgente PRG– preservare i profili di pregio architettonico e
paesaggistico degli antichi complessi rurali, sottoponendoli
a una disciplina apposita, calibrata in relazione alle
diverse situazioni (“cascine prevalentemente destinate
all’attività agricola”, “cascine dismesse dall’uso agricolo
già rifunzionalizzate” e “cascine da rifunzionalizzare”: v.
artt. 18, 19 e 20 delle NTA del Piano delle Regole – doc. 9
del Comune).
Tale disciplina è inoltre applicata in modo
generalizzato alle cascine censite sul territorio comunale,
ed è evidentemente diretta a operare una tutela in via
urbanistica di profili di interesse lato sensu culturale. La
scelta operata è perciò sorretta dalla funzionalizzazione
alla tutela di interessi costituzionali primari, contemplati
dall’articolo 9 della Costituzione (TAR Lombardia, Milano,
Sez. II, 27.04.2016, n. 813; Id., 05.06.2014, n.
1465), in adesione a un concetto di urbanistica quale
funzione strumentale all’ordinato sviluppo del territorio,
in relazione alle concrete vocazioni dei luoghi, ai valori
paesaggistici e ambientali e alle esigenze economico-sociali
del territorio (Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2016, n. 35;
Id., 10.05.2012, n. 2710).
Né, in tale prospettiva, può
assumere rilievo la destinazione a infrastrutture di un
comparto confinante, posto che l’eventuale preordinazione di
tali dotazioni all’urbanizzazione di ambiti limitrofi non
rende di per sé irragionevoli le prescrizioni volte a
dettare una diversa disciplina per gli antichi complessi
rurali, fatti oggetto di specifica considerazione, come
detto, da parte dello strumento urbanistico.
13.3 Le considerazioni sopra svolte escludono, in
definitiva, la possibilità di riscontrare, nel caso di
specie, l’illogicità e l’irragionevolezza delle scelte
operate dall’Amministrazione, essendo, viceversa, del tutto
coerente con l’impostazione assunta dal piano la
determinazione di vietare “...gli interventi che alterino
l’unitarietà dell’impianto storicamente consolidato o
frazionino gli spazi liberi comuni, con riferimento
all’Abaco delle tipologie rurali del Parco del Ticino” (v.
articolo 20, comma 2, delle NTA del Piano delle Regole – doc.
9 del Comune).
14. Va poi respinto anche il secondo gruppo di censure
avanzate contro il PGT.
14.1 Non sussiste, anzitutto, alcun errore nei presupposti,
poiché –contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti–
l’Amministrazione ha correttamente affermato che la
disciplina dettata dal PGT si pone in continuità rispetto a
quella del PRG, in base al quale era già esclusa la
possibilità di configurare lotti liberi all’interno del
complesso rurale (v. controdeduzione all’osservazione dei
ricorrenti – doc. 4 del Comune). E ciò per le ragioni che si
sono esposte sopra, e alle quali si rinvia.
14.2 D’altro canto, non risulta neppure che
l’Amministrazione abbia omesso di prendere in considerazione
la portata sostanziale dell’osservazione dei ricorrenti.
Per costante giurisprudenza, le osservazioni successive
all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in
funzione di interessi generali e non individuali, per cui
l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove
contrastino con gli interessi e le considerazioni generali
sottese allo strumento urbanistico (cfr. ex multis: Cons.
Stato, Sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nel caso di specie, l’osservazione –tendente a ottenere la
“edificabilità dei lotti liberi”– risulta essere stata
debitamente vagliata dall’Amministrazione, che ha
evidenziato l’inconfigurabilità di tali lotti, già nel
precedente strumento urbanistico, trattandosi di aree in
realtà ricomprese nel compendio della cascina. Si tratta di
considerazioni corrette, come sopra detto, e anche
esaustive, in quanto chiaramente rimandano ai criteri di
impostazione del piano e alla scelta operata in via generale
dall’Amministrazione di tutelare i tratti identitari del
paesaggio agrario locale mediante la conservazione
dell’impianto tipologico degli antichi complessi rurali.
Va, pertanto, ribadito il rigetto anche di questa censura.
15. In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, la
domanda di annullamento introdotta con il ricorso per motivi
aggiunti deve essere integralmente respinta (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.03.2017 n. 644 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: La
perdita di Fido va risarcita. Diritto
inviolabile la tutela dell'animale
d'affezione. Sentenza del tribunale di
Vicenza si discosta dall'indirizzo della
Corte di cassazione.
L'animale d'affezione è membro della
famiglia e la sua tutela è un diritto
inviolabile.
Lo ha affermato il TRIBUNALE di Vicenza con
la sentenza 03.01.2017 n. 24.
La vicenda da cui scaturisce questa
pronuncia vede protagonista una coppia che
ha perso il proprio cane che, non
adeguatamente custodito dalla clinica
veterinaria presso la quale lo stesso era
ricoverato per intervento chirurgico, è
scappato dall'istituto e non si è mai più
ritrovato.
I padroni del cane hanno chiesto al giudice
di liquidare a loro favore il risarcimento
del danno non patrimoniale per la perdita
dell'animale d'affezione. Il giudice
vicentino si è discostato dall'indirizzo
giurisprudenziale della Corte di cassazione
che, con la sentenza n. 26972/2008, ha teso ad
escludere un danno morale risarcibile ex art.
2059 cc per la morte dell'animale
d'affezione.
La risarcibilità del danno morale per tale
perdita, infatti, va qualificata e
inquadrata, a parere del giudice, nei
diritti inviolabili della persona di cui
all'art 2 della Costituzione: tali diritti
devono essere interpretati e adattati alla
realtà sociale e ai processi evolutivi,
tanto da consentire di rinvenire nel
complessivo sistema costituzionale nuovi
interessi emersi nella realtà sociale che
attengano a posizioni inviolabili della
persona umana.
Per questo il giudice vicentino sottolinea
che il rapporto con gli animali domestici va
trattato alla stregua di una relazione con
esseri viventi, spesso considerati dai loro
padroni come «membri della famiglia».
Ne consegue che nell'attuale contesto
sociale in molti casi il rapporto affettivo
che si instaura tra padrone e animale si
inserisce nelle attività realizzatrici della
persona che l'art. 2 della Costituzione
promuove e tutela.
D'altra parte il legislatore, con la legge
n. 281/1991 e la giurisprudenza di merito
con alcune pronunce, hanno avuto modo di
sottolineare e dare rilievo al legame che si
crea tra animale ed il suo padrone,
rinvenendo la tutela anche nell'art 42 della
Costituzione che, ricordiamo, garantisce la
proprietà privata.
Sulla base di dette considerazioni, il
giudice vicentino ha ritenuto di aderire a
quell'orientamento favorevole al
risarcimento del danno non patrimoniale per
la perdita dell'animale d'affezione, anche
al di fuori dei casi di danno conseguente a
reato.
Oltre al danno patrimoniale subìto dagli
attori ricorrenti, consistente nelle spese
da questi sostenuti per gli annunci
pubblicitari relativi allo smarrimento del
cane come debitamente documentati in causa,
i padroni sono stati ritenuti meritevoli di
un risarcimento del danno non patrimoniale
consistente nella perdita affettiva di un
bene.
Per tali motivi il tribunale ha ritenuto di
accogliere la richiesta degli attori di
vedersi risarcito il pregiudizio patito in
conseguenza della mancata vigilanza da parte
della clinica veterinaria presso il quale il
cane era ricoverato ed a causa della quale
l'animale è scappato dalla incustodita porta
di ingresso/uscita della struttura. Il
giudice vicentino, applicando il criterio
equitativo, ha ritenuto che tale danno
potesse essere valutato nella somma di 3.500
euro
(articolo ItaliaOggi Sette del
27.11.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche nell’ipotesi di abuso risalente nel tempo,
per orientamento pacifico -applicabile anche al caso
di specie ove l’origine del provvedimento risiede in
un’attività edilizia illegittima- il provvedimento con cui
si sanzionano opere realizzate senza regolare titolo
costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere
del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è infatti
soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente
rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non
può legittimare una situazione di illegalità, né imporre
all’Amministrazione la necessità di una comparazione
dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito.
---------------
2.2 Con il secondo motivo si lamenta la lesione
dell’affidamento del ricorrente nella regolarità delle opere
in ragione del tempo trascorso dall’esecuzione dell’opera.
Il motivo deve essere rigettato.
Si premette, in punto di fatto, che il ricorrente non dà
alcuna dimostrazione che le opere realizzate siano risalenti
ad un’epoca remota.
In ogni caso anche nell’ipotesi di abuso risalente nel
tempo, per orientamento pacifico -applicabile anche al caso
di specie ove l’origine del provvedimento risiede in
un’attività edilizia illegittima- il provvedimento con cui
si sanzionano opere realizzate senza regolare titolo
costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere
del tempo giustificare il legittimo affidamento del
contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è
infatti soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente
rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non
può legittimare una situazione di illegalità, né imporre
all’Amministrazione la necessità di una comparazione
dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con
l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’eccessiva durata del
procedimento non incide sulla legittimità del procedimento
finale posto che pacificamente la scadenza del termine
conclusivo del procedimento non spoglia l’amministrazione
del potere-dovere di provvedere.
---------------
2.5 Con il quinto motivo si lamenta l’eccessiva durata del
procedimento, iniziato nel 2006 e concluso con provvedimento
del 2008.
Il motivo non ha rilievo.
L’eccessiva durata del procedimento non incide sulla
legittimità del procedimento finale posto che pacificamente
la scadenza del termine conclusivo del procedimento non
spoglia l’amministrazione del potere-dovere di provvedere;
la doglianza non ha quindi rilievo ai fini dell’accoglimento
della domanda impugnatoria proposta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il “concetto di disponibilità dell’area”,
ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non è
circoscritto alla dimostrazione della proprietà
dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione
giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la
potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la conseguenza
che “la disponibilità manca non solo quando il richiedente
non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la
proprietà è limitata da diritti reali di godimento che
incidono sulla possibilità di edificazione del suolo”.
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento
amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento
alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento
della sua adozione, è evidente che la pur riscontrata
pendenza di una domanda di accertamento di un diritto di
servitù di passaggio su di un’area destinata dal suo
proprietario all’apposizione di una recinzione non può, di
per sé, costituire un idoneo presupposto affinché
l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo
titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non
configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi
delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va
obliterata la circostanza che il rilascio del titolo
edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei
terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto
comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3,
del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
---------------
5.1. Tutto ciò premesso, il ricorso va respinto.
5.2. Il Collegio non può che concordare con il principio,
puntualmente enunciato dalla stessa difesa della parte
ricorrente (cfr. pagg. 2 e 3 della memoria defensionale dd.
08.06.2004), secondo cui “il concetto di disponibilità
dell’area”, ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non
è circoscritto alla dimostrazione della proprietà
dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione
giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la
potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la
conseguenza che “la disponibilità manca non solo quando il
richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei
casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di
godimento che incidono sulla possibilità di edificazione del
suolo” (così Cons. Stato, Sez. V, 22.06.2000 n. 3525).
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento
amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento
alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento
della sua adozione (cfr., ex multis, Cons. Stato,
Sez. IV, 30.09.2002 n. 4994), è evidente che la pur
riscontrata pendenza di una domanda di accertamento di un
diritto di servitù di passaggio su di un’area destinata dal
suo proprietario all’apposizione di una recinzione non può,
di per sé, costituire un idoneo presupposto affinché
l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo
titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non
configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi
delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va
obliterata la circostanza che il rilascio del titolo
edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei
terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto
comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3,
del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Deve dunque concludersi nel senso che il soddisfacimento
dell’interesse qui fatto valere dalla ricorrente potrà
avvenire, se del caso, innanzi alla giurisdizione ordinaria
e mediante i mezzi di tutela ivi esperibili.
Tali notazioni di fondo consentono, allo stesso tempo, di
escludere che il contributo della parte qui ricorrente
apportato nell'ambito del procedimento di rilascio del
titolo edilizio in questione potesse, a quel momento,
ragionevolmente comportare una determinazione contraria alla
richiesta di Va.: e ciò, pertanto, consente pure di
respingere le censure di violazione dell’art. 10 della L.
241 del 1990 e di eccesso di potere per difetto di
motivazione formulate dalla ricorrente.
Neppure sussiste la violazione della su riportata disciplina
di piano.
Il Collegio concorda sulla notazione della parte ricorrente
circa la sua “non perspicua formulazione letterale”
(cfr. pag. 5 dell’atto introduttivo del giudizio), ma reputa
che l’interpretazione del disposto in esame non possa,
comunque, avvenire contra legem, ossia –nella specie–
ablando la facoltà del proprietario di chiudere in qualunque
tempo il fondo (art. 841 cod. civ.), posto che la recinzione
comunque rientra tra le manifestazioni del diritto di
proprietà, comprendente pure lo jus excludendi alios,
e che -fermo restando l’esercizio della facoltà medesima-
soltanto la natura delle opere in concreto realizzate
consente di acclarare se ciò comporti, o meno, una
trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (cfr.
sul punto, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2000
n. 3320 e la sentenza 14.01.2002 n. 62 di questa stessa
Sezione) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 20.10.2004 n. 3752 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 4, comma secondo, della L. n. 10/1977
statuisce espressamente che la concessione edilizia è
rilasciata “al proprietario dell’area o a chi abbia titolo
per richiederla”.
E’ noto al Collegio che per costante giurisprudenza,
soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è,
non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma
anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di
obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la
facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la
concessione.
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la
giurisprudenza riconosce anche al promittente compratore la
legittimazione a richiedere la concessione edilizia,
dall’altro non può essere esclusa la necessità che, in
ragione degli effetti propri del preliminare di
compravendita, siano assicurate le dovute garanzie in ordine
all’effettiva disponibilità dell’immobile da parte del
promettente acquirente.
---------------
Il ricorso è infondato.
L’art. 4, comma secondo, della L. n. 10/1977 statuisce
espressamente che la concessione edilizia è rilasciata “al
proprietario dell’area o a chi abbia titolo per
richiederla”.
E’ noto al Collegio che per costante giurisprudenza,
soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è,
non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma
anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di
obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la
facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la
concessione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV,11.06.2002
n. 3253; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 1227 del 04.11.1997;
Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 965 del 28.09.1993).
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la giurisprudenza
riconosce anche al promittente compratore la legittimazione
a richiedere la concessione edilizia, dall’altro non può
essere esclusa la necessità che, in ragione degli effetti
propri del preliminare di compravendita, siano assicurate le
dovute garanzie in ordine all’effettiva disponibilità
dell’immobile da parte del promettente acquirente.
Nella fattispecie in esame, viceversa, è possibile
riscontrare vari elementi che fanno dubitare della
sussistenza in capo al richiedente la concessione edilizia
dell’effettiva disponibilità del bene in questione.
Innanzitutto, va rilevato che nonostante il notevole lasso
di tempo trascorso dall’avvio della pratica edilizia non
risulta che sia stato mai stipulato il contratto definitivo
di compravendita dell’area de qua. In secondo luogo, dubbi
ed incertezze permangono in ordine all’effettiva titolarità
del diritto di proprietà in capo al promittente alienante
sig. Zu. e alla reale sussistenza di qualsivoglia
diritto reale o di possesso sull’area in questione nella
quale, peraltro, è presente una fontanina posseduta da oltre
vent’anni dall’ente Acquedotto Pugliese.
Ne consegue, che la
descritta situazione di incertezza consente di ritenere
legittimo l’impugnato diniego, attesa l’assenza, nel caso di
specie, di un titolo idoneo a supportare la richiesta di
concessione edilizia.
Per le esposte considerazioni, il ricorso va, pertanto,
respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 11.10.2004 n. 7165 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' legittima la concessione edilizia rilasciata
al soggetto che risulta essere
promissario acquirente dei fondi.
---------------
7. La prima censura contesta il rilascio della
concessione alla società S.E.M. in quanto non titolare del
diritto di proprietà sulle aree sopra le quali dovrà
realizzarsi l'immobile.
Il mezzo è inammissibile e infondato.
Inammissibile perché, a fronte della duplice motivazione del
TAR, si è contestata in questo grado solo la pronuncia di
infondatezza, per altro con profili nuovi.
Infondato perché esattamente il TAR ha dichiarato
inammissibile il motivo in quanto i ricorrenti non sono
interessati a rivendicare la proprietà o altro diritto reale
sui fondi in contestazione.
Il motivo è inoltre infondato in fatto, perché la
concessione è stata rilasciata anche in favore della società
FI.LA.N. proprietaria dell'area mentre la società S.E.M.
risulta essere promissorio acquirente dei fondi (sulla
facoltà del soggetto titolare di diritti obbligatori o
promissario acquirente, effettivo possessore del fondo, di
richiedere la concessione edilizia, cfr. Cons. Stato, sez.
V, 18.06.1996, n. 1173; sez. V, 04.11.1997, n. 1227)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.06.2002 n. 3253 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esecuzione di opere di trasformazione edilizia
ed
urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina
complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione
degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo
pubblicistico sulla conformità
alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli
ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di
interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente
sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio,
astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si
ponga in contrasto con la normativa di derivazione
civilistica, costituendo la
violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà
dei soggetti interessati.
Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti
civilistici
e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non
impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di
contatto fra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere
regolamentare è
idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti
interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di
protezione del diritto soggettivo. Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica
assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di
rilascio della concessione edilizia.
In particolare, non è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio della concessione edilizia
l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in
capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione
urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è
diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario degli immobili interessati, ma che risulta
finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito
della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria
dell’amministrazione richiede un livello minimo di
istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di
tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza
di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone
l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata
dall’amministrazione non costituisce una sorta di
eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma
rappresenta la coerente applicazione del principio secondo
cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la
legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In
questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore
in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che
impongono all’istante di fornire la prova del titolo di
godimento dei locali destinati all’esercizio.
Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato
svolgimento delle attività sottoposte al controllo
autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del
procedimento di rilascio della concessione edilizia. Non
solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia
sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo
ancora più stringente, un adeguato esame sulla
corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti
fattuali che la giustificano, anche in relazione alla
titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione
edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità
con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si
può negare all’amministrazione comunale il compito di
assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività
urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati
relativi all’area interessata dall’intervento. Assentire la
realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi
del necessario titolo di godimento sull’immobile
significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con
grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico
sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.
---------------
Circa il fatto di
stabilire l’ampiezza e la
profondità dei poteri istruttori spettanti
all’amministrazione in sede di verifica del titolo di
proprietà sull’immobile, si deve premettere che l’affermazione del
potere di verifica del titolo di proprietà non significa
affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato
di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile
considerato. Anzi, il principio generale del divieto di
aggravamento del procedimento consente all’amministrazione
di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica
sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti
dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere
probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri
vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine
edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività
istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza di
servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti
sull’immobile oggetto della richiesta di concessione
edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale
elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che
conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare,
anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei
confronti della amministrazione. Al contrario, in mancanza
di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel
corso del procedimento, la concessione edilizia è
legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata,
successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla
proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce
l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale
l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia
preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della
concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo
servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di
esame delle relative domande di concessione, a ricercare
d'ufficio, né ad opporre al richiedente la pattuizioni
limitative della proprietà che costui o il suo dante causa
abbiano concluso con i terzi, tant'e' che la concessione
stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza
dei diritti di questi ultimi.
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo
modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente
contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi,
l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare
l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza
del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la
concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti
dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia
accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel
corso del procedimento.
---------------
Laddove sia
in contestazione la legittimità non già di una concessione
edilizia rilasciata, bensì del suo diniego, basato su
precisi dati documentali e probatori emersi nel corso
dell’istruttoria, l’accertata carenza degli elementi che
dimostrino l’esistenza di un collegamento qualificato tra il
richiedente ed il bene immobile oggetto della richiesta di
concessione edilizia determina la legittimità del
provvedimento di diniego.
Del resto ai sensi dell'art. 4
l. 28.01.1977 n. 10 la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto
al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo
per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della
concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è
tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza
di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio
della concessione.
---------------
Il
concetto di disponibilità dell’area ai fini del rilascio
della concessione edilizia, non è circoscritto alla
dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica
l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il
titolare a sfruttare pienamente la potenzialità
edificatoria dell’immobile.
Pertanto, la disponibilità manca
non solo quando il richiedente non è proprietario del
terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da
diritti reali di godimento che incidono proprio sulla
possibilità di edificazione del suolo.
---------------
2. Con un primo motivo di gravame, gli appellanti
sostengono che non compete all’amministrazione comunale il
potere di respingere una richiesta di concessione edilizia,
pretendendo la cancellazione di una servitù gravante
sull’immobile oggetto dell’intervento, in quanto il
controllo dell’attività urbanistica riservato
all’amministrazione va effettuato esclusivamente alla
stregua di norme pubblicistiche, senza attribuire rilievo
alla disciplina civilistica della proprietà.
La censura è infondata.
3. L’esecuzione di opere di trasformazione edilizia ed
urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina
complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione
degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo
pubblicistico sulla conformità
alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli
ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di
interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente
sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio,
astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si
ponga in contrasto con la normativa di derivazione
civilistica, costituendo la
violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà
dei soggetti interessati.
4.
Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti
civilistici
e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non
impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di
contatto fra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere
regolamentare è
idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti
interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di
protezione del diritto soggettivo. Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica
assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di
rilascio della concessione edilizia.
5. In particolare, non è seriamente contestabile che nel
procedimento di rilascio della concessione edilizia
l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in
capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione
urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è
diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario degli immobili interessati, ma che risulta
finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito
della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria
dell’amministrazione richiede un livello minimo di
istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di
tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza
di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone
l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata
dall’amministrazione non costituisce una sorta di
eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma
rappresenta la coerente applicazione del principio secondo
cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la
legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In
questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore
in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che
impongono all’istante di fornire la prova del titolo di
godimento dei locali destinati all’esercizio.
6. Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato
svolgimento delle attività sottoposte al controllo
autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del
procedimento di rilascio della concessione edilizia. Non
solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia
sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo
ancora più stringente, un adeguato esame sulla
corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti
fattuali che la giustificano, anche in relazione alla
titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione
edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità
con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si
può negare all’amministrazione comunale il compito di
assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività
urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati
relativi all’area interessata dall’intervento. Assentire la
realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi
del necessario titolo di godimento sull’immobile
significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con
grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico
sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.
7. Ciò chiarito, si tratta di stabilire l’ampiezza e la
profondità
dei poteri istruttori spettanti all’amministrazione in sede
di verifica del titolo di proprietà sull’immobile.
Al riguardo, si deve premettere che l’affermazione del
potere di verifica del titolo di proprietà non significa
affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato
di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile
considerato. Anzi, il principio generale del divieto di
aggravamento del procedimento consente all’amministrazione
di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica
sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti
dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere
probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri
vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine
edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività
istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
8. Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza
di
servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti
sull’immobile oggetto della richiesta di concessione
edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale
elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che
conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare,
anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei
confronti della amministrazione. Al contrario, in mancanza
di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel
corso del procedimento, la concessione edilizia è
legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata,
successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla
proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce
l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale
l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia
preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della
concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo
servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di
esame delle relative domande di concessione, a ricercare
d'ufficio, né ad opporre al richiedente la pattuizioni
limitative della proprietà che costui o il suo dante causa
abbiano concluso con i terzi, tant'e' che la concessione
stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza
dei diritti di questi ultimi (Consiglio Stato sez. V, 08.04.1997, n. 329).
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo
modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente
contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi,
l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare
l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza
del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la
concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti
dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia
accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel
corso del procedimento.
9. Nel presente giudizio, invece, è in contestazione la
legittimità non già di una concessione edilizia rilasciata,
bensì del suo diniego, basato su precisi dati documentali e
probatori emersi nel corso dell’istruttoria.
In tali ipotesi, l’accertata carenza degli elementi che
dimostrino l’esistenza di un collegamento qualificato tra il
richiedente ed il bene immobile oggetto della richiesta di
concessione edilizia determina la legittimità del
provvedimento di diniego.
Del resto, la Sezione ha chiarito che, ai sensi dell'art. 4
l. 28.01.1977 n. 10 e 3 l.prov. Bolzano 03.01.1978
n. 1 la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto
al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo
per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della
concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è
tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza
di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio
della concessione (Consiglio Stato, Sez. V, 03.09.1985
n. 279).
10. È appena il caso di osservare che la legittimità del
diniego,
correlato dall’accertamento di limitazioni del titolo di
proprietà, emerge con particolare evidenza nell’ambito della
Provincia e del comune di Bolzano, per due concorrenti
ragioni:
a) il sistema della intavolazione di diritti
reali consente una rapida ed efficace verifica dell’assetto
dei diritti reali insistenti sugli immobili oggetto del
richiesto intervento edilizio. L’amministrazione, senza
particolari appesantimenti dell’iter procedimentale, è in
grado di verificare l’esistenza di limitazioni alla pretesa
edificatoria dell’interessato, tenendo conto dell’efficacia
costitutiva dell’iscrizione tavolare e della relativa
cancellazione;
b) il procedimento per il rilascio della
concessione edilizia
previsto dalla legislazione provinciale e dal regolamento
comunale di Bolzano prevede una partecipazione qualificata
dei “confinanti”, i quali sono in grado di indicare
tempestivamente tutte le ragioni ostative al rilascio della
richiesta concessione edilizia, comprese quelle relative
all’ inidoneità del titolo di proprietà,
limitato da diritti di servitù che incidono sulla attitudine
edificatoria del suolo.
Ed è significativo che, nella concreta vicenda all’origine
del presente giudizio, la determinazione negativa del comune
di Bolzano non è dipesa da una autonoma decisione
dell’amministrazione, ma dalla iniziativa assunta da alcuni
dei proprietari confinanti con la proprietà del richiedente
la concessione.
11. Contrariamente a quanto ritenuto dagli appellanti, il
concetto di disponibilità dell’area ai fini del rilascio
della concessione edilizia, non è circoscritto alla
dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica
l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il
titolare a sfruttare pienamente la potenzialità
edificatoria dell’immobile. Pertanto, la disponibilità manca
non solo quando il richiedente non è proprietario del
terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da
diritti reali di godimento che incidono proprio sulla
possibilità di edificazione del suolo.
12. Sotto altro profilo, gli appellanti deducono che il
progetto
non segna alcun contrasto con la servitù altius non tollendi,
in quanto non prevede alcuna elevazione dell’originario
fabbricato, ma solo una sistemazione degli esistenti volumi
tecnici.
La censura è infondata. Infatti, dalla documentazione
allegata alla richiesta, risulta che il progetto comporta un
apprezzabile mutamento della volumetria complessiva del
fabbricato, realizzato attraverso l’ampliamento della sagoma
esterna dell’edificio, ancorché senza alterazione
dell’originaria altezza (che pure già
superava i limiti stabiliti dalla servitù.
In tal modo, si mira a realizzare un risultato comunque
contrastante con il diritto di servitù degli interessati (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 22.06.2000 n. 3525 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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