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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di DICEMBRE 2017

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aggiornamento al 31.12.2017

aggiornamento al 28.12.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 31.12.2017

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IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il «Foia» apre l’accesso ai fogli presenze dei colleghi.
È possibile chiedere documenti e informazioni sull'attività di un pubblico dipendente: lo consente l'“accesso civico” (Dgs 33/2013 e 97/2016), applicato dal TAR Campania-Napoli (Sez. VI, sentenza 13.12.2017 n. 5901).
Il caso
Un privato intendeva visionare dati e fogli di presenza di un collega sul luogo di lavoro relative ad alcuni mesi. L'amministrazione (una società partecipata dalla Regione) e l'interessato avevano negato l'accesso: di qui il contrasto, risolto dai giudici dando precedenza al controllo sulle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche.
Prevale la partecipazione finalizzata “al dibattito pubblico”, con un controllo diffuso, anche su dati personali di determinati soggetti. Tutto ciò perché nel sistema Foia (Freedom of information Act, Dlgs 97/2016) si intendono perseguire trasparenza, comprensibilità e conoscibilità dell'attività amministrativa, per realizzare imparzialità e buon andamento e per far comprendere le scelte di interesse pubblico.
Si raggiunge quindi l'accesso su singoli atti (legge 241/1990), l'accesso a dati e documenti allo scopo (Dlgs 97/2016) di promuovere la partecipazione degli interessati all'attività amministrativa, favorendo forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo di risorse pubbliche. L'unico limite sono le esigenze di riservatezza, segretezza e tutela di interessi (economici e commerciali).
Inoltre, mentre l'accesso documentale (legge 241/1990) esige un rapporto qualificato tra il richiedente e i documenti, l'accesso civico generalizzato rende possibile conoscere l'organizzazione e l'attività della Pa, superando singoli dati e documenti di pubblicazione obbligatoria, estendendosi a dati ulteriori, senza dimostrare un interesse concreto.
I limiti
I limiti all'accesso, condivisi anche dall'Anac (linee guida 1309/2016), sono quelli dell'identità personale e cioè i dati bancari, Isee, telefonici, quelli del personale con funzioni ispettive, quelli sensibili (Dlgs 196/2003) su opinioni politiche, religiose, filosofiche, di adesione a partiti, sindacati, stato di salute e vita sessuale.
Il Tar ha escluso dall'interferenza ingiustificata nell'altrui libertà, la conoscenza delle presenze sul lavoro: al più, vanno omessi i dati sull'assenza per malattie. L'accesso civico è stato utilizzato in una serie di liti decise dal Tar Lazio: i commissari liquidatori di una società, revocati dal ministero dello Sviluppo economico, hanno ottenuto di conoscere i curricula dei commissari subentranti (sentenza 1335/2017); l'impresa subappaltatrice ha avuto copia dei registi contabili di un società committente, affidataria di lavori pubblici (10098/2017); i candidati hanno potuto esaminare i test di accesso a facoltà universitarie (Tar Lazio 8814/2017), come alcuni utenti hanno potuto studiare l'organizzazione capitolina del servizio di assistenza domiciliare (3906/2017) (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2017).
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MASSIMA
Il ricorso va accolto siccome fondato nei termini che di seguito saranno esplicitati.
Il ricorrente con istanza di accesso presentata ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 ha chiesto di accedere ”ai dati e ai fogli di presenza (i quali costituiscono atti pubblici) e/o i corrispondenti strumenti, anche informatici, di rilevazione delle presenze sul luogo di lavoro, del dott. Ib.Al.….” per il periodo dal 01.01.2017 al 17.02.2017.
Il Responsabile della Trasparenza dell’Ente ha ritenuto l’istanza non accoglibile esclusivamente “per opposizione del controinteressato”.
Prima ancora di esaminare i motivi di ricorso e le questioni poste dalle parti costituite appare opportuno al Collegio richiamare la disciplina applicabile alla presente fattispecie, connotata certamente da rilevanti profili di novità trattandosi di questione in tema di c.d.
accesso civico generalizzato, istituto entrato in vigore nel nostro ordinamento solo il 23.12.2016.
L’accesso civico generalizzato è oggi un importante strumento chiaramente finalizzato a realizzare la trasparenza amministrativa e cioè la comprensibilità e la conoscibilità, dall’esterno, dell’attività amministrativa, in particolare da parte dei cittadini; comprensibilità e conoscibilità finalizzate, in particolare, a realizzare imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa e a far comprendere le scelte rivolte alla cura dell’interesse pubblico.
Dal punto di vista normativo, sin dai tempi della legge n. 241 del 1990, la trasparenza si è posta, come un valore-chiave, in grado di coniugare garanzie ed efficienza nello svolgimento dell’azione amministrativa, anche se la trasparenza è stata inclusa espressamente tra i principi generali che regolano l’attività amministrativa solo a partire dalla l. 15 del 2005, con la modifica recata in tal senso all’art. 1 l. n. 241/1990.
La l. n. 241/1990 per anni è stata considerata, comunque, come la “fonte” unica della regola generale della trasparenza amministrativa: sia perché consentiva di conoscere i documenti e gli atti adottati nell’esercizio dell’attività amministrativa mediante il riconoscimento del diritto all’accesso documentale, sia perché introduceva norme improntate alla trasparenza (in tema di partecipazione procedimentale dei privati e di obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi).
Sulla scia dei concetti introdotti dal d.lgs. n. 150 del 2009 in materia di trasparenza e in attuazione della delega recata dall’art. 1, commi 35 e 36, della l. 28.11.2012, n. 190, in tema di “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”,
è stato adottato il d.lgs. 14.03.013, n. 33 (da ora anche decreto trasparenza), come modificato dal d.lgs. 97/2016, che ha operato una importante estensione dei confini della trasparenza intesa oggi comeaccessibilità totale dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini, promuovere la partecipazione degli interessati all’attività amministrativa e favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”.
L’ampio diritto all’informazione e alla trasparenza dell’attività delle amministrazioni di cui al decreto 33/2013 resta temperato solo dalla necessità di garantire le esigenze di riservatezza, di segretezza e di tutela di determinati interessi pubblici e privati (come elencati nell’art. 5-bis del d.lgs. 33/2013) che diventano l’eccezione alla regola, alla stregua degli ordinamenti caratterizzati dal sistema FOIA (l’acronimo deriva dal Freedom of Information Act, e cioè la legge sulla libertà di informazione adottata negli Stati Uniti il 04.07.1966).
Va ancora ricordato in via preliminare che,
nonostante alcuni punti di contatto di tipo “testuale” tra la disciplina in tema di accesso ai documenti e quella riferita all’accesso civico generalizzato, questo si pone su un piano diverso rispetto all’accesso documentale, caratterizzato, quest’ultimo, da un rapporto qualificato del richiedente con i documenti che si intendono conoscere, derivante proprio dalla titolarità in capo al soggetto richiedente di una posizione giuridica qualificata tutelata dall’ordinamento.
La disciplina dell’accesso civico generalizzato (art. 5, co. 2, del d.lgs. n. 33/2013), quale appunto ulteriore strumento di trasparenza dell’azione amministrativa, si aggiunge, nel nostro ordinamento, a quella che prevede gli obblighi di pubblicazione (articoli da 12 e ss. del d.lgs. n. 33 del 2013) e alla più risalente disciplina di cui agli articoli 22 e ss. della l. n. 241/1990 in tema di accesso ai documenti.
Con il d.lgs. n. 33 del 2013, infatti, viene assicurata ai cittadini la possibilità di conoscere l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni anche attraverso l’obbligo a queste imposto di pubblicare sui siti istituzionali, nella sezione denominata “Amministrazione trasparente”, i documenti, i dati e le informazioni concernenti le scelte amministrative operate (artt. 12 e ss.), ad esclusione dei documenti per i quali è esclusa la pubblicazione, in base a norme specifiche ovvero per ragioni di segretezza, secondo quanto indicato nello stesso decreto.
L’accesso civico generalizzato è stato introdotto in Italia sulla base della delega di cui all’art. 7, comma 1, lett. h), della cd. Legge Madia, ad opera dell’art. 6 del d.lgs. 25.05.2016, n. 97 che ha novellato l’art. 5 del citato decreto sulla trasparenza.
Il decreto 33/2013 non introduce una distinzione o una diversa denominazione tra le due tipologie di “accesso civico che attualmente si rinvengono nel nostro ordinamento, per come individuate al comma 1 e al comma 2, del menzionato art. 5, per cui tenendo anche conto della distinzione operata con le linee guida dell’Anac in materia di accesso civico (
determinazione 28.12.2016 n. 1309, recante indicazioni operative e le esclusioni e i limiti all'accesso civico generalizzato, adottata dall’ANAC d'intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza unificata in base all’art. 5-bis, comma 6, del decreto trasparenza) ci si riferisce all’accesso civico “semplice, con riguardo all’accesso del cittadino rivolto ad ottenere la pubblicazione obbligatoria nella sezione “Amministrazione trasparente” di dati e documenti e all’accesso civico generalizzato con riferimento all’accesso inteso a conoscere documenti “ulteriori” rispetto a quelli da pubblicare.
Alla luce del dettato normativo,
si comprende bene la rilevante differenza che esiste tra accesso ai documenti e accesso civico che, pur condividendo lo stesso tipo di tutela processuale, non possono considerarsi sovrapponibili: il primo è strumentale alla tutela degli interessi individuali di un soggetto che si trova in una posizione differenziata rispetto agli altri cittadini, in ragione della quale ha il diritto di conoscere e di avere copia di un documento amministrativo, il secondo è azionabile da chiunque, senza la previa dimostrazione della sussistenza di un interesse attuale e concreto per la tutela di situazioni rilevanti, senza dover motivare la richiesta e con la sola finalità di consentire una pubblicità diffusa e integrale dei dati che sono considerati dalle norme come pubblici e quindi conoscibili.
Con particolare riguardo all’accesso civico generalizzato, poi, l’art. 5, comma 2, del decreto 33/2013 prevede che i cittadini possono accedere a dati e documenti (detenuti dalle Amministrazioni) “ulteriori” rispetto a quelli oggetto di pubblicazione, nel rispetto dei limiti relativi alla tutela di interessi pubblici e privati individuati all’art. 5-bis del decreto, conoscenza che deve servire a “favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”.
Tale controllo è, quindi, funzionale a consentire la partecipazione dei cittadini al dibattito pubblico e finalizzato ad assicurare un diritto a conoscere in piena libertà, anche dati “ulteriori” e cioè diversi da quelli pubblicati, naturalmente senza travalicare i limiti previsti dal legislatore e posti a tutela di eventuali interessi pubblici o privati che potrebbero confliggere con la volontà di conoscere espressa dal cittadino.
Non può non rimarcarsi, infine, che
mentre la legge 241/1990 esclude espressamente l'utilizzabilità del diritto di accesso per sottoporre l'amministrazione a un controllo generalizzato, il diritto di accesso generalizzato è riconosciuto proprio «allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico».
Dalle menzionate linee guida dell’Anac si legge che “
tenere ben distinte le due fattispecie è essenziale per calibrare i diversi interessi in gioco allorché si renda necessario un bilanciamento caso per caso tra tali interessi. Tale bilanciamento è, infatti, ben diverso nel caso dell’accesso 241 dove la tutela può consentire un accesso più in profondità a dati pertinenti e nel caso dell’accesso generalizzato, dove le esigenze di controllo diffuso del cittadino devono consentire un accesso meno in profondità (se del caso, in relazione all’operatività dei limiti) ma più esteso, avendo presente che l’accesso in questo caso comporta, di fatto, una larga conoscibilità (e diffusione) di dati, documenti e informazioni”.
Per quanto concerne la procedura delineata dall’art. 5 del d.lgs. 33/2013, che deve essere richiamata in questa sede in ragione dei motivi di ricorso che evidenziano la violazione della stessa, nel corso dell’iter procedimentale in concreto seguito dall’Ente, la norma prevede che:
   - il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati;
   - il rifiuto, il differimento e la limitazione dell'accesso devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall'articolo 5-bis;
   - nei casi di diniego parziale o totale all’accesso o in caso di mancata risposta allo scadere del termine per provvedere, contrariamente a quanto dispone la legge 241/1990, non si forma silenzio-rigetto, ma il cittadino può attivare la speciale tutela amministrativa interna davanti al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (soggetto individuato in base all’art. 1, comma 7, della L. 190/2012, come modificato dal d.lgs. 97/2016) formulando istanza di riesame, rispetto alla quale il Responsabile adotta un provvedimento motivato entro il termine di venti giorni;
   - se l'accesso è stato negato o differito per tutelare dati personali il suddetto Responsabile provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta.

Per quanto concerne poi i limiti, l’art. 5-bis del decreto 33/2013 prevede che l’accesso civico generalizzato è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela degli interessi pubblici di cui al comma 1 e di uno dei seguenti interessi privati di cui al comma 2: “a) la protezione dei dati personali, in conformità con la disciplina legislativa in materia;
b) la libertà e la segretezza della corrispondenza;
c) gli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, ivi compresi la proprietà intellettuale, il diritto d'autore e i segreti commerciali
”.

La norma prosegue prevedendo che
se i limiti (relativi agli interessi pubblici e privati da tutelare) riguardano soltanto alcuni dati o alcune parti del documento richiesto, deve essere consentito l'accesso agli altri dati o alle altre parti.
Per meglio comprendere il quadro normativo di riferimento non possono non considerarsi in questa sede anche le menzionate Linee Guida dell’Anac di cui alla
determinazione 28.12.2016 n. 1309 contenenti indicazioni operative per i soggetti destinatari di richieste di accesso generalizzato, con particolare riguardo all’attività di valutazione delle istanze da decidere tenendo conto dello spirito della norma, della necessità di motivare adeguatamente gli eventuali dinieghi e della protezione da assicurare in caso di coinvolgimento di dati personali.
Come già chiarito sopra
la regola della generale accessibilità è temperata dalla previsione di eccezioni poste a tutela di interessi pubblici e privati che possono subire un pregiudizio dalla diffusione generalizzata di talune informazioni. Le eccezioni previste dall’art. 5-bis sono state classificate in assolute e in relative, al ricorrere delle quali le amministrazioni devono o possono rifiutare l’accesso.
Le eccezioni assolute sono quelle di cui all’art. 5-bis, comma 3, del decreto (che non vengono in rilievo in questa sede) mentre quelle relative sono previste ai commi 1 e 2 del medesimo articolo. Nel caso delle eccezioni relative l’Anac ha chiarito nelle Linee Guida che “Il legislatore non opera, come nel caso delle eccezioni assolute, una generale e preventiva individuazione di esclusioni all’accesso generalizzato, ma rinvia a una attività valutativa che deve essere effettuata dalle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, caso per caso, tra l’interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela di altrettanto validi interessi considerati dall’ordinamento. L’amministrazione, cioè, è tenuta a verificare, una volta accertata l’assenza di eccezioni assolute, se l’ostensione degli atti possa determinare un pregiudizio concreto e probabile agli interessi indicati dal legislatore.
Affinché l’accesso possa essere rifiutato, il pregiudizio agli interessi considerati dai commi 1 e 2 deve essere concreto quindi deve sussistere un preciso nesso di causalità tra l’accesso e il pregiudizio. L’amministrazione, in altre parole, non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma dovrà:
   a) indicare chiaramente quale –tra gli interessi elencati all’art. 5-bis, co. 1 e 2– viene pregiudicato;
   b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende direttamente dalla disclosure dell’informazione richiesta;
   c) valutare se il pregiudizio conseguente alla disclosure è un evento altamente probabile, e non soltanto possibile.”
…..L’amministrazione è tenuta quindi a privilegiare la scelta che, pur non oltrepassando i limiti di ciò che può essere ragionevolmente richiesto, sia la più favorevole al diritto di accesso del richiedente. Il principio di proporzionalità, infatti, esige che le deroghe non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito
(cfr. sul punto CGUE, 15.05.1986, causa C- 222/84; Tribunale Prima Sezione ampliata 13.04.2005 causa T 2/03)
” (cfr. delibera Anac 1309/2016, pag. 11).
Con riferimento alle istanze di accesso generalizzato aventi a oggetto dati e documenti relativi a (o contenenti) dati personali, sempre secondo le citate linee guida, “l’ente destinatario dell’istanza deve valutare, nel fornire riscontro motivato a richieste di accesso generalizzato, se la conoscenza da parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia…
In tale contesto, devono essere tenute in considerazione le motivazioni addotte dal soggetto controinteressato, che deve essere obbligatoriamente interpellato dall’ente destinatario della richiesta di accesso generalizzato, ai sensi dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 33/2013. Tali motivazioni costituiscono un indice della sussistenza di un pregiudizio concreto, la cui valutazione però spetta all’ente e va condotta anche in caso di silenzio del controinteressato….
”.

Le linee guida ricordano, infine, per quanto di interesse in questa sede che “
le comunicazioni di dati personali nell’ambito del procedimento di accesso generalizzato non devono determinare un’interferenza ingiustificata e sproporzionata nei diritti e libertà delle persone cui si riferiscono tali dati ai sensi dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardai dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’art. 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della giurisprudenza europea in materia.
Il richiamo espresso alla disciplina legislativa sulla protezione dei dati personali da parte dell’art. 5-bis, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 33/2013 comporta, quindi, che nella valutazione del pregiudizio concreto, si faccia, altresì, riferimento ai principi generali sul trattamento e, in particolare, a quelli di necessità, proporzionalità, pertinenza e non eccedenza, in conformità alla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, del Consiglio di Stato, nonché al nuovo quadro normativo in materia di protezione dei dati introdotto dal Regolamento (UE) n. 679/20168….
”.
Alla luce di tale contesto normativo e in ragione della novità che segna la presente controversia che impone a questo giudice di verificare l’ampiezza “effettiva e concreta” del diritto a conoscere del cittadino per come voluto dal legislatore con la riforma della trasparenza amministrativa del 2016, appare opportuno esaminare la fattispecie partendo dalle censure in tema di violazioni procedimentali e di difetto di motivazione alla luce delle difese delle parti resistenti, e ciò anche al fine di poter decidere in merito alla richiesta di accertamento del diritto a conoscere inoltrata a questo giudice dal ricorrente e al conseguente ordine da impartire all’amministrazione di dare ostensione agli atti richiesti.
Va in primo luogo rilevato che sussiste il lamentato vizio di violazione dell’art. 5, comma 7, nella parte in cui prevede che in caso di diniego totale o parziale dell’accesso il richiedente “può presentare richiesta di riesame al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza” (da ora anche RPCT). Tale procedura come è evidente si discosta sia dalla norma che disciplina l’accesso ai documenti che non prevede una procedura di tutela amministrativa interna con la possibilità di chiedere il riesame a un altro soggetto appartenente alla stessa amministrazione, sia dalla disciplina in tema di obblighi di pubblicazione per i quali è espressamente previsto dall’art. 5, comma 3, lettera d), che l’istanza vada inoltrata, già in prima battuta, direttamente al RPCT e non come per l’accesso generalizzato all’Ufficio che detiene i dati, o all’URP o ad altro ufficio indicato discrezionalmente dall’amministrazione sul sito istituzionale (art. 5, co. 3, lettere a), b) e c).
Tale scelta si spiega in primo luogo perché, contrariamente a quanto previsto nella disciplina sull’accesso ai documenti, a fronte del silenzio dell’amministrazione non si realizza una fattispecie di silenzio-significativo di segno negativo (silenzio-rigetto); l’art. 5 del decreto trasparenza impone, infatti, l’obbligo all’amministrazione di pronunciarsi con provvedimento espresso e motivato, per cui l’eventuale “silenzio” rappresenta “mera inerzia”, una ipotesi di silenzio-inadempimento che obbliga, quindi, il cittadino a rivolgersi al giudice amministrativo attivando il rito sul silenzio ex art. 117 c.p.a. (e successivamente, in caso di diniego espresso ai dati o documenti richiesti, il rito sull’accesso ex art. 116 c.p.a.).
Per consentire al cittadino di avere una risposta chiara e motivata e per offrire allo stesso una opportunità di tutela più rapida e poco dispendiosa, il legislatore, avendo come obiettivo la partecipazione del cittadino al dibattito pubblico, ha previsto, per l’accesso civico generalizzato, anche il riesame “interno” (nei casi di diniego totale o parziale dell'accesso o di mancata risposta), a mezzo dell’intervento di un soggetto, il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, che svolge un ruolo fondamentale nell’ambito della disciplina di prevenzione della corruzione e nell’attuazione delle relative misure, non potendo tralasciarsi di considerare che la trasparenza amministrativa che si realizza anche attraverso lo strumento dell’accesso civico generalizzato rappresenta una delle misure più importanti di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione.
La norma prevede, inoltre, che in sede di riesame il Responsabile, se l'accesso è stato negato o differito per tutelare dati personali “provvede sentito il Garante per la protezione dei dati personali, il quale si pronuncia entro il termine di dieci giorni dalla richiesta”.
Nel caso che qui interessa non può non rilevarsi, in conclusione, la violazione della disciplina indicata risultando la decisione sull’istanza di accesso del ricorrente, direttamente adottata dal Responsabile della trasparenza e senza neanche l’eventuale coinvolgimento del Garante per la protezione dei dati personali.
Non pertinente appare, quindi, alla luce della speciale procedura prevista dall’art. 5 invocare l’applicazione dell’art. 21-octies comma 2, primo periodo della legge 241/1990 come fa l’ente resistente secondo cui, trattandosi di atto di natura vincolata, il suo contento dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La vincolatività dell’atto a contenuto negativo deriverebbe, secondo la difesa dell’ente, dalla circostanza che si trattava di richiesta afferente a “dati personali”, non rivolta ad esercitare un “controllo diffuso” sull’operato della P.A.
Deve infatti osservarsi che il limite della tutela del dato personale non è un limite assoluto, quindi la conoscenza dello stesso non è esclusa in via definitiva ma la norma prevede che l’accesso vada negato se l’ostensione dei dati o documenti richiesta possa comportare “un pregiudizio concreto” alla tutela della protezione dei dati personali.
Ciò vuol dire che la Società resistente, come esplicitato nelle linee guida ANAC (del. 1309/2016) richiamate nella memoria difensiva dallo stesso Ente, avrebbe dovuto effettuare una attività valutativa con la tecnica del bilanciamento, ponderando gli interessi in gioco tra l’interesse pubblico alla disclosure generalizzata e la tutela dei dati personali che possono venire in evidenza. Poiché il legislatore con riguardo ai limiti da salvaguardare di cui all’art. 5-bis, commi 1 e 2, fa riferimento al pregiudizio “concreto” che deve rinvenirsi, l’amministrazione avrebbe dovuto indicare il pregiudizio che l’ostensione del solo dato della presenza al lavoro del controinteressato avrebbe comportato, anticipando fin da ora che l’amministrazione avrebbe potuto/dovuto oscurare ogni altro riferimento alle ragioni delle eventuali assenze dal lavoro.
Va, infatti, tenuto conto che il ricorrente ha chiesto di accedere “ai dati e ai fogli di presenza (i quali costituiscono atti pubblici) e/o i corrispondenti strumenti, anche informatici, di rilevazione delle presenze sul luogo di lavoro, del dott. Ib.Al.….” per il periodo dal 01.01.2017 al 17.02.2017.
Considerando gli interessi in gioco e cioè il diritto a conoscere se un dipendente di una società in controllo pubblico (assimilata a una pubblica amministrazione ai fini dell’applicazione della disciplina in tema di prevenzione della corruzione e della trasparenza a norma dell’art. 2-bis del d.lgs. 33/2013) e costituita con soldi pubblici, sia semplicemente presente al lavoro in un determinato periodo e il diritto del controinteressato a che non sia rivelata la presenza perché afferente a un dato personale, appare certamente prevalente il diritto a conoscere del richiedente tenuto anche conto che, come dichiarato dallo stesso ricorrente, l’amministrazione nel fornire tale dato generico avrebbe potuto omettere tutte le informazioni che emergevano dai documenti di presenza impattanti con il diritto alla riservatezza del controinteressato, quali per esempio l’astensione dal lavoro per malattia.
Ad avviso del Collegio, infatti, la documentazione dalla quale emergono i rilevamenti delle presenze del personale in servizio rientra proprio nell’ambito della possibilità di controllo sul perseguimento da parte di un dato ente delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo da parte di questo delle risorse pubbliche, finalizzato alla partecipazione al dibattito pubblico; in concreto si hanno in gioco, da una parte, l’interesse a conoscere se un dipendente della società è stato semplicemente assente o presente in un determinato periodo, senza fornire altre informazioni, in quanto rientrante nell’ambito del sinallagma che deriva dal rapporto di lavoro, dall’altra l’esigenza di non dare questa informazione perché di carattere personale in quanto afferente a un soggetto specificamente individuato.
Tralasciando la circostanza per cui, in ragione dell’oggetto del ricorso pendente davanti ad altro giudice, a cui si fa riferimento nella memoria del 13.10.2017, il ricorrente avrebbe potuto proporre anche istanza di accesso documentale ex legge 241/1990, non si comprende dalla assai stringata risposta dell’amministrazione in che termini questa informazione, possa risultare, alla luce della disciplina recata dal Codice della privacy (d.lgs. 196/2003) lesiva per l’immagine del controinteressato ovvero ledere la sfera di riservatezza di questi, atteso peraltro che il relativo rapporto di lavoro risulta instaurato con un soggetto le cui disponibilità finanziarie sono pubbliche donde la sussistenza in capo al dipendente di obblighi e doveri, fermo restando che rimane ben distinto il controllo che solo l’Ente può svolgere relativamente alla validità delle ragioni di astensione dal lavoro dal “controllo” previsto dalla legge sull’accesso generalizzato che giammai legittimerebbe il “quisque de populo” a sostituirsi alla stessa amministrazione.
Se, infatti, come si è detto sopra la valutazione in merito all’istanza di accesso deve essere fatta in concreto da parte dell’amministrazione competente e che vengono qui in gioco dati personali che non costituiscono una limitazione assoluta, non si comprende in che modo il dato richiesto se diffuso all’esterno (che comunque andrebbe utilizzato dal richiedente nel rispetto del Codice della privacy) potrà ledere le libertà fondamentali dell’interessato, la sua dignità, la riservatezza, l’immagine e la reputazione o ancora esporlo a pericoli mentre diventa necessaria, nello spirito della riforma sulla trasparenza, la conoscenza del dato preciso ed esclusivo al fine di verificare se il soggetto dal 1° gennaio al 17.02.2017 è stato presente presso la società di appartenenza.
Risulta fondato anche il motivo con il quale il ricorrente lamenta il difetto di motivazione relativamente al diniego ricevuto sulla sua istanza.
La risposta dell’Ente, facendo riferimento all’unica circostanza dell’opposizione da parte del controinteressato, non consente di ricostruire quel percorso fattuale e giuridico che l’amministrazione avrebbe dovuto fare e la valutazione dalla stessa operata degli interessi in gioco, valutazione che alla stessa compete, a maggior ragione allorquando c’è opposizione all’ostensione da parte del controinteressato. Ciò perché
il diritto a conoscere dei cittadini deve essere assicurato dall’Amministrazione e non può essere lasciato alla decisione del controinteressato il quale, nell’ambito della partecipazione procedimentale allo stesso riservata, può far emergere esigenze di tutela che ben possono orientare e rendere edotta l’autorità decidente sulle ragioni della invocata riservatezza nell’assumere la determinazione, che spetta comunque solo alla p.a..
Come d’altro canto affermato da questa Sezione va comunque escluso che l'amministrazione possa legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa in materia di accesso agli atti, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, rimette sempre all'amministrazione destinataria della richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza della richiesta stessa, anche in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati (cfr. sentenza n. 1380 del 09.03.2017).
Va invece respinto il motivo di ricorso secondo cui vi sarebbe stata da parte della Società resistente una violazione dell’art. 16 del d.lgs. 33/2016 non risultando i dati richiesti pubblicati su “Amministrazione trasparente”. Deve infatti considerarsi che il richiamato art. 16 impone la pubblicazione dei dati relativi alla dotazione organica e al personale effettivamente in servizio, dati questi che certamente non possono ricomprendere anche le presenze quotidiane in servizio dei dipendenti, trattandosi piuttosto di dati generici concernenti i dipendenti che risultano in forza presso l’ente.
Alla luce delle esposte considerazioni il ricorso va accolto nei sensi e nei limiti sopra illustrati, e per l’effetto, previo annullamento del diniego impugnato, va ordinato alla Società resistente di dare ostensione al ricorrente dei soli documenti dai quali risulta la presenza o meno in ufficio del controinteressato dalla data del 01.01.2017 fino al 17.02.2017 nel termine indicato in dispositivo con omissione di ogni dato idoneo a disvelare le ragioni delle assenze.

GURI - GUUE -BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 30.12.2017 n. 303, suppl. ord. n. 64, "Approvazione del modello unico di dichiarazione ambientale per l’anno 2018" (D.P.C.M. 28.12.2017).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 30.12.2017, "Disposizioni per la promozione e lo sviluppo dei territori montani interessati da impianti di risalita e dalle infrastrutture connesse e funzionali al relativo servizio" (L.R. 28.12.2017 n. 40).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 52 del 30.12.2017, "Disposizioni per l’attuazione della programmazione economico-finanziaria regionale, ai sensi dell’articolo 9-ter della l.r. 31.03.1978, n. 34 (Norme sulle procedure della programmazione, sul bilancio e sulla contabilità della Regione) - Collegato 2018" (L.R. 28.12.2017 n. 37).
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Si particolare interesse, si leggano:
● Art. 5 (Modifiche alla l.r. 18/2010) - (Disciplina del Difensore regionale)
● Art. 19 (Modifica all’art. 43 della l.r. 12/2005) - (Legge per il governo del territorio)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - TRIBUTI - VARI: G.U. 29.12.2017 n. 302, suppl. ord. n. 62/L, "Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020" (Legge 27.12.2017 n. 205).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 29.12.2017 n. 302 "Regolamento recante modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai sensi dell’articolo 55-septies, comma 5-bis, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165" (Dipartimento Funzione Pubblica, decreto 17.10.2017 n. 206).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 52 del 29.12.2017, "Nono aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (deliberazione G.R. 21.12.2017 n. 16715).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Referendum, norme certe. Istituto inapplicabile senza il regolamento. Tutte le fasi della consultazione devono essere chiaramente disciplinate.
Per dichiarare ammissibile una richiesta di consultazione referendaria comunale, deve considerarsi presupposto imprescindibile, per l'attivazione della stessa, la disciplina regolamentare di dettaglio, se specificamente prevista dallo statuto comunale?
L'eventuale approvazione del regolamento da parte del Consiglio comunale, con la previsione di norme transitorie per lo svolgimento del referendum, potrebbe sanare l'eventuale mancanza, ferma restando la verifica dell'ammissibilità del quesito da demandare all'esame di un organismo che sostituisca l'abrogato difensore civico?
Il nostro ordinamento favorisce la partecipazione diretta del cittadino nella vita delle istituzioni locali. In tal senso, è utile ricordare che l'Italia ha fatto propri i principi della Carta europea dell'autonomia locale a cui ha aderito sottoscrivendo la relativa convenzione, poi ratificata con la legge 30.12.1989, n. 439
Gli istituti di partecipazione e gli organismi consultivi del cittadino trovano una loro concretizzazione nel dlgs n. 267/2000 e, indipendentemente dalla dimensione demografica dell'ente, fanno parte del contenuto necessario e non meramente facoltativo dello statuto. Un rinvio allo statuto è previsto dall'art. 8, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267/2000, circa la previsione di forme di consultazione della popolazione, nonché delle procedure per l'ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati dirette a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi con la determinazione delle garanzie per il loro tempestivo esame. La norma dispone che «possono» essere, altresì, previsti referendum anche su richiesta di un adeguato numero di cittadini, che (comma 4) devono comunque riguardare materie di esclusiva competenza locale.
Fermo restando l'obbligo di previsione degli istituti di partecipazione, il referendum, si configura, dunque, quale elemento meramente eventuale e facoltativo dello statuto comunale che una volta previsto deve, però, essere compiutamente disciplinato dal regolamento. Nel caso di specie, lo statuto comunale rimanda ad apposito regolamento comunale la disciplina delle modalità operative del referendum, fornendo peraltro una serie di indicazioni di dettaglio che dovrebbero essere recepite dal medesimo regolamento.
Il regolamento, conformemente al parere del Consiglio di stato, sez. I, 8 luglio 1998, n. 464 - reso, su richiesta del ministero dell'interno, in relazione ad una fattispecie analoga e il cui orientamento è stato successivamente confermato dallo stesso Consiglio di stato -sez. IV - con la sentenza n. 3769/2008- si prospetta, infatti, in funzione complementare e integrativa rispetto alle previsioni statutarie, tanto da rendere inapplicabile l'istituto del referendum consultivo in mancanza dello stesso. La giurisprudenza amministrativa formatasi in materia ritiene, infatti, che debba essere la fonte regolamentare a «prevedere le varie fasi nelle quali si articola la consultazione, dall'iniziativa sino alla proclamazione dei risultati» inclusi i sistemi con cui sindacare l'ammissibilità della consultazione. Pertanto, i cittadini interessati all'approvazione del regolamento dovranno sensibilizzare l'ente affinché proceda al riguardo, poiché le previsioni dello statuto non consentono alcun margine discrezionale da parte dell'amministrazione.
Pur considerando ammissibile l'adozione di un regolamento attuativo per consentire –con specifiche norme transitorie– anche il regolare espletamento della procedura già avviata, deve essere comunque garantito ai promotori l'effettivo esercizio entro i termini previsti dallo statuto.
Peraltro, le eventuali soluzioni tecniche da adottare con le norme transitorie, in assenza delle modifiche statutarie, devono comunque essere coerenti con le disposizioni di tale ultimo strumento.
In particolare, l'art. 2, comma 186, lett. a), della legge 23/12/2009, n. 191, pur avendo soppresso la figura del difensore civico comunale, ha stabilito che le relative funzioni possono essere attribuite, mediante convenzione, al difensore civico della provincia (articolo ItaliaOggi del 29.11.2017).

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Richiesta ai Responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza sulla nomina del Responsabile dell’Anagrafe per la stazione appaltante (RASA) (Comunicato del Presidente 20.12.2017 - link a www.anticorruzione.it).
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Richiesta agli RPCT sulla nomina del Responsabile dell’Anagrafe per la stazione appaltante.
L’Anac ha constatato che il numero dei Responsabili dell’Anagrafe per la stazione appaltante (RASA), abilitati ad operare rispetto al totale di Stazioni Appaltanti attive nella Anagrafe Unica delle Stazioni Appaltanti (AUSA), è risultato estremamente esiguo.
Con il Comunicato del Presidente del 20.12.2017 ‘Richiesta ai Responsabili della prevenzione della corruzione e della trasparenza sulla nomina del Responsabile dell’Anagrafe per la stazione appaltante (RASA)’ si richiamano gli RPCT a verificare che il RASA, indicato nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione, si sia attivato per l’abilitazione del profilo utente di RASA secondo le modalità operative indicate nel Comunicato del 28.10.2013.
IL RPCT è tenuto altresì a comunicare tempestivamente all’Autorità gli impedimenti che hanno determinato la mancata individuazione del RASA nel PTPC ed il perdurare degli stessi . La nota di comunicazione deve indicare nell’oggetto: RASA/IMPEDIMENTI.

APPALTI: Circolazione di atti falsi di diffida dell’Autorità (Comunicato del Presidente 28.12.2017 - link a www.anticorruzione.it).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE1. In presenza di un appalto di lavori, servizi e forniture può essere riconosciuto l'incentivo per le funzioni tecniche effettivamente svolte:
   (a) indipendentemente dal fatto che vi sia stata o meno attività di programmazione, naturalmente escludendo la remunerazione per le fasi non svolte?
   (b) nel caso di aggiudicazione non affidata mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (vedi ad esempio interventi realizzati in somma urgenza)?
NO. Sono esclusi, ai fini di accantonamento del fondo, importi di lavori ed altri investimenti attuati con procedure di somma urgenza o ad affidamento diretto.
Tale esclusione appare proprio funzionale alla finalità della norma, che mira a spingere verso l’utilizzo sempre più esteso di procedure competitive, ordinarie e programmate.
Le procedure eccezionali e non competitive non sono escluse, ma sottratte all’incentivazione.

...
2. Le funzioni effettivamente svolte in relazione a lavori di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i servizi manutentivi sono incentivabili -o meno- ai sensi del citato art. 113?
NO. La Sezione ritiene, in assenza di una norma esplicita, di allinearsi al prevalente orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie non espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016.
...
3. A fronte di cause diverse di mancato riconoscimento dell'incentivazione nei confronti dei dipendenti dell'ente, vi sono anche effetti diversi sul fondo, oppure dalla legge deriva l'obbligo di riduzione del fondo, con conseguente riacquisizione nelle disponibilità di bilancio dell'ente, in tutti i casi previsti al comma 3 dell’articolo 113 D.Lgs. n. 50/2016?
SI. La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, commentando il meccanismo del fondo previsto dalla previdente normativa ai sensi del dl 90/2014 con l’adozione di apposito regolamento per il successivo riparto, così interpretava l’intenzione del legislatore
(deliberazione 13.05.2016 n. 18): “Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta, appare chiaro come le disposizioni, introdotte dal dl 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra l’altro ad un obiettivo di razionalizzazione e di contenimento della spesa, anche attraverso la subordinazione dell’erogazione dell’incentivo al rispetto di alcuni parametri collegati ai tempi ed ai costi previsti inizialmente nel quadro economico del progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto, ai sensi della predetta disciplina, può dar luogo anche alla riduzione delle risorse destinate al fondo per la progettazione e l’innovazione”.
L’interpretazione appare ancora valida anche per il nuovo codice degli appalti e perciò l’ente deve previamente provvedere alla redazione del previsto regolamento.
...
4. Le modalità di incentivazione devono seguire la norma in vigore al momento dell'effettivo svolgimento dell'attività (Direzione Lavori, Collaudi, ecc.) o, piuttosto, si deve applicare, anche in materia di incentivazione, la disposizione di cui all'art. 216 del D.Lgs. 50/2016, con la conseguenza che l'art. 113 si applica esclusivamente a tutte le procedure il cui bando o avviso sia stato pubblicato dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016?
L’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo Codice.
A ulteriore sostegno e rafforzativo di tale indirizzo interpretativo,
la Sezione regionale controllo per il Piemonte nel suo già citato parere 09.10.2017 n. 177 considera regolate dalla normativa previgente (art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 come modificato dalla L. n. 144/2014) perfino attività tecniche svolte prima della entrata in vigore della nuova normativa ma il cui relativo bando di gara sia stato pubblicato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016.
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Il Sindaco della Città Metropolitana di Firenze ha inoltrato alla Sezione regionale di controllo per la Toscana, tramite Consiglio delle Autonomie Locali, la nota acquisita al protocollo con n. 7053 del 23.08.2017, con la quale chiede un parere ex art. 7, comma 8, della l. n. 131/2003 in riferimento alla disciplina inerente la corresponsione degli incentivi per funzioni tecniche ai sensi dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016.
La richiesta di parere si articola in vari quesiti, e precisamente:
   1. … se in presenza di un appalto di lavori, servizi e forniture possa essere riconosciuto l'incentivo per le funzioni tecniche effettivamente svolte:
      (a) indipendentemente dal fatto che vi sia stata o meno attività di programmazione, naturalmente escludendo la remunerazione per le fasi non svolte;
      (b) nel caso di aggiudicazione non affidata mediante lo svolgimento di una procedura comparativa (vedi ad esempio interventi realizzati in somma urgenza)
”;
   2. … se le funzioni effettivamente svolte in relazione a lavori di manutenzione ordinaria, straordinaria ed i servizi manutentivi siano incentivabili o meno ai sensi del citato art. 113”;
   3. “… se a fronte di cause diverse di mancato riconoscimento dell'incentivazione nei confronti dei dipendenti dell'ente vi siano anche effetti diversi sul fondo, oppure se dalla legge derivi l'obbligo di riduzione del fondo, con conseguente riacquisizione nelle disponibilità di bilancio dell'ente, in tutti i casi previsti al comma 3 (…)”;
   4. “… se le modalità di incentivazione debbano seguire la norma in vigore al momento dell'effettivo svolgimento dell'attività (Direzione Lavori, Collaudi ecc.) o piuttosto si debba applicare, anche in materia di incentivazione, la disposizione di cui all'art. 216 del D.Lgs. 50/2016, con la conseguenza che l'art. 113 si applichi esclusivamente a tutte le procedure il cui bando o avviso sia stato pubblicato dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 50/2016”.
...
6. Accertata dunque in via preliminare la ammissibilità sia soggettiva che oggettiva della richiesta di parere, è ora possibile trattare il merito, svolgendo prima un breve excursus delle norme che nel corso del tempo si sono succedute in materia di compensi incentivanti nell’ambito dei contratti pubblici di appalto.
7. L’introduzione nell’ordinamento di detti incentivi risale alla L. n. 109 del 1994 (c.d. Legge Merloni), il cui art. 18 -intitolato “Incentivi e spese per la progettazione”– prevedeva la ripartizione tra determinati soggetti (responsabile unico del procedimento, incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché loro collaboratori) di un incentivo “per la progettazione”, che la norma quantificava in una “somma non superiore all'1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro”; detta somma era “… ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione”, tenendo conto “… delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere. Le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie”.
Successivamente, con il D.Lgs. n. 163/2006 (c.d. Codice degli appalti), la materia degli incentivi trova il proprio referente normativo nell’art. 92, commi 5 e 6, il cui contenuto sostanzialmente riprende quello previgente, salvo alcune innovazioni quali il tetto all’incentivo (fissato nel rispettivo trattamento complessivo annuo lordo) e la necessità, ai fini della concreta erogazione dell’incentivo, del previo positivo accertamento della attività svolta.
Nel 2014, il legislatore interviene nuovamente in materia di incentivi, stavolta ridisegnandone in maniera incisiva la disciplina: con il D.L. n. 90/2014, vengono abrogati i commi 5 e 6 dell’art. 92 e vengono aggiunti una serie di commi all’art. 93, fra cui il comma 7-bis, istitutivo di un apposito fondo per la progettazione e innovazione, ed il comma 7-ter, nel quale tra l’altro il legislatore ha cura di precisare che nel riparto delle risorse si deve tener conto “… delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell'effettivo rispetto, in fase di realizzazione dell'opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
Come affermato dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti nella deliberazione 13.05.2016 n. 18: “… sotto il profilo oggettivo, la novità rilevante della disciplina introdotta dal D.L. n. 90/2014 è rappresentata dal fatto che le risorse non sono più assegnate in riferimento alla singola opera, in quanto non vi è più lo stretto collegamento, prima esistente, fra opera e compenso, tale da determinare una corrispondenza diretta fra attività svolta e diritto alla percezione dell’incentivo, ma esse confluiscono in un fondo, denominato, ai sensi del comma 7-bis, per la progettazione e l’innovazione. In tal modo viene meno la sinallagmaticità della prestazione oggetto di incentivazione che caratterizza, invece, l’affidamento dell’incarico a professionisti esterni all’amministrazione, nei limiti ed alle condizioni dei cui al citato art. 90, comma 6, del citato dlgs 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie nella pronuncia citata non manca tuttavia di evidenziare anche gli aspetti di continuità rispetto all’impostazione originaria della Legge Merloni: “… pur nell’evoluzione normativa divanzi analizzata, non sembra essere venuto meno il favor legislatoris per l’affidamento di tali attività alle professionalità interne alla stessa amministrazione, in un’ottica di valorizzazione delle figure professionali in servizio e, al contempo di risparmio. Tali obiettivi, tuttavia, vanno conseguiti evitando eventuali aggravi di spesa derivanti non solo dal mancato rispetto di tempi e costi preventivati, ma anche da un’esecuzione dell’opera non a regola d’arte o non in linea con gli standard qualitativi previsti nel progetto approvato”.
La Sezione delle Autonomie nella deliberazione 23.03.2016 n. 10 mette in luce i profili di discontinuità rispetto alla normativa previgente: “… appare evidente, altresì, come le disposizioni introdotte dal d.l. n. 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirino non solo ad una finalità di contenimento della spesa ma anche ad una sua razionalizzazione. In quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione, con destinazione della quota del 20% alle dotazioni infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo. Alla medesima finalità appare diretta la previsione di una graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri collegati anche a tempi e costi previsti nel progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo alla riduzione delle risorse destinate al fondo”.
Con tale pronuncia, peraltro, la Sezione aveva altresì avuto modo di affermare che “la corretta interpretazione dell’articolo 93, comma 7-ter, d.lgs. 163/2006, alla luce delle disposizioni recate dal d.l. n. 90/2014 e dei criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016, è nel senso dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
Recentemente la Sezione Abruzzo (deliberazione 22.12.2015 n. 358) ha invece messo in evidenza un ulteriore profilo di rilievo, ossia il carattere eccezionale e derogatorio della norma in commento: “In linea con i principi di efficienza ed economicità, il legislatore mostra un favor per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale, consentendo il riconoscimento agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, in deroga ai due principi cardine del pubblico impiego: di onnicomprensività della retribuzione e di definizione contrattuale delle componenti economiche, sanciti, rispettivamente, dall’art. 24, comma 3, e dal successivo art. 45, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 (cfr. Sezione delle Autonomie deliberazione n. 7/2014)”.
Dall’analisi delle norme che si sono succedute emerge chiaramente come si sia modificata nel tempo la posizione del legislatore rispetto alla materia degli incentivi nell’ambito degli appalti pubblici. L’originaria ratio –rappresentata dalla volontà di spostare all’interno degli uffici attività di progettazione e capacità professionali di elevato profilo e basata su un nesso intrinseco tra opera e attività creativa di progettazione, di tipo libero-professionale (“prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati” come diceva la
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle Sezioni riunite della Corte dei conti)- è stata gradualmente affiancata e poi sostituita con quella invece rappresentata dalla volontà di accrescere efficienza ed efficacia di attività tipiche dell’amministrazione, passibili di divenire economicamente rilevanti nella misura in cui producono risparmi in termini di rispetto dei tempi e di riduzione di varianti in corso d’opera.
La rimodulazione del meccanismo incentivante prevista dal D.L. n. 90/2014 era infatti destinato ad avere una portata ancor maggiore in prospettiva rispetto all’immediato, laddove si ponga mente alla circostanza che la costruzione normativa recata da detto decreto legge appare in effetti la logica premessa dell’evoluzione che il legislatore in effetti attua con la L. n. 11/2016 (legge delega) e con il nuovo codice degli appalti pubblici e dei contratti di concessione, ovvero il D.Lgs. n. 50/2016.
La L. n. 11 del 2016 all’art. 1, comma 1, lettera rr, prescrive: “…al fine di incentivare l’efficienza e l’efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell’esecuzione a regola d’arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d’opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell’importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare profilo dei tempi e dei costi, escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
L’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016 recepisce la legge delega, indicando quali funzioni tecniche sono incentivabili e mantenendo -rispetto alla previgente normativa- il meccanismo indiretto di costituzione di un fondo e la necessità dell’adozione di un apposito regolamento da parte dell’amministrazione ai fini del riparto delle somme.
Come evidenziato dalla Sezione Veneto (parere 12.05.2017 n. 338): “Le attività enumerate … sono state selezionate dal legislatore per la loro specifica attitudine a produrre effetti performanti e di vigilanza sulla spesa. Il raffronto dell’attuale dettato normativo con quello previgente, pertanto, deve essere letto alla luce di una tendenza evolutiva della ratio degli incentivi in esame che ulteriormente ne definisce l’ambito con la finalità di valorizzare “esclusivamente” un (pertanto) tassativo elenco di attività rispetto ad altre funzioni necessarie nelle varie fasi di esecuzione di un contratto pubblico …”.
Tale aspetto è evidenziato altresì dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7): “È infatti evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto”.
La Sezione regionale di controllo per la Lombardia (parere 09.06.2017 n. 185) sottolinea altresì il carattere eccezionale della disposizione: “… il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa”.
8. Si può in conseguenza di quanto premesso far derivare per logica deduzione e in termini generali quanto segue, ossia: che solo in presenza di una procedura di gara o in generale una procedura competitiva si può accantonare il fondo che viene successivamente ripartito sulla base di un regolamento adottato dalla singola amministrazione.
Come ha sintetizzato la Sezione di controllo della Corte dei conti per la Lombardia (parere 09.06.2017 n. 185): “Peraltro, al riguardo, non sfugga nemmeno come la disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse e, conseguentemente, la relativa distribuzione”.
E anche la Sezione Lombardia (parere 09.06.2017 n. 190) osserva: “La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’”importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara. Si deve pertanto concludere che gli incentivi in questione possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano state affidate previo espletamento di una procedura comparativa”.
Ne consegue che
sono esclusi ai fini di accantonamento del fondo in questione importi di lavori ed altri investimenti attuati con procedure di somma urgenza o ad affidamento diretto. Tale esclusione appare proprio funzionale alla finalità della norma, che mira a spingere verso l’utilizzo sempre più esteso di procedure competitive, ordinarie e programmate. Le procedure eccezionali e non competitive non sono escluse, ma sottratte all’incentivazione.
Al quesito n. 1 del sindaco della Città Metropolitana di Firenze, la risposta ai punti a) e b), ad avviso di questa Sezione, non può che essere negativa.
9. Nella sua richiesta di parere, il sindaco metropolitano di Firenze, richiede altresì al punto n. 2 se l’incentivazione per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016 si possa riferire anche ad appalti che abbiano ad oggetto “lavori di manutenzione, ordinaria, straordinaria e servizi manutentivi” ed afferma testualmente che “Numerose Sezioni regionali di controllo in sede consultiva… si sono espresse in maniera diversa in merito all’esclusione…”. Cita in proposito, il parere 26.04.2017 n. 51 della Sezione di controllo per l’Umbria e il parere 09.06.2017 n. 190 della Sezione di controllo per la Lombardia.
Ebbene, prima di analizzare funditus la giurisprudenza in argomento, occorre tuttavia considerare storicamente talune premesse della normativa previgente.
Il D.Lgs. n. 163 del 2006 disciplinava gli incentivi -alla progettazione ed alle attività professionali connesse- all’art. 93, comma 7; tale articolo venne poi profondamente modificato con la L. n. 114 del 2014 (legge di conversione del D.L. n. 90/2014), il cui art. 13-bis -introducendo il comma 7-ter– poneva un divieto espresso di considerare le attività di manutenzione come incentivabili. La norma introduceva altresì l’obbligo di approvare un regolamento ai fini del riparto tra gli aventi diritto del fondo per la progettazione e l’innovazione: “… il regolamento definisce i criteri di riparto delle risorse del fondo, tenendo conto delle responsabilità connesse alle specifiche prestazioni da svolgere, con particolare riferimento a quelle effettivamente assunte e non rientranti nella qualifica funzionale ricoperta, della complessità delle opere, escludendo le attività manutentive, e dell’effettivo rispetto, in fase della realizzazione dell’opera, dei tempi e dei costi previsti dal quadro economico del progetto esecutivo”.
L’espressa esclusione delle attività di manutenzione, ordinarie e straordinarie, dall’attivazione degli incentivi andava a porre un freno alla interpretazione estensiva della norma patrocinata dalle amministrazioni e volta ad ampliare le fattispecie incentivabili a beneficio dei propri dipendenti. La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti faceva stato di tale proibizione nella sua deliberazione 23.03.2016 n. 10, assunta dopo la promulgazione della legge delega n. 11 del 2016, ma prima della emanazione del D.Lgs. n. 50/2016 del il 18.04.2016, esprimendosi nel senso “… dell’esclusione dall’incentivo alla progettazione interna di qualunque attività manutentiva, senza distinzione tra manutenzione ordinaria o straordinaria”.
La Sezione delle Autonomie si riferiva all’art. 93, comma 7-ter, del D.Lgs. n. 163/2006, interpretandolo alla luce delle disposizioni recate dal D.L. n. 90/2014 e dai criteri individuati dalla legge delega n. 11/2016. Essa interpretava la volontà del legislatore nel senso di restringere, soggettivamente e oggettivamente, il riconoscimento dell’incentivazione, in primo luogoconfinandolo alle figure professionali espressamente individuate dalla norma”; in secondo luogo, la Sezione delle Autonomie osservava come la precedente introduzione di un tetto individuale (per evitare che l’incentivo portasse a un aumento della retribuzione annua del singolo dipendente superiore al 100%) veniva ulteriormente ristretta, stabilendo un tetto di incentivo riconoscibile massimo individuale pari al 50% della retribuzione lorda annua.
La Sezione delle Autonomie proseguiva valutando il combinato disposto tra D.Lgs. n. 163/2006, D.L. n. 90/2014 e legge delega n. 11/2016 e osservava come le ultime disposizioni normative mirassero “non solo ad una finalità di contenimento della spesa, ma anche a una sua razionalizzazione. In quest’ultima prospettiva si collocano, infatti, la finalizzazione del fondo non più alla mera incentivazione, bensì alla progettazione ed all’innovazione, con destinazione della quota del 20% alle dotazioni infrastrutturali necessarie a raggiungere tale obiettivo. Alle medesime finalità appare diretta la previsione di una graduabilità dell’incentivo in relazione ad alcuni parametri collegati anche ai tempi e costi previsti nel progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto può dar luogo alla riduzione delle risorse destinate al fondo… La disposizione vigente, con espressione inequivoca, esclude dagli incentivi alla progettazione l’attività di manutenzione, da intendersi ai sensi dell’art. 3 del DPR n. 207 del 05.10.2010, come combinazione di tutte le azioni tecniche, specialistiche ed amministrative volte a mantenere o a riportare un’opera o un impianto nella condizione di svolgere la funzione prevista dal progetto. Tale esclusione prescinde da eventuali differenziazioni fra manutenzione ordinaria e straordinaria”.
Con l’emanazione il 18.04.2016 del D.Lgs. n. 50/2016, l’espressa esclusione della attività manutentive introdotta dalla L. 114/2014 nel D.Lgs. n. 163/2006 all’art. 93, comma 7-ter, non veniva riprodotta nel nuovo articolo sugli incentivi. Da ciò, l’amministrazione richiedente sembra desumere, nel silenzio della legge, la possibilità di una ammissibilità delle attività manutentive all’incentivo.
La Sezione regionale di controllo per la Sardegna, con parere 18.10.2016 n. 122, si pronunciava nel senso di confermare l’esclusione delle manutenzioni dalle attività incentivabili, ritenendo i principi affermati dalla Sezione autonomie nella deliberazione 23.03.2016 n. 10 tuttora validi: “Alla luce del quadro normativo vigente e dei principi recentemente affermati dalla Sezione delle Autonomie, la Sezione ritiene, pertanto, che tra le attività escluse dalla ripartizione delle risorse del fondo per la progettazione e l’innovazione rientrino tutti i lavori di manutenzione sia ordinaria che straordinari”.
Analizzando il nuovo impianto normativo del D.Lgs. n. 50/2016, la Sezione Sardegna derivava l’esclusione dall’incentivo delle manutenzioni anche dal venir meno del riferimento alla “progettazione” e dal passaggio alla “programmazione”: “Dalla lettura della norma emerge chiaramente che, nel nuovo quadro normativo introdotto dal D.Lgs. n. 50/2016, il 2% dell’importo posto a base di gara non è più destinato alla remunerazione della fase della progettazione, bensì a beneficio delle fasi della programmazione della spesa per investimenti, della predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, della direzione dei lavori e dei collaudi, allo scopo di incentivare la realizzazione dell’opera a regola d’arte, nei tempi e con costi previsti dal progetto”.
In tale direzione, la giurisprudenza della Corte dei conti proseguiva con il parere 07.12.2016 n. 118 della Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna la quale affermava l’orientamento secondo il quale, anche se le attività di manutenzione non sono espressamente escluse dalla nuova disposizione, tuttavia il carattere tassativo delle attività incentivabili implica che il predetto emolumento non può essere utilizzato per la remunerazione delle predette attività (manutenzioni): “si evidenzia che l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal legislatore nel comma 2 dell’articolo in esame per individuare le attività per lo svolgimento delle quali può essere previsto un compenso specifico e aggiuntivo deve essere interpretato nel senso della tassatività delle attività incentivabili. Pertanto non essendo stata espressamente ricompresa l’attività di manutenzione, ne discende che non può essere prevista per la stessa nessuna remunerazione ai sensi dell’articolo 113 d.lgs. 50/2016”.
Nello stesso modo si esprimevano la Sezione regionale di controllo per la Puglia (parere 13.12.2016 n. 204 e parere 24.01.2017 n. 5), e successivamente la Sezione regionale di controllo per il Veneto che con il parere 12.05.2017 n. 338 ne trae la seguente conclusione: “Se con l’art. 93, comma 7-ter, D.Lgs. n. 163/2006, il legislatore ha sentito la necessità, rispetto alla prassi pretoria affermatasi, di chiarire che l’incentivo non fosse riconoscibile per nessuna attività di manutenzione, con l’attuale art. 113, d.lgs. 50/2016, ha ritenuto di dover circoscrivere la finalità “premiante” degli incentivi alle (sole) funzioni tecniche tassativamente elencate, a cui occorre aggiungere, a segnare il superamento del precedente sistema, l’esplicita esclusione delle attività di progettazione contenuta nelle legge di delega. Ammettere una tacita e contemporanea riespansione dell’ambito operativo degli incentivi in esame in favore di attività, quali quelle manutentive, già espressamente escluse dal legislatore del 2014, pertanto, contrasterebbe con lo spirito, ulteriormente selettivo rispetto al passato, della riforma del 2016”.
Il 26.04.2017 anche la Sezione regionale di controllo per l’Umbria deliberava in questo senso (parere 26.04.2017 n. 51) affermando che “da nessuno degli elencati commi dell’art. 113, del d.lgs. 50/2016, emerge uno spiraglio interpretativo per inserire tra le “funzioni tecniche” da incentivare l’attività manutentiva”.
Anche la Sezione regionale di controllo per la Lombardia, che pure conclude non escludendo l’ammissione dei lavori manutentivi, nel parere 09.06.2017 n. 185 prende le mosse dal principio secondo il quale “la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica”. La Sezione Lombardia fonda il suo orientamento favorevole all’estensione, espresso nei tre pareri resi con parere 09.06.2017 n. 185, parere 09.06.2017 n. 190 e parere 12.06.2017 n. 191, sul fatto che il compenso incentivante previsto dall’art. 113 del d.lgs. 50/2016 “riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture”.
Nel parere 09.06.2017 n. 190, la stessa Sezione afferma la suggestiva interpretazione che se da una parte l’avverbio “esclusivamente” utilizzato dal legislatore deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogia, tuttavia tale esclusività non si estenderebbe all’oggetto della procedura incentivata: “la disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento dei contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
Più oltre la Sezione Lombardia trova un ulteriore spunto a favore della estendibilità nell’art. 3 del D.Lgs. n. 50/2016: “Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del d.lgs. 50/2016 in collegato disposto con l’allegato I (al quale fa rinvio l’art. 3, comma 2, lettera ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”) l’espromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici. Da un lato, l’art. 3, comma 2, lettera nn), ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso allegato I è organizzato per specifiche attività che a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I”.
Pur riconoscendo la suggestività delle ipotesi interpretative sopraesposte, la scrivente Sezione ritiene che l’impianto complessivo della norma di riforma, la palese intenzione restrittiva del legislatore, appaiono chiare nel loro orientarsi verso principi di tassatività ed esclusività delle attività incentivabili, da non poter ammettere una estensione in via interpretativa in assenza di una espressa previsione di legge.
In primo luogo si può osservare che il comma 2 dell’art. 113 fa espresso riferimento al fatto che il fondo viene costituito “ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”. Tale necessità sembra presente solo per le attività caratterizzate da una certa complessità, complessità che risulta assente nelle attività di manutenzione, attività per lo più semplici, che non necessitano di uno sforzo supplementare affinché l’esecuzione del contratto rispetti i documenti a base di gara, il progetto, i tempi e i costi. Di conseguenza, non sussistendo tale necessità, la previsione dell’incentivo per tali attività sarebbe illegittima.
Si segnala, in via meramente collaterale, che se in effetti all’art. 3, comma 2, lettera nn, i “lavori” vengono così definiti: “attività di costruzione, demolizione, recupero, ristrutturazione urbanistica ed edilizia, sostituzione, manutenzione di opere”. Il legislatore avrebbe potuto ripetere il riferimento anche all’art. 113, ove avesse inteso estendere le fattispecie incentivabili. In più, laddove si scorra l’elenco di specifiche attività di cui all’allegato I, è pur vero che al punto 45.44 si citano le “tinteggiature” ma lo si fa solo in abbinamento con “la posa in opera di vetrate”, quasi a citare attività conclusive di una edificazione o completamento di complessa opera, tanto è vero che al numero seguente 45.45 si legge la denominazione “altri lavori di completamento degli edifici”, chiarendo che si tratta non tanto di manutenzioni, quando di attività di chiusura di un cantiere di rilievo.
La Sezione ritiene dunque, in assenza di una norma esplicita, di allinearsi al prevalente orientamento restrittivo in tutti gli aspetti interpretativi della norma, escludendo dall’incentivo qualsiasi fattispecie non espressamente indicata dall’art. 113, comma 2, del D.Lgs. n. 50/2016. In tale senso si è pronunciata anche la Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, con parere 30.03.2017 n. 71.
10. Al punto n. 3 della lettera 17.08.2017, trasmessa Dal Consiglio degli enti locali a questa Sezione con trasmissione del 22 agosto, il sindaco metropolitano di Firenze chiede dilucidazioni di carattere generale sul comma 3 dell’articolo 113 D.Lgs. n. 50/2016, in merito all’articolato meccanismo di riduzioni da apportare al fondo di cui al comma 2 nel caso di intervento nelle attività ammissibili all’incentivazione di personale espressamente escluso, in caso di ritardi nei tempi o aumenti dei costi dell’opera, servizio o fornitura, in caso di superamento del tetto individuale del 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo, in caso di attività affidate a personale esterno, oppure non svolte.
In termini generali va rammentato che la normativa riproposta all’art. 113, comma 3, in termini di riduzione proporzionale in caso di ritardi o aumento di costi, risale al D.L. n. 90/2014, che all’art. 13-bis introduceva, come già ricordato, il comma 7-ter all’articolo 93 del D.Lgs. n. 163/2006, nel quale si prevedeva il meccanismo di riparto del fondo “per la progettazione e l’innovazione” affidandolo in parte a norme primarie in parte a un regolamento previsto dal comma 7-bis.
In generale, va osservato che
l’adozione del regolamento da parte della singola amministrazione è “conditio sine qua non” per attuare il riparto tra gli aventi diritto, individuati sulla base del combinato disposto di norme primarie e regolamentari, e quindi per l’effettiva erogazione dell’incentivo. Tale impianto viene confermato nel successivo D.Lgs. n. 50/2016. Le Sezioni regionali di controllo per il Veneto, Piemonte e Lombardia, chiariscono che l’adozione del regolamento è atto preliminare e necessario per corrispondere e calcolare l’incentivo, ma che l’amministrazione potrebbe accantonare le somme previste dalla legge senza tuttavia ripartirle o erogarle.
Considerando quale elemento necessitante l’adozione del regolamento, sono altresì prescrizioni di legge il riparto del fondo costituito con art. 113, comma 1, del d.lgs. 50/2016 dell’80% a favore degli incentivi per funzioni tecniche e del 20% a favore di accrescimento di dotazione tecnologica, banche dati e tirocini di alta formazione; il meccanismo di corresponsione dell’incentivo sulla base del regolamento da parte del dirigente o responsabile del servizio che accerti le specifiche attività svolte dai singoli dipendenti; il tetto individuale per ciascun dipendente che non può in ogni caso ricevere inventivi per un importo superiore al 50% del trattamento economico complessivo annuo lordo.
E’ altresì prescrizione di legge il fatto che il regolamento debba prevedere un meccanismo di riduzione proporzionale del montante dell’incentivo in caso di accertati ritardo o aumenti di costi dell’opera, ma il merito del meccanismo decurtativo è demandato al regolamento.
La decurtazione è prevista dalla norma anche in caso di accertamento negativo al momento di verificare le attività svolte. In questo caso l’art. 113, comma 3, del d.lgs. 50/2016 prevede che le quote parti dell’incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte –o perché affidate a personale esterno, o perché prive di accertamento dirigenziale– vanno ad accrescere il montante del fondo da ripartire. In questo senso, la nuova normativa è più favorevole di quella precedente del dl. 90/2014, che infatti prevedeva il passaggio ad economia di queste somme. La norma conclude escludendo la sua applicazione al personale con qualifica dirigenziale.
La Sezione delle Autonomie della Corte dei conti, commentando il meccanismo del fondo previsto dalla previdente normativa ai sensi del dl 90/2014 con l’adozione di apposito regolamento per il successivo riparto, così interpretava l’intenzione del legislatore (deliberazione 13.05.2016 n. 18): “Dalla sintetica ricostruzione normativa proposta, appare chiaro come le disposizioni, introdotte dal dl 90/2014 e dalla relativa legge di conversione, mirassero fra l’altro ad un obiettivo di razionalizzazione e di contenimento della spesa, anche attraverso la subordinazione dell’erogazione dell’incentivo al rispetto di alcuni parametri collegati ai tempi ed ai costi previsti inizialmente nel quadro economico del progetto esecutivo dell’opera, il cui mancato rispetto, ai sensi della predetta disciplina, può dar luogo anche alla riduzione delle risorse destinate al fondo per la progettazione e l’innovazione”.
L’interpretazione appare ancora valida anche per il nuovo codice degli appalti e perciò l’ente deve previamente provvedere alla redazione del previsto regolamento.
11. L’amministrazione della Città metropolitana di Firenze richiede infine interpretazione in merito alla decorrenza delle norme previste dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, e in particolare a funzioni tecniche svolte successivamente all’entrata in vigore dello stesso, ma relative a contratti banditi in vigenza del D.Lgs. n. 163/2006.
In questo senso, soccorre la pronuncia della Sez. reg. contr. Lombardia nel più volte citato parere di cui al parere 12.06.2017 n. 191 che parte dalla considerazione dell’art. 216 del Codice citato dalla stessa amministrazione richiedente: “
Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi e gli avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 50/2016.
Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti le disposizioni introdotte dal d.lgs. 50/2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo Codice, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore…
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino una chiara volontà di escludere dall’operatività del principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113, ogni opzione ermeneutica che giunga alla conclusione di applicare a queste ultime il principio della retroattività, o comunque, la regola del tempus regit actum si rivela priva di fondamento positivo e pertanto foriera di incertezze interpretative e di confusione applicativa.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo Codice
”.
A ulteriore sostegno e rafforzativo di tale indirizzo interpretativo,
la Sezione regionale controllo per il Piemonte nel suo già citato parere 09.10.2017 n. 177 considera regolate dalla normativa previgente (art. 93 D.Lgs. n. 163/2006 come modificato dalla L. n. 144/2014) perfino attività tecniche svolte prima della entrata in vigore della nuova normativa ma il cui relativo bando di gara sia stato pubblicato dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016 (Corte dei Conti, Sez. Toscana, parere 14.12.2017 n. 186).

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EDILIZIA PRIVATALa detrazione per infissi e interventi di risparmio energetico cala al 50%.
Ridotta al 50% la detrazione per gli interventi di risparmio energetico relativi agli acquisti e posa in opera di finestre, compresi gli infissi, di schermature solari e di impianti di climatizzazione invernale con caldaie a condensazione.

I commi da 344 a 349, dell'articolo 1 della legge 296/2006 (Finanziaria 2007) avevano introdotto una detrazione d'imposta, in misura pari al 55% delle spese documentate, sostenute entro il 31/12/2007, con riferimento a determinati interventi volti alla riqualificazione energetica degli edifici esistenti.
Successivamente, per effetto di un susseguirsi di proroghe e modifiche alla originaria disposizione normativa, il legislatore ha fissato, in relazione alle spese sostenute dal 06/06/2013 al 31/12/2017, nella misura del 65% la detta detrazione (legge di Bilancio 2017).
La detrazione in commento spetta alle persone fisiche, agli enti e ai soggetti di cui all'art. 5, dpr 917/1986 (Tuir), non titolari di reddito d'impresa, che sostengono le spese per l'esecuzione dei previsti interventi sugli edifici esistenti, su parti di edifici esistenti o su unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, posseduti o detenuti, ma anche ai soggetti titolari di reddito d'impresa che sostengono le spese per l'esecuzione dei previsti interventi sugli edifici esistenti, su parti di edifici esistenti o su unità immobiliari esistenti di qualsiasi categoria catastale, anche rurali, posseduti o detenuti.
La legge di Bilancio 2018, nel confermare la detrazione per gli interventi di efficienza energetica per il prossimo anno, ritocca al ribasso, la percentuale del 65% applicabile alla generalità dei detti interventi, per talune spese; restano impregiudicate tutte le precisazioni già fornite e, soprattutto, le modalità di sostenimento e di pagamento (bonifici), nonché di comunicazione all'Enea (90 giorni dalla fine dei lavori), mentre il limite massimo di detrazione, a seconda dell'intervento effettuato, deve essere riferito all'unità immobiliare oggetto dell'intervento e, di conseguenza, deve essere suddiviso tra i soggetti detentori o possessori dell'immobile che partecipano alla spesa, in ragione dell'onere da ciascuno effettivamente sostenuto.
La detrazione nella misura piena (65%) spetta anche, e questa è una novità, per l'acquisto e la posa in opera di micro-cogeneratori, in sostituzione di impianti esistenti, con un valore massimo della detrazione pari a euro 100 mila, sempreché gli interventi realizzino un risparmio di energia primaria (Pes) entro determinati valori.
L'aliquota ridotta del 50% si rende applicabile, invece, per le spese sostenute fino al 31/12/2018 relative agli interventi di acquisto e posa in opera di finestre, comprensive di infissi e di schermature solari, di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione o dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili; la detrazione resta ancora al 65% per gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione di efficienza pari almeno alla classe «a» di prodotto, di cui al regolamento 911/2013/Ue e contestuale installazione di sistemi di termoregolazione evoluti.
La detrazione, nella misura del 50%, inoltre, è fruibile per le spese relative all'acquisto e la posa in opera di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di generatori di calore alimentati da biomasse combustibili, per un ammontare massimo di 30 mila euro.
Sono, inoltre, esclusi dalla detrazione citata gli interventi di sostituzione di impianti di climatizzazione invernale con impianti dotati di caldaie a condensazione inferiore alla classe «A» di prodotto, di cui al regolamento 811/2013/Ue.
Con riferimento alle spese sostenute per gli interventi di riqualificazione energetica per le parti a comune nel periodo intercorrente tra l'01/01/2017 e il 31/12/2021, il beneficiario «incapiente», di cui al comma 2, dell'art. 11 e della lettera a), comma 1 e lettera a), comma 5, dell'art. 13, dpr 917/1986 (Tuir) in luogo della detrazione possono eseguire a terzi la cessione del bonus.
Il nuovo comma 3-ter, inserito nell'art. 14, dl 63/2013, prevede che, con uno o più decreti interministeriali del ministero dello sviluppo economico, congiuntamente con il ministero dell'ambiente e delle infrastrutture e dei trasporti, siano definiti i necessari requisiti tecnici degli interventi agevolati, indicati nel medesimo articolo, nonché i massimali di spesa di ogni singola tipologia.
In effetti, a differenza degli interventi di ristrutturazione edilizia, il tetto di spesa è, da sempre, variabile in base alla tipologia dei vari interventi e quindi, la detrazione, comunque da spalmare in dieci annualità, può risultare di ammontare diverso, pur mantenendo la stessa percentuale di detrazione (50 o 65%) (articolo ItaliaOggi del 30.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARICopertura a chi segnala reati. Lavoratori tutelati. Nel settore pubblico e nel privato. Entra da oggi in vigore la legge 179 del 2017 che disciplina il whistleblowing.
Tutelati gli autori di segnalazioni di reati o di irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato.

Entrano in vigore oggi, 29.12.2017, le disposizioni contenute nella legge 30.11.2017, n. 179 con la quale è stato introdotto un sistema «binario» in ambito di whistleblowing.
Da un lato si prevedono, infatti, strumenti di tutela per i lavoratori appartenenti al settore pubblico e dall'altro per i lavoratori appartenenti al settore privato che denuncino reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito delle proprie attività lavorative.
La legge 179, modificando il decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, introduce tre nuovi commi all'art. 6, con cui si richiede che i modelli di organizzazione e gestione (Mog) prevedano degli adeguati canali informativi volti a consentire le segnalazioni dei dipendenti, idonei a garantire la riservatezza del segnalante e che contengano il divieto di atti di ritorsione o misure discriminatorie nei confronti del soggetto segnalante.
Per almeno 300 mila soggetti (banche, intermediari, professionisti) già dal 4 luglio scorso opera un analogo obbligo di dotarsi di sistemi interni di segnalazione delle violazioni.
Lo prescrive l'articolo 48 del decreto legislativo 231/2007, così come modificato e integrato dal dlgs 90/2017 (attuativo della Quarta direttiva europea in materia di antiriciclaggio), prevedendo che i soggetti obbligati adottino procedure per la segnalazione al proprio interno da parte di dipendenti o di persone in posizione comparabile di violazioni, potenziali o effettive, delle disposizioni dettate in funzione di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo.
Tali procedure devono garantire:
   a) la tutela della riservatezza dell'identità del segnalante e del presunto responsabile delle violazioni, ferme restando le regole che disciplinano le indagini e i procedimenti avviati dall'Autorità giudiziaria in relazione ai fatti oggetto delle segnalazioni;
   b) la tutela del soggetto che effettua la segnalazione contro condotte ritorsive, discriminatorie o comunque sleali conseguenti la segnalazione;
   c) lo sviluppo di uno specifico canale di segnalazione, anonimo e indipendente, proporzionato alla natura e alle dimensioni del soggetto obbligato.
La nuova norma prevede che la presentazione della segnalazione non costituisce, di per sé, violazione degli obblighi derivanti dal rapporto contrattuale con il soggetto obbligato e che, in deroga a quanto previsto dall'articolo 7, comma 2, del decreto legislativo 30.06.2003, n. 196 (Codice Privacy), l'identità del segnalante non possa essere rivelata se non con il suo consenso o quando la conoscenza sia indispensabile per la difesa del segnalato.
Se a tale previsione si aggiunge poi l'ormai «datato» provvedimento con il quale Banca d'Italia nel luglio 2016 ha attuato l'articolo 52-bis del Testo Unico Bancario con il quale sono state introdotte norme a tutela del dipendente bancario che segnali violazioni delle norme bancarie e la prossima entrata in vigore –dal 03.01.2018– del provvedimento recante analoghe disposizioni di tutela del segnalante attuative della cosiddetta normativa MiFid2, ben si comprende l'importanza che il legislatore e il governo hanno attribuito alla fattiva collaborazione dei dipendenti delle aziende, pubbliche e private, nella lotta al riciclaggio, alla corruzione ed in generale ai reati, anche bancari, finanziari e societari in genere.
Resta ora da capire come le aziende si organizzeranno per gestire questo whistleblowing a più facce o multicanale; non fare nulla può costare molto caro: le sanzioni, infatti, possono arrivare, non solo dalla Magistratura ma anche da Banca d'Italia, Consob e Ordini professionali (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILe contraddizioni del contratto di prestazione occasionale.
Con l'articolo 54-bis del dl 24.04.2017, n. 50, inserito in sede di conversione della legge 21.06.2017, n. 96, in vigore dal 24 giugno, nasce il contratto di prestazione occasionale, con l'obiettivo di andare adeguatamente a sostituire lo strumento del voucher.
Quest'ultimo strumento normativo ha rappresentato per anni la soluzione flessibile veloce e soprattutto efficace per inquadrare le prestazioni di lavoro occasionale di tipo accessorio di modeste entità. Al contrario l'attuale soluzione normativa adottata, si connota chiaramente per andare esattamente nella direzione opposta a quella della flessibilità e semplicità di utilizzo che contraddistingueva il vecchio buono lavoro.
Oggi un committente che decidesse di ricorrere a questo strumento normativo non potrebbe farlo nella stessa giornata in cui nasce l'esigenza organizzativa così come invece era possibile fare con il vecchio voucher lavoro, semplicemente per il fatto che la sola procedura di inquadramento del committente e soprattutto del riempimento del portafoglio elettronico attraverso il pagamento con delega F24 che consente di acquistare la prestazione, così come precisa l'Inps nella circolare 107 del 15/07/2017, necessita di un minimo di sette giorni. Ma anche dal punto di vista del prestatore il discorso non cambia, di fatto se con il vecchio strumento del buono lavoro lo stesso poteva riscuotere il compenso dopo tre giorni, con il contratto di prestazione occasionale l'Inps provvederebbe a disporre il bonifico del compenso il giorno 15 del mese successivo.
Ora chiaramente provate a immaginare il cameriere di un ristorante che viene chiamato per un paio di sabati all'inizio del mese per far fronte a un picco di prenotazioni e si vedrebbe corrispondere il compenso per due prestazioni di qualche ora dopo oltre un mese, compenso di una prestazione occasionale che dovrebbe trovare la sua connotazione naturale proprio nella quasi immediata percezione dello stesso, e invece costringe il prestatore ad attendere un periodo decisamente troppo lungo soprattutto in considerazione della stessa esiguità del compenso da percepire.
Ma il vero elemento di rigidità del nuovo strumento risiede nella penalizzazione che ancora una volta colpisce imprese e professionisti, infatti per il contratto di prestazione occasionale la retribuzione minima da conferire giornalmente anche per una sola ora di prestazione è di ben 36 euro, minimale che rende lo strumento normativo quasi inutilizzabile per la fattispecie per la quale è stato creato. Ma quanto costerebbe quello stesso cameriere dell'esempio precedente al committente ristoratore se inizia la propria prestazione alle 20 e termina all'una di notte, visto che si parla di minimale giornaliero da rispettare?
Ebbene la risposta dell'Inps a questo quesito lascia chiaramente intendere a un'interpretazione di tipo estensivo, ovvero bisogna corrispondere al prestatore 72 euro di compenso, quindi il rispetto di due minimali retributivi giornalieri, di conseguenza a quel ristoratore il cameriere costerebbe quasi di 100 euro per cinque ore di prestazione. Ricapitolando dunque il prestatore riceverebbe quel compenso dopo oltre un mese, il committente dovrebbe sostenere un costo abbastanza più elevato rispetto persino al normale lavoro subordinato, e allora perché si dovrebbe ricorrere a questo nuovo strumento?
La risposta è confermata dai dati recenti forniti dall'Inps sull'utilizzo del contratto di prestazione occasionale che non possono far altro, soprattutto alla luce delle considerazione appena fatte, che confermare i numeri impietosi della grande contraddizione che rappresenta questo strumento normativo. Si pensi che dalla data di entrata in vigore della norma sino ad oggi sono stati registrati poco più di 30 mila contratti, ovvero una nullità rispetto ai numeri prodotti dal vecchio lavoro accessorio dei buoni lavoro, a conferma della grande contraddizione di un contratto che avrebbe dovuto garantire flessibilità ed elasticità di utilizzo ma che in realtà è esattamente il contrario di quello che si propone di essere (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

TRIBUTIMANOVRA 2018/ Blocco aliquote, fusioni escluse. Il congelamento non si applica ai comuni accorpati. L'obiettivo è consentire l'armonizzazione dei prelievi sul territorio.
Il (nuovo) blocco della fiscalità locale non si applica ai comuni istituiti mediante fusione, ma solo al fine di consentire, a parità di gettito, l'armonizzazione delle diverse aliquote applicate sul rispettivo territorio.

È una delle novità introdotte nella legge di Bilancio durante l'iter parlamentare.
Il comma 37 estende al 2018 il divieto di ritoccare all'insù i tributi di regioni, enti di area vasta e comuni. La misura risale alla legge di stabilità 2016 ed è stata successivamente estesa al 2017 dalla legge 232/2016. Nuovo stop, quindi, agli incrementi delle aliquote (anche se già deliberati), all'istituzione di nuovi prelievi, ovvero alla cancellazione di agevolazioni.
Rimangono fuori dal blocco solo la Tari, l'imposta di soggiorno e il contributo sbarco, oltre alle tariffe di natura patrimoniale, come ad esempio quelle relative alla tariffa puntuale, sostitutiva della Tari, e il canone alternativo della tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche (Tosap), vale a dire il canone di occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap). Dal punto di vista soggettivo, invece, la manovra ha introdotto una nuova deroga, che si aggiunge a quella già prevista a favore degli enti in dissesto ed in pre-dissesto e che interessa «i comuni istituiti a seguito di fusione ai sensi degli articoli 15 e 16 del Testo unico di cui al decreto legislativo 18.08.2000, n. 267».
Ciò però, come detto, solo «al fine di consentire, a parità di gettito, l'armonizzazione delle diverse aliquote». La portata di tale inciso non è chiarissima, perché in teoria il blocco è perfettamente conciliabile con l'esigenza di armonizzazione del prelievo sulle diverse porzioni di territorio accorpate in un unico municipio, essendo sufficiente applicare a tutti i contribuenti le aliquote più basse fra quelle introdotte dai comuni ante fusione.
Inoltre, occorre ricordare che già il comma 132 della legge Delrio (56/2014) consente ai comuni fusi di «mantenere tributi e tariffe differenziati per ciascuno dei territori degli enti preesistenti alla fusione non oltre il quinto esercizio finanziario del nuovo comune». C'è da attendersi, quindi, che le nuova norma susciterà qualche dubbio applicativo, che dovrà essere affrontato a colpi di circolari e risoluzioni dal Mef e di sentenze da parte delle commissioni tributarie.
Nessuna deroga, invece, è stata prevista per eventuali interventi espansivi adottati in sede di salvaguardia degli equilibri, come in teoria prevedrebbe l'art. 193 del Tuel con una norma che, però, è pacificamente considerata inidonea a derogare al blocco (si veda, da ultimo, la risoluzione del Dipartimento finanze n. 1 del 29.05.2017).
La conseguenza è che molte amministrazioni si troveranno costrette a intraprendere la strada della procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, laddove non riescano a ripristinare gli equilibri mediante i soli tagli di spesa (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

EDILIZIA PRIVATAMANOVRA 2018/ Gli oneri di urbanizzazione torneranno vincolati.
Nuovo voltafaccia sugli oneri di urbanizzazione. Non è passato, infatti, l'emendamento alla manovra che puntava a estendere al 2018 la disciplina già applicata nel biennio 2016-2017, consentendo ai comuni un utilizzo assai più libero di tali entrate, che a questo punto dal prossimo 1° gennaio diventeranno vincolate.
Per comprendere la questione, è necessario premettere che l'espressione «oneri di urbanizzazione» indica in modo atecnico i proventi di titoli abilitativi edilizi per i quali il richiedente è chiamato a compartecipare ai costi sociali delle opere che intende realizzare, ad esempio per il collegamento delle fognature, la realizzazione di strade e marciapiedi, il rafforzamento del sistema di illuminazione pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal fine, occorre versare all'ente competente (in genere il comune) un somma correlata all'incidenza di tali costi per la collettività di riferimento, cui si aggiunge un'ulteriore quota ragguagliata al costo di costruzione e che si collega all'incremento di capacità contributiva del titolare a seguito dell'intervento autorizzato. Data la natura degli «oneri», è naturale che il loro utilizzo da parte del comune debba essere coerente con le finalità cui sono destinati, almeno per la prima quota (quella appunto legata ai costi delle opere di urbanizzazione). Ma finora non sempre è stato così: spesso le difficoltà a quadrare i conti hanno costretto i sindaci a dirottarli su altre tipologie di spese, a volte comunque di investimenti, più spesso di natura corrente.
Ciò, come detto, sulla base di una lunga serie di norme ad hoc, a partire dall'art. 2, comma 8, della l 244/2007, che consentiva di utilizzare tali entrate per finanziare per una quota non superiore al 50%, spese correnti indifferenziate e, per una quota non superiore ad un ulteriore 25%, spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Negli anni 2016 e 2017, invece, la materia è stata regolata dal comma 737 della l. 208/2015, che ha permesso di spendere gli «oneri» anche interamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche. Dal 2018, invece, entrerà in vigore il comma 460 della legge n. 232/2016, che circoscrive le spese finanziabili alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA 2018/ Turnover e stabilizzazioni, gli enti tornano ad assumere.
Non c'è solo lo sblocco delle assunzioni negli enti di area vasta e l'innalzamento del turnover nei comuni da 3.000 a 5.000 abitanti. La manovra, infatti, prevede altre importanti novità per il personale delle amministrazioni locali. Il limite al turnover sale al 100% anche per i comuni fra 3.000 e 5.000 abitanti con una spesa di personale inferiore al 24% delle entrate correnti medie dell'ultimo triennio.
In precedenza, la maglie larghe interessavano solo la platea fino a 3.000 residenti. Per province e città metropolitane arriva lo sblocco delle assunzioni a tempo indeterminato con percentuali di turnover pari al 100% per le amministrazioni con una bassa incidenza della spesa di personale, al 25% per le altre. Via libera anche all'utilizzo dei resti assunzionali del triennio precedente. Sarà possibile anche il reclutamento a tempo determinato, nei limiti del 25% della spesa 2009. Ma altre norme meritano di essere segnalate.
Il comma 812 conferma la disciplina di cui all'art. 4, comma 6-quater, del dl 101/2013), che consente ai comuni di stabilizzare, a domanda, in via prioritaria rispetto all'assunzione con procedura concorsuale, il personale non dirigenziale assunto con contratto di lavoro a tempo determinato, sottoscritto a conclusione di una procedura selettiva pubblica bandita ai sensi dell'articolo 1, comma 560, della legge n. 296/20066, che abbia maturato, alla data del 01.09.2013, almeno tre anni di servizio alle proprie dipendenze negli ultimi cinque anni.
Il comma 1148, modificando l'art. 22, comma 8, del dlgs n. 75/2017, proroga la possibilità, nelle pubbliche amministrazioni, di utilizzare i contratti di collaborazione coordinata e continuativa fino al 01.01.2019 (invece che al 01.01.2018).
Viene prorogata fino al 31.12.2018 anche la possibilità per gli uffici giudiziari di continuare ad avvalersi dei servizi prestati dal personale dei comuni già distaccato, comandato o comunque specificamente destinato (comma 467). Ciò, però, nel più basso limite massimo complessivo del 10% della dotazione ordinaria, per l'anno 2018, del capitolo previsto nel bilancio statale.
Ancora, si stabilisce (al comma 200) che gli ambiti territoriali possono effettuare assunzioni di assistenti sociali con rapporto di lavoro a tempo determinato direttamente a valere (e nei limiti di un terzo) sulla quota del Fondo Povertà ad essi attribuita. Tali assunzioni potranno essere effettuate in deroga ai vincoli di contenimento della spesa di personale previsti a legislazione vigente (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti locali senza obblighi. Facoltativa la negoziazione annuale dei fondi decentrati. Le novità del nuovo Ccnl per le funzioni centrali che sarà modello per gli altri comparti.
I contratti collettivi decentrati avranno la facoltà e non l'obbligo di indicare di anno in anno la destinazione delle risorse decentrate.

E' una delle novità di maggior rilievo della preintesa sul nuovo contratto di lavoro per le «funzioni centrali», i comparti delle amministrazioni statali, stipulata lo scorso 23 dicembre. Una novità che potrebbe risolvere alcuni problemi rilevati, in particolare, nel comparto regioni enti locali, visto che il contratto delle funzioni centrali sarà il modello generale al quale faranno riferimento gli altri che verranno stipulati in seguito.
Da sempre i contratti collettivi nazionali di lavoro contengono la clausola della cosiddetta ultrattività dei contratti collettivi decentrati, che viene riproposta anche dall'articolo 8, comma 7, della preintesa: «i contratti collettivi integrativi devono contenere apposite clausole circa tempi, modalità e procedure di verifica della loro attuazione. Essi conservano la loro efficacia fino alla stipulazione, presso ciascuna amministrazione, dei successivi contratti collettivi integrativi».
Nonostante la previsione risulti sufficientemente chiara e sia stata sempre presente nei contratti collettivi sia i servizi ispettivi, sia la Corte dei conti hanno di fatto negato effettività al principio di ultrattività dei contratti decentrati, pretendendo che di anno in anno si desse corso alla contrattazione decentrata di parte economica e considerando produttiva di danno l'assenza dei contratti. Le obiezioni sulla liceità del riferimento indiretto alle previsioni dell'ultimo contratto stipulato hanno sempre prodotto solo contenziosi infiniti.
La preintesa del 23 dicembre appare apprestare il rimedio a questa clamorosa incongruenza e palese mancanza di rapporto collaborativo tra istituzioni.
Per comprendere cosa cambia, è bene richiamare la contrattazione nazionale ormai scaduta, destinata ad essere sostituita dalla nuova in corso di definizione. Ad esempio, l'articolo 5, comma 1, ultimo periodo, del Ccnl 01.04.1999 del comparto regioni enti locali dispone, ai sensi del quale «l'utilizzo delle risorse è determinato in sede di contrattazione decentrata integrativa con cadenza annuale». Servizi ispettivi e magistratura contabile, con una lettura rigorosa e non tesa a coordinare questa previsione col principio di ultratttività visto prima, ritengono che sia un dovere immancabile appunto determinare ogni anno la destinazione delle risorse.
L'articolo 8, comma 1, della preintesa, però, ha un contenuto diverso: «il contratto collettivo integrativo ha durata triennale e si riferisce a tutte le materie di cui all'art. 7, commi 6 e 7. I criteri di ripartizione delle risorse tra le diverse modalità di utilizzo di cui all'art. 7, comma 6, possono essere negoziati con cadenza annuale».
Sembra evidente che alla possibilità di considerare la negoziazione annuale come un dovere, propria della scaduta tornata contrattuale nazionale, si sostituisca una mera facoltà di negoziazione con cadenza annuale.
Il testo dell'articolo 8, comma 1, della preintesa non pare lasci dubbi. Il coordinamento tra principio di ultrattività e dovere di negoziazione è totale: poiché i contratti hanno durata triennale, spetta alle amministrazioni scegliere se definire i criteri di ripartizione delle risorse in modo che valgano un triennio oppure annualmente; nel primo caso, non si porrà mai più il problema dell'assenza di una negoziazione annuale di riparto delle risorse. Ma, anche laddove le parti non stipulino criteri espressamente di portata triennale, la facoltà e non l'obbligo di negoziare annualmente la ripartizione delle risorse, consente senza alcun dubbio di considerare vigenti ed applicabili i criteri disposti l'anno prima.
Il tutto conferma che occorre svincolare il processo della contrattazione dai numeri concreti e dall'approvazione dei bilanci.
Se si ragiona davvero su criteri che poi possano essere tradotti in formule per calcolare le destinazioni delle risorse, qualsiasi sia il concreto ammontare frutto della loro costituzione, è possibile stipulare sempre per tempo contratti che consentano una gestione serena ed efficiente.
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L'analisi. La contrattazione integrativa non risulta semplificata.
Il nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro per il comparto delle «funzioni centrali» manca l'obiettivo di rendere più semplice composizione e gestione delle risorse contrattuali decentrate.
L'articolo 40, comma 4-bis, del dlgs 165/2001 ha dato mandato alla contrattazione nazionale collettiva «di semplificare la gestione amministrativa dei fondi destinati alla contrattazione integrativa e di consentirne un utilizzo più funzionale ad obiettivi di valorizzazione degli apporti del personale, nonché di miglioramento della produttività e della qualità dei servizi», mediante il riordino, la razionalizzazione e la semplificazione «delle discipline in materia di dotazione ed utilizzo dei fondi destinati alla contrattazione integrativa».
Tuttavia, l'obiettivo non pare sia raggiunto.
È l'articolo 76 della preintesa del 23 dicembre a disciplinare la materia. Il comma 2 di tale norma stabilisce che «a decorrere dall'anno 2018, nel Fondo risorse decentrate confluiscono, in un unico importo consolidato, tutte le risorse aventi caratteristiche di certezza, stabilità e continuità negli importi determinati per l'anno 2017, come certificati dagli organi di controllo interno di cui all'art. 40-bis, comma 1, del dlgs n. 165/2001».
La disposizione risulta estremamente simile a quelle del sistema negoziale ormai scaduto, come ad esempio l'articolo 32, comma 2, del Ccnl del comparto regioni-enti locali 22/01/2004: «Le risorse aventi carattere di certezza, stabilità e continuità determinate nell'anno 2003 secondo la previgente disciplina contrattuale, e con le integrazioni previste dall'art. 32, commi 1 e 2, vengono definite in un unico importo che resta confermato, con le stesse caratteristiche, anche per gli anni successivi».
Non si rinvengono elementi normativi nuovi e diversi, tali da ottenere l'effetto voluto dalla riforma Madia, cioè, appunto, il riordino della dotazione. Manca totalmente una formula matematica chiara, grazie alla quale poter determinare in modo certo ed incontrovertibile l'ammontare del fondo.
Fare riferimento alle risorse stabili determinate nel 2017 non risolve nessuno dei problemi atavici, più volte rilevati dai servizi ispettivi, che hanno sovente censurato il sistema col quale sono determinate le risorse decentrate, proprio per l'assenza storica di una formula di calcolo chiara.
I contratti di quando in quando fanno riferimento al concetto del «monte salari», per altro mai definito né normativamente, né contrattualmente, come base per costituire i fondi; per altro, si tratta di monte salari riferito ad annualità spesso molto risalenti nel tempo ed incrementati, negli anni, in modo parziale, con percentuali mutevoli e non sempre «a regime», ma solo per determinate annualità.
Meccanismi stratificati e complessi, che hanno contribuito al contenzioso estesissimo sulla quantificazione delle risorse, che ha portato ai tentativi di sanatoria come il dl «salva Roma», per altro mai capaci di chiudere realmente le questioni aperte.
A rendere le cose ancor più difficili, sono quattro ulteriori fonti di incremento eventuale delle risorse stabili. La prima sono le percentuali di incremento, utili per determinare quell'aumento medio (a decorrere dal 2018) dei famosi 85 euro. Poi, sarà possibile incrementarlo dell'importo corrispondente alle retribuzioni individuali di anzianità non più corrisposte al personale cessato dal servizio, compresa la quota di tredicesima mensilità a partire dall'anno successivo alla cessazione dal servizio in misura intera in ragione d'anno.
La terza componente saranno le indennità di amministrazione o di ente non più corrisposte al personale cessato dal servizio e non riutilizzate in conseguenza di nuove assunzioni. Infine, confluiranno eventuali risorse riassorbite, a decorrere dal 2018, ai sensi dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Intricatissima resta anche la determinazione delle risorse «variabili», il cui importo muta annualmente. Le componenti in questo caso sono numerose. Si va dalle entrate per sponsorizzazioni alla quota di risparmi conseguiti e certificati in attuazione dei piani di razionalizzazione previsti dall'articolo 16, commi 4, 5 e 6 del dl 98/2011, alle risorse derivanti da disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi generali che prevedano specifici trattamenti economici in favore del personale, fino ai ratei di anzianità e indennità di amministrazione del personale cessato dal servizio nel corso dell'anno precedente, calcolati in misura pari alle mensilità residue dopo la cessazione, computandosi a tal fine, oltre ai ratei di tredicesima mensilità, le frazioni di mese superiori a quindici giorni. Per concludere con una ridda di risorse variabili in funzione della tipologia degli enti (ministeri o agenzie o autorità come Enac).
Conseguentemente, l'articolo 77 della preintesa descrive in modo frastagliato e complesso le possibili destinazioni delle risorse, con una gestione che appare tutt'altro che razionalizzata e semplificata (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

LAVORI PUBBLICIGrandi opere, pareri Ue per la p.a.. Enti appaltanti: investire su digitale e formazione. Proposta di Bruxelles per offrire valutazioni preventive e consulenza sull'attuazione norme europee.
Per gli appalti di grandi infrastrutture la Ue propone l'istituzione di un servizio di pareri della Commissione di Bruxelles su base volontaria, a richiesta delle pubbliche amministrazioni europee, per rendere più efficienti le procedure di appalto; necessari investimenti sulla formazione e qualificazione delle stazioni appaltanti e per la digitalizzazione del settore.

Sono questi alcuni dei contenuti di tre comunicazioni della Commissione Ue (da cui generalmente derivano poi direttive Ue), che si occupano di appalti per i grandi progetti infrastrutturali, di efficienza del settore dei contratti pubblici in Europa e di professionalizzazione degli appalti pubblici.
Su questi ambiziosi documenti la commissione ambiente della camera (relatrice Raffaella Mariani) ha emesso prima della pausa natalizia un parere positivo, peraltro evidenziando in premessa che ancora persistono a livello nazionale «incertezze sul piano interpretativo, suscettibili di determinare difficoltà dal punto di vista operativo» imputabili anche all'insufficiente livello di conoscenze e competenze tecniche da parte delle pubbliche amministrazioni.
Viene quindi valutata positivamente la proposta della Ue di istituire un sistema di valutazione preventiva su base volontaria per aiutare a risolvere, attraverso l'emissione di pareri dei servizi della commissione europea, su richiesta delle autorità pubbliche interessate, quesiti sull'applicazione delle norme Ue in materia di appalti pubblici per grandi progetti infrastrutturali.
I parlamentari italiani chiedono però di rendere applicabile questa proposta anche ad appalti più piccoli per prevenire eventuali contenziosi con riferimento ad appalti di valore più contenuto, a vantaggio delle stazioni appaltanti di minori dimensioni, quali gli enti locali.
Occorrerà inoltre ridurre la durata massima di tre mesi entro i quali i servizi della Commissione europea sarebbero tenuti a fornire risposte alle richieste di chiarimento avanzate, in modo da evitare una situazione di incertezza prolungata; così come si suggerisce alla Commissione Ue di chiarire in termini inequivoci il valore giuridico delle pronunce adottate su richiesta attraverso i pareri forniti, riconducibili non alla Commissione in quanto tale, ma soltanto ai servizi giuridici della stessa.
Da valutare, inoltre, anche la possibilità che l'eventuale integrale recepimento del parere da parte del soggetto richiedente metterebbe lo stesso al riparo da eventuali successive procedure sanzionatorie per violazione della normativa europea.
Andrà poi definito il rapporto fra la procedura di valutazione ex ante prospettata dalla Commissione europea e le eventuali procedure di tipo preventivo degli appalti pubblici vigenti in alcuni ordinamenti nazionali come, ad esempio, quello italiano, dove l'autorità nazionale anticorruzione stipula accordi di vigilanza collaborativa con le amministrazioni. Uno sforzo andrà poi compiuto per «tradurre concretamente l'obiettivo che la Commissione europea prefigura di elevare la qualità professionale e le competenze dei soggetti che a vario titolo sono coinvolti nelle procedure di appalto» anche mediante lo sviluppo di adeguati programmi di formazione e apprendimento permanenti.
Un'attenzione particolare andrà prestata all'investimento di risorse e competenze tecniche per promuovere una più rapida e intensa digitalizzazione dell'intero sistema degli appalti pubblici e per promuovere e diffondere l'utilizzo di modelli standard, basati sulle migliori pratiche, che possano aiutare le amministrazioni, soprattutto di minori dimensioni, a gestire gli appalti in maniera più efficiente e meno problematica (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Nel nuovo contratto più flessibilità e giustificativo per le entrate in ritardo.
Il contratto delle funzioni centrali, sottoscritto poche ore prima di Natale, taglia il traguardo degli obiettivi indicati nell'atto di indirizzo all'Aran del giugno scorso, in tema di maggiore flessibilità oraria, introducendo una disciplina che concilia esigenze delle persone, organizzative e quelle dell'utenza.
La valorizzazione degli strumenti che consentono di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro, si è realizzata attraverso l'armonizzazione, in un unico quadro regolativo, delle discipline contrattuali dei diversi comparti di provenienza, insieme a una nuova disciplina comune degli istituti del rapporto di lavoro quali orario, ferie e permessi.
L'articolazione dell'orario di lavoro rimane esclusa dalla contrattazione collettiva. In materia di contrattazione integrativa, infatti, continuano a essere vigenti le limitazioni introdotte dal Dlgs 150/2009 che sottraggono alla contrattazione collettiva le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione del rapporto di lavoro. Rimangono pertanto escluse dalla contrattazione collettiva materie quali l'articolazione dell'orario di lavoro, compresi turni, reperibilità, nonché organizzazione del lavoro nell'ambito degli uffici.
Orario di lavoro: la flessibilità giornaliera
L'articolo 17 del nuovo contratto ribadisce che l'orario di lavoro è di 36 ore settimanali ed è funzionale all'orario di servizio e di apertura al pubblico. Perde, rispetto alle formulazioni precedenti, la necessità di essere articolato previo esame con le organizzazioni sindacali. Ciò che riceve una più chiara definizione è lo spazio temporale entro il quale far agire la flessibilità.
La formulazione letterale della norma vede il realizzarsi di un orario flessibile, attraverso la previsione di fasce temporali entro le quali sono consentiti l'inizio e il termine della prestazione lavorativa giornaliera. Questo significa che l'esercizio della flessibilità di cui all'articolo 17, comma 4, vuole il debito orario teorico giornaliero assolto.
Misure di conciliazione vita-lavoro: la flessibilità bimensile
È il capo III del nuovo contratto che introduce e declina una nuova flessibilità che agisce in un arco temporale diverso da quello della giornata.
L'articolo 26, dedicato all’orario di lavoro flessibile, riprendendo la definizione di flessibilità giornaliera, precisa che, nel rispetto di un orario di lavoro che deve rimanere funzionale al servizio e quindi compatibile, nella sua articolazione, alle esigenze di servizio, il dipendente può avvalersi delle fasce di flessibilità sia in entrata che in uscita. Questo significa che nel caso in cui il datore di lavoro abbia definito in 30 minuti la fascia di flessibilità in entrata ed in uscita, il dipendente può legittimamente entrare 30 minuti dopo l'inizio teorico dell'orario di lavoro giornaliero, e uscire mezz'ora prima della fine dell'orario della giornata, non assolvendo in questo modo al debito orario teorico giornaliero.
Il comma 2 dell'articolo 26 indica il tempo massimo entro il quale, il debito orario non assolto, deve essere recuperato. Il nuovo perimetro tracciato, è quello del mese successivo a quello di riferimento. Questo realizza la possibilità che un debito orario non assolto su base mensile non rappresenti nessun mancato rispetto dell'orario di lavoro, bensì l'esercizio legittimo di una flessibilità che consente di recuperare il debito orario entro il mese successivo, secondo modalità e tempi concordati con il dirigente.
Il diritto positivo chiede che il dipendente renda 36 ore settimanali, unitamente alla possibilità che su base mensile ne renda meno, a condizione che entro il mese successivo le recuperi.
Rilevazione dell'orario e ritardi
A integrazione degli istituti sull'orario di lavoro, declinati al capo II del contratto, arriva la fattispecie del ritardo sull'orario in ingresso.
L'articolo 24, al comma 2, precisa che il ritardo sull'orario di ingresso al lavoro comporta l'obbligo di recupero entro l'ultimo giorno del mese successivo a quello in cui si è verificato il ritardo. La specifica disposizione contrattuale lascia intendere che il ritardo in ingresso, è inteso al netto della flessibilità in entrata, cioè quello che si colloca, al di fuori delle fasce di flessibilità giornaliera tant'è che, ove lo stesso ritardo non sia recuperato, va operata una proporzionale decurtazione della retribuzione e del trattamento economico accessorio, fermo restando quanto previsto in materia disciplinare, configurandosi in questo caso un mancato rispetto dell'orario di lavoro.
A una prima lettura appare difficile definire il confine che traccia la fine di una flessibilità bimensile non recuperata e il ritardo in ingresso non recuperato, in quanto agiscono sul medesimo arco temporale. Trattandosi di due istituti declinati in distinte norme, sembrano potersi cumulare nel loro “utilizzo”, con l'attenzione di conservarne una rilevazione distinta.
Permessi orari a recupero
Gli istituti che consentono di giustificare un'entrata in ritardo introdotti al capo I e sopra descritti, si sommano a un istituto preesistente che non ha subito particolari stravolgimenti. Stiamo parlando dei permessi orari a recupero disciplinati ora all'articolo 36 del capo V. Questi permessi nascono con l'intento di sospendere o interrompere l'attività lavorativa, pertanto, non vanno utilizzati in via sistematica, per giustificare un'entrata in ritardo. Rimane pur vero che possono essere utilizzati e lo sono stati fino ad oggi, per tale scopo; riprova ne è il fatto che possono essere chiesti non oltre 1 ora dopo l'inizio della giornata lavorativa.
La ratio di questo istituto, tuttavia, non li vuole dedicati a giustificare le entrate in ritardo, all'uopo sono stati infatti introdotti gli istituti di cui non si disponeva prima dell'entrata in vigore di questo contratto e sopra descritti.
Giova rammentare che questi permessi orari, agiscono in maniera molto particolare sul debito orario settimanale.
Premesso che la fattispecie giuridica del debito orario non è rinvenibile nel diritto positivo, rimane immutato l'obbligo di rendere 36 ore settimanali da parte del lavoratore dipendente.
Nel caso in cui un lavoratore goda di un permesso orario a recupero, il permesso non riduce il debito orario settimanale ed è in questo “agire” del permesso che risiede il conseguente obbligo di recupero nel termine del mese successivo a quello nel quale è goduto. Un mancato recupero in termini di prestazione lavorativa resa, determina la proporzionale decurtazione della retribuzione.
Detto in altri termini, il contratto legittima una prestazione lavorativa inferiore a quella contrattualmente prevista, a condizione che si provveda ad una proporzionale decurtazione della retribuzione nel rispetto del principio secondo cui la retribuzione è ancorata alla prestazione resa. In questo caso non si configura alcun mancato rispetto dell'orario di lavoro.
Ciò che va monitorato con attenzione è il rispetto del tetto massimo delle 36 ore annue, superato il quale, alla proporzionale decurtazione della retribuzione devono attivarsi le procedure in materia disciplinare (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.12.2017).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Bando-tipo, clausola sociale a misura di regole Ue e contratti collettivi.
La clausola sociale deve essere inserita nelle regole di gara per gli appalti di servizi, con esclusione delle procedure per quelli intellettuali e per l'affidamento di forniture.
Il bando-tipo n. 1/2017 chiarisce le modalità di utilizzo della particolare previsione che regola il riassorbimento del personale dell'appaltatore uscente da parte di quello subentrante, nel rispetto dei principi dell'ordinamento comunitario e dell'autonomia organizzativa dell'operatore economico affidatario.
Il modello standard adottato dall'Anac precisa anzitutto come la clausola sociale (prevista come obbligatoria dall'articolo 50 del codice dei contratti pubblici dopo la modifica apportata dal Dlgs 56/2017) non debba essere utilizzata per gli appalti di mera fornitura, per quelli che hanno a oggetto servizi intellettuali e per quelli nei quali non ci sia un appaltatore uscente (ad esempio, per un servizio esternalizzato per la prima volta o per il quale il precedente appalto sia stato oggetto di risoluzione con l'appaltatore).
Contratti collettivi
L'Autorità precisa nella nota illustrativa del bando-tipo che in base alla nuova disciplina del codice, la stazione appaltante è tenuta in ogni caso a inserire clausole sociali richiamando l'applicazione di contratti collettivi di settore, relative al riassorbimento del personale impiegato dal precedente aggiudicatario. Tuttavia l'Anac rammenta che per costante giurisprudenza, questa clausola non deve essere intesa come un obbligo di totale riassorbimento dei lavoratori del pregresso appalto, ma viceversa, deve prevedere che le condizioni di lavoro siano armonizzabili con l'organizzazione dell'impresa subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto.
La clausola standard inserita nello schema di disciplinare prevede che al fine di promuovere la stabilità occupazionale nel rispetto dei principi dell'unione europea, e ferma restando la necessaria armonizzazione con l'organizzazione dell'operatore economico subentrante e con le esigenze tecnico-organizzative e di manodopera previste nel nuovo contratto, l'aggiudicatario del contratto di appalto è tenuto ad assorbire prioritariamente nel proprio organico il personale già operante alle dipendenze dell'aggiudicatario uscente, come previsto dall'articolo 50 del codice, garantendo l'applicazione dei contratti collettivi di settore, di cui all'articolo 51 del Dlgs 81/2015.
Regole Ue e autonomia dell’imprenditore
La formulazione della clausola sociale contenuta nel bando-tipo n. 1/2017 tiene conto della consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato in materia (in particolare dell'intervento della Sez. III, con la sentenza 05.05.2017 n. 2078) secondo la quale la clausola stessa deve avere una formulazione coerente con il quadro normativo comunitario e con l'autonomia organizzativa dell'operatore economico, risultando altrimenti lesiva della concorrenza, in quanto una differente impostazione scoraggerebbe la partecipazione alla gara e limiterebbe la platea dei partecipanti, incidendo sulla libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'articolo 41 della costituzione.
Ammortizzatori sociali
I lavoratori, che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non possono essere ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali.
La clausola sociale non può quindi comportare alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato e in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria, salvo che questo non sia previsto dal contratto collettivo applicato sia dall'uscente che dal subentrante.
Qualora, peraltro, in base al nuovo affidamento siano cambiate le condizioni di esecuzione dell'appalto rispetto all'appalto stipulato con l'operatore uscente, la clausola-tipo prevede che il personale da riassorbire sia definito in esito ad una verifica congiunta tra stazione appaltante, appaltatore e sindacati.
L'Anac precisa inoltre nella nota illustrativa come la mera accettazione di obblighi di riassorbimento del personale non possa diventare criterio di valutazione dell'offerta tecnica (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGOStretta sui certificati di malattia. Sanzionati i medici che ignorano la trasmissione online. Dall'Inps stop alle incoerenze sulla gestione delle assenze. Rientro anticipato da segnalare.
L'Inps adesso fa il duro con medici e lavoratori sui certificati di malattia. I medici che ignorano la trasmissione online saranno segnalati all'Asl per le sanzioni disciplinari, mentre i lavoratori che omettano di presentare un nuovo certificato per il rientro anticipato al lavoro saranno sanzionati (dall'Inps) nella stessa misura prevista per le assenze ingiustificate alle visite di controllo. La novità, dunque, non riguarda tanto gli adempimenti legati alla malattia, perché in vigore da tempo, quanto piuttosto le funzioni affidate all'Inps.

Lo promette nella circolare 02.05.2017 n. 79: d'ora in avanti non chiuderà più gli occhi dinanzi alle «incoerenze» sulla gestione delle assenze per malattia, punendo quanti trasgrediscono. La questione ruota attorno al certificato di malattia.
I certificati di malattia. Il certificato medico serve, al lavoratore, per avere il riconoscimento del diritto a due tutele: assenza da lavoro e indennità sostitutiva della paga. Attualmente i certificati viaggiano online: i medici, infatti, sono tenuti a inviarli telematicamente all'Inps e al datore di lavoro; soltanto in ipotesi residuali (per esempio se c'è mancanza di collegamento a internet), possono ancora rilasciarlo su carta. Il lavoratore deve farsi rilasciare il certificato di malattia dal medico curante che provvede a trasmetterlo telematicamente all'Inps.
È responsabilità del lavoratore, inoltre, controllare attentamente la correttezza dei dati anagrafici e di domicilio per la reperibilità inseriti dal medico nel certificato, per non incorrere nelle eventuali sanzioni in caso di assenza ai controlli. Con il certificato trasmesso in via telematico, il lavoratore è esonerato dall'obbligo d'invio dell'attestato al proprio datore di lavoro, il quale può ottenerlo da sé e visualizzarlo tramite i servizi telematici messi a disposizione dall'Inps.
Qualora la trasmissione telematica non sia possibile, il lavoratore deve farsi rilasciare dal medico curante il certificato di malattia redatto in modalità cartacea. In tal caso egli deve, entro due giorni dalla data del rilascio, presentare oppure inviare per posta il certificato alla sede territoriale Inps di competenza e l'attestato al proprio datore di lavoro, per non incorrere nelle sanzioni consistenti nella perdita del diritto all'indennità di malattia per ogni giorno di ingiustificato ritardo nell'invio oltre il menzionato termine dei due giorni.
Anche per i certificati di ricovero e di malattia rilasciati da parte delle strutture ospedaliere è previsto l'invio telematico. Qualora, invece, i certificati siano redatti in modalità cartacea, vanno presentati o inviati, a cura del lavoratore, alla sede Inps di competenza e al datore di lavoro (privi dei dati di diagnosi) come sopra ricordato. Nel caso dei certificati di ricovero (ma non di quelli eventuali di malattia post ricovero), la consegna può avvenire anche oltre i due giorni dalla data del rilascio, ma comunque entro il termine di un anno di prescrizione della prestazione. Le attestazioni di ricovero e della giornata di pronto soccorso prive di diagnosi non sono ritenute certificative, ai fini del riconoscimento della prestazione previdenziale.
Guarigione anticipata. Il certificato medico, come è obbligatorio per l'inizio o il prolungamento di una malattia, è altrettanto obbligatorio nell'ipotesi di guarigione anticipata. Il lavoratore, infatti, è tenuto a chiedere la rettifica del certificato in corso, per documentare correttamente il periodo d'incapacità temporanea al lavoro. Nella circolare n. 79/2017, l'Inps precisa che la rettifica, a fronte di una guarigione anticipata, è adempimento obbligatorio del lavoratore nei confronti dell'Inps (perché viene meno il diritto all'indennità) e nei riguardi del proprio datore di lavoro (ai fini della ripresa anticipata del lavoro).
La comunicazione al datore di lavoro. Tutti i contratti collettivi di lavoro prevedono a carico del lavoratore l'obbligo di giustificare lo stato di malattia, attraverso la tempestiva presentazione di un certificato medico all'azienda, eventualmente preceduto da una comunicazione dell'evento, che potrà avvenire anche in una maniera informale (ad esempio telefonicamente).
Tale comunicazione, che serve a giustificare il tempo necessario al lavoratore ad attivarsi per ottenere la certificazione (chiamare o recarsi il medico ecc.), non può mai sostituire l'invio del certificato che va fatto tempestivamente: in via telematica (dal medico) ovvero a mano, se il certificato è redatto su carta. Si tenga conto, che l'obbligo non riguarda soltanto la comunicazione dell'inizio della malattia, ma anche ogni eventuale continuazione e proroga.
L'indennità di malattia. Il diritto all'indennità di malattia decorre, per la generalità dei lavoratori, dal quarto giorno (i primi tre giorni sono c.d. di «carenza» e se solo previsto dal Ccnl sono indennizzati con onere a totale carico dell'azienda) e cessa con la scadenza della prognosi (la fine malattia). Per essere indennizzata la malattia va attestata con uno o più certificati. In via generale, ai lavoratori assunti a tempo indeterminato l'indennità spetta per massimo di 180 giorni nell'anno solare; a quelli assunti a termine, per un numero massimo di giorni pari a quelli lavorati nei 12 mesi immediatamente precedenti l'inizio della malattia, comunque con minimo 30 e massimo di 180 giorni nell'anno solare.
L'indennità è corrisposta in misura del 50% della retribuzione media giornaliera dal 4° al 20° giorno e del 66,66% dal 21° al 180° giorno di malattia. Gli statali vanno meglio come i dipendenti di laboratori di pasticceria: l'indennità spetta all'80% per tutto il periodo di malattia. Ai ricoverati che non hanno familiari a carico l'indennità è ridotta ai 2/5 per tutto il periodo di degenza ospedaliera, escluso il giorno delle dimissioni.
L'Inps fa il duro: le nuove sanzioni. L'Inps lamenta non pochi casi d'inadempienza da parte dei medici curanti, che cioè rilasciano certificati su carta. Nel ribadire che l'inosservanza dell'invio telematico è, oltre che violazione della normativa, una fattispecie d'illecito disciplinare per i medici dipendenti da strutture pubbliche o per quelli convenzionati, invita le sedi territoriali dell'istituto a segnalare alle aziende sanitarie locali (Asl) di competenza le inadempienze riscontrate. E ricorda che ai sensi dell'art. 55-septies del dlgs n. 165/2001 l'inosservanza, se reiterata, comporta a carico del medico il licenziamento o la decadenza dalla convenzione.
In secondo luogo, l'Inps prende di mira l'ipotesi di ripresa anticipata del lavoro. In tal caso è obbligo del lavoratore richiedere la rettifica del certificato allo stesso medico che ha redatto il certificato con la prognosi più lunga. Poiché in molti casi tale adempimento non è osservato, con il rischio tra l'altro della duplicazione dei pagamenti (sia l'indennità di malattia Inps che la paga del datore di lavoro), l'Inps annuncia nuove sanzioni: in caso di ripresa anticipata del lavoro senza certificato, saranno applicate le sanzioni previste per le assenze ingiustificate a visita di controllo. Si ricorda che tali assenze comportano l'applicazione di sanzioni con il conseguente mancato indennizzo delle giornate di malattia per:
   • un massimo di dieci giorni di calendario, dall'inizio dell'evento, in caso di prima assenza alla visita di controllo non giustificata;
   • il 50% dell'indennità nel restante periodo di malattia, in caso di seconda assenza alla visita di controllo non giustificata;
   • il totale dell'indennità, dalla data della terza assenza alla visita di controllo non giustificata.
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Il cambio indirizzo va comunicato subito.
Può capitare la necessità, durante il periodo di prognosi del certificato, di dover cambiare il proprio indirizzo di reperibilità. In tal caso, il cambio va comunicato tempestivamente e con congruo anticipo, oltre che al datore di lavoro, all'Inps. La comunicazione all'Inps, che serve ai fini anche della visita fiscale, può avvenire con una delle seguenti modalità (messaggio n. 1290/2013):
   • inviando un'e-mail alla casella medicolegale.nomesede@inps.it;
   • inviando specifica comunicazione al numero di fax indicato dalla struttura territoriale;
   • contattando il contact center al numero verde 803.164 (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).

APPALTII tecnici diplomati resteranno al lavoro.
I tecnici diplomati dei piccoli comuni potranno proseguire la loro attività nell'ambito dei lavori pubblici.

È quanto prevede il decreto correttivo al codice appalti (dlgs n.56/2017) pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 103 del 5 maggio scorso.
Il provvedimento, entrato in vigore il 20 maggio, pone infatti un rimedio all'evidente discrasia che si era venuta a creare nell'ordinamento degli enti locali con il primo testo del Codice appalti (dlgs 50/2016) che di fatto aveva estromesso dalla propria posizione i tecnici che erano stati assunti, ante 1993, con la richiesta del solo titolo di studio di diploma di geometra.
Per l'Anpci si tratta dell'ennesimo battaglia vinta. L'Associazione, fin dall'approvazione del Codice, aveva segnalato i pericoli che una norma del genere avrebbe potuto creare per l'ordinaria amministrazione dei mini-enti. Un grazie va ovviamente al ministro per gli affari regionali, Enrico Costa, e al suo staff che si sono subito attivati, con successo, per accogliere le richieste dei piccoli comuni (articolo ItaliaOggi del 26.05.2017).

ENTI LOCALIVideosorvegliati a pagamento. Il comune deve presentare la Dia e versare i contributi. Risposta del ministero a un'interrogazione. Ma si sta pensando a una forma di esenzione.
Per l'installazione degli impianti di videosorveglianza i comuni, al pari dei privati, devono presentare al ministero dello sviluppo economico l'istanza per ottenere l'autorizzazione e sono tenuti al pagamento dei contributi. Tuttavia è allo studio un'ipotesi di modifica della vigente disciplina che preveda un regime speciale di esenzione dal pagamento degli oneri.

Lo ha affermato l'11.05.2017 il sottosegretario al ministero dello sviluppo economico (Mise), Antonello Giacomelli, nella IX commissione trasporti della camera in risposta all'INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/11327 dell'on. Biasotti.
A inizio marzo le prefetture di Pordenone e di Sondrio hanno diffuso i pareri del ministero dello sviluppo economico, secondo il quale le reti di videosorveglianza finalizzate sia alla sicurezza che al monitoraggio del traffico costituiscono, ai sensi del decreto legislativo n. 259 del 01.08.2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche), un servizio di comunicazione ad uso privato, soggetto all'autorizzazione generale, previa dichiarazione di inizio attività, e al pagamento dei contributi.
Successivamente, l'11.03.2017, la X commissione del senato, nel corso dell'esame del disegno di legge di conversione del decreto legge sulla sicurezza urbana n. 14/2017, ha espresso alla commissione referente il prescritto parere, invitandola a evidenziare l'esigenza che i sistemi di videosorveglianza, installati dalle amministrazioni locali con le finalità di ordine e sicurezza pubblica, siano esonerati dall'obbligo di autorizzazioni, contributi e canoni di concessione.
E pochi giorni dopo, il 16.03.2017, il governo ha accolto come raccomandazione l'ordine del giorno 9/4310-A/23 che lo impegna a «chiarire la corretta interpretazione della norma a favore degli enti locali ed esonerare quest'ultimi da contributi, oneri e/o canoni di concessione o autorizzazione se questi sono destinati a soddisfare esigenze e/o servizi di ordine e/o sicurezza pubblica e/o urbana e/o a consentire comunicazioni elettroniche inerenti servizi di polizia statali o locali ivi comprese le radiocomunicazioni».
Ciò nonostante, l'11.05.2017, in risposta all'interrogazione parlamentare n. 5-11327, il sottosegretario del ministero dello sviluppo economico ha ribadito che nel caso di collegamento via cavo chiunque (anche i comuni) installi o metta in esercizio una rete di comunicazione elettronica su supporto fisico a uso privato per collegare apparati di qualsiasi tipo attraversando il suolo pubblico deve chiedere un'autorizzazione al M, ai sensi dell'art. 104, c. 1, lett. b), del codice delle comunicazioni elettroniche. E per conseguire l'autorizzazione deve essere presentata, ai sensi dell'art. 107, cc. 5 e 6, una dichiarazione di inizio attività e versare i contributi.
Secondo il sottosegretario del Mise, per queste due prescrizioni (la presentazione della Dia e il versamento dei contributi) non è prevista alcuna forma di esonero.
In merito a queste precisazioni del sottosegretario, occorre però osservare come le disposizioni di legge richiamate stridano con le misure di sicurezza previste dal decreto legge n. 14/2017, convertito con modificazioni dalla legge n. 48/2017, che intende favorire, anche con incentivi economici, un potenziamento dei sistemi di videosorveglianza per la prevenzione e il contrasto dei fenomeni di criminalità.
Peraltro, lo stesso sottosegretario del Mise ha affermato che, ai fini dell'introduzione di un'espressa esenzione dei comuni dal pagamento dei contributi, è allo studio una modifica della normativa vigente, della quale si stanno verificando gli aspetti tecnici e di copertura finanziaria (articolo ItaliaOggi del 18.05.2017).

EDILIZIA PRIVATAAnche per l’agibilità basta la dichiarazione del tecnico. Moduli unici adeguati al nuovo regime abilitativo.
Semplificazione. Addio al certificato che prova igiene e salubrità degli immobili.
Con l’intesa tra Stato, Regioni ed enti locali, raggiunta nella conferenza unificata dello scorso 4 maggio sulla modulistica “unica” e standardizzata per le attività edilizie, va in archivio il certificato di agibilità e al suo posto arriva la segnalazione certificata per l’agibilità.
Finora era necessario aspettare il rilascio da parte del Comune di un attestato sulla sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, previste dalle normative in vigore per i diversi settori, e sulla conformità dei lavori eseguiti al progetto presentato agli uffici tecnici. D’ora in avanti tutto questo sarà oggetto di un’autodichiarazione di un professionista, che in tutti gli 8mila Comuni d’Italia dovrebbe essere compilata utilizzando lo stesso modulo e fornendo le stesse informazioni.

È uno dei risultati dell’applicazione delle disposizioni contenute nel Dlgs 222/2016 (noto come decreto “Scia 2”), emanato in base alla legge 124/2014 sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, finalizzata all’accelerazione e semplificazione delle procedure burocratiche e di quelle per l’erogazione dei servizi pubblici.
Per l’edilizia, lo snellimento dei regimi amministrativi introdotti dal quel decreto legislativo (e dal Dlgs 126/2016, cosiddetto “Scia 1”) ha modificato alcune norme del Dpr 380/2001 (il Testo unico dell’edilizia), relative sia all’individuazione dei regimi abilitativi alla realizzazione degli interventi edilizi, sia all’agibilità degli edifici.
L’agibilità
È stato abrogato l’articolo 25 del Testo unico e riscritto il 24, in cui sono state tra l’altro trasferite alcune disposizioni contenute nell’articolo cancellato.
La segnalazione certificata di agibilità continua ad essere necessaria per le nuove costruzioni, per gli interventi di ricostruzione e sopraelevazione, totale o parziale, e per la realizzazione di interventi sugli edifici esistenti che possono influire sulle condizioni di sicurezza, salubrità e su tutti gli altri aspetti relativi all’agibilità.
La segnalazione può riguardare anche l’agibilità parziale di edifici singoli, o parti di una costruzione funzionalmente autonome o singole unità immobiliari, purché ricorrano le condizioni per i singoli casi specificate nel comma 4 dell’articolo 24 del Dpr 380/2001.
Il termine per la presentazione è lo stesso entro il quale in precedenza occorreva presentare la richiesta del certificato: 15 giorni dall’ultimazione dei lavori di finitura dell’intervento. Sgarrare può costare una multa da 77 a 464 euro.
La segnalazione deve essere presentata dal soggetto al quale è stato rilasciato il permesso di costruire o che ha presentato la Scia, che può essere sia una società sia una persona fisica.
In ogni caso serve sempre l’aiuto di un professionista. Bisogna rivolgersi all’ingegnere, al geometra o all’architetto che ha diretto i lavori, o che viene appositamente incaricato, per l’asseverazione della sussistenza delle condizioni di agibilità dell’immobile.
Alla segnalazione devono essere, inoltre, allegati il certificato di collaudo statico (che, per i piccoli interventi, può essere sostituito da una dichiarazione di regolare esecuzione dei lavori) e una dichiarazione di conformità delle opere realizzate alla normativa sull’accessibilità e il superamento delle barriere architettoniche. Serve anche una dichiarazione dell’impresa che ha installato gli impianti, attestante il rispetto dei requisiti di sicurezza, igiene, salubrità e risparmio energetico previsti dalle normative di settore .
Non è però più necessario allegare la richiesta di accatastamento dell’edificio, ma è sufficiente indicare gli estremi dell’avvenuta dichiarazione di aggiornamento catastale.
Gli altri modelli
Sempre in attuazione del decreto legislativo 222/2016, con l’intesa del 4 maggio sono stati approvati anche i moduli unificati e standardizzati per la presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (anche in alternativa al permesso di costruzione) della comunicazione di inizio dei lavori asseverata e della comunicazione di inizio lavori per le opere necessarie a soddisfare esigenze temporanee.
Per la Scia si tratta di un aggiornamento della modulistica già licenziata nel 2014, quando fu approvato un modulo unico anche per la richiesta del permesso di costruire. I nuovi moduli, per ogni titolo abilitativo, contengono anche il riferimento alle attività descritte, e numerate progressivamente,nel Dlgs 222/2016, per le quali è consentito l’utilizzo.
I tempi
Ora la palla passa alle Regioni, che hanno tempo fino al prossimo 20 giugno per decidere se mantenere la modulistica così come è, oppure se fare qualche aggiustamento. In ogni caso, entro il 30 giugno i Comuni devono adeguare la modulistica attuale ai nuovi schemi (articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI SERVIZIApplicazione semplificata per gli appalti sanitari e sociali. Contratti pubblici. Gli effetti del decreto correttivo del Codice.
Le amministrazioni pubbliche possono affidare appalti per alcune tipologie di servizi sanitari e sociali con regole semplificate per il percorso selettivo.

Il decreto correttivo del Codice dei contratti pubblici ha definito un regime particolare per l’aggiudicazione di appalti che hanno a oggetto un ampio novero di servizi alla persona, inserendo nell’articolo 142 del decreto legislativo 50/2016 una disciplina specifica, applicabile anche ai servizi di ristorazione collettiva.
Le nuove disposizioni individuano anzitutto l’ambito applicativo oggettivo del particolare regime di affidamento, che riguarda solo il novero dei servizi sanitari e sociali (comma 5-bis) e che viene a essere esteso, per quanto compatibile, anche ai servizi di ristorazione collettiva, dovendolo pertanto integrare con le specifiche norme per essi stabilite dall’articolo 144.
La classificazione dei servizi riporta le definizioni del sistema di codificazione comunitaria (il cpv), che non hanno un livello di dettaglio comparabile a quello del nomenclatore nazionale: è quindi necessario che le stazioni appaltanti inquadrino le loro attività da appaltare in tali settori facendo particolare attenzione, soprattutto per i servizi socio-educativi.
L’affidamento in regime particolare dei servizi sanitari e sociali deve perseguire specifici obiettivi in termini di garanzia della qualità, continuità, accessibilità, disponibilità e completezza dei servizi stessi, nonché di attenzione per le esigenze specifiche delle diverse categorie di utenti e di promozione del coinvolgimento degli utenti.
Le nuove norme prevedono che le amministrazioni tengano conto della legislazione settoriale (quindi del sistema dei piani di zona definito dalla legge 328/2000 e dalle leggi regionali attuative) sia in relazione alla programmazione dei servizi e sia con riguardo alla gestione mediante moduli aggregativi degli appalti per tali servizi (ammettendo anche soluzioni particolari definite da alcune leggi regionali, come le gare gestite da Comuni capofila per ciascun ambito).
L’affidamento con regime particolare dei servizi sanitari e sociali deve avvenire con le procedure previste dal decreto legislativo 50/2016, dovendosi considerare in questo novero sia quelle a maggior evidenza pubblica (aperte e ristrette), sia quelle negoziate (con riferimento alle fattispecie specifiche previste dall’articolo 63 e alle procedure semplificate per il sottosoglia regolate dall’articolo 36), nonché procedure particolari come il partenariato per l’innovazione (regolato dall’articolo 65), che ha molti punti di contatto con la co-progettazione.
Le procedure di aggiudicazione (salvo le possibili deroghe sottosoglia) devono essere attivate mediante bandi di gara e sviluppate con l’applicazione di un numero di norme più limitato rispetto al complesso della parte II del codice dei contratti, nel quale sono comprese quelle sulle specifiche tecniche, sulle tempistiche per la gara, sui requisiti di ordine generale e di capacità, nonché sui criteri di aggiudicazione, con obbligo di utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Tra le norme derogabili in tali appalti risultano quindi disposizioni rilevanti, come quelle inerenti l’applicazione dei criteri ambientali minimi, la composizione e il funzionamento della commissione giudicatrice, l’avvalimento e le garanzie (articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2017).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti, beni e servizi più verdi. Obbligo di acquistare ecoprodotti al 100%. Con deroghe. Il decreto legislativo correttivo n. 56/2017, in vigore dal 20 maggio, riformula le norme.
Pubblica amministrazione obbligata a soddisfare il 100% del proprio fabbisogno con eco-prodotti, ma con ampia facoltà di agire in deroga per l'acquisizione di beni e servizi di particolari tipologie o valore.

Queste le principali novità di diretto interesse ambientale introdotte nel dlgs 50/2016 dal dlgs 56/2017, l'atteso decreto recante «disposizioni integrative e correttive» al neo Codice appalti.
Criteri di sostenibilità ambientale. Il Correttivo (G.U. dello scorso 5 maggio, in vigore dal successivo giorno 20) irrobustisce, salvo mirate eccezioni, l'obbligo per le stazioni appaltanti di contribuire al conseguimento degli obiettivi del «Piano d'azione per la sostenibilità ambientale dei consumi nel settore della pubblica amministrazione» («Gpp», ex lege 296/2006) acquisendo beni e servizi che rispondono a determinati standard ambientali.
Con la modifica dell'art. 34 del dlgs 50/2016 viene imposto in linea generale alle pubbliche amministrazioni che intendono acquisire categorie di prodotti oggetto di specifici «Cam» (i «criteri ambientali minimi» stabiliti dal minambiente) di soddisfare il 100% del proprio fabbisogno con beni e servizi a tali eco-criteri rispondenti.
L'obbligo di fondare gli appalti sui citati eco-criteri viene infatti esteso all'intero valore a base d'asta per gli affidamenti di qualunque importo relativi a categorie di forniture e di affidamenti di servizi e lavori oggetto di «Cam»; e questo laddove il pregresso quadro normativo (salvo eccezioni) lo fissava nel 50%. Ad avviso dello scrivente tale intervento legislativo appare produrre l'abrogazione tacita del dm 24.05.2016, il regolamento che stabiliva un incremento progressivo delle percentuali «Cam» per alcune forniture (tra cui servizi di pulizia, gestione di verde pubblico e rifiuti urbani) portandole al 100% solo dal 01.01.2020.
Alla regola del 100% il Correttivo pone tuttavia un'eccezione per alcune attività edili, stabilendo che nell'ambito degli appalti relativi a interventi di ristrutturazione (inclusi demolizione e ricostruzione) i citati e relativi Cam sono (solo) «tenuti in considerazione, per quanto possibile» in funzione della tipologia di intervento e della localizzazione delle opere da realizzare, sulla base di adeguati criteri dettati dal ministero dell'ambiente ( )».
È ragionevole ritenere che tramite il previsto atto del dicastero arriveranno le deroghe all'applicazione degli attuali criteri ambientali minimi relativi (appunto) ai «servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici per la gestione dei cantieri della pubblica amministrazione» dettati dal dm Ambiente 24.12.2015 e recentemente rivisitati dal dm 11.01.2017.
Garanzie per partecipazione a procedure. Un'ulteriore spinta green arriva sul fronte degli sconti sulle garanzie economiche concessi alle aziende eco-certificate. Il dlgs correttivo allarga infatti la cumulabilità delle decurtazioni sugli importi delle garanzie finanziarie dovuti per la partecipazione alle gare previsti dal Codice appalti da parte di chi è in possesso di attestazioni di qualità. Così, gli operatori economici che adotteranno azioni certificate di contrasto ai cambiamenti climatici potranno sommare la relativa riduzione del 15% a quelle previste, tra le altre, per il possesso di sistemi di eco-gestione Emas e Iso, marchi di qualità ecologica di beni e servizi.
Criteri di aggiudicazione appalti. Pur mantenendo, in ossequio alla normativa Ue, quale criterio principe quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa (fondato su un paragone tra costi e benefici, in base anche a parametri ambientali) il Correttivo allarga le ipotesi residuali nelle quali la pubblica amministrazione può ricorrere al puro criterio del «minor prezzo».
L'utilizzabilità del criterio residuale del «minor prezzo», sarà infatti: consentita per lavori di importo pari o superiore a 2 milioni di euro (in luogo dell'originario milione), purché l'affidamento dei lavori avvenga (tra le altre) ricorrendo a procedure ordinarie e sulla base del progetto esecutivo; comunque limitata a servizi e forniture di importo fino a 40 mila euro, ma con la possibilità di spingerla fino alle soglie di rilevanza comunitaria (ex articolo 35) per lavori caratterizzati da elevata ripetitività, a eccezione di quelli tecnologici o innovativi.
Upgrade anche per il criterio principe dell'offerta economicamente più vantaggiosa, laddove il suo utilizzo diventerà obbligatorio per i servizi di ingegneria/architettura e altri di natura tecnica e intellettuale non solo superiori ma anche solo «pari» a 40 mila euro. Connesso ai criteri di aggiudicazione è il nuovo obbligo per le aziende offerenti di dare autonoma evidenza agli oneri aziendali in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro (a esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti diretti per contratti sotto soglia comunitaria).
La disposizione, che impone di distinguere tali oneri dai costi della manodopera, opera in sinergia con la parallela novella apportata all'articolo 32 dello stesso dlgs 50/2016 in base alla quale nei contratti di lavoro e servizi i costi della sicurezza dovranno essere scorporati dall'importo assoggettabile al ribasso d'asta. Altra novità è quella relativa ai «criteri premiali» che le p.a. possono indicare nei bandi per attribuire un maggior punteggio a determinate offerte, nell'ambito dei quali esordiscono come «green» quelli della filiera corta e del chilometro zero dei prodotti.
Contratti sotto soglia. Trasversale, negli effetti, all'intera disciplina degli appalti pubblici è la possibilità, nell'ambito di lavori servizi e forniture di importi inferiori ai 40 mila euro, di poter ricorrere all'affidamento diretto (ex articolo 35, in deroga dunque allo strumento della gara) senza più l'obbligo di consultare almeno due operatori economici; ma con l'onere, precisa il dlgs 56/2017, di rispettare comunque (ove esistenti) i «criteri ambientali minimi» (articolo ItaliaOggi Sette del 15.05.2017).

EDILIZIA PRIVATADemolizioni con giudizio. Prima gli ecomostri e gli immobili pericolosi. Il ddl la prossima settimana al voto del senato. Falanga: nessun condono.
Criteri di priorità certi per l'esecuzione degli ordini di demolizione delle opere abusive da parte delle procure, a seguito di sentenza penale di condanna per reati edilizi. Si inizierà dagli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su aree demaniali o in zona soggette a vincolo ambientale, paesaggistico, sismico, idrogeologico, archeologico o storico-artistico.
Poi si passerà agli immobili che per qualunque motivo rappresentano un pericolo per la pubblica o privata incolumità, anche nel caso in cui siano abitati o utilizzati. Infine, agli immobili nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa o di soggetti colpiti da misure prevenzione. Nell'ambito di ciascuna tipologia, la priorità dovrà essere attribuita agli immobili in corso di costruzione o comunque non ancora ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati.

È questo il fulcro del disegno di legge Falanga - Atto Senato n. 580-B (che detta i criteri per l'esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi) che il Senato approverà in via definitiva la prossima settimana.
Il testo, già approvato in prima lettura da palazzo Madama a gennaio 2014, è stato significativamente modificato dalla camera il 18.05.2016, «ma con interventi che non ne hanno alterato lo spirito che è quello di mettere ordine nella discrezionalità delle procure», osserva il primo firmatario Ciro Falanga (Ala). «Ad oggi infatti», spiega Falanga, «non esiste un criterio di priorità per i giudici nell'esecuzione delle sentenze di abbattimento a seguito di condanna e ogni procuratore si regola a suo modo, alcuni utilizzando i criteri trasfusi nel ddl, altri applicando rigidi criteri cronologici».
Il provvedimento infatti trae origine proprio dalle esperienze sperimentate in alcune procure del Sud (Siracusa, Napoli, Nola, Santa Maria Capua Vetere) dove i giudici hanno individuato parametri ulteriori rispetto all'ordine cronologico. Parametri che però si sono diffusi a macchia di leopardo determinando una situazione di disparità di giudizio che non giova alla certezza del diritto.
Falanga difende l'ordine di priorità individuato dal ddl e rispedisce al mittente le critiche di chi parla di un condono mascherato. È il caso del professor Sandro Simoncini, docente di urbanistica e legislazione ambientale all'università La Sapienza di Roma, particolarmente critico sulla distinzione tra illecito di natura speculativa e quello cosiddetto di necessità e sulla norma che impone che gli edifici costruiti abusivamente ma abitati vengano abbattuti solo dopo che si sia provveduto a demolire quelli in costruzione o comunque senza residenti.
«Considerando le poche centinaia di abbattimenti complessivi che vengono effettuati ogni anno in Italia a fronte di decine di migliaia di abusi, ciò significa di fatto assicurare impunità a quanti hanno costruito una casa in spregio delle regole e, spesso, anche del buon senso», ha osservato.
Per Falanga invece è giusto che il giro di vite sia attuato soprattutto contro i grandi speculatori edilizi «che spesso hanno deturpato l'ambiente e il patrimonio demaniale con veri eco-mostri». «Quanto invece al presunto favor verso chi abita un immobile, ancorché abusivo, ma come abitazione principale», puntualizza il senatore di Ala, «il ddl non fa altro che ispirarsi a criteri di buon senso già sperimentati dalle procure, senza che però nessuno abbia mai accusato i magistrati di voler mettere in atto condoni mascherati» (articolo ItaliaOggi dell'11.05.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAl lavoro in malattia? Si paga. Sanzioni a chi rientra in anticipo senza nuovo certificato. Pugno duro dell'Inps con medici e lavoratori. L'ingresso in azienda a rischio sicurezza.
Pugno duro dell'Inps con medici e lavoratori sui certificati di malattia. I medici che ignorano la trasmissione online, d'ora in poi saranno segnalati alle Asl per l'adozione dei provvedimenti disciplinari (che arrivano al licenziamento). I lavoratori che omettano di presentare un nuovo certificato per il rientro anticipato al lavoro saranno sanzionati come per le assenze alle visite di controllo (50/100% dell'indennità). Alle aziende, infine, solo un avvertimento. Attenzione a far entrare in azienda i dipendenti in malattia: si violano le norme sulla sicurezza lavoro (T.u.).

È quanto si legge, tra l'altro, nella circolare 02.05.2017 n. 79 emessa ieri dall'Inps.
Certificati di malattia. Le istruzioni riguardano i certificati di malattia e, in particolare, l'ipotesi del rientro anticipato al lavoro. Il certificato medico, spiega l'Inps, serve per il diritto a due tutele: assenza dal lavoro e diritto all'indennità. Attualmente, i certificati viaggiano online: i medici, infatti, sono tenuti a inviarli telematicamente all'Inps e al datore di lavoro, e solo in ipotesi residuali (per esempio, mancanza di internet) possono ancora rilasciarlo su carta.
Medici denunciati. Nonostante ciò, l'Inps segnala non pochi casi d'inadempienza da parte dei medici curanti, che cioè rilasciano certificati su carta. Nel ribadire che l'inosservanza dell'invio telematico è, oltre che violazione della normativa, una fattispecie d'illecito disciplinare per i medici dipendenti da strutture pubbliche o per quelli convenzionati, l'Inps invita le sedi a segnalare alle aziende sanitarie locali (Als) di competenza le inadempienze riscontrate. E ricorda che ai sensi dell'art. 55-septies del dlgs n. 165/2001 l'inosservanza, se reiterata, comporta a carico del medico il licenziamento o la decadenza dalla convenzione.
Guarigione anticipata. Il certificato medico, spiega ancora l'Inps, come è obbligatorio per l'inizio o il prolungamento di una malattia, è altrettanto obbligatorio nell'ipotesi di guarigione anticipata. Il lavoratore, infatti, è tenuto a chiedere la rettifica del certificato in corso, per documentare correttamente il periodo d'incapacità temporanea al lavoro. La rettifica, a fronte di una guarigione anticipata, precisa l'Inps, è adempimento obbligatorio del lavoratore sia nei confronti dell'Inps (perché viene meno il diritto all'indennità) e sia nei riguardi del proprio datore di lavoro (ai fini della ripresa anticipata del lavoro).
Le nuove sanzioni. L'obbligo del lavoratore nei confronti dell'Inps, spiega la circolare, va osservato prima della ripresa anticipata dell'attività lavorativa. E va fatto richiedendo la rettifica del certificato allo stesso medico che ha redatto il certificato che riporta la prognosi più lunga. La novità riguarda poi le sanzioni: in caso d'inosservanza (cioè in presenza di ripresa anticipata del lavoro senza certificato), l'Inps applicherà quelle previste per le assenze ingiustificate a visita di controllo (si veda tabella).
Aziende avvertite. Infine l'Inps dà un consiglio ai datori di lavoro. In presenza di certificato con prognosi ancora in corso, spiega, non è possibile consentire al lavoratore di riprendere l'attività, senza violare la normativa sulla salute e sicurezza dei posti di lavoro. L'art. 2087 del codice civile, infatti, impegna il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro, che sono dettagliate dal dlgs n. 81/2008 (T.u. sicurezza).
Pertanto, il dipendente assente per malattia che, ritenendosi guarito, intenda riprendere prima il lavoro rispetto alla prognosi del proprio medico curante, può essere riammesso in servizio soltanto se produce un certificato medico di rettifica della prognosi originariamente indicata (articolo ItaliaOggi del 03.05.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIDiritto d'accesso sulla carta. Per sette richieste su 10 rivolte alla p.a. nessuna risposta. Rapporto sull'attuazione del Foia italiano, la possibilità di informarsi su dati e documenti.
Dalla fine del 2016 la pubblica amministrazione italiana si è trasformata in un casa di vetro... peccato però che le finestre abbiamo bisogno di essere pulite meglio, visto che non sono ancora del tutto trasparenti. Grazie al Foia italiano (sulla scia dell'omonimo Freedom of information act statunitense del 1966) introdotto il 6 giugno dello scorso anno ed entrato ufficialmente in vigore a fine dicembre, «i cittadini hanno ora diritto di conoscere dati e documenti in possesso della pubblica amministrazione, anche senza un interesse diretto», spiegava la ministra per la semplificazione e la pubblica amministrazione Marianna Madia ormai quasi un anno fa.
A distanza di quattro mesi dalla nascita effettiva della nuova norma però, i risultati non sono incoraggianti: su 800 richieste di accesso alle informazioni, solo 136 sono state le risposte soddisfacenti. Addirittura, entro i 30 giorni dalla richiesta, così come prevede il decreto, il 73% delle istanze non hanno proprio ricevuto risposta. A raccogliere questi dati è stata l'associazione Diritto di Sapere che li ha pubblicati nel suo rapporto sull'applicazione del Foia italiano intitolato non a caso «Ignoranza di Stato».
I volontari attivi nel monitoraggio si sono infatti molto spesso scontrati con la scarsa conoscenza, da parte di alcuni dipendenti della p.a., del nuovo istituto giuridico. Eppure, come scrive lo stesso rapporto, «se applicato meglio e con meno discrezionalità da parte delle amministrazioni, nei prossimi anni il Foia potrebbe davvero contribuire a rendere l'Italia un po' più trasparente».
Che cos'è il Foia e perché per l'Italia è una conquista. Il Foia sancisce il nuovo diritto di accesso generalizzato ai dati e ai documenti delle pubbliche amministrazioni, riconosciuto a livello internazionale e collegato alla libertà di espressione dell'individuo, a prescindere dal requisito di cittadinanza.
Che si possa accedere e ricevere copia di tutti i documenti della p.a. è essenziale per far prendere parte ai cittadini al processo di formazione dell'opinione pubblica ed è considerato imprescindibile anche nella lotta alla corruzione. Ecco quindi perché dalla fine del 2016, il Foia italiano ha fatto compiere un balzo storico all'Italia nella graduatoria internazionale dell'accesso alle informazioni stilata in base all'analisi delle leggi sulla trasparenza di oltre 100 Paesi. Prima dell'entrata in vigore di questa misura, l'unico strumento di accesso alle informazioni era la legge 241 del 1990 (che per l'esercizio del diritto di accesso prevedeva alcuni requisiti necessari visto che, di fondo, era il cittadino a dover dimostrare la propria legittimazione e fornire una motivazione) a cui si è aggiunto poi l'«accesso civico» previsto dal decreto 33 del 2013.
Il 73% delle richieste resta senza risposta, un rifiuto su tre è illegittimo. Sebbene con la nuova norma sia stato eliminato il silenzio amministrativo, le p.a continuano però troppo spesso a tacere. Come evidenzia il rapporto di Diritto di Sapere, ben il 73% delle richieste Foia non ha ricevuto risposta nei 30 giorni previsti dal decreto e anche considerando le risposte arrivate in ritardo, la frazione di pubbliche amministrazioni che ignora le richieste si attesta comunque oltre la metà: al 53%.
Il decreto trasparenza definisce poi una serie di limiti ed eccezioni all'accesso generalizzato che devono essere gli unici motivi di diniego per le pubbliche amministrazioni. Tuttavia, il 35% dei rifiuti rilevati nel monitoraggio appartiene alla categoria «dinieghi irregolari» in cui l'accesso è stato negato per mancanza di motivazione o utilizzando eccezioni non previste dal decreto trasparenza.
Secondo il Rapporto, «si tratta di chiari segnali di allarme che rivelano come la nuova norma sia ancora poco conosciuta e rispettata dalla Pubbliche amministrazioni». Fra le p.a. meno propense a rispondere alle richieste, pessimi segnali sono arrivati da ospedali (90% di richieste ignorate), Asl (70%) e ministeri (60%). Non si salvano neppure Comuni e Prefetture, che in media hanno ignorato una richiesta Foia su due. Un risultato migliore viene invece dalle regioni e dalle Forze dell'ordine che, pur essendo poco rappresentative in quanto oggetto di sole 8 richieste Foia, hanno risposto nel 75% dei casi
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L'intervista. Riesame o ricorso al difensore civico in caso di silenzio.
Per una concreta ed efficace applicazione della norma sul Foia serve più tempo, ma monitorare la situazione è sempre importante. Anzi, è proprio così che emerge il potenziale di successo di questa norma.
A dirlo è Ernesto Belisario, avvocato, specializzato in diritto amministrativo e scienza dell'amministrazione.
Domanda. Su 800 richieste inviate da Diritto di Sapere solo 136 hanno ottenuto risposte soddisfacenti, come commenta questi risultati?
Risposta. La norma che introduce il Foia è entrata in vigore solo poco più di quattro mesi fa. Sarebbe stato ingenuo non aspettarsi che una rivoluzione copernicana come quella dell'accesso avesse bisogno di tempo per produrre i benefici attesi ed essere pienamente colta da cittadini e amministrazioni.
Il profilo critico è quello della sua concreta applicazione che presuppone un necessario percorso di adeguamento, anche organizzativo e culturale, da parte delle amministrazioni. Un percorso che richiede tempo: in Inghilterra, tra l'applicazione del Foia e la sua entrata in vigore sono passati cinque anni.
D. Il Foia italiano è comunque un traguardo, perché se applicato bene funziona. Allora perché questi primi dati, è ancora troppo presto per un monitoraggio?
R. Innanzitutto, è bene rilevare come i monitoraggi siano importantissimi: da questi, infatti, si evince come la norma, se applicata, funzioni. Questo emerge sia dal rapporto di organizzazioni della società civile come «Diritto di Sapere» sia dai monitoraggi istituzionali. Questi ultimi denotano un importante cambio di passo. Della precedente legge sull'accesso (n. 241/1990) non era mai stato effettuato nessun monitoraggio. Invece, per il Foia, il Dipartimento della funzione pubblica ne ha già condotto uno sul primo trimestre di applicazione della norma (limitato in questa fase ai soli ministeri) dal quale è emerso che, su 205 istanze ricevute, la gran parte è stata riscontrata nel termine di 30 giorni e con esito positivo.
D. Se la pubblica amministrazione non risponde, cosa può fare un cittadino per far valere il proprio diritto all'accesso?
R. Una delle principali novità del diritto di accesso generalizzato è che sono disponibili dei rimedi stragiudiziali gratuiti e veloci. Nei casi in cui le amministrazioni non rispettino il loro obbligo di risposta, il richiedente potrà alternativamente rivolgere istanza di riesame al responsabile di trasparenza oppure presentare ricorso al difensore civico. Nell'ipotesi in cui neanche la decisione del difensore civico o del responsabile della trasparenza dovesse essere soddisfacente, si potrà sempre rivolgere al Tar.
D. Tra le risposte ricevute dai volontari di Diritto di Sapere, sono tanti anche i dinieghi illegittimi, cosa significa?
R. La normativa sull'accesso generalizzato prevede che l'amministrazione possa rigettare le istanze solo se ricorre una delle eccezioni o esclusioni tassativamente stabilite. La nozione «dinieghi illegittimi» fa quindi riferimento a ipotesi in cui le p.a. abbiano rigettato le istanze per motivazioni diverse da quelle previste dalle norme. Anche in questo caso, era prevedibile che l'interpretazione delle esclusioni dall'accesso avrebbe potuto creare difficoltà in sede di prima applicazione. Per questo motivo, l'Autorità nazionale anticorruzione ha adottato delle linee guida rendere omogenea l'applicazione delle esclusioni e dei limiti all'accesso (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).

ENTI LOCALI - EDILIZIA PRIVATA: Spettacoli all’aperto fino a 200 spettatori, basta la Scia e la dichiarazione di un tecnico per la sicurezza.
Erano attesi all'indomani del Decreto «Scia 2» e sono arrivati puntuali i chiarimenti del ministero dell'Interno su un'attività che, specie nell'imminente periodo estivo, fiorisce sensibilmente. Parliamo dei pubblici spettacoli e intrattenimenti su aree all'aperto (in particolar modo se pubbliche) e/o a servizio di pubblici esercizi di somministrazione di alimenti bevande (bar e ristoranti) che, appunto, nella bella stagione vengono organizzati per incrementare l'offerta e intercettare i consumi di avventori e turisti.
In molti casi, però, rivelandosi vere e proprie discoteche o sale da ballo all'aperto, con inevitabili problemi di convivenza con i residenti o, più semplicemente, di gestione del decoro e della sicurezza pubblica. Tematica peraltro interessata dalla recentissima legge di conversione del decreto Minniti, la n. 48 del 18 aprile entrata in vigore lo scorso 22 aprile, che aumenta i poteri dei sindaci a tutela dei propri territori.
Il Viminale ha diffuso in questi giorni una nota (MiSE, risoluzione 06.04.2017 n. 133759 di prot.), rispondendo ad analoga istanza di chiarimenti del ministero dello Sviluppo economico, con cui ha chiarito i termini di svolgimento di spettacoli e trattenimenti presso locali e strutture o in aree all'aperto, con capienza fino a 200 persone, che utilizzino impianti soggetti a certificazione di sicurezza (per esempio, palchi, americane, carichi sospesi, tribune eccetera) alla luce delle novità contenute nel Decreto Scia 2, e cioè il Dlgs 222/2016, che nella allegata tabella “A” elenca le diverse autorizzazioni occorrenti per ciascuna attività.
Basta la Scia ex articolo 68 del Tulps e non l'espressa autorizzazione comunale fino a 200 spettatori
Il ministero dell'Interno, dopo aver ammesso che il testo della novella legislativa non brilla per chiarezza, asserisce il principio per il quale l'autorizzazione che il Comune deve rilasciare previa corrispondente richiesta di parte, ai sensi degli articoli 68 o 69 del Tulps, per lo svolgimento di eventi fino a 200 persone e che si concludono entro le ore 24,00 del giorno di inizio (dunque nel giro di poche ore) può essere tranquillamente sostituita dalla Scia, così come previsto dalle modifiche al Tulps apportate dalla legge 112/2013.
Si tratta dunque di un difettoso coordinamento del Decerto Scia 2 con la pregressa normativa, che appunto già da quattro anni aveva snellito i procedimenti amministrativi autorizzativi nella materia. Diversamente sarebbero tradite e risulterebbero incomprensibili le finalità di semplificazione per le quali è stato approvato il Dlgs 222/2016.
Non è più obbligatorio convocare preventivamente la commissione comunale di vigilanza fino a 200 persone
Il Viminale interviene poi sul punto più controverso della questione e cioè la necessità o meno per il Comune -nel caso di spettacoli con utilizzo di impianti soggetti a certificazione di sicurezza- prima di accogliere la Scia sostitutiva dell'autorizzazione ex articolo 68 del Tulps per la manifestazione, di convocare la commissione comunale di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo incaricata di rendere il preliminare parere di agibilità sulla struttura e gli impianti ai sensi dell'articolo 80 del Tulps.
In base al testo del Decreto Scia 2, risulta evidente una contraddizione fra l'articolo 4, lettera c), che per eventi spettacolari fino a 200 persone ritiene sufficiente una relazione asseverata tecnica di un professionista abilitato al posto del parere, delle verifiche e degli accertamenti sinora di competenza della commissione, e la tabella “A” allegata allo stesso Decreto che alle righe 78, 80, 81, invece, prevede ancora l'obbligo per il Suap di trasmettere la suddetta relazione alla commissione per le verifiche. In sostanza: la Commissione va convocata o no oggi, anche in presenza di una relazione asseverata presentata da un tecnico che attesti le condizioni di sicurezza prima oggetto di parere e sopralluogo della Commissione stessa?
Il ministero dice di no. In altre parole, per pubblici spettacoli e intrattenimenti fino a 200 persone, che utilizzino strutture e impianti soggetti a certificazione di sicurezza, è sufficiente che l'organizzatore presenti al Suap la relazione asseverata del tecnico abilitato che attesti le condizioni di sicurezza e incolumità dell'evento, senza che il Suap stesso convochi preliminarmente la commissione per l'espressione del parere di agibilità ex articolo 80 del Tulps.
Piuttosto il Suap, ricevuta e verificata la completezza della relazione e della documentazione del tecnico, sulla base di questa rilascerà l'autorizzazione “reale” di agibilità della struttura e l'autorizzazione “personale” per lo svolgimento dell'attività senza convocare preventivamente la Commissione, alla quale tuttavia invierà successivamente le autorizzazioni rilasciate esclusivamente ai fini del controllo ex post sul rispetto delle prescrizioni di sicurezza. La disciplina vale non solo per gli impianti stabili ma anche per quelli occasionali, come per esempio concerti e manifestazioni musicali all'aperto (anche organizzate da bar e ristoranti) e circhi
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 28.04.2017).

ENTI LOCALI: Telecamere in comune con la convenzione
I comuni che vogliono condividere le immagini degli impianti di videosorveglianza urbana dei territori limitrofi devono perlomeno convenzionarsi tra di loro. Diversamente ciascun servizio di polizia locale dovrà accontentarsi di visionare solo i propri impianti.
Lo ha chiarito la Prefettura di Parma con la circolare 24.03.2017 n. 11334 di prot..
Nella riorganizzazione complessiva degli enti locali sono frequenti i matrimoni e i successivi divorzi tra piccoli comuni. Come nel caso dell'Unione dei comuni delle terre Verdiane dove, fin tanto che era presente una organizzazione amministrativa superiore, non esisteva nessun problema per condividere la disponibilità degli impianti tra enti.
Alla cessazione dall'Unione sono iniziati i primi guai anche in relazione all'impiego delle telecamere di sorveglianza municipale. Specifica infatti la prefettura che dalle linee guida in materia di videosorveglianza urbana emerge il limite territoriale di ciascun ente per l'accesso alle immagini delle telecamere, «salvo che il servizio di polizia municipale non sia inquadrato nel contesto dell'unione dei comuni ovvero condiviso attraverso specifica convenzione» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017).

PUBBLICO IMPIEGOAgli statali si applica l'art. 18. Parere Cds.
Obbligo di reintegra per il dipendente pubblico licenziato ingiustamente. Per gli statali infatti il semplice indennizzo economico non basta a tutelare «gli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione». L'art. 18 dello Statuto dei lavoratori continua, dunque, ad applicarsi al pubblico impiego nel testo originario, quello della legge 300/1970, e non in quello riformulato dalla legge Fornero (n. 92/2012).

A questa conclusione, già fatta propria dalla Corte di Cassazione (seppur dopo contrasti e oscillazioni giurisprudenziali) con
con la sentenza 09.06.2016 n. 11868 e recepita dal governo nel dlgs di riforma del pubblico impiego attuativo della delega Madia (Atto del Governo n. 393 - Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 ), approda anche il Consiglio di stato che mette di fatto la parola fine alla querelle.
Nel parere 21.04.2016 n. 916 (Richiesta di parere sullo schema di decreto legislativo recante “Modifiche ed integrazioni al Testo unico del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lett. a), e 2, lett. b),c), d) ed e) e 17, comma 1, lett. a), c), e), f), g) h), l) m), n), o), q), s), e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche"), diffuso ieri, palazzo Spada condivide l'operato del governo. E soprattutto la decisione di inserire nello schema di dlgs una norma ad hoc (art. 21) per chiarire che i dipendenti pubblici godono nei confronti dei licenziamenti illegittimi di una «tutela reale» (obbligo di reintegra e indennizzo non superiore a 24 mensilità), ossia quella cristallizzata dall'articolo 18 nella sua versione ante legge Fornero. L'obiettivo, osserva palazzo Spada, è chiaro ed è stato espresso dal governo anche in sede parlamentare: «Escludere l'applicazione delle regole del lavoro privato a quello pubblico per quanto attiene alla disciplina del licenziamento».
La diversità di trattamento, secondo i giudici, è da ricercarsi nelle parole della Consulta che in una sentenza del 2008 (n. 351) si era così espressa: «A differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente o un dipendente dall'incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi» (articolo ItaliaOggi del 22.04.2017).

APPALTIAppalti, nomine Rup nel caos. Competenza dirigenziale o politica? Pasticcio nel correttivo. Il dlgs, revisionando il contenuto del Codice, complica la vita alle stazioni appaltanti.
Sovrapposizioni di competenze per attribuire l'incarico di responsabile unico del procedimento. Il correttivo al codice dei contratti non fa un bel regalo alle amministrazioni appaltanti, revisionando in parte il contenuto dell'articolo 31 del dlgs 50/2016.
Il nuovo testo prevede che «per ogni singola procedura per l'affidamento di un appalto o di una concessione, le stazioni appaltanti individuano nell'atto di adozione o di aggiornamento dei programmi di cui all'articolo 21, comma 1, ovvero nell'atto di avvio relativo a ogni singolo intervento, per le esigenze non incluse in programmazione, un responsabile unico del procedimento». Il testo precedente, invece, disponeva che la nomina avvenisse «nel primo atto relativo a ogni singolo intervento».
La riforma apre una serie di equivoci operativi di difficile soluzione. Prevedere, infatti, che le stazioni appaltanti «individuino» il Rup nell'atto di adozione o aggiornamento della programmazione triennale (per lavori) o biennale (per forniture o servizi) ha una conseguenza rilevante sul piano della competenza a provvedere: l'individuazione del Rup non può che spettare all'organo competente ad approvare appunto la programmazione. Che coincide con l'organo di governo; negli enti locali è addirittura il consiglio comunale.
Il correttivo pone in essere una forte incoerenza con la disciplina sia della legge 241/1990 sia del lavoro pubblico. Il responsabile del procedimento, ai sensi della legge sul procedimento amministrativo, è nominato dal dirigente o comunque dal soggetto preposto alla direzione della struttura amministrativa e l'atto relativo è da considerare tipica espressione del potere organizzativo del datore di lavoro, che spetta in via esclusiva appunto ai vertici delle strutture tecniche e non agli organi di governo. Si potrebbe pensare, dunque, che il correttivo introduca una specifica deroga ai principi di divisione delle competenze e funzioni tra politica e gestione.
Tuttavia, la riscrittura dell'articolo 31, comma 1, del codice dei contratti non coordina la previsione vista sopra con quanto disposto poco oltre, ove si stabilisce che «il Rup è nominato con atto formale del soggetto responsabile dell'unità organizzativa». Disposizione, questa, coerente con le regole della legge sul procedimento amministrativo e con il dlgs 165/2001, ma che aggrava il problema operativo di individuare, allora, quale sia l'organo competente alla nomina. Si potrebbe ritenere che la modifica del testo assegni all'organo il potere di «individuare» il Rup nella programmazione, limitandosi a dare un'indicazione al dirigente o responsabile di servizio.
Tale individuazione, quindi, non sarebbe sufficiente per incardinare il Rup e rendere efficace l'incarico: allo scopo occorrerebbe comunque il provvedimento dirigenziale di nomina. Pertanto, la nomina potrebbe essere inquadrata come una fattispecie a formazione progressiva, con una prima indicazione del Rup a cura dell'organo di governo e la successiva assegnazione effettiva dell'incarico quale espressione del potere dirigenziale.
Simile ricostruzione non appare, però, coerente con il principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico da quelle gestionali, perché di fatto l'individuazione condizionerebbe fin troppo il provvedimento di nomina, ridotto a mera formalizzazione di una decisione adottata dall'organo politico. Tuttavia, sempre il decreto correttivo inserisce nel comma 1 dell'articolo 31 del codice la previsione secondo la quale «la sostituzione del Rup individuato nella programmazione di cui all'articolo 21, comma 1, non comporta modifiche alla stessa».
Questa indicazione potrebbe essere utile per chiudere il cerchio: essa svela che il dirigente o responsabile di servizio può comunque modificare la designazione inizialmente fissata dall'organo di governo e, dunque, nominare un Rup diverso da quello individuato. Sicché, i principi di separazione e le regole generali viste sopra sarebbero comunque rispettate. Questa conclusione appare la più corretta, ma se così è ci si deve chiedere perché, allora, riformare il testo dell'articolo 31, comma 1, del codice, complicandolo nella forma, ma mantenendolo di fatto inalterato nella sostanza (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).

INCARICHI PROGETTUALIAppalti, tariffe obbligate. P.a. sempre tenute a rispettare i minimi. PROFESSIONI/ Le categorie tecniche sull'impatto del decreto correttivo
Reintroduzione dei minimi tariffari per calcolare i compensi dei professionisti. In tal modo le stazioni appaltanti, nel calcolo degli importi a base delle gare di progettazione, dovranno utilizzare le tabelle previste dal Decreto parametri che diventeranno quindi un obbligo e non una facoltà come adesso.

Lo prevede il decreto correttivo del Codice dei contratti pubblici  (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), 131 articoli che sostituiscono i 220 del dlgs 50/2016, approvato in via definitiva il 13 aprile scorso dal consiglio dei ministri e ora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (si veda ItaliaOggi di ieri).
«Tra le richieste che la Rete delle professioni tecniche ha trasmesso al Governo», dichiara Francesco Peduto, presidente del Consiglio nazionale dei geologi, «questa è certamente la più importante. Un eccellente lavoro di squadra che ha portato i suoi frutti, un impegno intenso e di grande incisività, a difesa della dignità professionale e della qualificazione della prestazione intellettuale, in cui i geologi hanno svolto un ruolo di grande importanza».
«È sicuramente da apprezzare la modifica dell'art. 24, comma 8, del Codice, grazie alla quale le stazioni appaltanti, per calcolare l'importo dei corrispettivi da porre a base di gara negli affidamenti di servizi di architettura e ingegneria, dovranno fare ricorso al cosiddetto Decreto parametri e non potranno pertanto continuare a sottostimare tali importi mortificando la qualità delle prestazioni professionali e i più elementari principi della trasparenza», fa eco il vicepresidente del Consiglio nazionale degli architetti, Rino La Mendola.
«A questo proposito», aggiunge, «va ricordato che le procedure per l'affidamento variano con il variare dell'importo posto a base di gara, per cui le stazioni appaltanti, senza alcuna regola chiara, rischiavano costantemente di sottostimare tale importo, ricorrendo a procedure di affidamento errate». Le immediate ricadute del correttivo sono gare più veloci e maggiore impulso ai piccoli cantieri, sottolineano poi i geologi, affermando che il testo «al tempo stesso introduce maggiori garanzie di trasparenza e imparzialità nell'assegnazione degli appalti, con l'obbligatorietà, da parte della stazione appaltante, di nomina del presidente di commissione tra esperti segnalati dall'Autorità Anticorruzione. La modifica dell'art. 24, comma 8, del dlgs 50/2016», prosegue il presidente Peduto, «costituisce un importante correttivo a una normativa che fino ad oggi ha mostrato diverse criticità, quali procedure in palese contrasto con i principi di trasparenza, e sottostima del giusto compenso per prestatori di opera intellettuale. Un successo da condividere tra tutti i professionisti costituenti la Rete delle professioni tecniche che continuerà ad operare a favore del territorio e dell'economia del Paese» (articolo ItaliaOggi del 15.04.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIMarche da bollo digitali. Parte il servizio entrate-agid.
Inizia l'era digitale per la marca da bollo da apporre sui documenti rilasciati dalle pubbliche amministrazioni. I cittadini potranno pagarla direttamente online attraverso i metodi di pagamento del sistema PagoPa, con addebito in conto, carta di credito o prepagata.

L'annuncio in una nota pubblicata ieri dall'Agenzia delle entrate, che comunica l'operatività del servizio @e.bollo, elaborato dalle Entrate stesse e dall'Agenzia per l'Italia digitale (AgId). Il servizio permette di versare l'imposta di bollo con modalità telematiche sulle richieste trasmesse alle Pubbliche Amministrazioni.
I tempi tecnici. Da ieri è partita la sperimentazione del servizio in alcuni comuni lombardi (Legnano, Monza, Pavia, Rho e Voghera) e veneti (Treviso e Vicenza). Successivamente il servizio verrà ampliato ai 750 comuni accreditati al servizio PagoPa, per poi riguardare progressivamente altre amministrazioni. La prima marca da bollo online è stata acquistata il 12 aprile a Rovigo da un'impresa del settore agroalimentare, che ha usufruito del servizio in anticipo, agendo come utente pilota La marca era applicata a un istanza inviata dall'impresa allo sportello Unico per le attività produttive del comune di Treviso.
Come acquistarla. Per acquistare la marca da bollo digitale, i cittadini potranno scegliere il Prestatore di Servizi di Pagamento (Psp) tra coloro che hanno aderito al sistema e hanno stipulato un'apposita convenzione con l'Agenzia delle entrate. L'elenco dei Psp è disponibile sul sito dell'Agenzia. Successivamente, saranno attivate anche le procedure di pagamento della marca da bollo digitale direttamente presso gli intermediari abilitati, per le richieste e per i relativi atti scambiati via posta elettronica tra cittadini e amministrazioni.
I commenti. Il primo intermediario abilitato a utilizzare @e.bollo è l'Istituto di pagamento di Infocamere (www.icontocamere.it) tramite cui, con addebito diretto per i titolari di conto corrente dell'istituto di Infocamere, (e a seguire anche con carta di credito per i non correntisti), è possibile acquistare velocemente, con pochi click, la marca da bollo digitale.
Secondo il direttore generale Paolo Ghezzi: «le camere di commercio hanno fatto della digitalizzazione una vera e propria missione, per rispondere concretamente all'esigenza delle imprese di un dialogo veloce, certo ed efficiente con la Pa. Siamo particolarmente soddisfatti che l'Istituto di pagamento di Infocamere sia il primo intermediario abilitato a utilizzare il nuovo servizio».
Per le due agenzie coinvolte «la marca da bollo digitale è una realtà che punta a semplificare e a velocizzare le procedure a vantaggio dei cittadini e delle imprese che si interfacciano con la pubblica amministrazione. La novità elimina infatti uno dei principali vincoli alla completa dematerializzazione di documenti e procedure, portando definitivamente sul pc dei cittadini anche i servizi che prevedono il pagamento del bollo» (articolo ItaliaOggi del 15.04.2017).

APPALTIAppalti semplificati per ripartire. Al via la riforma-bis del codice: modificati 131 articoli su 220 - Salvi i vecchi progetti.
Aiuti alle Pmi, norma «salva-progetti», qualificazione più facile per migliaia di costruttori alle prese con la crisi, compensi certi per i progettisti.
Il Governo schiude il sipario sul secondo atto della riforma degli appalti pubblici, con l’ok al decreto correttivo arrivato ieri in Consiglio dei ministri (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50). Dopo la «moralizzazione» è arrivato il tempo della spinta agli investimenti, provando e fare piazza pulita delle strozzature che hanno indotto le amministrazioni a tenere nei cassetti i bandi di gara. Senza rinunciare ai presidi di trasparenza.
Per individuare e superare le criticità il Governo ha aperto una lunga fase di consultazione esaminando oltre 700 proposte di modifica avanzate da mercato e istituzioni. Importanti contributi sono poi arrivati dal Consiglio di Stato e dal lavoro svolto dalle due Camere insieme all’Anac di Raffaele Cantone che ha contribuito a “raddrizzare” in corsa diverse norme a rischio di aumentare le “zone grigie” del mercato.
La prova che non tutto è andato liscio nei primi mesi di applicazione della riforma non è solo nei numeri in pesante flessione dei bandi di gara (anche per colpa della crisi), ma anche nelle dimensioni assunte dal provvedimento cresciuto fino a 131 articoli,destinati a impattare con centinaia di correzioni su un codice che ne conta 220. Con tutta probabilità non sarà peraltro questa l’ultima occasione per intervenire sulla riforma. Parlamento e Governo hanno convenuto sull’opportunità di prevedere un altro tagliando tra due anni.
Molte le novità che diventeranno subito operative. Una delle più attese riguarda l’accelerazione delle fasi di gara per appaltare i piccoli interventi sotto i due milioni. Sotto questa fascia (che ora si ferma a un milione) imprese e Comuni hanno chiesto di poter tornare a utilizzare il massimo ribasso con il «metodo antiturbativa». Cioè l’esclusione automatica delle offerte che presentano percentuali di ribasso inferiori o superiori alla media, sorteggiando in gara il criterio matematico per individuarle. Un modo per evitare le «combine», accorciando però di molto tempi (e costi) delle procedure. Inserita all’ultimo momento nella bozze di entrata, questa norma è rimasta in bilico, con i tecnici di governo al lavoro fino a tarda sera.
Confermate invece le misure di favore per la qualificazione al mercato pubblico dei costruttori (requisiti calcolati su 10 anni anziché 5) . Così come un pacchetto di aiuti alle Pmi, tra cui uno sconto del 50% sulle garanzie per partecipare alle gare. E (almeno nel testo di entrata) anche una riserva del 50% dei posti nelle procedure negoziate sotto al milione. In questa fascia arriva anche una norma a favore della maggiore concorrenza. Sale da a 5 a 15 il numero minimo delle imprese da invitare alle procedure negoziate per i lavori (con doppio scaglione di 10 e 15 imprese in base agli importi nei servizi).
Sul fronte della progettazione, il correttivo sblocca gli interventi rimasti «incagliati» a causa dell’entrata in vigore del nuovo codice ad aprile 2016. Le Pa potranno rimetterli in gara nei prossimi 12 mesi. Il divieto di appalto integrato cade anche per le opere ad alto contenuto tecnologico e per le manutenzioni. I progettisti incassano l’obbligo per le Pa di calcolare i compensi sulla base dei parametri del ministero della Giustizia (ora è solo una facoltà). Mentre salta la norma mirata a imporre l’iscrizione all’albo per i progettisti interni alle amministrazioni.
Il rischio di una procedura di infrazione Ue, ventilato da una lettera inviata al Governo da Bruxelles, non è bastato a far cadere i vincoli sul subappalto. Chi vincerà l’appalto non potrà subaffidare ad altre imprese più del 30% del valore complessivo del contratto. Resta invariato il sistema «80-20» che tra 12 mesi imporrà ai concessionari autostradali di mandare in gara l’80% dei lavori, conservando in house una quota limitata al 20 per cento. Ppp e concessioni potranno contare sull’innalzamento dal 30% al 49% del tetto al contributo pubblico. Mentre arriva il divieto di affidare a general contractor opere inferiori a 150 milioni. Prevista anche una stretta sui pagamenti delle Pa e penali per i ritardi nella realizzazione delle opere.
Il rating di impresa viene confermato. Ma accogliendo le richieste dell’Anac verrà rilasciato su base volontaria. Compie il giro inverso la clausola sociale per gli appalti ad alta intensità di mandopera, che da facoltativa diventa obbligatoria. A meno di sorprese dell’ultima ora l’Anac dovrebbe incassare l’autonomia organizzativa (e la disciplina economica) sul proprio personale, insieme all’aiuto dell’Istat per la definizione dei costi standard delle opere pubbliche
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIComuni, lavori più semplici. Appalto integrato ok. Mini enti, meno paletti ai progettisti. Il consiglio dei ministri ha approvato in via definitiva il decreto correttivo del Codice.
Appalto integrato per le opere con netta prevalenza di contenuti tecnologici o innovativi. Meno vincoli per i progettisti dei piccoli comuni. Subappalto con limite al 30% per tutte le lavorazioni e obbligo di prevedere una terna di subappaltatori per gli appalti oltre la soglia Ue. Qualificazione Soa delle imprese di costruzioni valutando gli ultimi dieci anni. Mantenuto l'obbligo per i concessionari autostradali di affidare in gara l'80% delle attività. Obbligo di stima degli affidamenti di ingegneria e architettura con il «decreto parametri», oggi facoltativo e divieto di subordinare il pagamento del progettista all'ottenimento del finanziamento dell'opera.

Sono alcune delle numerose novità contenute nel decreto correttivo del codice dei contratti pubblici (di cui risultano «ritoccate» 130 norme), approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei ministri (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Un tema delicatissimo, sul quale molto si è discusso in sede parlamentare durante le audizioni del ministro delle infrastrutture Graziano Delrio e del presidente dell'Anac Raffaele Cantone, era quello del subappalto. Alla fine il governo ha scelto di lasciare la situazione così come è oggi non recependo le indicazioni fortemente liberalizzatrici dell'Unione europea e quindi lasciando il limite del 30% su tutte le lavorazioni di cui si compone l'opera e non (come era previsto nella versione approvata in via preliminare) sulla sola categoria prevalente. Rimane obbligatoria anche l'indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, ma soltanto per appalti di importo superiore alle soglie Ue (5,2 milioni di euro per lavori e 209.000 euro per servizi e forniture) e, sempre, per attività esposte a rischio di infiltrazione mafiosa.
Un altro tema delicato era quello della deroga all'affidamento dei lavori sulla base del progetto esecutivo. Il testo, dopo avere confermato il principio generale dell'obbligo di appaltare i lavori sulla base del progetto esecutivo, prevede alcune deroghe. La prima è quella che sblocca i progetti definitivi non affidati al momento dell'entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016). Adesso le stazioni appaltanti, a condizioni che pubblichino il bando entro 12 mesi dall'entrata in vigore del decreto correttivo, potranno affidare i lavori sulla base del progetto definitivo (chiedendo all'impresa il progetto esecutivo e la realizzazione dell'opera), in caso di netta prevalenza di contenuti tecnologici o innovativi dell'appalto.
Nella determina a contrarre le amministrazioni dovranno però indicare «in modo puntuale la rilevanza dei presupposti tecnici e oggettivi che consentono il ricorso all'affidamento congiunto e l'effettiva incidenza sui tempi della realizzazione delle opere in caso di affidamento separato di lavori e progettazione». Altra esclusione dall'obbligo di affidare lavori sulla base del progetto esecutivo viene introdotta per i casi di «locazione finanziaria, nonché delle opere di urbanizzazione a scomputo» e per i lavori di manutenzione sulla base del progetto definitivo (e poi di una progettazione semplificata quando sarà in vigore il decreto ministeriale sui livelli progettuali), con esclusione degli interventi di manutenzione che prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere. Non è invece passata, a causa del rilievo del Consiglio di stato, la possibilità di utilizzare l'appalto integrato per ragioni di urgenza.
Per la qualificazione delle imprese si innalza a dieci anni l'arco temporale di riferimento per ottenere la qualificazione dalle Soa (la disciplina di dettaglio della qualificazione verrà prevista poi da un decreto ministeriale su proposta dell'Anac). Sulla disciplina del contraente generale il testo prevede una soglia minima di applicazione pari a 100 milioni di euro (anche se il comunicato stampa di palazzo Chigi parla di 150 milioni ndr) per il ricorso all'affidamento a contraente generale (oggi senza alcun limite), per evitare che il ricorso all'istituto per soglie minimali concretizzi una elusione del divieto di appalto integrato. Il provvedimento interviene anche sul tema delle varianti integrando la disciplina della variante per errore progettuale, specificando che essa è consentita solo entro limiti quantitativi minimi.
Viene poi precisato che il dibattito pubblico sarà effettuato sui progetti di fattibilità tecnica economica e non sui documenti delle alternative progettuali come nel testo approvato in via preliminare. Importante l'intervento sulla norma relativa al costo della manodopera di cui si prevede una specifica individuazione ai fini della determinazione della base d'asta e l'esclusione per i servizi aventi natura intellettuale. Per le regole in materia di collaudi è stato inserito l'obbligo, per le amministrazioni, di scegliere i collaudatori da un apposito albo, i soggetti esterni saranno sempre scelti con procedura ad evidenza pubblica.
Per la progettazione una importante novità riguarda l'obbligo di applicazione del cosiddetto «decreto parametri» ai fini del calcolo dell'importo a base di gara per gli affidamenti di servizi di ingegneria e architettura; ad oggi le stazioni appaltanti lo potevano utilizzare se i parametri fossero ritenuti «adeguati», diversamente potevano stimare anche con riduzioni del 20/30%.
Sempre sul fronte dei corrispettivi dei progettisti il decreto contiene due importanti novità: il divieto di subordinare il pagamento dei corrispettivi all'ottenimento del finanziamento dell'opera progettata e il divieto di prevedere forme di sponsorizzazioni e di rimborsi per affidamento di servizi di ingegneria e architettura (inserita un'esclusione per i beni culturali), una prassi spesso utilizzata per non pagare l'affidatario. Per le commissioni giudicatrici ammessa, fino a un milione di euro possibile la nomina di alcuni commissari interni alla stazione appaltante con esclusione del presidente della commissione di gara.
Soddisfazione per le modifiche apportate al correttivo appalti è stata espressa dal presidente dell'Anci Antonio Decaro. «La possibilità di servirsi dello strumento dell'appalto integrato per determinate opere rappresenta una risorsa essenziale per noi amministratori, sempre affannati nel tentativo di ridurre i tempi di progettazione e soprattutto di realizzazione delle opere», ha spiegato Decaro.
«Inoltre la correzione della norma che, obbligando i tecnici all'abilitazione agli albi per poter firmare progetti avrebbe paralizzato gli investimenti, garantisce soprattutto l'operatività ai piccoli comuni. Un altro aspetto importante del correttivo è la semplificazione dei livelli di progettazione per le manutenzioni ordinarie». Positivo anche il giudizio di Confartigianato. «Si tratta di modifiche positive che consentono agli artigiani e alle piccole imprese di cogliere le opportunità del mercato degli appalti pubblici», ha commentato il presidente Giorgio Merletti.
In cima alla lista delle novità più gradite dagli artigiani c'è la possibilità per le stazioni appaltanti di riservare la partecipazione alle micro, piccole e medie imprese che abbiano sede legale e operativa nel territorio regionale di esecuzione dei lavori per una quota non inferiore al 50% del totale delle aziende partecipanti (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni, più margini e regole. Cresce il turn-over, ma anche il numero di norme ad hoc. Le novità in materia di personale del pacchetto enti locali della manovra correttiva.
Nelle amministrazioni locali aumentano i margini per assumere, ma anche la complessità delle regole e delle percentuali, che sono differenziate a seconda del tipo di ente, della relativa popolazione, della maggiore o minore virtuosità finanziaria e dell'inquadramento (dirigenziale o non dirigenziale) del nuovo personale.

Il pacchetto enti locali della manovra correttiva, approvata nei giorni scorsi dal consiglio dei ministri (sia pure ancora con la formula «salvo intese», che lascia aperta la strada a ulteriori modifiche, oltre a quelle che potrà apportare il parlamento in sede di conversione, come ha lasciato intendere il sottosegretario alla presidenza Maria Elena Boschi) incrementa al 75% la percentuale di turn-over anche per i comuni con popolazione superiore a 10 mila abitanti, allineandoli a quelli più piccoli che già possono applicare la percentuale più elevata purché rispettino il rapporto dipendenti/popolazione imposti agli enti strutturalmente deficitari.
In attesa di vedere il testo definitivo, si ritiene che tale condizione verrà imposta anche ai municipi medio-grandi. Per gli enti che non rispettano tali parametri, il turnover dovrebbe restare fissato al 25%.
Nulla dovrebbe cambiare per i comuni con meno di 1.000 abitanti, che potranno continuare ad assumere un nuovo dipendente per ogni cessazione intervenuta nell'anno precedente (turn-over per teste).
I mini-eni, inoltre, possono cumulare tutti i resti assunzionali maturati dal 2007 in avanti, mentre per gli altri valgono solo quelli del triennio anteriore all'anno precedente: nel 2017, quindi, è disponibile la parte non spesa dei budget relativi agli anni 2014-2015-2016, calcolati sulle rispettive cessazioni degli anni 2013-2014-2015; rispetto al 2016, quindi, sono persi gli eventuali resti del 2013, derivanti dalle cessazioni del 2012. E così via negli anni successivi.
Sempre il decreto legge appena licenziato dal governo porta dal 75% al 90% il turnover per gli enti virtuosi nella gestione degli spazi finanziari per investimenti. Si tratta delle amministrazioni (tutte, a prescindere dalla propria dimensione demografica) che, grazie ad una buona programmazione, riusciranno a non realizzare un overshooting rispetto al pareggio di bilancio superiore all'1% delle entrate finali accertate nel medesimo anno. Tale novità, però, si applicherà solo dal 2018.
Regole ancora diverse valgono per le unioni di comuni e per i comuni istituiti a decorrere dall'anno 2011 a seguito di fusione: in tal caso, è possibile scegliere il regime più favorevole fra quello del turnover «per teste» al 100% quello basato sulla spesa dei cessati nell'anno precedente, ma anche qui con percentuale totalitaria (100%).
Infine, l'ultima variabile: tutto quanto detto in precedenza vale solo per il personale non dirigenziale. Per i dirigenti, laddove previsti, valgono le percentuali fissate dall'art. 3, comma 5, del dl 90/2014, ovvero 80 e 100% dal 2018.
Rimane possibile anche il c.d. cumulo triennale diretto al futuro, che consente di programmare le assunzioni sommando nel piano del fabbisogno triennale i budget derivanti dalle cessazioni attese. Per la programmazione 2017-2019, quindi, si possono considerare i budget 2018 e 2019, quantificati in base alle cessazioni ipotizzate nel 2017 e nel 2018.
Naturalmente, l'ente potrà esperire i concorsi ma le assunzioni dovranno rispettare le regole del turn-over, per cui avverranno solo nell'anno successivo a quello in cui le cessazioni ipotizzate si sono effettivamente verificate e nei limiti di budget effettivamente disponibili (articolo ItaliaOggi del 14.04.2017).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione paesaggistica meno severa. Procedure edilizie. Uno studio dell’Anci riassume il nuovo regime per i lavori e i permessi dopo il Dpr 31/2017.
Il nuovo regolamento sugli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata è oggetto di uno studio dell’ Anci che sintetizza le principali novità introdotte dal Dpr 31/2017. Il quaderno operativo, oltre alla ricostruzione del quadro normativo di riferimento, allinea le procedure edilizie, ormai sempre più autocertificate, con le autorizzazioni necessariamente espresse e preventive richiesta dalla disciplina di tutela dei vincoli paesaggistici.
Alla luce della novità normativa, il documento Anci (IL D.P.R. 13.02.2017 N. 31 - LA SEMPLIFICAZIONE DEI PROCEDIMENTI DI TUTELA PAESAGGISTICA - IL RACCORDO CON I PROVVEDIMENTI EDILIZI) individua i 31 casi in cui l’autorizzazione paesaggistica non è necessaria. Si tratta di una serie di interventi eterogenei, accomunati principalmente dalla mancanza di impatto sull’aspetto esteriore degli edifici: è quindi il caso di opere strettamente interne comunque denominate (anche ove comportanti mutamento della destinazione d’uso), o ancora di interventi su prospetti o coperture degli edifici qualora rispettino le caratteristiche esistenti, o di installazione di pannelli solari, se posti su coperture piane e se non visibili dagli spazi pubblici esterni, o, ad esempio, di tende parasole su terrazze o spazi pertinenziali ad uso privato.
Il quaderno Anci richiama quindi gli interventi soggetti al procedimento autorizzatorio semplificato. Si tratta di interventi di adeguamento alla normativa antisismica o per l’efficientamento energetico, ove comportino innovazioni alle caratteristiche tipologiche, ai materiali o alle finiture esistenti. Le maggiori innovazioni in chiave di semplificazione prevedono la possibilità di convocare una conferenza di servizi, con termini dimezzati, nel caso in cui siano necessari atti di assenso ulteriori rispetto all’autorizzazione semplificata. In caso contrario, sarà la stessa amministrazione procedente a valutare la compatibilità dell’intervento che, se valutata positivamente, porterà a una proposta di accoglimento che dovrà passare il vaglio della Soprintendenza (silenzio-assenso dopo venti giorni).
Dopo aver ricordato la procedura ordinaria per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (che si snoda dall’acquisizione del parere della locale Commissione per la qualità architettonica e il paesaggio da parte dell’Amministrazione competente all’emanazione del successivo parere del Soprintendente, per concludersi con il rilascio dell’autorizzazione entro il termine di 20 giorni dalla ricezione di quest’ultimo), lo studio si concentra sul raccordo tra le procedure per la formazione o il rilascio dei titoli edilizi e le disposizioni per la tutela dei valori paesaggistici.
Ne emerge come la disciplina italiana che regola l’attività edilizia sia sulla carta efficiente. La sensazione diffusa è che, però, la ristrutturazione di un edificio o più semplicemente la volontà di realizzare una tettoia piuttosto che una nuova finestra siano soggette a procedure dall’esito incerto, soprattutto nei tempi sia in ragione di piani regolatori e regolamenti edilizi locali complicati sia perché tutte le opere che modificano l’aspetto esteriore degli edifici vanno preventivamente autorizzate
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2017).

APPALTIPiccole gare, massimo ribasso a 2 milioni. Codice appalti. Oggi l’ok finale del Consiglio dei ministri al decreto correttivo.
Gare più semplici per l’assegnazione dei lavori pubblici di taglia medio-piccola.
È la novità dell’ultima ora per la bozza di decreto correttivo al codice degli appalti (Dlgs 50/2016) che oggi sarà sul tavolo del Consiglio di ministri per l’ok finale (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
Dopo un defatigante iter -che ha coinvolto anche Conferenza unificata, Consiglio di Stato e Commissioni parlamentari- questa mattina il decreto affronta l’ultimo passaggio. Per non superare la scadenza fissata dalla delega il varo definitivo del provvedimento con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (o quanto meno la firma del Capo dello Stato, segnalano i giuristi) deve avvenire entro il 19 aprile. Lungo il percorso il decreto ha acquistato sempre maggiore mole. Ora siamo a quota 131 articoli, con centinaia di modifiche apportate a un codice che ne conta in tutto 220 e che è entrato in vigore giusto un anno fa.
Tra queste, quella più attesa da imprese e Comuni è proprio quella sulla gestione delle piccole gare. Uno dei maggiori indiziati dell’inceppamento del motore degli appalti -in realtà pure prima piuttosto ingolfato- in seguito all’entrata in vigore della riforma. Per rendere più rapide le procedure di aggiudicazione e, dunque, passare in fretta dalle gare ai cantieri, alle Infrastrutture hanno deciso di raddoppiare da uno a due milioni la soglia di utilizzo del criterio del prezzo più basso per assegnare le opere. Ma a precise condizioni.
La prima è che l’appalto venga assegnato sulla base di un progetto esecutivo, dunque senza possibilità di intervento sul progetto da parte dei costruttori, che dovranno limitarsi a eseguire i lavori. La seconda è che entri in campo il «metodo antiturbativa», cioè l’esclusione automatica delle offerte che presentano percentuali di ribasso inferiori o superiori alla media, sorteggiando solo in corso di gara il criterio matematico per individuarle.
Con questo accorgimento si dovrebbe evitare il rischio di formazione di cartelli, accelerando di molto le procedure (e riducendo i costi) di assegnazione degli appalti. Le amministrazioni verrebbero infatti alleggerite dall’obbligo di dover valutare altre variabili oltre al prezzo: una scelta poco sensata, dicono imprese e comuni, quando in gara c’è un progetto esecutivo di lavori medio-piccoli. Mentre l’esclusione automatica delle «offerte anomale» evita la procedura di valutazione di congruità delle proposte in contraddittorio con le imprese a rischio di esclusione. Per le opere sotto al milione, in presenza di più di 10 offerte, l’utilizzo di questa formula diventa anzi obbligatorio per assegnare i lavori.
Non è questa l’unica novità che riguarda i criteri di aggiudicazione degli appalti. Un’altra riguarda i parametri da valutare quando si guarda alla qualità della prestazione oltre che al semplice ribasso di gara («offerta economicamente più vantaggiosa»). In questi casi, come proposto dal Parlamento (i cui rilievi sono stati tutti accolti dalle Infrastrutture), la stazione appaltante non potrà attribuire più del 30% del punteggio all’impresa che offre il prezzo più basso. Il resto dei punti andranno assegnati sulla base degli elementi di valutazione tecnica.
Tornando ai piccoli appalti, viene accolta nel testo anche la proposta di alzare a un minimo di 15 il numero delle imprese da invitare alle procedure negoziate di importo compreso tra 150mila euro e un milione.
Infine una nota sui partenariati pubblico privati. Nonostante il parere contrario del Consiglio di Stato, Porta Pia ha deciso di tenere duro sull’innalzamento del tetto al contributo pubblico: la bozza licenziata dal Mit conferma il passaggio dal 30% al 49 per cento
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.04.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI comuni tornano ad assumere. Turnover al 75%. Si riapre la partita sul rinnovo del Ccnl. MANOVRA CORRETTIVA/ Alle province 210 milioni. Zone franche nelle regioni terremotate.
I comuni tornano ad assumere. Grazie all'innalzamento della soglia di turnover dall'attuale 25% al 75%, i sindaci potranno svecchiare gli organici immettendo in ruolo le risorse umane necessarie a gestire nuove competenze e a far ripartire gli investimenti.

Il pacchetto enti locali della manovra correttiva, varata martedì dal cdm, è stato benevolo verso gli enti locali, forse al di là di ogni loro ragionevole previsione, visto che sembrava praticamente certo che l'innalzamento del turnover si sarebbe fermato al 50% e in pochi scommettevano che il governo sarebbe stato così magnanimo.
«Sono state riconosciute le nostre ragioni e ora possiamo dire che abbiamo fatto bene a insistere», ha commentato il delegato Anci al personale e sindaco di Chieti, Umberto Di Primio. «I comuni potranno ora assumere giovani, motivati e formati per far fronte alle nuove sfide. E potranno dare una speranze all'esercito di 180 mila idonei che da anni bussa alle porte della pubblica amministrazione». Le cui graduatorie, tuttavia, saranno valide solo fino al 31.12.2017.
A fare felici i sindaci sul fronte del turnover non c'è solo la manovrina, ma anche il decreto legge sicurezza (dl n. 14/2017) convertito definitivamente in legge ieri dal senato (si veda altro pezzo a pagina 30) che all'art. 7 prevede un incremento delle capacità assunzionali di personale della polizia locale, in modo da far fronte ai maggiori poteri in materia di sicurezza e ordine pubblico attribuiti ai comuni dal decreto.
Lo sblocco non sarà per tutti, ma solo per i municipi virtuosi, ossia quelli che hanno rispettato il pareggio di bilancio. Nel 2017 chi è in regola con i conti potrà assumere personale di polizia locale a tempo indeterminato nel limite dell'80% della spesa sostenuta per i vigili che hanno lasciato il lavoro nell'anno precedente. Dall'anno prossimo il limite sarà del 100%.
Come precisato anche da palazzo Chigi, l'innalzamento della percentuale di turnover al 75% riguarderà i comuni con più di 10.000 abitanti. Questo perché sotto i 10.000 abitanti il turnover è già al 75% (al 100% per i mini-enti sotto i mille abitanti) ma solo per le amministrazioni che hanno un rapporto medio dipendenti-popolazione inferiore a quello previsto per gli enti in dissesto.
Altra novità introdotta dalla manovrina riguarda il premio in termini di sblocco delle capacità assunzionali per gli enti che rispettano il pareggio di bilancio senza tuttavia sprecare spazi finanziari (il cosiddetto overshooting). Il meccanismo premiale scatterà di fatto dal 2018, perché pur essendo previsto dalla legge di bilancio di quest'anno, non potrà andare a regime prima che si conoscano i dati ufficiali sul rispetto degli obiettivi di finanza pubblica da parte dei comuni.
I municipi che abbiano un rapporto dipendenti/popolazione inferiore a quello individuato per gli enti in dissesto e che abbiano centrato l'obiettivo del pareggio di bilancio senza lasciare spazi finanziari inutilizzati superiori all'1% degli accertamenti delle entrate potranno applicare un turnover del 90% (prima era del 75%).
La stagione contrattuale. Lo sblocco del turnover e la prospettiva dell'avvio di una nuova stagione di assunzioni riaccende inevitabilmente l'attenzione sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego che, in ossequio all'intesa sottoscritta tra governo e sindacati lo scorso 30 novembre dovrebbe portare in dote aumenti medi mensili di 85 euro. L'auspicio dei comuni è che il governo trovi quanto prima le risorse per finanziare gli aumenti, «fermo restando che non si può credere di scaricare tutti gli oneri dei nuovi contratti sugli enti locali», ha osservato Di Primio.
Il Comitato di settore si riunirà a breve per elaborare il nuovo atto di indirizzo all'Aran anche se l'impressione è che i comuni vogliano prima attendere il varo definitivo dei decreti Madia (riforma del T.u. sul pubblico impiego e della legge Brunetta sulla valutazione). «Restano ancora alcuni nodi critici come quelli sul salario accessorio, dove servono norme chiare che non suscitino dubbi intepretativi, e sul recupero delle sanzioni scaturite dalle sanzioni Mef», ha spiegato Di Primio.
Le altre misure finanziarie per gli enti locali. Si modifica il correttivo statistico stabilito dalla legge di bilancio 2017 per la definizione degli importi spettanti a ciascun comune a valere sul Fondo di solidarietà comunale, accogliendo in tal modo la richiesta avanzata dall'Anci.
A favore delle province della regione Sardegna e della città metropolitana di Cagliari si prevede un contributo pari a 10 milioni di euro per l'anno 2017 e 20 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2018.
Per le province delle regioni a statuto ordinario, la manovrina prevede (si veda ItaliaOggi di ieri) un contributo pari a 110 milioni per l'anno 2017 e a 80 milioni annui a decorrere dall'anno 2018 per la salvaguardia degli equilibri di bilancio. Inoltre, come l'anno scorso, anche per il 2017 vengono stanziati 100 milioni per la manutenzione delle strade.
Novità anche per le regioni a cui per la prima volta verranno applicati i criteri dei fabbisogni standard e della capacità fiscale ai fini del riparto tra le regioni stesse del concorso alla finanza pubblica. La manovrina, inoltre, distribuisce gli spazi finanziari pari a 500 milioni previsti per le regioni dalla legge di bilancio 2017.
Interventi in favore delle zone terremotate. È istituito un Fondo specifico di 1 miliardo di euro per ciascun anno del triennio 2017-2019 finalizzato a consentire l'accelerazione delle attività di ricostruzione.
Tra le misure viene istituita una zona franca urbana nei comuni delle regioni Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo colpiti dagli eventi sismici del 2016 e 2017. A beneficiarne saranno le imprese aventi la sede principale o l'unità locale all'interno della stessa zona franca e che abbiano subìto una contrazione del fatturato a seguito degli eventi sismici.
Tali imprese potranno beneficiare, in relazione ai redditi e al valore della produzione netta derivanti dalla prosecuzione dell'attività nei comuni colpiti dal sisma, di una esenzione biennale Ires e Irpef (fino a 100 mila euro di reddito), Irap (fino a 300 mila euro di valore della produzione netta) e Imu, nel rispetto dei limiti e delle condizioni stabiliti dai regolamenti «de minimis» (articolo ItaliaOggi del 13.04.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, il nuovo turn-over triplica le assunzioni. Enti locali. Con il 75% delle sostituzioni negli enti con più di 10mila abitanti possibili almeno 7mila ingressi in più - Aiuti da 200 milioni alle Province, sblocco degli avanzi e bilancio annuale per le Città.
Dopo anni di magra caratterizzati dai vincoli al turn-over prima e dal blocco poi per riassorbire gli esuberi di Province e Città metropolitane si riaprono le porte per i nuovi ingressi di personale nei Comuni, con un cambio di rotta che può portare nei municipi circa 7mila assunzioni in più rispetto alle 5mila scarse permesse dalle regole attuali.
Si tratta di un cambio di rotta deciso, dopo che quasi un decennio di “austerità” sugli organici ha portato intorno a quota 400mila i dipendenti comunali in Italia, con un taglio del 16 per cento rispetto al 2007: «Un grande successo e un’occasione per i sindaci», commenta il presidente dell’Anci Antonio Decaro.
Nel decretone approvato ieri insieme a Def e Pnr, con la formula «salvo intese» aperta quindi a eventuali correzioni che però non dovrebbero interessare questo capitolo, la novità principale (anticipata sul Sole 24 Ore di domenica) arriva nei Comuni con più di 10mila abitanti, che hanno in organico i tre quarti dei dipendenti comunali complessivi e potranno sostituire il 75% degli usciti invece del 25% concesso dalle regole in vigore fino a oggi.
Negli enti più piccoli rimangono invece le regole attuali, che fra mille e 9.999 abitanti permettono la sostituzione di tre usciti ogni quattro quando l’ente rispetta i vincoli di finanza pubblica e non supera il rapporto dipendenti/popolazione previsto per i Comuni in dissesto, mentre fino a mille residenti il turn-over è pieno. Cambia il premio previsto dal 2018 per chi rispetterà i vincoli di finanza pubblica senza lasciare inutilizzati spazi finanziari superiori all’1% delle entrate correnti: per loro il turn-over sarà del 90%, e non del 75.
Il cambio di regole offre nuove chance anche a chi si è collocato nelle graduatorie dei vecchi concorsi, la cui validità è stata allungata a inizio anno dal Milleproroghe, ma impone agli amministratori di fare i conti prima di mettere mano alle assunzioni. Insieme all’elenco dei dipendenti, infatti, in questi anni si sono alleggerite anche le spese per il personale, che si fermano oggi sotto i 14,5 miliardi contro i 16,3 del 2008 (-11%), ma la riapertura delle porte arriva alla vigilia di un rinnovo contrattuale che promette di essere costoso anche per i Comuni: l’obiettivo di arrivare a 85 euro medi di aumento, scritto nell’intesa fra governo e sindacati del 30 novembre e rilanciato dal Def, dovrebbe aumentare i costi fissi di personale nei Comuni di 4-500 milioni.
Per le Regioni viene tradotta in legge l’intesa di febbraio che prevede l’applicazione dei fabbisogni standard nella distribuzione del contributo alla finanza pubblica e si stabilizzano i meccanismi del fondo per il trasporto pubblico locale.
Nel capitolo del decretone dedicato agli enti locali entrano poi i sostegni alle Province e alle Città metropolitane, che anche nel 2017 potranno scrivere bilanci annuali e non triennali in attesa di tempi migliori. Alle Province vengono offerti sostegni aggiuntivi per circa 200 milioni, tra fondi Anas dirottati nuovamente agli enti di area vasta per la manutenzione delle strade e risorse aggiuntive, mentre per le Città metropolitane arriva la replica della possibilità di utilizzare gli avanzi di amministrazione, senza però che questa mossa (vale circa 50 milioni, e aiuta soprattutto Torino, Milano e Roma) possa andare in aiuto dei calcoli sul pareggio di bilancio.
Le misure di sostegno agli enti locali, infatti, non possono modificare la struttura della legge sul pareggio, la 243/2012, che essendo attuativa di una norma costituzionale è una legge “rafforzata”: contro lo stesso ostacolo ha sbattuto il tentativo di prorogare la possibilità di rispettare il pareggio solo a consuntivo
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017).

APPALTISubappalti, in house e Ppp: restano i vincoli del Codice. Contratti pubblici. Il decreto correttivo in Cdm giovedì.
Nessuna modifica sostanziale alla disciplina dei subappalti, dei lavori in house delle concessionarie autostradali e anche delle operazioni di project financing.
Rispetto alla bozza varata in prima battuta a fine febbraio il Governo è pronto a fare marcia indietro su alcune delle correzioni di maggiore impatto rispetto alla riforma appalti varata l'anno scorso, adeguandosi ai rilievi mossi dal Parlamento e dal Consiglio di Stato.
Il decreto correttivo è alle ultime limature in vista dell'approvazione finale
(Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50). Avrebbe dovuto essere esaminato già nella seduta del Consiglio dei ministri di ieri, ma l’eccezionale "carico" di provvedimenti legato al varo contestuale di "manovrina" e Documento di programmazione economica (Def) ha consigliato di spostarne l’esame a una nuova seduta in programma già domani. Slittare ancora significherebbe di fatto rischiare di andare oltre il termine imposto dalla legge delega che scade il 19 aprile.
Dopo le ultime revisioni dei tecnici di Porta Pia, la nuova bozza del decreto legislativo oggi sarà in mano al Dipartimento affari legislativi di Palazzo Chigi per l’ultimo esame. Finora la scelta di fondo è stata quella di adeguare il testo a tutte le richieste di modifica che sono arrivate dal Parlamento, oltre alle prescrizioni di Palazzo Spada.
Sul subappalto, allora, uno dei punti più "controversi" dell'intero provvedimento, tutto dovrebbe rimanere come adesso. Nessuna «liberalizzazione» dei subaffidamenti come ha chiesto la Commissione europea in risposta a un esposto presentato dai costruttori. Il tetto per i subaffidamenti rimane ancorato al 30% da calcolare sull’intero importo dell’appalto (invece che sulla sola categoria prevalente, come prevedeva la bozza di febbraio). Il rischio - paventato nella lettera inviata pochi giorni fa dalla Dg Mercato interno di Bruxelles - è quello di andare incontro a una procedura di infrazione. Ma sul punto per ora pesano di più le «condizioni» messe nero su bianco da Camere e Palazzo Spada.
Per lo stesso motivo resterà inalterata anche la disciplina dei lavori delle autostrade. Tra 12 mesi il «sistema 80-20» che obbliga i concessionari a mandare in gara l'80%dei lavori entrerà in vigore senza gli sconti previsti dalla prima bozza per le opere di semplice manutenzione. Sul Ppp torna nel cassetto la proposta di innalzare dal 30% al 49% il tetto massimo al contributo pubblico su cui si era speso personalmente anche il ministro Graziano Delrio.
Seguendo lo stesso ragionamento qualche limatura arriverà anche sul fronte della progettazione. Le deroghe al divieto di appalto integrato verranno ridimensionate, eliminando la possibilità di appaltare insieme progetto e lavori nei casi di urgenza e riducendo da 18 a 12 mesi la riapertura del termine per mandare in gara i progetti definitivi già approvati alla data di entrata in vigore del nuovo codice (19.04.2016). Va verso la conferma, invece, la possibilità di affidare insieme progetto e lavori nel caso di interventi ad alto tasso di tecnologia.
Sul Correttivo oggi si farà sentire anche la voce delle imprese. In vista dell’approvazione finale il tavolo unitario che riunisce la filiera delle costruzioni (Ance, artigiani, coop, piccole imprese e società di ingegneria dell’Oice) diffonderà un documento in cui si ricorda al Governo che esistono almeno sette «criticità» di mercato da risolvere con il decreto.
Tra queste: semplificare l’aggiudicazione dei piccoli interventi (applicando il metodo anti-turbativa fino a 2,5 milioni), rendere meno rigidi i vincoli sul subappalto, eliminare il sorteggio per la scelta delle imprese da invitare alle procedure negoziate, varare regole più stringenti contro la prassi dei ritardati pagamenti, precisare che per autorizzare l’appalto integrato la componente tecnologica deve superare il 70% del valore dell’appalto
(articolo Il Sole 24 Ore del 12.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo facoltativo escluso. Per i papà.
Stop al congedo facoltativo per i padri lavoratori dipendenti. La misura non è stata prorogata e, pertanto, quest'anno potranno eventualmente essere fruiti soltanto i giorni relativi a parti, adozioni e affidamenti avvenuti nel 2016.

Lo precisa l'Inps nel messaggio 10.04.2017 n. 1581 (OGGETTO: Chiarimenti in merito al messaggio Hermes n. 828/2017 relativo al congedo facoltativo per i padri lavoratori dipendenti di cui all’art. 4, comma 24, lettera a), della legge 92/2012).
Il congedo facoltativo. Dava l'opportunità al padre lavoratore dipendente (e continua a darla, limitatamente agli eventi dello scorso anno) di fruire di uno o due giorni di astensione dal lavoro, anche in maniera continuativa. Il congedo era subordinato alla scelta dell'altro coniuge (cioè la madre), anch'essa lavoratrice, di non fruire di altrettanti giorni (uno o due) del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del periodo post partum di astensione obbligatoria.
Lo «scambio», in ogni caso, poteva essere fatto entro cinque mesi di vita del figlio (il termine entro cui la madre fruisce dell'astensione obbligatoria).
Stop dal 2017. La misura, introdotta in via sperimentale dalla riforma Fornero (la legge n. 92/2012) è stata prorogata per l'anno 2016 dalla legge Stabilità dell'anno scorso (legge n. 208/2015); invece, non ha ricevuto proroga per l'anno in corso.
Pertanto, l'Inps ha stoppato la fruizione di nuovi congedi. Nel messaggio, precisa che il congedo può essere fruito nei primi mesi del corrente anno, entro il consueto termine di cinque mesi dalla nascita o dall'adozione/affidamento, solo per eventi parto, adozione e affidamento avvenuti nell'anno 2016.
Un esempio. Per la nascita avvenuta il 01.12.2016, senza che la madre abbia fruito della flessibilità del congedo di maternità così da aver diritto a un mese prima e a quattro mesi post partum, ossia fino al prossimo 30 aprile, il papà può decidere di fruire di uno o due giorni del congedo facoltativo, a patto che la madre anticipi la fine del suo congedo di maternità della stesa misura (uno o due giorni).
Il papà può decidere di fruire di entrambi i giorni entro il 1° maggio, giorno in cui il neonato compie i primi cinque mesi di vita (articolo ItaliaOggi del 12.04.2017).

INCARICHI PROFESSIONALINo all'affidamento fiduciario ai legali. L'Anac sull'assegnazione dei servizi.
Gli incarichi agli avvocati non possono essere assegnati intuitu personae per via fiduciaria, né se si tratti della difesa in giudizio, né se si tratti di altri servizi legali, come le consulenze. Inoltre, la circostanza che un servizio possa essere configurato come prestazione d'opera individuale non può essere sufficiente per escludere l'applicazione dei principi del diritto comunitario, che ispirano le regole contenute nel codice dei contratti.
L'Anac, con il documento sui servizi legali posto in consultazione sul suo sito allo scopo di emanare uno specifico atto di regolazione, interviene in maniera chiara e definitiva sull'annosa questione dell'assegnazione dei servizi legali.
Secondo l'Autorità «non può più considerarsi attuale» la teoria, sostenuta anche dal Consiglio di stato con la sentenza della Sezione V, 11.05.2012, n. 2730 secondo cui si dovrebbe distinguere il conferimento di un singolo incarico di patrocinio legale dall'attività di assistenza e consulenza giuridica. Il primo caso era sottratto alla disciplina del dlgs. n. 163/2006 in quanto.
Secondo tale teoria, la difesa in giudizio sarebbe un «contratto d'opera intellettuale», nell'ambito del quale il legale opera in via principalmente personale e con lavoro proprio senza organizzazione imprenditoriale, sicché sfuggirebbe alla qualificazione di «appalto». Invece, l'attività di assistenza e consulenza giuridica, comprendente l'organizzazione di una serie di servizi legali tra cui plurime difese in giudizio, in quanto caratterizzata dalla complessità dell'oggetto e dalla predeterminazione della durata, sarebbe un appalto e, quindi soggetta alle regole codicistiche.
Il documento posto in consultazione dall'Anac è tranciante nel negare che col dlgs 50/2016 tale distinzione (molto dubbia anche nel precedente regime normativo) sia ulteriormente applicabile e che, quindi, si possano affidare gli incarichi di difesa in giudizio per via fiduciaria. L'Anac insiste sulla circostanza che il codice dei contratti recepisce le direttive comunitarie, a loro volta espressione di un ordinamento che offre dell'appalto un'accezione lata e molto più ampia di quella definibile dall'ordinamento civilistico interno e tale da ricomprendere, nella sostanza, ogni prestazione di servizi, anche se resa da persone fisiche con lavoro proprio. Dunque, le «prestazioni d'opera intellettuale» finiscono per restare attratte nella disciplina dei contratti.
In particolare, spiega l'Anac, la difesa in giudizio non può essere regolata dal codice civile, ma dall'articolo 17 del dlgs 165/2001. Pertanto, la difesa in giudizio è da considerare senza alcun dubbio come «appalto di servizi», anche se escluso dall'applicazione delle regole puntuali procedurali previste dal codice e, dunque, soggetto solo ai principi enunciati dall'articolo 4 del codice. L'attuazione dei quali impone comunque una scelta motivata, trasparente e competitiva.
Il documento in consultazione propone un'interessante definizione dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, il rispetto dei quali impedisce affidamenti intuitu personae. In particolare, il principio di imparzialità fa sì che «la stazione appaltante maturi la sua decisione finale da una posizione di terzietà rispetto a tutti i concorrenti, senza essere indebitamente influenzata nelle sue decisioni da interessi politici di parte»: il che esclude radicalmente gli affidamenti fiduciari.
L'Anac suggerisce di raccogliere manifestazioni di interesse degli avvocati ad essere iscritti in albi sempre aperti, ai quali attingere nel rispetto dei criteri di rotazione per attivare una competizione concorrenziale. La procedura selettiva dovrà rispettare criteri qualitativi, ma anche inevitabilmente economici: l'Anac considera inevitabile, nel rispetto del principio di economicità, chiedere anche un ribasso sulla base di gara, determinabile in base all'esame di incarichi analoghi conferiti dalle p.a. o dalle tariffe professionali vigenti.
Molte amministrazioni si mostrano restie a procedure selettive per i legali, soprattutto perché preoccupate da non infrequenti casi nei quali occorre procedere con urgenza. L'Anac evidenzia che ciò non crea alcun problema: l'urgenza può consentire un affidamento diretto tramite estrazione a sorte dall'albo eventualmente costituito dalla singola pubblica amministrazione o una scelta diretta ma motivata (del resto, è applicabile anche l'articolo 63 del codice). Per questi affidamenti, l'Anac ritiene indispensabile verificare i requisiti generali dei legali, in applicazione dell'articolo 80 del codice, sia pure in forma attenuata.
Gli «altri servizi legali», tra i quali i servizi di certificazione o di consulenza, sono indicati dall'allegato IX e, pertanto, sono ricompresi nella disciplina del codice, con una soglia comunitaria di 750.000 euro, in quanto si applicano gli articoli da 140 e 144 del codice, se sopra soglia. Si può applicare l'articolo 32, invece, se sotto soglia (articolo ItaliaOggi del 12.04.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComuni, turn-over al 75%. Alle province 100 mln. Il pacchetto enti locali.
Sblocco del turnover al 75% per i comuni sopra i 10 mila abitanti. E 100 milioni per la viabilità delle province e delle città metropolitane che, come l'anno scorso, potranno contare su fondi Anas aggiuntivi per far fronte alla manutenzione delle strade e su misure sblocca-investimenti per l'edilizia scolastica.

Il capitolo enti locali del decreto legge che contiene la manovra correttiva dei conti pubblici, oltre a misure per lo sviluppo e a favore dei territori colpiti da eventi sismici, fa di sicuro felici i sindaci dell'Anci che avevano posto l'innalzamento del limite al turn-over del personale (oggi al 25% della spesa delle cessazioni dell'anno precedente) come condizione irrinunciabile per la crescita dei territori e per lo svecchiamento degli organici.
Ad annunciare le misure nella conferenza stampa successiva al consiglio dei ministri che ha varato il decreto legge è stata il sottosegretario, Maria Elena Boschi. La quale ha detto chiaramente che le norme sugli enti locali contenute nel provvedimento, approvato «salvo intese» dal cdm, rappresentano solo «una prima parte del lavoro», lasciando intendere che molto possa essere ancora fatto nel cammino parlamentare del decreto.
Per il sindaco di Bari e presidente Anci, Antonio Decaro, l'annuncio dello sblocco del turnover «è un grande successo dei sindaci» che con personale nuovo e dipendenti più giovani potranno «adoperarsi con più energie per il rilancio del Paese». «I progetti e perfino le risorse, l'abbiamo detto molte volte, non sono sufficienti se non si dispone di personale che li porti avanti. I comuni hanno già dato molto, tagliando il costo del personale molto di più di tutte le altre articolazioni dello Stato. È finalmente arrivato il tempo in cui ci si restituisce qualcosa», ha concluso il presidente Anci.
L'innalzamento della soglia di turnover al 75% dovrebbe riguardare i comuni con più di 10 mila abitanti che ad oggi potevano assumere solo un nuovo dipendente ogni quattro lavoratori fuoriusciti.
Per gli enti con meno di 10 mila abitanti, infatti, il turnover è già al 75% ma solo se il rapporto medio dipendenti-popolazione è inferiore a quello stabilito per gli enti in dissesto. Per questi municipi, l'Anci aveva chiesto che il decreto enti locali portasse in dote un innalzamento della soglia al 100%, riconoscendo quindi una capacità assunzionale piena di cui oggi godono pochissimi enti, ossia quelli sotto i 1.000 abitanti, le unioni e i comuni istituiti a seguito di fusione.
Per capire se ci sarà anche questo nel decreto legge, e quindi se i sindaci potranno festeggiare due volte, bisognerà leggere il testo della manovra (articolo ItaliaOggi del 12.04.2017).

EDILIZIA PRIVATARecupero dei seminterrati, contano epoca e livello. Le norme regionali considerano data di costruzione e struttura dei locali.
Urbanistica. Oltre alla Lombardia, sette Regioni regolano il riuso a fini abitativi o commerciali.

La Lombardia è l’ottava regione a disciplinare il recupero dei vani e dei locali seminterrati. Con la legge regionale 10.03.2017 n. 7 essa si aggiunge a Basilicata, Calabria, Friuli Venezia Giulia, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia.
La motivazione ricorrente delle normative regionali approvate su questa materia è che dell’utilizzo di questi spazi è un modo per contenere il consumo di suolo, che si avrebbe, altrimenti, con la costruzione di nuovi edifici. A questa giustificazione di base in qualche caso se ne aggiungono altre. La legge lombarda si propone anche di favorire l’installazione di impianti tecnologici, il contenimento dei consumi energetici (obiettivi condivisi anche con la normativa pugliese), e delle emissioni in atmosfera.
Le leggi delle Regioni che per prime intervennero sulla materia furono tutte approvate nei primi anni 2000, con una forte concentrazione tra il 2005 e il 2010. Dalla loro entrata in vigore, alcune di esse sono state, però, soggette a più di un intervento di manutenzione, anche recente, con modifiche relative ai vincoli e ai requisiti necessari per poter fruire degli interrati e dei seminterrati come abitazioni o per lo svolgimento di attività terziarie e commerciali.
In Basilicata, Calabria, Puglia e Sicilia gli ultimi interventi di restyling sono stati fatti nel 2016, mentre in Molise sulla legge del 2008 si sono rimesse le mani all’inizio di quest’anno.
I locali recuperabili
Le leggi regionali in alcuni casi (Basilicata Calabria e Puglia) consentono il recupero dei volumi di locali posti sia ai piani seminterrati sia a quelli interrati. In altre invece (Lombardia) è possibile recuperare solo i seminterrati.
La definizione di cosa debba intendersi per piano interrato o seminterrato è dettagliata in misura differente da Regione a Regione. Nella legge lombarda l’individuazione di piano seminterrato è generica: è quello il cui pavimento si trova in parte sotto la quota del terreno posto in aderenza all’edificio e il cui soffitto si trova sopra tale quota.
In altre la collocazione dei piani è più dettagliata. In Calabria, Puglia, Molise e Basilicata, per esempio, è considerato seminterrato il piano la cui superficie laterale è contro terra per una percentuale non superiore ai due terzi della superficie laterale totale; superata questa percentuale il piano è considerato interrato.
La distinzione è importante nei casi in cui la legge regionale fa distinzione tra le destinazioni d’uso dei locali recuperati. In Calabria, per esempio, possono diventare abitazioni solo i seminterrati, mentre possono essere utilizzati per ospitare attività commerciali sia i semi che gli interrati.
La costruzione dell’immobile
Uno dei vincoli più frequenti fissati dalle leggi riguarda la data in cui l’edificio deve risultare esistente affinché si possa ampliare l’uso dei locali che sono stati realizzati totalmente o in parte sottoterra. È uno dei paletti più importanti per disegnare i confini entro cui si possono applicare benefici previsti dalle norme regionali.
Fatta eccezione per la Calabria, le altre Regioni che negli anni scorsi hanno disciplinato il recupero dei seminterrati inizialmente fecero coincidere la data di esistenza dell’immobile con quella di entrata in vigore delle rispettive leggi. Nel tempo però questo termine è stato spostato in avanti.
La Basilicata lo ha portato al 31.12.2013 e la Puglia al 30 giugno di quello stesso anno. La legge di bilancio della regione Molise l’ha fissato al 31.12.2016 purché a quella data risultasse ultimata l’intera struttura portante dell’edificio, e fosse regolarmente certificata e realizzata nel rispetto delle normative vigenti oppure fosse stata preventivamente sanata.
La Calabria ha disciplinato il recupero dei vani interrati e seminterrati con la legge sul piano casa del 2010. Per il recupero non sembra, però, aver posto alcun limite legato alla data di costruzione , come invece ha fatto per gli interventi di demolizione e ricostruzione agevolati.
Infine, la legge della Lombardia consente il recupero dei vani e locali seminterrati esistenti o per i quali sia stato ottenuto il titolo abilitativo entro il termine (120 giorni dall'entrata in vigore della legge) concessi ai Comuni per limitare l'applicazione delle norme. Ma le date che verranno fuori nei singoli Comuni non delimiteranno definitivamente gli ambiti di applicazione. La legge, infatti, si applicherà anche agli immobili costruiti successivamente a tali date dopo che saranno decorsi cinque anni dall'ultimazione dei lavori
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATAÈ responsabilità solidale bis. Subito causa al committente invece che all'appaltatore. Lo prevede il dl n. 25/2017 (decreto che ha abrogato i voucher) in vigore dal 17 marzo.
Ritorno al passato per la responsabilità solidale negli appalti. Che vuol dire, però, più tutele a favore dei lavoratori. Dal 17 marzo committenti e appaltatori sono di nuovo sullo stesso piano nei confronti dei lavoratori che vantino diritti non riconosciuti per il lavoro prestato in un appalto (mancato pagamento di paghe e contributi): i lavoratori possono immediatamente far causa al committente, invece che all'appaltatore, cosa restata impossibile fino al 16 marzo (occorreva prima chiamare in giudizio l'appaltatore e solamente se non c'era soddisfacimento della pretesa si poteva denunciare il committente).

La novità è prevista dal dl n. 25/2017, in vigore dal 17 marzo.
La responsabilità solidale. È una speciale forma di garanzia dei diritti dei lavoratori dipendenti occupati nell'ambito di appalti, disciplinata in generale dal codice civile (art. 1676) e nel particolare dal dlgs n. 276/2003 (riforma Biagi del lavoro). L'ambito di applicazione della responsabilità solidale è oggi, però, più ampio e comprende anche i compensi e gli obblighi contributivi e assicurativi dovuti nei confronti dei lavoratori titolari di contratti di lavoro autonomo parasubordinato (co.co.co. ecc.).
Le regole fino al 16 marzo. La disciplina particolare rimasta vigente fino al 16 marzo (art. 29, comma 2, del citato dlgs n. 276/2003) prevedeva, quale forma di tutela dei lavoratori, l'obbligazione solidale tra il committente, imprenditore o datore di lavoro, e l'appaltatore, nonché di ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, in relazione alle retribuzioni (comprese le quote di trattamento di fine rapporto lavoro, tfr), ai contributi e ai premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.
Per le eventuali sanzioni civili, invece, risponde solo il responsabile dell'inadempimento. Tale disciplina stabiliva, tra l'altro, che il committente fosse chiamato in giudizio per il pagamento assieme all'appaltatore ed eventuali subappaltatori, il quale (committente) poteva eccepire a propria difesa il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accertava la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva poteva essere intentata nei confronti del committente soltanto dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori.
Le regole dal 17 marzo. Il dl n. 25/2017 (è lo stesso decreto che ha abrogato il lavoro accessorio, i voucher), all'art. 2, modifica la disciplina della responsabilità solidale abrogato all'art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003 le norme che disponevano:
   a) la possibilità, per i contratti collettivi, di derogare al principio della responsabilità solidale tra committente e appaltatore, qualora la contrattazione collettiva avesse individuato delle procedure di controllo e verifica della regolarità complessiva degli appalti (comma 1, lett. a);
   b) il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore, in base al quale, (ferma restando la responsabilità solidale per cui sono comunque chiamati in giudizio in via congiunta), la possibilità di intentare l'azione esecutiva nei confronti del committente era esercitabile solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori (comma 1, lett. b).
In pratica, la modifica normativa aumenta le tutele dei lavoratori. Infatti, nel caso non abbiano ricevuto il corretto pagamento di paghe e/o contributi, possono decidere liberamente di agire anche subito nei confronti del committente, senza avere l'obbligo (vigente fino al 16 marzo) di passare per la previa escussione dell'appaltatore o subappaltatore.
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Quattordici anni di passi avanti e passi indietro da parte del legislatore
La disciplina della responsabilità solidale è stata oggetto di particolare attenzione e cura da parte del legislatore. Si parte dall'art. 29, comma 2, del decreto di riforma Biagi (dlgs n. 276 del 2003), il cui testo originario sanciva l'obbligo solidale, tra committente (imprenditore o datore di lavoro) e l'appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell'appalto, alla corresponsione ai lavoratori dei trattamenti retributivi e dei contributi previdenziali dovuti. Ma in questi quattordici anni sono numerose le modifiche. Vediamo:
   a) l'art. 6, comma 1, del dlgs 251/2004 introduce la possibilità di derogare alla responsabilità solidale da parte dei contratti collettivi (stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative);
   b) l'art. 1, comma 911, della legge n. 296/2006 dispone che la responsabilità solidale opera entro il limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, e che la stessa vale anche per ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori (non solo quindi nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro e dell'appaltatore). Oltre a ciò, sopprime il riferimento a eventuali diverse previsioni contenute nei contratti collettivi;
   c) l'art. 21, comma 1, del dl n. 5/2012 specifica: 1) che le retribuzioni da corrispondere ai lavoratori s'intendono comprensive delle quote di trattamento di fine rapporto; 2) che oltre ai contributi previdenziali devono essere corrisposti anche i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto; 3) che resta escluso qualsiasi obbligo solidale per le sanzioni civili, di cui risponde pertanto solo il responsabile dell'inadempimento;
   d) l'art. 1 della legge n. 35/2012 (di conversione del predetto dl n. 5/2012) prevede che, se chiamato in causa per il pagamento assieme all'appaltatore, il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo. In tal caso, il giudice accerta la responsabilità solidale di entrambi gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro soltanto dopo un'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore. L'eccezione può essere sollevata anche se l'appaltatore non è stato chiamato in giudizio, ma in tal caso il committente imprenditore o datore di lavoro deve indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore su cui il lavoratore può agevolmente soddisfarsi. Il committente imprenditore o datore di lavoro che ha eseguito il pagamento può esercitare l'azione di regresso nei confronti del coobbligato;
   e) l'art. 4, comma 31, della legge n. 92/2012 (la c.d. riforma Fornero) dispone che: 1) la responsabilità solidale vale, salva diversa previsione delle norme della contrattazione collettiva, nell'ambito di metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti; 2) il committente (imprenditore o datore di lavoro) è sempre convenuto in giudizio unitamente all'appaltatore; 3) l'eccezione di preventiva escussione esercitata da parte del committente (come in precedenza previsto) deve riguardare non solo il patrimonio dell'appaltatore, ma anche quello di eventuali subappaltatori; 4) in ogni caso il committente non è tenuto (come in precedenza previsto) a indicare i beni del patrimonio dell'appaltatore su cui il lavoratore può soddisfarsi; 5) l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente non solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore (come in precedenza previsto), ma anche dopo l'infruttuosa escussione di quello di eventuali subappaltatori;
   f) l'art. 28, comma 2, del dlgs n. 175/2014 stabilisce l'obbligo, per il committente che ha effettuato il pagamento, di assolvere gli obblighi del sostituto d'imposta ai sensi delle disposizioni del dpr n. 600/1973 (articolo ItaliaOggi Sette del 10.04.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAInquinamento acustico all'angolo. Due decreti pubblicati ieri in Gazzetta Ufficiale.
Una stretta contro l'inquinamento acustico. Sulla Gazzetta Ufficiale n. 79 di ieri sono stati pubblicati due decreti legislativi in materia.
Si tratta del dlgs 17.02.2017, n. 41 «Disposizioni per l'armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico con la direttiva 2000/14/Ce e con il regolamento (Ce) n. 765/2008, a norma dell'articolo 19, comma 2, lettere i), l) e m) della legge 30.10.2014, n. 161» e del dlgs 17.02.2017, n. 42 «Disposizioni in materia di armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico, a norma dell'articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e), f) e h) della legge 30.10.2014, n. 161».
Ambedue entreranno in vigore il 19 aprile prossimo con l'obiettivo di armonizzare la normativa nazionale con la relativa disciplina dell'Unione europea. Il decreto di armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico (articolo 19, comma 2, lettere a), b), c), d), e), f) e h)) punta a ridurre le procedure di infrazione comunitaria aperte nei confronti dell'Italia in materia di rumore ambientale, operando una razionalizzazione della tempistica riguardante la trasmissione delle mappe acustiche e dei relativi piani d'azione, assicurando nel contempo anche l'informazione del pubblico.
L'intervento normativo, inoltre, risolve, come spiega una nota di Palazzo Chigi, in modo definitivo alcune criticità, riguardanti in particolare l'applicazione dei valori limite, il coordinamento tra i vari strumenti di pianificazione, nonché la valutazione dell'impatto acustico nella fase progettuale delle infrastrutture, al fine del contenimento dell'inquinamento derivante dal rumore perla salvaguardia della popolazione.
Infine si prevede una specifica disciplina delle attività fonte di rumore ambientale, fino ad oggi escluse dalla normativa, quali gli impianti eolici, le aviosuperfici, le elisuperfici, le idrosuperfici, le attività e discipline sportive e le attività di autodromi e piste motoristiche. Il decreto di armonizzazione della normativa nazionale in materia di inquinamento acustico con la direttiva 2000/14/Ce e con il regolamento Ce n. 765/2008 razionalizza invece la disciplina sulle macchine rumorose operanti all'aperto, con particolare riguardo a quelle importate da Paesi extracomunitari e poste in commercio nella distribuzione di dettaglio, affidando la responsabilità in materia agli importatori presenti sul territorio comunitario.
Il provvedimento mira anche a raggiungere obiettivi di semplificazione nei procedimenti di autorizzazione e di certificazione, anche con una revisione dei requisiti richiesti agli organismi di certificazione. Viene infine rafforzata la disciplina sanzionatoria, conferendo ad Ispra maggiori poteri di accertamento e verifica (articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICommissioni di gara fai-da-te. La nomina continua a essere di competenza delle p.a.. Cantone: albo e regolamento in stand-by in attesa del correttivo al codice appalti
La nomina delle commissioni giudicatrici nelle gare d'appalto continua ad essere di esclusiva spettanza delle pubbliche amministrazioni. Questo almeno fino a quando non sarà entrato a regime l'Albo dei commissari di gara previsto dal Codice appalti (art. 78 del dlgs n. 50/2016), a sua volta congelato fino all'emanazione dell'apposito regolamento Anac, pure questo messo in stand-by fino all'approvazione definitiva del decreto correttivo del codice.
Insomma, un congelamento a catena che lascia, per il momento, tutto come prima.

Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, ha sentito il bisogno di predisporre un apposito comunicato a seguito delle numerose richieste di chiarimenti giunte proprio sull'iscrizione all'Albo dei commissari.
Nel comunicato, approvato dal Consiglio dell'Anac nell'adunanza del 22 marzo e depositato il 3 aprile, Cantone sgombra il campo da ogni dubbio e chiarisce a beneficio delle amministrazioni e degli operatori pubblici e privati che «la nomina della commissione aggiudicatrice continua a essere di esclusiva spettanza delle p.a. secondo regole di organizzazione, competenza e trasparenza preventivamente individuate».
Come si ricorderà, lo scorso 16 novembre sono state emanate (con determinazione n. 1190 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 03/12/2016, n. 283), le linee guida Anac (n. 5/2016) per la scelta dei commissari di gara e l'iscrizione degli esperti nell'Albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici. In quella sede l'Anac ha chiarito che l'entrata in vigore dell'Albo è stata rinviata all'adozione del Regolamento che dovrà disciplinare le procedure informatiche per garantire la casualità della scelta dei commissari, la corrispondenza delle professionalità richieste, la rotazione degli esperti, nonché le modalità di comunicazione tra l'Autorità, le stazioni appaltanti e i commissari di gara.
Ad oggi però tale regolamento non è stato adottato e le ragioni, ammette l'Anac, vanno ricercate anche nel fatto che l'istituto è tra quelli oggetto di correzione ad opera del decreto correttivo. Che infatti modifica in modo significativo l'art. 78 del Codice prevedendo che l'Albo venga articolato su base regionale. Il dlgs correttivo prevede inoltre che, accanto alle sedute pubbliche, che restano la modalità di funzionamento ordinaria per le commissioni giudicatrici, possano essere previste anche sedute riservate «per la valutazione delle offerte tecniche e per altri eventuali adempimenti specifici» (articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTICommissione Ue: subappalti senza nessuna limitazione.
Nessuna limitazione al subappalto perché sarebbe incompatibile con la normativa europea.

Lo afferma la direzione generale Mercato interno della Commissione europea rispondendo all'esposto presentato dall'Ance, l'Associazione nazionale dei costruttori edili, e indirizzato al segretario generale della Commissione, Alexander Italianer.
La risposta di Bruxelles giunge nel pieno del dibattito parlamentare sullo schema di decreto correttivo del codice appalti che a sua volta modifica l'articolo 105 del decreto 50/2016 oggetto dell'esposto. Il correttivo prevede, ad esempio, che il limite del 30% alla subappaltabilità delle lavorazioni non si applichi più a tutte le lavorazioni, ma sia limitato alla cosiddetta «categoria prevalente», così come era previsto nel «codice De Lise» del 2006.
Ed è proprio sulla questione dei limiti che si sofferma Lowri Evans, direttore della Dg mercato interno, rilevando che la «Corte di giustizia, interpretando le disposizioni appena descritte (in particolare l'articolo 71 della direttiva 2014/24, ndr) ha ripetutamente censurato i limiti imposti dagli Stati membri al subappalto» chiarendo che «le restrizioni al subappalto per l'esecuzione di parti essenziali del contratto sono consentite soltanto quando l'amministrazione aggiudicatrice non è stata in grado di controllare le capacità tecniche e finanziarie dei subappaltatori in occasione della valutazione delle offerte e della selezione del miglior offerente».
La Commissione ricorda quindi che in un caso in cui si discuteva di un limite minimo del 25% all'esecuzione da parte dell'appaltatore con mezzi propri la giurisprudenza europea aveva affermato che è incompatibile con le direttive europee sugli appalti pubblici «una clausola che impone limitazioni al ricorso a subappaltatori per una parte dell'appalto fissato in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso e ciò a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori».
Nella lettera si evidenzia che l'articolo 105 dell'attuale Codice «sembra creare un sistema in cui il subappalto è in generale vietato» per cui la Direzione generale evidenzia che «tali meccanismi sono prima facie molto preoccupanti» e «in netto contrasto con le norme e con la giurisprudenza Ue sopra esposte».
In sostanza la disciplina italiana andrebbe a cozzare («sono in contraddizione») con alcuni obiettivi perseguiti dalle direttive europee fra cui, si legge nella lettera di Evans, quelli in tema di libera prestazione dei servizi, libera circolazione delle merci e di libertà di stabilimento, oltre che di favor alla partecipazione agli appalti pubblici da parte delle piccole e medie imprese.
Anche la norma sul limite di ribasso del 20% per le prestazioni affidate in subappalto (comma 14 dell'articolo 105) non mancano critiche: «La disposizione rischia di generare irregolarità in fase applicativa e sarebbe opportuno chiarirne la formulazione intervenendo nel testo» (articolo ItaliaOggi del 05.04.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIVideosorveglianza in casa non soggetta alla privacy.
Il privato che installa un impianto di videosorveglianza per finalità esclusivamente personali non è soggetto alle disposizioni del codice privacy. Purché gli impianti non riprendano anche le aree pubbliche in maniera indiscriminata.

Lo ha chiarito il Garante della privacy con il parere 07.03.2017 n. 113990 di prot. (tratto da www.dirittoegiustizia.it).
Un comune ha ricevuto un esposto da parte di un cittadino con tanto di immagini di un reato accadute sulla pubblica via. A seguito del conseguente sopralluogo per gli accertamenti del caso la polizia municipale ha inoltrato una richiesta di chiarimenti al garante circa l'applicazione del codice privacy ed eventuali irregolarità nella gestione delle telecamere da parte del privato cittadino.
Nel richiamare il provvedimento generale dell'autorità 08.04.2010, in corso di aggiornamento, il garante ha innanzitutto evidenziato che «se l'installazione di sistemi di videosorveglianza viene effettuata da persone fisiche per fini esclusivamente personali, la disciplina del codice non trova applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque necessaria l'adozione di cautele a tutela dei terzi».
In buona sostanza, prosegue il parere, l'uso delle telecamere di sorveglianza è possibile a protezione delle persone e delle proprietà, con o senza registrazione delle immagini, ma senza riprendere aree esterne soggette a pubblico passaggio. O perlomeno in questo caso limitando l'angolo visuale della telecamera oppure oscurando le riprese delle zone pubbliche. Quindi per installare sistemi di videosorveglianza privata sull'ingresso di casa, sui muri perimetrali e nelle aree private non serve alcuna autorizzazione. E i tempi di conservazione delle immagini risultano illimitati, senza necessità di applicare cartelli informativi.
Ma se le telecamere riprendono anche aree pubbliche sarà necessario adottare particolari cautele per non incorrere in sanzioni, anche nel rispetto delle indicazioni della Corte di giustizia europea secondo cui l'uso privato di un sistema di videosorveglianza è libero. Ma se gli impianti riprendono spazi pubblici occorrere rispettare integralmente il codice privacy (articolo ItaliaOggi del 28.03.2017).

APPALTINomine Rup, novembre spartiacque sui requisiti. Chiarimento Mit sul responsabile unico del procedimento.
Se il responsabile unico del procedimento è stato nominato prima del 22.11.2016 non sarà tenuto al possesso dei requisiti previsti dalle linee guida Anac 3/2016; si applicheranno comunque le norme del vecchio regolamento del Codice appalti del 2006.

È quanto emerge dalla risposta fornita dal sottosegretario alle infrastrutture e trasporti, Umberto Del Basso De Caro, a una interrogazione parlamentare
(INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/10777) presentata da Claudia Mannino del M5S avente ad oggetto le linee guida n. 3 recanti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l'affidamento di appalti e concessioni», entrate in vigore il 22.11.2016, data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale prevista dall'art. 213, comma 2.
In un chiarimento, l'Anac aveva spiegato che nuove linee guida «si applicano alle procedure per le quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente all'entrata in vigore delle citate linee guida, nonché alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore delle suddette, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte».
Il problema segnalato nell'interrogazione parlamentare atteneva ai casi in cui «un responsabile unico del procedimento, designato sulla base delle previgenti disposizioni e che abbia provveduto allo svolgimento delle attività connesse al suo incarico, non sia in possesso degli attuali requisiti previsti dalle linee guida e, di conseguenza, non risulti più idoneo a ricoprire il ruolo precedentemente affidatogli». Si tratta di un caso tipico di diritto transitorio incerto che mette in discussione la validità della nomina del Rup, senz'altro foriero di problemi soprattutto per le piccole stazioni appaltanti.
Uno degli elementi qualificanti le nuove linee guida è infatti la richiesta che il Rup sia «in possesso di titolo di studio e di esperienza e formazione professionale commisurati alla tipologia e all'entità dei lavori da affidare»; inoltre, «per appalti di particolare complessità il Rup deve possedere anche la qualifica di project manager».
Sul punto il ministero delle infrastrutture, che ha sentito l'Anac per poi specificare che «le indicazioni fornite con le linee guida n. 3/2016 e il chiarimento già dettato in ordine all'entrata in vigore delle linee guida vale nei casi in cui la nomina del Rup sia intervenuta contestualmente all'atto di avvio della procedura di gara».
Se invece la nomina del Rup è precedente l'indizione della procedura «deve ritenersi applicabile il principio del tempus regit actum» e quindi «per tali nomine valgono i requisiti previsti dal quadro normativo vigente al momento in cui le stesse sono state effettuate (art. 9 del dpr n. 207 del 2010). Resta inteso che condizione di validità delle nomine ricadenti sotto il previgente regime è costituita dal rispetto dei requisiti previsti dalla normativa previgente».
Nella sostanza, quindi al Rup nominato prima del 22 novembre non si applicano i nuovi requisiti e quindi si continua ad applicare la previgente disciplina regolamentare, ancorché abrogata che al comma 4 dell'articolo 9 prevedeva che fosse un tecnico abilitato alla professione o un funzionario tecnico con anzianità di servizio di almeno cinque anni (articolo ItaliaOggi del 17.03.2017).

GIURISPRUDENZA

INCARICHI PROFESSIONALIParcelle, riduzioni inderogabili. Per gli avvocati da chiarire le eccezioni ai limiti minimi. Il parere del Consiglio di stato sul decreto ministeriale relativo ai parametri forensi.
Compensi dell'avvocato con soglie di riduzione inderogabili.
È il Consiglio di Stato, con parere 27.12.2017 n. 2703 sul nuovo dm parametri (Schema di decreto del Ministro della giustizia recante “modifiche al decreto del Ministro della giustizia 10.03.2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31.12.2012, n. 247”), a invitare il ministero della giustizia a specificare meglio la norma che riguarda la tematica della fissazione delle soglie minime non derogabili ai compensi da parte degli organi giudicanti.
Le modifiche introdotte al dm n. 55 del 2014, infatti, secondo Palazzo Spada non sono chiare nella loro formulazione perché lasciano possibili spazi interpretativi sull'applicazione della locuzione «di regola» anche alle riduzioni percentuali dei valori di base dei parametri. La stessa locuzione, invece, secondo quanto riferito da via Arenula, dovrebbe applicarsi esclusivamente agli aumenti percentuali dei parametri forensi.
Inoltre, tra le rilevazioni formulate dal Consiglio di stato allo schema di decreto del ministero della giustizia recante «modifiche al dm 10.03.2014, n. 55, concernente la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense», via Arenula avrebbe accolto solo in parte le proposte di modifica al vecchio dm avanzate dal Consiglio nazionale forense, non esplicitando le ragioni in base alle quali ha proceduto in tal senso.
La motivazione delle scelte, al contrario, secondo il Consiglio di stato sarebbe stata opportuna per comprendere l'iter logico-giuridico seguito dall'Amministrazione nel predisporre l'intervento normativo. E ciò anche in considerazione del fatto che alcune delle proposte avanzate, come quella concernente la necessità di adeguare i parametri di remunerazione relativi alla fase decisoria dinanzi al Consiglio di stato, atteso che questi ultimi risultano inferiori rispetto ai parametri previsti per i giudizi dinanzi ai Tar, appaiono razionali.
In terzo luogo, Palazzo Spada rileva che le disposizioni, nel recepire alcune delle proposte formulate dal Cnf, risultano adeguate al raggiungimento degli obiettivi fissati dallo stesso ministero della giustizia, ma la bontà del provvedimento potrà essere compiutamente valutata solo in seguito alla concreta applicazione della normativa, attraverso l'esame e il monitoraggio da parte di via Arenula, con il contributo del Cnf, delle procedure di liquidazione impugnate dinanzi ai competenti organi giurisdizionali per via del mancato rispetto dei parametri previsti dalla legge.
Infine, il Consiglio di stato suggerisce al ministero di valutare la possibilità di suddividere l'articolo 1 dello schema di decreto in più articolo, ciascuno recante le modifiche a un singolo articolo del dm n. 55/2014 (articolo ItaliaOggi del 30.12.2017).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il diniego di installazione di una stazione radio-base in prossimità di parco pubblico.
Il diniego opposto dal Comune alla installazione della stazione radio base deve ritenersi conforme alla disposizione di cui all’art. 4, comma 8, della l.r. n. 11/2001 (nella formulazione risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 331/2003), alla cui stregua: “È comunque vietata l’installazione di impianti per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione in corrispondenza di asili, edifici scolastici, nonché strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali, carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi e strutture similari, e relative pertinenze … [omissis]”.
L’impianto di cui è causa, infatti, dovendo essere installato, come da progetto, a soli 5 metri dal confine del parco, verrebbe a collocarsi nelle immediate adiacenze dello stesso, ossia “in corrispondenza” di esso, secondo un’interpretazione di tale ultima espressione che tenga conto, necessariamente, della ratio della norma de qua (che verrebbe inevitabilmente frustrata qualora si consentisse l’installazione di impianti SRB nelle immediate adiacenze esterne ai siti sensibili) oltre che del tenore letterale della stessa (attraverso la valorizzazione sia del significato dell’espressione “in corrispondenza” sia del riferimento alle “relative pertinenze”).
Per tale ragione, nella fattispecie, non può che trovare applicazione il richiamato art. 4, comma 8, della l.r. n. 11/2001.

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... per l'annullamento:
   - del tacito rigetto dell’istanza relativa all’autorizzazione per l’installazione di una stazione radio-base in viale Borri n. 392, ai sensi dell’art. 87 del d.lgs. n. 259/2003, formatosi in data 10.4.2013, allo scadere del termine di 30 giorni decorrente dal ricevimento delle osservazioni presentate dall’istante, termine indicato nella nota comunale prot. 18271 del 07.03.2013;
...
2.1. L’autorizzazione in questione è stata negata in quanto l’area di installazione prevista nel progetto si trova a distanza di 5 metri dal confine di un’area destinata a parco pubblico.
È pacifico, al riguardo, che il manufatto in progetto risulta collocato ad una distanza di soli 5 metri dal confine di un’area (zona urbanistica CC38 del PRG) sulla quale è prevista (dai vigenti strumenti urbanistici) la realizzazione di un parco attrezzato ad uso pubblico.
Ciò posto, il diniego opposto dal Comune alla installazione della stazione radio base deve ritenersi conforme alla disposizione di cui all’art. 4, comma 8, della l.r. n. 11/2001 (nella formulazione risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 331/2003), alla cui stregua: “È comunque vietata l’installazione di impianti per le telecomunicazioni e per la radiotelevisione in corrispondenza di asili, edifici scolastici, nonché strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali, carceri, oratori, parco giochi, orfanotrofi e strutture similari, e relative pertinenze … [omissis]”.
L’impianto di cui è causa, infatti, dovendo essere installato, come da progetto, a soli 5 metri dal confine del parco, verrebbe a collocarsi nelle immediate adiacenze dello stesso, ossia “in corrispondenza” di esso, secondo un’interpretazione di tale ultima espressione che tenga conto, necessariamente, della ratio della norma de qua (che verrebbe inevitabilmente frustrata qualora si consentisse l’installazione di impianti SRB nelle immediate adiacenze esterne ai siti sensibili) oltre che del tenore letterale della stessa (attraverso la valorizzazione sia del significato dell’espressione “in corrispondenza” sia del riferimento alle “relative pertinenze”).
Per tale ragione, nella fattispecie, non può che trovare applicazione il richiamato art. 4, comma 8, della l.r. n. 11/2001.
2.2. In definitiva, il ricorso è infondato e va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.12.2017 n. 2489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIConcorsi, dare priorità alla progettazione interna. Cds su bozza aggiornamento linee guida sui servizi ingegneria.
Coordinare le linee guida sui servizi di ingegneria e architettura con la legge sull'equo compenso; priorità alla progettazione interna prima di utilizzare i concorsi in casi di rilevanza architettonica e storico-artistica; chiarire le modalità di rotazione di inviti e affidamenti negli affidamenti da 40 mila a 100 mila euro.

Sono questi alcuni dei passaggi del parere 22.12.2017 n. 2698, positivo, del Consiglio di Stato -Commissione Speciale- sulla bozza di documento Anac (autorità anticorruzione) che aggiorna le linee guida per i servizi di ingegneria e architettura (Aggiornamento delle linee guida n. 1, di attuazione del d.lgs. 18.04.2016, n. 50, recanti «Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria»).
Un passaggio importante del parere riguarda la materia dei compensi a base di gara. A tale riguardo, il collegio di Palazzo Spada ha precisato che la presa d'atto dell'abrogazione ad opera del decreto correttivo di cui al dlgs n. 56 del 2017 del sistema di tariffe minime previsto dall'art. 5 del decreto-legge 22.06.2012, n. 83 va accompagnata dal necessario coordinamento con la recente introduzione dell'obbligo di riconoscere «alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti» dalla pubblica amministrazione un equo compenso ai sensi dell'art. 19-quaterdecies, comma 3, della legge 04.12.2017, n.172.
In merito al passaggio delle linee guida in cui si prevede che l'amministrazione può ricorrere alle professionalità interne per i lavori di particolare rilevanza sotto il profilo architettonico, ambientale, paesaggistico, agronomico e forestale, storico-artistico, conservativo e tecnologico, ai sensi dell'art. 23, comma 2, dlgs n. 50 del 2016, il parere ha bocciato questa modifica, riaffermando che la norma del codice prevede che sia data priorità alla progettazione interna alla stazione appaltante nel momento in cui usa il termine «ricorrono».
Viene poi evidenziata una esigenza di coordinamento della parte delle linee guida dedicata al responsabile unico del procedimento (parte III, par. 5, cpv. 5.2) con la nuova disciplina dedicata a questa figura (Linee guida n. 3): in questo caso sarà l'autorità a valutare se il mantenimento della stessa disciplina all'intero delle linee guida sia opportuna.
Per gli affidamenti da 40 mila a 100 mila euro nel documento Anac si fa riferimento al principio di rotazione degli inviti anche se il decreto correttivo ha declinato il principio di rotazione a volte come «rotazione degli inviti e degli affidamenti» (art. 36, comma 1, del codice), altre volte (sempre nel 36 e nel 157) come «rotazione degli inviti». Pertanto il Consiglio di stato ha chiesto all'Anac di indicare «le specifiche modalità di rotazione, chiarendo in particolare se questa va riferita agli inviti o anche agli affidamenti».
Viene, inoltre, raccomandato un adeguato coordinamento con le linee guida sugli affidamenti sottosoglia, anch'esse in corso di aggiornamento, ma non ancora sottoposte al parere di questo Consiglio di Stato.
Il parere valuta positivamente l'inserimento dei contenuti del comunicato Anac del 23.12.2016 che ha ampliato le tipologie di attività utilizzabili per qualificarsi alle gare e, con riguardo alla redazione di varianti (utili a tale qualificazione), richiede che siano inserite, oltre a quelle proposte per appalti integrati, anche quelle predisposte per le imprese di costruzioni ai fini delle gare per sola esecuzione (articolo ItaliaOggi del 29.12.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Cessazione degli effetti delle proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 se il procedimento non si è concluso entro 180 giorni.
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Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non concluso – Cessazione degli effetti.
  
Processo amministrativo – Adunanza plenaria – Pronunce – Effetti - Modulazione portata temporale – Possibilità.
  
Paesaggio – Tutela – Vincolo – Proposto prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 – Procedimento non concluso – Cessazione degli effetti – Decorrenza – Individuazione.
  
Il combinato disposto –nell’ordine logico– dell’art. 157, comma 2, dell’art. 141, comma 5, dell’art. 140, comma 1 e dell’art. 139, comma 5, d.lgs. 22.01.2004, n. 42, deve interpretarsi nel senso che il vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– cessa qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni (1).
  
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato può modulare la portata temporale delle proprie pronunce, in particolare limitandone gli effetti al futuro, al verificarsi delle seguenti condizioni:
a) un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare;
b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata;
c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche (2).
  
Il termine di efficacia di 180 giorni del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 decorre dalla pubblicazione della presente sentenza dell’Adunanza plenaria che ha risolto la questione relativa alla cessazione degli effetti del vincolo preliminare nascente dalle proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificato con il d.lgs. 24.03.2006, n. 157 e con il d.lgs. 26.03.2008, n. 63– qualora il relativo procedimento non si sia concluso entro 180 giorni (3).
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   (1) La questione era stata rimessa da Cons. St., sez. IV, ord., 12.06.2017, n. 2838.
L’Alto Consesso ha ricordato che sul punto si erano manifestati tre diversi orientamenti.
Una prima tesi (che l’Adunanza plenaria ha definito tesi di “continuità”) ha affermato che le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 conservano efficacia, ancorché i relativi procedimenti non si sono conclusi nel termine legale, pur dopo le modifiche all’art. 141 (Cons. St., sez. VI, 27.07.2015, n. 3663).
La tesi contraria (che l’Adunanza plenaria ha definito tesi di “discontinuità”) ha postulato la cessazione degli effetti sulla base del dato logico-sistematico (Cons. St., sez. VI, 16.11.2016, n. 4746).
A tale dualismo la Sezione rimettente (sez. IV, ord., 12.06.2017, n. 2838) ha aggiunto argomentazioni contrapposte.
Dal lato della tesi della continuità ha richiamato la sentenza 23.07.1997 n. 262 della Corte costituzionale, secondo cui “il mancato esercizio delle attribuzioni da parte dell’amministrazione entro il termine per provvedere non comporta ex se, in difetto di espressa previsione, la decadenza del potere, né il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo. In tali ipotesi, sempre che il legislatore non abbia attribuito un particolare significato all’inerzia-silenzio, si verifica un’illegittimità di comportamenti derivante da inadempimento di obblighi”.
Ha poi evidenziato che la ratio della persistenza dell’efficacia della proposta di vincolo è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 57 del 2015) e l’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 6 del 2015), chiamate a pronunciarsi sul termine dell’azione risarcitoria introdotto dall’art. 30, comma 3, c.p.a., ad escludere l’applicazione di norme che fissano decadenze a rapporti anteriori, optando per l’ultrattività delle norme precedenti. Infine, la Sezione rimettente ha superato la possibile obiezione fondata sul principio di proporzionalità, atteso che la normativa nazionale di tutela del paesaggio attiene a una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione (Corte giust. ue, sez. X, 06.03.2014, C-206/13).
Dal lato della tesi della discontinuità la Sezione rimettente ha sottolineato che, con i decreti legislativi 24.03.2006, n. 157 e 26.03.2008, n. 63 il legislatore ha espresso il suo favore verso la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento, a fronte del quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, un’eccezione relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004.
Ha poi contrastato l’argomento letterale, poiché, da un lato appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati, dall’altro lato, tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad uniformare il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
L’Adunanza Plenaria ha ritenuto preferibile la tesi minoritaria della discontinuità, ravvisando tuttavia l’esigenza di arricchirne (e in parte modificarne) le argomentazioni e individuarne gli effetti.
La questione, ad avviso dell’Alto Consesso, deve essere risolta su un altro piano: il rapporto tra (perdita di) efficacia delle proposte e (perdita di) efficacia del vincolo preliminare sul bene che ne costituisce oggetto.
Nel ragionamento di entrambi gli orientamenti (c.d. di continuità e di discontinuità), muovendo dalla tacita premessa che la proposta di vincolo ha natura dichiarativa, si ritiene che i due momenti non siano separabili.
L’Adunanza Plenaria ha chiarito, tra l’altro che sul piano teleologico, la tesi della discontinuità si giustifica alla luce della considerazione, da parte del legislatore, di una pluralità di valori costituzionali, quali, oltre quello del paesaggio, la protezione della proprietà privata (art. 41 Cost., nonché art. 1 del I protocollo addizionale alla CEDU e quindi art. 117 Cost.), e il buon andamento della Pubblica amministrazione.
Può ulteriormente aggiungersi che la tesi della continuità si pone in conflitto con il canone della ragionevolezza, poiché ammette che il vincolo preliminare possa essere efficace anche a distanza di numerosi anni dalla proposta, ancorché da tempo sia stata introdotta nel Codice una disposizione che ne sancisce la perdita di efficacia.
L’immagine delle “super proposte”, coniate per le proposte di vincolo più antiche, è uno stratagemma retorico per evidenziare l’irrazionalità di una soluzione che punti a conservarne l’effetto vincolante a distanza di molti anni e al subentrare di una disciplina che ne prevede la decadenza allo spirare del termine fissato per la conclusione del procedimento.
Tale argomento non sembra possa essere superato dalla possibilità, per il privato, di esperire l’azione contro l’inerzia prevista dal Codice del processo amministrativo. Ed infatti, gravare il privato dell’onere di agire per la conclusione di un procedimento d’ufficio, diretto a vincolare la sua proprietà, appare obiettivamente paradossale.
   (2) Ha chiarito l’Adunanza plenaria che la costante dei cinque commi in cui si articola l’art. 99 c.p.a. è il principio di diritto, la cui enunciazione è lo scopo primo (se non unico: cfr. commi 4 e 5) dell’intervento della Plenaria.
Ciò che nel comune giudizio amministrativo è il contenuto di accertamento in iure della sentenza, meramente strumentale alla pronuncia di annullamento (pertanto confinato nella motivazione e delimitato dal caso concreto), nel giudizio in Plenaria identifica la pronuncia in sé, con due conseguenze.
La prima conseguenza è il riconoscimento della natura essenzialmente interpretativa delle pronunce dell’Adunanza Plenaria, in particolare quando essa ritenga di enunciare il principio di diritto e di restituire per il resto il giudizio alla sezione remittente.
Tale carattere consente di operare un (relativo) parallelismo con le decisioni pregiudiziali della Corte di giustizia, le quali hanno la stessa efficacia delle disposizioni interpretate e, pertanto, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiegano i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione delle medesime.
Come le sentenze di annullamento e quelle di incostituzionalità, anche le sentenze interpretative hanno efficacia retroattiva, ma per ragioni diverse: non si tratta di eliminare un atto dal mondo giuridico per vizi genetici o di dichiarare l’originaria difformità di un legge dalla fonte superiore, ma di accertare il significato di un frammento dell’ordinamento giuridico qual era sin dal momento della sua venuta ad esistenza.
In tali ipotesi la deroga alla retroattività trova fondamento, più che nel principio di effettività della tutela giurisdizionale, nel principio di certezza del diritto: si limita la possibilità per gli interessati di far valere la norma giuridica come interpretata, se vi è il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa, sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni (in tal senso, ma con riferimento all’ordinamento comunitario, Corte di Giustizia, 15.03.2005, in C-209/03).
A giustificazione dell’assunto vi è anche un dato testuale: l’art. 113, comma 3, Cost. stabilisce che “La legge determina quali organi di giurisdizione possono annullare gli atti della pubblica amministrazione nei casi e con gli effetti previsti dalla legge stessa”. L’interposizione del legislatore non occorre allorquando via sia un principio generale dell’ordinamento UE direttamente applicabile che permetta al giudice amministrativo di pronunciarsi sulla legittimità degli atti della pubblica amministrazione modulando gli effetti della propria sentenza, e ciò vale in particolare quando il giudizio di annullamento presenti uno spiccato carattere interpretativo.
La seconda conseguenza è la praticabilità della prospective overruling, in forza della quale il principio di diritto, affermato in contrasto con l’orientamento prevalente in passato, non verrà applicato (con vari aggiustamenti) alle situazioni anteriori alla data della decisione. La prospective overruling si esplicita, dunque, nella possibilità per il giudice di modificare un precedente, ritenuto inadeguato, per tutti i casi che si presenteranno in futuro, decidendo però il caso alla sua immediata cognizione in base alla regola superata.
In conclusione: all’Adunanza Plenaria è concessa la possibilità di limitare al futuro l’applicazione del principio di diritto al verificarsi delle seguenti condizioni: a) l’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni da interpretare; b) l’esistenza di un orientamento prevalente contrario all’interpretazione adottata; c) la necessità di tutelare uno o più principi costituzionali o, comunque, di evitare gravi ripercussioni socio-economiche.
Con riferimento al caso sottoposto al suo esame l’Alto Consesso ha ritenuto sussistere tutte le condizioni, poiché: a) il dato letterale è equivoco; b) la tesi della continuità è prevalente; c) è necessario, a tutela del paesaggio, evitare la cessazione istantanea di tutti i vincoli preliminari attualmente esistenti su aree di interesse naturalistico o culturale.
   (3) Avendo ritenuto che le proposte di dichiarazione di notevole interesse pubblico anteriori al Codice conservino efficacia, mentre l’effetto preliminare di vincolo che ad esse si ricollega cessi decorso –senza che il relativo procedimento si sia concluso– il termine previsto dall’art. 140, comma 1 (180 giorni, che per tali proposte dovrebbe essere calcolato a partire dal d.lgs. n. 63 del 2008, ovvero dal d.lgs. n. 157 del 2006), la delimitazione al futuro di tale principio implica che l’effetto preliminare cessi decorsi 180 giorni dalla pubblicazione della sentenza.
Resta ferma la possibilità del legislatore, in pendenza di detto termine, di intervenire a disciplinare ex novo la fattispecie, nel rispetto del principio di ragionevolezza e dei valori costituzionali difesi dalla tesi della discontinuità (ad esempio allungando il termine per la conclusione dei procedimenti in questione del tempo strettamente necessario al censimento delle proposte esistenti) (
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza 22.12.2017 n. 13 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Gestione di rifiuti provenienti da demolizioni edili - Disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria - Limiti - Riutilizzo quale materiale ammendante o di riempimento del terreno - Art. 256 d.l.vo n.152/2006 - Giurisprudenza.
In tema di gestione dei rifiuti, la libera disponibilità dell'area ove sono stati depositati in modo incontrollato i rifiuti provenienti da demolizioni edili -dei quali, non è consentita la equiparazione ai materiali da scavo e, pertanto, la applicazione della relativa disciplina derogatoria rispetto a quella ordinaria, trattandosi, invece, di ordinari rifiuti a tutti gli effetti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/05/2002, n. 16383), a meno che gli stessi non siano oggetto di riutilizzo, quale materiale ammendante o di riempimento del terreno, nell'ambito spaziale dello stesso cantiere ove essi sono stati prodotti (Corte di cassazione, Sezione III penale 18/07/2011, n. 28704; idem Sezione III penale, 20/10/2003, n. 37508)- appare fattore logicamente idoneo a comportare, sia per la concreta possibilità di reiterazione delle attività di rilascio di tali rifiuti, sia per il degrado cui gli stessi in assenza di controllo possono andare incontro, un aggravamento delle conseguenze del reato; parimenti dicasi per ciò che attiene alla installazione dei prefabbricati, per i quali la sottrazione alla disponibilità evita, evidentemente, sia l'utilizzo dei medesimi che la installazione in essi delle utenze ai servizi elettrici ed idrici, operazioni che senza dubbio aggraverebbero le conseguenze del reato ipotizzato (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.12.2017 n. 57128 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIRitirabile aggiudicazione provvisoria della gara. Non è atto d'annullamento in autotutela.
Il ritiro dell'aggiudicazione provvisoria di una gara per ragioni tecniche non è equiparabile a un atto di annullamento in autotutela.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 21.12.2017 n. 6002.
Un comune aveva indetto una gara per l'affidamento, mediante project financing, dell'intervento di restauro, consolidamento e valorizzazione di un convento. Alla gara aveva partecipato un raggruppamento che aveva presentato un progetto che prevedeva, tra l'altro, la realizzazione di un parcheggio interrato. Il raggruppamento, poi risultato aggiudicatario provvisorio, si era vista annullata l'aggiudicazione provvisoria in quanto l'intervento proposto (parcheggio) comportava un elevato rischio di frane.
La mancata realizzazione delle nuove volumetrie entro terra da destinare a garage avrebbe dovuto comportare inevitabilmente una riformulazione del piano economico finanziario il che rendeva impossibile procedere all'espletamento della gara. Il concorrente impugnava il ritiro dell'aggiudicazione ma il Consiglio di stato confermava la legittimità dell'operato del comune e con essa anche la sentenza di primo grado.
Nella sentenza si premette che l'aggiudicazione provvisoria ha natura di atto endoprocedimentale che non crea affidamenti in capo al concorrente interinalmente individuato come aggiudicatario; si tratta infatti di un atto che può anche non essere seguito dall'aggiudicazione definitiva, la quale, concludendo il procedimento di gara, crea le condizioni necessarie per l'avvio della successiva fase contrattuale.
Pertanto, fino al momento dell'aggiudicazione definitiva la stazione appaltante può sempre riesaminare il procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale con l'intervenuta adozione del provvedimento conclusivo della stessa.
Ne consegue che il provvedimento di ritiro di un atto infraprocedimentale, quale l'aggiudicazione provvisoria, non soggiace alla disciplina dettata per gli atti di autotutela (articolo ItaliaOggi del 29.11.2017).
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MASSIMA
Le censure così sinteticamente riassunte, che si prestano ad una trattazione congiunta, non meritano accoglimento.
Occorre in primo luogo rilevare che il tribunale amministrativo ha escluso che nel caso di specie fosse configurabile un’aggiudicazione definitiva sulla base della seguente motivazione: <<la connotazione (ancora) provvisoria dell’effetto di aggiudicazione maturato in capo al R.T.I. costituendo tra le società Ma.Re. s.r.l. e Ca. di Li. s.r.l., sul quale incide l’impugnato provvedimento di annullamento, è insita nel disposto dell’art. 95, comma 4, del bando da cui è scaturito il procedimento di gara, ai sensi del quale “l’efficacia dell’aggiudicazione definitiva e la stipula del contratto sono subordinate all’ottenimento dei pareri tecnici e amministrativi inerenti l’intervento…”>>.
Tale dirimente rilievo non è stato fatto oggetto di specifica critica da parte dell’appellante e vale a rendere inconferente la censura prospettata con esclusivo riferimento all’asserita violazione del comma 1 del medesimo art. 95, posto che il giudice di prime cure ha basato il proprio ragionamento su una diversa norma (per l’appunto l’art. 95, comma 4).
Sul presupposto ormai divenuto, alla luce delle illustrate considerazioni, incontestabile che l’aggiudicazione in favore del RTI Ma.Re./Ca. di Li. non avesse ancora assunto i connotati della definitività, risultano infondate tutte le doglianze volte a lamentare la violazione di norme e principi che regolano l’esercizio dei poteri di autotutela.
Ed invero, per consolidato orientamento giurisprudenziale,
l’aggiudicazione provvisoria ha natura di atto endoprocedimentale inidoneo a creare affidamenti in capo al concorrente interinalmente individuato come aggiudicatario, rientrando nella fisiologia degli eventi la possibilità che ad essa non segua l’aggiudicazione definitiva, la quale, concludendo il procedimento di gara, crea le condizioni necessarie per l'avvio della successiva fase contrattuale (Cons. Stato, Sez. V, 03/07/2017, n. 3248).
Sino al momento dell’aggiudicazione definitiva la stazione appaltante può sempre riesaminare il procedimento di gara al fine di emendarlo da eventuali errori commessi o da illegittimità verificatesi, senza che ciò costituisca manifestazione, in senso tecnico, del potere di autotutela, il quale, avendo natura di atto di secondo grado, presuppone esaurita la precedente fase procedimentale con l’intervenuta adozione del provvedimento conclusivo della stessa.
Ne consegue che
il provvedimento di ritiro di un atto infraprocedimentale, quale l’aggiudicazione provvisoria, non soggiace alla disciplina dettata per gli atti di autotutela (ex plurimis Cons. Stato, Sez. V, 20/04/2012, n. 2338; Sez. III, 04/09/2013 n. 4433)
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EDILIZIA PRIVATA: Il comma 1 dell’art. 9 L. 24/03/1989 n. 122, per quanto qui rileva, dispone che: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”.
La possibilità, ivi contemplata, di realizzare parcheggi pertinenziali in deroga alla normativa urbanistica, finalizzata ad agevolarne la costruzione con l’obiettivo di preminente interesse pubblico di decongestionare i centri urbani dal traffico, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi in senso strettamente letterale.
La deroga deve, quindi, ritenersi limitata a consentire il superamento di impedimenti relativi alla destinazione di zona o ai parametri urbanistici ed edilizi, ma non può estendersi sino a permettere la realizzazione di interventi vietati dalla presenza di specifici vincoli sull’area interessata.
Peraltro il medesimo comma 1 dell’art. 9 dispone che “Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale” e in tale ambito si inquadrano anche le norme poste a tutela dell'assetto idrogeologico, con la conseguenza che pure i vincoli di quest’ultima specie devono ritenersi inderogabili in virtù della norma in questione.

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Non colgono nel segno nemmeno le doglianze volte a censurare l’impugnata sentenza nella parte in cui ha respinto i motivi diretti ad evidenziare gli errori asseritamente commessi dalla stazione appaltante nell’evidenziare profili di contrasto del progetto proposto dal RTI dichiarato aggiudicatario provvisorio con le disposizioni del PSAI e con la normativa urbanistica.
Sul punto ha carattere dirimente ed assorbente il rilievo che il progetto in questione prevedeva la realizzazione di un parcheggio interrato su due livelli per la cui realizzazione occorreva una variante urbanistica non consentita dalle disposizioni del PSAI, ricadendo l’area d’intervento parte in zona a rischio molto elevato di frana (R4) e parte in zona a rischio molto elevato di colata (R4).
Non è corretto ritenere -come fa l’appellante- che potesse prescindersi dalla variante urbanistica in quanto il parcheggio, di carattere accessorio, avrebbe potuto essere realizzato in deroga alle norme del PRG ai sensi dell’art. 9 della L. 24/03/1989, n. 122.
Il comma 1 del citato articolo, per quanto qui rileva, dispone che: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”.
La possibilità, ivi contemplata, di realizzare parcheggi pertinenziali in deroga alla normativa urbanistica, finalizzata ad agevolarne la costruzione con l’obiettivo di preminente interesse pubblico di decongestionare i centri urbani dal traffico, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi in senso strettamente letterale (Cons. Stato, Sez. IV, 19/07/2017, n. 3566).
La deroga deve, quindi, ritenersi limitata a consentire il superamento di impedimenti relativi alla destinazione di zona o ai parametri urbanistici ed edilizi, ma non può estendersi sino a permettere la realizzazione di interventi vietati dalla presenza di specifici vincoli sull’area interessata.
Peraltro il medesimo comma 1 dell’art. 9 dispone che “Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale” e in tale ambito si inquadrano anche le norme poste a tutela dell'assetto idrogeologico, con la conseguenza che pure i vincoli di quest’ultima specie devono ritenersi inderogabili in virtù della norma in questione.
Nel caso di specie non è contestato che l’area interessata dal intervento progettato dal RTI dichiarato aggiudicatario provvisorio ricada in zona definita R4 dal PSAI, per cui non può dubitarsi dell’applicabilità della normativa vincolistica introdotta da tale strumento che osta alla realizzabilità del parcheggio interrato.
Diversamente da quanto dedotto dall’appellante mediante il riferimento alla nota del tecnico comunale 03/02/2016, n. 1243, nessun argomento a favore dell’ammissibilità dell’intervento può trarsi dal fatto che il Convento di San Domenico rientrasse tra le “attrezzature di interesse comune” preesistenti all’approvazione del PRG, per le quali (ai sensi degli artt. 13, 14 e 19 del detto strumento di pianificazione) è consentita la destinazione a “residenze turistiche ed alberghi pensioni e ristoranti mediante intervento diretto”, nonché la ristrutturazione edilizia.
Come emerge, infatti, dalla predetta nota il citato art. 13 non ammette nuove volumetrie e fra queste rientrano senz’altro anche quelle interrate connesse alla prevista realizzazione del parcheggio sotterraneo.
L’irrealizzabilità del parcheggio si riflette sull’ammissibilità dell’intero progetto, costituendo il primo elemento essenziale del secondo.
Invero, come si ricava dalla determinazione n. 61/2016 con cui è stato adottato l’avversato provvedimento di ritiro, “la mancata realizzazione delle nuove volumetrie entro terra da destinare a garage, comporta inevitabilmente una riformulazione del piano economico-finanziario e quindi della proposta stessa nel suo complesso”.
Peraltro, diversamente da quanto dedotto dall’appellante, la stazione appaltante non poteva consentire modifiche progettuali che prevedessero la costruzione del parcheggio su altra area, in quanto ciò avrebbe comportato una modifica della proposta non consentita in epoca successiva all’espletamento della gara (
Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 21.12.2017 n. 6002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Affinché possa configurarsi un affidamento incolpevole in capo al privato, gli ostacoli che si frappongono all’esecuzione dell’intervento devono ricadere nella esclusiva sfera di controllo dell’Amministrazione, in capo alla quale sorge quindi un dovere di protezione nell’ambito del quasi-rapporto contrattuale che sorge per effetto della instaurazione delle trattative contrattuali (rectius, del procedimento di evidenza pubblica).
Come infatti evidenziato in giurisprudenza, “gli artt. 1337 e 1338 cod. civ. mirano a tutelare il contraente in buona fede ingannato o fuorviato dalla ignoranza di una causa di invalidità (o di scarsa convenienza) del contratto, che gli sia stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere: sicché, la buona fede riceve protezione solo se non sia condizionata, a sua volta, da negligenza o ignoranza colpevole della parte”.
Nella specie, la contrarietà dell’intervento rispetto alle norme del P.S.A.I. avrebbe potuto essere agevolmente rilevata anche dalla parte ricorrente, sì che il mancato controllo da parte sua delle condizioni per la realizzazione della sua proposta progettuale integra la violazione di un elementare obbligo di diligenza, impeditivo della formazione dell’invocato affidamento.

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Col secondo motivo l’appellante lamenta che il giudice di prime cure avrebbe errato a respingere la domanda, proposta in via subordinata, con la quale era stata chiesta la condanna del Comune intimato al risarcimento dei danni sofferti dalla Ce.Sa.Da.Re. a titolo di responsabilità precontrattuale.
Il motivo è infondato.
Come correttamente rilevato dall’adito tribunale “affinché possa configurarsi un affidamento incolpevole in capo al privato, gli ostacoli che si frappongono all’esecuzione dell’intervento devono ricadere nella esclusiva sfera di controllo dell’Amministrazione, in capo alla quale sorge quindi un dovere di protezione nell’ambito del quasi-rapporto contrattuale che sorge per effetto della instaurazione delle trattative contrattuali (rectius, del procedimento di evidenza pubblica).
Come infatti evidenziato in giurisprudenza (cfr. TAR Piemonte, Sez. I, n. 711 del 02.05.2015), “gli artt. 1337 e 1338 cod. civ. mirano a tutelare il contraente in buona fede ingannato o fuorviato dalla ignoranza di una causa di invalidità (o di scarsa convenienza) del contratto, che gli sia stata sottaciuta e che non era nei suoi poteri conoscere: sicché, la buona fede riceve protezione solo se non sia condizionata, a sua volta, da negligenza o ignoranza colpevole della parte”.
Nella specie, la contrarietà dell’intervento rispetto alle norme del P.S.A.I. avrebbe potuto essere agevolmente rilevata anche dalla parte ricorrente, sì che il mancato controllo da parte sua delle condizioni per la realizzazione della sua proposta progettuale integra la violazione di un elementare obbligo di diligenza, impeditivo della formazione dell’invocato affidamento
”.
A tale motivazione l’appellante oppone il fatto che -a suo dire- l’affermato contrasto della propria proposta progettuale con le norme del PSAI non sussisterebbe, ma il presupposto da cui muove la censura è smentito dalle considerazioni più sopra svolte in ordine all’irrealizzabilità dell’intervento in questione.
A prescindere da ciò, occorre rilevare che in ogni caso la domanda non potrebbe trovare accoglimento, non avendo la Ce.Sa.Do.Re. specificato nell’atto d’appello quali siano i danni sofferti e non essendo sufficiente, al riguardo, il mero rinvio al ricorso di primo grado.
L’appello va, in definitiva, respinto (
Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 21.12.2017 n. 6002 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla esclusione dalla gara perché si è allegata all’offerta una dichiarazione con la quale si manifesta la volontà di non prestare acquiescenza al bando e al disciplinare di gara.
 Con la dichiarazione che fonda la decisione di esclusione le ricorrenti hanno esplicitato che l’accettazione incondizionata delle previsioni della lex specialis di gara non doveva essere intesa come l’abdicazione al diritto costituzionale di difesa.
Si tratta, indubbiamente, di una dichiarazione inutile, posto che «nelle gare pubbliche l’accettazione delle regole di partecipazione non comporta l’inoppugnabilità di clausole del bando regolanti la procedura che fossero, in ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non può mai opporre ad una concorrente un’acquiescenza implicita alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione dei principi fissati dagli artt. 24, comma 1, e, 113 comma 1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale».
Ma proprio per questo si tratta di una dichiarazione priva di effetti, in particolare di effetti pregiudizievoli per le dichiaranti.
Non appare, invero, condivisibile la ricostruzione della stazione appaltante, secondo cui in tal modo le ricorrenti avrebbero presentato un’offerta condizionata ovvero avrebbero manifestato una volontà contraria al vincolarsi nei confronti dell’Amministrazione.
Nulla di tutto questo emerge dal tenore letterale della dichiarazione di cui si discute. E, in applicazione del canone interpretativo della conservazione di cui all’articolo 1367 Cod. civ., nel dubbio occorre dare preferenza all’interpretazione che attribuisce efficacia alla manifestazione di volontà, e dunque all’intenzione di vincolarsi, piuttosto che a quella (davvero incomprensibile) di presentare un’offerta riservandosi però la possibilità di ritirarsi laddove detta offerta dovesse venire accettata (con l’aggiudicazione) dalla stazione appaltante.
In definitiva, è illegittima l’esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica delle società ricorrenti semplicemente per aver fatto riserva, se del caso, di esercitare il diritto di difesa costituzionalmente riconosciutogli.

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1.1. Il Comune di Sesto al Reghena ha bandito la procedura aperta ex articolo 60 D.Lgs. n. 50/2016 per l’aggiudicazione, secondo il criterio del minor prezzo ai sensi dell’articolo 95, comma 4, lettera b), del medesimo D.Lgs. n. 50/2016, dell’appalto del servizio di trasporto pubblico con scuolabus per gli anni scolastici 2017/2018 – 2018/2019 – 2019/2020 – 2020/2021.
1.2. Alla procedura hanno partecipato anche le società FD.To. S.r.l. e Al.In. S.r.l. in costituendo R.T.I., ma ne sono state escluse perché hanno allegato all’offerta una dichiarazione con la quale manifestavano la volontà di non prestare acquiescenza al bando e al disciplinare di gara in particolare dove indicavano quale criterio di scelta del contraente quello del minor prezzo.
La stazione appaltante ha, infatti, ritenuto in tal modo violata la previsione di cui alla lettera i) del paragrafo L) “Altre informazioni” del Disciplinare di gara, che, viceversa, imporrebbe un’accettazione piena e incondizionata della lex specialis.
2.1 Avverso la propria esclusione, così come avverso l’aggiudicazione dell’appalto a favore della società Eu.To. S.r.l., insorgono le società FD.To. S.r.l. e Al.In. S.r.l., chiedendone la declaratoria di nullità ovvero l’annullamento, previa sospensione cautelare dell’efficacia, con conseguente apertura dell’offerta delle ricorrenti e declaratoria di inefficacia del contratto nelle more eventualmente stipulato tra le parti.
...
8.1. Passando al merito, il ricorso è fondato.
8.2. Con la dichiarazione che fonda la decisione di esclusione le ricorrenti hanno esplicitato che l’accettazione incondizionata delle previsioni della lex specialis di gara non doveva essere intesa come l’abdicazione al diritto costituzionale di difesa.
Si tratta, indubbiamente, di una dichiarazione inutile, posto che «nelle gare pubbliche l’accettazione delle regole di partecipazione non comporta l’inoppugnabilità di clausole del bando regolanti la procedura che fossero, in ipotesi, ritenute illegittime, in quanto una stazione appaltante non può mai opporre ad una concorrente un’acquiescenza implicita alle clausole del procedimento, che si tradurrebbe in una palese ed inammissibile violazione dei principi fissati dagli artt. 24, comma 1, e, 113 comma 1, Cost., ovvero nella esclusione della possibilità di tutela giurisdizionale» (così, C.d.S., Sez. III, sentenza n. 2507/2016).
Ma proprio per questo si tratta di una dichiarazione priva di effetti, in particolare di effetti pregiudizievoli per le dichiaranti.
Non appare, invero, condivisibile la ricostruzione della stazione appaltante, secondo cui in tal modo le ricorrenti avrebbero presentato un’offerta condizionata ovvero avrebbero manifestato una volontà contraria al vincolarsi nei confronti dell’Amministrazione.
Nulla di tutto questo emerge dal tenore letterale della dichiarazione di cui si discute. Anzi, vi sono in atti due dichiarazioni, rispettivamente, dei legali rappresentanti di FD.To. S.r.l. e di Al.In.l S.r.l., parimenti allegate all’offerta, di accettazione incondizionata e senza riserve di «tutte le norme e disposizioni contenute nel Bando di Gara, nel Capitolato Speciale d’Appalto, nel Disciplinare di Gara, nel progetto gestionale».
E, in applicazione del canone interpretativo della conservazione di cui all’articolo 1367 Cod. civ., nel dubbio occorre dare preferenza all’interpretazione che attribuisce efficacia alla manifestazione di volontà, e dunque all’intenzione di vincolarsi, piuttosto che a quella (davvero incomprensibile) di presentare un’offerta riservandosi però la possibilità di ritirarsi laddove detta offerta dovesse venire accettata (con l’aggiudicazione) dalla stazione appaltante.
8.3. In definitiva, è illegittima l’esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica delle società ricorrenti semplicemente per aver fatto riserva, se del caso, di esercitare il diritto di difesa costituzionalmente riconosciutogli.
9.1. Di contro, non può accedersi, per un duplice ordine di ragioni, alla tesi del Comune per cui l’aver subordinato la promozione del ricorso giurisdizionale volto all’annullamento degli atti di gara alla mancata aggiudicazione dell’appalto concretizzerebbe un tentativo di condizionare il giudizio della Commissione di gara.
Innanzitutto, si tratta dell’esplicitazione del principio dell’interesse, per cui ricorre chi ha subito una lesione dall’atto impugnato, e non da chi ne ha ricevuto un beneficio, come per l’appunto l’aggiudicatario dell’appalto.
In secondo luogo, essendo il criterio di aggiudicazione del contratto quello del prezzo più basso, la Commissione di gara non era chiamata ad alcuna valutazione tecnico-discrezionale, e, pertanto, non ne poteva essere coartata la determinazione.
9.2. Da ultimo risultano inconferenti rispetto all’oggetto del presente giudizio le argomentazioni che la difesa del Comune spende in punto di trattamento dei dati personali.
10.1. In conclusione, il ricorso è fondato e viene accolto.
Per l’effetto sono annullati tutti gli atti di gara a partire dall’esclusione delle società ricorrenti.
10.2. Non si fa luogo alla declaratoria di inefficacia del contratto, stante l’impegno del Comune a non stipularlo nelle more del presente giudizio (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 21.12.2017 n. 406 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittimo il provvedimento comunale con il quale è stato ordinato di non eseguire i lavori di cui alla presentata DIA dichiarando la stessa “priva di efficacia ed i lavori edili, ove in corso di realizzazione, privi di titolo” stante il mancato preventivo pagamento del contributo di costruzione.
Invero, presupposto indefettibile perché una DIA possa essere produttiva di effetti è la completezza, oltre che la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, con la conseguenza che una DIA priva dei requisiti essenziali deve ritenersi inefficace e improduttiva di effetti.
In tale ipotesi, il provvedimento comunale, nel rimuovere incidentalmente la DIA, in sostanza verifica l’originaria inefficacia della stessa senza, peraltro, il limite di dover agire entro un preciso termine, non potendo ritenersi l’avvenuto perfezionamento della denuncia di inizio attività per silentium.
Non avendo parte ricorrente provveduto al versamento dei contributi previsti dalla legge regionale n. 21 del 2009 per effetto del rinvio, contenuto nell’art. 6, comma 1, all’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 -il quale prevede la soggezione delle SCIA al pagamento dei contributi di costruzione, rinviando, a sua volta, all’art. 16 del testo normativo, che subordina il titolo edilizio alla corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione- deve dunque ritenersi che la DIA dallo stesso presentata non si sia perfezionata.
Né possono assumere rilievo le originali considerazioni di parte ricorrente volte a ricondurre la scelta di non procedere al versamento dei previsti contributi a criteri di ragionevolezza e di buon andamento della Pubblica Amministrazione nella considerazione che, in caso di esito negativo della DIA, si sarebbe dovuto procedere alla restituzione delle somme versate, non potendo le personali valutazioni del ricorrente consentire la disapplicazione di disposizioni normative.
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   - Considerato che viene impugnato il provvedimento –meglio indicato in epigrafe nei suoi estremi– con il quale è stato ordinato al ricorrente di non eseguire i lavori di cui alla DIA presentata il 29.05.2017 –riferita ad un ampliamento a fini residenziali di un immobile ai sensi della legge regionale n. 21 del 2009 sul Piano Casa- dichiarando la stessa “priva di efficacia ed i lavori edili, ove in corso di realizzazione, privi di titolo”;
   - Considerato che a fondamento del gravato provvedimento vi è il rilievo che l’“area interessata dall’ampliamento è oggetto di atti di disciplina edilizia in corso ‘Determinazione Dirigenziale’ n. 741 del 10.05.2017”, che “l’area risulta ancora sottoposta a sequestro da parte della Polizia Locale di Roma” e che “non risultano soddisfatte tutte le richieste nel termine di 30 gg, in particolare: pagamento del Contributo di Costruzione, pagamento del Contributo Straordinario, pagamento dei diritti di segreteria…”;
   - Considerato che allorquando un provvedimento è basato su plurime motivazioni, l’immunità di una di esse dai vizi di illegittimità denunciati è idonea a sorreggere il provvedimento stesso, che non potrà essere annullato se anche solo una di tali motivazioni fornisca autonomamente la legittima e congrua giustificazione della determinazione adottata;
   - Considerato che, con riferimento alla fattispecie in esame, assorbente rilievo assume la circostanza che parte ricorrente non ha provveduto alla corresponsione del Contributo di Costruzione, del Contributo Straordinario e dei diritti di segreteria, sebbene l’Amministrazione Comunale, con nota del 07.07.2017, avesse invitato il ricorrente a provvedere a tali integrazioni della DIA presentata il 29.05.2017 con riferimento ad un ampliamento a fini residenziali di un immobile ai sensi della legge regionale sul Piano Casa;
   - Considerato che presupposto indefettibile perché una DIA possa essere produttiva di effetti è la completezza, oltre che la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, con la conseguenza che una DIA priva dei requisiti essenziali deve ritenersi inefficace (Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2014, n. 1413) e improduttiva di effetti;
   - In tale ipotesi, il provvedimento, nel rimuovere incidentalmente la DIA, in sostanza verifica l’originaria inefficacia della stessa senza, peraltro, il limite di dover agire entro un preciso termine, non potendo ritenersi l’avvenuto perfezionamento della denuncia di inizio attività per silentium;
   - Non avendo parte ricorrente provveduto al versamento dei contributi previsti dalla legge regionale n. 21 del 2009 per effetto del rinvio, contenuto nell’art. 6, comma 1, all’art. 23 del D.P.R. n. 380 del 2001 -il quale prevede la soggezione delle SCIA al pagamento dei contributi di costruzione, rinviando, a sua volta, all’art. 16 del testo normativo, che subordina il titolo edilizio alla corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione- deve dunque ritenersi che la DIA dallo stesso presentata non si sia perfezionata;
   - Né possono assumere rilievo le originali considerazioni di parte ricorrente volte a ricondurre la scelta di non procedere al versamento dei previsti contributi a criteri di ragionevolezza e di buon andamento della Pubblica Amministrazione nella considerazione che, in caso di esito negativo della DIA, si sarebbe dovuto procedere alla restituzione delle somme versate, non potendo le personali valutazioni del ricorrente consentire la disapplicazione di disposizioni normative;
   - Considerato, pertanto, che correttamente il gravato provvedimento ha dichiarato l’inefficacia della DIA stante il mancato pagamento dei contributi, con conseguente irrilevanza della eventuale illegittimità delle ulteriori motivazioni poste a sostegno di tale provvedimento –il che esonera il Collegio dall’esame delle relative censure- in quanto in presenza di un provvedimento amministrativo sorretto da plurime motivazioni la legittimità di una di esse è autonomamente in grado di supportarlo (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 20.12.2017 n. 12542 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gestione telematica della gara - Immodificabilità delle buste e tracciabilità di tutte le operazioni compiute - Principio di pubblicità delle sedute - Applicazione guidata dalle peculiarità e specificità dell’evoluzione tecnologica.
La gestione telematica della gara offre il vantaggio, rispetto al passato, di una maggiore sicurezza nella “conservazione” dell’integrità delle offerte in quanto permette automaticamente l’apertura delle buste in esito alla conclusione della fase precedente e garantisce l’immodificabilità delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data e all’ora di seduta della gara, specificata in fase di creazione della procedura. Le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la possibilità di modifica delle offerte (cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 25.11.2016, n. 4990).
Il principio di pubblicità delle sedute deve quindi essere rapportato non ai canoni storici che hanno guidato l’applicazione dello stesso, quanto piuttosto alle peculiarità e specificità che l’evoluzione tecnologica ha consentito di mettere a disposizione delle procedure di gara telematiche, in ragione del fatto che la piattaforma elettronica che ha supportato le varie fasi di gara assicura l’intangibilità del contenuto delle offerte, indipendentemente dalla presenza o meno del pubblico); in altri termini è garantita non solo la tracciabilità di tutte le fasi ma proprio l’inviolabilità delle buste elettroniche contenenti le offerte e l’incorruttibilità di ciascun documento presentato.
Cause di esclusione e soccorso istruttorio - Art. 83 d.lgs. n. 50/2016 - Vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge - Soccorso istruttorio processuale.
Con riferimento alle cause di esclusione e al cd. soccorso istruttorio, l’art. 83 del D.lgs. n. 50/2016 ha codificato i principi, di elaborazione giurisprudenziale, di divieto di aggravio del procedimento di evidenza pubblica, di massima partecipazione alle gare di appalto e di interpretazione in quest’ottica delle clausole ambigue della lex specialis.
Dal tenore della citata disposizione si evince che il Legislatore ha inteso con essa evitare esclusioni per violazioni meramente formali, costituendo “cause di esclusione” soltanto i vizi radicali ritenuti tali da espresse previsioni di legge. Il concorrente che non sia stato ammesso al soccorso istruttorio (ma avrebbe dovuto esserlo) è inoltre ammesso a provare le medesime circostanze in giustizia, secondo la formula del ‘soccorso istruttorio processuale’ (in tal senso: Cons. Stato, III, sent. 975 del 2017) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 20.12.2017 n. 874 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
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Specificamente, per quanto attiene titoli edificatori, lo stesso Giudice d’appello ha rilevato che “il principio secondo cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell’opera, va applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla possibilità di ricorrere”.
Vanno richiamati, altresì, i principi elaborati dalla giurisprudenza circa la decorrenza del termine di impugnazione di titoli edilizi, in forza dei quali:
   “a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali”.
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3. Quanto alla decorrenza del termine per la sollecitazione del sindacato giurisdizionale con riferimento a titoli edilizi rilasciati a terzi, la giurisprudenza appare significativamente consolidata sui principi di seguito esposti.
In generale, con recente pronunzia del 21.11.2017 n. 5364, la Sezione VI del Consiglio di Stato, nel richiamare un precedente, stabilizzato assetto giurisprudenziale (Cons. Stato, sez. IV, 15.11.2016 n. 4701; 06.10.2015 n. 6242; 28.05.2012 n. 3159), ha affermato che la “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei “motivi aggiunti” -per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta- comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena conoscenza”.
Ed infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale”.
Specificamente, per quanto attiene titoli edificatori, lo stesso Giudice d’appello (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 25.10.2017 n. 4931) ha rilevato che “il principio secondo cui, ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione di una concessione edilizia da parte di un proprietario di immobile limitrofo occorre la piena conoscenza della stessa, che si verifica con la consapevolezza del contenuto specifico della concessione o del progetto edilizio ovvero quando la costruzione realizzata rivela in modo certo e univoco le essenziali caratteristiche dell’opera (ex plurimis: C.G.A.R.S. Sez. I, 28.05.2007 n. 421; Consiglio Stato Sez. V, 23.09.2005 n. 5033), va applicato tenendo conto della singola fattispecie e alla luce dei motivi di impugnazione fatti valere dal ricorrente.
Laddove … un soggetto, diverso da quelli cui l’atto è stato rilasciato, impugni un titolo edilizio sulla base dell’asserita divergenza dell’intervento realizzato (o in corso di realizzazione) con quello astrattamente autorizzabile in base alla disciplina urbanistica vigente, deve essere ribadita la regola di giudizio, secondo cui la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell’edificazione deve essere collegata alla data in cui risulti certa la percepibilità –da parte di chi propone il ricorso– della concreta entità dell’intervento o della sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Di conseguenza, nel caso d’impugnazione del titolo edilizio ordinario, il termine di decadenza −salvo che non venga fornita la prova certa di una conoscenza anticipata o successiva del provvedimento abilitativo− decorre, secondo una consolidata giurisprudenza, da quando vi sia il completamento dei lavori e questi siano visibili, cioè dal momento in cui sia materialmente apprezzabile la reale portata dell’intervento in precedenza assentito e sia dunque giuridicamente configurabile l’inerzia rispetto alla possibilità di ricorrere (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n. 4616; Consiglio di Stato, IV, 10.12.2007, n. 6342)
”.
Nello stesso senso, Cons. Stato, sez. IV, 23.06.2017 n. 3067, che ha richiamato i principi elaborati dalla giurisprudenza circa la decorrenza del termine di impugnazione di titoli edilizi (Cons. Stato, sez. IV, n. 1135 del 2016 e 4701 del 2016), in forza dei quali:
   “a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) al momento della constatazione della presenza dello scavo è possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali
” (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.12.2017 n. 1453 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: VIA VAS E AIA - RIFIUTI - Art. 29-decies d.lgs. n. 152/2006 - Diffide e provvedimenti di sospensione o revoca - Differenza.
Nell’ambito delle previsioni dell’art. 29-decies, comma 9, lett. a), b) e c), del codice dell’ambiente, nonché dell’art. 5-bis, comma 9, della l.r. Veneto 16.04.1985, n. 33, occorre distinguere fra mere diffide, che rientrano nelle funzioni di controllo e accertamento attribuite alla Provincia dall’art. 197, comma 1, lett. b), del codice stesso, e diffide connesse a provvedimenti di sospensione o revoca dell’autorizzazione in corso, che hanno effettivamente natura sanzionatoria e ricadono nella competenza regionale (Consiglio di Stato, sez. V, 25.07.2012, n. 4221)
VIA VAS E AIA - Rifiuti - Riesame del titolo autorizzativo già rilasciato - Art. 29-octies d.lgs. n. 152/2006 - Sviluppi di norme di qualità ambientale o nuove disposizioni di legge - D.m. 24.06.2015 - Rientra.
L’art. 29-octies del codice dell’ambiente collega il necessario riesame del titolo autorizzativo già rilasciato, tra l’altro, quando lo esigono “sviluppi delle norme di qualità ambientali o nuove disposizioni legislative comunitarie, nazionali o regionali”.
Il d.m. 24.06.2015, che sul piano formale fa sistema con atti di fonte primaria europea e nazionale, in termini sostanziali, nel porre requisiti più stringenti per consentire il conferimento nelle discariche ordinarie di rifiuti pericolosi, rappresenta comunque una “norma di qualità ambientale” (e non una semplice norma tecnica) sufficiente a integrare il presupposto previsto dalla legge e a rendere obbligatoria una nuova valutazione dell’a.i.a.
VIA VAS E AIA - RIFIUTI - Riesame dell’AIA - Sopravvenienza di nuova normativa - Disposizione transitoria di cui all’art. 29-octies, ultimo comma, d.lgs. n. 152/2006 - Interpretazione.
La disciplina di settore prevede il riesame dell’a.i.a al verificarsi di determinati eventi, quale la sopravvenienza di una nuova normativa. Nel frattempo, “fino alla pronuncia dell'autorità competente in merito al riesame, il gestore continua l'attività sulla base dell'autorizzazione in suo possesso” (art. 29-octies, ultimo comma, del codice dell’ambiente).
La ricordata disposizione significa solo che il conferimento di rifiuti non consentiti sino al rilascio dell’a.i.a. riesaminata non dà luogo all’applicazione di sanzioni, non anche che possano permanere in discarica rifiuti ormai vietati in base a una disciplina generale nuova e conosciuta (o almeno obiettivamente conoscibile), a fronte della quale non può sussistere in capo all’operatore del settore alcun affidamento tutelabile a proseguire l’attività di gestione sulla base e nei termini di una normativa non più vigente.
Deve perciò ritenersi che la nuova autorizzazione, quanto alle prescrizioni e alle limitazioni imposte, sia solo dichiarativa (e non costitutiva) di una regolamentazione posta dal d.m. con efficacia diretta e immediata, anche perché una diversa ricostruzione del sistema condurrebbe a una inammissibile applicazione del d.m. “a chiazze di leopardo”, rendendo incerta e ondivaga l’efficacia di una normativa di tutela che, a salvaguardia di valori primari come la salute e l’ambiente, deve essere necessariamente osservata in modo uniforme in tutto il territorio dello Stato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.12.2017 n. 5882 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’osservanza della disposizione di cui all’art. 24, comma 1, del DPR 380/2001 (“la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata”) non può prescindere da un accertamento che ha, quale oggetto, “l’integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito”.
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Parimenti infondati sono il secondo e terzo motivo, connotati da interdipendenza tematica e per questo trattabili congiuntamente, con i quali si è, in sostanza, censurata la violazione della disciplina sul rilascio del certificato di agibilità (art. 25 del DPR 380/2001) e, in ogni caso, l’inappropriatezza delle valutazioni esperite dall’ufficio tecnico in ordine agli atti della procedura definita con l’approvazione del piano di lottizzazione che ha condotto alla realizzazione del complesso immobiliare controverso.
L’istituto dell’abitabilità per le residenze e dell’agibilità per gli usi non abitativi, originariamente introdotto con l’art. 221 del R.D. 1265/1934 (c.d. testo unico delle leggi sanitarie), ha sempre avuto, quale peculiare finalità, l’accertamento “che la costruzione sia stata eseguita in conformità del progetto approvato, che i muri siano convenientemente prosciugati e che non sussistano altre cause di insalubrità”.
Tale disposizione è stata confermata dalla norma di semplificazione procedimentale di cui all’art. 4 del DPR 425/1994 (regolamento recante disciplina dei procedimenti di autorizzazione all'abitabilità, di collaudo statico e di iscrizione al catasto), abrogato dall'art. 136, comma 2, del DPR 380/2001, in cui si era previsto che fosse “il direttore dei lavori che deve certificare, sotto la propria responsabilità, la conformità rispetto al progetto approvato, l'avvenuta prosciugatura dei muri e la salubrità degli ambienti”.
Il precetto è stato infine riprodotto nell’art. 25, lett. b), del DPR 380/2001 (abrogato dal D.lgs. 25.11.2016, n. 222: dunque applicabile, ratione temporis, al momento dell’adozione dell’impugnato provvedimento del 10.3.2016), in cui si è previsto, tra i presupposti necessari dell’istanza di agibilità, l’allegazione di una “dichiarazione sottoscritta dallo stesso richiedente il certificato di agibilità, di conformità dell'opera rispetto al progetto approvato”.
Pertanto, l’osservanza della disposizione di cui all’art. 24, comma 1, del DPR 380/2001 (“la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato e la sua agibilità sono attestati mediante segnalazione certificata”) non può prescindere da un accertamento che ha, quale oggetto, “l’integrale conformità delle opere realizzate al progetto approvato come presupposto giuridico di ammissibilità dell’istanza stessa alla successiva istruttoria di merito” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 24.10.2012, n. 5054)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’accatastamento di un immobile può avere valore ai fini fiscali, nelle procedure ablative o similari al fine dell’individuazione del proprietario (cfr. art. 11 DPR 327/2001), per l’individuazione dei coefficienti di computo del canone con riferimento alle categorie catastali ed anche sul piano civilistico per esattamente identificare l’immobile trasferito, in caso di alienazione di immobili.
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In linea di principio l’accatastamento di un immobile può avere valore ai fini fiscali, nelle procedure ablative o similari al fine dell’individuazione del proprietario (cfr. art. 11 DPR 327/2001), per l’individuazione dei coefficienti di computo del canone con riferimento alle categorie catastali ed anche sul piano civilistico per esattamente identificare l’immobile trasferito, in caso di alienazione di immobili (cfr. Cassazione civile, sez. II 17.02.2012 n. 2369) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Finanche nell’ipotesi di un cambio di destinazione d’uso che intervenisse all’interno della medesima categoria funzionale, la giurisprudenza amministrativa ha statuito che tale modificazione sia da qualificare come urbanisticamente rilevante ogni qual volta comporti un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area.
Non vi è dubbio, sul punto, che la destinazione degli alloggi ad esigenze stabilmente abitative, diverse da quelle transeunti degli avventori del golf club, non possa che comportare effetti sugli standard di zona.

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Può, a questo punto, passarsi all’esame del ricorso per motivi aggiunti, con cui è stata impugnata l’ordinanza che ha ingiunto il ripristino della destinazione d’uso ricettiva, opponendo che l’assunto della ricorrente –secondo cui le concessioni edilizie n. 41/1991 e n. 101/1995, oltre alla DIA n. 71/2001 avrebbero impresso in via originaria una destinazione residenziale– riguarderebbe “unità immobiliari diverse (unità immobiliari poste al piano terra e primo della Corte A e piano primo — unità 5 corte B) rispetto a quella oggetto del procedimento in oggetto” e che, pertanto, il “mutamento d'uso da turistico/ricettivo (autorizzato) a residenziale costituisce mutamento rilevante di destinazione d'uso ai sensi dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380/2001 in combinato disposto dell'art. 32, comma 1, del citato D.P.R.”.
Sono infondati il primo e secondo motivo aggiunto, con cui la ricorrente ha censurato, da un lato, l’interpretazione della normativa urbanistica che avrebbe condotto l’Amministrazione comunale a ritenere integrata un’illegittima modificazione della destinazione d’uso, e dall’altro, richiamandosi i profili che, sempre ad avviso della ricorrente, deporrebbero per l’ammissibilità di una destinazione residenziale pura e semplice: per entrambi i motivi il Collegio reputa di fare integrale rinvio alle statuizioni espresse in occasione dell’esame del secondo e terzo motivo del ricorso principale.
Non coglie nel segno il terzo motivo aggiunto, con cui si è dedotto che vi sarebbe stato, al più, un mutamento funzionale di destinazione d’uso, privo di opere e come tale lontano dal poter configurare il mancato ottenimento di un titolo edilizio legittimante, ovvero una “totale difformità o variazione essenziale”, tali da rendere l’immobile “soggetto alle sanzioni gravissime di cui dall'art. 31 DPR 380/2001” (cfr. pag. 16).
Invero, la disciplina sul cambio d’uso urbanisticamente rilevante è rimessa all’art. 23-ter del DPR 380/2001, introdotto dall’art. 17, comma 1, lettera n), della legge n. 164/2014.
Tale disposizione prevede, al comma 1, che “salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale”: in sede di conversione il legislatore ha inteso distinguere, nella legge 164/2014, le destinazioni residenziali e turistico-ricettive, unificate nel decreto legge 133/2014.
Nella Regione Lombardia, tuttavia, la citata disposizione non trova applicazione, dovendosi, invece, fare richiamo all’art. 51 della legge regionale 12/2005, in cui è stabilito che “costituisce destinazione d'uso di un'area o di un edificio la funzione o il complesso di funzioni ammesse dagli strumenti di pianificazione per l'area o per l'edificio, ivi comprese, per i soli edifici, quelle compatibili con la destinazione principale derivante da provvedimenti definitivi di condono edilizio. E' principale la destinazione d'uso qualificante; è complementare od accessoria o compatibile qualsiasi ulteriore destinazione d'uso che integri o renda possibile la destinazione d'uso principale o sia prevista dallo strumento urbanistico generale a titolo di pertinenza o custodia. Le destinazioni principali, complementari, accessorie o compatibili, come sopra definite, possono coesistere senza limitazioni percentuali ed è sempre ammesso il passaggio dall'una all'altra, nel rispetto del presente articolo, salvo quelle eventualmente escluse dal PGT” (comma 1).
Nella specie, si è detto che la destinazione d’uso dell’appartamento controverso non potesse che essere quella ricettiva o residenziale per gli addetti agli impianti (o gli utilizzatori degli stessi), sicché il passaggio, delineato dalla società ricorrente come ammissibile, alla destinazione residenziale pura e semplice trova un sostanziale sbarramento nella disciplina edilizia.
Non è, pertanto, centrato il rilievo opposto dall’interveniente Vi.Ol. S.p.A., ad avviso della quale il cambio di destinazione d’uso sarebbe addirittura facilitato dalla disciplina urbanistica.
Non solo.
Finanche nell’ipotesi –avulsa dal caso che ci occupa– di un cambio di destinazione d’uso che intervenisse all’interno della medesima categoria funzionale, la giurisprudenza amministrativa ha statuito che tale modificazione sia da qualificare come urbanisticamente rilevante ogni qual volta comporti un aumento o un aggravamento del carico urbanistico insistente sull’area (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 29.01.2009, n. 498; TAR Campania–Napoli, 22.07.2015, n. 3872).
Non vi è dubbio, sul punto, che la destinazione degli alloggi delle corti A e B ad esigenze stabilmente abitative, diverse da quelle transeunti degli avventori del golf club, non possa che comportare effetti sugli standard di zona.
Parimenti infondato è il quarto motivo, nella specie rilevando non già il profilo connesso alla diretta commissione di abusi edilizi quanto alla valutazione vincolata afferente la cessazione dell’uso residenziale ed il ripristino dell’uso ricettivo, onere inevitabilmente a carico della società ricorrente quale “attuale proprietaria” dell'appartamento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (…) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”, è recente la remissione all’Adunanza plenaria della questione laddove, alla base della stessa, sono stati richiamati i due, principali, indirizzi giurisprudenziali:
   1) quello maggioritario in base al quale l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa.
In forza di tale opzione ermeneutica, l’estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo configurerebbe una sorta di sanatoria extra ordinem, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto;
   2) quello minoritario che, all’opposto, ha individuato dei “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi”, facendo riferimento al lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o alla sua conoscenza da parte dell’Amministrazione, alla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e all’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio.

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Non può trovare, infine, accoglimento il quinto ed ultimo motivo, con il quale la ricorrente ha dedotto la formazione di un legittimo affidamento in suo favore.
Tale tema è tornato d’attualità in tempi recenti a seguito della remissione all’Adunanza plenaria della questione “se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (…) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio” (cfr. ordinanza del Consiglio di Stato, sez. VI, 24.03.2017, n. 1337).
Alla base di tale remissione sono stati richiamati i due, principali, indirizzi giurisprudenziali:
   1) quello maggioritario in base al quale l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10.05.2016, n. 1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id., sez. V, 11.07.2014, n. 4892; id., sez. IV, 04.05.2012, n. 2592).
In forza di tale opzione ermeneutica, l’estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo configurerebbe una sorta di sanatoria extra ordinem, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13);
   2) quello minoritario (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 04.02.2014, n. 1016), che all’opposto ha individuato dei “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14.08.2015, n. 3933), facendo riferimento al lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o alla sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 09.09.2013, n. 4470), alla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e all’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n. 3847).
A prescindere dal confronto tra le illustrate tesi, ad avviso del Collegio non è ravvisabile in favore della ricorrente nessun consolidamento di aspettative giuridicamente tutelate, avendo questa destinato alcune unità (tra le quali l’appartamento oggetto del contendere) ad un uso residenziale abitativo nella consapevolezza della contrarietà di tale destinazione alla disciplina trasfusa nella convenzione urbanistica approvata il 02.08.1990, richiamata espressamente nell’atto di compravendita del 20.04.1998, connotato da uno specifico impegno “al rispetto e all’osservanza di quanto ivi riportato, assumendo tutti gli obblighi ed oneri derivanti da detta convenzione e in particolare di quanto contenuto nell’art. 8 relativo a destinazioni urbanistiche ed edilizie”.
In conclusione, anche il ricorso per motivi aggiunti va respinto.
La complessità delle questioni esaminate e l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali non pacifici in materia di cambio di destinazione d’uso giustificano l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 2293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOMobbing solo con reiterazione. Il carattere sporadico degli episodi esclude la fattispecie. Una serie di pronunce recenti della Corte di cassazione. Intento persecutorio essenziale.
Se l'elemento oggettivo richiesto dal c.d. mobbing è costituito dalla pluralità e sistematicità delle condotte, il carattere sporadico ed estremamente diluito nel tempo degli episodi denunciati, nessuno dei quali avente autonoma portata lesiva, esclude in radice la configurabilità della fattispecie.

Così la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con l'ordinanza 16.10.2017 n. 24358, che si inscrive nel novero di una serie di recenti pronunce in tema di mobbing.
Vediamole nel dettaglio.
MOBBING: CI VUOLE L'INTENTO PERSECUTORIO
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro c'è anche la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
A ribadirlo sono stati i giudici della Sez. lavoro della Corte di Cassazione con la sentenza 03.07.2017 n. 16335.
Nella stessa pronuncia in commento i giudici di piazza Cavour hanno aderito al prevalente indirizzo dettato della giurisprudenza di legittimità secondo cui per «mobbing» si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
E ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti, oltre a quanto sopra detto, anche a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore.
Ribadendo, inoltre, che costituisce mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità al dipendente medesimo.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini, risultava escluso il nesso di causalità tra la supposta condotta mobbizzante e l'asserito evento dannoso. E ne derivava che, indipendentemente anche dal discusso intento vessatorio, nella specie si è avuto un motivato accertamento di fatto, che ha pressoché escluso, anche sul piano oggettivo, il denunciato carattere vessatorio degli attuati comportamenti, ascritti da parte ricorrente alla datrice di lavoro.
NEL CASO DI EPISODI SPORADICI
Se l'elemento oggettivo richiesto dal c.d. mobbing è costituito dalla pluralità e sistematicità delle condotte, il carattere sporadico ed estremamente diluito nel tempo degli episodi denunciati, nessuno dei quali avente autonoma portata lesiva, esclude in radice la configurabilità della fattispecie.
Lo hanno affermato con ordinanza 16.10.2017 n. 24358 i giudici della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Inoltre secondo costante orientamento di legittimità (si vedano: Cass. n. 4774 del 2006, 22858 del 2008, n. 3785 del 2009, n. 18838 del 2013, n. 4222 del 2016), l'illecito del datore di lavoro nei confronti del lavoratore che integra il c.d. «mobbing» e che rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 c.c. consiste nell'osservanza di una condotta protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente.
E, infine, i giudici della Suprema corte hanno anche richiamato l'orientamento di legittimità secondo cui la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica o da colleghi, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro -su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c.- ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e dall'obbligo di vigilanza (si vedano ex plurimis, Cass. 22858 del 2008, n. 18093 del 2013).
Nel caso di specie la Cassazione ha rilevato che la fattispecie concreta non è sussumibile in quella astratta cui si riferisce il principio anzidetto, poiché per quanto accertato dai giudici di merito, cui compete la ricostruzione dei fatti di causa non sono stati ritenuti provati comportamenti aventi carattere vessatorio o mortificante per la lavoratrice, per cui non si pone in radice la questione di stabilire se di questi, ove commessi da superiori gerarchici o da colleghi, ne dovesse rispondere ex art. 2087 c.c. il datore di lavoro.
LA SISTEMATICITÀ NEL TEMPO DELLA CONDOTTA
Ed infine, in questa carrellata di rilevanti pronunce sul tempo, una (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 24.11.2017 n. 28098) insiste sul fatto tempo, affermando che per la configurazione della condotta mobbizzante occorre una sistematicità nel tempo ed episodi vecchi non valgono per dimostrare una condotta vessatoria che possa essere catalogata all'interno della fattispecie di cui sopra.
Il thema decidendum sottoposto all'attenzione degli Ermellini vedeva che con sentenza la Corte di appello in riforma della pronuncia del Tribunale ha respinto la domanda di Tizio di risarcimento del danno per comportamento integrante mobbing da parte del datore di lavoro, Alfa srl, rilevando l'insussistenza di una molteplicità di comportamenti persecutori (trattandosi di episodi collocati a notevole distanza uno dall'altro e in numero assai limitato); Avverso questa pronuncia ricorre Tizio per cassazione prospettando un motivo ricorso.
Secondo i supremi giudici non risultava contraddittorio l'iter logico seguito dalla sentenza impugnata ove ha rilevato «le modalità e la inusitata frequenza con cui (il datore di lavoro) ha esercitato il potere disciplinare», trattandosi della valutazione di (quattro) episodi concernenti l'utilizzo del vestiario aziendale circoscritti tra giugno e ottobre, distaccati come ha rilevato la Corte distrettuale - da un lasso di tempo apprezzabile sia da precedenti episodi (due contestazioni disciplinari dell'ottobre di qualche anno prima) che da quelli successivi (contestazione disciplinare, non seguita da sanzione, sempre di qualche anno prima; sanzione disciplinare del mese di settembre, successivamente dichiarata giudizialmente illegittima) e, quindi, sforniti del carattere della sistematicità, della durata dell'azione e non collegati tra loro da un medesimo intento persecutorio.
I giudici di piazza Cavour hanno poi considerato che l'unico motivo di ricorso denunziava violazione dell'art. 2087 cod. civ. nonché vizio di motivazione avendo, la Corte distrettuale, trascurato la strategia unitaria persecutoria con finalità di emarginazione del dipendente manifestatasi, senza ragionevole spiegazione (se non quello della partecipazione alle rappresentanze sindacali), «dopo 12 anni (dalla data di assunzione) di sereno svolgimento del rapporto di lavoro e non essendo stato esaurientemente spiegato dal consulente tecnico d'ufficio la «ovvietà» della pre-esistenza del disturbo di personalità che affligge il Tizio» (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.12.2017).

TRIBUTI: Riconfermata la linea storica della Cassazione sulla dimora abituale.
Nel variegato panorama dei tributi locali, le novità sono sempre dietro l'angolo, all'evoluzione farraginosa e spesso poco razionale della norma, rispondono sentenze di Cassazione che rimettono in gioco problematiche che almeno sul piano formale sembravano risolte con non poche perplessità da parte degli addetti ai lavori.
La questione stavolta trattata nell'ordinanza 14.11.2017 n. 26947 della Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ripropone il tema della dimora abituale del nucleo familiare, che in Ici prima e in Imu poi, ha evidenziato netti contorni di elusività della norma, confermate per quest'ultima, nella circolare ministeriale n. 3/DF/2012 che come noto “giustifica” quello che da più parti viene definito una sorta di spacchettamento del nucleo familiare.
In verità, la sentenza in esame ribadisce un concetto su cui la Cassazione aveva già avuto modo di esprimersi nella sentenza n. 14389/2010, nella quale la Corte formulava un importante principio in materia di Ici (e di conseguenza in materia Imu) secondo il quale l'abitazione posseduta dal contribuente poteva essere ritenuta principale soltanto se nella stessa dimoravano abitualmente sia il contribuente che i suoi familiari.
L’abitazione principale
Ai fini Imu, come noto, per abitazione principale si intende l'unità immobiliare nella quale «il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente», come indicato dal comma 2 dell’articolo 13 del Dl n. 201 del 2011, modificato dal Dl n. 16 del 2012.
La norma specifica inoltre che «nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile».
Proprio in tale riformulazione del concetto di abitazione principale, l'elemento di novità e soprattutto di evidente elusività, è stato quello dell'aver previsto che componenti dello stesso nucleo familiare (che non corrisponde a quello anagrafico) potessero avere più abitazioni principali anche se non nello stesso territorio comunale.
Poco convincente in tal senso, la circolare ministeriale n. 3/DF/2012 con la quale si cercava appunto di “giustificare” la portata elusiva della predetta previsione normativa perché «bilanciata da effettive necessità di dover trasferire la residenza anagrafica e la dimora abituale in un altro comune, ad esempio, per esigenze lavorative».
La decisione della Cassazione
Con la sentenza n. 26947/2017, la Cassazione torna a ribadire un principio già noto in Ici in tema di dimora abituale del nucleo familiare: «In tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo».
In applicazione di questo principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile “de quo” costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui moglie (Cassazione, ordinanze nn. 15444/2017, 12299/2017, 13062/2017, 12050/2010), specificando come nel caso trattato, la sentenza impugnata si ponesse in evidente contrasto con il superiore principio, in quanto è pacifico tra le parti, che il nucleo familiare della ricorrente né risiede anagraficamente, né dimora abitualmente presso l'immobile oggetto di tassazione, mentre l'unica a risiedere abitualmente nell'immobile è solo la ricorrente, che, in tale situazione, non può invocare il diritto al riconoscimento dell'esenzione.
Riaperta quindi e riconfermata la linea “storica” della Cassazione in tema di dimora abituale, che se in Ici sembra definitivamente sgomberare il campo da ulteriori ambiguità interpretative, in Imu invece, rende ancor più evidenti le perplessità applicative circa la valutazione dei requisiti sull'abitazione principale. Si resta in attesa di ulteriori sviluppi, si spera definitivamente chiarificatori (
articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.12.2017).
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MASSIMA
Con ricorso in Cassazione affidato a tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perché connessi, nei cui confronti il contribuente ha resistito con controricorso, il comune di Alassio impugnava la sentenza della CTR della Liguria, relativa a un avviso d'accertamento ICI per il mancato riconoscimento dell'agevolazione riferita all'immobile adibito ad abitazione principale, lamentando da una parte, il vizio di violazione di legge, in particolare, dell'art. 8, comma 2, del d.lgs. n. 504/1992 e dell'art. 43 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., e dall'altra, lamentando il vizio motivazionale, per travisamento della prova, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., in quanto, erroneamente, i giudici d'appello, avevano riconosciuto il diritto della contribuente ad usufruire dell'esenzione oggetto di controversia, benché nell'immobile oggetto di tassazione avesse fissato la residenza anagrafica e dimorasse solo la stessa contribuente mentre, il coniuge e i figli erano risultati pacificamente residenti e dimoranti in altro comune.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma semplificata.
L'articolata censura è fondata.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che "
In tema d'imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall'art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall'art. 1, comma 173, lett. b), della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall'01.01.2007), occorre che il contribuente provi che l'abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell'accertamento che l'immobile "de quo" costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui moglie)" (Cass. ord. n. 15444/2017, Cass. ordd. nn. 12299/2017, 13062/2017, 12050/2010).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata si pone in evidente contrasto con il superiore principio, in quanto è pacifico tra le parti, che il nucleo familiare della ricorrente né risiede anagraficamente, né dimora abitualmente presso l'immobile oggetto di tassazione, mentre l'unica a risiedere abitualmente nell'immobile è solo la ricorrente, che, in tale situazione, non può invocare il diritto al riconoscimento dell'esenzione.
Va, conseguentemente accolto il ricorso, cassata senza rinvio l'impugnata sentenza e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, ex art. 384 c.p.c., rigettato l'originario ricorso introduttivo del ricorrente.

VARI: Crostacei, reato trattarli male. Cassazione: sono come cani e gatti.
Compie reato il ristoratore che tiene i crostacei vivi al freddo del frigo e con le chele legate. L'interesse a non provocare sofferenza ad aragoste e granchi prevale sui costi di conservazione e si può parlare di tutela analoga a quella di animali d'affezione come cani e gatti.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 16.06.2017 n. 30177 con cui ha fissato per il gestore un'ammenda di 5 mila euro e il risarcimento alla Lav, Lega antivivisezione onlus, costituitasi parte civile.
La Corte ha in realtà dato seguito al proprio consolidato orientamento in base al quale in tema di maltrattamento di animali, il reato è integrato dalla detenzione degli animali con modalità tali da arrecare loro gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura. Per gli animali domestici bisogna in tal caso fare riferimento alla comune esperienza e conoscenza, e per le altre specie alle acquisizioni delle scienze naturali.
Corretta dunque l'interpretazione data dal tribunale di Firenze, contro la cui decisione il condannato ha fatto ricorso, secondo cui è ampiamente diffusa, nei ristoranti come nella grande distribuzione, la consapevolezza di dover adottare metodi di accoglienza degli animali più costosi e complessi di un deposito in frigo con le chele legate.
I crostacei erano quindi tenuti dal ristoratore in condizioni contrarie alle loro caratteristiche etologiche, incompatibili con la loro natura e produttive di grandi sofferenze. Di qui la sua condanna a pagare le spese processuali a favore di Cassa ammende e quelle legali pari a 3 mila euro alla Lav (articolo ItaliaOggi del 17.06.2017).

VARILa targa occultata costa cara. Cassazione.
Risponde del reato di falso l'automobilista che applica uno scaldacollo sulla targa per impedire alla polizia di risalire al trasgressore. Specialmente se l'autista non è titolare della patente di guida.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 09.06.2017 n. 28963.
Un automobilista maldestro è stato trovato in mezzo al traffico dalla polizia senza patente di guida e con la targa oscurata da un pezzo di stoffa. Contro la conseguente condanna per falso e guida senza patente l'interessato ha proposto ricorso in cassazione.
Se da una parte effettivamente la guida senza patente deve ritenersi depenalizzata, lo stesso non vale per la circolazione con la targa occultata. Anche se l'art. 102 del codice della strada sanziona amministrativamente questo tipologia di comportamenti l'infrazione accertata resta di carattere penale.
Del resto è evidente che il trasgressore ha dolosamente occultato la targa per non farsi trovare alla guida di un veicolo senza essere titolare di una necessaria licenza di guida. Cosa diversa una targa sporca o occultata accidentalmente. La multa in tal caso sarebbe di solo 41 euro (articolo ItaliaOggi del 20.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGOL'avvocato non si presta. Consiglio di stato dà ragione ai legali.
Il comune non può mettere i propri avvocati al servizio di altri enti. L'ufficio unitario di avvocatura deve infatti essere costituito ex novo con personale distaccato dagli enti interessati all'attivazione. Altrimenti, ne va dell'indipendenza dell'avvocato.

È quanto afferma il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 07.06.2017 n. 2731, con cui ha respinto il ricorso presentato dal comune di Busto Arsizio e altri enti locali contro la decisione del Tar Lombardia (n. 1608/2016) che accoglieva invece le ragioni degli avvocati del comune che erano stati messi «al servizio» di altri enti sprovvisti di ufficio legale.
La convenzione prevedeva infatti che i comuni aderenti individuassero nell'avvocatura del comune di Busto Arsizio l'ufficio unico per lo svolgimento delle attività di rappresentanza e difesa in giudizio nelle cause e affari facenti capo a ciascuno degli enti (si veda ItaliaOggi del 18 novembre scorso).
La vicenda era diventata una vera e propria battaglia tra avvocati ed enti locali sull'utilizzo di uffici legali congiunti, con, da una parte l'Ordine degli avvocati di Milano che si è schierato dalla parte dei legali, e dall'altra gli enti locali, tra cui le province di Monza e Brianza e Alessandria che si sono schierati con il comune di Busto Arsizio. Il Consiglio di stato sottolinea in particolare la necessità dell'indipendenza professionale dell'avvocato nella trattazione esclusiva degli affari legali, che costituisce un requisito della professione.
Nel caso di un ufficio unico di avvocatura, sottolinea il Consiglio di stato, «la valutazione e le scelte da intraprendere nei singoli casi a difesa degli interessi di uno degli enti convenzionati potrebbe attingere interessi non coincidenti tra i vari membri della convenzione». Per cui, solo una effettiva autonomia professionale quale quella imposta per legge, specifica palazzo Spada, «consentirebbe di assicurare, in concreto, l'esercizio di un'obiettiva funzione professionale».
Il caso di specie è invece al di fuori dello schema normativo perché si tratta di una «unidirezionale mera messa a disposizione dei servizio dell'ufficio legale del comune di Busto Arsizio anche ad altri enti territoriali, secondo un dispositivo riconoscibile, in ultimo, a schemi negoziali di tipo privatistico» (articolo ItaliaOggi del 10.06.2017).

ENTI LOCALI - VARILa multa non tempestiva diventa carta da macero.
Sui verbali degli autovelox deve essere indicata chiaramente la data della commessa violazione. E solo da quel giorno decorrono i 90 giorni utili per la spedizione postale.

Lo ha chiarito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 07.06.2017 n. 1267.
La polizia locale di Milano ha installato degli autovelox che in poche settimane hanno letteralmente sommerso gli uffici di multe.
Non riuscendo a gestire il conseguente carico amministrativo imprevisto il comando ha forzato un po' la mano iniziando a inviare verbali ben oltre al termine canonico dei 90 giorni previsti dall'art. 201 del codice stradale. Ma incassando un sacco di censure sia da parte del ministero che dalla prefettura. Una associazione di consumatori allora ha proposto ricorso al Tar evidenziando l'irregolarità diffusa dai vigili meneghini che ha determinato, di fatto, un grave ritardo nella spedizione delle multe per eccesso di velocità.
Nonostante numerose richieste dell'associazione siano state ritenute inammissibili, il collegio ha deciso che risulta palesemente errata e dovrà quindi essere corretta l'indicazione utilizzata nei verbali dei vigili urbani finalizzata a far decorrere il termine utile per la notifica delle multe per autovelox dalla data di visione dei fotogrammi da parte degli organi di vigilanza.
Al posto dell'attuale frase «il verbalizzante, in servizio presso l'ufficio varchi della polizia municipale di Milano in data , data dalla quale decorrono i termini per la notifica del presente verbale, ha accertato che il conducente del veicolo...» andrà quindi evidenziato che i termini per la notifica decorrono dalla data della commessa violazione. Salvo casi eccezionali, dunque, le multe per eccesso di velocità devono essere notificate tempestivamente.
Facendo propria la suddetta interpretazione, conclude la sentenza, deve ritenersi che il verbale della polizia municipale debba indicare o che il termine di notifica del verbale decorre dall'accertamento, come indicato dalla legge, oppure che i termini decorrono dalla commessa violazione, salva la necessità di acquisire informazioni indispensabili da altri organismi (articolo ItaliaOggi del 13.06.2017).

INCARICHI PROFESSIONALINo censura, solo avvertimento. Mano leggera col legale che non ridà le carte al cliente. Le sezioni unite della Corte di cassazione interpretano il nuovo codice deontologico.
Niente censura, ma semplice avvertimento al legale che, dopo la revoca del mandato, non restituisce al cliente i documenti delle pratiche seguite. Grazie al nuovo codice deontologico infatti prevale il principio del favor rei in luogo di quello del tempus regit actum: lo hanno chiarito le ss.uu. civili della Corte di Cassazione nella sentenza 06.06.2017 n. 13982.
A parere del collegio giudicante «nel fissare il momento di transizione dall'operatività del vecchio a quella del nuovo codice deontologico, la nuova legge professionale sancisce (...) esplicitamente –così prevenendo le incertezze interpretative manifestatesi in occasione di precedenti successioni di norme deontologiche (e, peraltro, risolte in base al diverso criterio del tempus regit actum: vedi: Cass. s.u. 17.06.2013, n. 15120; Cass. s.u. 26.11.2008, n. 28159)– che la successione nel tempo delle norme dell'(allora) emanando nuovo codice deontologico (e delle ipotesi d'illecito e delle sanzioni da esse rispettivamente contemplate) deve essere improntata al favor rei».
Tra l'altro, spiega ancora la Corte, l'ipotesi che andava presa in considerazione nel caso di specie non era quella richiamata dal ricorrente nei motivi di censura, bensì quella della «mancata restituzione senza ritardo degli atti e dei documenti ricevuti dal cliente e dalla parte assistita per l'espletamento dell'incarico con la consegna di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti l'oggetto del mandato e l'esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che giudiziale», per la quale ipotesi (ex art. 33 del nuovo codice deontologico) sarebbe prevista l'applicazione della sanzione dell'avvertimento in luogo di quella più grave della censura.
Così argomentando, hanno quindi cassato la sentenza impugnata sul punto relativo alla determinazione della sanzione, rinviando la causa, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, al Cnf in diversa composizione (articolo ItaliaOggi Sette del 19.06.2017).

APPALTIComunicati dell'Anac: pareri non vincolanti. Le stazioni appaltanti possono disattenderli.
I comunicati dell' Anac non sono vincolanti e devono essere ritenuti «meri opinamenti interpretativi» della disciplina sui contratti pubblici.

Lo ha affermato il TAR Umbria con l'ordinanza 31.05.2017 n. 428 che, nell'ambito dell'interpretazione della disciplina delle offerte anomale, ha avuto modo di pronunciarsi sulla natura ed efficacia dei comunicati emessi dall'Autorità nazionale anticorruzione.
I giudici premettono che con il nuovo sistema del decreto 50/2016, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non esiste più un'unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui le linee guida approvate dall'Anac che rappresentano «una novità assoluta nella contrattualistica pubblica» e che si distinguono in vincolanti e non vincolanti, quest'ultime invero molto più frequenti e assimilabili, secondo una tesi, alla categoria di stampo internazionalistico della cosiddetta «soft law oppure, seconda altra opzione, alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna».
Dopo questa premessa i giudici, rispetto ad un comunicato dell'ottobre 2016 dell'Anac, hanno affermato che «va invece senz'altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del presidente dell'Anac, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l'interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici».
Da ciò deriva che ogni stazione appaltante può discostarsi dai comunicati Anac senza «dover fornire alcuna motivazione». Per il Tar, anche se i poteri dell'Autorità sono «penetranti ed estesi», rimane il fatto che «non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di autorità amministrativa indipendente, i cui comunicati ermeneutici, per quanto autorevoli, possono senz'altro essere disattesi».
La ragione è che si tratta di «pareri atipici, privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici» (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Legge 104, possibile derogare al divieto di trasferimento.
Importante principio ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con sentenza 19.05.2017 n. 12729 in materia di trasferimento del lavoratore che assiste una persona con handicap.
In breve, la Suprema corte ha statuito che
pur in presenza del divieto sancito dalla legge 104/1992 che non consente il trasferimento di tale lavoratore senza il suo consenso, una comprovata esigenza aziendale quale può essere la soppressione del posto occupato dal lavoratore, giustifica il legittimo trasferimento.
Il caso era sorto su azione di una lavoratrice che aveva impugnato il provvedimento di trasferimento ad altra sede distante 10 km dalla precedente, assumendo l'illegittimità della disposizione, considerato il suo status di lavoratore che assiste persona disabile convivente.
Tanto il tribunale quanto la Corte d'appello, rigettavano la domanda. In particolare, i giudici d'appello avevano ritenuto che non era pertinente quanto osservato circa la mancata considerazione del disagio che lo spostamento comportava per la situazione personale e familiare della ricorrente, poiché il posto occupato dalla ricorrente medesima era stato soppresso e per la propria professionalità l'unico posto vacante era quello individuato nel provvedimento di trasferimento.
La lavoratrice insisteva con ricorso per Cassazione. Si tratta di dirimere quanto la lavoratrice sosteneva nel motivo in cui si deduceva che occorreva tener conto del disagio e personale e familiare che lo spostamento comportava, tenuto conto della propria condizione scaturente dalle garanzie previste dalla legge 104/1992. L'art. 36, comma 5, della stessa legge stabilisce che «il lavoratore che assiste la persona con handicap «ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede».
La Suprema corte, con la sentenza n. 25379 del 2012, ha affermato che la disposizione dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, sicché il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica di quello, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte.
Nella statuizione della Corte d'appello non è stato quindi ravvisato il vizio denunciato dalla ricorrente di non avere tenuto conto della situazione personale della ricorrente, in relazione all'assistenza prestata, atteso che il giudice di secondo grado nel rilevare il venir meno del posto cui la lavoratrice era in precedenza assegnata, riteneva la sussistenza di esigenze aziendali effettive.
Sulla base di tale evidenza, il ricorso è stato rigettato (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPer chi assiste un disabile possibile il trasferimento. Cassazione. Se il posto viene soppresso.
Se il posto di lavoro viene soppresso per giustificate ragioni organizzative, il dipendente che presta assistenza a un familiare disabile, godendo dei benefici previsti dalla legge 104/1992, non può opporsi al trasferimento.

Così ha deciso la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 19.05.2017 n. 12729.
Una lavoratrice, con qualifica di capo tecnico radiologo, ha adito il tribunale per ottenere la declaratoria di illegittimità del provvedimento aziendale con il quale è stata trasferita dal poliambulatorio presso il quale lavorava a un presidio posto a circa 5 chilometri di distanza.
L’azienda ha sostenuto la legittimità del provvedimento, sia perché conforme alla disciplina del Ccnl del settore sanità, sia perché motivato dalla avvenuta chiusura del servizio di radiologia nel poliambulatorio presso il quale lavorava la dipendente.
Di fronte alla circostanza mai smentita dell’avvenuta chiusura del servizio di radiologia nella sede di provenienza, e della vacanza del posto di capo tecnico presso il presidio cui è stata destinata, a nulla sono valse le censure, considerate del tutto generiche, sollevate dalla lavoratrice, che ha lamentato l’omessa considerazione del disagio che lo spostamento le comportava in ragione della sua situazione personale e familiare, nonché la conseguente mortificazione della sua professionalità.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso e nel confermare l’esito dei due precedenti gradi di giudizio, ha considerato infondate o intempestive tutte le censure mosse dalla lavoratrice, inclusa la doglianza volta a censurare il trasferimento come atto di ritorsione per il rifiuto di profferte sessuali, basata su una sentenza penale, intervenuta nelle more del giudizio di appello, ai danni del superiore gerarchico autore del trasferimento impugnato.
La Suprema corte, richiamando un orientamento che risale alla pronuncia 25379/2012, ha statuito che «la disposizione dell’articolo 33, comma 5, della legge 104/1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, sicché il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che assiste, non si configuri come grave».
Ciò è vero, però, a condizione che il datore di lavoro, cui spetta l’onere della prova, non dimostri «la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte»
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.06.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI - SEGRETARI COMUNALI: Elezioni. Al segretario il controllo delle liste.
Nella presentazione delle liste elettorali il segretario comunale ha l'onere di effettuare una verifica puntuale tra quanto presentato dal candidato e quanto dichiarato.

Lo ha precisato il TAR Lombardia con la sentenza 19.05.2017 n. 1142 e la n. 1143.
Il Tar ha rilevato come, ai sensi dell'art. 32 del dpr n. 570/1960, vi sia un vero e proprio onere del segretario di rilasciare una «ricevuta dettagliata» dopo aver effettuato una verifica puntuale circa la rispondenza tra quanto presentato e quanto dichiarato dal candidato.
La legge, infatti, affida al segretario il ruolo di filtro nel procedimento di presentazione delle liste e l'errata indicazione della completezza della documentazione scusa l'errore del candidato (articolo ItaliaOggi del 06.06.2017).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATARiscaldamento, sì al fai-da-te. Il regolamento contrattuale non può vietare il distacco. La Cassazione. Al condomino restano le spese di manutenzione dell'impianto.
Il regolamento condominiale, anche se contrattuale, non può vietare il distacco dal servizio centralizzato di riscaldamento o onerare comunque il condomino di sostenere le spese di utilizzo del medesimo. Eventuali clausole devono infatti considerarsi nulle.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, (II Sez. civile), con l'ordinanza 12.05.2017 n. 11970.
Il caso concreto. Nella specie un condomino aveva impugnato le delibere con le quali l'assemblea aveva approvato il rendiconto e il preventivo delle spese della gestione annuale del riscaldamento condominiale e aveva rigettato la richiesta di distacco dal relativo impianto formulata dal comproprietario, in quanto non consentita dal regolamento.
Il condomino aveva quindi richiesto che il tribunale accertasse il suo diritto di non concorrere più alle spese di gestione del riscaldamento centralizzato. Il condominio, nel costituirsi in giudizio, aveva invocato la previsione del regolamento contrattuale che vietava il distacco dall'impianto comune, eccependo altresì la mancanza, nel caso di specie, dei requisiti legittimanti l'operazione.
Il tribunale, decidendo sulle domande avanzate dal condomino, aveva ritenuto legittimo il distacco dall'impianto ma aveva al contempo ritenuto valida la clausola regolamentare, di fatto obbligando il comproprietario a continuare a concorrere alle spese di gestione, facendo quindi venire meno una dei principali vantaggi derivanti dall'operazione di distacco. La sentenza, appellata dinanzi al giudice di secondo grado, era stata integralmente confermata.
Il distacco dall'impianto centralizzato di riscaldamento. Il tema del distacco dei condomini dall'impianto centralizzato di riscaldamento, affrontato a più riprese dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, è stato oggetto anche della recente riforma della disciplina del condominio di cui alla legge n. 220/2012. E in effetti il nuovo art. 1118 c.c. ha previsto espressamente che «il condomino può rinunciare all'utilizzo dell'impianto centralizzato di riscaldamento o di condizionamento, se dal suo distacco non derivano notevoli squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini.
In tal caso il rinunciante resta tenuto a concorrere al pagamento delle sole spese per la manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma». A tale proposito bisogna considerare che l'impianto di riscaldamento è un bene comune e, conseguentemente, il suo funzionamento è regolato dal principio generale di uguaglianza dei condomini nell'uso della cosa comune, principio per il quale tutti i servizi comuni devono essere fruiti dai condomini in maniera uguale.
Ecco perché per rendere legittimo il distacco devono sussistere entrambe le condizioni previste dal nuovo art. 1118 c.c. e cioè: a) il distacco non deve determinare squilibri di funzionamento o aggravi di spesa per gli altri condomini; b) il condomino rinunciante, in quanto resta comunque comproprietario dell'impianto comune e si limita semplicemente a non usufruirne, resta comunque tenuto a concorrere al pagamento delle spese di manutenzione straordinaria dell'impianto e per la sua conservazione e messa a norma (mentre è invece esonerato dal dover sostenere le spese per l'uso del servizio).
La decisione della Suprema corte. Fermo quanto sopra, nel caso specifico i giudici di legittimità sono stati chiamati a valutare un aspetto interessante e cioè se in questi casi sia o meno valida e vincolante la norma regolamentare che vieti il distacco dall'impianto comune o che, con effetti pratici analoghi, pur autorizzando l'operazione, obblighi il condomino a continuare a sostenere anche le spese per l'utilizzo (in realtà assente) del servizio comune.
La decisione della Suprema corte, prima ancora che sulle novità legislative degli ultimi anni, come detto decisamente favorevoli al distacco dei condomini dall'impianto di riscaldamento centralizzato, si è basata su una valutazione delle finalità e della meritevolezza di tutela giuridica di clausole regolamentari siffatte.
Come è noto, il regolamento c.d. contrattuale, originario o comunque accettato da tutti i comproprietari nei relativi atti di acquisto, vincola tutti in condomini al suo contenuto, proprio perché fatto proprio da ciascun condomino. È vero però che nel corso degli anni questo principio è stato meglio chiarito dalla Suprema corte, nel senso di considerare come realmente vincolanti per tutti i condomini non tutte le clausole contenute in un regolamento di natura contrattuale ma soltanto quelle realmente incidenti sui diritti esclusivi dei comproprietari e non meramente finalizzate a disciplinare l'utilizzo e la gestione delle parti comuni (con la notevole differenza pratica per cui dette clausole, anche se contenute in un regolamento del genere, possono essere modificate dall'assemblea anche a maggioranza).
Nella specie i giudici di legittimità hanno quindi ritenuto che la tesi sostenuta dal condominio ricorrente e per la quale i condomini, nell'ambito della propria autonomia contrattuale, possano prevedere che anche il comproprietario che si sia legittimamente distaccato dall'impianto centralizzato debba comunque continuare a concorrere alle spese di gestione, debba ritenersi superata alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali (con particolare riferimento a quanto affermato nella sentenza n. 19893/2011 della Suprema corte).
Con tale pronuncia la Cassazione ha infatti precisato che laddove la rinuncia del condomino all'impianto comune avvenga senza pregiudizio del pari diritto degli altri comproprietari, sia legittimo l'esonero dalle spese per l'utilizzo del medesimo, nonostante il dissenso degli altri condomini. L'eventuale disposizione contraria contenuta in un regolamento di natura contrattuale, secondo i giudici, deve infatti essere valutata tenendo conto che quest'ultimo si sostanzia in «un contratto atipico meritevole di tutela solo in presenza di un interesse generale dell'ordinamento».
Deve pertanto considerarsi nulla la disposizione regolamentare che impedisca tout-court il distacco del singolo condomino, così come la diversa ma, agli effetti pratici, analoga previsione dell'obbligo del condomino di sostenere le spese di gestione del servizio malgrado il distacco, «dovendosi ragionevolmente sostenere», si legge nella sentenza, «che la permanenza di tale obbligazione di fatto assicuri la sopravvivenza della clausola affetta da nullità, impedendo il prodursi di quello che è il principale e auspicato beneficio che il condomino intende trarre dalla decisione di distaccarsi dall'impianto comune».
Secondo la Suprema corte, infatti, non appare sostenibile, né logicamente né giuridicamente, che le diverse previsioni regolamentari del divieto di distacco e dell'obbligo di pagamento del servizio anche qualora non se ne usufruisca possano avere una diversa sorte in punto di accertamento della loro validità. A conforto di queste conclusioni la seconda sezione civile della Cassazione ha quindi richiamato la menzionata disposizione di cui al nuovo art. 1118 c.c., «previsione che riveste chiara portata ricognitiva dello stato della giurisprudenza sul punto».
Nella sentenza in questione è stato inoltre ricordato il dettato di cui all'art. 26 della legge n. 10/1991 (che prevedeva un abbassamento del quorum assembleare per le innovazioni relative all'adozione di sistemi di termoregolazione e contabilizzazione del calore negli edifici) e il contenuto della legge n. 102/2014 (che ha imposto ai condomini il predetto sistema di calcolo e suddivisione delle spese del riscaldamento). Da queste disposizioni, secondo i giudici di legittimità, «emerge un quadro normativo che denota l'intento del legislatore di correlare il pagamento delle spese di riscaldamento all'effettivo consumo, consumo che chiaramente non sussiste nel caso di legittimo distacco» (articolo ItaliaOggi Sette del 12.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi raddoppiati in caso di handicap. La sentenza della Corte di cassazione sulla fruibilità della misura da parte dei genitori.
Il dlgs 151/2001 recante norme in materia di maternità e paternità, prevedeva all'art. 42, comma 5, la facoltà per il genitore di figlio portatore di handicap grave di fruire di un congedo entro il limite di due anni. La norma anzidetta è stata da ultimo riscritta ed ampliata con le modifiche alla disciplina in materia di permessi e congedi per l'assistenza alle persone con disabilità di cui al decreto legislativo 18.07.2011, n. 119. Secondo l'Inps, tale congedo poteva essere fruito dal genitore solo una volta nell'arco della vita lavorativa, anche se i figli nelle medesime condizioni di handicap grave fossero due.

Non è così per la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, come statuito in sentenza 05.05.2017 n. 11031.
La Corte d'Appello rigettava il gravame proposto dall'Inps contro la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di una lavoratrice riconoscendole il diritto a fruire del congedo ex art. 42, comma 5, dlgs 151/2001 entro il limite di due anni per ciascuno dei figli minori portatori di handicap grave.
A fondamento della domanda la Corte territoriale affermava che il diritto al congedo biennale ai sensi dell'art. 4, comma 2, della legge 53/2000 potesse essere attribuito più volte in capo allo stesso lavoratore nell'ipotesi in cui vi fossero più soggetti in relazione ai quali il beneficio potesse essere richiesto; essendo il diritto attribuito a ciascuno dei figli minori affetto da handicap grave; mentre l'espressione riferita alla «durata complessiva di due anni» consente di sommare i periodi di congedo goduti alternativamente da entrambi i genitori, ma non i congedi relativi ad altri figli in situazione di handicap grave.
Avverso detta sentenza insisteva l'Inps con ricorso per Cassazione, atteso che le affermazioni della Corte di merito erano in contrasto con la formulazione letterale delle norme citate dalle quali si evinceva che il diritto al congedo biennale può essere fruito una sola volta, in maniera continuativa o frazionata, nell'arco della vita lavorativa. Per la suprema Corte la tesi dell'Inps è da ritenersi infondata.
L'art. 42, 5° comma, del dlgs 151/2001 riconosceva il diritto al congedo per handicap grave ad entrambi i genitori sostenendo che lo stesso non possa superare «la durata complessiva di due anni». L'art. 4, comma 2, della legge 53/2000 parla allo stesso scopo di un «periodo di congedo, continuativo o frazionato non superiore a due anni». L'art. 2 del dm 278/2000 prevede con analoga formula che il congedo biennale in questione «può essere utilizzato per un periodo, continuativo o frazionato non superiore a due anni nell'arco della vita lavorativa
Nessuna delle disposizioni citate autorizza però ad affermare che sul piano letterale la legge abbia inteso riferirsi alla durata complessiva dei possibili congedi fruibili dall'avente diritto, anche nell'ipotesi in cui i soggetti da assistere fossero più di uno; non è quindi condivisibile che esaurito il periodo complessivo di due anni il genitore non abbia più diritto nell'arco della vita lavorativa ad altro periodo di congedo, nell'ipotesi in cui avesse un altro figlio da assistere in situazione di handicap grave.
Le stesse norme, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli artt. 2, 3, 32 Cost. possono essere intese soltanto nel senso che il limite dei due anni, in effetti non superabile nell'arco della vita lavorativa anche nel caso di godimento cumulativo di entrambi i genitori, si riferisca tuttavia a ciascun figlio che si trovi nella prevista situazione di bisogno, in modo da non lasciarne alcuno privo della necessaria assistenza che la legge è protesa ad assicurare.
Nella stessa direzione si esprime ora, espressamente, la stessa legge grazie all'art. 4 del decreto Legislativo 18.07.2011, n. 119 che ha modificato l'articolo 42, decreto legislativo 26.03.2001, n. 151, in materia di congedo per assistenza di soggetto portatore di handicap grave, introducendo un comma 5-bis del seguente tenore: «Il congedo fruito ai sensi del comma 5 non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap e nell'arco della vita lavorativa...».
Tale esplicitazione normativa, introdotta dal decreto 119/2011, deve ritenersi confermativa del tenore della legge precedente (come risulta anche dalle indicazioni fornite dalla Circolare Inpdap 10.01.2002, n. 2 e dalla Circolare Inpdap del 12.03.2004 n. 31). Le considerazioni sin qui svolte hanno imposto quindi il rigetto del ricorso promosso dall'Inps avverso la sentenza impugnata che invece aveva fatto buon governo (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

APPALTI: Tar e giudici ordinari, competenze confuse.
Riparto di giurisdizione confuso tra i Tar e i giudici ordinari. È competente il giudice ordinario per le controversie riguardanti la revoca dell'aggiudicazione definitiva da parte dell'amministrazione comunale per inadempimento dell'appaltatore delle obbligazioni contrattuali in seguito all'affidamento dell'attività di accertamento tributario. Sono devolute al giudice amministrativo solo le cause relative alle procedure di affidamento dell'appalto.

È quanto ha affermato il TAR Calabria-Reggio Calabria, con la sentenza 04.05.2017 n. 425.
Per i giudici amministrativi, «le controversie comunque concernenti la fase di esecuzione del contratto sono devolute alla giurisdizione del G.O., dato che concernono i diritti e gli obblighi delle parti che attengono allo svolgimento del rapporto negoziale». Pertanto, le cause che hanno a oggetto la revoca dell'aggiudicazione definitiva da parte dell'amministrazione comunale per inadempimento dell'appaltatore non possono che essere attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario.
Del resto, ricordano i giudici, «le obbligazioni contrattuali assunte mediante l'esecuzione anticipata rientra nella giurisdizione del G.O., poiché attiene, sostanzialmente, alla fase della esecuzione del contratto». In questi casi, infatti, nel processo la parte interessata intende tutelare un proprio diritto soggettivo.
Nella pronuncia il Tar a conforto della propria tesi richiama l'interpretazione della Cassazione che, nella qualità di giudice regolatore della giurisdizione, ha affermato il principio secondo cui sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo le cause derivanti dalle procedure di affidamento dell'appalto. Qualora, invece, si tratti di violazioni commesse dall'appaltatore nell'ambito dell'esecuzione del contratto, di azioni risarcitorie per inadempienze di cui si è reso responsabile per l'incarico affidato (nel caso di specie il recupero dell'evasione fiscale attraverso lo svolgimento dell'attività di accertamento), non vi può essere «alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario».
In realtà, tutto ciò è estraneo al procedimento di aggiudicazione dell'appalto e al rispetto delle regole per la scelta del contraente da parte della pubblica amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 17.05.2017).
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MASSIMA
3. Ciò doverosamente premesso, deve tuttavia essere dichiarato il difetto di giurisdizione del Giudice adito, per essere la controversia in esame devoluta alla giurisdizione del Giudice Ordinario.
Reputa il Collegio di aderire all’orientamento pacifico ( v. SS.UU, 18.10.2005, n. 20116; SS.UU, 06.05.2005, n. 9391; TAR Toscana, I, 27.06.2016, n. 1088, e n. 610/2016), secondo cui
le controversie comunque concernenti la fase di esecuzione del contratto sono devolute alla giurisdizione del G.O., dato che concernono i diritti e gli obblighi delle parti che attengono allo svolgimento del rapporto negoziale.
Invero,
deve ritenersi che le controversie aventi ad oggetto la revoca dell’aggiudicazione definitiva da parte della p.a. per l'inadempimento da parte dell'appaltatore delle obbligazioni contrattuali assunte mediante l’esecuzione anticipata rientra nella giurisdizione del G.O., poiché attiene, sostanzialmente, alla fase della esecuzione del contratto.
Invero,
l’accettazione dell’esecuzione anticipata da parte dell’aggiudicataria implica la conclusione di un vero e proprio accordo di matrice negoziale, il cui inadempimento attrae la controversia nella giurisdizione del giudice ordinario, in ragione del fatto che le reciproche posizioni delle parti assumono la consistenza del diritto soggettivo (Cass., S.U., n. 9391/2005).
La Corte Suprema di Cassazione, quale giudice regolatore della giurisdizione, ha statuito che
sono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo solo le controversie derivanti dalle procedure di affidamento dell’appalto, mentre per quelle che traggono origine dall’esecuzione del contratto non v'è alcuna deroga alla giurisdizione del giudice ordinario; pertanto, ove l'impresa appaltatrice dia anticipatamente avvio alla prestazione nelle more della stipula del contratto, allorché si discuta dell'inadempimento di quest'ultima nell’esecuzione anticipata e della risoluzione del rapporto o di questioni risarcitorie connesse a inadempienze riguardanti l’esecuzione dei lavori, siffatta controversia -essendo estranea alla tematica dell'aggiudicazione, ovvero del procedimento attraverso il quale la pubblica amministrazione sceglie il proprio contraente- appartiene alla cognizione del Giudice Ordinario riguardando l’esecuzione del rapporto (sia pure anticipata rispetto alla stipula formale del negozio: SS.UU. 06.05.2005, n. 9391; TAR Sicilia, Palermo, I, 13.06.2012, n. 1219; TAR Calabria, Catanzaro, II, 02.02.2016, n. 206).
4. Alla luce delle superiori considerazioni, deve dichiararsi l’inammissibilità del gravame per difetto di giurisdizione dell’adìto Giudice Amministrativo, con contestuale declinatoria in favore del Giudice Ordinario, dinanzi al quale il presente giudizio potrà essere riassunto ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 11 cpa.

ATTI AMMINISTRATIVI: Danni p.a., ok 120 giorni per la richiesta.
Tempi stretti per chiedere i danni alla p.a. per lesione di interessi legittimi (ad esempio da permessi da costruire illegittimi). La legge prevede 120 giorni, decorsi i quali si decade. Ma questo limite non viola la Costituzione.

La Corte costituzionale con la sentenza 04.05.2017 n. 94 ha salvato l'articolo 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo (dlgs 104/2010).
L'articolo in questione prevede che la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi debba essere proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni, decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato o dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo.
Il caso è stato sollevato dal Tar Piemonte nel corso di un giudizio promosso da una società contro un comune per ottenere il risarcimento derivante da quattro permessi di costruire poi riconosciuti illegittimi. La società ha comprato terreni edificabili e ha chiesto i permessi per costruire tre ville, un strada e le urbanizzazioni.
I lavori hanno subito uno stop immediato per effetto di una sospensione intimata dall'Anas, cui il comune si era dimenticato di chiedere un nullaosta.
Questo è arrivato, ma ormai dopo un anno, cioè quando la situazione del mercato immobiliare ha sconsigliato la società di proseguire.
In conclusione, per i ritardi accumulati imputabile all'amministrazione, il progetto non era stato portato avanti e la società ha chiesto i danni al comune.
Il Tar, però, ha constatato che la domanda di risarcimento danno era tardiva perché erano trascorsi più di 120 giorni dalla conoscenza dei fatti, da cui è derivata la possibilità di agire in via risarcitoria (cioè nel momento in cui l'Anas ha bloccato i lavori).
Il Tar Piemonte ha portato la questione alla Corte costituzionale, che però non ha ritenuto fondata l'eccezione.
Il problema è la previsione di un termine corto per avviare un processo per chiedere in via autonoma il risarcimento dei danni alla pubblica amministrazione per violazione dell'interesse legittimo, mentre per la lesione dei diritti soggettivi vale il termine di prescrizione di cinque anni. Non ci sarebbe parità di trattamento. In gioco ci sarebbe poi il diritto di difesa, da valutare anche alla luce della dichiarazione europea dei diritti dell'uomo.
La Consulta ha seguito un diverso orientamento.
Il codice del processo amministrativo prevede che il risarcimento del danno effetto della illegittima attività della pubblica amministrazione possa essere ottenuto proponendo l'azione di condanna esercitata in via autonoma e, in questo caso, scatta la tagliola dei 120 giorni. In via autonoma significa senza impugnare l'atto che causa il danno. Se non si impugna l'atto si hanno 120 giorni di tempo e poi il diritto si estingue.
Ma secondo la Corte costituzionale non c'è lesione del principio di uguaglianza o altro profilo di irragionevolezza della norma.
La Consulta ricorda che il legislatore gode di ampia discrezionalità in tema di disciplina degli istituti processuali e questo vale anche per i termine decadenziale o prescrizionale a seconda delle peculiari esigenze del procedimento.
Qui abbiamo l'interesse generale a non lasciare in sospeso una questione importante come l'eventuale debito per danna da pagare al privato. Tra l'altro, conclude la Consulta, il termine di 120 giorni è anche più lungo di altri termini decadenziali previsti in altri casi e di per sé il termine non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di difesa come delineato anche dalla disciplina si diritti dell'uomo (articolo ItaliaOggi del 05.05.2017).

APPALTINon osservare la finestra temporale esclude dalla gara. Appalti/il caso dei file inviati in anticipo rispetto ai tempi previsti.
Un partecipante alla gara che incorra nella violazione della disposizione relativa alla osservanza della «finestra temporale» viene espulso a prescindere dalla circostanza che il file trasmesso in anticipo, contenente l'offerta tecnica, risulti in concreto essere stato aperto e visionato prima della scadenza del termine ultimo fissato per la «marcatura temporale» dei file.

Lo ricorda il TAR Piemonte, con ordinanza 20.04.2017 n. 168 rilevando però che il meccanismo determina effetti paradossali: infatti, laddove in concreto il file trasmesso in anticipo rispetto alla «finestra temporale» non sia aperto e visionato prima della scadenza fissata per la «marcatura temporale» dei file (momento a partire dal quale le offerte diventano immutabili per tutti i partecipanti alla gara), è evidente che la violazione di cui si discute è inidonea ad influire sulla formazione delle offerte tecniche degli altri partecipanti.
Così, l'espulsione del concorrente che presenta la propria offerta in anticipo rispetto alla «finestra temporale» finisce per integrare una sanzione meramente punitiva, illegittima in quanto contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione e, al contempo, perché di fatto induce una limitazione della concorrenza.
Laddove, al contrario, prima della scadenza del termine fissato per la «marcatura temporale» risulti che il file contenente l'offerta tecnica trasmessa in anticipo sia stato aperto da taluno, si può in effetti ipotizzare un effetto potenziale distorsivo della gara, conseguente al fatto che la (illegittima) visione dell'offerta presentata in anticipo può influire sulla formulazione delle offerte tecniche da parte di altri partecipanti.
Il rispetto del principio di segretezza delle offerte dovrebbe tuttavia determinare, in una simile evenienza, la preclusione ad esaminare non solo, e non tanto, l'offerta presentata in anticipo –che il ricordato principio di segretezza certamente non può aver violato– quanto piuttosto tutte le offerte presentate in un momento successivo. Rispetto a tale evenienza l'espulsione del concorrente che ha presentato l'offerta in anticipo risulta integrare una misura assolutamente inadeguata a mettere la gara al riparo dalle potenziali distorsioni conseguenti alla violazione della segretezza delle altrui offerte.
I giudici amministrativi si sono espressi con ordinanza su un ricorso per l'annullamento previa sospensione dell'efficacia della comunicazione d'esclusione ex art. 76, comma 5, lett. b), dlgs 50/2016 con cui veniva disposta l'estromissione della società Alfa dalla gara espletata tramite sistema dinamico di acquisizione per la fornitura di dispositivi medici a favore delle aziende del servizio sanitario della Regione Piemonte e Valle d'Aosta (articolo ItaliaOggi Sette del 05.06.2017).
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MASSIMA
Il Collegio,
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rilevato, all’esito della pur sommaria cognizione propria della fase cautelare, che l’art. 14 della lettera di invito 22.11.2016 nonché la Comunicazione 30.11.2016, che ha disposto la proroga dei termini relativi alla apposizione della firma digitale, alla marcatura digitale dei files ed all’invio della offerta tecnica, appaiono illegittimi nella parte in cui prevedono l’esclusione dalla gara a carico dei partecipanti che trasmettano l’offerta tecnica fuori dalla “finestra temporale” individuata a tale scopo dal citato articolo 14, ancorché in anticipo sul termine finale, da ultimo fissato al 17.01.2017 ore 12;
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rilevato, infatti, che in forza della censurate previsioni della lex specialis di gara il partecipante che incorra nella violazione della disposizione relativa alla osservanza della “finestra temporale -indicata all’art. 14 della lettera di invito– viene espulso a prescindere dalla circostanza che il file tramesso in anticipo, contenente l’offerta tecnica, risulti in concreto essere stato aperto e visionato prima della scadenza del termine ultimo fissato per la “marcatura temporale” dei files;
   -
considerato che il sopra descritto meccanismo determina effetti paradossali:
● infatti, laddove in concreto il file trasmesso in anticipo rispetto alla “finestra temporale” non sia aperto e visionato prima della scadenza fissata per la “marcatura temporale” dei files (momento a partire dal quale le offerte diventano immutabili per tutti i partecipanti alla gara), è evidente che la violazione di cui si discute è inidonea ad influire sulla formazione delle offerte tecniche degli altri partecipanti, di guisa che l’espulsione del concorrente che presenta la propria offerta in anticipo rispetto alla “finestra temporale” finisce per integrare una sanzione meramente punitiva, illegittima in quanto contraria al principio di tassatività delle cause di esclusione e, al contempo, perché di fatto induce una limitazione della concorrenza;
● laddove, al contrario, prima della scadenza del termine fissato per la “marcatura temporale” dei files risulti che il file contenente l’offerta tecnica trasmessa in anticipo sia stato aperto da taluno, si può in effetti ipotizzare un effetto potenziale distorsivo della gara, conseguente al fatto che la (illegittima) visione della offerta presentata in anticipo può influire sulla formulazione delle offerte tecniche da parte di altri partecipanti: il rispetto del principio di segretezza delle offerte dovrebbe tuttavia determinare, in una simile evenienza, la preclusione ad esaminare non solo, e non tanto, l’offerta presentata in anticipo –che il ricordato principio di segretezza certamente non può aver violato– quanto piuttosto tutte le offerte presentate in un momento successivo, di guisa che rispetto a tale evenienza l’espulsione del concorrente che ha presentato l’offerta in anticipo risulta integrare una misura assolutamente inadeguata a mettere la gara al riparo dalle potenziali distorsioni conseguenti alla violazione della segretezza delle altrui offerte;
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considerato conclusivamente che, all’esito del sommario esame proprio della fase cautelare, la clausola di esclusione oggetto di gravame, sanzionando il solo concorrente che presenta l’offerta tecnica in anticipo, appare in concreto inadeguata a tutelare il principio di segretezza ed a garantire il corretto svolgimento della gara, e che tale constatazione sarebbe di per sé sufficiente a qualificare la clausola medesima quale causa di esclusione illegittima e come tale priva di efficacia ai sensi dell’art. 83, comma 8, D.L.vo 50/2016;
   -
ritenuto, a conferma della inutilità ed illegittimità della clausola di esclusione in esame, che in realtà la Stazione Appaltante avrebbe potuto tutelare la segretezza delle offerte attivando –o facendo attivare- dispositivi idonei a respingere automaticamente eventuali files inviati in anticipo rispetto alla apertura della “finestra temporale” e sino ad apertura della stessa, nonché chiedendo ai partecipanti di “criptare” i files e di fornire i codici di accesso ai medesimi in un momento successivo alla chiusura della “finestra temporale” e/o alla “marcatura temporale” dei files;
   - ritenuto conclusivamente che sussiste il fumus del ricorso e che va salvaguardata la possibilità per la ricorrente di partecipare alla gara di che trattasi;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte (Sezione Prima) accoglie la suindicata domanda cautelare e per l’effetto:
   - sospende il provvedimento 24/02/2017 Prot. n. 2010 a mezzo del quale il RUP ha disposto l’esclusione della ricorrente dalla gara;
   - dispone la ri-ammissione con riserva della ricorrente alla gara indetta con gli atti indicati in epigrafe;
   - fissa per la discussione del merito la pubblica udienza dell’08.11.2017.

EDILIZIA PRIVATA - VARINon agibilità, locazione valida. Se l'assenza del certificato era nota il contratto rimane. Il principio della Corte di cassazione in una sentenza del 13/4 sugli immobili commerciali.
L'assenza del certificato di agibilità, se nota al conduttore di un immobile commerciale (ma anche in caso di vendita di abitazioni tra privati), non ha alcun effetto sulla validità stessa del contratto di locazione. L'inadempimento del locatore si ha solo quando la mancanza di titoli autorizzativi dipenda da carenze intrinseche o da caratteristiche proprie del bene locato, tali impedire il rilascio degli atti amministrativi necessari per l'esercizio dell'attività.

È il principio espresso dalla Corte di Cassazione, III Sez. civile (ordinanza 13.04.2017 n. 9558) sull'eventuale nullità di un contratto di locazione di un immobile per attività d'impresa in assenza del certificato di agibilità.
La funzione del certificato di agibilità è quella di attestare la sussistenza di determinati standards igienici e sanitari e di sicurezza, garantendo che in fase di costruzione, siano state osservate determinate prescrizioni igienico-sanitarie, in base alle leggi vigenti al momento della costruzione o dell'intervento.
Il fatto. Tizia chiedeva la risoluzione del contratto di locazione di immobile ad uso diverso da quello abitativo per inadempimento della società cooperativa per i mancati versamenti delle mensilità pattuite, nonché la condanna della stessa al pagamento dei canoni maturati nel periodo agosto 2009-settembre 2010.
La Corte d'appello di Roma (con la sentenza 05/06/2014 n. 3784) evidenziava che la condizione giuridica dell'immobile, non conforme alla vigente normativa urbanistica, non cagionava la nullità ex articolo 1418, comma 2, c.c. del contratto di locazione, in quanto tale condizione era stata specificamente indicata nel contratto stesso ed accettata dalla conduttrice, che aveva approvato per iscritto separatamente la relativa clausola, rimanendo quindi esclusa l'applicazione della disciplina normativa dei vizi della cosa locata.
I giudici della Cassazione, rigettando il ricorso presentato dalla società, la condannavano al pagamento dei canoni mensili e le relative spese in favore della ricorrente.
Vendita e locazione senza certificato di agibilità. La Corte di cassazione, con la sentenza dell'8 febbraio 2016 n. 24386, ha stabilito che la vendita di un immobile ad uso abitativo privo di certificato di agibilità:
   - configura una vendita di cosa in parte o del tutto diversa da quella dedotta in contratto;
   - il compratore può chiedere legittimamente o la risoluzione del contratto (ovvero lo scioglimento del contratto) o l'adempimento dello stesso qualora abbia interesse all'acquisto, ferma la possibilità di chiedere il risarcimento dei danni;
   - l'acquirente può rifiutarsi di firmare il rogito notarile, anche qualora abbia già stipulato il contratto preliminare di compravendita;
   - se manca l'agibilità per adibire un immobile a casa di abitazione e quindi l'immobile può essere utilizzato solo per altri scopi (ad es.: magazzino) l'acquisto è valido lo stesso, ma l'acquirente ha acquistato una cosa per un altra, con lesione dei suoi diritti.
In tema di locazione d'immobili ad uso diverso da abitazione, diversamente che per le autorizzazioni amministrative (come l'iscrizione alla camera di commercio), ovvero di quelle di pubblica sicurezza necessarie all'esercizio di specifiche attività (o per poter adibire i locali a pubblici spettacoli), incombe sul locatore l'obbligo di curare l'ottenimento del certificato di abitabilità.
Quest'ultimo è posto a tutela delle esigenze igieniche e sanitarie nonché degli interessi urbanistici e attestante l'idoneità dell'immobile a essere «abitato» e più generalmente ad essere frequentato dalle persone fisiche. La mancanza dello stesso determina non la nullità del contratto per illiceità dell'oggetto, bensì una situazione d'inadempimento.
Le norme sul certificato di agibilità. È con l'articolo 26 del dpr 06.06.2001 n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) che vengono disciplinati casi e modalità di rilascio del certificato di agibilità.
Ai fini dell'agibilità, entro 15 giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento, il soggetto titolare del permesso di costruire, o il soggetto che ha presentato la segnalazione certificata di inizio di attività, o i loro successori o aventi causa, presentano allo sportello unico per l'edilizia la segnalazione certificata, per i seguenti interventi:
   - nuove costruzioni;
   - ricostruzioni o sopraelevazioni, totali o parziali;
   - interventi sugli edifici esistenti che possano influire sulle condizioni di igiene e sicurezza.
Pertanto a partire dall'entrata in vigore del T.u. sull'edilizia, il certificato di agibilità deve essere richiesto solo per i nuovi edifici (ossia quelli costruiti successivamente al 30/06/2003) o per quelli già esistenti per i quali siano stati eseguite talune tipologie di interventi edilizi. Non sussiste invece nessun obbligo di richiedere il certificato di agibilità per le vecchie costruzioni che non siano state oggetto di interventi successivamente all'entrata in vigore del dpr 380/2001.
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Contratti a canone concordato, regole in chiaro.
I contratti a canone concordato possono essere sottoscritti in qualsiasi città, ma è anche vero che la chance delle agevolazioni fiscali che può indurre i proprietari di casa a optare per questo strumento vale solo per gli immobili localizzati nei c.d. comuni ad alta tensione abitativa. Il recente decreto del ministero delle infrastrutture e dei trasporti del 16.01.2017, pubblicato in G.U. lo scorso 15 marzo e in vigore dal 30 marzo, nel lasciare sostanzialmente immutato l'impianto normativo, non ha quindi potuto risolvere uno dei problemi che rendono poco appetibile questo strumento.
Gli incentivi fiscali della deduzione Irpef del 30% e della riduzione del 30% della base imponibile della tassa di registro, nonché, soltanto fino al 31.12.2017, l'aliquota del 10% della cedolare secca, sono infatti stati previsti per i contratti di locazione agevolati dall'art. 8 della legge n. 431/98 (dunque da una norma di legge) soltanto per i comuni ad alta tensione abitativa, laddove l'ulteriore beneficio della possibile riduzione del 25% dell'Imu e della Tasi, introdotto con la legge di stabilità del 2016, si applica all'intero territorio nazionale. La limitazione territoriale degli incentivi fiscali, seppure all'epoca motivata da altre ragioni, rischia però di stroncare sul nascere qualsiasi velleità di rilancio di tale strumento contrattuale.
I proprietari di casa, infatti, sottoscrivendo un accordo del genere, rinunciano ad applicare i ben più cospicui canoni di mercato, rimessi alla libera contrattazione.
È vero che, oggigiorno, vista la grave situazione di crisi economica e l'impennata vertiginosa del numero degli sfratti per morosità, un canone più basso (e, dunque, maggiormente sostenibile), può rappresentare una migliore garanzia di adempimento da parte del conduttore, ma il beneficio fiscale connesso a tale strumento negoziale rappresenta di gran lunga la principale motivazione che spinge il locatore a tollerare l'imposizione del calmiere.
Al decreto ministeriale sono allegati gli schemi contrattuali da utilizzare in questi casi, ma la determinazione della misura del canone agevolato sulla base degli accordi territorialmente applicabili continua a essere un'operazione non certo alla portata di tutti, rendendo quindi consigliabile il ricorso a un'organizzazione di categoria dei proprietari o degli inquilini.
Ove ciò non sia avvenuto, qualora cioè le parti abbiano provveduto da sole alla redazione e alla sottoscrizione del contratto di locazione a canone agevolato, è però previsto che le stesse possano rivolgersi all'occorrenza alle apposite commissioni di negoziazione paritetica e di conciliazione giudiziale che la nuova convenzione nazionale dello scorso ottobre 2016 ha previsto di istituire presso le organizzazioni di categoria.
Dette commissioni, infatti, potranno attestare la rispondenza del contenuto normativo ed economico dei contratti agli accordi di riferimento, oltre a tentare di risolvere transattivamente eventuali controversie insorte tra le parti circa l'interpretazione e/o l'esecuzione del contratto di locazione e/o degli accordi territoriali o integrativi, evitando così l'avvio di nuovi contenziosi giudiziali (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).
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MASSIMA
La questione della nullità del contratto è stata compiutamente esaminata dalla Corte territoriale, sotto entrambi i profili di illiceità dell'oggetto e di illiceità della causa.
In particolare, quanto al primo aspetto, i Giudici di merito hanno rilevato che la difformità urbanistica dell'immobile, specificamente per quanto concerneva la destinazione commerciale dei locali, era stata oggetto di espressa clausola, sottoscritta anche separatamente dalla società conduttrice, in conformità all'art. 1341, comma 2, c.c., traendone la conseguenza, da un lato, che la condizione di difformità urbanistica dell'immobile non inficiava la illiceità della prestazione (concessione in godimento del bene), e dall'altro che la conduttrice aveva espressamente accettato tale condizione assumendo quindi il rischio dell'eventuale impossibilità di sfruttamento dell'immobile ad uso commerciale.
La Corte territoriale ha pertanto deciso conformemente ai consolidati principi di diritto enunciati in materia da questa Corte secondo cui
il carattere "abusivo" di una costruzione concretandosi in una illiceità dell'opera, può costituire fonte della responsabilità dell'autore nei confronti dello Stato ma non comporta la invalidità del contratto di locazione della costruzione stipulato tra privati, trattandosi di rapporti distinti e regolati ciascuno da proprie norme, venendo e riverberare la condizioni giuridica predetta sulla qualità del bene immobile, e non anche sulla eseguibilità della prestazione del locatore avente ad oggetto la concessione del pieno e continuato godimento del bene (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 583 del 29/01/1982 che ha esaminato il caso di abuso edilizio consistente nella costruzione fatta dal privato su terreno demaniale. Vedi giurisprudenza sopra richiamata: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 583 del 29/01/1982; id. Sez. 3, Sentenza n. 4228 del 28/04/1999; id. Sez. 3, Sentenza n. 19190 de/ 15/12/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 22312 del 24/10/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 12983 del 27/05/2010; vedi Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11964 del 16/05/2013) nel caso in cui non sia stata resa nota, né altrimenti conosciuta dal conduttore la condizione urbanistica dell'immobile locato, il mancato rilascio di concessioni, autorizzazioni o licenze amministrative relative alla destinazione d'uso dei beni immobili -ovvero alla abitabilità dei medesimi- non è di ostacolo alla valida costituzione di un rapporto locatizio, sempre che vi sia stata concreta utilizzazione del bene locato (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 23695 del 21/12/2004), in difetto soccorrendo, invece, il rimedio della risoluzione del contratto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12708 del 25/05/2010) se il locatore ha assunto la obbligazione di garantire il pacifico godimento dell'immobile espressamente in funzione della specifica destinazione prevista e concordata in contratto, occorrendo all'uopo una "specifica pattuizione, non essendo sufficiente la mera enunciazione, nel contratto, che la locazione sia stipulata per un certo uso e l'attestazione del riconoscimento della idoneità dell'immobile da parte del conduttore", in tal caso l'impedimento all'esercizio della attività svolta dal conduttore per difetto di rilascio del provvedimento di conformità urbanistica della destinazione impressa dalle parti all'immobile, determina il colpevole inadempimento del locatore alla esecuzione della prestazione di godimento derivante dal contratto (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 20831 del 26/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 975 del 17/01/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 5836 del 13/03/2007) se invece la situazione urbanistica, pur se di ostacolo all'ottenimento delle autorizzazioni o licenze relative all'esercizio della attività commerciale da condurre nell'immobile locato, era nota ed è stata consapevolmente accettata dal conduttore, alcuna responsabilità contrattuale potrà gravare sul locatore per la impossibilità di utilizzazione dell'immobile locato in funzione dell'esercizio della predetta attività, in quanto non risulti successivamente autorizzata la modifica di destinazione d'uso (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 1398 del 2110112011).
I predetti principi sono stati compendiati, da ultimo, nelle più recenti sentenze di questa Corte, nella statuizione, condivisa dal Collegio, secondo cui «
in tema di obblighi del locatore, in relazione ad immobili adibiti ad uso non abitativo convenzionalmente destinati ad una determinata attività il cui esercizio richieda specifici titoli autorizzativi dipendenti anche dalla situazione del bene sotto il profilo edilizio -e con particolare riguardo alla sua abitabilità e alla sua idoneità all'esercizio di un'attività commerciale- solo quando la mancanza di tali titoli autorizzativi dipenda da carenze intrinseche o da caratteristiche proprie del bene locato, sì da impedire in radice il rilascio degli atti amministrativi necessari e quindi da non consentire in nessun caso l'esercizio lecito dell'attività del conduttore conformemente all'uso pattuito, può configurarsi l'inadempimento del locatore, fatte salve le ipotesi in cui quest'ultimo abbia assunto l'obbligo specifico di ottenere i necessari titoli abilitativi o, di converso, sia conosciuta e consapevolmente accettata dal conduttore l'assoluta impossibilità di ottenerli» (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 13651 del 16/06/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 15377 del 26/07/2016).

APPALTI: Solidarietà anche con gara pubblica. L’appaltante deve rispondere di retribuzioni e contributi omessi.
Cassazione. La responsabilità vale per tutti i committenti privati a prescindere dall’applicazione del Codice appalti.
Un’azienda privata è soggetta al regime di solidarietà del committente con l’appaltatore relativo alle retribuzioni e ai contributi previdenziali dovuti da quest’ultimo ai suoi dipendenti anche se applica il Codice degli appalti per l’aggiudicazione e la stipula dei servizi.
Il rispetto di questa normativa, infatti, non cambia l’ambito di applicazione della responsabilità solidale, non estensibile - per espressa previsione di legge - ai soli soggetti aventi la qualifica di pubblica amministrazione in base al testo unico sul pubblico impiego.

Questa la decisione contenuta nell'ordinanza 06.04.2017 n. 8959 della Corte di Cassazione, Sez. VI civile.
Una grande società di trasporti -di proprietà pubblica ma con struttura giuridica privata- ha affidato tramite appalto il servizio di pulizia e un dipendente dell’appaltatore l’ha chiamata in causa per vedersi riconosciuti retribuzione e Tfr non pagati dal suo datore di lavoro.
In primo grado il giudice ha accolto le richieste del lavoratore, mentre la Corte d’appello, richiamando la sentenza 15432/2014 della Cassazione, ha ritenuto che la responsabilità solidale prevista dall’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 276/2003 non sia applicabile agli appalti pubblici.
Il dipendente ha quindi presentato ricorso in Cassazione. I giudici della Suprema corte hanno rilevato che, con la sentenza 15432/2014, in realtà è stata dichiarata l’inapplicabilità della responsabilità solidale del comparto privato ai soli committenti qualificabili come pubbliche amministrazioni, in quel caso specifico il ministero della Giustizia, in coerenza con l’articolo 1, comma 2, del Dlgs 276/2003 secondo cui «il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale».
Con la sentenza 10731/2016, però, è già stato rilevato che «un analogo divieto di applicazione dell’articolo 29, secondo comma, del Dlgs 276/2003 non esiste nei confronti dei soggetti privati... cui pure si applica il codice dei contratti pubblici, nella sua qualità di “ente aggiudicatore”, secondo la definizione dell’articolo 3, ventinovesimo comma, Dlgs 163/2006 (il vecchio codice degli appalti pubblici, ndr)».
Secondo la Cassazione, quindi, non c’è incompatibilità tra le due norme, nel senso che l’applicazione verso un committente privato del codice degli appalti non conferisce automaticamente a tale soggetto la qualifica di pubblica amministrazione e, quindi, non comporta l’automatica esclusione del regime di responsabilità solidale.
Questo perché il Dlgs 276/2003 interviene sul mercato del lavoro con una particolare protezione della tutela delle condizioni dei lavoratori. Il codice dei contratti pubblici, invece, si concentra «sull’esecuzione dell’appalto in conformità a tutti gli obblighi previsti dalla legge».
Dunque queste diversità di situazioni e di interessi «giustifica la posizione più “onerosa” prevista» per gli imprenditori che sono soggetti alle doppie regole «in relazione alla peculiarità della loro qualificazione giuridica».
Nel caso specifico, quindi, è stato accolto l’appello del lavoratore e la decisione di secondo grado è stata cassata e rinviata alla Corte d’appello per un nuovo esame alla luce dei principi enunciati dalla Cassazione.
È utile ricordare che tale decisione non interferisce in alcun modo con le regole sulla preventiva escussione dell’appaltatore, di recente abrogate dal Dl 25/2017, che disciplinavano un momento successivo all’accertamento della responsabilità solidale
(articolo Il Sole 24 Ore del 07.04.2017).

TRIBUTITari/Tarsu, sui garage si paga. Gli occupanti devono dimostrare di non produrre rifiuti. Lo ha stabilito la Corte di cassazione: le pertinenze non sono esonerate dal pagamento.
Le pertinenze non sono esonerate dal pagamento della tassa rifiuti come l'Imu. I garage, infatti, sono soggetti al pagamento della tassa rifiuti anche se sono pertinenze delle abitazioni.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 31.03.2017 n. 8581.
Per i giudici di legittimità, sono infondate le sentenze di primo grado e d'appello impugnate in Cassazione laddove hanno riconosciuto «il diritto all'esenzione dalla Tarsu di area coperta, quantunque pertinenziale ad abitazione, pacificamente destinata alla custodia di autovettura, in forza della sola allegazione di detta destinazione, non essendo sufficiente allegare a tal fine la «peculiare destinazione funzionale dell'immobile ad autorimessa».
Infatti, è «fallace l'assunto secondo cui un locale adibito a garage non possa che ritenersi, di per sé, improduttivo di rifiuti solidi urbani (...)» in contraddizione con la fonte normativa primaria, dalla quale sono eccepite le sole «aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni».
Con una sentenza recente la Cassazione (17623/2016), con la quale ha affermato la tassabilità di garage, autorimesse e box, ha però lasciato uno spiraglio sulla questione sostenendo che questi immobili sono esonerati dal pagamento della tassa se gli occupanti dimostrano di non produrre rifiuti.
Dunque, i contribuenti non sono soggetti al pagamento della Tarsu, ma la stessa regola vale per la Tari, se provano che garage, autorimesse e box non producono rifiuti. Incombe sul contribuente l'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare delle esenzioni e, allo stesso modo, di segnalare al comune che alcune aree detenute od occupate aventi specifiche caratteristiche strutturali e di destinazione sono inidonee alla produzione di rifiuti. Non basta, invece, la peculiare destinazione funzionale dell'immobile ad autorimessa.
Tuttavia, è da chiedersi come può l'interessato dimostrare di non produrre rifiuti, se proprio la Cassazione ha ripetutamente ribadito da oltre un decennio che il mancato uso dell'immobile non è un motivo valido per chiedere la detassazione. E ha inoltre precisato che la mancata attivazione delle utenze idriche e elettriche non dà comunque luogo all'esonero dal pagamento.
Del resto, la Cassazione ha sempre posto dei limiti rigidi per l'esonero dal pagamento della tassa rifiuti, precisando che è dovuta a prescindere dal fatto che il contribuente utilizzi l'immobile (sentenza 22770/2009). Ex lege, vanno esclusi dalla tassazione solo gli immobili non utilizzabili (inagibili, inabitabili, diroccati).
Le regole. Il presupposto della Tarsu è l'occupazione o la detenzione di locali e aree scoperte a qualsiasi uso adibiti. È sufficiente che il servizio di smaltimento rifiuti sia istituito per imporre ai contribuenti il pagamento della tassa.
Quindi, il tributo è dovuto per la detenzione di locali e aree e non per il fatto che venga utilizzato il servizio fornito dall'ente (Cassazione, sentenza 12035/2015). La stessa regola vale oggi per la Tari, considerato che anche la nuova disciplina non collega il pagamento alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento rifiuti.
Sono state ritenute infondate le pronunce dei giudici tributari che hanno escluso il pagamento per i contribuenti che hanno documentato di non aver potuto fruire del servizio pubblico per la mancanza di collegamento stradale tra le loro abitazioni e il punto di raccolta dei rifiuti. Secondo la Cassazione non si può condizionare l'obbligo tributario alla materiale fruizione del servizio, in quanto i criteri di ripartizione del costo sostenuto dal comune non sono collegati al suo concreto utilizzo, ma si basano su indici presuntivi.
I benefici fiscali. Le amministrazioni locali oltre alle agevolazioni che devono essere assicurate ai contribuenti perché imposte dalla legge, hanno la facoltà di concedere riduzioni tariffarie e esenzioni tendenzialmente legate alla minore produzione di rifiuti. Hanno il potere di stabilire con regolamento riduzioni tariffare, senza limiti, e esenzioni anche legate al reddito familiare.
Le agevolazioni Tari, in effetti, possono essere collegate alla capacità contributiva dei contribuenti, desunta dagli indicatori della situazione economica (Isee). L'articolo 1 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) consente ai comuni di ridurre il carico del prelievo in capo a soggetti in condizioni di difficoltà economico-sociale. La disciplina di tali agevolazioni è rimessa alla potestà regolamentare degli enti, ma non può superare i limiti della non discriminazione e della non arbitrarietà.
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La ratio è soddisfare gli interessi generali.
La ragione istitutiva della tassa è quella di porre le amministrazioni locali nelle condizioni di soddisfare interessi generali della collettività, che sono anche quelli di tutelare l'ambiente e la salute pubblica. La ratio del tributo non è solo quella di fornire delle prestazioni riferibili ai singoli cittadini. Ecco perché il mancato svolgimento del servizio di raccolta da parte del comune non comporta l'esenzione, ma il pagamento del tributo in misura ridotta.
L'articolo 59, comma 4, del decreto legislativo 507/1993 disponeva per la Tarsu la riduzione anche se il servizio di raccolta, sebbene istituito, non venisse svolto nella zona di residenza, di dimora o dove esercitava l'attività il contribuente. La riduzione spettava, inoltre, se il servizio era effettuato in grave violazione delle prescrizioni del regolamento comunale di nettezza urbana. Nel regolamento comunale, infatti, devono essere indicati i limiti della zona di raccolta obbligatoria e dell'eventuale estensione del servizio a zone con insediamenti sparsi, le modalità di effettuazione del servizio, con l'individuazione degli ambiti e delle zone, nonché delle distanze massime di collocazione dei contenitori.
È il contribuente che deve dare la prova delle condizioni per usufruire eventualmente della riduzione della tassa. Gli stessi criteri valgono oggi per la Tari. I commi 656 e 657 della legge di Stabilità 2014 (147/2013) prevedono che il tributo è dovuto nella misura del 20% in caso di mancato svolgimento del servizio e in misura non superiore al 40% nelle zone in cui non è effettuata la raccolta, da graduare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta (articolo ItaliaOggi Sette del 22.05.2017.

INCARICHI PROFESSIONALISuper-parcella? Se meritata. No alla maggiorazione del compenso senza diligenza. AVVOCATI/ Tre sentenze della Corte di cassazione fanno chiarezza sul tema.
In tempo di crisi che ha certamente avuto delle ripercussioni su tutte le libere professioni, il compenso all'avvocato diventa uno dei temi cruciali per l'esercizio della professione stessa, e quindi tre recentissime sentenze della Cassazione hanno posto l'accento sulla questione evidenziando, anzitutto, cosa sia da liquidare all'avvocato e, poi, in quale caso non sia configurabile una maggiorazione del compenso e, infine, il ruolo del Coa nella determinazione del compenso stesso.
Se non c'è diligenza non c'è maggiorazione del compenso. Non si riconosce la maggiorazione del compenso all'avvocato che ha operato con poca diligenza: è quanto affermato dai giudici della Corte di cassazione (sez. VI Civile - 2, ordinanza 30.03.2017 n. 8288) che si sono espressi sul tema ai sensi dell'art. 5, comma 4, dm 08.04.2004, n. 127, evidenziando come, in ossequio anche ad un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza (si veda: Cass. 21.07.2011, n. 16040, Rv. 619695), la disposizione preveda una mera facoltà rientrante nel potere discrezionale del giudice, il cui mancato esercizio non sarà assolutamente denunciabile in sede di legittimità, se motivato.
Nel caso sottoposto all'attenzione degli Ermellini la corte d'appello aveva condiviso il ragionamento del giudice di primo grado che aveva pensato di non riconoscere una maggiorazione del compenso a quell'avvocato che in ragione della mancanza di diligenza adoperata nel proprio ufficio, aveva svolto un'azione per lesione che risultava carente nella prospettazione dei suoi tipici presupposti fattuali.
Cosa liquidare all'avvocato. E circa le voci della nota spese che vanno liquidate all'avvocato, la stessa Corte di cassazione (sez. Lavoro, sentenza 30.03.2017 n. 8258) ha sottolineato come sia opportuno considerare la voce relativa al diritto del professionista per «corrispondenza con il cliente» prevista dal n. 22 della Tabella B) dei diritti, allegata alla tariffa professionale di cui al dm 2004, n. 127.
Infatti, è stato evidenziato dai giudici di piazza Cavour che la corrispondenza con il cliente «è oggetto di presunzione iuris tantum nei giudizi celebrati con il rito del lavoro, il quale impone la comparizione personale della parte interessata all'udienza di discussione e, quindi, induce a ritenere che sia stato assolto da parte del difensore il dovere di informare il cliente; ne consegue che per la liquidazione della corrispondente voce non è richiesta prova».
Inoltre dovrà riconoscersi all'avvocato il diritto all'esame di ogni ordinanza perché la tariffa professionale forense, nel prevedere la relativa competenza (n. 15), la attribuisce «per la partecipazione a ciascuna udienza», senza operare distinzione tra «udienze di trattazione» e «udienze di semplice rinvio», contenuta invece nella tabella A) per gli onorari di avvocato (Cass. 03/09/2013, n. 20147; Cass. 19/01/1994, n. 920).
Lo stesso -hanno aggiunto gli Ermellini- sarà a dirsi per l'esame degli scritti difensivi avversi, perché la voce n. 11 della tariffa, prevedendo che il diritto di procuratore per l'esame degli scritti difensivi e della documentazione della controparte debba essere liquidato in misura fissa, impone, in sede di liquidazione, di prescindere dalla considerazione del numero dei documenti e degli scritti esaminati (cfr. Cass. 13/11/1982, n. 6055).
Per quanto riguarda, poi, le attività successive al deposito della sentenza (esame dispositivo e testo integrale della sentenza, richiesta copie sentenza, accesso ufficio e ritiro, ritiro fascicolo), i giudici hanno affermato che tali voci, pur se relative ad attività svolte successivamente alla sentenza di primo grado, sono ad essa necessariamente consequenziali e, quindi, devono essere liquidate dal giudice di prime cure o, in mancanza, da quello d'appello.
Invero, la condanna al pagamento delle spese processuali comprende anche le spese conseguenti alla sentenza, la quale, pertanto, costituisce titolo esecutivo non soltanto per le somme liquidate, ma anche per le spese successive e necessarie per la realizzazione della volontà in essa espressa (cfr. Cass. Cass. 12/02/2014, n. 3259; Cass. 03/09/2013, n. 20188). Tali spese dovranno tuttavia essere riconosciute nei limiti delle attività necessariamente conseguenti al deposito della sentenza, tra le quali non rientra la notificazione, in difetto di documentazione.
Il giudice non è vincolato dal Coa nella liquidazione delle spese. La sez. VI Civile - 1, ordinanza 14.03.2017 n. 6517, ha evidenziato come in materia di liquidazione delle spese, diritti ed onorari di giudizio ex art. 28 e 29 legge n. 794 del 1942, il giudice non sia vincolato dal parere di congruità espresso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati ma, nel caso in cui se ne discosti, allora sarà tenuto ad indicare, sia pure sommariamente, le voci per le quali ritiene il compenso non dovuto oppure dovuto in misura ridotta, al fine di consentire il controllo sulla legittimità della decisione»).
Si è pertanto dichiarata la non vincolatività del parere del Coa (articolo ItaliaOggi Sette del 12.06.2017).

EDILIZIA PRIVATAGravi vizi, scudo sui proprietari. Responsabilità decennale anche per le ristrutturazioni. Una sentenza della Cassazione a sezioni unite sull'applicazione dell'art. 1669 c.c..
Maggiore tutela per i proprietari di casa. La garanzia decennale per la rovina dell'edificio di cui all'art. 1669 c.c. si applica non solo alle nuove costruzioni ma anche alle semplici ristrutturazioni edilizie.

Lo hanno chiarito le Sezz. unite civili della Corte di Cassazione, chiamate a dirimere il contrasto interpretativo sorto sul tema, con la sentenza 27.03.2017 n. 7756.
Il caso. I condomini di un edificio avevano chiamato in giudizio la società venditrice e l'impresa che, su incarico della stessa, aveva eseguito sul medesimo degli interventi di ristrutturazione per sentirle condannare al risarcimento dei danni conseguenti a una serie di gravi vizi di costruzione.
La condanna, ottenuta in primo grado per la responsabilità di cui all'art. 1669 c.c., era però stata annullata dal giudice di appello, sul presupposto che tale disciplina fosse applicabile soltanto in caso di nuova costruzione. Di qui il ricorso in Cassazione, la cui terza sezione, rilevata l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza sull'argomento, aveva rimesso la causa al primo presidente, il quale la aveva a sua volta affidata alle sezioni unite.
Il contrasto interpretativo sull'applicabilità dell'art. 1669 c.c. La disposizione dispone che per i beni immobili l'appaltatore sia responsabile se nel corso dei dieci anni dal suo compimento l'opera, per vizio del suolo o per difetto della costruzione, rovini in tutto o in parte, ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti.
La responsabilità decennale prevista dall'art. 1669 c.c., secondo una parte (minoritaria) della dottrina, avrebbe carattere del tutto speciale e si applicherebbe soltanto alle nuove costruzioni e a quegli interventi edilizi dotati di una propria autonomia in senso tecnico (come una sopraelevazione). Soltanto due, invece, secondo la ricostruzione della Suprema Corte, i precedenti di legittimità sulla vexata quaestio.
Con sentenza n. 24143/2007 i giudici avevano aderito alla tesi sopra richiamata, ritenendo che le opere di mera modificazione o riparazione di un immobile preesistente non rientrassero nell'ambito di applicazione della suddetta norma. Di segno opposto, invece, la più recente sentenza n. 22553/2015, con la quale si era al contrario evidenziato come la stessa fosse applicabile anche nel caso di interventi su edifici preesistenti che avessero riguardato elementi essenziali del medesimo o elementi secondari ma rilevanti per la funzionalità globale.
La decisione delle sezioni unite. Quest'ultimo e meno restrittivo orientamento è quindi stato fatto proprio dalle sezioni unite della Cassazione. Secondo i supremi giudici, infatti, anche opere più limitate, aventi a oggetto riparazioni straordinarie, ristrutturazioni, restauri o altri interventi di natura immobiliare, possono rovinare o presentare evidente pericolo di rovina, tanto nella porzione oggetto dell'intervento quanto in quella, diversa e preesistente, che ne risulti coinvolta per ragioni di statica.
Le sezioni unite, nell'esaminare la precedente giurisprudenza di legittimità che ha fatto applicazione dell'art. 1669 c.c., hanno evidenziato come dai singoli casi si ricavi che detta tutela sia stata concessa anche in riferimento a opere limitate, riguardanti elementi secondari e accessori dell'edificio, purché tali da comprometterne la funzionalità globale (si veda la tabella). Quindi, spostando l'attenzione sulle componenti non strutturali del risultato costruttivo e sull'incidenza che queste possono avere sul complessivo godimento del bene, la menzionata giurisprudenza ha mostrato di porsi dall'angolo visuale degli elementi secondari e accessori.
Detta focalizzazione, sempre secondo le sezioni unite, ha quindi di fatto spostato il presupposto applicativo della disposizione in questione dal momento della realizzazione dell'opera ai gravi difetti della stessa. L'interpretazione estensiva dell'art. 1669 c.c. realizzata dalla giurisprudenza di legittimità è quindi andata oltre il suo originario carattere di norma a protezione dell'incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l'immobile possa essere goduto e utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione. Anche perché un trattamento differenziato tra fabbricazione iniziale dell'edificio e sua ristrutturazione, si legge nella sentenza in questione, non sarebbe apparsa conforme a un'interpretazione costituzionalmente orientata, potendo essere entrambe le attività foriere dei medesimi gravi pregiudizi.
Per quanto riguarda la natura extracontrattuale di tale responsabilità, da sempre sostenuta dalla giurisprudenza e da gran parte della dottrina, le sezioni unite hanno evidenziato come l'attenzione rivolta alla categoria dei gravi difetti tenda a spostare il baricentro dell'art. 1669 c.c. dall'incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, dunque da un'ottica pubblicistica ed extracontrattuale a una privatistica e contrattuale (articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2017).
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MASSIMA
8. - Per le considerazioni svolte l'unico motivo di ricorso deve ritenersi fondato.
Consegue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Ancona, che nel decidere il merito si atterrà al seguente principio di diritto: "
l'art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest'ultimo".

INCARICHI PROGETTUALIAffidamenti alle società di ingegneria nulli.
La società di ingegneria costituita in forma di società di capitali non può svolgere attività coincidente con quella riservata ai professionisti iscritti all'albo anche dopo il 1997. Conseguentemente, i contratti di affidamento stipulati dalla società di ingegneria sono nulli perché in contrasto con l'articolo 2231 del codice civile.

Questo è l'importante principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 22.03.2017 n. 7310.
I giudici ricordano che l'art. 24 della legge 266 del 1997 prevedeva, al comma 2, l'emanazione di regolamento di fissazione dei requisiti per l'esercizio delle attività di cui all'art. 1 della legge n. 1815/1939. E ricordano anche che questo decreto non fu emanato. La disciplina dell'esercizio in forma societaria delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico è rimasta, dunque, senza attuazione, salvo interventi settoriali (dlgs n. 96/2001 per la professione forense), fino a quando il legislatore non è nuovamente intervenuto.
Ciò è avvenuto con l'art. 10 della legge n. 183/2011 (legge di stabilità 2012), entrata in vigore il 01.01.2012, col quale il divieto risalente al 1939 è stato «nuovamente» abrogato (comma 11), ed è stata dettata la disciplina delle società costituite in forma di società di capitali per l'esercizio delle attività professionali regolamentate, con espressa salvezza (comma 9) dei modelli societari già vigenti. Tra i quali si debbono annoverare quelli previsti dall'art. 17 della legge n. 109 del 1994 per le società di ingegneria.
Il legislatore del 2011 ha dunque riconosciuto la validità del modello previsto sin dal 1994 per le società di ingegneria nel settore pubblico, e da questo momento le società costituite ai sensi dell'articolo 17 della legge n. 109 del 1994 sono abilitate a svolgere attività di progettazione anche nel mercato privato, tendenzialmente mantenendo lo statuto vigente.
Concludendo le società di ingegneria costitutiva di capitali non possono svolgere attività riservate ai professionisti iscritto all'albo anche dopo l'anno 1997 (articolo ItaliaOggi del 20.04.2017).

TRIBUTI: Nullo l'avviso notificato tramite poste private. L'avviso di accertamento per la tassa sui rifiuti è nullo quando sia stato notificato per il tramite di un gestore di poste privato diverso da Poste italiane. La notifica, in tal caso, è inesistente e ciò inficia la legittimità dell'atto stesso.
È quanto si legge nella sentenza 20.03.2017 n. 816/3/2017 della Ctp di Taranto.
Un contribuente impugnava degli avvisi di accertamento per Tarsu, relativi alle annualità 2009, 2010 e 2011, eccependo l'inesistenza della loro notificazione, poiché avvenuta tramite una posta privata.
La Ctp di Taranto, accertata la fondatezza della doglianza, ha accolto il ricorso e annullato gli atti impugnati, affermando espressamente «l'inesistenza della notifica di un avviso di accertamento a mezzo vettore privato e non per il tramite delle Poste italiane, unico soggetto legittimato alla notifica degli atti tributari».
La Corte di cassazione, nella sentenza n. 2922/15 ha colto l'occasione per rammentare in quali casi, e per quali motivi, la notificazione eseguita col servizio privato è inammissibile e quali sono, invece, le eccezioni a detto criterio. È, per esempio, regolare la consegna del plico da parte delle poste private, qualora l'Agenzia sia stata demandata direttamente da Poste italiane; in altre parole, quando il notificante abbia spedito l'atto tramite Poste italiane e l'ente universale abbia, a sua volta e per propria iniziativa, demandato il recapito del plico all'Agenzia privata.
Nel diverso caso in cui, invece, la notifica sia effettuata dall'ente, con affidamento diretto del plico a un vettore di posta privata, la notifica è inesistente.
Ciò perché quando il legislatore prescrive, per l'esecuzione di una notificazione, il ricorso alla raccomandata con avviso di ricevimento, non può che fare riferimento al cosiddetto servizio postale universale fornito dall'ente poste su tutto il territorio nazionale, con la conseguenza che, qualora tale adempimento sia affidato a un'Agenzia privata di recapito, esso non è conforme alla formalità prescritta dall'art. 140 c.p.c., e, pertanto, non è idoneo al perfezionamento del procedimento notificatorio, sia che trattasi di raccomandata riconducibile nell'ambito dei servizi inerenti le notificazioni degli atti giudiziari a mezzo posta di cui alla legge n. 890 del 1982, sia alla raccomandata diretta a mezzo del servizio postale ai sensi del dlgs n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, ove la notifica sia effettuata nei confronti del contribuente o società privata.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La notifica del provvedimento impugnato è avvenuta per il tramite di posta privata, come risulta dalla visione della velata di notifica allegata all'avviso e non contestata dal comune.
Ove, infatti, l'avviso fosse stato effettivamente rinviato dal messo comunale, lo stesso avrebbe dovuto redigere la relata di notificazione che, invece, è inesistente.
Tanto comporta, già di per sé, l'accoglimento del ricorso stante la inesistenza della notifica di una avviso di accertamento a mezzo vettore privato e non per il tramite delle Poste italiane, unico soggetto legittimato alla notifica degli atti tributari (Cfr. Ctp Benevento 382/2014; Cass. 2035/2014 Ctr Campobasso 1077/2014; Cass. n. 8333/2015; Cass. n. 2922/2015).
Fondata è, inoltre, l'eccezione di mancato utilizzo dell'immobile.
Parte ricorrente ha fornito prova documentale, non contestata dal comune di Massafra, di aver, sin dagli anni sessanta, accatasto e denunciato il locale garage anche presso il comune di Massafra, sul quale risulta regolarmente corrisposta anche la imposta Tarsu sino all'anno 2002, epoca del decesso dei genitori che occupavano l'abitazione e l'annesso garage.
Inoltre con la documentazione allegata al n. 6) e n. 7), è stata fornita la prova dell'avvenuta denuncia, ai fini Tarsu, dell'inutilizzo del locale garage e dell'appartamento in data 1/2/2002 e precisamente in occasione del decesso della propria moglie e ha dichiarato di occupare immobile e garage e, successivamente, allorquando il figlio Michele, in data 13/02/2002 ha comunicato ai comune di Massafra che l'abitazione e il garage non sarebbero stati occupati da alcuno.
Con detta ultima comunicazione, venivano anche segnalati i nominativi degli altri coeredi, tutti residenti in altri luoghi. Le predette comunicazioni risultano chiaramente effettuate su moduli prestampati né è possibile, come eccepito dal resistente comune, adombrare una loro illegittimità perché non redatta su moduli forniti dal comune. Del resto la verifica della cessazione d'uso dei locali è stata già verificata da questa commissione, con precedenti esibita decisioni n. 302/2015 e n. 1734/02/2016, che sul punto costituisce precedente giudicato.
Fondati risultano gli altri vizi sollevati dal ricorrente; trattandosi di imposta comunale non può farsi luogo al principio della solidarietà di cui all'art. 65, dpr 600/1973, applicabile, invece, solo alle imposte dirette (Ctr Lazio n. 2957/35/2014), le sanzioni non possono essere irrogate agli eredi (Cass. n. 11222/2011).
Alla stregua di quanto innanzi, dichiarati assorbiti gli altri motivi di opposizione, la Commissione accoglie il ricorso e, per l'effetto, annulla l'avviso dì accertamento impugnato. ( ) (articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIDalla Corte dei conti un controllo di ragionevolezza. Le sezioni unite tornano sulla questione dei confini giurisdizionali.
La Corte dei conti (Cdc) può svolgere un controllo di ragionevolezza sulle scelte discrezionali degli amministratori pubblici alla stregua dei criteri di efficacia ed economicità (e non, dunque, del canone della «mera opportunità»), valutando il rapporto tra gli obiettivi perseguiti e i costi sostenuti.
Così, se acclari che tali canoni non sono stati rispettati, è obbligata ad accertare tutti i fatti e comportamenti causa di danno erariale.
È quanto ribadito dalle Sezioni unite con la sentenza 15.03.2017 n. 6820, tornate sulla questione dei confini del potere giurisdizionale della Cdc.
La vicenda. Ad esito di un'attività investigativa svolta dalla Gdf, il procuratore regionale della Cdc ha convenuto in giudizio gli amministratori di un Consorzio di bonifica, chiedendone la condanna al risarcimento del danno procurato all'Erario, ritenendo che avessero posto in essere una serie di atti di mala gestio contrastanti con il principio del buon andamento dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.).
In sintesi, era contestato il danno erariale provocato dal conflitto d'interessi e dallo spreco di risorse pubbliche sottesi all'adesione del consorzio pubblico a una srl di servizi di cui pure detti vertici consortili esprimevano la governance. Dalla contabilità era emersa, infatti, secondo la Cdc, la mancanza di convenienza per il consorzio alla partecipazione ad una società che, senza neppure espletare i servizi per cui era stata costituita, li aveva girati ad operatori esterni, per lo più fornitori del consorzio, svolgendo un'attività di mera interposizione fittizia con accollo di oneri di funzionamento e gestione in capo al consorzio.
L'approdo in Cassazione. Condannati in primo grado (stante l'acclarata consapevolezza sia dei rapporti intercorrenti tra la società di servizi e il consorzio sia -bilanci alla mano- dell'impossibilità di realizzare in condizioni di economicità/equilibrio finanziario gli interessi pubblici dichiarati nell'adesione consortile ad una società privata), gli amministratori si sono rivolti alla Cassazione, lamentando l'eccesso e la carenza di giurisdizione contabile.
Le Sezioni unite. Con riferimento al presunto «eccesso» di giurisdizione, gli Ermellini, rigettando l'eccezione, richiamando diversi propri precedenti, hanno ricordato che la verifica della legittimità dell'attività amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi, apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano stati adeguati oppure esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico. Per fa ciò, non si può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti, così dovendosi porre sotto la lente d'ingrandimento anche gli esiti delle decisioni amministrative assunte.
Il controllo del giudice contabile, quindi, investe anche il percorso logico seguito dall'amministrazione, al fine di evitare che l'attività amministrativa possa risultare deviata dai propri fini istituzionali.
Rispetto al difetto di giurisdizione della Cdc, asseritamente relativo ai danni della società privata pur partecipata dal consorzio, le Ss.uu., oltre a considerare «nuova» la questione nel giudizio di Cassazione (e, perciò, inammissibile), ne hanno sottolineato il carattere «inconducente», posto che il danno accertato dalla Cdc era ed è quello erariale in quanto arrecato al Consorzio in proprio, come conseguenza di una gestione non orientata ai canoni di efficienza e funzionalità della p.a.
La massima. «La Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell'ente pubblico, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, ex art. 1, della legge n. 241 del 1990, i quali assumono rilevanza non già sul piano della mera opportunità, ma della legittimità dell'azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un controllo di ragionevolezza sulle scelte della pubblica amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell'ente e consentire la verifica della completezza dell'istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere», si legge nella decisione (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.05.2017).

APPALTI SERVIZIAppalti, assunzioni sostenibili. Non c'è obbligo di assorbire tutto il personale di chi esce. La decisione del Tar Calabria: ok alla clausola sociale purché se ne ammortizzino i costi.
All'appaltatore che subentra nella gestione del servizio messo a gara dall'amministrazione non si può imporre di assorbire tutto il personale uscente, a meno che l'impresa non riesca ad ammortizzarne i costi.

È quanto emerge dalla sentenza 15.03.2017 n. 209, pubblicata dal TAR Calabria-Reggio Calabria.
Libera concorrenza. Ottiene il risultato di bloccare l'appalto l'azienda che pure non è riuscita a partecipare alla gara perché il costo soggetto a ribasso risulta insostenibile. La colpa è della clausola sociale prevista dal nuovo codice dei contratti pubblici, che prescrive a chi si aggiudica i lavori di salvaguardare i livelli occupazionali precedenti: la regola vale nei servizi ad alta densità di manodopera, che si configurano quando la spesa per il personale risulta pari almeno alla metà dell'importo totale del contratto. Ma attenzione: l'istituto introdotto dall'articolo 50 del decreto legislativo 50/2016, spiegano i giudici, deve essere interpretato in modo flessibile.
È accolto il ricorso della società che sta gestendo in via temporanea la raccolta dei rifiuti nel Comune grazie a un affidamento per motivi di urgenza. All'azienda risulta impossibile formulare un'offerta seria per vincere l'appalto, visto che l'importo a soggetto a ribasso non consente a chi partecipa di conseguire un utile: l'80% è rappresentato dal costo del personale, a causa della clausola sociale che impone l'applicazione del Ccnl Fise Assombiente per gli oltre venticinque dipendenti da assumere.
La norma del codice appalti, tuttavia, va letta nel senso che la clausola sociale non può si trasformare in un deterrente per la partecipazione alla gara da elemento che riguarda l'esecuzione dell'appalto: si rischia infatti la violazione dei principi di libera concorrenza indicati dall'Unione europea. Sono dunque tutti da verificare il numero e la qualifica dei dipendenti, che non deve essere ripescata nello stesso posto di lavoro e nel contesto del medesimo servizio. La stazione appaltante, in questo caso, si rende conto dell'errore e a posteriori non esclude la disapplicazione del paletto troppo stringente. Quando però è troppo tardi.
Il bando non garantisce la trasparenza oltre che la concorrenza tra i partecipanti perché non offre alle imprese lo spazio utile per poter formulare la loro offerta: manca infatti di indicare quanti lavoratori sono necessari per eseguire l'appalto e viene dunque meno a un principio di adeguatezza delle risorse umane.
Si applica invece il principio di proporzionalità secondo cui l'aggiudicatario deve essere messo nelle condizioni di poter garantire l'applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, il che equivale ad affermare che con il bando di gara non si possono dettare condizioni che rendano impossibile centrare l'obiettivo. Non conta che nel frattempo un'altra società abbia presentato un'offerta per l'appalto e la stazione appaltante sta nominando la commissione che dovrà valutarla. A carico dell'aggiudicatario si può solo porre una priorità nell'assorbire la manodopera del competitor uscente.
Obiettivo stabilità. È ancora scarna la giurisprudenza amministrativa a favore della libertà d'impresa tutelata dall'Unione europea rispetto all'istituto introdotto dall'articolo 50 dal nuovo codice dei contratti pubblici. Ma ci sono almeno due precedenti innovativi.
Uno è rappresentato dalla sentenza n. 231/2017, pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana. Che boccia il bando di gara predisposto dall'ente regionale ancora per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti, ma stavolta sanitari. È illegittimo obbligare a chi subentra nella gestione dell'appalto a riprodurre alla lettera inquadramento e orario di lavoro del personale impiegato dall'impresa uscente. E ciò anche perché nella nuova gara determinate prestazioni risultano eliminate dal bando, mentre alcuni ospedali non sono più interessati dal servizio.
È vero: la direttiva 24/2014/Ue prevede che anche gli appalti pubblici abbiano una specifica attenzione alle esigenze sociali. Ma la clausola sociale risulta comunque una facoltà del bando di gara. E sul fatto che la stabilità occupazionale costituisce un obiettivo che non può essere trasformato in un rigido obbligo è d'accordo anche l'autorità nazionale anticorruzione: nei pareri resi ha l'Anac ha specificato che la clausola sociale deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, altrimenti limita in modo indebito la platea dei partecipanti, mentre la libertà d'impresa, viene riconosciuta e garantita dall'articolo 41 della Costituzione.
Non coglie nel segno l'amministrazione secondo cui il personale in eccesso potrebbe essere utilizzato in altre commesse che fanno capo alla stessa azienda.
Estromissione da risarcire. L'altro precedente è la sentenza 1969/2016, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lazio. La stazione appaltante non può imporre nella procedura pubblica bandita l'adozione di un determinato contratto collettivo di lavoro anche se l'appalto prevede la clausola sociale: l'impresa che subentra, infatti, ben può scegliere di applicare ai lavoratori riassorbiti un contratto collettivo di lavoro diverso, a patto che siano garantiti congrui livelli retributivi ai prestatori d'opera.
Mai l'amministrazione può decidere per l'inammissibilità dell'offerta per la mancata adozione di un determinato Ccnl perché si tratta di scelte che rientrano nella libertà d'impresa. E non può scattare l'estromissione senza la prova che il contratto collettivo applicato in concreto non consenta retribuzioni adeguate per i lavoratori da riassorbire. In questo caso è un'associazione no profit a restare fuori dalla gara perché la tariffa oraria prevista per l'operatore del servizio è ritenuta non conforme.
E ciò influenza il calcolo percentuale dei costi di coordinamento e gestione: all'offerta, quindi, non viene attribuito alcun punteggio. L'esclusione risulta invece avvenuta in automatico senza che la commissione di gara prima e la stazione appaltante poi effettuasse le verifiche richieste: ora bisogna rifare tutta la procedura di selezione, a partire dalla valutazione delle offerte economiche, con una nuova graduatoria.
Nel frattempo, però, tutti i contratti della procedura sono stati eseguiti per intero: l'onlus ha così centoventi giorni di tempo dal passaggio in giudicato dalla sentenza del Tar per chiedere il risarcimento al Comune (articolo ItaliaOggi Sette del 15.05.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
4. Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
4.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso, sebbene articolati separatamente, costituiscono, a ben vedere, un unico argomento di doglianza.
La tesi dedotta in giudizio dalla parte ricorrente è che l’importo complessivo posto a base di gara sia economicamente insostenibile e che il maggior punto di criticità sia rappresentato dal costo del personale.
Il costo per il solo personale a tempo indeterminato è complessivamente pari ad euro 965.794,80 annui, vale a dire circa l’80% dell’importo posto a base di gara e pari ad euro 1.207.500,00 annui.
Tale costo complessivo deriva dalla c.d. clausola sociale, per come formulata dagli artt. 16.2.9 del bando e 12 del capitolato e confermata dalla risposta PI000194 – 17 al quesito PI000184 – 17 con cui la stazione appaltante, il 16.02.2017, ha affermato che “per i dipendenti di imprese e società esercenti servizi ambientali trova applicazione l’art. 6, punto 2, del C.C.N.L. (n.d.r. Fise – Assoambiente)”.
Giova ribadire, per chiarezza espositiva che il predetto art. 6, punto 2, del C.C.N.L. dispone che: “L’impresa subentrante assume ex novo, senza effettuazione del periodo di prova, tutto il personale in forza a tempo indeterminato –ivi compreso quello in aspettativa ai sensi dell’art. 31 della legge n. 300/1970 nonché quello di cui all’art. 60, lett. c), del vigente c.c.n.l.– addetto in via ordinaria allo specifico appalto/affidamento che risulti in forza presso l’azienda cessante nel periodo dei 240 giorni precedenti l’inizio della nuova gestione in appalto/affidamento previsto dal bando di gara e alla scadenza effettiva del contratto”.
Dovendo assumere tutte le 26 unità impiegate dall’impresa cessante RA.DI. s.r.l., la sommatoria di tale costo agli altri costi fissi sarebbe di per sé superiore all’importo complessivo posto a base di gara.
La parte ricorrente assume che tale obbligo di integrale riassorbimento sia illegittimo in quanto la clausola sociale, oggi espressamente prevista dall’art. 50 del D.Lgs. n. 50/2016, per come interpretata dalla giurisprudenza, può obbligare l’appaltatore subentrante unicamente ad assumere in via prioritaria i lavoratori che operavano alle dipendenze dell’impresa uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l’organizzazione d’impresa prescelta.
Va da sé che lo scrutinio della legittimità della previsione di integrale assorbimento del personale costituisce un prius logico nell’articolazione della censura: se la clausola sociale, nei termini indicati dalla lex specialis è invalida, del relativo costo non doveva tenersi conto in sede di redazione del bando e, segnatamente, di determinazione dell’importo a base di gara che va, conseguentemente, rimodulato, se del caso anche in via confermativa.
Va, altresì, precisato che la censura formulata al punto 2 della memoria del 06.03.2017 della ricorrente in punto di difetto d’istruttoria sull’importo mensile di ogni singola utenza non è ammissibile in quanto costituisce un motivo nuovo di censura, contenuto in un atto non notificato alle controparti.
4.2. Tanto precisato sulla delimitazione del giudizio, rileva il Collegio che la giurisprudenza sulla clausola sociale ha affermato quanto segue:
   - “
La clausola sociale dell’obbligo di continuità nell’assunzione è stata costantemente interpretata dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato nel senso che l’appaltatore subentrante«deve prioritariamente assumere gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell’appaltatore uscente, a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l’organizzazione d’impresa prescelta dall’imprenditore subentrante» mentre «i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali" (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 02.12.2013, n. 5725);
   - "
La clausola sociale, la quale prevede, secondo numerose disposizioni, «l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto», (così l’art. dell’art. 29, comma 3, del d.lgs. 276/2003, ma altrettanto rilevanti sono la generale previsione dell’art. 69, comma 1, del d.lgs. 163/2006 e quella dell’art. 63, comma 4, del d.lgs. n. 112/1999), perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità dell’occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall’impresa uscente nell’esecuzione dell’appalto, è costituzionalmente legittima, quale forma di tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con l’organigramma dell’appaltatore subentrante e con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di impresa pure tutelata dall’art. 41 Cost.” (Consiglio di Stato, Sez. III, 09.12.2015, n. 5598).
Il principio guida è, quindi, che la clausola di salvaguardia dei livelli occupazionali non si trasformi, da elemento afferente all’esecuzione dell’appalto, in un elemento tendenzialmente preclusivo della partecipazione.
D’altronde, la formulazione del (nuovo) art. 50 del d.lgs. 50/2016 prevede che “
i bandi di gara, gli avvisi e gli inviti possono inserire, nel rispetto dei principi dell'Unione europea, specifiche clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato, prevedendo l’applicazione da parte dell’aggiudicatario, dei contratti collettivi di settore di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81”: un richiamo, indiretto, al principio di proporzionalità per cui l’aggiudicatario dev’essere messo nelle condizioni di poter garantire l’applicazione del C.C.N.L., il che val quanto dire che non si possono imporre, con la lex specialis, condizioni che rendano soggettivamente impossibile tale obiettivo.
Tali conclusioni sono state condivisibilmente ribadite dal TAR Toscana, Sez. III, con sentenza n. 231 del 13.02.2017 nella quale si legge che: “
a) la clausola sociale deve conformarsi ai principi nazionali e comunitari in materia di libertà di iniziativa imprenditoriale e di concorrenza, risultando, altrimenti, essa lesiva della concorrenza, scoraggiando la partecipazione alla gara e limitando ultroneamente la platea dei partecipanti, nonché atta a ledere la libertà d'impresa, riconosciuta e garantita dall'art. 41 della Costituzione;
b) conseguentemente, l'obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell'appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l'organizzazione di impresa prescelta dall'imprenditore subentrante;
c) la clausola non comporta invece alcun obbligo per l'impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria
(cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 1896/2013)
”.
La medesima sentenza, che si richiama anche ai sensi e per gli effetti dell’art. 74, seconda parte, c.p.a., ribadisce che tale esito interpretativo non cambia alla luce della nuova disciplina dei contratti pubblici.
4.3. Nel caso di specie, l’art. 16.2.9 del bando ha richiesto ai concorrenti una “dichiarazione di impegno ad assorbire, ove richiesto dalla ditta che cessa, il personale addetto ai servizi oggetto dell’appalto dell’impresa cessante a termini del contratto nazionale del personale dei servizi ambientali” e, quindi, un requisito di partecipazione.
L’obbligo di integrale assorbimento, come si è già più volte rammentato, è stato oggettivamente posto mediante il riferimento all’art. 6.2. del C.C.N.L. di settore e confermato dal chiarimento PI000194 – 17 al quesito PI000184 – 17 del 16.02.2017.
La lex specialis ha fissato –non rileva se scientemente o meno– un principio di “adeguatezza” delle risorse umane, cioè del numero di lavoratori necessari per l’esecuzione dell’appalto, corrispondente al numero dei lavoratori da “assorbire”.
Ciò è confermato anche dal fatto che non vi è una previsione di carattere generale di tenore opposto a quanto affermato dall’art. 1.9. del Disciplinare Tecnico dell’affidamento temporaneo e urgente all’affidataria ove si legge che: “1) AVR S.p.A. garantirà la tutela dei livelli occupazionali del personale impiegato sui servizi affidati con l’ordinanza contingibile e urgente come da allegato al presente disciplinare (Allegato I: elenco del personale trasmesso dall’impresa uscente);
… Tutto il personale assunto resterà collegato ai servizi e verrà licenziato al momento in cui tali servizi, affidati ad AVR S.p.A. mediante Ordinanza, venissero affidati ad altra impresa;
2) L’Appaltatore dovrà assicurare il servizio con un numero adeguato di operatori ecologici
”.
4.4. La tassativa impostazione della lex specialis non è stata, quindi, in grado di consentire ai potenziali concorrenti alcuno spazio di modulazione dell’offerta; la quale, beninteso, avrebbe potuto essere “anche” articolata nei termini rigorosi del bando, ma non “necessariamente”, alla stregua di requisito di partecipazione.
La stazione appaltante si è resa conto di tale deficit di chiarezza, provvedendo a “correggere il tiro” con la risposta PI000514 – 17 al quesito PI000438 – 17 del 22.02.2017, posto dall’unica impresa che ha poi partecipato alla gara (Locride Ambiente s.p.a.).
Tale iniziativa costituisce una integrazione postuma della disciplina di gara, che tenta, appunto, di porre rimedio alla violazione del principio del clare loqui: si tratta, però, di una inammissibile integrazione postuma della lex specialis, che pregiudica le condizioni di trasparenza e concorrenza che devono, preventivamente, connotare le procedure di gara.
La stazione appaltante, nella risposta in discorso, perviene finanche a legittimare a posteriori la possibile “disapplicazione” della clausola sociale, nei termini oggettivi in cui tale clausola è stata formulata nel bando, affermando che la stessa “può non essere applicata qualora le esigenze organizzative dell’impresa subentrante corrispondano alla volontà di svolgere il servizio utilizzando una minore componente di lavoratori, rispetto al precedente gestore”.
Ritiene il Collegio che siffatto modus operandi integri gli estremi della violazione del principio di trasparenza e di concorrenza.
La censura in discorso, pertanto, è meritevole di favorevole apprezzamento e, conseguentemente, in accoglimento del ricorso in parte qua, va disposto l’annullamento degli atti gravati, nei sensi fin qui esposti.

ATTI AMMINISTRATIVIL'anonimato non è automatico. Valuta il giudice se pubblicare sentenze viola la privacy. La Corte di cassazione chiarisce entro quali termini si può chiedere la cancellazione.
Il diritto all'anonimato nella pubblicazione delle sentenze non è automatico. Il giudice deve valutare caso per caso se c'è una violazione della privacy.

La Corte di Cassazione (sentenza 13.03.2017 n. 11959 della Sez. VI penale) chiarisce i termini in cui una persona coinvolta nel procedimento penale abbia diritto a pretendere la cancellazione del suo nome nel caso di pubblicazione della sentenza su banche dati o sulla stampa e sulle riviste cartacee e on-line.
Nel caso specifico un commercialista e giudice tributario ha denunciato un giudice del tribunale, incolpato di favorire un altro commercialista nell'affidamento di procedure fallimentari. Il primo professionista è stato indagato per calunnia. La vicenda penale si è chiusa con una generale archiviazione per tutti. Ma si è verificato uno strascico privacy. Il commercialista/giudice tributario, indagato per calunnia, ha chiesto l'oscuramento dei propri dati personali ai sensi dell'articolo 52 del codice della privacy (dlgs 196/2003).
La norma riconosce all'interessato la facoltà di chiedere all'autorità giudiziaria per motivi legittimi di omettere i suoi dati in caso di riproduzione della sentenza, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica. Secondo la Cassazione l'espressione «motivi legittimi» significa motivi opportuni, con la conseguenza che il giudice deve di volta in volta bilanciare le esigenze di riservatezza del singolo e quelle di pubblicità della sentenza.
Il Garante della privacy con deliberazione 02.12.2010 (pubblicato sulla G.U. n. 2 del 04.01.2011), ha indicato i possibili motivi legittimi nella particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili), oppure nella delicatezza della vicenda oggetto del giudizio. Nel caso del commercialista la Cassazione non ha riscontato dati sensibili ed è, quindi, passata alla valutazione della eventuale sussistenza di motivi di delicatezza.
Una parola, si legge nella sentenza, estremamente vaga, da precisare caso per caso ad esempio valutando se la diffusione dei dati relativi provochi negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell'interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo). La cassazione rifiuta, quindi, un'interpretazione per cui ogni processo penale dovrebbe comportare l'oscuramento dei dati personali.
D'altro canto conclude la cassazione non può valere a giustificare l'oscuramento il fatto che il denunciato sia un magistrato (nel caso specifico giudice tributario), in quanto anche il magistrato l'esercizio di funzioni giurisdizionali non può in alcun modo risolversi nella gratuita attribuzione di un privilegio, tale da comportare una più intensa e ampia tutela rispetto a quella riconosciuta agli altri cittadini (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017).
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MASSIMA
5. Fermo, dunque, il rigetto del ricorso proposto, occorre da ultimo prendere in considerazione l'esplicita richiesta di oscuramento dati avanzata dalla difesa del P., ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. 196/2003.
La detta disposizione di legge riconosce all'interessato la facoltà di chiedere all'A.G., "per motivi legittimi" e prima della definizione del relativo grado di giudizio, che sia apposta sulla sentenza o sul provvedimento di cui trattasi, a cura della cancelleria, l'annotazione "volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indica ione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento".
Il fulcro della norma in questione -destinata ad operare solo in relazione alla riproduzione del provvedimento per finalità di informazione giuridica, in conformità all'espressa previsione del legislatore- è dunque costituito dalla legittimità dei motivi posti a fondamento della richiesta, che segnano all'evidenza il discrimine fra l'accoglimento ed il rigetto della relativa domanda.
Il concetto utilizzato dal legislatore, per certo non felice, abbisogna di un'opportuna interpretazione.
Va innanzi tutto escluso che l'espressione possa essere intesa nell'accezione di "motivi normativi": in tal senso depone sia la clausola di riserva che figura nell'incipit del citato articolo di legge ("Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado ..."), sia il ricorso ad elementari criteri esegetici, in ragione dell'evidente superfluità di una disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto già previsto da altre norme.
Dunque, per dare un significato compiuto all'espressione che ne occupa -che, ovviamente, non può neppure discendere da un'interpretazione a contrario, non potendosi ammettere l'esito positivo di una richiesta di oscuramento dati per motivi illegittimi- non resta che apprezzarla come sinonimo di "motivi opportuni": donde la particolare ampiezza, opportunamente non predeterminata dal legislatore all'interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono essere addotte a sostegno della richiesta che qui interessa, fermo restando che l'accoglimento della richiesta medesima interverrà ogniqualvolta l'A.G. ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un necessitato corollario del principio costituzionale dell'amministrazione della giustizia in nome del popolo, massimamente in ambito penale in cui, in ragione degli interessi in gioco, l'intera celebrazione del processo -ivi compresa, dunque, la fase dell'istruttoria dibattimentale- si svolge in forma pubblica (salvo motivato provvedimento in deroga da parte del giudice procedente).
In tal senso, interessanti indicazioni conformi si traggono dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 02.12.2010, "in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica", pubblicate sulla G.U. n. 2 del 04.01.2011, in cui al punto 3., con specifico riferimento alla c.d. "procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali" di cui all'art. 52, commi da 1 a 4, del d.lgs. n. 196/2003, si indicano possibili "motivi legittimi", in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre l'A.G. a provvedere d'ufficio), nella "particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)", ovvero nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio".
Ora, per ciò che concerne i "dati sensibili", discendendo la loro individuazione direttamente dalla legge -che, all'art. 4, co. 1, lett. d), del d.lgs. n. 196/2003, li definisce come "i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale"- può tranquillamente affermarsi che nessuno di essi viene in considerazione ed è dunque messo a repentaglio nel caso in questione.
Quanto, poi, alla "delicatezza" della vicenda per cui è processo, è di tutta evidenza come l'estrema latitudine del sostantivo abbia necessità di essere riempita di contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi, di riverberare -come osserva lo stesso Garante- "negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell'interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo)", così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo -si pensi, tipicamente, a fatti riguardanti vessazioni in ambito familiare-: contenuti che non è dato ravvisare nella presente fattispecie, non avendo rilievo in tal senso l'asciutto riferimento, contenuto nell'istanza a firma del difensore del PE., allo svolgimento di funzioni giurisdizionali sia da parte dell'AG., quale magistrato ordinario, che da parte dello stesso PE., quale magistrato tributario, in rapporto alla assai "ristretta" comunità di Ascoli Piceno, ove entrambi espletano dette funzioni.
Diversamente opinando, del resto, ogni processo penale dovrebbe comportare l'oscuramento dei dati personali, laddove, per un verso, si è qui in presenza di addebiti che scaturiscono da denunce formalizzate dai diretti interessati, come tali espressione della facoltà, propria dei cittadini di uno Stato di diritto ed a cui si attribuisce valore civico e sociale, di attivare in prima persona la risposta dell'ordinamento in casi di ritenuta violazione della legge penale, conseguentemente non riguardabili di per sé negativamente, salvo solo che esse celino fatti di simulazione di reato o di autocalunnia -nel caso, non ipotizzabili- ovvero ancora di calunnia, quest'ultima espressamente esclusa; per altro verso, l'esercizio di funzioni giurisdizionali non può in alcun modo risolversi nella gratuita attribuzione di una sorta di status superiore, tale da comportare una più intensa ed ampia tutela rispetto a quella riconosciuta agli altri cittadini.

TRIBUTISi paga l'Imu se c'è una retta. Niente esenzione anche se l'attività svolta è in perdita. La Ctr di Cagliari sull'immobile di un ente religioso adibito a scuola e centro accoglienza.
Un ente religioso che oltre all'attività di culto svolge su un immobile le attività di scuola paritaria, asilo, centro accoglienza per ragazzi e ragazze in difficoltà, casa famiglia per anziani, che sono state remunerate con una retta, che non si discosta molto da quelle di mercato, è soggetto al pagamento dell'Ici e dell'Imu.
L'esenzione non spetta anche se le attività svolte operano in perdita, poiché si può esercitare un'impresa con modalità commerciali a prescindere dal risultato della gestione. Tuttavia, considerato che sia per l'Ici che per l'Imu ci sono stati vari interventi normativi che hanno creato incertezza oggettiva sulla spettanza o meno delle agevolazioni, vanno annullate le sanzioni tributarie irrogate dalle amministrazioni comunali.

È quanto ha stabilito la Commissione tributaria regionale di Cagliari, I Sez., con la sentenza 13.03.2017 n. 58.
I giudici d'appello pongono in rilievo che la fattispecie esaminata si differenzia dai numerosi casi trattati dalla giurisprudenza riguardanti le esenzioni per l'imposta municipale, «in quanto non circoscritta alla sola questione di immobili utilizzati per attività didattiche, ma riguardante, piuttosto, l'utilizzo di immobili per l'esercizio di diverse attività, c.d. protette, sostanzialmente differenti tra loro, quali, nella specie, attività istituzionali della Congregazione consistenti nelle attività proprie di religione, di culto e di abitazione delle suore, attività di scuola paritaria e asilo, attività di centro di accoglienza per ragazzi e ragazze in difficoltà e, infine, in attività di casa Famiglia per anziani».
Secondo la commissione regionale, non spetta l'esenzione all'ente non profit poiché il comune di Cagliari ha dimostrato che queste attività sono state esercitate dietro il pagamento di rette che non si discostano molto nel loro ammontare da quelle di mercato. E «non può attribuirsi rilievo al fatto che la gestione dei servizi erogati operi in perdita (questione assolutamente irrilevante, anche un imprenditore può operare in perdita) in quanto l'erogazione di un servizio verso il corrispettivo di una remunerazione (qual è in sostanza la retta) costituisce «esercizio di una attività con modalità commerciale» indipendentemente dal risultato economico della gestione stessa».
I giudici tributari hanno annullato solo le sanzioni irrogate dall'amministrazione comunale, tenuto conto dei vari interventi normativi che si sono succediti negli ultimi anni e, per l'effetto, dell'incertezza oggettiva che si è creata sulla spettanza o meno delle agevolazioni Ici e Imu per gli enti non commerciali.
I benefici fiscali per gli enti non profit. Forma da tempo oggetto di dibattito, sia dottrinario che giurisprudenziale, il trattamento fiscale che deve essere riservato agli immobili posseduti dagli enti non profit, considerato che la loro destinazione non sempre può essere qualificata non commerciale.
La Corte di cassazione, con l'ordinanza 23548/2011, ha stabilito che un fabbricato utilizzato per l'assistenza di pensionati che pagano delle rette mensili è soggetto al pagamento dell'Ici perché l'attività è svolta con finalità commerciali. Per i giudici di piazza Cavour, che hanno mantenuto nel tempo una certa coerenza su questo tema, il beneficio dell'esenzione dall'imposta non spetta per gli immobili degli enti ecclesiastici «aventi fine di religione e di culto», «che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali».
Ancora più netta e rigida è stata la posizione assunta con la sentenza 4342/2015, secondo cui l'esenzione Ici prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i) del decreto legislativo 504/1992 «è limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto» indicate nella legge 222/1985 e, dunque, non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività sanitaria, non rilevando neppure la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell'attività.
Anche il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (circolare 2/2009) ha preso posizione sulla questione e ha fornito dei chiarimenti sulle varie tipologie di attività che hanno diritto a fruire delle agevolazioni, fissandone i limiti. Per il dipartimento, gli enti non commerciali sono esonerati dal pagamento dell'Ici solo se le attività che svolgono non hanno natura commerciale. Nello specifico, devono mancare gli elementi tipici dell'economia di mercato (quali il lucro soggettivo e la libera concorrenza) e devono essere presenti le finalità di solidarietà sociale. Spetta agli enti fornire la prova che ricorrano in concreto le condizioni previste dalla legge per avere diritto all'esenzione.
Va rilevato, infine, che le modifiche normative che riconoscono l'esenzione parziale Imu per gli enti non profit non possono valere per l'Ici, per la quale era richiesta la destinazione esclusiva dell'immobile per finalità non commerciali. L'esenzione Imu e Tasi, invece, spetta se sugli immobili vengono svolte attività didattiche, ricreative, sportive, assistenziali, culturali e via dicendo con modalità non commerciali. Inoltre, è previsto che qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista, l'agevolazione è limitata alla parte nella quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile.
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Conta il possesso qualificato.
Per gli enti non commerciali l'esonero dalle imposte locali è condizionato dal possesso qualificato dell'immobile, non è sufficiente il possesso di fatto con estensione dei benefici fiscali al soggetto titolare.
Infatti, una società che svolge attività commerciale che concede in uso un immobile a un ente non commerciale che ha i requisiti di legge non ha diritto all'esenzione Ici, Imu e Tasi, perché l'agevolazione non spetta se il fabbricato non viene utilizzato dal soggetto titolare. L'uso indiretto da parte dell'ente non profit che non ne sia possessore non consente al proprietario di fruire dell'esenzione.
Secondo la Cassazione (sentenza 14913/2016) per enti pubblici e privati, diversi dalle società, è imposta «la duplice condizione dell'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente possessore e dell'esclusiva loro destinazione ad attività peculiari che non siano produttive di reddito. L'esenzione non spetta, pertanto, nel caso di utilizzazione indiretta, ancorché assistita da finalità di pubblico interesse» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.04.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze, la finestra è decisiva. L'applicazione della regola dei dieci metri è condizionata. Il Tar Abruzzo interpreta il decreto che disciplina gli spazi fra gli edifici in città.
Bisogna rispettare la distanza minima di dieci metri fra gli edifici soltanto se almeno una delle due pareti che si contrappongono ha una finestra. Così va interpretato l'articolo 9 del decreto interministeriale 1444/1968, che disciplina la densità edilizia. A farne le spese, in questo caso, è il proprietario dell'abitazione che non riesce, almeno su questi presupposti, a bloccare l'apertura del chiosco bar davanti a casa.

È quanto emerge dalla sentenza 23.02.2017 n. 109, pubblicata dalla prima sezione del TAR Abruzzo-L'Aquila.
Secondo cui, infatti, sbaglia il vicino che tenta di far annullare l'autorizzazione unica concessa al chiosco, nel parco limitrofo alla casa, invocando il dm che disciplina gli spazi fra gli insediamenti. Il dato testuale della disposizione si riferisce alla distanza minima assoluta «tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti».
È allora bocciata la tesi secondo cui la distanza minima dal confine dovrebbe essere calcolata con riferimento al limite esterno della pedana. L'osservanza della norma va invece verificata rispetto alla parete del chiosco, che infatti è lontana più di dieci metri dall'abitazione, come emerge dalla stessa relazione tecnica di parte depositata dal proprietario dell'appartamento. Il quale, tuttavia, riesce comunque a far annullare il provvedimento del comune perché la platea di fondazione del chiosco all'interno dell'area verde è realizzata in cemento armato (ossia ha i caratteri della stabilità e della durevolezza nel tempo e risulta incompatibile con la natura amovibile della struttura).
Guardando ai precedenti, anche il piano casa della regione non può derogare a regolamenti edilizi e norme tecniche di attuazione sui prg dei comuni. Almeno per quanto riguarda le distanze minime fra pareti con finestre di costruzioni differenti: gli atti dell'amministrazione locale riproducono comunque norme statali di principio nel settore urbanistico e sarebbe incostituzionale la legge regionale che pretendesse di disciplinare la materia senza quei limiti.
È quanto emerge dalla sentenza 19/2016, pubblicata dalla prima sezione del Tar Molise. Così, deve rassegnarsi ad abbattere l'opera realizzata il proprietario della villetta a schiera che intendeva chiudere il portico approfittando delle agevolazioni del piano casa: l'obbligo di riduzione in pristino scatta perché manca un valido titolo edilizio laddove la presentazione della Dia non può prescindere dalla legittimità dell'intervento.
Per il titolare dell'immobile non è possibile invocare l'articolo 2 della legge regionale che consente la deroga a regolamenti edilizi: non per ciò solo la deroga deve ritenersi estesa all'articolo 9 del decreto ministeriale 1444/1968 e alle altre relative previsioni recepite negli atti adottati dalle amministrazioni locali. E ciò perché la stessa legge regionale non può derogarvi, in quanto la distanza minima fra pareti finestrate è una norma fondamentale in urbanistica.
Il piano casa deve dunque essere interpretato in senso conseguente pena l'illegittimità costituzionale. Ai fini delle distanze tra i fabbricati contano anche i balconi troppo sporgenti, anzi «aggettanti». Risultato: il dirimpettaio riesce a stoppare i lavori perché il palazzo in costruzione al posto della struttura preesistente risulta troppo vicino alle pareti di sua proprietà. E ciò anche se la parete cui il nuovo edificio incomberà risulta occupata soltanto da un garage e non da locali abitati.
Inutile, per la società che sta edificando, sostenere che i balconi sono elementi ornamentali e non dovrebbero essere considerati nel calcolo delle distanze minime. Sono invece manufatti che accrescono la consistenza dell'edificio.
È quanto stabilito nella sentenza 1622/13, pubblicata dalla seconda sezione del Tar Lombardia, con cui è accolto il ricorso del dirimpettaio. In ogni caso l'inerzia serbata dagli uffici dell'ente è illegittima e il comune deve essere condannato a emettere il provvedimento, inibitorio o di autotutela (articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017).

PATRIMONIOLa buca è visibile? Il Comune non paga i danni.
Risarcimenti. Non può invocare l’indennizzo per la caduta il pedone che inciampa in un’irregolarità del marciapiede molto grande e facilmente individuabile
Non tutte le irregolarità della sede stradale o di un marciapiede, per avvallamenti o rilievi, che possono essere determinati dalle circostanze più varie, è tale da far configurare di per sé la responsabilità dell’amministrazione nell’eventualità di un incidente.

È questo il principio generale che guida le decisioni dei giudici sulle (tante) cause intentate per chiedere il risarcimento dei danni da cadute. E la Corte d’appello di Milano, con la sentenza 08.02.2017 n. 527 (presidente Sbordone), lo ha applicato anche al caso di un pedone che ha messo il piede in una grossa buca sul marciapiede rovinando a terra e procurandosi lesioni permanenti a seguito della rottura del quinto metacarpo della mano destra.
La Corte, nel ritenere non configurabile la responsabilità del Comune per violazione del precetto che regola la responsabilità civile da fatto illecito contenuto nell’articolo 2043 del Codice civile (che si ispira all’antico brocardo «neminem laedere»), osserva che l’evento «caduta accidentale» sia da ascrivere allo stesso pedone ogni qual volta possa valutarsi che la sua condotta non accorta sia stata causa esclusiva del fatto.
Indici oggettivi di valutazione della condotta del pedone possono essere, ad esempio, proprio l’ampiezza della buca sul manto stradale e la sua visibilità in presenza di luce naturale, se siano tali da indurre il giudice a ritenere la situazione non pericolosa né insidiosa per un utente della strada che adotti l’ordinaria diligenza.
Perché, infatti, possa essere condannato l’ente custode della sede viaria, occorre che il giudice possa accertare l’obiettiva condizione di pericolo occulto, situazione la quale «deve essere necessariamente caratterizzata dal doppio requisito della non riconoscibilità oggettiva del pericolo e della non prevedibilità subiettiva del pericolo stesso, non facilmente evitabile con l’adozione della ordinaria diligenza».
Detto in altre parole, la costante giurisprudenza anche della Cassazione (si vedano, tra le altre, le sentenze 287 del 2015 e 23919 del 2013) propende per un obbligo di diligenza generale al quale si deve uniformare la condotta di ognuno di noi nelle vicende della vita quotidiana, al punto che quanto più l’insidia sia grande e avvistabile per un pedone, tanto più si dovrà presumere che l’accidentale caduta sia legata alla sua colpevole distrazione e non alla pericolosità occulta e intrinseca dello stesso ostacolo.
Il giudizio, insomma, sull’autonoma idoneità causale del fattore esterno ed estraneo alla sfera di influenza della vittima deve essere adeguato alla natura e alla pericolosità della cosa in sé: quanto meno la stessa sia intrinsecamente pericolosa e quanto più la situazione di potenziale pericolo possa essere prevista e superata con l’adozione delle cautele normali da parte del danneggiato, tanto più l’incidente si deve considerare dovuto a un comportamento distratto.
In definitiva –conclude la Corte d’appello– «tanto nel caso in cui si deduca una responsabilità dell’amministrazione ai sensi dell’articolo 2043 del Codice civile, tanto in quello in cui possa ravvisarsi una responsabilità oggettiva ai sensi dell’articolo 2051 del Codice civile, l’esistenza di un comportamento colposo dell’utente danneggiato esclude la responsabilità dell’amministrazione medesima, qualora si tratti di un comportamento idoneo a interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno stesso»
(articolo Il Sole 24 Ore del 15.05.2017).

EDILIZIA PRIVATAEdifici sopraelevati in libertà. Interventi senza liberatoria se non è a rischio la statica. Secondo il Tar Trento, il comune non può interpretare in senso restrittivo l'art. 1102 c.c..
Sempre più in alto. Il proprietario dell'ultimo piano ha diritto a sopraelevare e non può essere il comune a impedirglielo. L'ente locale, infatti, non può pretendere una liberatoria da parte dei condomini che non è prevista dall'art. 1127 c.c.: va dunque annullato il provvedimento che sospende i lavori citando a sproposito l'art. 1120 c.c., inerente le innovazioni sulle parti comuni dell'edificio.
È quanto emerge dalla sentenza 06.02.2017 n. 45, pubblicata dalla sezione unica del TRGA Trentino Alto Adige-Trento.
Il caso. Il titolare dei locali all'ultimo piano ben può trasformarli aumentando superfici e volumetrie. E anche quando i proprietari sono più d'uno, ciascuno può sopraelevare nei limiti della sua porzione di piano utilizzando lo spazio aereo sovrastante. A patto, però, che i lavori non mettano a rischio la statica del fabbricato (ciò che non risulta in discussione nella specie). Gli altri condomini possono opporsi soltanto per ragioni di ordine architettonico o se il manufatto riduce di molto l'aria e la luce ai piani sottostanti.
Si tratta tuttavia di controversie da azionare davanti al giudice civile mentre l'amministrazione concede i titoli abilitativi edilizi fatti salvi i diritti di terzi. Nel nostro caso la variante alla concessione edilizia è negata sulla base di una norma che invece riguarda le innovazioni per il miglioramento, l'incremento del rendimento o l'uso più comodo delle cose comune dell'edificio. All'amministrazione locale non resta che pagare le spese di giudizio.
È stata la Cassazione, di recente, a fare chiarezza in materia di parti comuni: l'articolo 1102 c.c. non può essere interpretato in senso tanto restrittivo da impedire ogni intervento. Il giudice del merito deve invece verificare se dopo i lavori è garantita la funzione di copertura e protezione delle strutture sottostanti.
È quanto emerge dalla sentenza 6253/2017, pubblicata il 10 marzo dalla seconda sezione civile. La giurisprudenza amministrativa prevalente nega rilevanza alla contrarietà del condominio ai lavori chiarendo per esempio che il comune non può bloccare la canna fumaria del ristorante solo perché sgradita agli altri condomini (sent. 1308/2014).
Altri precedenti. Deve essere concessa la proroga per i lavori allo scarico delle acque nere dopo la sanatoria giurisprudenziale concessa al proprietario esclusivo dell'abitazione. E ciò anche se il condominio si oppone, tanto che sulla questione è aperta una causa civile: la contrarietà dell'ente di gestione, infatti, non è imputabile al singolo condomino, mentre la pendenza del contenzioso costituisce un impedimento di mero fatto che non legittima il comune a negare la proroga.
È quanto emerge dalla sentenza 82/2017, pubblicata dalla terza sezione del Tar Toscana, che ha accolto il ricorso della signora che dopo aver comprato casa ha avuto una brutta sorpresa: gli scarichi convogliano in modo diretto, e illegale, nella fossa biologica condominiale.
E il servizio edilizia privata del comune la diffida dall'utilizzare i locali come abitazione. Il punto è che dopo la lite con il condominio spetta soltanto al giudice civile stabilire come la proprietaria esclusiva dell'immobile possa realizzare i lavori di sistemazione per mettersi in regola con la normativa igienico-sanitaria. Intanto, però, l'amministrazione locale non può negare la proroga richiesta perché la condomina ha ottenuto la sanatoria con opere da realizzare.
E delle due l'una: o la sanatoria è illegittima, perché chiesta da un soggetto non legittimato, oppure è arbitrario il rifiuto opposto dal condominio. Una volta che ha concesso il titolo edilizio, dunque, il comune non può assumere alcun provvedimento che in caso di vittoria nella causa civile impedisca alla condomina di esercitare i suoi diritti (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017 -  tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATAAgevolazioni in edilizia non cumulabili.
Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico e per la ristrutturazione edilizia non si possono cumulare o confondere, di talché i lavori eseguiti su un immobile, riconducibili a un'unica Denuncia inizio attività, devono essere valutati unitariamente e inquadrati nell'una o nell'altra fattispecie in base ai presupposti. Per cui, per esempio, i lavori che rientrerebbero nella detrazione per il risparmio energetico (55%) non possono essere assunti come tali se inglobati in un'unitaria procedura di ristrutturazione edilizia (36%) per cui è prevista una misura diversa di risparmio fiscale e differenti adempimenti.

È quanto si legge nella sentenza 30.01.2017 n. 46/01/2017 emessa dalla I Sez. della Ctp di Cremona.
A seguito di un controllo eseguito dall'Agenzia delle entrate, veniva notificata una cartella esattoriale a una società della provincia di Cremona, volta a rettificare le detrazioni fiscali fruite per risparmio energetico relative all'anno 2008, in misura pari al 55%. La diatriba tra l'ufficio fiscale e il contribuente nasceva del fatto che era stata attivata una Dia per lavori di ristrutturazione edilizia su un immobile di proprietà, con annessi adempimenti burocratici per poter fruire della detrazione del 36%.
Tuttavia, poiché di questi lavori, alcuni rientravano nell'ambito degli interventi di risparmio energetico, per i quali la legge riconosce una detrazione più ampia (55%), la società fruiva di tale beneficio, esponendosi al recupero da parte delle Entrate, puntualmente operato con la cartella impugnata. La Ctp di Cremona ha rigettato il ricorso, evitando di condannare il contribuente alle spese, in ragione delle problematiche interpretative manifestatesi nelle tematiche trattate.
In particolare i giudici hanno chiarito che le agevolazioni per la ristrutturazione edilizia e quelle per il risparmio energetico sono cose distinte e separate, sia per quanto concerne i presupposti, sia per gli adempimenti, che per la misura. Le due detrazioni, quindi, sicuramente non si possono cumulare, nel senso che non si può fruire congiuntamente delle stesse, in relazione ai medesimi lavori; ma, in via ulteriore, spiega la commissione, le stesse non si possono neppure «confondere» tra di loro, scegliendo di quale agevolazione fruire in ragione della diversa misura della detrazione.
Dunque, poiché nel caso di specie i lavori erano inseriti in una ristrutturazione edilizia, con tanto di Dia e connessi adempimenti, non è legittimo, seppur per una parte di essi, godere delle agevolazioni previste per gli interventi di risparmio energetico.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Ritiene la Commissione che la domanda della ricorrente non sia fondata. Occorre, invero, sottolineare come la contribuente abbia dichiarato sin dall'inizio con la pratica edilizia (Dia in data 25/10/2007) di eseguire i lavori riguardanti una ristrutturazione edilizia consistenti in:
   - ampliamento camera esistente primo piano abitazione;
   - ampliamento autorimessa costruita a confine;
   - varianti alla sistemazione esterna ai prospetti.
Con tale documentazione non ha minimamente fatto cenno ai lavori di risparmio energetico, o comunque a un adeguamento degli impianti di riscaldamento.
Ciò non appare frutto di una mera imprecisione del contribuente, posto che i lavori di ampliamento e ristrutturazione sono risultati di valore ben superiore a quelli che successivamente sono stati dichiarati relativi al risparmio energetico.
Vero è che la contribuente ha effettuato spese per lavori di riqualificazione energetica, ciò è stato effettivamente documentato con le allegate fatture e con attestazione dei tecnico abilitato (asseverazione).
Tuttavia si deve evidenziare come non sia consentito applicate congiuntamente due tipi di deduzioni: quella relativa alla ristrutturazione edilizia e riferita alle spese a esse inerenti e quella relativa al risparmio energetico sia pur riferita quest'ultima alle sole spese pertinenti a tale risparmio.
Infatti, poiché tutti i lavori si riferiscono allo stesso immobile e sono riconducibili a un'unica Denuncia inizio attività, l'intervento e valutate unitariamente.
Né d'altronde vi è stata richiesta di annullamento o di modifica della Dia sottoscritta.
In definitiva, non è possibile ricavare le detrazioni di imposta del 55% previsto per interventi di riqualificazione energetica, in quanto tutta la pratica proposta al comune era chiaramente diretta a un intervento di ristrutturazione edilizia.
Non è neppure possibile riconoscere ora 1'agevolazione del 36% previsto per interventi di ristrutturazione edilizia, in quanto tale diversa agevolazione avrebbe dovuto essere richiesta all'ufficio finanziano con la dichiarazione dei redditi, laddove invece il beneficiario dell'agevolazione ha compilato il relativo modulo dell'Agenzia delle entrate riguardante «interventi di riqualificazione energetica».
Di quanto sopra enunciato, si deve inoltre segnalare anche la decisione della Commissione tributaria regionale con sentenza n. 520/67/16 pronunciata il 14.12.2015. ( )
PQM La Commissione, visto l'art. 36 dlgs 546/1992, respinge la domanda della ricorrente. Dichiara compensate tra le parti le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 20.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGOÈ mobbing spostare il vigile al cimitero.
Il comune che trasferisce l'agente scomodo al cimitero lasciandolo senza alcuna incombenza lavorativa può essere condannato per mobbing. E per questo sarà tenuto al risarcimento del danno biologico e di quello non patrimoniale.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 27.01.2017 n. 2142.
Un comune calabrese ha deciso di trasferire un agente di polizia locale assegnandolo ad altri uffici e mansioni. Dopo alterne vicende il vigile è stato accompagnato presso il locale cimitero per svolgere la sua attività lavorativa in una stanza della triste struttura.
Contro questa serie di iniziative singolari l'interessato ha proposto con successo azioni legali che hanno confermato il mobbing ma il comune ha richiesto ai giudici del Palazzaccio di annullare le decisioni di merito. Il collegio ha rigettato il ricorso confermando la condanna del comune al risarcimento del danno.
Degradare un vigile, togliergli ogni mansione, l'ufficio, la scrivania e avviarlo a operare nella sede cimiteriale è effettivamente un messaggio mobbizzante che non può essere tollerato ed espone la pubblica amministrazione all'obbligo di risarcimento (articolo ItaliaOggi del 20.04.2017).

AGGIORNAMENTO AL 28.12.2017

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Incentivo funzioni tecniche:
la Legge di Bilancio 2018 risolve la quaestio juris sollevata dai Giudici contabili??

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEFunzioni tecniche, premi a parte. Incentivi fuori dal tetto per la contrattazione decentrata.
Gli incentivi ai tecnici debbono essere considerati fuori dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.

È stato approvato l'emendamento 49.22 (di iniziativa della I Commissione) e l'emendamento 49.19 (di iniziativa dell'On. Fabbri, sottoscritto anche dall'On. Fragomeli) alla legge di Bilancio (Atto Camera n. 4768), presentato anche su iniziativa dell'Unitel (Unione nazionale italiana tecnici enti locali) finalizzato a risolvere il garbuglio della composizione delle risorse decentrate, derivante dalla
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione Autonomie della Corte dei conti.
Come è noto, la Sezione ha enunciato il principio di diritto secondo il quale «Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all'articolo 113, comma 2, dlgs n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all'articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)».
Le indicazioni della Sezione, peraltro non condivise dalla Sezione Liguria, e comunque riconfermate dalla
deliberazione 10.10.2017 n. 24, hanno letteralmente gettato nel panico le amministrazioni, perché improvvisamente il fondo della contrattazione decentrata si è visto dover finanziare gli incentivi per i servizi tecnici previsti dal codice, che invece erano sempre state considerate spese finanziate al di fuori del fondo.
Si è immediatamente creata una situazione di stallo nelle trattative, di per sé già molto complesse, per la destinazione dei fondi. Infatti, l'interpretazione data dalla Sezione Autonomie finisce per erodere i fondi, dai quali sottrarre le risorse per gli incentivi tecnici, visto che non sono nemmeno possibili incrementi della parte variabile che vadano oltre il tetto del 2016, imposto dalla riforma Madia all'articolo 23, comma 2, del dlgs 75/2017.
La chiave di lettura offerta dalla Sezione Autonomie non ha né convinto sul piano giuridico operatori ed enti, né ha trovato accoglienza favorevole sul piano politico e sindacale.
Da qui, la necessità di fare chiarezza, mediante l'emendamento il cui testo prevede modifica l'articolo 113 del dlgs 50/2016 (il codice dei contratti), inserendo il seguente nuovo comma 5-bis: «Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».
L'emendamento (cfr. il testo approvato il 21.12.2017 dalla V Commissione permanente Bilancio, tesoro e programmazione della Camera dei Deputati) smentisce la ricostruzione della Corte dei conti e chiarisce che il finanziamento degli incentivi deriva da fonti esterne al bilancio, così da poter consentire l'incremento dei fondi per la contrattazione decentrata.
Occorrerà verificare se la magistratura contabile si farà convincere che la modifica normativa risolve i problemi creati con le interpretazioni restrittive fin qui espresse. Di certo, si deve osservare che non è la prima volta che letture rigorose e comunque non allineate con le esigenze gestionali degli enti da parte della Corte dei conti inducono il legislatore a correzioni di rotta mediante interventi normativi.
Era avvenuto qualcosa di simile anche relativamente al tema del computo delle assunzioni dei dirigenti a contratto ai sensi dell'articolo 110 del Tuel: la magistratura contabile riteneva prima che la spesa non rientrasse nel tetto di spesa dell'articolo 9, comma 28, del dl 78/2010, per poi cambiare idea; il legislatore ha stabilito che detta spesa non rientra nel tetto, ma la Corte dei conti con delibere successive ha confermato che, invece, la spesa per i dirigenti a contratto comunque sta nel tetto di spesa dei contratti flessibili.
È evidente che simili rimpalli di interpretazioni e rincorse a chiarire significati di norme, molte volte poco esplicite ma altre volte non così oscure e contraddittorie, finisce solo per creare grande disorientamento tra gli operatori, con comprensibili svantaggi di molti generi nell'attività gestionale (articolo ItaliaOggi del 20.12.2017).
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Al riguardo, si leggano anche i seguenti ulteriori documenti:
   ● Le modifiche approvate dalla Camera dei Deputati (Senato della Repubblica, dossier dicembre 2017);
   ● Sintesi degli emendamenti approvati dalla V Commissione Bilancio della Camera dei Deputati (Senato della Repubblica, dossier dicembre 2017).
Il Senato della Repubblica, il 23.12.2013, ha approvato il seguente disegno di legge d’iniziativa del Governo (Atto Senato n. 2960-B), già approvato dal Senato e modificato dalla Camera dei deputati: Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020 (in attesa di pubblicazione sulla G.U.R.I.).
Per quanto qui interessa, l'art. 1, comma 526, così dispone:
526. All’articolo 113 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, è aggiunto, in fine, il seguente comma:
   «5-bis. Gli incentivi di cui al presente articolo fanno capo al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture».

     Invero, tuttavia, qualcuno mette già le mani avanti sull'intervenuta risoluzione legislativa della problematica:
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi per funzioni tecniche nella legge di bilancio (22.12.2017 - link a www.gianlucabertagna.it).
     Che dire: stiamo a vedere (prossimamente) cosa diranno le varie sezioni regionali della Corte dei Conti -a fronte di (sicuri) interrogativi posti da vari comuni- le quali, ovviamente, chiederanno lumi alla Sezione Autonomie.
 
 

Regione Lombardia:
si profila, all'orizzonte, un'altra possibile censura da parte della Consulta.
Consumo di suolo, al vaglio della Corte Costituzionale la legge n. 31/2014 della Lombardia. Secondo il Consiglio di Stato una norma di tale legge regionale, nel dettare i criteri per la riduzione del consumo del suolo, determina una illegittima compressione delle potestà urbanistiche comunali.

URBANISTICA: Alla Consulta la questione di legittimità costituzionale della legge regionale lombarda in tema di consumo del suolo
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Urbanistica ed edilizia – Riduzione del consumo del suolo – Potestà comunale – Questione non manifestamente infondata di costituzionalità.
Non è manifestamente infondata, con riferimento ai principi di sussidiarietà (artt. 5, 114 e 118 Cost.) e di riserva alla legislazione esclusiva statale delle funzioni fondamentali del comune (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31, in quanto, nel dettare i criteri per la cd. riduzione del consumo del suolo, determina una illegittima compressione delle potestà urbanistiche comunali (1).
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   (1) I. Con l’ordinanza in epigrafe la quarta sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte costituzionale i dubbi in ordine alla legittimità della legislazione regionale lombarda in tema di consumo del suolo.
   II. La questione è sorta nell’ambito di un complesso contenzioso proposto avverso gli atti di approvazione di una variante generale al piano regolatore del Comune di Brescia.
La controversia è stata avviata dai proprietari di alcuni immobili ricompresi in un c.d. “ambito di trasformazione”.
In dettaglio, nel 2014 la Regione Lombardia ha approvato la legge 28.11.2014, n. 31 che ha tra i propri obiettivi la riduzione del consumo del suolo; l’articolo 5 della suindicata legge regionale detta una disposizione di natura transitoria, sulla scorta della quale i proprietari predetti presentavano una istanza, contenente un progetto di piano attuativo riferito a tutto l’ambito di trasformazione. Peraltro, nelle more il Comune adottava -e poi approvava- una variante generale di contenuto peggiorativo per gli interessati, che eliminava dal documento di piano la previsione dell’ambito di trasformazione suddetto. I proprietari coinvolti impugnavano quindi la variante rilevando il contrasto delle previsioni con la sopracitata legge regionale. Il Tar accoglieva il ricorso ed annullava in parte qua la variante, dettando poi, nella seconda parte della sentenza le prescrizioni cui si sarebbe dovuta improntare la successiva attività pianificatoria del comune.
   III. La questione, così come riassunta in massima, nel ragionamento della quarta sezione prende le mosse da un’approfondita ricostruzione dei principi dettati dalla Consulta, anche in tema di governo del territorio.
Si coglie l’occasione per dettare alcune indicazioni di ordine generale. Ad esempio, che l'urbanistica, ed il correlato esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo. Da ciò emerge la nozione ampia di “governo del territorio” che, comportando la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in materia. Nel sistema giuridico italiano la funzione amministrativa urbanistica, rientrante pacificamente nella materia del governo del territorio, è tradizionalmente affidata ai comuni.
Da qui il dubbio di costituzionalità dell’art. 5, comma 4, della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 in relazione al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione in quanto: deve essere lo Stato a stabilire con propri atti normativi primari quali siano le funzioni affidate agli Enti locali; in base alla norma in questione viene direttamente compiuta dal legislatore regionale, anziché dalle amministrazioni comunali, una scelta di particolare rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza dai comuni medesimi, con conseguente conformazione del quomodo di esercizio della funzione comunale.
In pratica, si censura che con il blocco temporale delle iniziative pianificatorie delle amministrazioni comunali (seppur per un periodo di tempo contenuto, ma variabile in quanto incerto nella sua ampiezza), siano rese immodificabili “le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”; con tale generale previsione, a contrario, si inibisce del tutto all’ente locale di esercitare la potestà di adottare modifiche al proprio piano vigente, “congelandolo” alla data di emanazione della legge regionale suddetta.
In tale contesto emerge anche il contrasto con il parametro della sussidiarietà verticale di cui agli articoli 5, e 118 della Costituzione, sia nella parte in cui il Comune si duole della indeterminatezza temporale della previsione (nel senso che non è prevista alcuna decadenza del barrage interdittivo, laddove la regione non rispetti il termine temporale contenuto nella legge) sia laddove si sottolinea la portata “espropriativa” di competenze proprie.
   IV. Per completezza, in relazione al tema in oggetto, si segnala:
      a) Corte cost. 29.11.2017, n. 246 oggetto della News US 11.12.2017, secondo cui “E’ illegittimo l’art. 1, comma 129, della legge regionale n. 4 del 2011, nella parte in cui, sostituendo l’art. 2, comma 1, della legge reg. Campania n. 13 del 1993, prevede che non costituiscono attività rilevanti ai fini paesaggistici le installazioni «quali tende ed altri mezzi autonomi di pernottamento, quali roulotte, maxi caravan e case mobili», anche se «collocate permanentemente entro il perimetro delle strutture ricettive regolarmente autorizzate» in un’area naturale protetta”;
      b) Corte cost. 13.04.2017, n. 84 oggetto della News US 10.05.2017, secondo cui “Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 06.06.2001, n. 378, recante «Disposizioni legislative in materia edilizia (Testo B)», trasfuso nell’art. 9, comma 1, lettera b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 41, primo comma, 42, secondo e terzo comma, 76 e 117, terzo comma, della Costituzione nella parte in cui, nel prevedere limiti agli interventi di nuova edificazione fuori del perimetro dei centri abitati nei comuni sprovvisti di strumenti urbanistici: a) fanno salva l’applicabilità delle leggi regionali unicamente ove queste prevedano limiti «più restrittivi»; b) stabiliscono che, «comunque», nel caso di interventi a destinazione produttiva, si applica –in aggiunta al limite relativo alla superficie coperta (un decimo dell’area di proprietà)– anche il limite della densità massima fondiaria di 0,03 metri cubi per metro quadrato”;
      c) Corte cost. 17.07.2017, n. 209 oggetto della News US 31.07.2017, secondo cui “E’ inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 16, lettera f), del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito dalla legge 30.07.2010, n. 122, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione nella parte in cui consente di assoggettare ad un contributo straordinario le cosiddette “valorizzazioni urbanistiche” frutto della nuova pianificazione”;
      d) Corte cost. 15.07.2016, n. 178 oggetto della News US 18.07.2016, secondo cui “E’ incostituzionale l’art. 10, comma 1, l.reg. Marche 13.04.2015 n. 16, nella parte in cui modifica l’art. 35 l.reg. 04.12.2014 n. 33, sostituendo, all’espressione originaria "ovvero di ogni altra trasformazione", la diversa espressione "e di ogni trasformazione", con ciò ampliando la deroga alle distanze anche in relazione ad “interventi di carattere puntuale”, in violazione dell’art. 2-bis del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Testo unico dell’ edilizia), che invece consente alle Regioni di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al decreto del Ministro dei lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444, unicamente a condizione che quest’ultime si inseriscano nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario dell’intero territorio o di specifiche aree”.
      e) sulla competenza dello Stato a individuare le funzioni fondamentali degli enti locali ex art. 117, lett. p), Cost., Corte cost. 11.02.2014, n. 22, in Foro it., 2014, I, 3394, secondo cui “Non sono fondate, in riferimento agli art. 117, 118 e 119 commi 1, 2 e 6, cost., le q.l.c. dell'art. 19, commi 3 e 4 d.l. 06.07.2012, n. 95, conv., con modif., in l. 07.08.2012, n. 135, il quale sostituisce l'art. 32 d.lgs. n. 267 del 2000, ponendo una disciplina articolata delle unioni di Comuni, con differenti profili, attinenti alle procedure di istituzione e alla struttura organizzativa delle unioni, nonché alla disciplina delle funzioni che queste ultime sono destinate a svolgere (comma 3), e prevede, per i comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, una facoltà di scelta tra i modelli organizzativi di cui ai precedenti commi 1 e 2 (comma 4). Le disposizioni censurate sono orientate finalisticamente al contenimento della spesa pubblica, siccome poste da un provvedimento di riesame delle condizioni di spesa e con contenuti armonici rispetto all'impianto complessivo della rimodulazione delle "unioni di comuni", sicché opera il titolo legittimante della competenza in materia di "coordinamento della finanza pubblica", di cui al comma 3 dell'art. 117 cost., esercitata dallo Stato attraverso previsioni che si configurano come principi fondamentali e non si esauriscono in una disciplina di mero dettaglio”;
      f) sull’esercizio unitario di funzioni amministrative, Corte cost., 22.07.2011, n. 232, in Foro it., 2011, I, 2538, secondo cui “Deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 d.l. 31.05.2010 n. 78 art. 43, conv. con modificazioni dalla l. 30.07.2010 n. 122, che prevede l'istituzione "nel Meridione d'Italia" di "zone a burocrazia zero" e dispone che, in tali zone, "nei riguardi delle nuove iniziative produttive i provvedimenti conclusivi dei procedimenti amministrativi di qualsiasi natura ed oggetto avviati su istanza di parte, fatta eccezione per quelli di natura tributaria, di p.s. e di incolumità pubblica, sono adottati in via esclusiva da un Commissario di Governo". Posto che la previsione possiede un campo di applicazione generalizzato (riferito a tutti i procedimenti amministrativi in tema di nuove iniziative produttive) e quindi idoneo a coinvolgere anche procedimenti destinati ad esplicarsi entro ambiti di competenza regionale concorrente o residuale, essa appare in contrato con gli agli art. 117, commi 3 e 4, e 118 cost., in ragione della assenza nel contesto dispositivo di una qualsiasi esplicitazione, sia dell'esigenza di assicurare l'esercizio unitario perseguito attraverso tali funzioni, sia della congruità, in termini di proporzionalità e ragionevolezza, di detta avocazione rispetto al fine voluto ed ai mezzi predisposti per raggiungerlo, sia della impossibilità che le funzioni amministrative "de quibus" possano essere adeguatamente svolte agli ordinari livelli inferiori. Resta, di conseguenza, assorbita l'ulteriore censura formulata in via subordinata dalla ricorrente avverso il comma 2 del menzionato art. 43 -per violazione degli art. 117, commi 3 e 4, e 118, comma 1, cost.- in ragione della dedotta mancata previsione dell'ulteriore presupposto del coinvolgimento della Regione territorialmente interessata”;
      g) sulla sussidiarietà verticale di cui all’art. 118 Cost.:
- Corte cost., 20.05. 2016, n. 110, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2016, 6, I, 1038, secondo cui “Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 37, comma 1, d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modif., in l. 11.11.2014, n. 164, censurato per violazione degli artt. 117, comma 3 e 118, comma 1, Cost., nonché del principio di leale collaborazione, nella parte in cui stabilisce che «i gasdotti di importazione di gas dall'estero, i terminali di rigassificazione di GNL, gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas naturale, incluse le operazioni preparatorie necessarie alla redazione dei progetti e le relative opere connesse rivestono carattere di interesse strategico». La disposizione impugnata non modifica —né espressamente, né implicitamente— le singole discipline di settore, dettate per la localizzazione, la realizzazione ovvero l'autorizzazione all'esercizio di ciascuna delle categorie di infrastrutture in essa elencate, per ognuna delle quali esiste una specifica disciplina procedimentale per la realizzazione e la messa in esercizio delle relative opere, che, in forme diverse, prevede la partecipazione degli enti territoriali, e richiede espressamente l'intesa con la singola Regione interessata. Pertanto, l'attribuzione del «carattere di interesse strategico» alle infrastrutture in questione, effettuata in via generale dalla disposizione normativa impugnata, non determina, di per sé, alcuna modifica alle normative di settore prima richiamate, né, di conseguenza —prevedendo queste ultime sempre la necessaria intesa con la Regione interessata— alcuna deroga ai principi, elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, in tema di chiamata in sussidiarietà e di necessaria partecipazione delle Regioni”;
- Corte cost., 24.07.2015, n. 189, in Rivista Giuridica dell'Edilizia 2015, 5, I, 872, secondo cui “È costituzionalmente illegittimo l'art. 41, comma 4, d.l. 21.06.2013, n. 69, conv., con modif., in l. 09.08.2013, n. 98. La norma impugnata, nella parte in cui stabilisce che costituiscono «interventi di nuova costruzione» l'installazione di manufatti leggeri anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, «ancorché siano installati, con temporaneo ancoraggio al suolo, all'interno di strutture ricettive all'aperto, in conformità alla normativa regionale di settore, per la sosta ed il soggiorno di turisti», estende, con norma di dettaglio, l'ambito oggettivo degli «interventi di nuova costruzione», per i quali è richiesto il permesso di costruire. Essa in specie individua specifiche tipologie di interventi edilizi, realizzati nell'ambito delle strutture turistico-ricettive all'aperto, molto peculiari, che peraltro contraddicono i criteri generali (della trasformazione permanente del territorio e della precarietà strutturale e funzionale degli interventi) forniti, dallo stesso legislatore statale (d.P.R. n. 380 del 2001), ai fini dell'identificazione della necessità o meno del titolo abilitativo. In tal modo, la norma impugnata sottrae al legislatore regionale ogni spazio di intervento, determinando la compressione della sua competenza concorrente in materia di governo del territorio, nonché la lesione della competenza residuale del medesimo in materia di turismo, strettamente connessa, nel caso di specie, alla prima”;
- Consiglio di Stato, sez. VI, 31.10.2011, n. 5816, secondo cui “La modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione, ha previsto, da un lato, l'attribuzione alle regioni della competenza legislativa concorrente in materia di "porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione" (art. 117 comma 3,cost.); dall'altro, ha attribuito la generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, le stesse siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (art. 118, comma 1, cost.). Per i porti civili -nel cui ambito ricade il sito portuale di cui è controversia- resta inapplicabile, ai fini dell'individuazione dell'autorità competente a pronunciarsi sulle richieste concessorie, la previgente classificazione di cui all'art. 4 l. 28.01.1994 n. 84, ed al d.P.C.M. 21.12.1995 n. 603000. In altri termini, il nuovo sistema delle competenze, recato dalla l. cost. 18.10.2001 n. 3 (modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione) impedisce che possa attribuirsi attuale valenza precettiva all'inserimento formale del porto nel d.P.C.M. del 1995, ai fini del riparto delle funzioni amministrative in materia”;
      h) sulla titolarità in capo ai comuni dei poteri di pianificazione del territorio, cfr. la già richiamata Corte cost., n. 209 del 2017, oggetto della News US 31.07.2017;
      i) sui rapporti fra regione ed ente locale nella formazione dello strumento urbanistico e sulle conseguenze di carattere processuale, Cons. Stato, sez. IV, 23.12.2010, n. 9375, in Foro it., 2011, III, 330 con nota di CARLOTTI, secondo cui “È inammissibile il ricorso proposto contro un piano regolatore generale notificato soltanto al comune adottante e non anche alla Regione che lo abbia approvato, in considerazione della natura complessa dell'atto impugnato e del concorso delle volontà di entrambi gli enti territoriali alla sua formazione definitiva”;
      j) sui limiti della competenza delle Regioni (anche a statuto speciale) in materia di edilizia e governo del territorio, fra le tante, cfr.:
- Corte cost., 11.06.2010, n. 209, in Giur. cost. 2010, 3, 2417 con nota di ESPOSITO e in Foro it., 2011, I, 375, con nota di ROMBOLI, secondo cui “È costituzionalmente illegittimo l'art. 107-bis, commi 6 e 7, l. prov. Bolzano 11.08.1997 n. 13. Premesso che il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull'applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore, fermi i limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, le disposizioni censurate -le quali, rispettivamente, prevedono che la subordinazione della sanatoria, previo pagamento della sanzione pecuniaria, all'impossibilità di rimuovere i vizi delle procedure, si estende ai vizi sostanziali, con la conseguenza che rientrano nella previsione anche le ipotesi di opere realizzate in base a concessioni dichiarate illegittime per contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti o fondati su variazioni degli stessi a loro volta dichiarate illegittime e annullate (comma 6), e riducono l'area di inapplicabilità dell'art. 88 l. prov. n. 13 del 1997, nel testo modificato dalla l.prov. n. 1 del 2004, alle sole ipotesi di inedificabilità assoluta, escludendo quindi i casi di inedificabilità relativa (comma 7)- nonostante l'autoqualificazione di norme interpretative, contengono delle vere e proprie innovazioni del testo previgente, incidendo in modo irragionevole sul legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto, giacché il legislatore provinciale è intervenuto per rendere retroattivamente legittimo ciò che era illegittimo, senza che fosse necessario risolvere oscillazioni giurisprudenziali e senza che il testo delle norme "interpretate" offrisse alcun appiglio semantico nel senso delle rilevanti modifiche introdotte, così violando anche le attribuzioni costituzionali dell'autorità giudiziaria”;
- Corte cost., 09.03.2016, n. 49, in Rivista Giuridica dell'Edilizia, 2016, 1-2, I, 8 con nota di STRAZZA, secondo cui “Con riferimento all’art. 117, comma 3, cost., va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 84-bis, comma 2, lett. b), l.reg. Toscana n. 1 del 2005 (“Norme per il governo del territorio”). Tale disposizione regionale infatti, nell’attribuire all’Amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare una disciplina di dettaglio, ha introdotto una normativa sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale; essa, dunque, comporta l’invasione della riserva di competenza statale alla formulazione di principi fondamentali, con tutti i rischi per la certezza e per l’unitarietà della disciplina che tale invasione comporta”;
- Corte cost. 12.04.2013, n. 64, in Foro it., 2014, I, 2297, secondo cui “È incostituzionale l'art. 1 commi 1 e 2 l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell'ambito degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del competente ufficio tecnico regionale per i "progetti" e le "opere di modesta complessità strutturale", privi di rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla giunta regionale in base ad una procedura nella quale è prevista l'obbligatoria assunzione di un semplice parere da parte della commissione sismica regionale”;
      k) in dottrina sui rapporti fra potestà legislativa dello Stato e delle Regioni in materia di governo del territorio e sulle competenze amministrative esercitabili da Regioni e enti locali, v. MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, VI ed., Milano, 2009, 65 ss., 73 ss. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza non definitiva 04.12.2017 n. 5711 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Alla Corte costituzionale la l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31 sul cd. consumo del suolo.
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Urbanistica - Lombardia - Legge cd. di riduzione del consumo del suolo - Art. 5, l.reg. n. 31 del 2014 - Compressione delle potestà urbanistiche comunali - Violazione artt. 5, 114, 117 e 118 Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento ai principi di sussidiarietà (artt. 5, 114 e 118 Cost.) e di riserva alla legislazione esclusiva statale delle funzioni fondamentali del comune (art. 117, comma 2, lett. p), Cost.), la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5, commi 4 e 9, della legge regionale lombarda 28.11.2014, n. 31 (nel testo ante modifiche introdotte dalla legge regionale lombarda n. 16 del 26.05.2017) in quanto, nel dettare i criteri per la cd. riduzione del consumo del suolo, determinante una illegittima compressione delle potestà urbanistiche comunali (1).
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   (1) Giova preliminarmente chiarire che la l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31 (Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato) ha la finalità di indirizzare la pianificazione urbanistica, a tutti i livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di suolo.
La definizione normativa di consumo di suolo è stata introdotta dall’art. 2, comma 1-c, l.reg. n. 31 del 2014 (“trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l'attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali”).
Con riferimento alla sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, l.reg. Lombardia 28.11.2014, n. 31, ha chiarito la Sezione che l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo: la nozione ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia.
Ha aggiunto che nel sistema giuridico italiano all’Ente comune è tradizionalmente affidata la funzione amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione) che esso esercita, di regola attraverso una duplice direttrice. Ha quindi richiamato Cons. St., sez. VI, 30.06.2011, n. 3888, secondo cui “in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa statale e regionale, occorre differenziare tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze; la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali ecc.”).
Con specifico riferimento alla sollevata questione di legittimità costituzionale, la Sezione ha affermato, in relazione:
   a) al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., che:
      a) la riserva esclusiva alla legislazione statuale delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” implica una conseguenza: quella che debba essere lo Stato –e soltanto quest’ultimo– a stabilire con propri atti normativi primari quali siano le funzioni affidate agli Enti locali;
      b) l’art. 5, l.reg. Lombardia n. 31 del 2014 potrebbe ritenersi collidente con tale disposizione della Costituzione in quanto, pur essendo la funzione amministrativa in materia urbanistica affidata in termini generali ai comuni della Lombardia, tuttavia viene direttamente compiuta dal legislatore regionale anziché dalle amministrazioni comunali una scelta di particolare rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza dai comuni medesimi;
      c) in tal modo si è voluto escludere che il comune eserciti per questo profilo la funzione amministrativa urbanistica ad esso spettante, della quale si è conformato il quomodo di esercizio.
   b) al parametro relativo al principio di sussidiarietà verticale di cui agli artt. 5 e 118 Cost., sia nella parte in cui il Comune si duole della indeterminatezza temporale della previsione (nel senso che non è prevista alcuna decadenza del barrage interdittivo, laddove la regione non rispetti il termine temporale contenuto nella legge) sia laddove si sottolinea la portata “espropriativa” di competenze proprie (consistenti nella potestà di modificare il documento di Piano del PGT) rappresentata dalla prescrizione interdittiva di cui al comma 4 dell’art. 5, l.reg. Lombardia n. 31 del 2014.
Ad avviso della Sezione, il comma 4 dell’art. 5, l.reg. Lombardia n. 31 del 2014 ha introdotto un divieto al potere comunale di modifica del Documento di Piano in senso riduttivo del consumo di suolo quanto agli ambiti di trasformazione, e che tale prescrizione renda non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal comune, in quanto la funzione di pianificazione, ex art. 118 Cost., integra funzione amministrativa attribuita al comune medesimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza non definitiva 04.12.2017 n. 5711 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Consumo di suolo: il Consiglio di Stato solleva la questione di legittimità costituzionale della L.R. della Lombardia n. 31 del 2014.
Il Consiglio di Stato ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4 e 9, della legge regionale lombarda 28.11.2014, n. 31 (nel testo ante modifiche introdotte dalla legge regionale lombarda n. 16 del 26.05.2017), con riferimento agli articoli 5, 117, comma 2, lett. p), e 118 della Costituzione ed ha, per l’effetto, rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità.
Ad avviso del Collegio, non è manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità investente la disposizione contenuta nell’art. 5, comma 4, della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 in relazione al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione in quanto:
   a) la riserva esclusiva alla legislazione statuale delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” implica una conseguenza: quella che debba essere lo Stato –e soltanto quest’ultimo- a stabilire con propri atti normativi primari quali siano le funzioni affidate agli Enti locali;
   b) la prescrizione normativa regionale avversata potrebbe ritenersi collidente con tale disposizione della Costituzione in quanto, pur essendo la funzione amministrativa in materia urbanistica affidata in termini generali ai comuni della Lombardia, tuttavia viene direttamente compiuta dal legislatore regionale anziché dalle amministrazioni comunali una scelta di particolare rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza dai comuni medesimi;
   c) in tal modo si è voluto escludere che il comune eserciti per questo profilo la funzione amministrativa urbanistica ad esso spettante, della quale si è conformato (in negativo) il quomodo di esercizio.
Ad analoghe conclusioni, perviene il Collegio, con riferimento al parametro della violazione del principio di sussidiarietà in quanto:
   a) il blocco temporale alle iniziative pianificatorie delle amministrazioni comunali, implica che –seppur per un periodo di tempo contenuto, ma variabile in quanto incerto nella sua ampiezza– siano immodificabili le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente;
   b) con tale generale previsione, a contrario, si inibisce del tutto all’ente locale di esercitare la potestà di adottare modifiche al proprio Documento di Piano vigente (quest’ultimo costituente la parte più rilevante e qualificante del PGT, come è noto) ed in concreto se ne determina il contenuto, “congelandolo” alla data di emanazione della legge regionale suddetta
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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... per la riforma della sentenza 17.01.2017 n. 47 del TAR per la LOMBARDIA – Sez. Staccata di Brescia – Sez. I.
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1. Ritiene il Collegio che l’appello principale sia in parte infondato, e vada pertanto respinto, laddove sostiene che la sentenza sia viziata ex art. 112 c.p.c.; ritiene di converso il Collegio che sia rilevante e non manifestamente infondata, nei termini che verranno esposti in motivazione, la questione di legittimità costituzionale della suindicata legge regionale 28.11.2014, n. 31 prospettata nell’appello principale; ritiene, quindi, il Collegio che debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale relativa alla legge regionale menzionata e che il processo debba essere sospeso; tutte le altre censure prospettate nell’appello principale e nell’appello incidentale non possono essere allo stato decise, in quanto dall’esito della decisione della Corte Costituzionale in ordine alla questione sollevata dipenderà la procedibilità delle medesime, nella parte in cui, per speculari ragioni, esse attingono i capi 22 e segg. della impugnata sentenza laddove sono state dettate prescrizioni in punto di futura attività programmatoria del comune conseguenti all’annullamento degli atti impugnati.
1.1. Preliminarmente il Collegio evidenzia che:
   a) a mente del combinato disposto degli artt. artt. 91, 92 e 101, co. 1, c.p.a., farà esclusivo riferimento ai mezzi di gravame posti a sostegno dei ricorsi in appello, senza tenere conto di ulteriori censure sviluppate nelle memorie difensive successivamente depositate, in quanto intempestive, violative del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali (cfr. ex plurimis Cons. Stato Sez. V, n. 5865 del 2015);
   b) le parti concordano in ordine alla ricostruzione fattuale e cronologica della vicenda infraprocedimentale siccome descritta nella parte in fatto della decisione di primo grado impugnata, per cui, anche al fine di non appesantire il presente elaborato, ed in ossequio al principio di sinteticità, si farà integrale riferimento sul punto alle affermazioni del Tar (art. 64, comma II, del c.p.a.);
   c) l’appello principale è senz’altro ammissibile in quanto ivi si propongono critiche dettagliate e specifiche alle argomentazioni contenute nella impugnata decisione, il che implica la reiezione della eccezione di inammissibilità del medesimo per genericità sollevate dalla difesa delle parti originarie ricorrenti di primo grado;
   d) è inaccoglibile (e comunque, per quanto si chiarirà di seguito, la parte appellante non avrebbe interesse a proporla) la censura secondo la quale la sentenza dovrebbe essere dichiarata nulla in quanto resa in violazione del principio di cui all’art. 112 c.p.c. a cagione della circostanza che non si sarebbe pronunciata sulla eccezione subordinata formulata dall’appellante comune di Brescia di sospetta illegittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. del 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31, in quanto:
      I) per costante giurisprudenza che il Collegio condivide “l'omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112, c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo” (tra le tante Consiglio Stato, sez. IV, 16.01.2006, n. 98);
      II) ma –stabilisce la consolidata giurisprudenza amministrativa- "il vizio di omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertato con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché esso può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile” (Consiglio Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2009);
      III) nel caso di specie detto vizio non ricorre, in quanto la sentenza di primo grado ha -seppur sinteticamente- chiarito il proprio convincimento contrario alla fondatezza della eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale della Lombardia n. 31 del 2014 al considerando n. 21 (“Questo non significa che la pianificazione comunale sia bloccata per un tempo indefinito e non possa perseguire finalità di contenimento delle edificazioni, modificando le proprie scelte precedenti. Il nuovo orientamento più restrittivo deve però essere attuato in modo incrementale, rivedendo ogni singolo progetto di piano attuativo, ed esponendo per ciascuno le ragioni che inducono a ritenere non più conforme all’interesse pubblico l’equilibrio perequativo fatto proprio dal PGT.”);
      IV) in ogni caso, il comune non ha interesse a sollevare la censura posto che per risalente quanto consolidata giurisprudenza (pienamente attuale ai sensi dell’ art. 105 del c.p.a.) “l'omessa pronuncia su una o più censure proposte col ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado, ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo del merito della causa” ( Consiglio Stato, sez. IV, 19.06.2007, n. 3289) ed il Collegio provvederà a scrutinare la doglianza immediatamente di seguito.
1.2. In punto di fatto, la questione per cui si controverte, è così sintetizzabile: la parte originaria ricorrente possiede alcuni immobili ricompresi (ai sensi dalla disciplina ad essi impressa dal PGT del 2012) in un Ambito di trasformazione; nel 2014 la Regione Lombardia ha approvato la legge 28.11.2014, n. 31 che ha tra i propri obiettivi la riduzione del consumo del suolo; l’articolo 5 della suindicata legge regionale detta una disposizione di natura transitoria; sulla scorta della (asserita) previsione di cui alla menzionata norma transitoria, la parte originaria ricorrente presenta una istanza (contenente un progetto di piano attuativo riferito a tutto l’Ambito di trasformazione, unità di intervento P2) ai sensi del comma 6 ivi contenuto e nei termini dallo stesso prescritti, e si aspetterebbe che, proprio in forza delle previsioni contenute nella norma transitoria, e della circostanza che essa ha presentato l’istanza nei tempi ivi stabiliti, detto piano venisse assentito; medio tempore, però, il comune ha adottato -e poi approvato- una variante generale che ha eliminato dal documento di piano la previsione dell’ambito di trasformazione suddetto (variante che non è contestato abbia contenuto peggiorativo per la posizione degli originari ricorrenti); questi ultimi sono insorti, ed hanno rilevato il contrasto delle previsioni contenute nella variante generale suddetta con la sopracitata legge regionale; il Tar ha accolto detta tesi ed ha annullato in parte qua la variante, dettando poi, nella seconda parte della sentenza le prescrizioni cui si sarebbe dovuta improntare la successiva attività pianificatoria del comune.
2. Ciò premesso, e venendo all’esame del merito delle doglianze proposte, seguendo la tassonomia propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), in ordine logico è prioritario l’esame del primo motivo di doglianza “di merito” proposto dal comune di Brescia, secondo il quale la sentenza di primo grado avrebbe frainteso e male interpretato il disposto di cui all’art. del 5 della legge regionale 28.11.2014, n. 31 (ed avrebbe erroneamente ritenuto, quindi, che la avversata variante fosse contra legem).
2.1. La delibazione di tale censura è pregiudiziale in quanto:
   a) ove la stessa fosse accolta, non vi sarebbe necessità di scrutinare la –subordinata-questione di legittimità costituzionale (che viene infatti prospettata nella sola ipotesi in cui il Collegio ritenga che la suindicata disposizione debba necessariamente essere interpretata nel senso chiarito dal Tar);
   b) trattasi di una esigenza sistematica, in quanto è ben noto che per condivisa e costante giurisprudenza (tra le tante Corte Conti reg., -Sicilia- sez. giurisd., 04/07/2005, n. 149, Cassazione civile, sez. I, 28/11/2003, n. 18200, Consiglio di Stato, sez. V, 30/10/1997, n. 1207), sulla falsariga dei fondamentali insegnamenti della Corte Costituzionale, si è costantemente affermato che fra più interpretazioni possibili delle norme giuridiche positive, l'interprete deve privilegiare solo quella più conforme alla Costituzione.
2.2. Ciò premesso, il Collegio non è persuaso della fondatezza della tesi prospettata dall’appellante comune di Brescia, in quanto sembra al Collegio che il testo della norma sia stato correttamente interpretato dal Tar.
2.2.1. Invero, il testo originario della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 (recante “Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato”) all’articolo 1 (recante “finalità generali” e del quale è bene riportare per esteso l’articolato) enuncia la ratio della propria esistenza e gli obiettivi che essa intende perseguire, laddove prevede che: “1. La presente legge detta disposizioni affinché gli strumenti di governo del territorio, nel rispetto dei criteri di sostenibilità e di minimizzazione del consumo di suolo, orientino gli interventi edilizi prioritariamente verso le aree già urbanizzate, degradate o dismesse ai sensi dell’articolo 1 della legge regionale 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), sottoutilizzate da riqualificare o rigenerare, anche al fine di promuovere e non compromettere l’ambiente, il paesaggio, nonché l’attività agricola, in coerenza con l’articolo 4-quater della legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale).
2. Il suolo, risorsa non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per l’equilibrio ambientale, la salvaguardia della salute, la produzione agricola finalizzata alla alimentazione umana e/o animale, la tutela degli ecosistemi naturali e la difesa dal dissesto idrogeologico.
3. Le disposizioni della presente legge stabiliscono norme di dettaglio nel quadro ricognitivo dei principi fondamentali della legislazione statale vigente in materia di governo del territorio.
4. In particolare, scopo della presente legge è di concretizzare sul territorio della Lombardia il traguardo previsto dalla Commissione europea di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero.
”.
Il successivo articolo 2 (recante “definizioni di consumo di suolo e rigenerazione urbana”) della suddetta legge regionale, del pari di notevole importanza al fine di dirimere la presente controversia, dispone invece quanto segue: “1. In applicazione dei principi di cui alla presente legge e alla conclusione del percorso di adeguamento dei piani di governo del territorio di cui all’articolo 5, comma 3, i comuni definiscono:
   a) superficie agricola: i terreni qualificati dagli strumenti di governo del territorio come agro-silvo-pastorali;
   b) superficie urbanizzata e urbanizzabile: i terreni urbanizzati o in via di urbanizzazione calcolati sommando le parti del territorio su cui è già avvenuta la trasformazione edilizia, urbanistica o territoriale per funzioni antropiche e le parti interessate da previsioni pubbliche o private della stessa natura non ancora attuate;
   c) consumo di suolo: la trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l’attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali e inclusa la realizzazione di infrastrutture sovra comunali; il consumo di suolo è calcolato come rapporto percentuale tra le superfici dei nuovi ambiti di trasformazione che determinano riduzione delle superfici agricole del vigente strumento urbanistico e la superficie urbanizzata e urbanizzabile;
   d) bilancio ecologico del suolo: la differenza tra la superficie agricola che viene trasformata per la prima volta dagli strumenti di governo del territorio e la superficie urbanizzata e urbanizzabile che viene contestualmente ridestinata nel medesimo strumento urbanistico a superficie agricola.
Se il bilancio ecologico del suolo è pari a zero, il consumo di suolo è pari a zero;
   e) rigenerazione urbana: l’insieme coordinato di interventi urbanistico-edilizi e di iniziative sociali che includono, anche avvalendosi di misure di ristrutturazione urbanistica, ai sensi dell’articolo 11 della l.r. 12/2005, la riqualificazione dell’ambiente costruito, la riorganizzazione dell’assetto urbano attraverso la realizzazione di attrezzature e infrastrutture, spazi verdi e servizi, il recupero o il potenziamento di quelli esistenti, il risanamento del costruito mediante la previsione di infrastrutture ecologiche finalizzate all’incremento della biodiversità nell’ambiente urbano.
2. Il Piano territoriale regionale (PTR) precisa le modalità di determinazione e quantificazione degli indici che misurano il consumo di suolo, validi per tutto il territorio regionale, disaggrega, acquisito il parere delle province e della città metropolitana da rendersi entro trenta giorni dalla richiesta, i territori delle stesse in ambiti omogenei, in dipendenza dell’intensità del corrispondente processo urbanizzativo ed esprime i conseguenti criteri, indirizzi e linee tecniche da applicarsi negli strumenti di governo del territorio per contenere il consumo di suolo.
3. In applicazione dei criteri, indirizzi e linee tecniche di cui al comma 2, gli strumenti comunali di governo del territorio prevedono consumo di suolo esclusivamente nei casi in cui il documento di piano abbia dimostrato l’insostenibilità tecnica ed economica di riqualificare e rigenerare aree già edificate, prioritariamente mediante l’utilizzo di edilizia esistente inutilizzata o il recupero di aree dismesse nell’ambito del tessuto urbano consolidato o su aree libere interstiziali. Sono comunque garantite le misure compensative di riqualificazione urbana previste dal piano dei servizi. In ogni caso, gli strumenti comunali di governo del territorio non possono disporre nuove previsioni comportanti ulteriore consumo del suolo sino a che non siano state del tutto attuate le previsioni di espansione e trasformazione vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge.
4. La Giunta regionale, con deliberazione da approvare entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentita la competente commissione consiliare, definisce i criteri di individuazione degli interventi pubblici e di interesse pubblico o generale di rilevanza sovracomunale per i quali non trovano applicazione le soglie di riduzione del consumo di suolo di cui alla presente legge
”.
2.2.2. La disposizione della legge regionale suindicata che risulta di maggiore pregnanza ai fini della definizione della controversia è però quella contenuta all’art. 5 (recante “norma transitoria”) che prevede quanto di seguito: “1. La Regione integra il PTR con le previsioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera b-bis), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera p), della presente legge, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.
2. Ciascuna provincia e la città metropolitana adeguano il PTCP e gli specifici strumenti di pianificazione territoriale alla soglia regionale di riduzione del consumo di suolo, ai criteri, indirizzi e linee tecniche di cui all’articolo 2 della presente legge e ai contenuti dell’articolo 19 della l.r. 12/2005, entro dodici mesi dall’adeguamento del PTR di cui al comma 1.
3. Successivamente all’integrazione del PTR e all’adeguamento dei PTCP e degli strumenti di pianificazione territoriale della città metropolitana, di cui ai commi 1 e 2, e in coerenza con i contenuti dei medesimi, i comuni adeguano, in occasione della prima scadenza del documento di piano, i PGT alle disposizioni della presente legge.
4. Fino all’adeguamento di cui al comma 3 e, comunque, fino alla definizione nel PGT della soglia comunale del consumo di suolo, di cui all’articolo 8, comma 2, lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge, i comuni possono approvare unicamente varianti del PGT e piani attuativi in variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione planivolumetrica, morfologica, tipologica o progettuale delle previsioni di trasformazione già vigenti, per la finalità di incentivarne e accelerarne l’attuazione, esclusi gli ampliamenti di attività economiche già esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione degli accordi di programma a valenza regionale. Fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente.
5. I comuni approvano, secondo quanto previsto dalla l.r. 12/2005 vigente prima dell’entrata in vigore della presente legge, i PGT o le varianti di PGT già adottati alla data di entrata in vigore della presente legge, rinviando l’adeguamento di cui al comma 3 alla loro successiva scadenza; tale procedura si applica anche ai comuni sottoposti alla procedura di commissariamento di cui all’articolo 25-bis della l.r. 12/2005. La validità dei documenti comunali di piano, la cui scadenza intercorra prima dell’adeguamento della pianificazione provinciale e metropolitana di cui al comma 2, è prorogata di dodici mesi successivi al citato adeguamento.
5-bis. Per i comuni di nuova istituzione il termine biennale di cui all’articolo 25-quater, comma 1, della l.r. 12/2005, nonché le discipline ad esso correlate di cui ai commi 2 e 3 del medesimo articolo sono differite fino a dodici mesi successivi all’adeguamento della pianificazione provinciale e metropolitana di cui al comma 2. Analogo differimento è disposto per il comune di Gravedona ed Uniti.
6. La presentazione dell’istanza di cui all’articolo 14 della l.r. 12/2005 dei piani attuativi conformi o in variante connessi alle previsioni di PGT vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge deve intervenire entro trenta mesi da tale ultima data.
Per detti piani e per quelli la cui istanza di approvazione sia già pendente alla data di entrata in vigore della presente legge, i comuni provvedono alla istruttoria tecnica, nonché alla adozione e approvazione definitiva in conformità all’articolo 14 della l.r. 12/2005. La relativa convenzione di cui all’articolo 46 della l.r. 12/2005 è tassativamente stipulata entro dodici mesi dall’intervenuta esecutività della delibera comunale di approvazione definitiva.
7. In tutti i casi di inerzia o di ritardo comunale negli adempimenti di cui al comma 6 l’interessato può chiedere alla Regione la nomina di un commissario ad acta. Il dirigente della competente struttura regionale, ricevuta l’istanza, procede ai fini dell’intimazione al comune di adempiere entro il termine di sette giorni dal ricevimento dell’intimazione. Nel caso di ulteriore inerzia del comune, comunque comprovata, la Giunta regionale nomina un commissario ad acta nel termine dei sette giorni successivi alla scadenza della diffida. Il commissario ad acta così designato esaurisce tempestivamente gli adempimenti di istruttoria tecnica, adozione, approvazione e convenzionamento secondo necessità. A far tempo dalla nomina del commissario ad acta, il comune non può più provvedere sull’istanza.
8. Per i piani attuativi tempestivamente attivati ai sensi del comma 6, il comune può prevedere che la relativa convenzione di cui all’articolo 46 della l.r. 12/2005 consenta la dilazione di pagamento degli importi dovuti, ai sensi del comma 1, lettera a), del predetto articolo e a titolo di monetizzazione di cessioni di aree, fino ad un massimo di sei rate semestrali, ciascuna di pari importo, da corrispondersi a far tempo dal diciottesimo mese successivo alla stipula della convenzione stessa.
9. Con riguardo ai piani attuativi, per i quali non sia tempestivamente presentata l’istanza di cui al comma 6 o il proponente non abbia adempiuto alla stipula della convenzione nei termini ivi previsti, i comuni, con motivata deliberazione di consiglio comunale, sospendono la previsione di PGT sino all’esito del procedimento di adeguamento di cui al comma 3 e, entro i successivi novanta giorni, verificano la compatibilità delle previsioni sospese con le prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT, disponendone l’abrogazione in caso di incompatibilità assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie modifiche e integrazioni negli altri casi.
10. Fino all’adeguamento di cui al comma 3, viene prevista una maggiorazione percentuale del contributo relativo al costo di costruzione di cui all’articolo 16, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia (Testo A)) così determinata:
   a) entro un minimo del venti ed un massimo del trenta per cento, determinata dai comuni, per gli interventi che consumano suolo agricolo nello stato di fatto non ricompresi nel tessuto urbano consolidato;
   b) pari alla aliquota del cinque per cento, per gli interventi che consumano suolo agricolo nello stato di fatto all’interno del tessuto urbano consolidato;
   c) gli importi di cui alle lettere a) e b) sono da destinare obbligatoriamente alla realizzazione di misure compensative di riqualificazione urbana e compensazione ambientale; tali interventi possono essere realizzati anche dall’operatore, in accordo con il comune.
”.
2.2.3. Ad avviso del comune di Brescia appellante il Tar avrebbe frainteso il combinato-disposto dei commi 3 e 4 della norma immediatamente prima citata, in quanto non si sarebbe avveduto che la variante approvata dal Comune ed avversata dagli originari ricorrenti andava proprio nella direzione (rientrante pacificamente, come chiarito, tra le finalità della legge regionale suddetta) di ridurre il consumo di suolo.
2.2.4. Il Collegio non concorda con la tesi dell’appellante amministrazione comunale per più considerazioni, sia fondate sulla lettera della disposizione predetta, che di natura teleologica, in quanto:
   a) si è al cospetto di una disposizione transitoria, tesa a regolare le problematiche scaturenti dalla sopravvenuta approvazione della legge suddetta;
   b) in questo quadro, è perfettamente logico che il Legislatore regionale si sia preoccupato di disciplinare la posizione dei titolari delle aree che secondo il PGT vigente al momento della entrata in vigore della legge regionale, erano ricompresi nei c.d. Ambiti di Trasformazione, nelle more dell’adeguamento dei Piani di Governo del territorio alle sopravvenute disposizioni di legge;
   c) il combinato-disposto dei commi 3 e 4 della citata disposizione regolamentano proprio il momento dell’adeguamento;
   d) la parte finale del comma 4, in questo quadro di insieme, contiene una prescrizione perentoria, a tenore della quale “fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”;
   e) tenuto conto della ratio sottesa alla necessità di dettare una disposizione transitoria (all’evidenza, quella di tutelare l’affidamento dei proprietari delle aree circa le destinazioni “possibili” al momento della entrata in vigore della legge regionale suddetta) e tenuto conto della perentorietà della indicazione legislativa suindicata, non pare al Collegio che la tesi del Tar presenti ragionevoli alternative: la stessa, infatti, si fonda sul dato letterale della norma suddetta di cui all’art. 5 della legge regionale lombarda n. 31/2014 (neppure l’appellante amministrazione comunale contesta tale dato) e ne coglie la ratio, tenuto conto che trattasi di una disposizione di natura transitoria, volta a regolare le situazioni pregresse alla entrata in vigore della legge medesima, e con quest’ultima in potenza configgenti;
   f) parimenti, l’art. 2, comma 1, lett. c) della suddetta legge, detta una nozione di consumo del suolo “statica” (“consumo di suolo: la trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l’attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali e inclusa la realizzazione di infrastrutture sovra comunali; il consumo di suolo è calcolato come rapporto percentuale tra le superfici dei nuovi ambiti di trasformazione che determinano riduzione delle superfici agricole del vigente strumento urbanistico e la superficie urbanizzata e urbanizzabile”) ed ancorata rigidamente alla zonizzazione impressa alle aree: anche sotto tale profilo (rafforzativo del decisum del Tar) non sembra al Collegio che siano praticabili differenti opzioni ermeneutiche.
2.2.5. Nell’ottica del doveroso preliminare esame di rilevanza della prospettata questione di legittimità costituzionale, sembra al Collegio,quindi, che l’approdo interpretativo del Tar non sia scalfito dalle critiche dell’appellante.
3. Come rilevato nella parte in fatto della presente decisione, l’appellante amministrazione comunale ha prospettato in via subordinata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 con riferimento ai parametri di cui agli artt. 5, 114, 118, 117 comma 2 lett. p) e 117 comma 3 della Costituzione. La tesi di fondo sottesa alla questione prospettata si incentra su due profili, in quanto:
   a) per un verso si sottolinea che la disposizione in parola (ove interpretata nel senso affermato dal Tar e, come prima chiarito, condiviso dal Collegio) conculcherebbe i principi in tema di sussidiarietà e di esercizio delle funzioni amministrative affidate al comune;
   b) per altro verso, si sostiene che la norma medesima collida con i principi generali dettati dalla legge regionale urbanistica n. 12/2005.
3.1. Lo scrutinio della complessa questione prospettata postula un breve approfondimento in tema di rilevanza della questione nel presente giudizio; detto approfondimento dovrà altresì farsi carico di verificare la persistenza della eventuale accertata rilevanza della questione, tenuto conto della circostanza che il legislatore regionale lombardo è di recente intervenuto con la legge regionale 26.05.2017, n. 16 apportando numerose modifiche all’impianto originario della predetta legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 .
3.1.1. Cercando di non ripetere considerazioni già rassegnate, si osserva innanzitutto –fermandosi al testo originario della legge in ultimo citata- che:
   a) è già stato chiarito che il Collegio condivide e fa proprio il principio giurisprudenziale (tra le tante Corte Conti reg., -Sicilia- sez. giurisd., 04/07/2005, n. 149, Cassazione civile, sez. I, 28/11/2003, n. 18200, Consiglio di Stato, sez. V, 30/10/1997, n. 1207), reso sulla falsariga dei fondamentali insegnamenti della Corte Costituzionale, secondo cui fra più interpretazioni possibili delle norme giuridiche positive, l'interprete deve privilegiare solo quella più conforme alla Costituzione;
   b) a completamento di quanto evidenziato nel precedente capo del presente provvedimento, preme porre in luce che anche lo sforzo interpretativo in tal senso del Collegio non ha consentito di individuare una interpretazione della disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 che consenta di disinnescare i dubbi prospettati dall’appellante comune;
   c) invero, la “lettura” prospettata dall’appellante amministrazione comunale, pretenderebbe che la citata disposizione venga interpretata nel senso che:
      I) essa (in armonia con la finalità perseguita dalla legge regionale) conformi la potestà pianificatoria del comune in un unico senso: quello di vietare –quanto meno in attesa dell’adeguamento contemplato dalla legge regionale– la creazione di nuovi Ambiti suscettibili di consumare suolo agricolo;
      II) di converso, la disposizione medesima, non potrebbe essere intesa nel senso che sarebbe interdetta al comune la potestà di pianificare il proprio territorio (se non appunto, al limitato fine di impedire un ulteriore consumo del suolo agricolo); da ciò discenderebbe (armonicamente con la previsione di cui all’art. 2, comma 3, della legge regionale lombarda n. 31/2014 medesima) che ai Comuni sarebbe (unicamente) inibito prevedere nuove espansioni edificatorie (fatte salve le specifiche eccezioni contemplate dall’art. 5, comma 4 della legge) ma non sarebbe invece vietato limitare le previsioni edificatorie contenute nel PGT vigente e, pertanto, gli atti impugnati non potrebbero essere tacciati di illegittimità;
      III) osserva però in contrario senso il Collegio, che è proprio l’ultima parte dell’art. 5, comma 4, della legge (“Fino a detto adeguamento sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”) che si lega indissolubilmente al PGT, non a caso espressamente menzionato nella prima parte del predetto comma 4; ed osserva altresì che – anche a volere obliare il dato letterale, e quello sistematico (trattasi, si ripete di una norma transitoria) - la interpretazione alternativa del comune priverebbe il predetto comma 4 dell’art. 5 di alcun senso compiuto: infatti, laddove si consideri che il divieto dell’adozione di atti amministrativi comportanti incremento di suolo è già espressamente contenuto nell’art. 2, comma 3, della legge, non si comprende a quale fattispecie dovrebbe applicarsi l’ultima parte del comma 4 dell’art. 5 suddetto;
      IV) tanto è sufficiente, ad avviso del Collegio, per ribadire che l’approdo interpretativo del Tar appare ad un esame preliminare condivisibile, fermo restando che in questa fase il thema decidendum è delibato ai soli fini del giudizio di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, con riserva di ogni definitiva valutazione all’esito dell’incidente di costituzionalità.
3.1.2. Sotto il profilo della originaria rilevanza nel presente giudizio della questione di legittimità costituzionale prospettata, invece, pare al Collegio non sia necessario diffondersi oltremisura per chiarire il rilievo della questione prospettata.
3.1.3. La parte originaria ricorrente, infatti, aspira ad attuare un progetto di piano attuativo riferito all’unità di intervento P2, conservando i diritti edificatori; tale ambizione sarebbe frustrata dalla variante generale al PGT (seconda variante) che ha, tra l’altro, eliminato dal documento di piano la previsione dell’ambito di trasformazione P, compresa la parte relativa all’unità di intervento P2; la legittimità di tale variante è stata esclusa, proprio in quanto contrastante con l’ultima parte del comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31: ma laddove la predetta prescrizione venisse vulnerata da una dichiarazione di incostituzionalità, verrebbe meno il limite alla potestà pianificatoria del comune ivi contenuto; tale limite resterebbe ristretto al divieto (del tutto compatibile con lo scopo della legge regionale suddetta) di prevedere nuove fattispecie comportanti consumo di suolo; ed in definitiva la variante generale raggiungerebbe lo scopo di interdire l’edificazione in detto ambito di trasformazione P, e ne discenderebbe la reiezione del ricorso di primo grado.
3.1.4. Per completezza di esposizione, si rappresenta infine che non vi sono profili alternativi (preesistenti ovvero anche sopravvenuti) da esplorare –nell’ambito del presente giudizio– che possano condurre ad un giudizio di superfluità e non rilevanza della questione esaminata, non emergendo dagli atti di causa elementi ulteriori dimostrativi della impossibilità in capo alla parte originaria ricorrente di realizzare l’intervento in parola.
Si evidenzia infatti che l’unico profilo dedotto in primo grado di illegittimità della variante generale al PGT adottata con la deliberazione consiliare n. 128 del 28.07.2015 ed approvata in via definitiva con la deliberazione consiliare n. 17 del 09.02.2016, riposava nel contrasto della medesima con la prescrizione secondo cui fino all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la normativa regionale manteneva provvisoriamente efficaci le previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (art. 5, comma 4, della legge suddetta); che le obiezione delle parti originari ricorrenti ed appellanti incidentali attengono a profili di fondatezza della dedotta questione (che saranno meglio approfonditi di seguito) ma non scalfiscono il giudizio sulla rilevanza della problematica dedotta.
3.2. Accertato -nei termini sinora esposti- il rilievo che la dedotta questione assumeva nell’ambito della presente controversia al momento della proposizione del ricorso di primo grado (e dell’appello principale), occorre adesso verificare se la rilevanza della questione persista, alla luce della sopravvenuta legge regionale 26.05.2017, n. 16 che ha apportato numerose modifiche al testo originario della legge regionale n. 31 del 2014.
3.2.1. Osserva sul punto il Collegio, che:
   a) sia il comune di Brescia che la parte originaria ricorrente ed appellante incidentale concordano sulla circostanza che la sopravvenuta modifica legislativa non spieghi effetti sulla controversia;
   b) il Collegio ritiene che tale prospettazione sia condivisibile, in quanto:
      I) per condivisa giurisprudenza (si veda ancora di recente Consiglio di Stato, Sez. IV, 28.06.2016, n. 2892) dalla quale non ravvisano ragioni per discostarsi “la legittimità di un atto amministrativo va accertata con riguardo allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum. Sicché non si può validare ex post un'azione amministrativa che al momento in cui fu adottata si appalesava illegittima, se non e solo con le regole e nei limiti della autotutela”;
      II) la legittimità della variante va quindi vagliata alla stregua del testo di legge vigente al momento in cui la stessa venne emanata;
      III) soltanto laddove la eventuale legge sopravvenuta avesse portata retroattiva, la applicabilità del superiore principio potrebbe subire deroghe (e ciò, nei limiti in cui è consentito al Legislatore di intervenire sulle controversie in corso, secondo l’avveduta costante interpretazione che la Corte Costituzionale ha fornito in punto di ammissibilità delle c.d. leggi-provvedimento).
3.2.2. Nel caso di specie, si osserva che la sopravvenuta la legge regionale della Lombardia 26.05.2017, n. 16:
   a) non contiene alcuna prescrizione che ne sancisca espressamente la retroattività, né alcuna clausola che la definisca qual legge di natura “interpretativa”;
   b) contiene prescrizioni di natura innovativa e, quindi, se anche (pur in carenza di espressa indicazione in tal senso) se ne volesse ipotizzare la natura interpretativa, tale sforzo ermeneutico non potrebbe essere coronato da successo;
   c) la legge suddetta ha infatti modificato l’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 interpolando (per quel che in questa sede più immediatamente rileva) i commi 4 e 9, nei seguenti termini:
      I) (comma 4) “Fino all’adeguamento di cui al comma 3 e, comunque, fino alla definizione nel PGT della soglia comunale del consumo di suolo, di cui all’articolo 8, comma 2, lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge, i comuni possono approvare varianti generali o parziali del documento di piano e piani attuativi in variante al documento di piano, assicurando un bilancio ecologico del suolo non superiore a zero, computato ai sensi dell’articolo 2, comma 1, e riferito alle previsioni del PGT vigente alla data di entrata in vigore della presente legge. La relazione del documento di piano, di cui all’articolo 8, comma 2, lettera b-ter), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera h), della presente legge, illustra le soluzioni prospettate, nonché la loro idoneità a conseguire la massima compatibilità tra i processi di urbanizzazione in atto e l’esigenza di ridurre il consumo di suolo e salvaguardare lo sviluppo delle attività agricole, anche attraverso puntuali comparazioni circa la qualità ambientale, paesaggistica e agricola dei suoli interessati. I comuni possono approvare, altresì, le varianti finalizzate all’attuazione degli accordi di programma a valenza regionale, all’ampliamento di attività economiche già esistenti nonché le varianti di cui all’articolo 97 della l.r. 12/2005. Il consumo di suolo generato dalle varianti di cui al precedente periodo concorre al rispetto della soglia regionale e provinciale di riduzione del consumo di suolo. A seguito dell’integrazione del PTR di cui al comma 1, le varianti di cui al presente comma devono risultare coerenti con i criteri e gli indirizzi individuati dal PTR per contenere il consumo di suolo; i comuni possono altresì procedere ad adeguare complessivamente il PGT ai contenuti dell’integrazione del PTR, configurandosi come adeguamento di cui al comma 3. Le province e la Città metropolitana di Milano verificano, in sede di parere di compatibilità di cui all’articolo 13, comma 5, della l.r. 12/2005, anche il corretto recepimento dei criteri e degli indirizzi del PTR. Entro un anno dall’integrazione del PTR di cui al comma 1, i comuni sono tenuti a trasmettere alla Regione informazioni relative al consumo di suolo nei PGT, secondo contenuti e modalità indicati con deliberazione della Giunta regionale”;
      II) (comma 9) ”con riguardo ai piani attuativi relativi alle aree disciplinate dal documento di piano, per i quali non sia tempestivamente presentata l’istanza di cui al comma 6, i comuni nell’ambito della loro potestà pianificatoria possono mantenere la possibilità di attivazione dei piani attuativi, mantenendo la relativa previsione del documento di piano o, nel caso in cui intendano promuovere varianti al documento di piano, disporne le opportune modifiche e integrazioni con la variante da assumere ai sensi della l.r. 12/2005”;
   d) ad avviso del Collegio, non è neppure utile, in questa sede, controvertere sulla portata ed il significato da attribuire alla novella di cui alla legge regionale della Lombardia 26.05.2017, n. 16, in quanto:
      I) se anche si volesse ritenere che la stessa abbia ampliato le potestà spettanti ai comuni (è questa, ad avviso del Collegio, la portata effettuale della novella) l’appellante comune di Brescia non potrebbe giovarsene nella presente controversia;
      II) ciò perché, laddove questo Collegio confermasse la statuizione demolitoria del Tar, la parte originaria ricorrente potrebbe agire in ottemperanza, ed il Comune non potrebbe determinare l’assetto urbanistico dell’area giovandosi delle sopravvenute prescrizioni legislative (ammesso pure che le stesse –il che è fortemente contestato dalle parti appellanti incidentali, sulla scorta del novellato comma 9 dell’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014- consentano di intervenire sui piani attuativi comportanti consumo di suolo);
      III) a questo punto, la eventuale declaratoria di improcedibilità per carenza di interesse della questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento al primigenio testo della legge regionale n. 31 del 2014 si risolverebbe (in riferimento alla presente controversia) in un diniego di giustizia, in quanto l’appellante Comune di Brescia sarebbe privato dell’unica possibilità di ottenere un giudizio di piena legittimità della variante adottata: appare evidente infatti che soltanto laddove il primigenio testo dell’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 venisse vulnerato da una declaratoria di incostituzionalità verrebbe meno il giudizio di illegittimità della variante adottata, quantomeno sulla scorta dei parametri di censura prospettati nell’odierno giudizio;
   e) il Collegio è quindi dell’avviso che la questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento all’originario testo della legge regionale n. 31 del 2014 conservi immutate attualità e rilevanza nel presente giudizio, anche a seguito delle modifiche introdotte dal Legislatore regionale con la legge regionale della Lombardia 26.05.2017, n. 16.
3.3. E proprio passando al merito della questione di legittimità costituzionale prospettata, anticipa il Collegio il proprio convincimento secondo cui la dedotta questione, oltre che rilevante, appaia non manifestamente infondata, almeno quanto al principale versante critico prospettato.
3.4. Al fine di sgombrare il campo da argomenti inaccoglibili, si osserva immediatamente che:
   a) l’argomento critico fondato sul supposto contrasto del comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 con la legge generale urbanistica lombarda 11.03.2005, n.12 , da un canto, non potrebbe giammai condurre alla declaratoria di illegittimità della norma in parola, e dall’altra, sotto il profilo logico, appare meramente rafforzativo dell’argomento (principale) posto a sostegno del sospetto di incostituzionalità;
   b) ciò in quanto, per un verso la legge generale urbanistica lombarda 11.03.2005, n.12 non integra parametro di rilevanza costituzionale, e per altro verso, il comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 non appare intersecare la prescrizione di cui all’art. 13 della citata legge 11.03.2005, n.12 , nella parte in cui quest’ultima affida ai comuni il compito di adottare ed approvare il PGT (all’evidenza, la disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale n. 31 del 2014 non immuta l’autorità competente ad approvare il documento di pianificazione urbanistica del territorio comunale);
   c) inoltre, non è neppure del tutto esatto sostenere che il procedimento di approvazione del PGT veda del tutto esclusa una forma di compartecipazione regionale (si vedano i commi 5-bis ed 8 del citato articolo);
   d) semmai, si potrebbe sostenere che la suddetta legge regionale urbanistica lombarda 11.03.2005, n.12 valorizza in maniera penetrante il ruolo dei comuni: ma ciò al più potrebbe costituire argomento di supporto del sospetto di incostituzionalità avanzato principaliter ma non anche autonomo profilo di contrasto;
   e) del pari, non costituisce problematica rilevante, sotto il profilo del dubbio di legittimità costituzionale prospettato, il denunciato “contrasto” dell’art. 5 della legge regionale suddetta con gli artt. 1 e 2 della legge medesima, nella parte in cui assumono la riduzione del consumo del suolo quale obiettivo principale della legge medesima, in quanto:
      I) nuovamente, non può ritenersi che venga in rilievo nel caso di specie alcun parametro di rilevanza costituzionale;
      II) l’argomento critico mira a mettere in dubbio la complessiva ragionevolezza delle prescrizioni legislative regionali suddette, ove “lette congiuntamente”, ed in ultima analisi costituisce un tentativo –svolto sul piano sistematico- di mettere in dubbio la correttezza dell’approdo interpretativo del Tar;
      III) in precedenza si sono già chiarite le ragioni di non persuasività della superiore tesi: nell’ottica del dubbio di legittimità costituzionale prospettato, può soltanto aggiungersi che se anche rispondesse al vero che la lettera della norma transitoria “depotenzi” l’obiettivo (riduzione di suolo) che la legge regionale medesima si propone di perseguire, ciò non appare elemento di irragionevolezza tale da fare ipotizzare la possibile incostituzionalità dell’articolo 5 della legge, ciò tanto più laddove si consideri che ivi il Legislatore regionale ha tentato di salvaguardare l’affidamento dei proprietari di aree incluse in ambiti di trasformazione.
3.5. Quanto all’asserito contrasto del comma 4 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 con il principio di sussidiarietà (artt. 5, 114 e 118 della Costituzione) e con quello di riserva alla legislazione esclusiva statuale delle funzioni fondamentali del comune (art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione) –tematiche, queste, che ad avviso del Collegio costituiscono il nodo centrale della controversia– si osserva sotto un profilo più generale, che:
   a) secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, l'urbanistica e l'edilizia devono essere ricondotte alla materia «governo del territorio», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost., materia di legislazione concorrente in cui lo Stato ha il potere di fissare i principi fondamentali, spettando alle Regioni il potere di emanare la normativa di dettaglio (da ultimo, Corte cost. ordinanza n. 314 del 2012; sentenza n. 309 del 2011, vedi anche sentenze n. 362 e n. 303 del 2003).
Per altro verso, la Corte Costituzionale ha chiarito da tempo risalente che il rispetto delle autonomie comunali deve armonizzarsi con la verifica e la protezione di concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio: ciò giustifica l'eventuale emanazione di disposizioni legislative (statali e regionali) che vengano ad incidere su funzioni già assegnate agli enti locali (sent. n. 286/97).
Dunque non è precluso alle leggi nazionali ovvero anche regionali di prevedere la limitazione di alcune competenze comunali in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte cost. n. 378/2000 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte cost. n. 286/97).
E’ rimasto inoltre chiarito (sent. n. 478/02), in relazione ai poteri urbanistici dei Comuni, come la legge nazionale e regionale possa modificarne le caratteristiche o l'estensione, ovvero subordinarli a preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l'autonomia (fra le molte, v. le sentenze n. 378/2000, n. 357/1998, n. 286/1997, n. 83/1997 e n. 61/1994). Assai rilevanti in proposito, sono certamente le pronunce in merito alle leggi regionali sul cd. “piano casa” (fra cui Corte cost. n. 46/2014, che giudica legittima l’imposizione regionale di limitazioni alla potestà ed all’autonomia pianificatoria comunale, ove collegate a specifici presupposti e circoscritte entro confini ben determinati).
La problematica, come è agevole riscontrare, ruota intorno ai concetti di necessità ed adeguatezza (si veda anche Corte Costituzionale, 24/07/2015, n. 189, laddove si evidenzia che “Invero, questa Corte -ex plurimis, sentenze n. 278 del 2010, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003- ha ritenuto -fin dalla citata sentenza n. 303 del 2003- che, nell'art. 118, primo comma, Cost., vada rinvenuto un peculiare elemento di flessibilità, il quale -nel prevedere che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo diverso per assicurarne l'esercizio unitario, sulla base dei principî di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza- introduce un meccanismo dinamico incidente anche sulla stessa distribuzione delle competenze legislative- diretto appunto a superare l'equazione tra titolarità delle funzioni legislative e titolarità delle funzioni amministrative”);
   b) con particolare riferimento alla materia urbanistica (rientrante, come prima sottolineato, nella materia della legislazione concorrente, ex art. 117, comma 3, della Costituzione) l’art. 2 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 stabilisce, ai primi quattro commi, quanto segue: “1. Le regioni esercitano la potestà legislativa concorrente in materia edilizia nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale desumibili dalle disposizioni contenute nel testo unico.
Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano esercitano la propria potestà legislativa esclusiva, nel rispetto e nei limiti degli statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione.
Le disposizioni, anche di dettaglio, del presente testo unico, attuative dei principi di riordino in esso contenuti, operano direttamente nei riguardi delle regioni a statuto ordinario, fino a quando esse non si adeguano ai principi medesimi.
I comuni, nell'ambito della propria autonomia statutaria e normativa di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, disciplinano l'attività edilizia
.”;
   c) in giurisprudenza non si ritiene dubitabile la necessità di fare riferimento ad una nozione ampia e funzionalizzata del concetto di “governo del territorio”: questo è l’indirizzo a più riprese affermato dalla Sezione, ancora assai di recente, e dal quale il Collegio non rinviene ragioni per discostarsi (tra le tante: Consiglio di Stato, sez. IV, 22.02.2017, n. 821, laddove di precisa che “il potere di pianificazione urbanistica del territorio -la cui attribuzione e conformazione normativa è costituzionalmente conferita ex art. 117 comma 3, Cost. alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni ed il cui esercizio è normalmente attribuito, pur nel contesto di ulteriori livelli ed ambiti di pianificazione, al Comune, non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli -e, al massimo, ai tipi di edilizia, distinti per finalità, in tal modo definiti-, ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della "disciplina urbanistica e dei suoi scopi" -art. 1-, non solo nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche nello "sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica");
   d) in definitiva, l'urbanistica, ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo: la nozione ampia di “governo del territorio”, comportando la potestà legislativa concorrente delle Regioni, ridonda, a cascata, sulla potestà amministrativa dei comuni in subiecta materia;
   e) come è noto, nel sistema giuridico italiano all’Ente comune è tradizionalmente affidata la funzione amministrativa urbanistica (pacificamente riconducibile alla nozione “governo del territorio” di cui all’art. 117, comma 3, della Costituzione) che esso esercita, di regola attraverso una duplice direttrice (tra le tante Cons. Stato, Sez. VI, 30.06.2011, n. 3888: “in tema di disposizioni dirette a regolamentare l'uso del territorio negli aspetti urbanistici ed edilizi, contenute nel relativo piano regolatore, nei piani attuativi o in altro strumento generale individuato dalla normativa statale e regionale, occorre differenziare tra le prescrizioni che in via immediata stabiliscono le potenzialità edificatorie della porzione di territorio interessata, tra cui rientrano le norme di cd. zonizzazione; di destinazione di aree a soddisfare gli standard urbanistici; di localizzazione di opere pubbliche o di interesse collettivo, dalle altre regole che disciplinano più in dettaglio l'esercizio dell'attività edificatoria, di solito contenute nelle norme tecniche di attuazione del piano o nel regolamento edilizio e che concernono il calcolo delle distanze e delle altezze; la compatibilità di impianti tecnologici o di determinati usi; l'assolvimento di oneri procedimentali e documentali ecc.”).
3.6. Ciò posto,
ad avviso del Collegio, non è manifestamente infondato il dubbio di costituzionalità investente la disposizione contenuta nell’art. 5, comma 4, della legge regionale della Lombardia 28.11.2014, n. 31 in relazione all’evocato parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. p), della Costituzione in quanto:
   a)
la riserva esclusiva alla legislazione statuale delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane” implica una conseguenza: quella che debba essere lo Stato –e soltanto quest’ultimo- a stabilire con propri atti normativi primari quali siano le funzioni affidate agli Enti locali;
   b)
la prescrizione normativa regionale avversata potrebbe ritenersi collidente con tale disposizione della Costituzione in quanto, pur essendo la funzione amministrativa in materia urbanistica affidata in termini generali ai comuni della Lombardia, tuttavia viene direttamente compiuta dal legislatore regionale anziché dalle amministrazioni comunali una scelta di particolare rilievo, relativa alla salvaguardia (anche se per un periodo temporale limitato) di prescrizioni contenute in atti amministrativi di natura urbanistica, emanati in precedenza dai comuni medesimi (tra cui quello di Brescia, originario ricorrente);
   c)
in tal modo si è voluto escludere che il comune eserciti per questo profilo la funzione amministrativa urbanistica ad esso spettante, della quale si è conformato (in negativo, come meglio si vedrà di seguito) il quomodo di esercizio.
3.7. Ad analoghe conclusioni, perviene il Collegio, con riferimento all’evocato parametro della violazione del principio di sussidiarietà.
3.7.1. Il blocco temporale alle iniziative pianificatorie delle amministrazioni comunali, implica che –seppur per un periodo di tempo contenuto, ma variabile in quanto incerto nella sua ampiezza- siano immodificabili “le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”.
3.7.2. Con tale generale previsione, a contrario, si inibisce del tutto all’ente locale di esercitare la potestà di adottare modifiche al proprio Documento di Piano vigente (quest’ultimo costituente la parte più rilevante e qualificante del PGT, come è noto) ed in concreto se ne determina il contenuto, “congelandolo” alla data di emanazione della legge regionale suddetta.
3.7.3. Ora, è ben noto che, la scelta del Legislatore di attribuire talune competenze al Comune risponde, di regola, all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, corrispondente agli effettivi bisogni della collettività locale, essendo il Comune l'ente appartenente ad un livello di governo più prossimo ai cittadini, in piena coerenza con il principio costituzionale della sussidiarietà verticale (si veda, tra le tante Consiglio di Stato, sez. III, 02/05/2016, n. 1658 in materia di localizzazione delle sedi farmaceutiche): e si ritiene di avere prima dimostrato che per tradizione al comune sono stati attribuiti i compiti di pianificazione urbanistica,
In un contesto ordinamentale in cui il principio di sussidiarietà, da un lato, e la spettanza al Comune di tutte le funzioni amministrative che riguardano il territorio comunale, dall'altro, orientano i vari livelli di pianificazione urbanistica secondo il criterio della competenza, il ruolo del Comune non può infatti essere confinato nell'ambito della mera attuazione di scelte precostituite in sede sovraordinata; il Comune, di regola, non può disattendere le prescrizioni di coordinamento dettate dagli enti (Regione o Provincia) titolari del relativo potere, ma può, tuttavia, discrezionalmente concretizzarne i contenuti.
Già in tempo risalente, la giurisprudenza amministrativa ha cercato di trovare un punto di equilibrio che garantisse l’ordinato dispiegarsi delle competenze comunali al contempo garantendo che gli Enti sovraordinati esercitassero le funzioni di coordinamento a queste rimesse: è stato pertanto affermato che (si veda Consiglio di Stato, sez. II, 05/02/2003, n. 2691) “non è consentito all'ente titolare del potere di approvazione del piano regolatore, al di fuori delle ipotesi connotate dalla prevalenza di tutela di interessi superiori, modificare in modo sostanziale i contenuti della disciplina urbanistica, frutto della scelta della comunità di riferimento e, per questo, espressione della riserva di attribuzione democratica assistita dal principio di sussidiarietà.”
3.7.4.
Discendono da quanto si è prima esposto, una serie di principi –costantemente predicati dalla giurisprudenza amministrativa- mercé i quali, (sia pure tenendo conto delle differenti specificità delle legislazioni regionali) si è salvaguardato il tendenziale principio della spettanza ai comuni della funzione di pianificazione urbanistica, essendosi rilevato che:
   I)
se la Regione, in sede di approvazione della delibera comunale di adozione del piano vi apporti delle modifiche, v’è l’obbligo di procedere ad una nuova pubblicazione per consentire ai privati di proporre le osservazioni nel caso di variazioni c.d. facoltative e innovative, ovvero che mutino le caratteristiche essenziali ed i criteri di impostazione del piano (tra le tante, TAR Lecce, -Puglia-, sez. I, 12.10.2005, n. 4490);
   II)
l'autorità comunale, in luogo di rispondere alle considerazioni tecniche ed ai chiarimenti richiesti in sede di approvazione dalla regione, ha facoltà di ripropone allo stesso organo un piano regolatore nuovo, purché rispetti gli adempimenti formali richiesti per l'adozione di un nuovo strumento urbanistico (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.05.1989, n. 347);
   III)
i limiti del potere regionale di approvazione risiedono nella evidenza per cui una scelta di pianificazione di segno diametralmente opposto a quella voluta dal Comune in sede di variazione dello strumento urbanistico generale non può che competere all'Ente locale, prevedendo la legge invece, in capo alla Regione, potestà più ridotte, mera espressione del potere regionale di partecipazione alla formazione dell'atto a complessità diseguale di pianificazione generale (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.05.2014, n. 2563);
   IV)
non è consentito all'ente titolare del potere di approvazione del piano regolatore, al di fuori delle ipotesi connotate dalla prevalenza di tutela di interessi superiori, modificare in modo sostanziale i contenuti della disciplina urbanistica, frutto della scelta della comunità di riferimento e, per questo, espressione della riserva di attribuzione democratica assistita dal principio di sussidiarietà (Consiglio di Stato, sez. II, 05.02.2003, n. 2691);
   V)
la risalente nozione del sistema pianificatorio urbanistico come ordinato "a cascata" e cioè in forma sostanzialmente gerarchica si pone in contrasto con il principio costituzionale dell'autonomia degli enti territoriali (art. 118 cost.) nonché con il criterio generale di riparto delle competenze in materia urbanistica delineato dalla normativa statale. In un contesto ordinamentale in cui il principio di sussidiarietà da un lato e la spettanza al comune di tutte le funzioni amministrative che riguardano il territorio comunale dall'altro orientano i vari livelli di pianificazione urbanistica secondo il criterio della competenza, il ruolo del comune non può infatti essere confinato nell'ambito della mera attuazione di scelte precostituite in sede sovraordinata. Ciò comporta che il comune, se non può disattendere le prescrizioni di coordinamento dettate dagli enti (regione o provincia) titolari del relativo potere, può però discrezionalmente concretizzarne i contenuti (Consiglio di Stato, sez. IV, 01.10.2007, n. 5058).
3.8. Si sono voluti enucleare –senza alcuna pretesa di completezza od esaustività- i principi sinora predicati dalla giurisprudenza, per chiarire che la filosofia di fondo di tale consolidato filone interpretativo è quella di garantire il potere regionale di partecipazione alla formazione dell'atto a complessità diseguale di pianificazione generale, pur nella riaffermazione del principio per cui la funzione di pianificazione urbanistica resta saldamente rimessa alla responsabilità dell’amministrazione comunale.
3.8.1. Sarebbe quindi illegittimo un atto amministrativo di matrice regionale che si sostituisse alle determinazioni comunali con riferimento a scelte discrezionali
3.8.2. E laddove, per avventura, ciò avvenisse con un atto di matrice legislativa, la competenza del comune – discendente dal principio di sussidiarietà verticale contenuto nella Carta fondamentale- potrebbe essere “difesa” rimettendo alla Corte Costituzionale il giudizio di legittimità sulla legge medesima in relazione al parametro che prevede ed eleva il principio di sussidiarietà, rappresentato dal combinato-disposto degli articoli 5 e 118 della Carta Fondamentale.
3.8.3. Si osserva poi che, se tali principi devono trovare attuazione con riferimento ad atti amministrativi (ovvero legislativi) a contenuto positivo, analoga risposta deve essere fornita, laddove l’atto di matrice regionale incidente sulla potestà di pianificazione urbanistica rimessa al comune si strutturi in un atto di natura legislativa contenente una prescrizione “negativa” che, in tesi, impedisca al comune medesimo di esercitare tali prerogative.
3.8.4. Nel caso specie, pare al Collegio che ci si trovi in presenza proprio di tale evenienza, e sotto due connessi e speculari profili, in quanto:
   I) il comma 1 dell’art. 5 della citata legge regionale 28.11.2014, n. 31 impone alla Regione di integrare “il PTR con le previsioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera b-bis), della l.r. n. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera p), della presente legge, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”;
   II) la disposizione medesima nulla prevede nella ipotesi in cui detto termine non sia rispettato;
   IV) nelle more di tale integrazione il comma 4 del predetto articolo 5 (nel testo primigenio) non soltanto conforma la potestà urbanistica comunale (“i comuni possono approvare unicamente varianti del PGT e piani attuativi in variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo, diretti alla riorganizzazione planivolumetrica, morfologica, tipologica o progettuale delle previsioni di trasformazione già vigenti, per la finalità di incentivarne e accelerarne l’attuazione, esclusi gli ampliamenti di attività economiche già esistenti, nonché quelle finalizzate all’attuazione degli accordi di programma a valenza regionale”) in un’unica direzione (il che però non costituisce prescrizione della quale il comune di Brescia appellante principale si duole) ma anche, inibisce al comune qualunque forma di pianificazione “diversa” stabilendo che fino all’adeguamento di cui al comma 3 della disposizione predetta (comunque successivo alla integrazione del PTR da parte della Regione) “sono comunque mantenute le previsioni e i programmi edificatori del documento di piano vigente”;
   V) è ben vero che (come acutamente sottolineato dalle parti originarie ricorrenti alla pag. 4 della memoria depositata il 13.9.2017) la legge regionale non interdice la possibilità di approvare varianti al Piano delle Regole ed al Piano dei Servizi del PGT, ma è vero altresì che la prescrizione interdittiva contenuta nella legge riguarda l’atto maggiormente rilevante e qualificante della programmazione urbanistica comunale, rappresentato dal documento di Piano.
3.8.5. Il Collegio ritiene quindi che non siano manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale della disposizione suddetta prospettati dall’appellante comune, anche con riferimento al parametro della sussidiarietà verticale di cui agli articoli 5, e 118 della Costituzione, sia nella parte in cui il Comune si duole della indeterminatezza temporale della previsione (nel senso che non è prevista alcuna decadenza del barrage interdittivo, laddove la regione non rispetti il termine temporale contenuto nella legge) sia laddove si sottolinea la portata “espropriativa” di competenze proprie (consistenti nella potestà di modificare il documento di Piano del PGT) rappresentata dalla prescrizione interdittiva di cui al comma 4 dell’art. 5 della legge.
3.8.6. Un’ultima annotazione è necessaria, Quanto al primo profilo: il comma 1 della legge, in verità, prevede un termine (di dodici mesi dall’entrata in vigore della legge) entro il quale la regione debba “integrare il PTR con le previsioni di cui all’articolo 19, comma 2, lettera b-bis), della l.r. 12/2005, come introdotto dall’articolo 3, comma 1, lettera p), della legge regionale 28.11.2014, n. 31 medesima”.
E’ evidente che trattasi di un atto il cui contenuto è rimesso alla latissima discrezionalità dell’Ente regionale, e la cui adozione –a cascata- condiziona il successivo adeguamento degli strumenti urbanistici rimesso ai comuni lombardi dal comma 3 del citato articolo 5; ed è altrettanto evidente che di fatto, fino all’adozione di tali atti, la potestà urbanistica comunale resta condizionata negativamente dalla prescrizione di cui all’ultima parte del comma 4 del citato articolo.
Secondariamente, va ribadito che l’avviso del Collegio è quello per cui il comma 4 dell’art. 5 della legge regionale abbia introdotto un divieto al potere comunale di modifica del Documento di Piano in senso riduttivo del consumo di suolo quanto agli ambiti di trasformazione, e che tale prescrizione renda non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale prospettato dal comune, in quanto la funzione di pianificazione, ex art. 118 della Costituzione, integra funzione amministrativa attribuita al comune medesimo.
3.9. In ultimo, rileva il Collegio che il Tar al capo 20 della sentenza impugnata, pur senza farsi carico di scrutinare la questione di legittimità costituzionale prospettata, ha implicitamente identificato il possibile fondamento logico della prescrizione interdittiva suddetta, individuandolo nella “necessità di salvaguardare il potere della Regione di uniformare la disciplina del consumo di suolo sull’intero territorio regionale, evitando che i proprietari siano esposti, lungo le linee di confine comunali, a vincoli eccessivamente differenziati”.
3.9.1. Evidenzia il Collegio che, da un canto, in nessun passaggio della legge regionale è dato intuire che simile preoccupazione sia stata alla base della citata prescrizione interdittiva, e per altro verso, appare altresì dubbio che essa possa integrare quella ragione giustificativa della necessità di un “
esercizio unitario” della funzione amministrativa pianificatoria che giustifichi la sottrazione per un tempo non contenuto di detta funzione all’ente comunale che la detiene in forza di risalente, tradizionale, impostazione legislativa a più riprese ribadita e confermata.
10. Alla luce della superiore esposizione, infine, appare doveroso chiarire brevemente ciò che si era soltanto enunciato nel primo considerando della presente decisione: la questione di legittimità costituzionale che ci si accinge a sollevare si pone a monte delle ulteriori contrapposte censure con le quali entrambe le parti hanno criticati i successivi capi della sentenza che si sono fatti carico di definire la latitudine della successiva attività pianificatoria rimessa al comune conseguente alla statuizione annullatoria contenuta nella sentenza medesima: è evidente, infatti, che soltanto in ipotesi di reiezione della questione di incostituzionalità prospettata detti contrapposti motivi di doglianza potrebbero essere utilmente scrutinabili.
11. Conclusivamente,
il Collegio, ritiene che il presente giudizio debba essere sospeso e gli atti vadano trasmessi alla Corte Costituzionale.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta):
   a) definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in epigrafe, respinge le censure contenute nell’appello principale volte ad ottenere la riforma della impugnata decisione per violazione dell’art. 112 c.p.c.;
   b) non definitivamente pronunciando sul ricorso in appello in epigrafe, visti gli artt. 134 Cost., l’art. 1 della l. cost. 09.02.1948, n. 1, l’art 23 della l. 11.03.1953, n. 87:
      I)
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 4 e 9, della legge regionale 28.11.2014, n. 31, con riferimento agli articoli 5, 117, comma 2, lett. p) e 118 della Costituzione;
      II) dispone la sospensione del presente giudizio e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
      III) ordina che a cura della Segreteria di questa Quarta Sezione del Consiglio di Stato la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
      IV) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito ed in ordine alle spese (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.12.2017 n. 5711 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’appello cautelare prospetta delicate problematiche (tra le quali anche il sospetto di incostituzionalià della disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale della Lombardia 28.11.2014 n. 31) da vagliare compiutamente con sollecitudine nella competente sede di merito.
Rilevato peraltro che nelle more della delibazione di merito appare doveroso non adottare statuizioni dalle quali possano discendere effetti irreversibili e che appare in tal senso preponderante l’interesse prospettato dall’amministrazione comunale appellante, si sospende l'esecutività della sentenza impugnata.

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... per per la riforma della sentenza 17.01.2017 n. 47 del TAR per la LOMBARDIA – Sezione Staccata di Brescia- SEZ. I.
...
   - rilevato che l’appello cautelare prospetta delicate problematiche (tra le quali anche il sospetto di incostituzionalià della disposizione di cui all’art. 5 della legge regionale della Lombardia 28.11.2014 n. 31) da vagliare compiutamente con sollecitudine nella competente sede di merito;
   - rilevato peraltro che nelle more della delibazione di merito appare doveroso non adottare statuizioni dalle quali possano discendere effetti irreversibili e che appare in tal senso preponderante l’interesse prospettato dall’amministrazione comunale appellante;
   - rilevato che può sin d’ora fissarsi la trattazione del merito alla pubblica udienza del 05.10.2017.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta),
Accoglie l'istanza cautelare (Ricorso numero: 1911/2017) e, per l'effetto, sospende l'esecutività della sentenza impugnata.
Fissa la trattazione del merito alla pubblica udienza del 5 ottobre 2017 (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 21.04.2017 n. 1696 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAFino all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la normativa regionale mantiene provvisoriamente efficaci le previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (v. art. 5, comma 4, della LR 31/2014). Nel periodo transitorio, pertanto, possono essere approvati e portati a esecuzione i piani attuativi già previsti. Questa facoltà è però subordinata (v. art. 5, comma 6, della LR 31/2014) alla presentazione del progetto di piano attuativo ai sensi dell’art. 14 della LR 11.03.2005 n. 12, anche in variante al PGT purché in connessione con le previsioni dello stesso, nel termine di trenta mesi dall’entrata in vigore della LR 31/2014.
Qualora non sia stato tempestivamente presentato il progetto di piano attuativo, i comuni, con motivata deliberazione del consiglio comunale, sospendono la previsione del PGT sino all'esito della procedura di adeguamento alle direttive regionali e alle indicazioni provinciali, e, entro i successivi novanta giorni, verificano la compatibilità delle previsioni sospese con le prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT, disponendone l'abrogazione in caso di incompatibilità assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie modifiche e integrazioni negli altri casi (v. art. 5, comma 9, della LR 31/2014).
In questo quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di aree libere.
Questo secondo limite, che rileva nel caso in esame, si fonda su tre presupposti:
   (a) è necessario salvaguardare il potere della Regione di uniformare la disciplina del consumo di suolo sull’intero territorio regionale, evitando che i proprietari siano esposti, lungo le linee di confine comunali, a vincoli eccessivamente differenziati;
   (b) il consumo di suolo, come si è visto sopra, non è un concetto naturalistico ma giuridico, ed è misurato prendendo come riferimento la disciplina urbanistica vigente, con la conseguenza che i piani attuativi già previsti non possono essere considerati un ostacolo sulla via del raggiungimento delle finalità della LR 31/2014;
   (c) se la legge regionale impone di motivare persino la sospensione dei piani attuativi nel caso di mancata presentazione dei relativi progetti, una tutela ancora maggiore deve evidentemente spettare ai proprietari che si siano tempestivamente attivati manifestando il proprio interesse.
Questo non significa che la pianificazione comunale sia bloccata per un tempo indefinito e non possa perseguire finalità di contenimento delle edificazioni, modificando le proprie scelte precedenti. Il nuovo orientamento più restrittivo deve però essere attuato in modo incrementale, rivedendo ogni singolo progetto di piano attuativo, ed esponendo per ciascuno le ragioni che inducono a ritenere non più conforme all’interesse pubblico l’equilibrio perequativo fatto proprio dal PGT.

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... per l'annullamento della deliberazione consiliare n. 128 del 28.07.2015, con la quale è stata adottata una variante generale al PGT (seconda variante);
...
13. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sullo ius variandi nel periodo transitorio
14. La disciplina introdotta dalla LR 31/2014 ha la finalità di indirizzare la pianificazione urbanistica, a tutti i livelli (PTR, PTCP, PGT), verso un minore consumo di suolo. La definizione normativa di consumo di suolo introdotta dall’art. 2, comma 1-c, della LR 31/2014 (“trasformazione, per la prima volta, di una superficie agricola da parte di uno strumento di governo del territorio, non connessa con l'attività agro-silvo-pastorale, esclusa la realizzazione di parchi urbani territoriali”) ha carattere formale, ossia prende in considerazione il territorio non sulla base dello stato dei luoghi ma per la qualifica che ne è stata data dalla zonizzazione.
15. La stessa indicazione si ricava dalla seconda parte della suddetta norma, che regola il calcolo del consumo di suolo (“rapporto percentuale tra le superfici dei nuovi ambiti di trasformazione che determinano riduzione delle superfici agricole del vigente strumento urbanistico e la superficie urbanizzata e urbanizzabile”). Poiché alle aree urbanizzate sono assimilate le aree urbanizzabili (ossia quelle che, seppure di fatto ancora libere, sono idonee, secondo la disciplina urbanistica, a ospitare diritti edificatori), la cancellazione dei piani attuativi previsti dal PGT non costituisce propriamente applicazione della LR 31/2014, ma rappresenta piuttosto un ripensamento delle originarie scelte pianificatorie.
16. La riduzione del consumo di suolo ai sensi della LR 31/2014 è un’operazione complessa, che richiede l’adeguamento di tutti i livelli della pianificazione. In attesa delle direttive regionali e delle indicazioni provinciali, i comuni possono approvare unicamente varianti al PGT, e piani attuativi in variante al PGT, che non comportino nuovo consumo di suolo, secondo la definizione data dal legislatore regionale, nonché varianti finalizzate all'attuazione degli accordi di programma a valenza regionale (v. art. 5, comma 4, della LR 31/2014).
17. Fino all’adeguamento del PGT, possibile solo dopo l'integrazione del PTR e l'adeguamento del PTCP, la normativa regionale mantiene provvisoriamente efficaci le previsioni e i programmi edificatori del PGT in vigore (v. art. 5, comma 4, della LR 31/2014). Nel periodo transitorio, pertanto, possono essere approvati e portati a esecuzione i piani attuativi già previsti. Questa facoltà è però subordinata (v. art. 5, comma 6, della LR 31/2014) alla presentazione del progetto di piano attuativo ai sensi dell’art. 14 della LR 11.03.2005 n. 12, anche in variante al PGT purché in connessione con le previsioni dello stesso, nel termine di trenta mesi dall’entrata in vigore della LR 31/2014.
18. Qualora non sia stato tempestivamente presentato il progetto di piano attuativo, i comuni, con motivata deliberazione del consiglio comunale, sospendono la previsione del PGT sino all'esito della procedura di adeguamento alle direttive regionali e alle indicazioni provinciali, e, entro i successivi novanta giorni, verificano la compatibilità delle previsioni sospese con le prescrizioni sul consumo di suolo previste dal PGT, disponendone l'abrogazione in caso di incompatibilità assoluta, ovvero impegnando il proponente alle necessarie modifiche e integrazioni negli altri casi (v. art. 5, comma 9, della LR 31/2014).
19. In questo quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di aree libere.
20. Questo secondo limite, che rileva nel caso in esame, si fonda su tre presupposti:
   (a) è necessario salvaguardare il potere della Regione di uniformare la disciplina del consumo di suolo sull’intero territorio regionale, evitando che i proprietari siano esposti, lungo le linee di confine comunali, a vincoli eccessivamente differenziati;
   (b) il consumo di suolo, come si è visto sopra, non è un concetto naturalistico ma giuridico, ed è misurato prendendo come riferimento la disciplina urbanistica vigente, con la conseguenza che i piani attuativi già previsti non possono essere considerati un ostacolo sulla via del raggiungimento delle finalità della LR 31/2014;
   (c) se la legge regionale impone di motivare persino la sospensione dei piani attuativi nel caso di mancata presentazione dei relativi progetti, una tutela ancora maggiore deve evidentemente spettare ai proprietari che si siano tempestivamente attivati manifestando il proprio interesse.
21. Questo non significa che la pianificazione comunale sia bloccata per un tempo indefinito e non possa perseguire finalità di contenimento delle edificazioni, modificando le proprie scelte precedenti. Il nuovo orientamento più restrittivo deve però essere attuato in modo incrementale, rivedendo ogni singolo progetto di piano attuativo, ed esponendo per ciascuno le ragioni che inducono a ritenere non più conforme all’interesse pubblico l’equilibrio perequativo fatto proprio dal PGT.
Sul programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica
22. Una volta accertato che i piani attuativi di cui sia stato tempestivamente presentato il progetto sono esclusi dall’obiettivo di risparmio di suolo agricolo codificato nella LR 31/2014, non è però possibile attribuire ai proprietari un bene della vita più consistente di quello a cui potevano aspirare secondo la disciplina originaria. Nel caso in esame, questo significa che rimane in vigore la disciplina di cui all’art. 36 delle NTA del PGT previgente, relativa al programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica (ripresa e ampliata dall’art. 48 delle NTA della seconda variante generale).
23. Tale interpretazione è coerente con il principio di certezza del diritto. I proprietari interessati, infatti, sapevano fin dall’inizio che
   (a) vi erano dieci anni a disposizione per presentare i progetti dei piani attuativi, e
   (b) l’utilizzazione dei diritti edificatori sarebbe stata subordinata alla posizione ottenuta nella graduatoria dei progetti, con la possibilità di arresto procedimentale per i piani attuativi con i punteggi più bassi. La circostanza che sia stato fissato un termine di trenta mesi non fa venire meno l’utilità di graduare gli interventi edilizi.
Al contrario, proprio la compressione del termine di presentazione esige un filtro per diluire gli interventi, e consentire all’amministrazione una valutazione aggiornata sulle esigenze edificatorie private e sulla dotazione di attrezzature pubbliche (oltre che un esame dei costi di gestione delle stesse). Il rischio che in questo modo alcuni piani attuativi possano divenire inefficaci per decorrenza del termine decennale non è sostanzialmente diverso ora rispetto al momento di approvazione del PGT.
24. Quello che cambia, e deve in parte essere ricostruito in via interpretativa, è il percorso di approvazione del programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica. Dopo l’entrata in vigore della LR 31/2014, il suddetto programma diventa in definitiva una graduatoria dei progetti tempestivamente presentati dai proprietari interessati. Non è evidentemente necessario pubblicare un invito alla presentazione dei progetti, avendo disposto in questo senso direttamente la legge regionale, e non è possibile specificare ulteriormente i criteri contenuti nell’art. 36 delle NTA del PGT previgente, essendovi già dei progetti presentati. Una volta scaduto il termine di presentazione, l’amministrazione è quindi tenuta a formare una graduatoria, e a stabilire con analitica motivazione il numero dei piani attuativi immediatamente attivabili, rinviando alla scadenza del triennio l’individuazione del numero degli ulteriori piani attuativi attivabili tra quelli presenti in graduatoria.
25. Le valutazioni urbanistiche e finanziarie che l’amministrazione potrà esprimere, caratterizzate da elevata discrezionalità tecnica, non possono essere anticipate attraverso la presente sentenza, tenuto conto del disposto dell’art. 34, comma 2 cpa. Tuttavia, poiché tra i criteri fissati dall’art. 36 delle NTA del PGT previgente rientrano anche la minimizzazione del consumo di suolo e la minimizzazione delle perdite di produttività agricola, è possibile, e necessario, precisare già in questa sede giurisdizionale di cognizione che l’amministrazione non potrà fare leva su tali previsioni per reintrodurre una sostanziale cancellazione dei piani attuativi. Questi criteri, come del resto tutti gli altri, stabiliscono delle preferenze, non delle condizioni di ammissibilità. Pertanto, nessun progetto potrà essere escluso semplicemente perché riduce le aree agricole o le aree ancora libere, mentre potranno essere preferiti (salvo bilanciamento con altri criteri) quei piani attuativi che lasciano intatte maggiori superfici, o dispongono meglio le edificazioni nelle aree intercluse o ai bordi dell’abitato.
Sull’obbligo di motivazione
26. Come si è visto sopra, la legge regionale tutela l’affidamento dei proprietari, imponendo all’amministrazione un obbligo di motivazione qualificato nel momento in cui sono incisi negativamente i diritti edificatori. Poiché è la stessa legge regionale che sollecita i proprietari a presentare i progetti dei piani attuativi, questi ultimi devono essere tutti esaminati nel merito. Essendo prevista a livello comunale la formazione di un programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica, si deve ritenere che l’obbligo di motivazione si concentri nella procedura di formazione del suddetto programma.
27. Oltre che sui criteri stabiliti dall’art. 36 delle NTA del PGT previgente, la motivazione deve soffermarsi, secondo i principi generali della materia pianificatoria, sull’attualità dell’interesse pubblico incorporato nei singoli piani attuativi. In particolare, l’amministrazione deve valutare
   (a) se gli obblighi assunti dai privati (normalmente, cessione di aree e realizzazione di opere di urbanizzazione) consentano ancora di raggiungere un obiettivo utile per la collettività;
   (b) se la maggiore utilità pubblica derivi dalla soluzione perequativa o da quella espropriativa (la perequazione crea diritti edificatori, ma consente di acquisire al patrimonio comunale aree e opere senza oneri; l’espropriazione comporta normalmente degli oneri finanziari, ma può essere limitata a obiettivi molto puntuali, senza impegnare l’amministrazione in ampie operazioni immobiliari);
   (c) se i proprietari abbiano delle aspettative fondate sulle vicende pregresse della pianificazione.
28. A proposito di quest’ultimo punto, occorre sottolineare che i diritti edificatori riconosciuti a titolo di compensazione per la reiterazione di vincoli espropriativi decaduti non possono essere cancellati per confusione nella nuova disciplina urbanistica generale. Si tratta, infatti, di posizioni giuridiche già acquisite dai proprietari che hanno subito l’incertezza giuridica collegata all’attesa delle decisioni dell’amministrazione sull’utilizzazione delle superfici vincolate. L’amministrazione deve quindi porsi il problema di salvaguardare questi diritti edificatori. Possono variare il modo e la misura, ma non la capacità riparatoria dell’indennizzo.
Sui vincoli espropriativi
29. Per quanto riguarda, infine, i percorsi ciclopedonali collocati sulle aree dei ricorrenti, si osserva che la compensazione per i vincoli espropriativi può certamente consistere in nuovi diritti edificatori. Tuttavia, se questi diritti non possono essere utilizzati su un’area nella disponibilità del proprietario che subisce l’espropriazione, sorge il problema di quale sia il valore della compensazione.
30. In particolare, se vengono attribuiti diritti edificatori ma contemporaneamente vengono ridotte in modo significativo le potenziali aree di atterraggio, la compensazione non raggiunge il suo scopo, avendo un oggetto privo di mercato e sostanzialmente non monetizzabile.
31. Pertanto, se non appare necessario che l’amministrazione impegni già al momento della previsione del vincolo espropriativo le risorse finanziarie per l’acquisto della proprietà, deve però essere svolta una valutazione approfondita sulla capacità dei diritti edificatori di rappresentare in concreto un’equa compensazione.
Conclusioni
32. Il ricorso deve quindi essere parzialmente accolto, nel senso che la seconda variante generale viene annullata nella parte in cui non consente la piena tutela delle aspettative dei ricorrenti basate sul PGT previgente, come sopra descritte.
33. Conseguentemente, l’effetto conformativo della presente sentenza vincola il Comune a predisporre un programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica, prendendo in considerazione i progetti di piano attuativo presentati tempestivamente entro il termine di cui all’art. 5, comma 6, della LR 31/2014. Poiché i criteri di valutazione non possono essere individuati a posteriori, l’esame comparativo dovrà essere condotto direttamente sulla base dell’art. 36 delle NTA del PGT previgente, ossia utilizzando la disciplina che garantisce il rispetto del principio di certezza del diritto anche per chi ha già presentato il progetto. Resta ferma la possibilità per tutti gli interessati di introdurre, entro il termine di cui all’art. 5, comma 6, della LR 31/2014, modifiche migliorative ai progetti presentati.
34. Oltre ai criteri dell’art. 36 delle NTA del PGT previgente, nella formazione della graduatoria dei progetti dovranno essere seguite le indicazioni sopra esposte, che definiscono il grado di resistenza dei piani attuativi rispetto alla volontà dell’amministrazione di introdurre una disciplina in peius per i proprietari. Allo scopo di non creare disparità di trattamento, dovrà essere seguita una metodologia omogenea per tutti i progetti di piano attuativo. In particolare,
   (a) dovranno essere quantificati e salvaguardati i diritti edificatori che compensavano la reiterazione di vincoli espropriativi decaduti, e
   (b) per ogni progetto dovrà esservi una valutazione dell’interesse pubblico, con una comparazione tra l’utilità derivante dallo schema perequativo seguito inizialmente (nel caso dei ricorrenti, diritti edificatori in cambio di aree destinate al parco di San Polo) e l’utilità derivante dal modello conformativo-espropriativo (nel caso dei ricorrenti, conservazione della maggior parte della proprietà, derubricazione del parco a semplice componente del PLIS, e puntuali vincoli espropriativi per l’esecuzione di percorsi ciclopedonali).
35. Per la conclusione della procedura relativa alla formazione della graduatoria dei progetti e all’approvazione del programma triennale degli interventi di trasformazione urbanistica si può ritenere ragionevole un periodo di sei mesi dalla scadenza del termine previsto dall’art. 5, comma 6, della LR 31/2014. Le modalità di adozione e approvazione dei progetti che rientrano nel numero di quelli attivabili nel triennio seguono le regole ordinarie dell’art. 14 della LR 12/2005 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 17.01.2017 n. 47 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

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EDILIZIA PRIVATA: Aree a bassa sismicità - Individuazione - Facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica - Artt. 83, 93, 94, 95 e 98 d.P.R. n. 380/2001.
Alla luce della eliminazione del territorio non classificato e della previsione della facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative, come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. n. 380/2001, debbano essere considerate solamente quelle rientranti nella zona 4, cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione antisismica.
Normativa antisismica - Configurabilità delle contravvenzioni - Finalità del controllo preventivo dello Stato - Interesse protetto - Salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio.
Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo dello Stato sulle attività edificatorie nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, lavine; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Cruciani).
Pertanto, l'interesse protetto, sia pure strumentalmente alla salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio, è dunque quello di consentire l'esercizio delle attribuzioni di controllo nella materia antisismica, attraverso la sanzione delle condotte elusive di tali potestà, o che ne impediscano l'esercizio: ne consegue che l'eventuale assenza di pericolosità delle opere, realizzate in mancanza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive, non determina l'assenza di offensività della condotta, comunque idonea a pregiudicare il bene protetto dalla norma incriminatrice, tanto che è stata affermata l'irrilevanza, al fine della configurabilità di tali reati, della compatibilità delle opere realizzate con le cautele antisimiche imposte dalla legge (Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Cruciani), e anche del successivo rilascio della autorizzazione sismica in sanatoria (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015).
Costruzioni in zona sismica - Potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile - Inosservanza delle norme tecniche - Violazioni sostanziali - Giurisprudenza.
In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali (Sez. 3, n. 6371 del 07/11/2013, De Cesare; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia; Sez. 3, n. 40985 del 07/11/2006, Rigano), anche in considerazione dell'interesse sotteso alle disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56040 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 94 d.P.R. 380/2001 esclude la necessità della preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio regionale per le opere da realizzare in località a bassa sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83 del medesimo d.P.R. 380/2001.
Il secondo comma di tale disposizione prevede la definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme tecniche.
A tal fine è stata emanata l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003, con cui sono stati dettati i principi generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha delegato l'adozione della classificazione sismica del territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la relativa attribuzione a una delle quattro zone, a pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato il territorio nazionale.
E' stato così eliminato quello che in precedenza era il territorio "non classificato" ed è stata introdotta la zona 4, nella quale è facoltà delle Regioni prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica. A ciascuna zona, inoltre, è stato attribuito un valore dell'azione sismica utile per la progettazione, espresso in termini di accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35 g, zona 2=0.25 g, zona 3=0.15 g, zona 4=0.05 g).
Ora, alla luce della eliminazione del territorio non classificato e della previsione della facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative, come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, debbano essere considerate solamente quelle rientranti nella zona 4, cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione antisismica.

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Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo dello Stato sulle attività edificatorie nelle zone sismiche.
L'interesse protetto, sia pure strumentalmente alla salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio, è dunque quello di consentire l'esercizio delle attribuzioni di controllo nella materia antisismica, attraverso la sanzione delle condotte elusive di tali potestà, o che ne impediscano l'esercizio: ne consegue che l'eventuale assenza di pericolosità delle opere, realizzate in mancanza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive, non determina l'assenza di offensività della condotta, comunque idonea a pregiudicare il bene protetto dalla norma incriminatrice, tanto che è stata affermata l'irrilevanza, al fine della configurabilità di tali reati, della compatibilità delle opere realizzate con le cautele antisimiche imposte dalla legge, e anche del successivo rilascio della autorizzazione sismica in sanatoria.
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"In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali", anche in considerazione di quanto già osservato a proposito dell'interesse sotteso alle disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001.
Ne consegue che indebitamente è stata disposta dal Tribunale di Teramo la demolizione delle opere realizzate dagli imputati, in relazione alle quali non è stata contestata l'inosservanza delle norme tecniche, bensì degli obblighi di carattere formale di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, sicché di tale ordine va disposta la revoca.
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RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 30.11.2016 il Tribunale di Teramo ha condannato An. D'A. e Fe. Di Fr. alla pena di euro 2.000,00 di ammenda, in relazione ai reati di cui agli artt. 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001 (per avere, quali amministratori della Te.Ab. S.n.c., proprietaria di un immobile in Comune di Tortoreto, ricadente in zona sismica, realizzato due tettoie in legno omettendo di darne preventivamente avviso allo Sportello unico per l'edilizia e in mancanza della previa autorizzazione dell'Ufficio tecnico regionale), disponendo altresì, ai sensi dell'art. 98, comma 3, d.P.R. 380/2001, la demolizione delle opere.
Nell'affermare la responsabilità degli imputati, il Tribunale ha ribadito la sussistenza degli obblighi di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001 anche in relazione alle opere da realizzare in zona a bassa sismicità, quale il Comune di Tortoreto nel cui territorio erano state realizzate le opere oggetto della imputazione, rientrante in zona sismica 3, non ponendo alcuna distinzione riguardo agli obblighi di comunicazione l'art. 83, comma 2, d.P.R. 380/2001, e l'irrilevanza della mancanza di pericolosità della costruzione realizzata in assenza delle prescritte comunicazioni preventive, in considerazione del carattere formale dei reati di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione entrambi gli imputati, affidato a quattro motivi.
2.1. Con un primo motivo hanno denunciato violazione dell'art. 94 d.P.R. 380/2001, in quanto tale disposizione esclude espressamente dalla incriminazione le condotte relative a fabbricati posti in zone a bassa sismicità, quale il territorio del Comune di Tortoreto, classificato dal 2006 come zona sismica 3.
2.2. Con un secondo motivo hanno prospettato violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001, in relazione alla configurazione del reato contemplato da tale disposizione come reato di pericolo astratto, senza alcuna considerazione della concreta esposizione al rischio del bene protetto, in contrasto con il principio di offensività, derivante dal principio di legalità di cui all'art. 25 Cost..
Hanno al riguardo esposto che le opere realizzate in assenza della preventiva comunicazione allo Sportello unico per l'edilizia non avevano alcuna potenzialità lesiva, trattandosi di due tettoie in legno lamellare poste al piano terreno di un edificio eretto in condominio, addossate al lato esterno di due appartamenti, della superficie di circa dieci metri quadrati ciascuna, prive di qualsiasi incidenza strutturale e, dunque, di pericolosità.
2.3. Con un terzo motivo hanno denunciato violazione dell'art. 98 d.P.R. 380/2001, lamentando l'indebita disposizione della demolizione delle opere realizzate in assenza delle prescritte comunicazioni preventive, essendo stata rilasciata autorizzazione in sanatoria da parte dell'Ufficio del Genio Civile, che, pur non privando di rilevanza penale le condotte, spiegava comunque effetti riguardo al mantenimento delle opere realizzate, impendendone la demolizione.
2.4. Con un quarto motivo hanno lamentato violazione dell'art. 131-bis cod. pen., per la mancata applicazione da parte del Tribunale della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto contemplata da tale disposizione, proprio in considerazione della già evidenziata mancanza di offensività delle condotte, da cui non era derivato alcun pericolo per la pubblica incolumità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato esclusivamente in relazione al terzo motivo.
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata violazione dell'art. 94 d.P.R. 380/2001, per l'affermazione di responsabilità degli imputati nonostante il Comune di Tortoreto, nel cui territorio sono state realizzate le opere, sia classificato a bassa sismicità, è manifestamente infondato.
L'art. 94 d.P.R. 380/2001 esclude la necessità della preventiva autorizzazione scritta del competente Ufficio regionale per le opere da realizzare in località a bassa sismicità, all'uopo indicate nei decreti di cui all'articolo 83 del medesimo d.P.R. 380/2001.
Il secondo comma di tale disposizione prevede la definizione, con decreto del Ministro per le infrastrutture e i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata, dei criteri generali per l'individuazione delle zone sismiche e dei relativi valori differenziati del grado di sismicità, da prendere a base per la determinazione delle azioni sismiche e di quant'altro specificato dalle norme tecniche.
A tal fine è stata emanata l'ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3274 del 20.03.2003 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 105 del 08.05.2003), con cui sono stati dettati i principi generali sulla base dei quali le Regioni, a cui lo Stato ha delegato l'adozione della classificazione sismica del territorio, hanno redatto l'elenco dei comuni con la relativa attribuzione a una delle quattro zone, a pericolosità decrescente, nelle quali è stato riclassificato il territorio nazionale.
E' stato così eliminato quello che in precedenza era il territorio "non classificato" ed è stata introdotta la zona 4, nella quale è facoltà delle Regioni prescrivere l'obbligo della progettazione antisismica. A ciascuna zona, inoltre, è stato attribuito un valore dell'azione sismica utile per la progettazione, espresso in termini di accelerazione massima su roccia (zona 1=0.35 g, zona 2=0.25 g, zona 3=0.15 g, zona 4=0.05 g).
Ora, alla luce della eliminazione del territorio non classificato e della previsione della facoltatività della prescrizione dell'obbligo della progettazione antisismica per le opere rientranti nella zona 4, pare evidente, in mancanza di altre definizioni normative, come le aree a bassa sismicità, di cui al combinato disposto degli artt. 83 e 94 d.P.R. 380/2001, debbano essere considerate solamente quelle rientranti nella zona 4, cioè quella di minor rischio sismico, per le quali è stato reso facoltativo l'obbligo di prescrivere la progettazione antisismica.
Poiché l'area nella quale sono state realizzate le opere oggetto della contestazione è inclusa in zona sismica 3, correttamente ne è stata esclusa la bassa sismicità, ravvisabile solo per la zona 4, con la conseguente manifesta infondatezza della doglianza sollevata dai ricorrenti sul punto.
3. Anche il secondo motivo, mediante il quale è stata prospettata violazione dell'art. 93 d.P.R. 380/2001, per l'insufficiente considerazione della mancanza di pericolo concreto, e dunque di offensività, in conseguenza della realizzazione delle opere in questione in assenza delle prescritte comunicazioni preventive, è manifestamente infondato.
Al fine della configurabilità delle contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, dunque anche di quella di cui agli artt. 93 e 95 d.P.R. 380/2001, è irrilevante che le costruzioni realizzate siano effettivamente pericolose, in quanto tale normativa è finalizzata a garantire l'esercizio del controllo preventivo dello Stato sulle attività edificatorie nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, Iovine, Rv. 238007; Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Cruciani, Rv. 252750).
L'interesse protetto, sia pure strumentalmente alla salvaguardia della pubblica incolumità e del territorio, è dunque quello di consentire l'esercizio delle attribuzioni di controllo nella materia antisismica, attraverso la sanzione delle condotte elusive di tali potestà, o che ne impediscano l'esercizio: ne consegue che l'eventuale assenza di pericolosità delle opere, realizzate in mancanza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive, non determina l'assenza di offensività della condotta, comunque idonea a pregiudicare il bene protetto dalla norma incriminatrice, tanto che è stata affermata l'irrilevanza, al fine della configurabilità di tali reati, della compatibilità delle opere realizzate con le cautele antisimiche imposte dalla legge (Sez. 3, n. 7893 del 11/01/2012, Cruciani, Rv. 252750, cit.), e anche del successivo rilascio della autorizzazione sismica in sanatoria (Sez. 3, n. 27876 del 16/06/2015, Pro., Rv. 264201).
Ne consegue, in definitiva, la manifesta infondatezza della doglianza.
4. Il quarto motivo, relativo alla mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., da esaminare in ordine logico prima del terzo motivo, relativo alla indebita disposizione dell'ordine di demolizione, è inammissibile, a causa della mancata prospettazione della applicabilità di tale causa di non punibilità nel corso del giudizio di merito.
La sentenza impugnata è, infatti, successiva alla introduzione della disposizione di cui all'art. 131-bis cod. pen., essendo stata resa il 30.11.2016, sicché di tale istituto avrebbe dovuto essere richiesta l'applicazione al giudice del merito, anche mediante istanza formulata in udienza o nel corso della discussione finale, sicché la mancanza di tale richiesta esclude la sussistenza di una violazione di legge sul punto e preclude a questa Corte l'esame della relativa questione, in quanto l'aspetto dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. non può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità, ostandovi il disposto di cui all'art. 609, comma terzo, cod. proc. pen., se tale disposizione era, come nella specie, già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata (Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv. 266678, nella quale è stato precisato che la questione postula un apprezzamento di merito precluso in sede di legittimità, ma che poteva essere proposto al giudice procedente al momento dell'entrata in vigore della nuova disposizione, almeno come sollecitazione in sede di conclusioni del giudizio di merito; conf. Sez. 7, Ordinanza n. 43838 del 27/05/2016, Savini, Rv. 268281).
5. Il terzo motivo, relativo alla indebita disposizione dell'ordine di demolizione delle opere realizzate in assenza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni preventive nonostante il rilascio della autorizzazione in sanatoria da parte dell'Ufficio del Genio civile, è fondato.
Va, al riguardo, ribadito il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui "In tema di disciplina delle costruzioni in zona sismica, il potere-dovere del giudice di ordinare la demolizione dell'immobile, ai sensi dell'art. 98, comma terzo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in caso di condanna per i reati previsti dalla relativa normativa, sussiste soltanto con riferimento alle violazioni sostanziali, ovvero per la inosservanza delle norme tecniche, e non anche per le violazioni meramente formali" (Sez. 3, n. 6371 del 07/11/2013, De Cesare, Rv. 258899; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia, Rv. 237843; Sez. 3, n. 40985 del 07/11/2006, Rigano, Rv. 235411), anche in considerazione di quanto già osservato a proposito dell'interesse sotteso alle disposizioni di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001.
Ne consegue che indebitamente è stata disposta dal Tribunale di Teramo la demolizione delle opere realizzate dagli imputati, in relazione alle quali non è stata contestata l'inosservanza delle norme tecniche, bensì degli obblighi di carattere formale di cui agli artt. 93 e 94 d.P.R. 380/2001, sicché di tale ordine va disposta la revoca.
6. In conclusione la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al disposto ordine di demolizione, che deve essere eliminato, e i ricorsi dichiarati inammissibili nel resto, stante l'autonomia delle doglianze formulate con gli altri motivi di ricorso (cfr. Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, Aiello, Rv. 268966) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56040).

IN EVIDENZA

URBANISTICA: Proroga di convezione urbanistica e legittimazione ad agire.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Firmataria di una convenzione urbanistica – Proroga chiesta da altro comproprietario – Impugnazione – E’ legittimata.
  
Edilizia – Convenzione urbanistica – Proroga – Ambito di estensione
  
La firmataria di una convenzione urbanistica del 2004 -di cui, nel 2017, si è disposta la proroga su proposta di altro proprietario dei beni oggetto della convenzione stessa- ha una posizione qualificata e differenziata che la legittima ad ogni iniziativa giudiziaria, a tutela del suo interesse a evitare che la contestata proroga della convenzione, nel modo in cui è stata realizzata, produca effetti indesiderati, determinando peraltro conseguenze irreversibili e pregiudizievoli sul preteso diritto di proprietà e sulla reintegra della sua situazione di possesso (1).
  
La proroga delle convenzioni urbanistiche disposta ex lege (d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito nella l. 09.08.2013, n. 98) riguarda anche i termini previsti all’interno dalla stessa convenzione urbanistica (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la circostanza che le iniziative giudiziarie della ricorrente possano ipoteticamente o concretamente produrre una perdita economica o un mancato lucro alla stessa ricorrente non è affatto sufficiente a privare la medesima dell’interesse ad agire. Infatti, l'interesse ad agire, quale previsto dall'art. 100 c.p.c., da sempre considerato applicabile al processo amministrativo, ora anche in virtù del rinvio esterno operato dall'art. 39, comma 1, c.p.a., è scolpito nella sua tradizionale definizione di "bisogno di tutela giurisdizionale", nel senso che il ricorso al giudice deve presentarsi come utile per porre rimedio a un diretto, concreto e attuale stato di fatto lesivo.
L’interesse ad agire, previsto quale condizione dell’azione dall’art. 100 c.p.c., con disposizione che consente di distinguere fra le azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto o interesse, va identificato in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, in senso ampio, del diritto o dell’interesse legittimo, rilevabile nella circostanza che, in assenza del processo e dell’esercizio della giurisdizione, l’attore o il ricorrente soffrirebbe un danno.
La lesione, nel caso di specie, è insita nel fatto che una proroga della convenzione urbanistica -che in origine vedeva quale parte privata, tra le altre, la ricorrente- sia avvenuta, pretermettendo del tutto l’informativa e il consenso della ricorrente stessa, come se la medesima non avesse titolo a interferire, né fosse parte nell’originaria stipula della convenzione.
   (2) Ha chiarito il Tar che l’ambito di definizione della proroga di una convenzione urbanistica è delimitato dall’operatività dell’istituto della decadenza. I vizi delle opere di urbanizzazione, l’inadempienza delle parti, la scadenza del termine di validità del piano attuativo e della convenzione urbanistica hanno tutti effetti decadenziali.
La decadenza è una conseguenza sanzionatoria dell’inerzia o dell’inadempienza di una o più parti che hanno stipulato la convenzione. La proroga si riferisce all’inerzia, essendo un dispositivo che differisce la data della decadenza e rimette in termini le parti rimaste inerti, affinché diano esecuzione agli obblighi da esse assunti con la convenzione urbanistica.
Ma deve trattarsi delle stesse parti che hanno stipulato la convenzione, nonché dello stesso oggetto e contenuto negoziale, perché se l’atto di proroga modifica il contenuto della convenzione (mediante novazione oggettiva) ovvero sostituisce le parti stipulanti (mediante novazione soggettiva), allora non si tratta più di una semplice proroga, bensì di una nuova convenzione urbanistica (
TAR Molise, sentenza 30.11.2017 n. 481 - commento tratto da  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
V – La mancata impugnazione della delibera di Giunta comunale n. 267 del 02.12.2016 -con la quale il Comune concede la proroga e autorizza il dirigente tecnico comunale alla sottoscrizione dell’impugnato atto integrativo di proroga della convenzione urbanistica- non costituisce, come eccepiscono i controinteressati, un’irrimediabile causa d’inammissibilità del ricorso.
La controinteressata Po. S.p.A., nella memoria del 02.11.2017, afferma che si tratterebbe di un atto rientrante nelle competenze istituzionali della Giunta comunale, a tenore dell’art. 5, comma 13, del D.L. 13.05.2011 n. 70 (c.d. Decreto “Sviluppo”), convertito in legge n. 106/2011. Invero,
a tenore di tale normativa, la Giunta comunale può approvare il piano attuativo quando questo è coerente con il P.R.G. (o con uno strumento generale equipollente). Qualora, invece, il piano attuativo implichi l'esigenza di modifica del P.R.G., la competenza spetta sempre al Consiglio comunale (cfr.: Cons. Stato IV, 04.03.2016 n. 888).
Si tratta nella specie, evidentemente, di una situazione ben diversa da quella prefigurata dalla norma invocata, poiché qui non viene approvato un nuovo piano attuativo coerente con il P.R.G., ma viene prorogata l’efficacia di un vecchio piano attuativo (che peraltro non sarebbe neppure del tutto coerente con il vigente P.R.G.). La delibera giuntale, quindi, non reca in sé l’approvazione di un piano di recupero, ma è una mera autorizzazione alla sottoscrizione dell’atto di proroga, sul presupposto (errato) che sussistano le condizioni della proroga.
L’impugnato atto aggiuntivo, integrativo e di proroga (registrato il 01.03.2017) della convenzione urbanistica 2004 del piano di recupero “Colle delle Api”, è da ritenersi l’atto conclusivo del procedimento, cioè l’atto effettivamente lesivo dell’interesse della ricorrente, in quanto ad esso si riconnettono il protrarsi e il modificarsi degli effetti dell’originaria convenzione, mentre la presupposta deliberazione di Giunta comunale n. 267 del 2016, non impugnata, costituisce un mero atto interno di autorizzazione alla stipulazione dell’atto aggiuntivo.
Per meglio esplicitare tale assunto, occorre chiarire la natura giuridica della convenzione urbanistica.
Le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di disciplinare il corretto utilizzo del territorio mediante un modello consensuale che prevede un contenuto obbligatorio, previsto dalla legge e dalle norme urbanistiche attuative, e un contenuto discrezionale e di autonomia negoziale, liberamente esercitabile dalle parti. Pertanto, le convenzioni urbanistiche, costituiscono strumenti di attuazione dei piani urbanistici, rivestendo carattere negoziale di accordi sostitutivi del provvedimento, ex art. 11 della legge n. 241/1990 (cfr.: Cass. civile, sez. unite, 11.04.2017 n. 9284; Cons. Stato VI, 31.10.2013 n. 5275; Tar Emilia R., Bologna I, 24.10.2016 n. 873).
Mediante la convenzione, da una parte, il privato realizza l’interesse a definire la propria utilità su un immobile, dall’altra parte l’Ente locale autorizza la conformazione del territorio con la costruzione di beni e infrastrutture a beneficio della collettività. L’interesse pubblico, in questa linea di confine, riporta a unità la manifestazione dei pubblici poteri, coniugando il contenuto discrezionale del provvedimento con gli strumenti del diritto civile relativi all’autonomia negoziale, in una procedura non esclusivamente pubblicistica che si compenetra con le iniziative del privato, alle quali il provvedimento amministrativo è accessivo.
L’accordo, nei termini delineati, è lo strumento più utilizzato per realizzare gli interessi pubblici in ambito di sviluppo territoriale urbano, in collaborazione diretta con i privati (nel modello cosiddetto del partenariato pubblico–privato), in piena aderenza ai principi partecipativi, dando autonomia alla parte privata nei limiti di coincidenza con la potestà pubblica intesa all’assolvimento del primario interesse della buona amministrazione (ex art. 97 Cost.), oltre che del principio comunitario di sussidiarietà orizzontale (ex artt. 117–118 Cost.).
Non si tratta di un accordo integrativo procedimentale, bensì di un accordo sostitutivo di provvedimento, di guisa che tutti gli atti presupposti e prodromici alla realizzazione dell’accordo –ivi compresa la deliberazione della P.A. di autorizzazione a negoziare- avendo natura interna, cioè endoprocedimentale, non sono autonomamente lesivi. Ne consegue che non vi è alcuna necessità né obbligo che gli atti prodromici siano impugnati unitamente alla convenzione. Non vi è dubbio che l’eventuale annullamento giurisdizionale della convenzione urbanistica rechi un vantaggio a chi la impugna per cancellarla dal mondo giuridico, anche quando la presupposta deliberazione giuntale che dà mandato alla stipula della convenzione non sia stata impugnata. Viceversa, la sopravvivenza dell’atto giuntale non determina alcun effetto giuridico o fattuale, allorché la convenzione urbanistica sia stata privata di efficacia e caducata.
Pertanto, anche sotto tale profilo, il ricorso in esame è da ritenersi ammissibile.
VI – I motivi del ricorso sono attendibili e fondati.
Non compete a questo giudice di stabilire se la Po. S.p.A. sia la proprietaria dell’area oggetto del piano di recupero e, se è vero che la convenzione urbanistica stipulata nel 2004 è da tempo decaduta per decorrenza del termine decennale, non vi è ragione di verificare appieno se la stessa sia venuta meno, unitamente al piano di recupero, a seguito della mancata approvazione da parte della Regione della variante di P.R.G. che prevedeva il piano di recupero.
VII – Nondimeno, ai fini del giudizio, è necessario, in via preliminare, dare una più compiuta ricostruzione dei fatti.
La ricorrente era comproprietaria, con i suoi fratelli Al., Lu. e Fi., di una vasta area di circa 8 ettari sita nel Comune di Campobasso, individuata in catasto al foglio 33, p.lle 77, 477, 73, 75, 76, 475, 474, 476, 79, 409, 42, 386 e 730. L’area in passato era destinata a zona “N – Agricola” dal P.R.G. e il Comune di Campobasso con la delibera di Consiglio comunale n. 82 dell’11.12.2000, adottava una variante generale al piano regolatore, variante che comprendeva l’area di proprietà della ricorrente nella zona “E1 - Frazioni e contrade da sottoporre a piani di recupero” e prevedeva che in tali strumenti attuativi venisse prevista la realizzazione di attrezzature per il territorio, mediante volumi anche di natura artigianale, commerciale e residenziale per consentire eventuali integrazioni insediative.
In virtù della disposizione dell’art. 18 delle Norme tecniche di attuazione (che consentiva l’approvazione di piani di recupero nelle more dell’approvazione della variante), la ricorrente, insieme ai suoi familiari, presentava una proposta di piano di recupero ad iniziativa privata, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 457/1978. Stante l’inerzia dell’Amministrazione, il piano veniva approvato dal commissario “ad acta” nominato dal Presidente della Regione Molise. Il commissario regionale adottava (con la delibera commissariale n. 33/2003) e poi approvava (con la delibera commissariale n. 68 del 03.12.2003) il citato piano di recupero ad iniziativa dei sig.ri Po., sulle menzionate aree, sicché la ricorrente, unitamente ai suoi fratelli, stipulava nel 2004 una convenzione urbanistica con il Comune di Campobasso per l’esecuzione del piano di recupero.
La convenzione era alquanto onerosa per le parti private, prevedendo che -nel termine di 10 anni- queste dovessero realizzare, a proprie spese, la progettazione esecutiva degli interventi di infrastrutturazione e urbanizzazione, nonché la realizzazione, il collaudo e la cessione degli stessi al Comune di Campobasso. Tali interventi dovevano essere realizzati prima dell’ottenimento dei titoli edilizi per la costruzione degli edifici privati.
Tra i molteplici impegni, la convenzione prevedeva altresì che:
   a) le opere relative alla viabilità dovessero essere ultimate entro il termine di 60 mesi e prima dei lavori di costruzione degli edifici (art. 3);
   b) nessun atto di assenso e nessuna denuncia di inizio attività potesse attuarsi se non dopo l’inizio dell’esecuzione delle opere di urbanizzazione al servizio dell’intervento richiesto (art. 4.4);
   c) le opere di urbanizzazione dovessero essere eseguite direttamente, a spese dai recuperanti (art. 5);
   d) i recuperanti cedessero immediatamente al Comune di Campobasso le aree per le urbanizzazioni primarie e per le attrezzature pubbliche, dichiarando di asservirne altre all’uso pubblico (art. 15).
Sennonché, nel 2005 il padre della ricorrente, sig. Po.Ge., avvalendosi di una procura notarile rilasciata dalla figlia La. numerosi anni prima (precisamente il 17.02.1987 per Notaio Ro. di Campobasso), trasferiva tutte le quote da questa detenute nelle società, agli altri fratelli.
La ricorrente prontamente revocava la detta procura generale e, nondimeno, il sig. Ge.Po. (sempre in veste di procuratore) stipulava nel 2005 una scrittura privata con la quale La. e gli altri fratelli vendevano alla società Po. che accettava “tutti i diritti edificatori (siano essi destinati a scopi produttivi o residenziale) acquisiti dal terreno in premessa, in forza del piano di recupero approvato con delibera numero 68 del 03.12.2003 del commissario ‘ad acta’ e disciplinata nella convenzione”. Tale scrittura privata veniva registrata successivamente alla revoca della procura generale, seppur recando una data ad essa antecedente. Ne scaturiva un contenzioso sia civile che amministrativo.
Infatti, la Po. S.p.A. chiedeva al Comune di Campobasso il rilascio del permesso di costruire per la realizzazione di un centro servizi per attività commerciali, denegato per mancata dimostrazione di un valido titolo. Il Consiglio di Stato, con decisione n. 4416/2015, in riforma della sentenza n. 718/2014 di questo Tar, annullava il citato diniego sul presupposto che la scrittura privata di cessione dei diritti edificatori rappresentasse un titolo “presuntivamente valido” per chiedere il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001.
Nel frattempo, la ricorrente, sig.ra La.Po., adiva il Tribunale civile di Campobasso (n.r.g. 1334/2012) chiedendo la divisione dei beni ereditari in comproprietà con i fratelli. Con un ulteriore giudizio (n.r.g. 2/2017), la ricorrente chiedeva al Tribunale civile di Campobasso la divisione di altri beni in comproprietà coi fratelli, ricevuti in donazione. Tra i beni oggetto di tali giudizi rientrano anche i terreni di Colle delle Api.
I relativi giudizi sono tuttora pendenti e il giudice civile ha incaricato un c.t.u. di procedere a un progetto di divisione. Con istanza del 18.10.2012, i sig.ri Al., Fi. e Lu.Po., affermando di essere i comproprietari dei terreni e i titolari del citato piano di recupero, presentavano un’istanza al Comune di Campobasso chiedendo il rilascio di titoli edilizi. La sig.ra La.Po. instaurava allora un altro giudizio civile contro i suoi fratelli e la Po. S.p.A. (n.r.g. n. 823/2016), volto ad accertare la manifesta nullità della scrittura privata di cessione dei diritti edificatori dei terreni oggetto del piano di recupero.
Tale scrittura privata, a dire della ricorrente, avrebbe natura di contratto preliminare e ciò non sembra smentito dalla società Po., la quale chiedeva, in via riconvenzionale, al giudice civile di condannare la sig.ra La.Po. alla stipula del contratto definitivo di cessione. La Po. S.p.A., in persona del suo legale rappresentante Al.Po., attestando di essere proprietaria dei terreni oggetto del piano di recupero nonché dei diritti edificatori, in virtù della citata scrittura privata del 2005, presentava al Comune di Campobasso (in data 23.11.2015 prot. n. 32249) una nuova istanza volta a ottenere il permesso di costruire per edifici commerciali, nonché la proroga e la voltura in suo favore della convenzione di urbanizzazione stipulata tra il Comune di Campobasso e i germani Po. in data 20.02.2004.
Il Comune di Campobasso con la citata delibera di Giunta comunale n. 267/2016, disponeva di prorogare la convenzione rep. 74682/2004, sul presupposto che la menzionata sentenza del Consiglio di Stato n. 4416/2015 avesse legittimato la società Po. a disporre dei detti beni immobili. A nulla valevano le diffide inoltrate dalla sig.ra La.Po. al Comune di Campobasso, nelle quali ella evidenziava che la richiesta della Po. S.p.A. (che non era l’unica proprietaria dei terreni, essendo questi oggetto, peraltro, di due giudizi di divisione) fosse indebita e illegittima e che la scrittura privata stipulata nel 2005 era manifestamente inefficace o nulla essendo pendente un giudizio innanzi al Tribunale civile di Campobasso avente ad oggetto tale accertamento.
La sig.ra La.Po., in data 20.02.2017, effettuava una visura presso la competente conservatoria dei registri immobiliari dalla quale rilevava che i terreni di cui sopra (in catasto al foglio 33 p.lle 77, 477, 73, 75, 76, 475, 78, 474, 476, 79, 409, 42, 386, 730) non risultavano più di sua proprietà ma, a seguito di un’iscrizione avvenuta in data 19.01.2017 (successiva alla trascrizione della domanda giudiziale di divisione) erano intestati alla Po. S.p.A., che aveva fatto trascrivere la sentenza del Tribunale di Campobasso dell’11.07.2016.
La sig.ra La.Po. presentava al Presidente del Tribunale di Campobasso un’istanza di accesso agli atti del giudizio che avrebbe dato luogo al trasferimento immobiliare, al fine di conoscere la natura del provvedimento emesso dal Tribunale di Campobasso. A seguito dell’istanza, la ricorrente veniva a conoscenza che il provvedimento del Tribunale di Campobasso (rep. 4348) faceva riferimento alla sentenza n. 316/2016, emessa all’esito del giudizio n.r.g. 634/2016.
Il procedimento contraddistinto da tale numero, veniva iscritto a ruolo in data 08.03.2016 dalla società Po. S.p.A., che conveniva in giudizio il Sig. Po.Ge. (padre e procuratore della ricorrente), al fine di sentirsi dichiarare l’autenticità delle sottoscrizioni apposte sulla scrittura privata del 01.02.2005, nonché al fine di ottenere l’autorizzazione alla trascrizione della stessa. Si costituiva nel giudizio il sig. Po.Ge. che riconosceva la sottoscrizione da lui apposta sulla predetta scrittura privata e aderiva a tutte le richieste della società Po..
In data 08.06.2016, il Tribunale di Campobasso pronunciava la sentenza n. 634/2016 che dichiarava l’autenticità della sottoscrizione apposta da Po.Ge. su ogni foglio della scrittura privata del 01.02.2005 e autorizzava la Po. S.p.A. alla trascrizione della scrittura privata, precisando che: “dal momento che nella predetta scrittura privata, sebbene qualificata dalle parti come una vendita vera e propria è stabilito dall’art. 5 (della medesima scrittura) che debba seguire atto notarile di trasferimento condizionato all’esito di alcuni giudizi in corso e a semplice richiesta di una sola delle parti e comunque da redigersi da un notaio scelto a cura e spese della parte acquirente, si deve ritenere che il contratto possa equipararsi ‘quoad effectum’ ad un contratto preliminare di vendita”.
Successivamente alla pubblicazione della sentenza n. 316/2016, in data 07.07.2016, la Po. S.p.A. depositava presso il Tribunale di Campobasso un’istanza per la correzione di errore materiale della stessa sentenza. Il Tribunale di Campobasso, nella persona del g.o.t. dott. De., con provvedimento dell’11.07.2016 di correzione di errore materiale della sentenza n. 316/16 disponeva, conformemente all’istanza, la correzione della sentenza n. 316/16 nel procedimento n. 634/2016 r.g., nel senso che ove a pag. 3 della motivazione è scritto “atto notarile di trasferimento” deve leggersi “atto notarile di produzione del consenso” e ove a pag. 5 della motivazione è scritto “trattandosi di contratto di compravendita di beni immobili da trasferirsi in proprietà mediante successivo atto notarile” deve leggersi “trattandosi di compravendita di beni immobili trasferiti in proprietà mediante la scrittura privata del 01.02.2005”.
Tale sentenza di correzione veniva utilizzata dalla società Po. per trascrivere l’atto nei pubblici registri immobiliari e giustificare la parola “compravendita”, con il preteso effetto di trasferire le particelle immobiliari dai precedenti proprietari all’attuale unico proprietario, società Po.. Come detto, tale trascrizione veniva presentata all’Amministrazione comunale al fine di giustificare e legittimare l’istanza di proroga della convenzione urbanistica e, sulla base di essa, la Giunta comunale adottava la delibera n. 267/2016 e stipulava con la Po. S.p.A. “l’atto aggiuntivo ed integrativo di proroga della convenzione urbanistica”, rogata dal Segretario comunale in data 24.02.2017 (rep. 2053).
Nell’atto aggiuntivo citato si legge che: “si prende atto dell’avvenuta trascrizione dei suoli presso la locale Conservatoria dei registri immobiliari di Campobasso reg. gen. 718 del 19/01/2017 degli atti di trasferimento ivi riportati alla ditta Potito per scrittura privata con sottoscrizione accertata giudizialmente giusta autorizzazione alla trascrizione di cui a sentenza n. 316/2016 pubblicata l’08/06/2016”.
Conosciute le dette circostanze, la ricorrente (con atto di citazione del 03.03.2017) impugnava la sentenza di correzione adottata dal Tribunale di Campobasso n. 316/2016, mediante opposizione di terzo, chiedendone la sospensione cautelare. Il Tribunale di Campobasso accoglieva, con provvedimento n. 1717 del 09.03.2017, l’istanza cautelare, autorizzando l’istante a trascrivere il provvedimento di sospensione presso i competenti Uffici dei registri immobiliari di Campobasso.
VIII - Tale ricostruzione dei fatti, quale rassegnata da parte ricorrente, non è contestata, nella sostanza, se non per dettagli poco rilevanti, dalle parti controinteressate costituitesi nel giudizio.
Tutto lascia presagire che gli assetti proprietari dei suoli oggetto di controversia saranno presto ridefiniti dai giudicati che si formeranno sui procedimenti civili pendenti tra la sig.ra Po.La. e i suoi fratelli. Ma non è in questa sede che, sia pur in via incidentale, il Tribunale amministrativo potrà stabilire se la ricorrente sia o non sia la comproprietaria del patrimonio immobiliare oggetto di contesa. Viceversa, è in questa sede che si può affermare, senza ombra di smentita, che il presupposto fattuale e giuridico dell’impugnato atto di proroga della convenzione urbanistica (vale a dire la proprietà dei suoli in capo alla Po. S.p.A.) non sia affatto certo e definito, essendo tuttora “sub judice” la questione dei diritti di proprietà.
Venuta meno la certezza del titolo di proprietà della società Po. (soprattutto dopo la trascrizione nei registri immobiliari del citato provvedimento n. 1717 del 2017 del Tribunale di Campobasso), l’impugnato atto di proroga della convenzione perde uno dei suoi presupposti indefettibili.
Infatti,
se è vero che -come, a suo tempo, affermato dal Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 4416/2015- la scrittura privata di cessione dei diritti edificatori rappresenta un titolo “presuntivamente valido” per chiedere il permesso di costruire, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. n. 380/2001, in quanto la normativa non richiede necessariamente la proprietà dell’area e consente il rilascio dei titoli edilizi, facendo salvi i diritti dei terzi; nondimeno, è altresì vero che lo stesso principio non è applicabile al caso della convenzione urbanistica, in quanto questa deve necessariamente essere stipulata tra il Comune e i proprietari o aventi titolo certo che legittimi la disposizione delle aree oggetto del piano attuativo.
Invero,
la convenzione urbanistica è un atto consensuale a contenuto dispositivo che opera un trasferimento di diritti patrimoniali, sicché il privato che, sottoscrivendola, si obbliga a effettuare attribuzioni patrimoniali, deve provare il titolo che lo abilita alla disposizione dei beni, alla stregua del principio “nemo plus juris in alium transferre potest quam ipse habet”.
La disposizione su un bene altrui da parte di chi non ne ha il titolo integrerebbe, secondo il combinato disposto dell'art. 1418, comma 2, e dell'art. 1346 c.c., una causa di nullità dell'atto negoziale per carenza nell'oggetto del requisito della possibilità. Non a caso, il permesso di costruire non viene trascritto nei registri immobiliari, mentre le convenzioni urbanistiche devono essere trascritte, ex art. 35 della legge n. 865/1971 (cfr.: Cons. Stato IV nn. 363/1983 e 744/1984) ed ex art. 2645-quater cod. civile, come integrato dalla legge n. 44/2012.
Se è vero che la proprietà delle aree oggetto della convenzione è tuttora “sub judice”, il Comune nel prorogare la convenzione ha erroneamente ritenuto certo il presupposto del titolo di proprietà in capo alla contraente Po. S.p.A. e ciò consente di valorizzare e ritenere attendibile il primo motivo del ricorso.
IX - Alla luce di ciò, si comprende anche che il Comune non avrebbe potuto estromettere, né pretermettere le parti private originarie ovvero, facendolo, non avrebbe potuto qualificare l’atto come proroga della convenzione.
Si tratta qui di attribuire un preciso significato alla proroga dell’originaria convenzione urbanistica –proroga in astratto prevista dal D.L. 21.06.2013 n. 69– atteso che la novazione soggettiva delle parti private in convenzione, nel passaggio dai singoli congiunti della famiglia Po. alla Po. S.p.A. non può non incidere sulla qualificazione dell’atto come proroga della convenzione urbanistica.
La legge 09.08.2013 n. 98, che ha convertito il citato D.L. n. 69/2013 (c.d. Decreto del “Fare”) ha prorogato i termini di validità delle convenzioni urbanistiche stipulate fino al 31.12.2012. Tale normativa è intervenuta prima della scadenza decennale della convenzione in esame (2004-2014). L’art. 30, comma 3-bis (inserito in fase di conversione in legge), ha disposto una generale proroga di tre anni dei termini di validità e dei termini di inizio e fine lavori indicati nell’ambito delle convenzioni di lottizzazione stipulate sino al 31.12.2012.
Ciò significa che la convenzione stipulata il 20.02.2004, destinata a scadere il 20.02.2014, per effetto della proroga di legge protrarrebbe la propria esecutività fino al 20.02.2017. Ma
la portata dell’estensione della proroga di legge riguarda anche i termini previsti all’interno dalla stessa convenzione urbanistica. Ad esempio, come già osservato, tra i molteplici impegni, la convenzione in esame prevede che le opere relative alla viabilità siano ultimate entro 60 mesi (art. 3).
Anche a voler ritenere che la validità di un termine già scaduto previsto nelle convenzione sia estesa per altri tre anni, a far data dall’entrata in vigore del Decreto del “Fare”, il termine così prorogato sarebbe comunque già esaurito. La scelta interpretativa genera rilevanti effetti in sede applicativa ed è per questo che
la proroga della convenzione, pur derivando da una previsione di legge, può essere recepita e regolata da un atto ricognitivo convenzionale, quale è quello stipulato dal Comune di Campobasso in data 24.02.2017.
Tuttavia, se di proroga della convenzione deve trattarsi, la novazione soggettiva costituisce una modificazione davvero importante. Allo stesso modo, appare rilevante il fatto che la proroga concessa dal Comune di Campobasso si estenda a un periodo di nove anni, ben più lungo dei tre anni previsti dal Decreto del “Fare”.
L’ambito di definizione della proroga di una convenzione urbanistica è delimitato dall’operatività dell’istituto della decadenza. I vizi delle opere di urbanizzazione, l’inadempienza delle parti, la scadenza del termine di validità del piano attuativo e della convenzione urbanistica hanno tutti effetti decadenziali.
La decadenza è una conseguenza sanzionatoria dell’inerzia o dell’inadempienza di una o più parti che hanno stipulato la convenzione. La proroga si riferisce all’inerzia, essendo un dispositivo che differisce la data della decadenza e rimette in termini le parti rimaste inerti, affinché diano esecuzione agli obblighi da esse assunti con la convenzione urbanistica.
Ma deve trattarsi delle stesse parti che hanno stipulato la convenzione, nonché dello stesso oggetto e contenuto negoziale, perché se l’atto di proroga modifica il contenuto della convenzione (mediante novazione oggettiva) ovvero sostituisce le parti stipulanti (mediante novazione soggettiva), allora non si tratta più di una semplice proroga, bensì di una nuova convenzione urbanistica.
Il rinnovo della convenzione -astrattamente ipotizzabile, anche in termini di riqualificazione dell’atto preso qui in esame– porrebbe un insormontabile problema: la convenzione è collegata al piano attuativo, sicché una nuova convenzione ovvero una convenzione rinnovata richiederebbe l’adozione di un nuovo piano attuativo.
È orientamento della giurisprudenza amministrativa ritenere che il termine massimo di dieci anni di validità del piano attuativo, stabilito dall'art. 16, comma 5, della legge 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati (ed esteso dall’art. 28 della legge n. 457/1978 ai piani di recupero) non sia suscettibile di deroga neppure su accordo delle parti; la convenzione è un atto accessorio al piano attuativo, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria (cfr.: Cons. Stato VI, 05.07.2013 n. 5807).
Pertanto,
stanti i limiti di derogabilità del termine di validità del piano attuativo, la normativa del Decreto del “Fare” che ha previsto la proroga delle convenzioni urbanistiche (e dei piani attuativi) deve essere di stretta interpretazione e applicazione, in quanto essa produce l’effetto derogatorio di un’ultrattività dei piani attuativi a cui le convenzioni accedono.
Ne consegue che
non si può prorogare la convenzione per un periodo superiore a quello dei tre anni previsti dalla legge e non si può modificare il contenuto della convenzione né in termini oggettivi, né in termini soggettivi, senza violare la citata normativa di cui all’art. 16 della legge n. 1150/1942 e all’art. 28 della legge n. 457/1978 (la qual cosa consente di valorizzare e ritenere senz’altro fondato il secondo motivo del ricorso).
È vero che il menzionato contratto per scrittura privata del 01.02.2005, all’art. 2, comma III, statuisce con clausola espressa, la delega alla Po. S.p.A. da parte di tutti i fratelli (compresa la ricorrente) di procedere alla stipula, al rinnovo o alla modifica delle convenzioni urbanistiche. Inteso che sia un contratto valido, esso vincola le parti private (cioè i fratelli Po.) ma non può avere rilievo esterno, sì da vincolare il Comune alla proroga della convenzione mediante novazione soggettiva.
Peraltro, a ben vedere, la detta clausola contrattuale menziona la stipula, il rinnovo, la modifica della convenzione urbanistica, ma non la proroga, la quale non può comportare modifiche che non siano quelle del termine di decadenza, dovendo consistere nel mero differimento del termine di validità ed efficacia dell’originaria convenzione, senza che ne sia alterato il contenuto o che siano sostituite le parti private della convenzione.
XI – Un tema che fa da sfondo all’intera questione oggetto della controversia è quello dell’ultrattività delle convenzioni urbanistiche.
La giurisprudenza amministrativa, da tempo, si è soffermata sul significato del principio generale contenuto nell’art. 17, primo comma, della legge n. 1150 del 1942 (per il quale, "decorso il termine stabilito per l’esecuzione del piano particolareggiato, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l’obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso"), in un orientamento a tenore del quale, fino all’approvazione di un nuovo strumento attuativo che disciplini le aree in essi incluse, deve riconoscersi una certa efficacia ultrattiva ai piani attuativi scaduti (cfr., ex plurimis: Cons. Stato V, 30.04.2009 n. 2768; idem IV, 04.12.2007 n. 6170; idem IV 28.07.2005, n. 4018; idem IV 02.06.2000, n. 3172; Tar Lazio Roma II, 24.01.2006, n. 508; Tar Sicilia Palermo I, 27.04.2005, n. 638; Tar Sicilia Catania I, 29.09.2004, n. 2718; Tar Campania Salerno I, 07.08.1997, n. 488).
Nell’ipotesi di decadenza dei piani attuativi è, comunque, consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa edilizia di zona che resta operativa a tempo indeterminato per la parte che disciplina l’edificazione, nelle sue linee fondamentali ed essenziali.
Il principio dell’ultrattività dei piani attuativi, in qualche modo, ha ispirato il legislatore del Decreto del “Fare” nel 2013, nel prevedere la proroga legale delle convenzioni urbanistiche, ed ha ispirato anche –l’anno successivo– il legislatore del c.d. Decreto “Sblocca Italia” (D.L. 12.09.2014 n. 133, conv. in legge n. 164/2014), il quale ha introdotto l’art. 28-bis del D.P.R. n. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia), per rendere diversamente operativo il principio, mediante l’istituto del c.d. permesso di costruire convenzionato.
Quando le esigenze di urbanizzazione possono essere soddisfatte, sotto il controllo comunale, con una modalità semplificata, il privato può richiedere un permesso di costruire convenzionato, laddove nella convenzione -che accede al titolo edilizio ed è qualificabile come accordo integrativo o sostitutivo, ex art. 11 della legge n. 241/1990- sono previsti gli obblighi in capo al richiedente legati al rilascio del titolo. Sono soggetti alla stipula della convenzione le cessioni di aree anche al fine dell’utilizzo di diritti edificatori, la realizzazione di opere di urbanizzazione, le caratteristiche morfologiche degli interventi, le modalità di attuazione per stralci funzionali, cui si collegano oneri ed opere di urbanizzazione da eseguire, nonché le relative garanzie. Il presupposto di tutto ciò è la conformità dell’intervento alle previsioni di P.R.G. che, nel caso di specie, mancherebbe.
Qui, assume rilievo il fatto che la mancata approvazione da parte della Regione della variante di P.R.G. (delibera C.C. n. 82/2000), che prevedeva e legittimava il piano di recupero “Colle delle Api”, ha restituito l’area alla sua destinazione agricola (zona N).
Per questa ragione, si può conclusivamente affermare (valorizzando e ritenendo fondato anche il terzo motivo del ricorso) che, scegliendo la via della proroga negoziale della convenzione urbanistica, il Comune ha applicato erroneamente il Decreto del “Fare”, dando al piano di recupero un’ultrattività in contrasto con le previsioni del P.R.G., effetto che soltanto la proroga triennale di legge (senza alcuna ulteriore modifica, aggiunta, integrazione o prolungamento negoziale) avrebbe in ipotesi potuto produrre.
Di qui l’illegittimità dell’atto impugnato, con la conseguenza che esso deve essere annullato.
XII - Le suesposte considerazioni sulla prorogabilità della convenzione urbanistica alla luce della vigente normativa non soltanto inducono a ritenere plausibili e fondate le censure del ricorso, ma consentono di comprendere meglio in che modo si radichino, nella specie, i presupposti dell’interesse ad agire e della legittimazione attiva della parte ricorrente.
L’essere tra i firmatari della convenzione del 2004 conferisce alla ricorrente una posizione differenziata e qualificata. Il fatto di essere esclusa dalla firma della proroga della convenzione scaduta dà alla ricorrente ragione di dolersi dell’illegittima ultrattività della convenzione (e del relativo piano di recupero), avvenuta a sua insaputa e senza il suo consenso, in quanto è la legge, correttamente interpretata, a imporre che la proroga avvenga “ope legis” tra le stesse parti che hanno stipulato la convenzione originaria.
Ciò consente di tenere in non cale, nella valutazione dell’interesse a ricorrere, gli effetti di pregiudizio sul contestato diritto di proprietà della ricorrente e sulla sua situazione possessoria che, come già rilevato, risentiranno dell’esito delle vicende giudiziarie in corso dinanzi al giudice ordinario.

IN EVIDENZA

COMPETENZE GESTIONALI: La stabile attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell'art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001.
La norma (avente rango legislativo e non derogabile da parte della contrattazione collettiva in quanto afferente profili organizzativi) trova il proprio antecedente nelle disposizioni del D.Lgs. n. 29 del 1993 (vigente all’epoca della adozione del provvedimento impugnato) che attribuivano ai dirigenti tutti i compiti di rilevanza esterna (art. 3 comma 2) e precludevano la stabile attribuzione di mansioni superiori a funzionari privi della menzionata qualifica (art. 57).
A ciò occorre aggiungere che, sempre secondo la giurisprudenza della Sezione, il provvedimento sottoscritto dal funzionario non dirigente è nullo e non semplicemente annullabile.

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... per l'annullamento della nota (prot. gen. n. 5454/99, part. n. 535) a firma del Funzionario del Dipartimento delle Risorse del Patrimonio, UOC Beni Patrimoniali del Comune di Pisa del 16.03.2001, con la quale si esprime "il diniego di concessione permanente di suolo pubblico", relativamente ad un piccolo manufatto situato in Pisa, Piazza ... n. 6 ed adibito ad attività di pubblico ristoro; nonché di ogni altro atto presupposto, conseguente e/o connesso ed in particolare della nota a firma del dirigente del Settore Uso e Assetto del Territorio, Servizio Gestione e Tutela del Territorio, UOC Edilizia Privata del Comune di Pisa, del 14.03.2000 (prot. part. 306/00/99) con la quale si esprime "parere contrario al .......mantenimento" del chiosco de quo, sul presupposto che questo "determini comunque un elemento di contrasto" con le previsioni contenute negli artt. III comma e 62,2,2, I comma del Regolamento Edilizio comunale.
...
Con ricorso straordinario, trasposto in questa sede in seguito ad opposizione, la Società Il Pi., premesso:
   a) di esercitare una attività di somministrazione di bevande in un chiosco costruito su una porzione di suolo pubblico affidatale in concessione da parte del comune di Pisa;
   b) di aver richiesto all’amministrazione comunale il rinnovo della concessione scadente nel 1989;
   c) di essersi vista respingere l’istanza in ragione del fatto che il regolamento edilizio preluderebbe l’installazione di chioschi su suolo pubblico nell’ambito del centro storico.
Secondo l’interessata il provvedimento sarebbe affetto:
   1) da vizio di incompetenza per essere stato sottoscritto da un funzionario non dirigente;
   2) dal difetto di istruttoria, contraddittorietà della motivazione e lesione del legittimo affidamento dal momento che la concessione sarebbe in passato (e precisamente dal 1963) sempre stata rinnovata e, comunque, su tutta la zona sarebbero presenti manufatti analoghi;
   3) contraddittorietà per essere stati espressi nell’ambito del procedimento parere discordanti.
Fondato ed assorbente è il primo motivo di ricorso.
Secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell'art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001 (TAR Toscana, III, n. 1700/2015).
La norma (avente rango legislativo e non derogabile da parte della contrattazione collettiva in quanto afferente profili organizzativi) trova il proprio antecedente nelle disposizioni del D.Lgs. n. 29 del 1993 (vigente all’epoca della adozione del provvedimento impugnato) che attribuivano ai dirigenti tutti i compiti di rilevanza esterna (art. 3 comma 2) e precludevano la stabile attribuzione di mansioni superiori a funzionari privi della menzionata qualifica (art. 57).
A ciò occorre aggiungere che, sempre secondo la giurisprudenza della Sezione, il provvedimento sottoscritto dal funzionario non dirigente è nullo e non semplicemente annullabile (sentenza n. 331/2016).
Da ciò consegue il carattere assorbente della censura fermo restando che nel riesame della pratica l’organo competente dovrà tener conto della situazione attuale dell’area in cui è situato il chiosco valutando anche la possibilità del rilascio di una concessione di durata inferiore a quella richiesta e pari a quelle (a detta dello stesso comune) rilasciate ad altri esercenti presenti in loco (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 18.12.2017 n. 1576 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALI: La ratifica, secondo un orientamento giurisprudenziale del tutto pacifico, comporta il consolidamento ex tunc degli effetti del provvedimento viziato da incompetenza, precludendone l’annullabilità.
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Tuttavia, il Collegio reputa che l’invalidità degli atti amministrativi emessi da un dipendente privo di qualifica dirigenziale non sia riconducibile alla categoria della incompetenza relativa.
Il vizio di incompetenza relativa presuppone, infatti, la violazione delle regole che ripartiscono (in senso verticale o orizzontale) fra diversi organi di una p.a. l’esercizio di una determinata attribuzione.
Nel caso di specie, invece, si verte in una ipotesi in cui il provvedimento contestato è stato emanato da un funzionario di fatto la cui preposizione all’ufficio dirigenziale deve considerarsi nulla e i cui atti non possono, conseguentemente, essere imputati al comune di Pietrasanta.
Per meglio chiarire tale assunto occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell’art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001 in base al quale la delega di funzioni dirigenziali a dipendenti privi di tale qualifica può avvenire solo per un periodo di tempo limitato e per specifiche e comprovate ragioni di servizio.
Nel caso di specie il comune, al quale spettava l’onere di giustificare i poteri esercitati dal proprio funzionario non dirigente, non ha specificato in forza di quale delega egli abbia agito, né ha prodotto nulla al riguardo. Ciò considerato, il Tribunale deve, pertanto, ritenere che, nella specie, non vi fosse una delega conforme ai parametri ed ai limiti previsti dall’art. 17-bis del D.Lgs 165/2001.
In difetto di una siffatta delega la attribuzione a funzionari apicali di funzioni dirigenziali si risolve in una illecita attribuzione di mansioni superiori sanzionata con la nullità dal comma 5° dell’art. 52 del D.Lgs. 165 del 2001. Nullità che non produce conseguenze solo sul piano del rapporto di lavoro fra amministrazione e dipendente ma anche su quello del rapporto organico discendente dalla preposizione all’ufficio che, in presenza di un atto di investitura nullo, non può venire in essere.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali nel nostro sistema è, infatti, soggetta alla regola del previo svolgimento e superamento di un concorso pubblico (parimenti presidiata dalla sanzione della nullità, Cons. Stato Ad. Plen. nn. 1 e 2 del 1992) che non può essere aggirata attraverso il conferimento di deleghe che non rispettino i limiti temporali e funzionali tassativamente previsti dalla legge (si veda sul tema Corte cost. 37/2015).
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Tutto ciò chiarito resta da sciogliere il nodo della sorte degli atti adottati dai funzionari a cui le funzioni dirigenziali sono state invalidamente conferite.
Ritiene il Collegio che nel caso di specie non possa trovare applicazione la giurisprudenza del Giudice amministrativo d’appello secondo la quale i vizi che rendono illegittimo l’atto di nomina non inficiano la validità degli atti emessi dall’organo illegittimamente costituito. Tale giurisprudenza riguarda, infatti, ipotesi in cui l’atto di investitura risulta affetto da vizi che ne comportano l’annullabilità e non la nullità radicale derivante da violazione di norme imperative espressamente assistite da tale tipologia di sanzione proprio al fine di impedire che l’atto possa produrre effetti giuridici ancorché solo precari.
Nemmeno può essere applicata la giurisprudenza che fa salvi gli atti adottati dal funzionario di fatto allorché vi sia l’esigenza di salvaguardare l’affidamento e la buona fede dei terzi, posto che, tale regola non opera allorché sia il terzo stesso ad insorgere negando il potere del funzionario che ha emesso l'atto.
Deve, invece, ritenersi che gli atti adottati dai funzionari ai quali sono state illegalmente attribuite funzioni dirigenziali debbano considerarsi affetti da nullità strutturale per mancanza di elementi essenziali ai sensi dell’art. 21-septies della L. 241 del 1990. La valida investitura dell’autore del provvedimento costituisce, infatti, un requisito senza il quale la volontà da egli espressa non può essere riferita alla amministrazione, costituendo le qualità professionali di chi emana l'atto una essenziale garanzia per il cittadino che entra in contatto con la p.a..
I provvedimenti in data 18.04.2013 con i quali il funzionario istruttore privo di qualifica dirigenziale ha disposto il diniego di sanatoria e ordinato la demolizione del manufatto abusivamente realizzato, essendo affetti da nullità, non erano, quindi, suscettibili di essere ratificati o convalidati, potendo la ratifica e la convalida sanare esclusivamente agli atti che hanno prodotto i loro effetti, precludendone il successivo annullamento.
Nondimeno, la ratifica adottata dal dirigente in data 18/02/2015 possiede tutti i requisiti formali e sostanziali per essere considerata alla stregua di un autonomo provvedimento di diniego di sanatoria ed irrogazione della sanzione demolitoria i cui effetti decorrono, però, ex nunc dal momento della sua adozione con conseguente applicabilità del disposto dell’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 69 del 2013.
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La materia del contendere resta, quindi, limitata, alla impugnativa del diniego di sanatoria in data 18/04/2013, dell’ordinanza di demolizione in data 13/06/2013 e della ratifica dei dure provvedimenti adottata in data 18/02/2015.
Il punto controverso della intera vicenda ruota intorno al fatto se l’immobile ricostruito dalla ricorrente abbia o meno una maggiore altezza di quello preesistente, poiché da tale circostanza dipende la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione o sostituzione edilizia e, quindi, la sua conformità urbanistica.
Le ricorrenti affermano che nel misurare l’altezza del fabbricato il comune avrebbe tenuto conto della presenza sul colmo della struttura (ancora al grezzo) di opere provvisionali destinate a scomparire a seguito del suo completamento.
Secondo il comune, invece, le predette opere farebbero parte della struttura del tetto in corso di realizzazione e, quindi, concorrerebbero a determinarne l’altezza.
Tuttavia, come osservato nell’ordinanza cautelare del 20/05/2015, il contestato aumento di altezza dell’immobile perderebbe rilevanza qualora alla fattispecie in esame si rivelasse applicabile ratione temporis l’art. 30, comma 1, del D.L. 69/2013 convertito in legge n. 98/2013 che ha eliminato il requisito della identità di sagoma ai fini della classificazione degli interventi di demolizione e successiva ricostruzione nell’ambito della categoria della ristrutturazione edilizia.
A tal fine occorre osservare che alla data in cui il funzionario responsabile del procedimento ha adottato il diniego di sanatoria (18.04.2014) il D.L. n. 69/2013 non era ancora entrato in vigore, mentre il menzionato decreto era pienamente operante alla data in cui è stato adottato il provvedimento dirigenziale del 18/02/2015 con cui il comune di Pietrasanta ha inteso ratificare l’operato del funzionario delegato che aveva agito senza averne i poteri.
La ratifica, secondo un orientamento giurisprudenziale del tutto pacifico, comporta il consolidamento ex tunc degli effetti del provvedimento viziato da incompetenza, precludendone l’annullabilità; sicché, qualora il vizio che affliggeva il diniego adottato dal funzionario istruttore fosse effettivamente riconducibile alla incompetenza relativa, la data utile a cui riferire gli effetti del diniego dovrebbe essere quella del 18.04.2013.
Tuttavia, il Collegio reputa che l’invalidità degli atti amministrativi emessi da un dipendente privo di qualifica dirigenziale non sia riconducibile alla categoria della incompetenza relativa.
Il vizio di incompetenza relativa presuppone, infatti, la violazione delle regole che ripartiscono (in senso verticale o orizzontale) fra diversi organi di una p.a. l’esercizio di una determinata attribuzione.
Nel caso di specie, invece, si verte in una ipotesi in cui il provvedimento contestato è stato emanato da un funzionario di fatto la cui preposizione all’ufficio dirigenziale deve considerarsi nulla e i cui atti non possono, conseguentemente, essere imputati al comune di Pietrasanta.
Per meglio chiarire tale assunto occorre ricordare che, secondo la giurisprudenza della Sezione, la stabile attribuzione a funzionari privi qualifica dirigenziale del compito di adottare atti amministrativi con rilevanza esterna contrasta con il disposto dell’art. 17, comma 1-bis, del D.Lgs. 165/2001 in base al quale la delega di funzioni dirigenziali a dipendenti privi di tale qualifica può avvenire solo per un periodo di tempo limitato e per specifiche e comprovate ragioni di servizio (TAR Toscana, III, n. 1700/2015).
Nel caso di specie il comune di Pietrasanta, al quale spettava l’onere di giustificare i poteri esercitati dal proprio funzionario non dirigente, non ha specificato in forza di quale delega egli abbia agito, né ha prodotto nulla al riguardo.
Ciò considerato, il Tribunale deve, pertanto, ritenere che, nella specie, non vi fosse una delega conforme ai parametri ed ai limiti previsti dall’art. 17-bis del D.Lgs 165/2001.
In difetto di una siffatta delega la attribuzione a funzionari apicali di funzioni dirigenziali si risolve in una illecita attribuzione di mansioni superiori sanzionata con la nullità dal comma 5° dell’art. 52 del D.Lgs. 165 del 2001. Nullità che non produce conseguenze solo sul piano del rapporto di lavoro fra amministrazione e dipendente ma anche su quello del rapporto organico discendente dalla preposizione all’ufficio che, in presenza di un atto di investitura nullo, non può venire in essere.
L’attribuzione di funzioni dirigenziali nel nostro sistema è, infatti, soggetta alla regola del previo svolgimento e superamento di un concorso pubblico (parimenti presidiata dalla sanzione della nullità, Cons. Stato Ad. Plen. nn. 1 e 2 del 1992) che non può essere aggirata attraverso il conferimento di deleghe che non rispettino i limiti temporali e funzionali tassativamente previsti dalla legge (si veda sul tema Corte cost. 37/2015).
Tutto ciò chiarito resta da sciogliere il nodo della sorte degli atti adottati dai funzionari a cui le funzioni dirigenziali sono state invalidamente conferite.
Ritiene il Collegio che nel caso di specie non possa trovare applicazione la giurisprudenza del Giudice amministrativo d’appello secondo la quale i vizi che rendono illegittimo l’atto di nomina non inficiano la validità degli atti emessi dall’organo illegittimamente costituito (Cons. Stato, sez. IV, 21/05/2008 n. 2407). Tale giurisprudenza riguarda, infatti, ipotesi in cui l’atto di investitura risulta affetto da vizi che ne comportano l’annullabilità e non la nullità radicale derivante da violazione di norme imperative espressamente assistite da tale tipologia di sanzione proprio al fine di impedire che l’atto possa produrre effetti giuridici ancorché solo precari.
Nemmeno può essere applicata la giurisprudenza che fa salvi gli atti adottati dal funzionario di fatto allorché vi sia l’esigenza di salvaguardare l’affidamento e la buona fede dei terzi, posto che, tale regola non opera allorché sia il terzo stesso ad insorgere negando il potere del funzionario che ha emesso l'atto (Cons. Stato, IV, 20/05/1999, n. 853).
Deve, invece, ritenersi che gli atti adottati dai funzionari ai quali sono state illegalmente attribuite funzioni dirigenziali debbano considerarsi affetti da nullità strutturale per mancanza di elementi essenziali ai sensi dell’art. 21-septies della L. 241 del 1990. La valida investitura dell’autore del provvedimento costituisce, infatti, un requisito senza il quale la volontà da egli espressa non può essere riferita alla amministrazione, costituendo le qualità professionali di chi emana l'atto una essenziale garanzia per il cittadino che entra in contatto con la p.a. (Cass. 09/11/2015, n. 22800; Cass. 02/12/2015 n. 24492).
I provvedimenti in data 18.04.2013 con i quali il funzionario istruttore privo di qualifica dirigenziale ha disposto il diniego di sanatoria e ordinato la demolizione del manufatto abusivamente realizzato, essendo affetti da nullità, non erano, quindi, suscettibili di essere ratificati o convalidati, potendo la ratifica e la convalida sanare esclusivamente agli atti che hanno prodotto i loro effetti, precludendone il successivo annullamento.
Nondimeno, la ratifica adottata dal dirigente in data 18/02/2015 possiede tutti i requisiti formali e sostanziali per essere considerata alla stregua di un autonomo provvedimento di diniego di sanatoria ed irrogazione della sanzione demolitoria i cui effetti decorrono, però, ex nunc dal momento della sua adozione con conseguente applicabilità del disposto dell’art. 30, comma 1, del D.Lgs. 69 del 2013.
Alla luce delle predette considerazioni risulta, perciò, fondato ed assorbente il quinto dei motivi aggiunti del 27/04/2015 con il quale si denuncia la violazione della predetta norma che, come già detto, ha reso irrilevante la modificazione della identità di sagoma ai fini della qualificazione degli interventi di demolizione e ricostruzione nell’ambito della categoria della ristrutturazione edilizia (non trovando, peraltro, alcun riscontro né nella motivazione degli atti impugnati né nella istruttoria procedimentale la tesi, espressa dalla difesa del comune di Pietrasanta secondo cui l’immobile ricostruito eccederebbe quello preesistente anche in termini volumetrici).
La fondatezza della predetta doglianza comporta la illegittimità dell’ordinanza dirigenziale del 18/02/2015, da considerarsi come autonomo provvedimento di diniego di sanatoria e come irrogazione dell’ordine di demolizione, che deve, conseguentemente, essere annullata (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 24.02.2016 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: In linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
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La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.
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... per la riforma della sentenza del TAR per la Calabria, Sezione staccata di Reggio Calabria n. 2 del 03.01.2006, resa tra le parti, con cui è stato in parte dichiarato inammissibile e in parte rigettato il ricorso in primo grado n.r. 257/2005 proposto per l’annullamento:
   - del permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 rilasciato alla signora Lidia Modica per la sopraelevazione di due piani fuori terra del fabbricato esistente tra le vie Marconi e Riviera in località Immacolata di Villa San Giovanni;
   - del P.R.G. del Comune di Villa San Giovanni, approvato con d.P.G.R. n. 1657 del 26.07.1983, limitatamente all’art. 16 delle N.T.A. quanto alle distanze tra edifici ivi previste in zona B sottozona B2.
...
1.) Li.Tu. è comproprietaria di un immobile a tre elevazioni (individuato in catasto alla partita 2480, foglio 3, particella 306, sub. 3), in località Immacolata di Villa San Giovanni, confinante a est con un preesistente immobile composto da solo piano terra appartenente a Li.Mo..
Con il permesso di costruire n. 18 del 18.02.2005 il Comune di Villa San Giovanni ha assentito la sopraelevazione di due piani del predetto fabbricato terraneo.
Con il ricorso in primo grado n.r. 257/2005, inizialmente notificato in data 08.04.2005 alla sola controinteressata ed al Comune, è stato impugnato il permesso di costruire, nonché il P.R.G., limitatamente all’art. 16 delle N.T.A.
L’interessata ha dedotto in sintesi le seguenti censure:
   1) Violazione dell’art. 9 comma 1, n. 2, del D.M. 02.04.1968 n. 1444, in relazione all'art. 41-quinquies della legge urbanistica. Illegittimità derivata, perché l’art. 16 delle N.T.A. consente nella zona B sottozona B1 una distanza minima tra edifici pari a ml. 6 o 8, a seconda che si tratti di tre o quattro piani, in violazione della rubricata disciplina statale, con consequenziale illegittimità derivata del permesso di costruire.
   2) Violazione del D.M. 16.01.1996 Punto C. 3. Eccesso di potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché l’altezza dell’edificio a seguito della sopraelevazione è superiore di cm. 20 (ml. 10,05) rispetto a quella massima consentita (ml. 9,85).
   3) Violazione dell'art. 41-sexies della legge urbanistica. Eccesso di Potere per travisamento dei fatti e sviamento, perché configurandosi l’intervento edilizio come nuova costruzione gli standard a parcheggio dovevano essere garantiti in misura pari a 127,34 mq. in luogo di quelli previsti, pari a 79,1 mq.
...
4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito precisati, onde in riforma della sentenza gravata deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e quindi del primo motivo del ricorso in primo grado, deve ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Sezione (cfr. n. 3522 del 04.08.2016): “…in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515)
”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo stata comunque sollecitata da parte ricorrente la disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo motivo del ricorso in primo grado.
...
5.) In conclusione l’appello deve essere accolto, onde in riforma della sentenza gravata e in accoglimento del primo motivo del ricorso in primo grado, deve essere annullato il permesso di costruire che risulta illegittimo per contrasto con le disposizioni del d.m. 1444/1968, doverosamente applicabili in relazione alla disapplicazione dell’illegittimo art. 16 delle N.T.A. del P.R.G. di Villa San Giovanni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2017 n. 5753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 02.04.1968 n. 1444, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
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La giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.

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E' pacifica la giurisprudenza secondo cui direttamente precettive sono le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore.
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Proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti;
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate;
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti;
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili.
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5. Col secondo motivo di entrambi gli appelli, sono censurate sotto plurimi profili le conclusioni del primo giudice, e in particolare quelle che hanno condotto alla disapplicazione delle disposizioni delle N.T.A. che consentivano l’edificazione fra pareti finestrate a distanza inferiore a quella stabilita dal più volte citato art. 9, d.m. nr. 1444/1968.
Anche queste censure sono prive di pregio.
5.1. Al riguardo, va innanzi tutto richiamato il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515).
5.2. Inoltre, va disattesa l’ulteriore censura, pure contenuta nell’appello del controinteressato in primo grado, secondo cui il potere di disapplicazione de quo non avrebbe potuto nella specie essere esercitato dal primo giudice, trattandosi di controversia avviata con ricorso straordinario e solo successivamente riassunta dinanzi al TAR.
La doglianza è manifestamente infondata, essendo altresì superfluo approfondire il tema dell’esistenza o meno di differenze fra i poteri esercitabili dall’organo decidente nella sede giudiziale e in quella straordinaria sotto il profilo che qui interessa, atteso che, una volta intervenuta la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario, il giudice adìto era certamente titolare di tutti e gli stessi poteri che possono essere esercitati allorché il giudizio scaturisce da ordinario ricorso giurisdizionale, ivi compreso il potere di disapplicazione degli atti regolamentari o generali.
6. Infondata è poi la doglianza articolata col terzo motivo di impugnazione dell’originario controinteressato, non rispondendo al vero che il potere di disapplicazione suindicato non sarebbe stato esercitabile con riferimento ai rapporti interprivati quale è quello per cui è causa: al riguardo, è sufficiente richiamare la pacifica giurisprudenza che direttamente precettive le norme in materia di distanze contenute nei d.m. nr. 1444/1968 anche nei rapporti fra privati, non potendo le stesse essere intese come prescrizioni rivolte al solo organo pianificatore (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015, nr. 1951; id., 12.02.2013, nr. 844).
7. Con l’ultimo motivo di entrambi gli appelli, le parti istanti censurano nel merito l’interpretazione data dal primo giudice del disposto dell’art. 9, d.m. nr. 1444/1968, facendone rilevare l’inapplicabilità alla situazione che qui occupa, laddove i due edifici non avevano pareti finestrate direttamente frontistanti, vi era diversità di quote fra le aperture, e comunque era da escludersi la creazione di qualsivoglia intercapedine nociva o pericolosa per la salubrità pubblica.
Anche questi motivi vanno respinti, ponendosi essi in frontale contrasto con tutti i principali approdi della giurisprudenza in subiecta materia.
In particolare, proprio con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 9 in tema di pareti finestrate, è stato osservato:
   a) che il dovere di rispettare le distanze stabilite dalla norma sussiste indipendentemente dalla eventuale differenza di quote su cui si collochino le aperture fra le due pareti frontistanti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, nr. 856; id., 11.06.2015, nr. 2861; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 20.07.2011, nr. 4374);
   b) che, ai fini dell’operatività della previsione, è addirittura sufficiente che sia finestrata anche una sola delle due pareti interessate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.11.2013, nr. 5557; id., 09.10.2012, nr. 5253);
   c) che la norma in questione, in ragione della sua ratio di tutela della salubrità, è applicabile non solo alle nuove costruzioni, ma anche alle sopraelevazioni di edifici esistenti (cfr. Cons. Stato, 27.10.2011, nr. 5759);
   d) che il divieto ha portata generale, astratta e inderogabile, donde l’esclusione di ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e di pregiudizio alla salubrità degli immobili (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.12.2012, nr. 6489; id., sez. IV, 09.05.2011, nr. 2749; id., 05.12.2005, nr. 6909).
8. In conclusione, alla stregua dei superiori rilievi s’impone una decisione di reiezione degli appelli, con la conferma integrale della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.08.2016 n. 3522 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: E' acclarata in giurisprudenza l’applicabilità del DPR 380/2001 ai cimiteri costruiti su area di proprietà privata.
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Con il ricorso in esame l’Arciconfraternita SS. Annunziata e S. Giuseppe impugna il provvedimento in epigrafe del Comune di Marano di Napoli recante il diniego della variante al permesso di costruire n. 372/2011 chiesta dalla ricorrente in data 31.12.2014 per aggiungere, all’interno dei volumi già autorizzati col citato permesso di costruire (concernente l’ampliamento della Congrega della SS. Annunziata e di S Giuseppe mediante costruzione di un piano in sopraelevazione al corpo retrostante), n. 466 urne cinerarie da distribuire nella fascia sovrastante i nuovi loculi e tumuli ed in corrispondenza della pilastratura.
Il diniego di variante è stato motivato osservando che «la realizzazione delle urne cinerarie nel piano cimiteriale approvato con delibera di C.C. n. 6/2009 prevede la realizzazione delle stesse nelle zone indicate in planimetria con la sigla "CI” posizionate nei quadrati di inumazione posti ai lati del viale principale di accesso e quindi in aree riservate al Comune. Il dimensionamento di tali aree soddisfa la realizzazione delle 686 urne cinerarie (750-64) per lo sviluppo dell'intera previsione quantificata nel piano. A ciò si aggiunge che per le congreghe private risulta autorizzabile in via transitoria la realizzazione di soli loculi come indicato nell'art. 15 delle norme di attuazione del piano cimiteriale».
Il ricorso è affidato a quattro motivi di censura con i quali, denunciando violazione di legge ed eccesso di potere sotto più profili, la ricorrente Arciconfraternita sostiene, in sintesi, che:
   1) la variante sarebbe stata approvata per silenzio assenso a seguito dell’inutile decorso del termine di cui all’art. 20 del DPR n. 380/2001, esclusa la ricorrenza nella fattispecie di vincoli relativi all'assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, ragion per cui, per rimuovere gli effetti della variante assentita, l’amministrazione doveva esperire i poteri di autotutela;
   2) l’intervento programmato poteva essere assentito anche mediante S.C.I.A. postuma, trattandosi di variante non essenziale (poiché non modifica volumi o altezze: la sagoma e la cubatura dell’edificio restano le medesime);
   3) l’intervento interessa un’area di proprietà esclusiva della Congregazione, sicché l’interdizione è irragionevole, atteso che le urne non vanno a soddisfare bisogni pubblici, ma le esigenze di sepoltura esclusivamente dei confratelli; nella regolamentazione cimiteriale comunale non vi è alcuna disposizione che vieti ai privati o alle congreghe la realizzazione ex novo o la trasformazione di loculi in cellette cinerarie; erroneo è anche il richiamo alla presunta limitazione contenuta nell'art. 15 delle NTA al piano cimiteriale, poiché (come chiarito dallo stesso redattore del piano in un parere pro veritate prodotto nel procedimento) la locuzione loculi vi è adoperata nella generale accezione di vano murario destinato alla sepoltura dei resti mortali di una persona, mentre, se il piano cimiteriale davvero limitasse ad un’unica modalità costruttiva la possibilità di ampliamento delle congreghe per soddisfare le esigenze di sepoltura dei confratelli, esso stesso sarebbe illegittimo per manifesta illogicità;
   4) il diniego, infine, è illegittimo anche sotto il profilo dell’assoluto deficit istruttorio e motivazionale.
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Il ricorso è fondato.
Incontestata la ricorrenza dei presupposti fattuali perché la variante fosse approvata per silenzio-assenso, essendo ampiamente decorso (dal 31.12.2014, data di presentazione della variante, al 07.11.2016, data del diniego) il termine stabilito dall'art. 20 DPR 380/2001, nelle proprie difese il Comune di Marano di Napoli insiste unicamente sul fatto che, ad impedire il perfezionamento dell’assenso tacito ed a giustificare il diniego esplicito, starebbe il fatto della mancanza del presupposto di diritto costituito in tesi dalla conformità del progetto alle norme del Regolamento di polizia mortuaria e del Piano cimiteriale, con specifico riferimento al ritenuto contrasto del progetto con l’art. 15 delle norme di attuazione del Piano cimiteriale (autorizzabilità di soli loculi) ed alla previsione della realizzazione di urne cinerarie di iniziativa comunale, secondo un programma di fabbisogno stimato in 750 unità che resterebbe, invece, assorbito per circa il 62% dalla proposta della congrega.
Tuttavia, acclarata in giurisprudenza l’applicabilità del DPR 380/2001 ai cimiteri costruiti su area di proprietà privata (C.d.S., sez. VI, 16.06.2016, n. 2667) come nel caso ora in esame, va anzitutto detto che l’interpretazione restrittiva della previsione dell’art. 15 delle norme tecniche di attuazione del piano cimiteriale (che, con riferimento alle congreghe religiose, recita: «… al fine di sopperire alle esigenze di loculi è permesso, entro tre anni [d]all’adozione del presente piano, l’ampliamento volumetrico nella misura del 10% del volume assentito fuori terra») non appare ragionevolmente giustificata rispetto al significato proprio della parola, atteso che il lemma “loculo” è comunemente registrato nei dizionari della lingua italiana con il significato di nicchia interrata o murata che serve a contenere una bara o un’urna cineraria.
Inoltre, la tesi che vorrebbe comunque di esclusiva competenza comunale la realizzazione di urne cinerarie, perché il fabbisogno programmato di 750 cellette per gli anni a venire sarebbe già soddisfatto dalla previsione della loro integrale realizzazione ad iniziativa pubblica in zona CI prova troppo, perché il ragionamento, a rigore, dovrebbe valere anche per tutti gli altri tipi di sepoltura (il piano cimiteriale prevede un ampliamento complessivo di 23000 mq per sopperire alle esigenze programmate per i successivi novanta anni) sì da negare ogni tipo o forma di ampliamento delle congreghe esistenti (si tratti di inumazioni, colombari o altro).
In realtà, mentre l’ampliamento programmato dal Comune risponde ad esigenze pubbliche di sepoltura, quello delle ricorrente soddisfa esigenze diverse, proprie della Confraternita, e perciò non contenute nel contingente stabilito nel piano cimiteriale, ma ristrette nei soli limiti di una misura percentuale di ampliamento volumetrico dell’esistente, senza alcun riferimento al numero delle sepolture.
Il ricorso va, perciò, accolto in relazione all’assorbente fondatezza del primo e del terzo motivo di censura, con annullamento, per l’effetto, dell’impugnato provvedimento di diniego, prot. 31102 del 07.11.2016 (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.12.2017 n. 5784 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante nel processo amministrativo, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia da parte di terzi interessati, il momento identificativo della piena conoscenza deve essere fatto risalire, di regola, all'ultimazione dei lavori edili, atteso che solo in quel momento i terzi possono apprezzare le caratteristiche delle opere realizzate e, quindi, avere contezza dell'esistenza e dell'entità dei profili di illegittimità eventualmente ravvisabili.
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Tale orientamento, formatosi in materia edilizia, è valevole anche nel caso di specie in cui la ricorrente ha potuto in epoca ben precedente constatare l’avvenuta realizzazione della cappella sia, quantomeno alla data del 13.11.2015, l’esistenza stessa della concessione cimiteriale n. 20/2014, si da poterne concretamente apprezzare la lesività per l’interesse azionato.
Infatti, la “piena conoscenza” -cui fa riferimento l'art. 41 comma 2, cod. proc. amm. per individuare il dies a quo dell'impugnazione- non può essere intesa quale conoscenza integrale del provvedimento, che si intende impugnare e delle sue motivazioni, atteso che -per individuare il dies a quo di decorrenza- basta la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione di un termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto processo, garantiti invece dalla congruità del termine temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità di proporre successivi motivi aggiunti.
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2.- E’ materia del contendere l’azione di annullamento dei provvedimenti in epigrafe indicati e di accertamento ai sensi dell’art. 31, commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm. dell’illegittimità dell’inerzia serbata nei confronti delle istanze del 20.03.2014, 17 luglio e 15.10.2015, con cui l’odierna ricorrente contesta la legittimità dell’edicola funeraria assentita dal Comune di Perugia e dalla locale Soprintendenza in favore del controinteressato Ma.Ba..
2.1. - In “limine litis” va in parte respinta la richiesta di stralcio della memoria di replica depositata dalla ricorrente il 03.10.2017, in quanto entro i termini pur perentori di cui all’art. 73 cod. proc. amm. nella parte in cui con essa si replica alle eccezioni proposte dal controinteressato solamente con la memoria depositata il 23.09.2017.
3. - In punto di fatto giova premettere come con determinazione dirigenziale n. 189 del 21.08.2006 il Comune di Perugia abbia bandito gara per l’assegnazione in concessione per la durata di 99 anni di dodici manufatti cimiteriali a valenza storico artistica posti nel civico cimitero monumentale, tra cui il c.d. monumento Bartoli aggiudicato al sig. Ba..
Con la SCIA dell’08.11.2012 quest’ultimo ha presentato progetto per la costruzione di edicola funeraria sull’area concessa implicante anche il restauro del suindicato manufatto storico da inglobare nella nuova struttura, progetto positivamente valutato ex art. 146 del D.lgs. 42/2004 sia dal Comune che dalla Soprintendenza.
Risultando l’opera realizzata in difformità rispetto al progetto iniziale per sagoma e superficie, venendo ad occupare una ulteriore porzione demaniale di 2,66 mq., il controinteressato ha ottenuto la concessione cimiteriale integrativa n. 20 dell’01.07.2014 ed autocertificato con SCIA a sanatoria del 19.09.2014 la conformità dell’intervento.
Il 20.03.2014 la ricorrente ha sollecitato l’esercizio del potere di controllo del Comune sulla conformità della suddetta opera, denunziando l’intervenuta autorizzazione paesaggistica pur a fronte di evidente difformità tra l’area oggetto di intervento e quella oggetto di concessione, reiterando la richiesta il 15.10.2015.
Con nota del 13.11.2015 l’Amministrazione comunale comunicava alla ricorrente di aver integrato l’originaria concessione demaniale del 2007 con la concessione n. 20 dell’01.07.2014 relativamente all’assegnazione di ulteriori mq. 2,66 e che a tal atto integrativo era seguita la SCIA 2930 del 2014 nonché l’accertamento di compatibilità paesaggistica n. 16/2015.
4. - Tanto premesso, possono esaminarsi le eccezioni in rito sollevate dalle difese del Comune e del controinteressato.
5. - L’eccezione di irricevibilità dell’azione demolitoria inerente la concessione demaniale integrativa n. 20/2014 di cui al ricorso introduttivo e motivi aggiunti è fondata.
Come documentato dalla difesa comunale il manufatto cimiteriale in oggetto è stato ultimato sin dal 26.02.2015 mentre il ricorso introduttivo è stato notificato soltanto il 30.11.2015, in palese violazione del termine decadenziale di 60 giorni decorrente dalla “piena conoscenza” di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm.
Per giurisprudenza costante -da cui il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi- nel processo amministrativo, ai fini dell'impugnazione di una concessione edilizia da parte di terzi interessati, il momento identificativo della piena conoscenza deve essere fatto risalire, di regola, all'ultimazione dei lavori edili, atteso che solo in quel momento i terzi possono apprezzare le caratteristiche delle opere realizzate e, quindi, avere contezza dell'esistenza e dell'entità dei profili di illegittimità eventualmente ravvisabili (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 626; id. sez. IV, 25.05.2017, n. 2453, id. sez. IV, 13.01.2017, n. 66; TAR Sicilia, Catania sez. II, 22.08.2017, n. 2066).
Tale orientamento, formatosi in materia edilizia, è valevole anche nel caso di specie in cui la ricorrente ha potuto in epoca ben precedente constatare l’avvenuta realizzazione della cappella sia, quantomeno alla data del 13.11.2015, l’esistenza stessa della concessione cimiteriale n. 20/2014, si da poterne concretamente apprezzare la lesività per l’interesse azionato.
Infatti, la “piena conoscenza” -cui fa riferimento l'art. 41 comma 2, cod. proc. amm. per individuare il dies a quo dell'impugnazione- non può essere intesa quale conoscenza integrale del provvedimento, che si intende impugnare e delle sue motivazioni, atteso che -per individuare il dies a quo di decorrenza- basta la percezione dell'esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente l'immediata e concreta lesività per la sfera giuridica dell'interessato, al fine di garantire l'esigenza di certezza giuridica connessa alla previsione di un termine decadenziale per l'impugnativa degli atti amministrativi, senza che ciò possa intaccare il diritto di difesa in giudizio ed al giusto processo, garantiti invece dalla congruità del termine temporale per impugnare, decorrente dalla conoscenza dell'atto nei suoi elementi essenziali e dalla possibilità di proporre successivi motivi aggiunti (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. V, 31.08.2017, n. 4129).
5.1. - Ne consegue la tardività del gravame quanto alle doglianze veicolate nei confronti della concessione n. 20/2014.
...
8. - Il ricorso può dunque a tutto concedere essere esaminato nel merito soltanto quanto alle doglianze dirette nei confronti della SCIA a sanatoria del 2014, della quale la ricorrente è stata notiziata soltanto il 13.11.2015.
9. - Per la suindicata parte il ricorso è infondato e va respinto.
La pretesa azionata dalla ricorrente muove dall’erroneo presupposto dell’applicabilità alla fattispecie per cui è causa della disciplina urbanistico-edilizia in tema di distanze minime tra edifici compendiata dall’art. 873 c.c. dolendosi dell’eccessiva vicinanza della cappella realizzata dal controinteressato.
In realtà ritiene il Collegio che la contestata conformità dell’opera debba essere esaminata esclusivamente alla luce del rapporto concessorio tra il Comune di Perugia ed i concessionari delle aree demaniali disciplinato nella specie dal regolamento comunale di Polizia Mortuaria del 23.12.1937 depositato in giudizio, venendo in questione non già costruzioni erette sopra il suolo bensì sepolcri a terra di modeste dimensioni.
L’art. 165 del suddetto regolamento, già vigente al momento della presentazione della prima SCIA e della realizzazione dell’opera, prevede la possibilità di ampliamenti dell’area data in concessione previa integrazione del canone concessorio. L’art. 55, c. 8, del regolamento stabilisce poi unicamente che la costruzione delle opere non deve essere “di pregiudizio per le opere confinanti”, pregiudizio in concreto del tutto indimostrato dalla sig.ra Mi..
Del tutto dirimente, ad ogni caso, è il disposto di cui all’art. 62, c. 8, del suddetto Regolamento secondo cui “i concessionari non acquisiscono alcun diritto che siano conservate le distanze o lo stato delle opere e delle aree attigue, che il Comune può in ogni tempo modificare” quale estrinsecazione del generale principio per cui la posizione del concessionario di area demaniale è comunque recessiva rispetto alle esigenze di tutela dell’ordine e buon governo del cimitero (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.10.2015, n. 4943).
Ne consegue l’inconsistenza delle doglianze dedotte, dal momento che la SCIA a sanatoria è risultata persino superflua, in considerazione dell’interesse pubblico sotteso alla concessione integrativa n. 20/2014, come detto oramai del tutto intangibile, nonché della stessa minima entità della modificazione della sagoma dell’edicola funeraria, non percepibile dall’esterno, si da escludere una alterazione degli stessi valori paesaggistici come correttamente ritenuto dalla locale Soprintendenza.
10. - Per i suesposti motivi il ricorso come integrato dai motivi aggiunti è in parte irricevibile, in parte inammissibile ed in parte infondato (TAR Umbria, sentenza 28.11.2017 n. 724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La normativa generale di disciplina dei beni pubblici è contenuta negli articoli 822 e seguenti del codice civile. Dalla lettura degli articoli 822 e 824 cod. civ. si desume che i beni demaniali possono essere necessari o eventuali (o accidentali).
I primi, per le loro qualità intrinseche, sono sottratti in assoluto alla proprietà privata e possono appartenere soltanto allo Stato o alle Regioni: si tratta del demanio marittimo, idrico e militare (artt. 822, primo comma, cod. civ.).
I secondi possono, invece, essere oggetto di proprietà privata e soltanto se appartengono ad un ente territoriale fanno parte del relativo demanio: tra questi il terzo comma dell’art. 824 cod. civ. include espressamente anche i «cimiteri».
La normativa di settore è contenuta nelle seguenti disposizioni:
   - l’art. 107 del d.r. n. 448 del 1892 prevede che «i cimiteri particolari esistenti o da costruirsi per uso di un gruppo di popolazione, di congregazioni, o di qualsiasi altra associazione civile o religiosa, sono sempre sottoposti alla immediata vigilanza dell'autorità comunale» (tale norma è stata abrogata da regio decreto 21.12.1942, n. 1880);
   - l’art. 340 del regio decreto del 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) dispone che: «e’ vietato di seppellire un cadavere in luogo diverso dal cimitero. E' fatta eccezione per la tumulazione di cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore di quella stabilita per i cimiteri»;
   - l’art. 104, comma 4, del d.P.R. 10.08.1990, n. 285 (Approvazione del Nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria) ha previsto che «le cappelle private costruite fuori dal cimitero, nonché i cimiteri particolari, preesistenti alla data di entrata in vigore del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265, sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla vigilanza dell'autorità comunale».
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Dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante risulta erronea la prospettazione dell’appellante secondo cui i cimiteri possono essere solo pubblici e quelli “particolari” appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici sarebbero soltanto quelli creati prima del 1942 e che dopo tale data sarebbe possibile solo la continuazione di quelli precedenti.
Il dato rilevante, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, è costituito dalla individuazione del soggetto proprietario del cimitero.
Nella fattispecie in esame, gli odierni appellati hanno dimostrato che l’area cimiteriale è di proprietà delle Arciconfraternite.
In tale ottica ricostruttiva, non assumono rilievo le doglianze relative alla circostanza che il cimitero non sia una mera continuazione di quello creato prima del 1942 ma sia un nuovo cimitero, nonché la mancata destinazione dello stesso ai soli associati all’Arciconfraternite.
In relazione al primo aspetto, la normativa vigente non esclude che vi possano essere nuovi cimiteri che non siano pubblici e dunque non si può sostenere che la qualificazione dell’intervento edilizio come ampliamento del cimitero precedente sarebbe da solo sufficiente a fare perdere allo stesso natura di cimitero particolare trasformandolo in cimitero pubblico. In ogni caso, come si dirà oltre, si è in presenza di interventi edilizi che non hanno dato vita ad un nuovo cimitero bensì alla demolizione e ricostruzione di manufatti preesistenti con creazione di nuovi loculi, senza modificazione di volume e sagoma.
In relazione al secondo aspetto, nessuna norma impone la predetta destinazione e soprattutto prevede l’applicazione di sanzioni, quale la “trasformazione” in pubblico del cimitero, qualora essa non venga rispettata.
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L'appellante assume:
   - la violazione dell’art. 30 del regolamento di polizia mortuaria, secondo cui comporta la decadenza dal permesso di costruire l’esecuzione di opere difformi determinanti variazioni essenziali, tra le quali rientrerebbero quelle poste in essere dalle odierne parti resistenti;
   - le norme del regolamento si applicherebbero, in ogni caso, in ragione della loro valente cogente in grado di eterointegrare la convenzione, anche perché solo così si potrebbe assicurare il rispetto delle prescrizioni di carattere igienico-sanitario;
   - l’art. IX della convenzione dispone che il mancato rispetto anche solo di una clausola derivante dalla convenzione comporta la decadenza del permesso di costruire.
I motivi non sono fondati in quanto:
   - le norme del regolamento trovano applicazione esclusivamente in presenza di cimiteri di proprietà pubblica che vengono dati in concessione mentre nel caso in esame si è in presenza, come già sottolineato, di un cimitero costruito su area di proprietà delle resistenti, con la conseguenza che trovano applicazione esclusivamente le norme poste dal d.lgs. n. 308 del 2001;
   - l’applicazione in funzione integrativa cogente delle norme regolamentati è esclusa dal fatto che tale integrazione presuppone non solo la presenza di prescrizioni imperative ma anche e soprattutto la dimostrazione che esse disciplinano un rapporto nel cui ambito dovrebbero integrarsi;
   - la clausola della convenzione è generica e, in ogni caso, non contiene disposizioni che sanciscano la decadenza del permesso di costruire in caso di interventi appartenenti alla tipologia di quelli contestati in questa sede.
Chiarito ciò, la legittimità degli atti impugnati deve essere vagliata alla luce di quanto prescritto dal d.lgs. n. 380 del 2001, secondo cui l’essenzialità della variazione ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni:
   a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
   b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
   c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
   d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
   e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dei provvedimenti con i quali il Comune di Napoli ha decretato la decadenza delle Arciconfraternite da alcuni titoli edilizi che erano stati ottenuti, nel corso degli anni, per l’esecuzione di una serie di interventi edilizi all’interno del Cimitero di Fuorigrotta, sito in Napoli, quartiere Fuorigrotta.
2.– L’appello non è fondato.
2.1.– Con un primo motivo il Comune assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha rilevato che il cimitero debba considerarsi demaniale.
In particolare, l’appellante ha rilevato che l’art. 824 c.c. si limita ad effettuare una mera classificazione dei tipi cimiteriali, distinguendo i cimiteri demaniali, che sarebbero “la regola” e i cimiteri non demaniali, che sarebbero l’“eccezione”. La normativa, anteriore al codice civile, ammetterebbe cimiteri particolari quali ipotesi eccezionali. Ma tale inquadramento, nel caso di specie, non sarebbe possibile, in quanto le Arciconfraternite, con gli interventi realizzati che hanno portato ad aumentare il numero dei posti disponibili da 1341 a 4559, avrebbero creato un “nuovo cimitero particolare”.
Ne conseguirebbe che, non venendo in rilievo la mera continuazione di cimiteri particolari preesistenti, il cimitero in esame dovrebbe considerarsi pubblico.
Il motivo non è fondato.
La normativa generale di disciplina dei beni pubblici è contenuta negli articoli 822 e seguenti del codice civile. Dalla lettura degli articoli 822 e 824 cod. civ. si desume che i beni demaniali possono essere necessari o eventuali (o accidentali).
I primi, per le loro qualità intrinseche, sono sottratti in assoluto alla proprietà privata e possono appartenere soltanto allo Stato o alle Regioni: si tratta del demanio marittimo, idrico e militare (artt. 822, primo comma, cod. civ.).
I secondi possono, invece, essere oggetto di proprietà privata e soltanto se appartengono ad un ente territoriale fanno parte del relativo demanio: tra questi il terzo comma dell’art. 824 cod. civ. include espressamente anche i «cimiteri».
La normativa di settore è contenuta nelle seguenti disposizioni:
   - l’art. 107 del d.r. n. 448 del 1892 prevede che «i cimiteri particolari esistenti o da costruirsi per uso di un gruppo di popolazione, di congregazioni, o di qualsiasi altra associazione civile o religiosa, sono sempre sottoposti alla immediata vigilanza dell'autorità comunale» (tale norma è stata abrogata da regio decreto 21.12.1942, n. 1880);
   - l’art. 340 del regio decreto del 27.07.1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie) dispone che: «e’ vietato di seppellire un cadavere in luogo diverso dal cimitero. E' fatta eccezione per la tumulazione di cadaveri nelle cappelle private e gentilizie non aperte al pubblico, poste a una distanza dai centri abitati non minore di quella stabilita per i cimiteri»;
   - l’art. 104, comma 4, del d.P.R. 10.08.1990, n. 285 (Approvazione del Nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria) ha previsto che «le cappelle private costruite fuori dal cimitero, nonché i cimiteri particolari, preesistenti alla data di entrata in vigore del testo unico delle leggi sanitarie, approvato con regio decreto 27.07.1934, n. 1265, sono soggetti, come i cimiteri comunali, alla vigilanza dell'autorità comunale».
Dalla ricostruzione del quadro normativo rilevante risulta erronea la prospettazione dell’appellante secondo cui i cimiteri possono essere solo pubblici e quelli “particolari” appartenenti a soggetti diversi dagli enti pubblici sarebbero soltanto quelli creati prima del 1942 e che dopo tale data sarebbe possibile solo la continuazione di quelli precedenti.
Il dato rilevante, ai fini della individuazione della disciplina applicabile, è costituito dalla individuazione del soggetto proprietario del cimitero.
Nella fattispecie in esame, gli odierni appellati hanno dimostrato che l’area cimiteriale è di proprietà delle Arciconfraternite. Del resto, lo stesso Comune appellante non ha specificamente contestato questo dato.
In tale ottica ricostruttiva, non assumono rilievo le doglianze relative alla circostanza che il cimitero non sia una mera continuazione di quello creato prima del 1942 ma sia un nuovo cimitero, nonché la mancata destinazione dello stesso ai soli associati all’Arciconfraternite.
In relazione al primo aspetto, la normativa vigente non esclude che vi possano essere nuovi cimiteri che non siano pubblici e dunque non si può sostenere che la qualificazione dell’intervento edilizio come ampliamento del cimitero precedente sarebbe da solo sufficiente a fare perdere allo stesso natura di cimitero particolare trasformandolo in cimitero pubblico. In ogni caso, come si dirà oltre, si è in presenza di interventi edilizi che non hanno dato vita ad un nuovo cimitero bensì alla demolizione e ricostruzione di manufatti preesistenti con creazione di nuovi loculi, senza modificazione di volume e sagoma.
In relazione al secondo aspetto, nessuna norma impone la predetta destinazione e soprattutto prevede l’applicazione di sanzioni, quale la “trasformazione” in pubblico del cimitero, qualora essa non venga rispettata.
2.2.– Con un secondo e terzo motivo si assume:
   - la violazione dell’art. 30 del regolamento di polizia mortuaria, secondo cui comporta la decadenza dal permesso di costruire l’esecuzione di opere difformi determinanti variazioni essenziali, tra le quali rientrerebbero quelle poste in essere dalle odierne parti resistenti;
   - le norme del regolamento si applicherebbero, in ogni caso, in ragione della loro valente cogente in grado di eterointegrare la convenzione, anche perché solo così si potrebbe assicurare il rispetto delle prescrizioni di carattere igienico-sanitario;
   - l’art. IX della convenzione dispone che il mancato rispetto anche solo di una clausola derivante dalla convenzione comporta la decadenza del permesso di costruire.
I motivi non sono fondati in quanto:
   - le norme del regolamento trovano applicazione esclusivamente in presenza di cimiteri di proprietà pubblica che vengono dati in concessione mentre nel caso in esame si è in presenza, come già sottolineato, di un cimitero costruito su area di proprietà delle resistenti, con la conseguenza che trovano applicazione esclusivamente le norme poste dal d.lgs. n. 308 del 2001;
   - l’applicazione in funzione integrativa cogente delle norme regolamentati è esclusa dal fatto che tale integrazione presuppone non solo la presenza di prescrizioni imperative ma anche e soprattutto la dimostrazione che esse disciplinano un rapporto nel cui ambito dovrebbero integrarsi;
   - la clausola della convenzione è generica e, in ogni caso, non contiene disposizioni che sanciscano la decadenza del permesso di costruire in caso di interventi appartenenti alla tipologia di quelli contestati in questa sede.
Chiarito ciò, la legittimità degli atti impugnati deve essere vagliata alla luce di quanto prescritto dal d.lgs. n. 380 del 2001, secondo cui l’essenzialità della variazione ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: «a) mutamento della destinazione d'uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 02.04.1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16.04.1968;
b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato;
c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell'edificio sull'area di pertinenza;
d) mutamento delle caratteristiche dell'intervento edilizio assentito;
e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali
».
Nella fattispecie in esame, l’appellante non ha dimostrato che ricorra alcuna delle fattispecie sopra indicate. Né, è bene aggiungere, può obiettarsi che la ricostruzione della disciplina applicabile può comportare la violazione delle prescrizioni a tutela della salute pubblica, in quanto non risultano violate disposizioni che rischiano di recare pregiudizio alla salute pubblica e, qualora ciò dovesse verificarsi, le amministrazioni competenti sono titolari dei necessari poteri di prevenzione e di tutela.
2.3.– Il rigetto dei motivi sopra indicati rende non necessario l’esame del motivo (indicato nell’atto di appello come secondo) con cui il Comune ha assunto di avere rispettato le norme poste a garanzia della partecipazione al procedimento amministrativo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.06.2016 n. 2667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dal sopralluogo effettuato dagli uffici comunali risulta che:
   - è stata realizzata ex novo un’edicola funeraria in luogo di un manufatto funerario preesistente, di altezza e superficie inferiore a quello edificato;
   - la sagoma del nuovo manufatto è notevolmente difforme da quello precedente;
   - la nuova edicola funeraria consente un numero maggiore di tumulazioni.
Il Comune, trattandosi di nuova edificazione, ha correttamente ritenuto necessaria l’autorizzazione comunale. Il regolamento cimiteriale prevede, infatti, espressamente che necessitino di permesso gli interventi edilizi i quali, come quello in esame, comportino la realizzazione di nuovi edifici, incrementi volumetrici e di superfici e il mutamento del numero e della tipologia delle sepolture.
L’art. 49 del medesimo regolamento dispone altresì che la realizzazione di opere in difformità o in assenza del permesso di costruire, ove necessario, comporti la decadenza dalla concessione.
Alla luce delle risultanze dell’accertamento comunale non può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui le opere realizzate hanno una portata trascurabile in quanto la normativa regolamentare prevede espressamente la necessità del permesso edilizio per opere della tipologia realizzata.
Si deve poi escludere che la proposizione di una domanda di permesso in sanatoria ex art. 36 DPR/2001 possa aver comportato l’automatica inefficacia della determina n. 34/2008.
La concessione da parte del Comune di aree o porzioni di un cimitero pubblico è, come meglio esposto in seguito, soggetta al regime demaniale dei beni, il quale si atteggia in modo diverso rispetto alla ordinaria disciplina edilizia.
Ne deriva che le norme richiamate integrano parte di una regolamentazione autonoma e, per molti versi, eterogenea rispetto a quella recata per l’attività edilizia libera, cosicché il meccanismo disciplinato dall’art. 36 DPR 380/2001 in materia di concessioni cimiteriali non assume alcun valore di principio generale.
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Si deve escludere che le opere realizzate (realizzazione ex novo di edicola funeraria) potessero essere realizzate tramite DIA in base alle norme previste dal TU Edilizia DPR 380/2001, in primo luogo perché con tutta evidenza l’intervento ha dato luogo ad una nuova costruzione, per cui sarebbe necessario il rilascio di un permesso di costruire.
Peraltro, come già ricordato, il regolamento cimiteriale prevede che opere della tipologia descritte siano sottoposte a permesso edilizio e che, in ogni caso, un’edificazione eseguita in assenza delle autorizzazioni prescritte implica la decadenza della concessione e la demolizione delle opere abusive.
Tale disciplina si distingue da quella prevista per opere edilizie realizzate su fondi privati, in quanto trattandosi di area demaniale in concessione, vincolata a scopi funerari, il regime edilizio presenta caratteristiche più restrittive, soggiacendo ai poteri regolatori e conformativi di stampo pubblicistico.
In questa prospettiva lo ius sepulcri vantato dal ricorrente attiene ad una fase di utilizzo del bene che segue lo sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella e che soggiace all'applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Questa disciplina si colloca ad un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico.
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E' infondata la censura secondo cui l’acquisizione dell’area (cimiteriale) sia avvenuta senza la previa notifica dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive secondo lo schema procedimentale di cui all’art. 31 DPR 380/2001.
Invero, il provvedimento gravato non viene assunto in applicazione del citato art. 31 che concerne l’edificazioni abusiva su immobili privati ma, si ribadisce, costituisce un’esplicazione dei poteri in capo al Comune quale autorità concedente di un’area demaniale; il Comune infatti con il provvedimento impugnato mira a reprimere un’attività edilizia abusivamente realizzata su un terreno che non appartiene al privato ed è soggetto alla disciplina pubblicistica dei beni demaniali.
Tale regime giuridico è comprovato dall'art. 824, secondo comma, cod. civ., a norma del quale i cimiteri comunali sono soggetti al regime giuridico del demanio pubblico.
Con la detta disposizione si è introdotta una conformazione generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi diritti: ne consegue la natura pacificamente concessoria del diritto di sepolcro.
In questa prospettiva, la decadenza dalla posizione di concessionario dell’area comporta la perdita della proprietà del bene ivi costruito in quanto non è possibile separare il suolo demaniale dall'elemento funerario sopra di esso realizzato, formando i due beni un unicum inscindibile anche in base ai principi generali che presiedono all'istituto del diritto di superficie di cui all'art. 953 cod. civ.: si tratta del c.d. effetto devolutivo, in base al quale le opere edilizie realizzate al di sopra di beni demaniali acquisiscono anch'esse, allo scadere della concessione, la medesima natura di bene pubblico (si veda in tal senso pure l'art. 44 del citato regolamento comunale di polizia mortuaria, a norma del quale "i manufatti costruiti da privati su aree cimiteriali poste in concessione diventano di proprietà dell'Amministrazione Comunale come previsto dall'art. 953 del C.C., allo scadere della concessione, se non rinnovata").
Di qui la trasformazione in bene demaniale anche del manufatto, per effetto del provvedimento di decadenza in questa sede gravato, e la possibilità che lo stesso possa essere affidato ulteriormente in concessione sulla base delle regole e dei principi vigenti in materia.
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1. Il sig. Re. è proprietario di una cappella (cd. cappella Sg.Fe.) presso il cimitero di Poggioreale a Napoli, acquistata nel 2006 dal precedente proprietario, quale concessionario del suolo cimiteriale.
Con atto del 20.10.2006 il Comune di Napoli ha notificato al ricorrente l’avvio del procedimento di decadenza dalla concessione, contestandogli l’esecuzione abusiva di opere edilizie.
Con la determina impugnata n. 35 del 21.04.2008 il Comune ha poi, definendo il procedimento avviato, disposto la decadenza della concessione del suolo cimiteriale e l’acquisizione della relativa cappella al patrimonio comunale.
Il sig. Re. ha impugnato con il ricorso in epigrafe il detto provvedimento denunziando i seguenti vizi:
   - violazione di legge, eccesso di potere, difetto di istruttoria, violazione dell’art. 97 Cost.;
   - violazione di legge, violazione del principio della tutela dell’affidamento, carenza di motivazione, eccesso di potere per illogicità, contraddittorietà e ingiustizia manifesta;
   - violazione art. 7 L. 94/1982, violazione art. 10 L. 47/1985, eccesso di potere per sviamento, esorbitanza;
   - violazione di legge, eccesso di potere per difetto di istruttoria, errore sui presupposti di legge, violazione del giusto procedimento, eccesso di potere per sviamento, illegittimità dell’art. 49 del regolamento comunale di polizia mortuaria per violazione dell’art. 31 DPR 380/2001;
   - eccessiva durata del procedimento, ulteriore eccesso di potere, violazione del principio dell’affidamento;
   - manifesta incompetenza, eccesso di potere.
...
2. Il ricorso è infondato.
2.1 Con il primo motivo si deduce che le opere realizzate in assenza di autorizzazione sarebbero di portata minimale e non avrebbero comportato la necessità del rilascio di un permesso edilizio.
Il motivo non ha pregio.
Dal sopralluogo effettuato dagli uffici comunali (verbale prot. 2679/2006) risulta che presso la Cappella Sg.:
   - è stata realizzata ex novo un’edicola funeraria in luogo di un manufatto funerario preesistente, di altezza e superficie inferiore a quello edificato;
   - la sagoma del nuovo manufatto è notevolmente difforme da quello precedente;
   - la nuova edicola funeraria consente un numero maggiore di tumulazioni.
Il Comune, trattandosi di nuova edificazione, ha correttamente ritenuto necessaria l’autorizzazione comunale (art. 29 del regolamento comunale di Polizia mortuaria del 21.02.2006 - delibera CC 11/2006, e per la disciplina previgente art. 231 dello stesso regolamento).
Il regolamento cimiteriale prevede infatti espressamente che necessitino di permesso gli interventi edilizi i quali, come quello in esame, comportino la realizzazione di nuovi edifici, incrementi volumetrici e di superfici e il mutamento del numero e della tipologia delle sepolture.
L’art. 49 del medesimo regolamento dispone altresì che la realizzazione di opere in difformità o in assenza del permesso di costruire, ove necessario, comporti la decadenza dalla concessione.
Alla luce delle risultanze dell’accertamento comunale non può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui le opere realizzate hanno una portata trascurabile in quanto la normativa regolamentare prevede espressamente la necessità del permesso edilizio per opere della tipologia realizzata.
Si deve poi escludere che la proposizione di una domanda di permesso in sanatoria ex art. 36 DPR/2001 possa aver comportato l’automatica inefficacia della determina n. 34/2008.
La concessione da parte del Comune di aree o porzioni di un cimitero pubblico è, come meglio esposto in seguito, soggetta al regime demaniale dei beni, il quale si atteggia in modo diverso rispetto alla ordinaria disciplina edilizia.
Ne deriva che le norme richiamate integrano parte di una regolamentazione autonoma e, per molti versi, eterogenea rispetto a quella recata per l’attività edilizia libera, cosicché il meccanismo disciplinato dall’art. 36 DPR 380/2001 in materia di concessioni cimiteriali non assume alcun valore di principio generale.
...
2.3. Con il terzo motivo si deduce che le opere realizzate sarebbero soggette, eventualmente, a DIA e quindi assoggettabili a sanzione pecuniaria.
La censura non ha pregio.
Si deve escludere che le opere realizzate potessero essere realizzate tramite DIA in base alle norme previste dal TU Edilizia DPR 380/2001, in primo luogo perché con tutta evidenza l’intervento ha dato luogo ad una nuova costruzione, per cui sarebbe necessario il rilascio di un permesso di costruire.
Peraltro, come già ricordato, il regolamento cimiteriale (artt. 29 e 49) prevede che opere della tipologia descritte siano sottoposte a permesso edilizio e che, in ogni caso, un’edificazione eseguita in assenza delle autorizzazioni prescritte implica la decadenza della concessione e la demolizione delle opere abusive; tale disciplina si distingue da quella prevista per opere edilizie realizzate su fondi privati, in quanto trattandosi di area demaniale in concessione, vincolata a scopi funerari, il regime edilizio presenta caratteristiche più restrittive, soggiacendo ai poteri regolatori e conformativi di stampo pubblicistico; in questa prospettiva lo ius sepulcri vantato dal ricorrente attiene ad una fase di utilizzo del bene che segue lo sfruttamento del suolo mediante edificazione della cappella e che soggiace all'applicazione del regolamento di polizia mortuaria. Questa disciplina si colloca ad un livello ancora più elevato di quello che contraddistingue l'interesse del concedente e soddisfa superiori interessi pubblici di ordine igienico-sanitario, oltre che edilizio e di ordine pubblico (Tar Napoli sez. VII n. 920/2014, Cons. Stato n. 1330/2010).
2.4. Con il quarto motivo si lamenta che l’acquisizione dell’area sia avvenuta senza la previa notifica dell’ordinanza di demolizione delle opere abusive secondo lo schema procedimentale di cui all’art. 31 DPR 380/2001.
La censura è infondata.
Il provvedimento gravato non viene assunto in applicazione del citato art. 31 che concerne l’edificazioni abusiva su immobili privati ma, si ribadisce, costituisce un’esplicazione dei poteri in capo al Comune quale autorità concedente di un’area demaniale; il Comune infatti con il provvedimento impugnato mira a reprimere un’attività edilizia abusivamente realizzata su un terreno che non appartiene al privato ed è soggetto alla disciplina pubblicistica dei beni demaniali.
Tale regime giuridico è comprovato dall'art. 824, secondo comma, cod. civ., a norma del quale i cimiteri comunali sono soggetti al regime giuridico del demanio pubblico.
Con la detta disposizione si è introdotta una conformazione generale delle aree cimiteriali, e quindi dei relativi diritti: ne consegue la natura pacificamente concessoria del diritto di sepolcro.
In questa prospettiva, la decadenza dalla posizione di concessionario dell’area comporta la perdita della proprietà del bene ivi costruito in quanto non è possibile separare il suolo demaniale dall'elemento funerario sopra di esso realizzato, formando i due beni un unicum inscindibile anche in base ai principi generali che presiedono all'istituto del diritto di superficie di cui all'art. 953 cod. civ.: si tratta del c.d. effetto devolutivo, in base al quale le opere edilizie realizzate al di sopra di beni demaniali acquisiscono anch'esse, allo scadere della concessione, la medesima natura di bene pubblico (si veda in tal senso pure l'art. 44 del citato regolamento comunale di polizia mortuaria, a norma del quale "i manufatti costruiti da privati su aree cimiteriali poste in concessione diventano di proprietà dell'Amministrazione Comunale come previsto dall'art. 953 del C.C., allo scadere della concessione, se non rinnovata").
Di qui la trasformazione in bene demaniale anche del manufatto, per effetto del provvedimento di decadenza in questa sede gravato, e la possibilità che lo stesso possa essere affidato ulteriormente in concessione sulla base delle regole e dei principi vigenti in materia (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

VARI: Fuochi d'artificio e sicurezza (12.12.2017 - link a www.regione.lombardia.it).

AMBIENTE-ECOLOGIALegna da ardere? Istruzioni per il corretto uso di una risorsa importante (link a http://ita.arpalombardia.it).

VARI: Deposito del prezzo dal notaio - Istruzioni per l'uso (Consiglio Nazionale del Notariato, 14.11.2017).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U.U.E. 19.12.2017 n. L 337:
"REGOLAMENTO (UE) 2017/2367 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017 che modifica la direttiva 2009/81/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2017/2366 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017 che modifica la direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2017/2365 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017 che modifica la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti";
"REGOLAMENTO DELEGATO (UE) 2017/2364 DELLA COMMISSIONE del 18.12.2017 che modifica la direttiva 2014/25/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le soglie applicabili per le procedure di aggiudicazione degli appalti".
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Appalti, dal 01.01.2018 nuove soglie Ue.
Nei settori speciali le soglie comunitarie per servizi e forniture salgono da 418mila a 443mila euro. Nei settori ordinari la nuova soglia è 5,548 milioni di euro per i lavori e 221.000 euro per i servizi.
La Commissione europea ha fissato i nuovi importi in vigore dal 01.01.2018 delle soglie per l'applicazione delle norme in materia di procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici e delle concessioni.
I nuovi importi sono stabiliti nei Regolamenti (UE) nn. 2364, 2365, 2366 e 2367 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale dell'Unione europea n. L 337 del 19.12.2017. Tali regolamenti entreranno in vigore il 1 gennaio 2018 e sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri. Le nuove soglie soppiantano quelle precedentemente in vigore.
Nei settori speciali le soglie comunitarie per servizi e forniture salgono da 418mila a 443mila euro.
Nei settori ordinari la nuova soglia è 5,548 milioni di euro per i lavori e 221.000 euro per i servizi.
SETTORI SPECIALI (REGOLAMENTO UE 2017/2364)
L'articolo 15 della direttiva 2014/25/UE è così modificato:
   1) alla lettera a), l'importo «418 000 EUR» è sostituito da «443 000 EUR»;
   2) alla lettera b), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR».
SETTORI ORDINARI (REGOLAMENTO UE 2017/2365)
La direttiva 2014/24/UE è così modificata:
   1) L'articolo 4 è così modificato:
      a) alla lettera a), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR»;
      b) alla lettera b), l'importo «135 000 EUR» è sostituito da «144 000 EUR»;
      c) alla lettera c), l'importo «209 000 EUR» è sostituito da «221 000 EUR»;
   2) all'articolo 13, il primo comma è sostituito dal seguente:
      a) alla lettera a), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR»;
      b) alla lettera b), l'importo «209 000 EUR» è sostituito da «221 000 EUR».
CONCESSIONI (REGOLAMENTO UE 2017/2366)
All'articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2014/23/UE, l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR».
DIFESA E SICUREZZA (REGOLAMENTO UE 2017/2367)
L'articolo 8 della direttiva 2009/81/CE è così modificato:
   1) alla lettera a), l'importo «418 000 EUR» è sostituito da «443 000 EUR»;
   2) alla lettera b), l'importo «5 225 000 EUR» è sostituito da «5 548 000 EUR» (20.12.2017 - link a www.casaeclima.com).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 15.12.2017 n. 292  "Modifica del saggio di interesse legale" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, decreto 13.12.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 15.12.2017, "Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento regionale ai decreti legislativi n. 126/2016, n. 127/2016, n. 222/2016 e n. 104/2017, relative alla disciplina della conferenza dei servizi, ai regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti e a ulteriori misure di razionalizzazione" (L.R. 12.12.2017 n. 36).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 50 del 15.12.2017, "Integrazioni alla legge regionale 05.12.2008, n. 31 (Testo Unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale). Nuove norme per la mitigazione degli effetti delle crisi idriche nel settore agricolo, per la difesa idrogeologica e per la riqualificazione territoriale" (L.R. 12.12.2017 n. 34).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 15.12.2017, "Determinazioni in merito ai tempi e alle modalità di presentazione e/o aggiornamento, per l’anno 2018, della comunicazione per l’utilizzazione agronomica degli effluenti di allevamento e degli altri fertilizzanti azotati prevista dalle d.g.r. n. 5171/2016 (zone vulnerabili) e n. 5418/2016 (zone non vulnerabili)" (deliberazione G.R. 12.12.2017 n. 15904).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 15.12.2017, "Modifica dell’allegato alla deliberazione di Giunta regionale 08.03.2002, n. VII/8313 e dell’appendice relativa a criteri e modalità per la redazione della documentazione di previsione d’impatto acustico dei circoli privati e pubblici esercizi" (deliberazione G.R. 04.12.2017 n. 7477).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 14.12.2017 n. 291 "Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato" (Legge 30.11.2017 n. 179).

ENTI LOCALI: G.U. 14.12.2017 n. 291 "Censimento del Patrimonio ICT delle Amministrazioni e qualificazione dei Poli Strategici Nazionali" (Agenzia per l'Italia Digitale, circolare 30.11.2017 n. 5).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 50 del 12.12.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21 gennaio 2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di Tecnico competente in acustica ambientale alla data del 30.11.2017, in attuazione della legge 26.10.1995, n. 447 e del decreto legislativo 17.02.2017, n. 42" (comunicato regionale 05.12.2017 n. 179).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. n. 50 del 12.12.2017, "Pubblicazione dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgs. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte b, punto 2 - Aggiornamento al 30.11.2017" (comunicato regionale 05.12.2017 n. 178).

ENTI LOCALI: G.U. 06.12.2017 n. 285 "Differimento dal 31.12.2017 al 28.02.2018 del termine per l’approvazione del bilancio di previsione 2018/2020 da parte degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 29.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 06.12.2017 n. 285 "Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per l’installazione e l’esercizio di contenitori-distributori, ad uso privato, per l’erogazione di carburante liquido di categoria C" (Ministero dell'Interno, decreto 22.11.2017).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 05.12.2017 n. 284 "Testo del decreto-legge 16.10.2017, n. 148, coordinato con la legge di conversione 04.12.2017, n. 172, recante: “Disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili. Modifica alla disciplina dell’estinzione del reato per condotte riparatorie”.
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Di particolare interesse, si leggano:
Art. 1-bis - Utilizzo dei proventi da oneri di urbanizzazione per spese di progettazione
Art. 17-bis - Disposizioni in materia di competenze dei comuni relativamente ai siti di importanza comunitaria
Art. 19-terdecies - Modifiche al decreto legislativo n. 159 del 2011 in materia di documentazione antimafia
Art. 19-quaterdecies - Introduzione dell’articolo 13-bis della legge 31.12.2012, n. 247, in materia di equo compenso per le prestazioni professionali degli avvocati

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 18 dell'01.12.2017, "Regolamentazione dei percorsi di formazione abilitanti e di aggiornamento per «Installatore e manutentore straordinario di impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili ai sensi dell’articolo 15, comma 2 del decreto legislativo 03.03.2011 n. 28» e in attuazione della d.g.r. X/7143 del 02.10.2017" (decreto D.U.O. 24.11.2017 n. 14744).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 48 del 28.11.2017 "Ulteriore sospensione, per mesi sei, della decorrenza del periodo transitorio di dodici mesi, previsto dall’art. 13, comma 2, secondo periodo, della l.r. 33/2015 e avviato, a far data dal 04.05.2016, dal decreto n. 3809/2016, fino alla scadenza del quale è consentito il deposito della documentazione di cui all’art. 6 della medesima l.r. 33/2015 in formato sia elettronico che cartaceo" (decreto D.U.O. 22.11.2017 n. 14649).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

INCARICHI PROFESSIONALI: Oggetto: Linee Guida ANAC in materia di affidamento dei servizi legali (Consiglio Nazionale Forense, nota 21.12.2017 n. 30842 di prot.).
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Il Consiglio Nazionale Forense così conclude:
"In conformità alle direttive 2014/24/UE e 2014/25/UE ed alla disciplina contenuta nel d.lgs. 18.04.2016, n. 50, i servizi legali elencati all'art. 17, comma 1, lett. d), del medesimo d.lgs. n. 50 del 2016 possono essere affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici in via diretta, secondo l'intuitus personae e su base fiduciaria, e nel rispetto dei principi generali che sempre guidano l'azione amministrativa, mentre gli altri servizi legali, ai sensi del combinato disposto dell'allegato IX al codice e degli artt. 140 e ss., devono essere affidati mediante un procedimento comparativo di evidenza pubblica semplificato nei termini e secondo i presupposti identificati da tali ultime disposizioni, così come ha sottolineato il giudice amministrativo in una recentissima decisione (TAR Puglia, sez. II, sentenza 11.12.2017, n. 1289), confermando la posizione del Consiglio di Stato espressa nella sentenza n. 2730 del 2012".

TRIBUTI: OGGETTO: Interpello - Art. 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 - Operazioni ipotecarie connesse all’attività di riscossione coattiva da parte degli Enti locali – Iscrizioni ex art. 77 del D.P.R. 29.09.1973, n. 602 - Trattamento tributario (Agenzia delle Entrate, risoluzione 12.12.2017 n. 149/E).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Rilascio nuove funzionalità applicative per la gestione nella Posizione Assicurativa dei pubblici dipendenti degli “eventi con accredito figurativo” - PassWeb (INPS, messaggio 07.12.2017 n. 4939 - link a www.inps.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Chiarimenti ministeriali per la gestione dei materiali di riporto (ANCE di Bergamo, circolare 07.12.2017 n. 216).

EDILIZIA PRIVATA: OGGETTO: Interpello Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212- Detrazione per lavori antisismici ai sensi dell’art. 16, comma 1-quater, del DL n. 63 del 2013 (Agenzia delle Entrate, risoluzione 29.11.2017 n. 147/E).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Accatastamento fabbricati rurali (UNCEM Piemonte, nota 13.10.2017).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Oggetto: Infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione – Profili catastali (Agenzia delle Entrate -  Direzione Centrale Catasto, Cartografia e Pubblicità Immobiliare, circolare 08.06.2017 n. 18/E).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: Legge di bilancio 2018: le novità del “pacchetto casa”. Bonus energetico cedibile anche in caso di lavori sul singolo appartamento. Debutto assoluto della detrazione del 36% per le spese finalizzate a interventi di “sistemazione a verde” (27.12.2017 - link a www.fiscooggi.it).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - VARI: Legge di bilancio 2018: arriva il via libera definitivo. Prorogate le detrazioni potenziate relative agli interventi di recupero edilizio e per il risparmio energetico, confermato il bonus mobili ed elettrodomestici, spazio al nuovo bonus verde (26.12.2017 - link a www.fiscooggi.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Scatti di anzianità a Roma? Come non gestire le progressioni orizzontali (23.12.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: Periodicità di manutenzione e "prova fumi".
Una precisa regolazione e una corretta manutenzione degli impianti termici consentono di ridurre sensibilmente i consumi e con essi anche la spesa sostenuta per farli funzionare (22.12.2017 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Deodato, La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile? (20.12.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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SOMMARIO: 1.- Il problema antico del conflitto tra trasparenza e privacy; 2.- la diversa costruzione normativa del diritto di accesso documentale e di quello civico generalizzato; 3.- L’utilizzo, ancora, della soft law per orientare l’esame delle istanze di accesso civico generalizzato; 4.- la difficile valutazione dell’esistenza di un pregiudizio concreto che imponga il diniego dell’accesso; 5.- Ulteriori criticità della disciplina dell’accesso civico generalizzato; 6.- Considerazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Soricelli, Profili problematici e ricostruttivi della natura giuridica della Conferenza di Servizi dopo la riforma Madia (20.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. 2. La semplificazione amministrativa come “obiettivo” necessario del legislatore per la cd. “amministrazione di risultato”?. 3. La questione aperta della natura giuridica della conferenza di servizi: un nuovo procedimento amministrativo?. 4. Considerazioni conclusive.

PUBBLICO IMPIEGO: Produttività, fasce, assenze e presenze: la coazione a ripetere gli errori nell’organizzazione del lavoro pubblico (19.12.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Quei funambolismi giuridici che nuocciono alla legittimità e all’efficacia dell’azione amministrativa (10.12.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Whistleblowing diventa legge con un look ampliamente rinnovato. Le linee guida adottate dall’Anac prevedono modalità anche informatiche e promuovono l’utilizzo di strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante (14.12.2017 - link a www.fiscooggi.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Le regole per autorizzare gli incarichi ai dipendenti (11.12.2017 - link a www.gianlucabertagna.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: R. Caponigro, Il potere amministrativo di autotutela (06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Cenni sulle origini - 2. La prima disciplina della l. n. 15 del 2005 - 3. Le modifiche del 2014 – 4. La riforma Madia - 4.1 La ratio del limite temporale per l’esercizio del potere – 4.2 Il potere di annullamento sine die previsto dal comma 2-bis - 4.3. Ulteriori ipotesi di deroga al limite temporale – 5. Il perimetro del ricorso incidentale dell’amministrazione – 6. La tutela del controinteressato all’attività oggetto di SCIA – 7. Osservazioni conclusive.

ATTI AMMINISTRATIVI: P. Marzaro, Leale collaborazione e raccordo tra Amministrazioni; su un principio del sistema a margine delle ‘riforme Madia’ (06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. ‘Concentrazione di procedimenti’ e collaborazione tra amministrazioni: raccordo tra interessi vs semplificazione – 2. Il principio di leale collaborazione nell’ordinamento amministrativo – 3. Segue. La lealtà della collaborazione, da canone metodologico a principio di portata sostanziale – 4. Il raccordo progressivo tra Amministrazioni nelle riforme cd. Madia: linee generali – 5. Silenzio assenso tra Amministrazioni: il ‘freno’ alla cooperazione – 6. La conferenza semplificata e asincrona e la perdita della natura dialogica. Frammenti di leale collaborazione: dissenso costruttivo ‘rinforzato’ e problema dell’adeguatezza dei termini – 7. Segue. Amministrazione procedente e spazi di raccordo. – 8. La conferenza simultanea in modalità sincrona. Partecipazione ‘in presenza’ e ‘fattore tempo’: i parametri della leale collaborazione – 9. Segue. Il ‘problema’ del rappresentante unico e le ‘strettoie’ procedimentali a scopo di semplificazione: i meccanismi di superamento del raccordo, i ‘luoghi’ della mediazione e il ruolo della leale collaborazione – 10. Segue. La devoluzione della decisione alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e la cooperazione affievolita – 11. Conclusioni. Coordinamento vs semplificazione: il ruolo di un principio immanente al sistema.
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Abstract: Il lavoro si prefigge di esaminare gli istituti del raccordo tra Amministrazioni disciplinati dalle ‘riforme Madia’ alla luce di un principio dell’ordinamento che ha trovato importanti teorizzazioni sul versante costituzionalistico –il principio di leale collaborazione tra soggetti pubblici– ma non altrettanto dal punto di vista amministrativistico.
Studiare il silenzio-assenso tra amministrazioni e le conferenze di servizi nella prospettiva del rispetto di un principio che lo stesso giudice amministrativo definisce come ‘immanente al sistema’, ma utilizza al più come clausola residuale in sede di sindacato sul coordinamento tra enti pubblici, offre l’occasione per una riflessione sulla portata della leale collaborazione, a partire dalle relazioni codificate tra Amministrazioni, finora assente nella dottrina amministrativistica.
Ciò permette di evidenziare l’autonomia e il peso che può assumere siffatto principio, specialmente a fronte di una politica legislativa di semplificazione sempre più incisiva, nella quale la garanzia degli interessi cd. sensibili nelle decisioni pluristrutturate viene sempre più sacrificata, e a fronte della quale è la capacità espansiva che i principi presentano a contatto col caso concreto a poter (cercare di) assicurare un bilanciamento degli interessi in gioco.
All’esito di questo lavoro risulteranno in modo più chiaro le potenzialità del principio di leale collaborazione, valorizzato nelle sue due componenti, lealtà e cooperazione, e la sua capacità di porsi come autonomo canone di legittimità delle relazioni tra Amministrazioni, non soltanto da un punto di vista formale ma anche sostanziale.

ATTI AMMINISTRATIVI: M. A. Sandulli, “Principi e regole dell’azione amministrativa”: riflessioni sul rapporto tra diritto scritto e realtà giurisprudenziale (06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. I limiti della funzione giurisdizionale: la necessaria distinzione tra interpretazione e “creazione”. 3. I rischi di un passaggio dalla (fondamentale) funzione di nomofilachia alla tendenza verso una giurisprudenza creativa contra legem. 4. Il problema del valore del “precedente”. 5. Considerazioni conclusive.

APPALTI: G. Vercillo, L’illecito antitrust ed esclusione dalle gare pubbliche. Tra vecchie e nuove incertezze (06.12.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. - 2. L’illecito antitrust e la sua rilevanza ai fini della partecipazione alle gare pubbliche nella disciplina del d.lgs. n. 163/2006. - 3. La qualificazione dell’illecito antitrust come motivo di esclusione dalle gare pubbliche ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006 e le problematiche applicative. - 4. L’illecito antitrust e la sua rilevanza ai fini della partecipazione alle gare pubbliche nella disciplina del d.lgs. n. 50/2016. - 5. La qualificazione dell’illecito antitrust come motivo di esclusione dalle gare pubbliche ai sensi dell’art. 80, comma 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016 e le problematiche applicative. - 6. Considerazioni conclusive.

CONSIGLIERI COMUNALI: Direttore generale, figura inutile e costosa per gli enti locali (04.12.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI: Province ancora nel baratro a un anno dal referendum costituzionale (04.12.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ENTI LOCALI: Caos anche sulle attività di volontariato (30.11.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Pirazzoli, Il potere di influenza delle Autorità amministrative indipendenti (29.11.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. In tema di influenza: una premessa. 2. L’indipendenza funzionale delle Autorità amministrative indipendenti. 3. Chi è indipendente da chi? 4. Diverse forme di moral suasion. 5. Considerazioni conclusive sulla responsabilità: la critica dell’opinione pubblica.

COMPETENZE GESTIONALI: Nulla osta per la mobilità è atto del privato datore di lavoro. Estromessi gli organi di governo (18.11.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’allegazione del certificato di destinazione urbanistica al decreto di trasferimento di cui all’art. 591-bis c.p.c. (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 23.10.2017 n. 517-2017/C).
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Sommario: 1. Allegazione del CDU all’atto di trasferimento di terreni e lottizzazione abusiva. - 2. L’obbligo di allegazione del CDU nella vendita di terreni a mezzo di atto negoziale ai sensi dell’art. 30 del Testo Unico Edilizia. - 3. La disciplina dell’acquisizione e allegazione del CDU in sede di espropriazione forzata immobiliare. - 4. La sequenza temporale della riformulazione degli artt. 567 e 591-bis c.p.c., 173 bis e 173-quater disp. att. c.p.c. - 5. Conclusioni.
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Lo studio in sintesi (Abstract): Nella vendita forzata immobiliare in esecuzione individuale, la disciplina dell’acquisizione e allegazione del CDU si ricava dal combinato disposto e dall’evoluzione degli artt. 567 e 591-bis c.p.c., 173-bis e 173-quater disp. att. c.p.c.. L’art. 30 Testo Unico Edilizia non si applica, se non nella minima parte in cui lo stesso è richiamato dalle norme processuali.
A questa conclusione si perviene sulla base di elementi letterali e sistematici: la vendita forzata non è un “atto tra vivi”, non è “stipulata” e non può ricomprendere dichiarazioni dell’alienante; la vendita forzata ha un’espressa disciplina che ha espunto, tra l’altro, il concetto di vigenza e aggiornamento del CDU; il regime della nullità degli atti processuali, della loro rilevabilità, impugnazione e sanatoria è diverso da quello degli atti negoziali e, nel caso di esecuzione forzata in particolare, è il criterio del raggiungimento dello scopo, alla luce della funzione e della struttura della fase della vendita, a guidare l’interprete.
Dalla lettura delle disposizioni attualmente vigenti emerge la volontà del legislatore di stabilire un meccanismo che sia idoneo a mettere in condizione, sia l’ufficio che i potenziali acquirenti, di conoscere la situazione e destinazione urbanistica dei terreni (oltre che dei fabbricati) ad evitare di porre in vendita beni non commerciabili, perché frutto di una precedente lottizzazione abusiva, o di porre in vendita beni descritti con una destinazione e funzione diversa da quella effettiva in funzione di una vendita competitiva, trasparente e stabile nel rispetto dell’affidamento dei terzi e nell’interesse della procedura.
Il CDU da allegare al decreto non può allora che essere quello già acquisito alla procedura, contenente la destinazione urbanistica già indicata in avviso di vendita e debitamente pubblicizzata insieme all’elaborato peritale (nei casi in cui lo stesso è ritenuto obbligatorio per i terreni), acquisizione e allegazione che rispondono anche all’esigenza di dare comunicazione al Comune della alienazione in corso.
Il tutto è conforme alla regola dell’identità di descrizione del bene tra ordinanza di vendita e decreto di trasferimento.
Tale ricostruzione non impedisce che il delegato possa ritenere comunque opportuno o necessario, sia durante la vendita sia in occasione della redazione della bozza del decreto, acquisire un nuovo certificato per verificare l’attualità dello statuto urbanistico del bene (ad esempio in caso di risalente CDU o di dubbio sull’attualità della destinazione in esso indicata), ma facendosi carico –nel caso risulti una variazione degli strumenti urbanistici e della destinazione del bene- dell’eventualità che questo sia diverso da quello descritto in perizia e/o nell’avviso di vendita e che il procedimento di vendita possa ritenersi viziato, se del caso, rivolgendosi al G.E. con istanza ex art. 591-ter c.p.c.
Il Giudice potrà fare uso dei suoi poteri d’ufficio, per verificare l’eventuale difformità del bene e/o scostamento di valore rispetto alla documentazione agli atti, per interpellare gli interessati (anche per anticipare il decorso del termine di decadenza di cui all’art. 617 c.p.c.) e/o per revocare un’eventuale aggiudicazione che ritenesse gravemente viziata.

VARI: Apposizione dei sigilli e delega al notaio (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 23.10.2017 n. 516-2017/C).
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Sommario: 1. Premessa. – 2. La duplice fase del procedimento di apposizione dei sigilli. – 3. La delegabilità al notaio dell’attività di sigillazione. - 4. Attività da compiersi da parte del notaio delegato (problematiche e limiti).
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Abstract: lo studio analizza la problematica della legittimità della delega giudiziale al notaio al compimento dell’attività di sigillazione.
Rilevato il distinguo tra le due fasi in cui si articola il procedimento di apposizione dei sigilli, sulla scorta delle disposizioni normative di riferimento, delle disposizioni di carattere più generale, nonché sul piano di ordine sistematico, si perviene ad affermare la delegabilità al notaio, da parte del giudice, al compimento dell’attività di materiale apposizione dei sigilli, la quale, nella prospettiva accolta, rappresenta un’ulteriore espressione, anche alla luce di quanto disposto dall’art. 1 della legge notarile, del ruolo del notaio quale interlocutore privilegiato del giudice ove sussistano spazi di operatività per il ricorso alla delega di attività giurisdizionali (nella specie attività di giurisdizione in senso ampio).
Infine, si delineano le attività che il notaio concretamente compie nel procedere alla materiale apposizione di sigilli nonché i limiti che incontra.

VARI: Recenti riforme in tema di garanzie del credito bancario (Consiglio Nazionale del Notariato, studio 08.06.2017 n. 1-2017/C).
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Sommario: 1. Considerazioni generali (R. Lenzi); 2. Il prestito vitalizio ipotecario (R. Lenzi); 3. Le esperienze straniere (R. Lenzi); 4. La riforma (R. Lenzi); 5. Pvi e patto marciano improprio (R. Lenzi); 6. L’effetto esdebitatorio (R. Lenzi); 7. La legittimazione a disporre (R. Lenzi); 8. Concorso tra creditore ex pvi e terzi creditori (R. Lenzi); 9. Considerazioni di sintesi sul pvi (R. Lenzi); 10. L’art. 120-quinquiesdecies, t.u. banc. (M. Tatarano); 11. L’art. 48-bis, t.u. l. banc. (M. Tatarano); 12. Le novità normative e il patto marciano di diritto comune (R. Lenzi); 13. Il patto marciano di diritto comune nell’evoluzione giurisprudenziale (R. Lenzi); 14. Incidenza della disciplina speciale sul patto marciano di diritto comune (R. Lenzi).
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Lo studio in sintesi (Abstract): Lo studio svolge un tentativo di sistemazione organica del rinnovato quadro delle garanzie bancarie, portanti una struttura genericamente riconducibile alla figura, di ricostruzione dottrinaria e giurisprudenziale, del cd. patto marciano.
In primo luogo viene esaminata la disciplina del prestito vitalizio ipotecario, nella configurazione risultante dalla recente riforma, con particolare riferimento alle modalità di escussione della specifica garanzia ed alla relazione intercorrente tra ipoteca e legittimazione del creditore a vendere per soddisfarsi sul ricavato.
Lo studio passa poi ad analizzare in chiave sistematica le recenti modifiche del testo unico bancario, ed in particolare l’art. 120-quinquiesdecies, di cui ad oggi non risulta tuttavia essere stato ancora emanato il decreto attuativo ex comma 5, e l’art. 48-bis, soffermandosi sull’individuazione della rispettiva fattispecie normativa e del relativo ambito di applicazione, nonché, in particolare, sui concreti presupposti di operatività del c.d. “patto marciano” e sulle sue possibili implementazioni di natura negoziale.
Nella parte finale lo studio, premessa una rassegna sull’evoluzione giurisprudenziale in tema di patto commissorio e di patto marciano di diritto comune, esamina l’incidenza della legislazione speciale di nuova introduzione sul possibile residuo ambito applicativo della cessione in garanzia.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

PUBBLICO IMPIEGO: Whistleblowing, la legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale. Anac predisporrà un ufficio apposito per le segnalazioni (15.12.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI SERVIZISocietà in house e p.a, no a cumulo affidamenti. Impresa di un ministero non può avere altri contratti pubblici.
Una società in house di un ministero non può essere affidataria diretta di contratti da parte di altre amministrazioni dello Stato.

È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione con il Parere sulla Normativa 29.11.2017 n. 1234 - rif. AG 17/17/AP  che risolve una richiesta di parere della società Studiare Sviluppo, partecipata dal ministero dell'economia e delle finanze. In particolare, si sosteneva che la società avesse tutte le caratteristiche della società in house del ministero dell'economia e delle finanze e, in generale, delle altre amministrazioni statali; da ciò veniva fatto discendere che potesse essere affidataria diretta di contratti pubblici, secondo un rapporto configurabile in termini di controllo analogo non soltanto con il ministero, ma anche con tutte le altre amministrazioni dello Stato.
Il presupposto era quindi che gli stessi rapporti tra i singoli ministeri, stante l'unitarietà dell'amministrazione, consentirebbero di ritenere sussistente il controllo analogo in quanto esercitato congiuntamente con il ministero dell'economia e delle finanze e quindi di acquisire affidamenti diretti da parte di ogni altra amministrazione dello Stato.
L'Anac non concorda con la tesi prospettata dalla società perché «la disamina dell'atto costitutivo e dello statuto di Studiare Sviluppo non conferma la rispondenza della società al modello legale per quanto concerne il rapporto con le amministrazioni dello Stato diverse dal socio unico», cioè diverse dal ministero dell'economia e delle finanze.
Ad avviso dell'Anac, nello statuto della società non vi sono clausole comprovanti la sussistenza di un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi in capo alle altre amministrazioni dello Stato, prevedendo soltanto un controllo di queste ultime sul singolo affidamento o convenzione di cui siano parti.
In specie, sugli atti societari esaminati non appare comprovata alcuna capacità delle singole amministrazioni statali di esercitare «un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata». Né può essere avallata, ha detto l'Autorità, una nozione di Stato tale per cui, nel settore dei contratti pubblici, l'amministrazione dello Stato può individuarsi in maniera unitaria come sarebbe confermato da diverse norme dell'ordinamento giuridico, in particolare dall'art. 3, comma 1, lett. a) e lett. b), del codice dei contratti pubblici che fa riferimento genericamente alle «amministrazioni aggiudicatrici dello Stato».
In linea generale, ai sensi dell'art. 95 della Costituzione, ha detto l'Anac, i ministeri sono dotati con legge di una propria organizzazione, attribuzioni, autonomia e capacità decisionale, con conseguente responsabilità per l'attività compiuta, ivi inclusa l'attività contrattuale. Il ministero, come soggetto responsabile per la propria attività amministrativa e contrattuale, si configura come amministrazione aggiudicatrice e tale natura conserva nell'affidamento diretto di un contratto a un proprio organismo in house quale propria articolazione organizzativa.
Quindi, allo stato attuale, non è possibile che una società di un ministero possa essere affidataria in house da parte di tutte le altre amministrazioni dello Stato (articolo ItaliaOggi del 22.12.2017).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIBando tipo per servizi e forniture. Strumento che garantisce standard di qualità della p.a.. Approvato dall'autorità anticorruzione vincolante per affidamenti superiori a 209 mila.
Al via il bando-tipo dell'Anac (Autorità nazionale anticorruzione), vincolante per le gare a procedura aperta per l'affidamento di servizi e forniture di importo superiore a 209 mila euro con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.

L'Anac ha approvato con la
delibera 22.11.2017 n. 1228 il primo bando-tipo (1/2017), redatto sulla base delle indicazioni del vigente codice dei contratti pubblici,
In attuazione dell'articolo 213 del decreto 50/2016 il bando-tipo si pone l'obiettivo di fornire alle stazioni appaltanti uno strumento a garanzia di efficienza, standard di qualità dell'azione amministrativa e omogeneità dei procedimenti. Il provvedimento giunge a conclusione di una ampia consultazione pubblica e si sostanzia in realtà in uno schema di disciplinare, ben più complesso del semplice bando di gara, ma certamente più utile ed efficace dal momento che affronta tutti i nodi connessi alle principali clausole di gara.
Il disciplinare è corredato di una nota illustrativa che espone le scelte effettuate dall'Anac sui singoli istituti nonché da una relazione Air che motiva le scelte effettuate rispetto alle osservazioni degli stakeholders. Il disciplinare-tipo sarà sottoposto a verifica di impatto della regolazione che sarà condotta dopo 12 mesi dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ma l'Authority ha già invitato le stazioni appaltanti e gli operatori economici a segnalare eventuali problemi e criticità che si dovessero verificare inviando un'apposita comunicazione all'indirizzo mail vir@anticorruzione.it.
L'Autorità terrà conto di tali segnalazioni per l'aggiornamento del bando-tipo o per eventuali integrazioni che riterrà necessarie. In ogni caso il bando-tipo acquisterà efficacia a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.
Il documento, che, ai sensi dell'articolo 71 del codice, sarà vincolante per le stazioni appaltanti fatte salve le parti appositamente indicate come facoltative, prende in considerazione la sola procedura aperta di cui all'art. 60 del Codice, per importi superiori alle soglie di applicazione della normativa Ue (209 mila euro), con applicazione del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità prezzo, di cui all'art. 95, comma 2, del codice appalti; in ogni caso, ha detto l'Anac, se la stazione appaltante volesse prevedere un disciplinare con l'aggiudicazione al prezzo più basso, potrebbe comunque adattare il bando-tipo utilizzandolo nella misura in cui sia compatibile.
Il disciplinare contempla precise e tassative cause di esclusione sulla base di quanto previsto dal Codice e della normativa vigente, anche in considerazione dell'elaborazione giurisprudenziale intervenuta nel tempo, ed evidenzia le stesse utilizzando l'espressa formula «a pena di esclusione».
Importante notare come l'Anac ritenga che l'istituto del soccorso istruttorio si applichi a «tutti gli elementi a corredo della domanda di partecipazione, che, entro alcuni limiti e, soprattutto, nel rispetto del principio di parità di trattamento, segretezza delle offerte e perentorietà del termine di presentazione delle medesime, potranno anch'essi essere sanati».
Nel documento, fra i diversi temi trattati, che arrivano fino alla stipula del contratto, viene anche fatto riferimento ai protocolli di legalità, alle misure di incompatibilità per i dipendenti dopo la cessazione del rapporto di pubblico impiego, ai controlli antimafia prima della stipula del contratto, all'istituto del rating di legalità (che può essere richiesto alle sole imprese italiane), all'utilizzo delle white list e black list (articolo ItaliaOggi del 15.12.2017).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Bando-tipo - Schema di disciplinare di gara.
L’Autorità, con delibera 22.11.2017 n. 1228, ha approvato il Bando-tipo n. 1/2017 (Schema disciplinare di gara per l’affidamento di servizi e forniture nei settori ordinari, di importo pari o superiore alla soglia comunitaria, aggiudicati all’offerta economicamente più vantaggiosa secondo il miglior rapporto qualità/prezzo).
Il Disciplinare è corredato di una nota illustrativa che espone le scelte effettuate sui singoli istituti nonché da una relazione AIR che motiva le scelte effettuate rispetto alle osservazioni degli stakeholders. Il Disciplinare-tipo sarà sottoposto a verifica di impatto della regolazione che sarà condotta dopo 12 mesi dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.
Le stazioni appaltanti e gli operatori economici sono invitati a segnalare eventuali problemi e criticità che si dovessero verificare nell’utilizzo del bando-tipo inviando un’apposita comunicazione all’indirizzo mail vir@anticorruzione.it. L’Autorità terrà conto di tali segnalazioni per l’aggiornamento del bando-tipo o per eventuali integrazioni che riterrà necessarie nella fase di vigenza dello stesso.
Il Bando-tipo acquista efficacia a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (13.12.2017 - link a www.

APPALTIVarianti in sede di offerta solo se previste dal bando. Precisazione Anac conforme alla nuova disciplina del codice.
La possibilità di presentare varianti in sede di offerta deve essere espressamente prevista nel bando di gara e in caso di offerta contenente elementi estranei all'oggetto della gara deve essere necessariamente esclusa.

Lo ha precisato l'Autorità nazionale anticorruzione nel Parere di Precontenzioso 22.11.2017 n. 1206 - rif. PREC 12/17/F’  in tema di varianti progettuali presentate in sede di offerta per l'aggiudicazione di un appalto pubblico.
La questione viene inquadrata all'interno della nuova disciplina dettata dal codice dei contratti pubblici del 2016 che, all'articolo 95, comma 14 prevede espressamente la possibilità di presentare varianti progettuali in sede di offerta in relazione a ogni tipo di appalto, in ciò replicando la precedente disposizione del codice del 2016, cioè l'articolo 76 del dlgs 163/2016.
L'Anac ha specificato però che l'amministrazione, tuttavia, deve indicare, in sede di redazione della lex specialis, se le varianti siano ammesse, ben potendo anche non ammettere in alcun modo la presentazione di varianti. Se invece la lex specialis lo prevede, la stazione appaltante, ha detto la delibera Anac, deve identificare i loro requisiti minimi.
L'Autorità ha precisato anche che se ciò non dovesse avvenire le varianti si dovrebbero intendere non autorizzate. Al riguardo l'Anac si riferisce anche alla recente giurisprudenza del Consiglio di stato che ha chiarito che, in ogni caso, a prescindere dalla espressa previsione di varianti progettuali in sede di bando, deve ritenersi insito nella scelta del criterio selettivo dell'offerta economicamente più vantaggiosa la possibilità per le imprese di proporre soluzioni migliorative, purché queste non si alterino i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis onde non ledere la par condicio.
In particolare dalla giurisprudenza si desume una netta differenza fra il concetto di soluzioni migliorative e varianti. Infatti le soluzioni migliorative possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'amministrazione.
Invece le varianti si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva previsione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un «aliud» rispetto a quella prefigurata dalla pubblica amministrazione.
Da questa giurisprudenza la delibera 1206 dell'Anac fa discendere che la presentazione di un'offerta avente un oggetto sostanzialmente differente da quello posto a base di gara, ovvero con differenze estranee all'ambito delle varianti consentite deve essere necessariamente esclusa, in quanto il confronto competitivo deve svolgersi tra le offerte tra loro compatibili secondo i criteri di gara (articolo ItaliaOggi del 15.12.2017).

APPALTIMassimo ribasso anche a inviti. Dubbi sull'accordo quadro per l'esecuzione di lavori ex novo. Mit e Anac concordano sull'applicabilità nelle gare con la procedura negoziata.
Massimo ribasso applicabile anche nelle procedure negoziate da 150 mila euro a un milione e accordi quadro da chiarire nella loro applicazione concreta. Su questi due temi ministero delle infrastrutture e Anac hanno iniziato a dialogare per trovare la giusta interpretazione a norme del codice dei contratti pubblici non sempre cristalline. Nel primo caso trovandosi su posizione identiche, nel secondo caso occorrerà attendere per l'esito finale.

Per quel che riguarda il tema del massimo ribasso è stata resa pubblica in questi giorni la nota 23.06.2017 n. 84346 di prot. dell'Anac (ufficio precontenzioso) che risponde positivamente al ministero delle infrastrutture il quale aveva chiesto, rispetto all'articolo 95, comma 4, se l'esclusione automatica nel caso di appalto al prezzo più basso potesse essere utilizzata anche con la procedura negoziata con invito a cinque.
In particolare, dopo aver ricostruito il quadro normativo, il ministero aveva posto il dubbio all'Anac a seguito delle modifiche apportate dal decreto correttivo del codice che fa riferimento alle «procedure ordinarie», nozione che poteva escludere la procedura negoziata.
La norma del correttivo (dlgs 56/2017) consente l'aggiudicazione degli appalti al massimo ribasso fino a due milioni, invece che a un milione come prevedeva il codice del 2016, ma a due condizioni: l'appalto deve essere aggiudicato sulla base di un progetto esecutivo e l'affidamento dei lavori deve avvenire «procedure ordinarie».
Per l'Autorità è corretta la lettura che da della norma il ministero, laddove circoscrive l'impatto dell'art. 95, comma 4 (che eleva la soglia per utilizzare il prezzo più basso da uno a 2 milioni) al solo innalzamento della soglia e non al profilo procedurale. L' Anac aggiunge che il riferimento contenuto all'art. 36, comma 7, del codice all'effettuazione degli inviti quando la stazione appaltante intende avvalersi dell'esclusione automatica conferma che il prezzo più basso sia applicabile anche alle procedure negoziate.
Sul secondo punto l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone dovrà risolvere il dubbio posto dal ministero, rispetto ad una gara Anas, se sia possibile affidare l'esecuzione di nuovi lavori con la formula dell'accordo quadro. Il punto da risolvere riguarda l'applicabilità dell'istituto dell'accordo quadro, affidato sulla base di un progetto definitivo (e non esecutivo) evitando quindi la stipula di un contratto di sola esecuzione.
Ad avviso del dicastero di Porta Pia l'impiego dell'accordo quadro per nuovi lavori da realizzarsi sulla rete sarebbe «in contrasto, in generale, con tutto il quadro normativo di realizzazione delle opere pubbliche». In particolare il ministero ha sostenuto che l'accordo quadro va impiegato «oltre che ai servizi e alle forniture» per «soli lavori di manutenzione o comunque aventi caratteri di ripetitività e serialità», ovvero per quei lavori da effettuarsi con una serie di interventi, non predeterminati nel numero, in un determinato arco di tempo.
A queste perplessità la società di Via Monzambano ha replicato difendendo la scelta fatta, nel presupposto che la nuova disciplina rende l'accordo quadro utilizzabile anche per opere «non ripetitive». Anzi, secondo l'Anas, se l'accordo quadro non fosse utilizzabile «non si consentirebbe di estendere gli effetti benefici dello strumento agli affidamenti di lavori di nuove opere che, come ben noto, sono di importanza strategica per lo sviluppo del nostro paese». La palla adesso passa all'Anac (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).

APPALTIAnac, massimo ribasso per lavori fino a un mln. Parere dell'Autorità in risposta alla richiesta del Mit.
Si può utilizzare il criterio di aggiudicazione del massimo ribasso anche quando si affidano lavori con la procedura negoziata fino a un milione di euro; è sempre necessario porre a base di gara il progetto esecutivo.

Lo ha chiarito l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), col parere di cui alla nota 23.06.2017 n. 84346 di prot., con riferimento ad una possibile lettura restrittiva della modifica apportata dal decreto correttivo del codice appalti (dlgs. 56/2017), che da un lato ha innalzato da 1 a 2 milioni la soglia di applicazione del massimo ribasso e dall'altro lato sembra avere condizionato tale possibilità alle sole procedure «ordinarie» per le quali si mette in gara il progetto esecutivo. La novità è contenuta nell'articolo 60 del decreto correttivo che ha modificato l'articolo 95, comma 4 del dlgs. 50/2016.
L'attuale versione della norma, aggiornata al correttivo, prevede che «può essere utilizzato il criterio del minor prezzo (fermo restando quanto previsto dall'articolo 36, comma 2, lettera d), per i lavori di importo pari o inferiore a 2 milioni di euro, quando l'affidamento dei lavori avviene con procedure ordinarie, sulla base del progetto esecutivo; in tali ipotesi, qualora la stazione appaltante applichi l'esclusione automatica, la stessa ha l'obbligo di ricorrere alle procedure di cui all'articolo 97, commi 2 e 8».
La conseguenza immediata di una interpretazione improntata ad un rigido formalismo, poteva essere quella di bloccare le stazioni appaltanti che, fino al 20 maggio (data di entrata in vigore del decreto correttivo), avevano tranquillamente affidato con procedura negoziata (procedura ritenuta non «ordinaria») opere fino a un milione di euro, utilizzando il criterio del massimo ribasso con applicazione del cosiddetto «metodo antiturbativa» per l'esclusione automatica.
Si tratta di un mercato di un certo valore se è vero che l'Anac, nella sua relazione al parlamento presentata ieri alla camera e relativa all'anno 2016, ha quantificato in 2,3 miliardi circa il valore delle procedure negoziate con bando di gara (in aumento del 58% rispetto al 2015) e in 3,6 miliardi quelle affidate senza previa pubblicazione di un bando di gara (valore in riduzione del 37% rispetto all'anno 2015).
Il ministero delle infrastrutture nelle scorse settimane aveva chiesto all'Anac un parere in merito alla corretta interpretazione della norma e in particolare se «sia possibile utilizzare il criterio del massimo ribasso, con facoltà di esclusione automatica delle offerte anomale, ovvero se tale possibilità, a seguito del correttivo, sia subordinata al ricorso alle procedure ordinarie, e, in tal caso, cosa si intenda per procedure ordinarie».
La risposta dell'autorità presieduta da Raffaele Cantone è arrivata nei giorni scorsi e sta per essere pubblicata sul sito dell'Anac e dà ragione all'ipotesi interpretativa sottesa alla richiesta di parere del dicastero di Porta Pia.
Per l'Anac «la modifica apportata dal correttivo all'innalzamento della soglia per l'utilizzo del criterio del minor prezzo» non ha alcuna «ricaduta sulle procedure di scelta del contraente, con la conseguenza che deve ritenersi possibile l'utilizzo del criterio del minor ribasso anche nelle procedure negoziate da 150 mila euro e fino a un milione di euro» (articolo ItaliaOggi del 07.07.2017).

APPALTI SERVIZI: Tpl, niente project financing per le concessioni di servizio. L'affidamento va fatto con gara d'appalto, secondo l'Anac.
Illegittimo l'utilizzo del project financing per una concessione di servizi di trasporto pubblico locale in cui non sia prevista l'esecuzione di lavori infrastrutturali; l'affidamento deve avvenire attraverso procedura per l'aggiudicazione di un appalto.

È questa la posizione assunta dall'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera 31.05.2017 n. 566 rispetto a una procedura per l'affidamento di una concessione di servizi pubblici (di trasporto locale) affidata da un comune.
Era successo che un operatore aveva formulato una proposta di project financing, accettata da un altro operatore che aveva formulato offerta; successivamente si era discusso in ordine alla correttezza della procedura seguita e in particolare si era discusso, fra comune e operatori interessati, sulla legittimità dell'affidamento secondo la formula del project financing e non, invece, secondo quella dell'appalto di servizi.
L'Anac fa notare che in base all'articolo 10 della direttiva 23/2014 sulle concessioni, la disciplina Ue non si applica alle concessioni di servizi di trasporto pubblico di passeggeri. Si tratta di una norma puntualmente recepita nell'articolo 18, comma 1, lett. a), del dlgs. 50/2016 (codice dei contratti pubblici).
La delibera chiarisce che questa esclusione si fonda sulla considerazione che i servizi di trasporto pubblico locale sono caratterizzati da cospicue contribuzioni pubbliche, che esorbitano di gran lunga il limite finanziario di matrice pubblica (49% dell'investimento, inteso come valore complessivo dell'operazione concessoria), declinato nell'articolo 165 del dlgs. 50/2016 (norma peraltro confermata anche da recente decreto correttivo del codice, dlgs. 56/2017).
Questa scelta deriva dalla disciplina di contabilità comunitaria (Manuale del Sec 2010, direttiva Eurostat, Treatment of Public Private Partnership, dell'11.02.2004) che riconduce tali attività nel novero delle cosiddette operazioni on balance, ossia non riconducibili al partenariato pubblico privato.
Dato questo punto di partenza, l'autorità presieduta da Raffaele Cantone ricorda che spetta all'ordinamento comunitario, nonché agli orientamenti della Corte di giustizia europea, la competenza a qualificare gli appalti pubblici, stante la prerogativa Ue sulla definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno (ex articolo 3 Tfue).
Pertanto, in via generale e in mancanza di opere infrastrutturali, l'amministrazione comunale dovrebbe procedere all'esternalizzazione del servizio di trasporto pubblico locale mediante procedura di gara per l'affidamento dell'appalto (e non di una concessione di servizi). Infatti l'attribuzione di una concessione per opere o servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo nell'esecuzione di tali opere o servizi comprendente rischi sul versante della domanda o dell'offerta o su entrambi.
La disciplina europea precisa che il concessionario assume il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione delle opere o dei servizi oggetto della concessione. Nel caso specifico, invece, ciò non si era verificato (articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Volontari assicurabili e utilizzabili singolarmente.
I volontari persone fisiche possono essere assicurati e utilizzati singolarmente in progetti di rilievo sociale come volontari.

La magistratura contabile dà vita a un'altra delle ormai tante clamorose retromarce interpretative che destano disorientamento nelle amministrazioni e rivede a 180 gradi il proprio orientamento sull'utilizzo dei volontari, con la deliberazione 24.11.2017 n. 26 della Sezione Autonomie, che smentisce clamorosamente quanto indicato di recente dalla sezione regionale di controllo per la Lombardia, col parere 24.10.2017, n. 281.
La sezione Lombardia aveva confermato un orientamento molto radicato della magistratura contabile, secondo il quale il dlgs 117/2017 avrebbe finito per rafforzare il divieto in capo agli enti locali di incaricare direttamente persone fisiche come volontari, per scongiurare il rischio di creare rapporti di lavoro precari, simulati da attività di volontariato. La sezione autonomie, pur evidenziando le cautele necessarie alla corretta gestione dei rapporti con i volontari, mai qualificabili come lavoro, giunge ad un principio di diritto totalmente opposto: «Gli enti locali possono stipulare, con oneri a loro carico, contratti di assicurazione per infortunio, malattia e responsabilità civile verso terzi a favore di singoli volontari coinvolti in attività di utilità».
Nessuna norma, per la sezione autonomie, impedisce alle amministrazioni locali di avvalersi delle attività di volontariato di singoli cittadini che si offrano in modo spontaneo e disinteressato a collaborare con l'ente per fini di solidarietà sociale. I cittadini, a loro volta, non subiscono alcuna preclusione alla possibilità di porre la loro attività di volontari direttamente al servizio di un ente locale, invece che ad un ente del terzo settore così da indirizzare in modo proficuo la loro attività alla realizzazione di obiettivi di solidarietà sociale.
Il parere osserva che tale assunto «trova riscontro nell'art. 17, comma 2, del dlgs n. 117/2017, il quale recita: «Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore». Dunque, i comuni possono attuare l'articolo 18 del dlgs 117/2017, per accollarsi gli oneri delle assicurazioni di responsabilità contro gli infortuni e civile verso terzi, alla luce di quanto dispone l'articolo 17, comma 2, del dlgs 117/2017, secondo cui il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, «anche per il tramite di un ente del Terzo settore» e, quindi, non esclusivamente in modo mediato da detti enti.
Il parere evidenzia che l'assenza di qualsiasi obbligo di prestazione lavorativa in carico al volontario qualifica la sua attività come necessariamente occasionale, perché libera da vincoli temporali e da condizionamenti esterni derivanti dall'affidamento di terzi. Indirettamente, il parere mette in luce che i rapporti con i soggetti del terzo settore, sia singoli cittadini, sia enti, non deve essere configurato come prestazione di servizi, ma come promozione e riconoscimento dell'utilità sociale svolta, in maniera «aggiuntiva e complementare alle ordinarie attività dell'apparato organizzativo all'interno del quale si inserisce quale strumento mai sostitutivo delle risorse umane normalmente destinate al servizio di utilità sociale prescelto dal volontario».
Pertanto, l'ente locale assume un ruolo di «mero promotore e utilizzatore finale del servizio di volontariato» mediante forme di collaborazione regolate con la sottoscrizione di convenzioni finalizzate allo svolgimento in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale.
In ogni caso, la sezione autonomie ritiene necessario che gli enti locali regolino le attività dei volontari con un regolamento «che disciplini le modalità di accesso e di svolgimento dell'attività in senso conforme alla normativa dettata per gli enti del Terzo settore». Il parere richiede, quindi, che si istituisca un registro dei volontari, «le cui risultanze, se conformi ai criteri previsti per la tenuta dei registri in materia di volontariato, faranno fede ai fini della individuazione dei soggetti aventi diritto alla copertura assicurativa contro gli infortuni e le malattie nonché per la responsabilità civile per i danni cagionati a terzi conseguenti allo svolgimento dell'attività, con oneri a carico dell'ente locale in quanto beneficiario finale delle attività dei singoli volontari dallo stesso coordinate»
(articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima proposta dalla Sezione di controllo per la Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia con deliberazione n. FVG/54/2017/QMIG in data 03.08.2017, enuncia il seguente principio di diritto: “
Gli enti locali possono stipulare, con oneri a loro carico, contratti di assicurazione per infortunio, malattia e responsabilità civile verso terzi a favore di singoli volontari coinvolti in attività di utilità sociale, a condizione che, con apposita disciplina regolamentare, siano salvaguardate la libertà di scelta e di collaborazione dei volontari, l’assoluta gratuità della loro attività, l’assenza di qualunque vincolo di subordinazione e la loro incolumità personale”.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEL’art. 113, co. 2, del D.Lgs. 50/2016 contiene una disciplina dei compensi incentivanti per funzioni tecniche nuova e difforme dall’incentivo per la progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, con la conseguenza che i “nuovi” incentivi per funzioni tecniche ricadono pienamente nella disciplina vincolistica in materia di salario accessorio, il cui “tetto” erogabile, già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, non potrà quindi essere superato.
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Con la nota indicata in epigrafe, il Comune di Latisana (UD) ha formulato alla Sezione una richiesta di motivato avviso con cui, dopo aver succintamente rappresentato le circostanze di fatto e di diritto, pone un quesito in materia di compensi incentivanti per le funzioni tecniche, come previsti dall’art. 113 del D.Lgs. n.50/2016.
In particolare, l’Ente richiedente ha formulato un quesito volto a sapere:
   1) se i compensi previsti per i “nuovi” incentivi tecnici siano da ricomprendere nel fondo per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale;
   2) se esista la possibilità di superare i limiti disposti dalla normativa vigente relativamente al tetto di spese del fondo per il trattamento accessorio, al fine di poter erogare i compensi in parola, senza andare a discapito di altri dipendenti.
...
I. Come esposto nella premessa ed in sede di esame preliminare dell’ammissibilità, sul piano oggettivo, del quesito in esame, deve innanzitutto evidenziarsi che questa Sezione ha recentemente avuto modo di esaminare la problematica relativa ai compensi incentivanti per funzioni tecniche, come disciplinati dall’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016, precipuamente con riferimento alla compatibilità di tali compensi con il principio di onnicomprensività della retribuzione valevole per i dipendenti pubblici.
Con il parere 03.08.2017 n. 55, infatti, dopo ampia motivazione, si è avuto modo di affermare che il principio di onnicomprensività della retribuzione valevole per i pubblici dipendenti non esclude la corresponsione di ulteriori compensi incentivanti previsti espressamente dalla legge.
Per quel che riguarda specificamente gli incentivi per le funzioni tecniche connesse ad opere pubbliche realizzate, i Comuni potranno procedere alla corresponsione, con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle Amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, nel rispetto delle previsioni contenute nel nuovo codice dei contratti di cui al D.lgs. 50/2016 (o delle altre disposizioni applicabili ratione temporis).
In questa sede, alla luce delle ulteriori problematiche sollevate dall’Amministrazione quaerens, i princìpi contenuti nel citato parere 03.08.2017 n. 55 verranno ulteriormente approfonditi, con particolare riferimento agli aspetti connessi all’inclusione dei “nuovi” incentivi tecnici nel fondo per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale e alla possibilità di superare i limiti disposti dalla normativa vigente relativamente al tetto di spese del fondo per il trattamento accessorio.
II. I nuovi incentivi per funzioni tecniche trovano la loro attuale disciplina nell’art. 113 del D.Lgs. 18.04.2016, n. 50 (c.d. Codice dei contratti pubblici), come da ultimo integrato e modificato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 19.04.2017, n. 56.
Nel testo attualmente vigente (non coincidente con quello disciplinante l’incentivo per la progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006), gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio, fanno carico agli stanziamenti previsti per i singoli appalti di lavori, servizi e forniture negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
Particolarmente significativo è il secondo comma dell’articolo in commento, a mente del quale a valere sugli stanziamenti di cui sopra, “le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti”.
In base al terzo comma dell’art. 113, l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle Amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate sopra, nonché tra i loro collaboratori.
Ulteriori indicazioni di dettaglio, vengono fornite dal prosieguo del comma 3, nonché dai commi 4 e 5, dell’art. 113 del D.Lgs. n. 50/2016.
III. Così succintamente descritta la disciplina attualmente recata dall’art. 113 del codice dei contratti in materia di incentivi per funzioni tecniche, si deve ora procedere all’esame del rapporto tra detti incentivi ed il fondo per le risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale.
Al riguardo, di particolare rilievo è la lettura fornita dalla Sezione delle Autonomie della Corte dei conti che, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha provveduto ad esaminare tale problematica sotto il profilo dell’applicabilità, a tali incentivi, del tetto del salario accessorio previsto, all’art. 9, comma 2-bis, del D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito in l. 30.07.2010, n. 122, anche in rapporto al nuovo limite all’ammontare delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale della pubblica Amministrazione, compreso quello di livello dirigenziale, introdotto dall’art. 1, comma 236, della legge 28.12.2015, n. 208.
Per effetto di tali limitazioni introdotte dalla legge di stabilità per il 2016, in considerazione delle esigenze di finanza pubblica, a decorrere dal giorno 01.01.2016 l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, di ciascuna delle Amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Come evidenziato nella citata deliberazione della Sezione delle Autonomie, “la norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale alla contrazione del personale in servizio”.
La stessa deliberazione della Sezione delle Autonomie, inoltre, provvede a evidenziare come nella legge delega (art. 1, comma 1, lett. rr, l. n. 11/2016) è stato previsto che tale compenso vada a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici, tra cui quelle della programmazione, predisposizione e controllo delle procedure di gara e dell’esecuzione del contratto “escludendo l’applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Di conseguenza, sono destinate risorse al fondo di cui all’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 (nella misura del 2% degli importi a base di gara) “esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti”.
Ciò in difformità rispetto a quanto previsto dall’art. 113, comma 1, per “gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento” i quali “fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti”.
Alla luce di tali fondamentali premesse, la Sezione delle Autonomie ha quindi provveduto a rimarcare che “nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale). Nel caso di specie, non si ravvisano poi, gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016”.
Come naturale conseguenza di tale impostazione, quindi, la deliberazione 06.04.2017 n. 7 della Sezione delle Autonomie ha provveduto ad affermare il principio di diritto secondo cui: “Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”.
Tale importante criterio di orientamento è stato prontamente recepito dalle altre Sezioni regionali di controllo (cfr.: per le Marche, parere 27.04.2017 n. 52; per il Piemonte, parere 09.06.2017 n. 113; per la Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185).
Recentemente, inoltre, la Sezione delle Autonomie è stata ulteriormente investita della questione degli incentivi per funzioni tecniche.
Con la
deliberazione 10.10.2017 n. 24, infatti, la Sezione delle Autonomie ha nuovamente preso posizione sull’argomento, anche alla luce delle recenti modifiche introdotte dal D.L. 19.04.2017, n. 56.
Sul punto, la Sezione centrale ha evidenziato che “le intervenute modifiche, comunque, non hanno inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione”.
Ciò posto, la predetta deliberazione ha ulteriormente avuto modo di evidenziare che “nel delineato nuovo scenario normativo, gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere assimilati ai compensi per la progettazione e, pertanto, non possono essere esclusi dal perimetro di applicazione delle norme vincolistiche in tema di contenimento della spesa del personale, nell’alveo delle quali si collocano anche le norme limitative delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, posto che per detti nuovi incentivi non ricorrono –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– per le argomentazioni tutte esposte nella richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7 –come anche costantemente affermato dalla giurisprudenza contabile (ex multis: SS.RR in sede giurisdizionale, sent. n. 23/99/QM n. 2/2012/QM, n. 54/2015/QM)– i presupposti legittimanti la loro esclusione dal computo di detta voce di spesa, quali delineati dalle Sezioni riunite con la delibera n. 51/CONTR/2011 (in relazione ai trattamenti accessori del personale) e dalla Sezione delle autonomie con la
delibera 13.11.2009 n. 16/2009 (in relazione al limite previsto per la spesa di personale ex art. 1, commi 557 e 562, della l. 296/2006)”.
Tali conclusioni, ad avviso di questa Sezione, sono pienamente da condividere.
Alla luce di quanto detto, pertanto, la Sezione rileva che
l’art. 113, co. 2, del D.Lgs. 50/2016 contiene una disciplina dei compensi incentivanti per funzioni tecniche nuova e difforme dall’incentivo per la progettazione di cui all’abrogato art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, con la conseguenza che i “nuovi” incentivi per funzioni tecniche ricadono pienamente nella disciplina vincolistica in materia di salario accessorio, il cui “tetto” erogabile, già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del D.L. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, non potrà quindi essere superato (Corte dei Conti, Sez. controllo Friuli Venezia Giulia, parere 23.11.2017 n. 66).

LAVORI PUBBLICIPpp, rischio operativo è trasferito ai privati. Partenariato pubblico privato.
In un Ppp (partenariato pubblico-privato) l'elemento essenziale è il trasferimento del rischio operativo in capo al soggetto privato.

È quanto ha stabilito la Corte dei Conti (sezione regionale di controllo per la Lombardia) con il parere 20.11.2017 n. 320 in merito ad un contratto di partenariato pubblico privato per la realizzazione e gestione di un'opera.
L'ente locale chiedeva ai giudici contabili se potesse configurare un Ppp un contratto che prevedesse il pagamento di un canone, che è in grado di ripagare l'investimento e gli interessi e se questa operazione potesse essere considerata neutra ai fini della contabilizzazione nel bilancio dell'ente e non rilevante ai fini degli equilibri di finanza pubblica.
La Corte ha affermato che in base al codice dei contratti, un contratto di joint venture fra un privato e una amministrazione rientra nella categoria dei contratti di Ppp se con esso si attiva il trasferimento in capo all'operatore economico, oltre che del rischio di costruzione, anche del rischio di disponibilità o, nei casi di attività redditizia verso l'esterno, del rischio di domanda dei servizi resi, per il periodo di gestione dell'opera (art. 180, comma 3).
Il regime dei rischi e il suo trasferimento all'operatore privato deve ritenersi, ha aggiunto la Corte, presupposto necessario per la qualificazione del contratto in termini di partenariato pubblico privato ai sensi dell'art. 180 del dlgs n. 50 del 2016. Qualora, lo specifico contratto stipulato, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato, non preveda un regolamento convenzionale delle prestazioni che integri i requisiti previsti dal codice dei contratti pubblici per la sussunzione del medesimo nella categoria dei contratti di partenariato pubblico privato, comprensivi del trasferimento dei rischi in capo all'operatore economico nei termini anzidetti, il relativo contratto non rientra nella categoria dei contratti di partenariato pubblico privato così come definita dal dlgs n. 50 del 2016.
Deve pertanto risultare verificato il rispetto delle condizioni contrattuali con riguardo alle specifiche clausole fattuali che determinino il trasferimento reale dei rischi in capo al soggetto privato; diversamente non si può parlare di contratto di Ppp (articolo ItaliaOggi dell'01.12.11.2017).
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MASSIMA
La stessa Sezione delle autonomie ha, così, concluso che “Le operazioni di locazione finanziaria di opere pubbliche di cui all’art. 187 se pienamente conformi nel momento genetico-strutturale ed in quello funzionale alla regolamentazione contenuta negli artt. 3 e 180 del codice dei contratti, ai fini della registrazione nelle scritture contabili, non sono considerate investimenti finanziati da debito”.
Pertanto, laddove la realizzazione dell’opera, la sua disponibilità e la percezione delle sue utilità da parte dell’operatore economico corrispondano allo schema negoziale tipico del partenariato di cui all’art. 180 d.lgs. n. 50/2016, in particolare in relazione all’assunzione dei rischi da parte dell’operatore economico, il contratto non può essere qualificato in termini di indebitamento.
Ai fini di quanto sopra risulta determinante la correttezza della qualificazione del contratto in termini di paternariato pubblico privato ai sensi del nuovo codice dei contratti pubblici.
Il rischio (e il suo trasferimento all’operatore privato) costituisce l’elemento che caratterizza il partenariato pubblico privato non solo nel suo momento genetico, ma anche per tutta la durata della sua esecuzione e deve ritenersi presupposto necessario per la qualificazione del contratto in termini di paternariato pubblico privato ai sensi dell’art. 180 del d.lgs. n. 50 del 2016.

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEL’art. 113, comma 5, dlgs 50/2013 si applica anche alla Stazione Unica Appaltante prevista dall’art. 37, comma 4, lett. c), del codice degli appalti.
Invero, la disposizione, nel rinviare alla disciplina degli incentivi per funzioni tecniche prevista dal comma 2 del medesimo articolo, sancisce che “Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Presupposto essenziale per l’applicazione di tale disciplina alla Stazione Unica Appaltante è, pertanto, la qualificazione della medesima come centrale unica di committenza.
Sul punto, si rileva che è lo stesso legislatore a fornire risposta al quesito, atteso che l’art 3, lett. i), dlgs 50/2016 contiene una espressa definizione di centrale di committenza, sicché non vi è dubbio che la Stazione Unica Appaltante andrà qualificata come centrale di committenza allorché fornisca attività di centralizzazione di committenza e, se del caso, attività di committenza ausiliarie, come definite dalle lett. l) ed m) del medesimo articolo 3.
Ricorrendo siffatti presupposti, anche la Stazione Unica Appaltante ricadrà nel perimetro applicativo dell’art. 113, comma 5, dlgs 50/2016.
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Anche gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 5, codice appalti sono da includere nel tetto per i trattamenti accessori del personale, non trattandosi di spese di investimento, a differenza degli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
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Il Presidente della Provincia di Brindisi chiede alla Sezione un parere in merito all’applicazione della disciplina degli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art 113, commi 2 e 5, dlgs 50/2016 nel caso in cui l’ente operi come Stazione Unica Appaltante ai sensi dell’art. 37, comma 4, lett. c), dlgs 50/2016.
In particolare, il Presidente espone che:
   1) con Decreto Presidenziale n. 260 del 24/11/2015 è stata disposta l’istituzione della Stazione Unica Appaltante, denominata “S.U.A. “Provincia di Brindisi” ed è stato approvato il regolamento che disciplina le finalità, i compiti, l’organizzazione, la ripartizione del fondo ed il funzionamento della Stazione Unica Appaltante, denominato “Regolamento interno della Stazione Unica Appaltante della Provincia di Brindisi”;
   2) fermo restando il rispetto delle vigenti prescrizioni e dei vincoli di natura legislativa e contrattuale nazionali, con il sopra citato regolamento si è disposta una specifica normativa idonea a regolamentare forme di incentivazioni connesse all’espletamento delle relative funzioni da parte del personale dell’Ente formalmente assegnato alla Stazione Unica Appaltante.
Alla luce di quanto sopra esposto, il rappresentante della Provincia formula i seguenti quesiti:
      a) se la disciplina legislativa dell’art. 113, comma 5, dlgs 50/2016, relativa all’incentivazione per funzioni tecniche nel caso di centrale unica di committenza, si possa applicare anche in caso di Stazione Unica Appaltante;
      b) se, in sede di applicazione della predetta disciplina, le eventuali risorse finanziarie trasferite dagli enti committenti e fatte transitare nel fondo risorse decentrate della Provincia, quale Stazione Unica Appaltante, ai fini della successiva erogazione ai dipendenti aventi diritto, si possano considerare escluse dall’ambito di applicazione della vigente disciplina vincolistica (art. 23, comma 2, dlgs 75/2017).
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Passando al merito della richiesta, con il primo quesito, la Provincia chiede se l’art. 113, comma 5, dlgs 50/2013 si applichi anche alla Stazione Unica Appaltante prevista dall’art. 37, comma 4, lett. c), del codice degli appalti.
La disposizione, nel rinviare alla disciplina degli incentivi per funzioni tecniche prevista dal comma 2 del medesimo articolo, sancisce che “Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2”.
Presupposto essenziale per l’applicazione di tale disciplina alla Stazione Unica Appaltante è, pertanto, la qualificazione della medesima come centrale unica di committenza.
Sul punto, si rileva che è lo stesso legislatore a fornire risposta al quesito, atteso che l’art 3, lett. i), dlgs 50/2016 contiene una espressa definizione di centrale di committenza, sicché non vi è dubbio che la Stazione Unica Appaltante andrà qualificata come centrale di committenza allorché fornisca attività di centralizzazione di committenza e, se del caso, attività di committenza ausiliarie, come definite dalle lett. l) ed m) del medesimo articolo 3.
Ricorrendo siffatti presupposti, anche la Stazione Unica Appaltante ricadrà nel perimetro applicativo dell’art. 113, comma 5, dlgs 50/2016.
Con il secondo quesito, l’ente chiede se l’incentivo previsto per i compiti svolti dal personale della stazione unica di committenza contemplato dall’art. 113, comma 5, dlgs 50/2016 sia assoggettato al limite per il trattamento accessorio previsto da ultimo dall’art. 23, comma 2, dlgs 75/2017.
Sul punto non possono che richiamarsi i principi già espressi dalla Sezione delle Autonomie (deliberazione 06.04.2017 n. 7 e
deliberazione 10.10.2017 n. 24) con riferimento agli incentivi di cui all’art. 113, comma 2, dlgs 50/2016, a cui rinvia il comma 5 del medesimo articolo. Le risorse ivi contemplate, infatti, non mutano -a seconda che si riferiscano ad un’amministrazione aggiudicatrice o ad una centrale di committenza- la propria natura di compenso volto a remunerare specifiche e determinate attività di natura tecnica svolte dai dipendenti pubblici.
I predetti incentivi, pertanto, sono da includere nel tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici, posto che gli stessi si configurano, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti e di personale.
La Sezione delle Autonomie ha sottolineato come le modifiche apportate dall’entrata in vigore dell’art. 23, comma 5, dlgs 75/2017 (il quale sancisce che l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016), con abrogazione dell’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015, non hanno “inciso sulla risoluzione adottata da questa Sezione ma, anzi, ne hanno avvalorato l’iter argomentativo in relazione alla rilevata difformità della fattispecie introdotta dall’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016, rispetto all’abrogato istituto degli incentivi alla progettazione”.
Per i motivi sopra esposti,
anche gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’art 113, comma 5, codice appalti sono da includere nel tetto per i trattamenti accessori del personale, non trattandosi di spese di investimento, a differenza degli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 09.11.2017 n. 149).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALINiente stipendi d’oro agli staff. Strapagare il capo di gabinetto costituisce danno erariale. Per la Corte conti Toscana devono essere rispettati i limiti stabiliti dai Ccnl.
Costituisce danno erariale pagare il capo di gabinetto al di là dei limiti e dei parametri stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro.

La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Toscana, con la sentenza 19.09.2017 n. 209, torna su una delle azioni a maggiore rischio di danno per i sindaci: l’assegnazione di incarichi di staff, ai sensi dell’articolo 90 del dlgs 267/2000.
La vicenda riguarda la previsione di un compenso annuo di 50 mila euro per il capo di gabinetto, assunto in staff e privo della laurea.
Titolo di studio. La sezione precisa che il danno non deriva, di per sé, dal mancato possesso del titolo di studio della laurea.
A ben vedere, infatti, l’articolo 90, così come il regolamento di funzionamento dei servizi del comune di Pistoia, non richiedono alcun particolare titolo di studio, allo scopo di valorizzare l’elemento fiduciario nella scelta del sindaco del proprio staff. Per altro, la persona incaricata come capo di gabinetto, pur non laureata, secondo la sentenza disponeva di un curriculum idoneo ad attestare un’effettiva competenza a svolgere l’incarico.
Differenze con l’articolo 110. L’assenza della previsione di un titolo di studio particolare, spiegano i giudici, distingue fortemente l’articolo 90 dall’articolo 110 del Tuel. Mentre per lo staff non sono richiesti titoli culturali, al contrario nel caso dei dirigenti o funzionari a contratto la laurea si rivela necessaria.
Corrispondenza fra titoli e inquadramento. Esclusa la necessità della laurea, la sentenza tuttavia evidenzia un altro vincolo implicito negli incarichi regolati dall’articolo 90: il rispetto del vincolo di corrispondenza tra il trattamento economico normativamente previsto per una determinata categoria e i requisiti, culturali e professionali, posseduti, dall’incaricato.
Lo scopo di questa necessaria corrispondenza è, secondo la magistratura contabile evitare «che le assunzioni dall’esterno ai sensi dell’art. 90 Tuel siano lasciate al mero arbitrio degli amministratori».
Dunque, se è possibile incaricare persone prive di laurea, tuttavia la retribuzione dovrà essere correlata al profilo professionale corrispondente al titolo posseduto. Nel caso di specie, secondo la Corte dei conti, quindi, all’incaricato doveva essere assegnato il trattamento economico corrispondente alla Categoria C5, largamente inferiore ai 50 mila euro annui assegnati.
Inapplicabilità della sanatoria del 2014. Nel caso di specie, non è applicabile il comma 3-bis dell’articolo 90 del dlgs 90/2014, introdotto dal dl 90/2014 allo scopo di sanare i molti incarichi di staff sovrappagati a personale privo di laurea. Tale comma dispone che «resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale». Nel caso di specie, l’incarico era stato conferito nel 2007: il comma 3-bis non ha, afferma la sentenza, portata retroattiva e, quindi non può esimere da responsabilità.
In ogni caso, «l’attribuzione a personale sfornito di laurea di un trattamento dirigenziale dovrebbe essere espressamente consentita dal Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi», il che nel caso di specie non era avvenuto.
No all’esimente politica. La sezione ha respinto la cosiddetta «esimente politica». Il sindaco, infatti, ha affermato che il decreto di nomina è stato il frutto di istruttorie tecnico-amministrative di competenza dei dirigenti, che avrebbero indirettamente confermato la legittimità dell’operato del primo cittadino.
La sentenza rileva che il sindaco, invece, ha ricoperto «un ruolo che richiedeva la padronanza di quei fondamentali principi dell’agire amministrativo e della contabilità pubblica, peraltro di semplicissima ed intuitiva evidenza, che impongono di legare il compenso di soggetti assunti dall’esterno ex art. 90 Tuel a parametri oggettivi, suscettibili di verifica e riscontro immediati». Si conclude, quindi, che l’incarico non richiedeva quelle «specifiche competenze tecnico-specialistiche, estranee alle funzioni proprie degli organi politici del comune» che avrebbero mandato il sindaco esente da responsabilità.
Assoluzione del segretario comunale. Con una decisione piuttosto innovativa, la Sezione ha assolto il segretario, chiamato in causa dalla Procura, per non aver impedito l’incarico dannoso.
Contrariamente a molta altra giurisprudenza, la sentenza evidenzia che i «compiti di collaborazione e le funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti, intestati in capo al Segretario generale in base all’art. 97 Tuel, non possono evidentemente comportare la responsabilità dello stesso rispetto a vicende, per le quali non risulti un diretto ed immediato coinvolgimento dello stesso» (articolo ItaliaOggi del 29.09.2017).

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MASSIMA
Staff Sindaco: niente Cat. D per il diplomato.
La retribuzione degli incarichi di staff del sindaco previsti dall'art. 90 del D.Lgs. n. 267/2000 devono essere calcolati tenendo «conto delle funzioni previste nella declaratoria contrattuale degli enti locali».
In particolare «un dipendente sprovvisto del titolo della laurea non potrà essere assunto come funzionario amministrativo (categoria D), ma esclusivamente come istruttore amministrativo (categoria C, anche nella sua massima estensione orizzontale, ossia C5)».
In relazione, poi, all'erogazione del salario accessorio forfettario
«in mancanza della deliberazione della Giunta comunale, il sindaco non può "sapere" l'ammontare della parte determinabile ex post (straordinario, produttività, incentivi ecc.) del salario accessorio in via forfettaria».
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   5. Con riferimento al merito della vicenda, il Collegio ritiene che la pretesa erariale meriti accoglimento, sia pure nei termini e limiti sottoindicati, unicamente nei confronti del Sig. Be.Re., dovendo, per contro, essere disattesa nei confronti del Sig. Fe.Ca..
   5.a) Nello specifico, in relazione alla posizione del Sindaco Be., data per pacifica la ricorrenza del cd rapporto di servizio con l’Amministrazione danneggiata (Comune di Pistoia), risulta evidente la condotta illecita, consistita nell’adozione del decreto n. 130 del 27.06.2007, prevedente il conferimento al Sig. Fo. dell’incarico di Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, con l’attribuzione al medesimo, a titolo di acconto e salvo conguaglio, nelle more della fissazione del compenso definitivo da parte della Giunta (invero mai intervenuta), del compenso dal medesimo già percepito quale Capo di Gabinetto (euro 50.000,00 annui lordi, giusta decreto sindacale n. 330 del 30.09.2002, richiamato nelle premesse del decreto n. 130/07).
A tal riguardo, va subito evidenziato che il profilo di illiceità è rappresentato non già dall’assenza del diploma di laurea in capo all’incaricato, quale circostanza per contro ritenuta dall’Organo requirente di per sé ostativa all’accesso all’incarico de quo, ma dall’intervenuto riconoscimento di un compenso non corrispondente ai requisiti culturali e professionali del Fondatori, alias al livello di inquadramento consentito in base agli stessi.
A tale ultimo riguardo, l’Organo requirente ha censurato il riconoscimento di un compenso (finanche) superiore a quello normativamente previsto per la categoria D, richiedente il possesso del diploma di laurea.
Il Collegio ritiene, infatti, che il diploma di laurea non fosse necessario ai fini dell’attribuzione dell’incarico di Responsabile dell’Ufficio del Sindaco (quale Struttura di Staff posta alle dirette dipendenze del Sindaco stesso per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo al medesimo spettanti, come confermato dalla delibera giuntale n. 28 del 22.2.2007), siccome incarico di carattere eminentemente fiduciario conferito ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 267/2000, cd. T.U.E.L.
Tale ultima disposizione
(significativamente richiamata nel contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, stipulato con il Fondatori in data 27.06.2007, in esecuzione del decreto sindacale per cui è causa) non richiede, invero, uno specifico e particolare requisito culturale, quale quello della laurea, ferma restando la necessità dell’inquadramento dell’incaricato, sulla base dei requisiti di studio posseduti e in relazione alle pregresse esperienze professionali (tali comunque da garantire l’adeguato assolvimento dei compiti assegnati), in una determinata qualifica funzionale, cui far discendere, in applicazione delle disposizioni contrattuali di settore, la determinazione del relativo trattamento economico (in termini, tra le altre, Corte Conti, Sez. giur. Calabria, 10.07.2014, n. 191; id., Sez. giur. Emilia-Romagna, 18.11.2014, n. 155).
Nello specifico,
il richiamato art. 90, per quanto d’interesse in questa sede, si limita a statuire, al primo comma, che il Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del Sindaco, “…..per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato…..”.
La medesima disposizione statuisce, al secondo comma 2, che “Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali”, aggiungendo, al comma 3, che “Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2, il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale”.
Risulta allora acclarato come l’art. 90 TUEL non richieda specifici requisiti o particolari titoli di studio per gli incarichi afferenti agli Uffici di staff.
Tutto ciò al fine precipuo di valorizzare la componente fiduciaria nella individuazione di soggetti destinati ad operare in uffici che possono essere definiti come strutture eventuali, la cui costituzione è rimessa all’autonoma determinazione dell’Ente e che svolgono una funzione di immediato supporto agli organi di direzione politica nell’esercizio delle funzioni di indirizzo politico e controllo loro spettanti, in posizione servente e subalterna rispetto agli stessi organi (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Calabria n. 191/2014).
Emerge allora palese la differenza rispetto al successivo art. 110 TUEL (in tema di contratti a tempo determinato per la copertura di posti responsabili dei servizi o degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione), il quale fa esplicito riferimento alla necessità del possesso di particolari requisiti che rendano gli incaricati idonei alle mansioni specialistiche o direttive che andranno a svolgere, con particolare riferimento al titolo di studio da ricondurre necessariamente al diploma di laurea o titolo equipollente (così, Corte Conti, Sez. giur. Emilia-Romagna, 18.11.2014, n. 155).
La non necessità di uno specifico requisito culturale per l’accesso agli incarichi di cui all’art. 90 risulta confermata dalla circostanza per cui tale disposizione, nel contesto di una disciplina, come visto, autonoma rispetto a quella delineata dal successivo art. 110, richiama sì il CCNL, ma per il “personale assunto” e, dunque, per una fase successiva a quella dell’assunzione (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Toscana, 04.08.2011 n. 282; id., Sez. giur. Toscana, 20.02.2012, n. 85).
Allo stesso modo, il diploma di laurea non è richiesto dall’art. 5 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi del Comune di Pistoia, nella versione, applicabile alla fattispecie all’esame, approvata con delibera giuntale n. 41 del 06.04.2006.
Tale disposizione, inserita nel Titolo II (“Uffici di supporto agli organi di direzione politica”), non impone, infatti, alcun particolare requisito culturale, limitandosi a prevedere, al comma 2, che il responsabile dell’Ufficio del Sindaco, da scegliersi tra il personale dipendente dell’Ente oppure all’esterno, sia “comunque in possesso di comprovati requisiti professionali adeguati alle mansioni da svolgere”, aggiungendo, al comma 3, per l’ipotesi in cui tale Ufficio sia diretto da personale non dipendente dell’ente, che il relativo rapporto di lavoro sia disciplinato da contratto a tempo determinato di durata non superiore a quella del mandato amministrativo (e destinato a risolversi di diritto con la cessazione dell’incarico del Sindaco), con attribuzione di una retribuzione determinata dalla Giunta.
Orbene, nel caso all’esame, il curriculum del Sig. Fo., presente (anche) nel fascicolo di Procura, lascia sicuramente emergere, a giudizio del Collegio, il possesso di requisiti professionali (e culturali) adeguati in relazione all’incarico in questione.
Risulta, infatti, che il Fo. (giornalista pubblicista iscritto all’Ordine, in possesso di diploma di scuola superiore, nonché partecipante a diversi masters e corsi di formazione in materie riguardanti la P.A.) ha svolto, in epoca antecedente all’assunzione dell’incarico per cui è causa, tra l’altro, le funzioni di Addetto stampa e relazioni con le istituzioni di un Onorevole presso la Camera dei Deputati (periodo 1992-1996), di Segretario particolare del Presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati (periodo 1996-2001) nonché di Portavoce del Sindaco (dal 2000 al 2002) e di Capo di Gabinetto del Comune di Pistoia (dal 2002 al 2007).
Nondimeno, i predetti requisiti professionali e culturali giammai avrebbero potuto giustificare l’attribuzione al Fo. di un trattamento economico come quello concretamente riconosciuto (euro 50.000,00 annui lordi).
A tal ultimo riguardo, giova osservare che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte,
i principi, di valenza anche costituzionale, di ragionevolezza e buon andamento della P.A. (artt. 3 e 97 Cost.), impongono di riconoscere al personale esterno incaricato ai sensi dell’art. 90 TUEL, anche in assenza di laurea, un trattamento economico corrispondente ai requisiti culturali e professionali concretamente posseduti, vale a dire il trattamento economico proprio della qualifica cui, in base al CCNL di riferimento, lo stesso andrebbe inquadrato in base ai predetti titoli (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Toscana, n.85/2012, confermata sul punto da Sez. I n. 806/2014; id., Sez. giur. Toscana, n. 282/2011; id.; Sez. giur. Calabria, n. 191/2014; id., Sez. giur. Emilia Romagna, n. 155/2014).
La necessità del rispetto del vincolo di corrispondenza tra il trattamento economico normativamente previsto per una determinata categoria e i requisiti, culturali e professionali, posseduti, atti a giustificare l’appartenenza a quella stessa categoria, con l’attribuzione del relativo trattamento, evita, infatti, che le assunzioni dall’esterno ai sensi dell’art. 90 TUEL siano lasciate al mero arbitrio degli amministratori (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Toscana, n. 282/2011 e n. 85/2012).
Sotto questo punto di vista,
il rinvio operato dall’art. 90 al CCNL se da un lato costituisce una garanzia per il lavoratore a fronte del rischio dell’erogazione di retribuzioni inferiori e/o comunque sganciate dalle previsioni contrattuali, dall’altro fornisce all’Amministrazione un parametro obiettivo nella determinazione del trattamento retributivo del personale chiamato a far parte degli uffici di diretta collaborazione.
, in superamento delle argomentazioni difensive sul punto, le conclusioni testé esposte sono inficiate dalla circostanza per cui l’art. 90, comma 3-bis, TUEL, statuisce che “resta fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale anche nel caso in cui nel contratto individuale di lavoro il trattamento economico, prescindendo dal possesso del titolo di studio, è parametrato a quello dirigenziale”.
A tal riguardo, va in primo luogo osservato che la predetta disposizione non può trovare spazio in questa sede in quanto introdotta dall’11, comma 4, d.l. 24.06.2014, n.90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.08.2014, n. 114 e, dunque, in epoca ben successiva ai fatti per cui è causa (il decreto sindacale di nomina reca la data del 27.06.2007).
In particolare, il carattere sostanziale della stessa ne preclude un’applicazione retroattiva (in termini, Corte Conti, Sez. giur. Emilia Romagna, 28.04.2016, n. 73).
Aggiungasi che, in ogni caso, l’attribuzione a personale sfornito di laurea di un trattamento dirigenziale dovrebbe essere espressamente consentita dal Regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (ipotesi non ricorrente nel caso all’esame), quale fonte normativa cui è demandata la stessa istituzione degli Uffici di staff (Corte Conti, Sez. cont. Toscana, delib. n. 11 del 05.03.2015).
Orbene, nella fattispecie per cui è causa, secondo quanto riconosciuto dalla stessa difesa del convenuto Berti (vedasi pagg. 53 e ss della memoria di costituzione in giudizio), la categoria corrispondente ai requisiti culturali e professionali dal medesimo posseduti è rappresentata dalla categoria C, pos. economica 5, per l’accesso alla quale è richiesto il solo diploma di scuola superiore.
Nello specifico, in base all’allegato A del CCNL Enti Locali del 31.03.1999, appartengono a tale categoria “...i lavoratori che svolgono attività caratterizzate da: -Approfondite conoscenze mono specialistiche (la base teorica di conoscenze è acquisibile con la scuola superiore) e un grado di esperienza pluriennale, con necessità di aggiornamento…….”.
Conseguentemente, il Fo., ove legittimamente inquadrato, avrebbe potuto percepire un importo annuo lordo pari ad euro 23.726,43, ottenuto sommando gli importi sottoindicati:
   a) euro 21.901,32 (stipendio tabellare, vedasi Tab. B allegata al CCNL 2008-2009);
   b) euro 1.825,11 (1/12 di euro 21.901,32), quale 13^ mensilità.
A tal fine, il Collegio ritiene, nell’ottica di una valutazione, in questa sede da effettuarsi necessariamente in termini astratti e ipotetici e comunque da ancorare a parametri oggettivi e certi, di non poter prendere in considerazione né l’indennità per la titolarità di posizioni organizzative, siccome assegnabili, se del caso, esclusivamente a dipendenti classificati nella cat. D (ex art. 8, comma 2, CCNL del 31.03.1999 ed artt. 19 e 20 del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e servizi) né le competenze accessorie, in quanto eventuali e spesso legate a situazioni soggettive particolari e/o accertabili solo ex post (così, ad es., l’indennità ex art. 42, comma 5-ter, D.lgs 151/2001 in tema di riposi e permessi per figli con handicap grave, l’indennità di vigilanza, l’indennità per personale scolastico, l’indennità per incentivi alla progettazione di cui alla cd Legge Merloni e lo stesso compenso per il lavoro straordinario).
Sotto questo punto di vista, non risultano probanti le tabelle “T13”, allegate alle memorie di costituzione dei convenuti, riportanti, assieme a quelle “T12”, il trattamento complessivo effettivamente erogato a tutto il personale di cat. C5 del Comune di Pistoia, senza distinzioni di sorta all’interno del medesimo personale.
Tutto ciò in disparte il fatto che i convenuti stessi arrivano ad ipotizzare per il Fo., sulla base delle richiamate tabelle, un trattamento, comprensivo di compensi accessori e 13^ mensilità, ben inferiore a quello concretamente percepito.
Ne deriva che la differenza tra le somme effettivamente percepite dal Fo. nel periodo 2009-2012 qui in contestazione (euro 50.000,00 annui lordi) e quelle che lo stesso avrebbe potuto percepire, nel medesimo periodo (euro 23.726,43 annui lordi), costituisce sicuro danno erariale, trattandosi di importo che eccede quello corrispondente ai requisiti culturali e professionali dell’incaricato, tali da giustificare l’inquadramento (unicamente) nella categoria C5 CCNL Enti locali.
Sul punto, non può dubitarsi, trattandosi di circostanza non contestata dalle parti, che il Fo. abbia effettivamente operato, nel periodo considerato in questa sede, quale Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, prestando un’attività nell’interesse e a vantaggio del Comune di Pistoia, per la quale sarebbe stato, dunque, necessario erogare un compenso, sia pure in misura inferiore a quella concretamente riconosciuta.
Sotto questo punto di vista, risulta irrilevante il mancato possesso del diploma di laurea, siccome titolo culturale non indefettibile, come detto, ai fini dell’accesso all’incarico de quo.
Nondimeno, in superamento delle argomentazioni della difesa del Be., non può ritenersi che il danno erariale (alias, il trattamento eccedente quello discendente dal corretto livello di inquadramento) sia stato compensato dalla utilità conseguita dall’Ente per effetto dell’attività espletata dal Fo. (art. 1, comma 1-bis, legge 20/1994).
Tutto ciò in quanto le stesse previsioni contrattuali fissano il corrispettivo concretamente erogabile per l’attività svolta da soggetti in possesso dei requisiti culturali e professionali del tipo di quelli concretamente posseduti dal Fo. stesso, sulla base di una valutazione preventiva che investe anche il profilo dell’utilità per l’Amministrazione di prestazioni rese da soggetti in possesso dei predetti titoli.
Il richiamato danno va ricondotto, in termini eziologici, alla condotta del convenuto Be., il quale ha assunto il più volte richiamato decreto n. 130 del 27.06.2007, prevedente il conferimento al Sig. Fo. dell’incarico di Responsabile dell’Ufficio del Sindaco, con l’attribuzione al medesimo, a titolo di acconto e salvo conguaglio, nelle more della fissazione del compenso definitivo da parte della Giunta (invero mai intervenuta), del compenso dal medesimo già percepito quale Capo di Gabinetto (euro 50.000,00 annui lordi, giusta decreto sindacale n. 330 del 30.9.2002, richiamato nelle premesse di quello n. 130/07).
Trattandosi di atto assunto, in via diretta ed autonoma, dal convenuto Be. nell’esercizio delle sue precipue competenze sindacali, non può trovare spazio nel caso all’esame la “esimente politica” di cui all’art. 1, comma 1-ter, legge 20/1994, per contro invocata dalla difesa.
Nella condotta del convenuto Be. è sicuramente ravvisabile il profilo soggettivo della colpa grave, attesa l’estrema trascuratezza e superficialità mostrate nella salvaguardia delle risorse finanziarie del Comune di Pistoia, con il riconoscimento al Fo., in violazione dei canoni di ragionevolezza e buon andamento della P.A., di un compenso sganciato da ogni oggettivo parametro di riferimento e ben superiore a quello giustificato dai requisiti culturali e professionali del medesimo.
Tutto ciò anche alla luce della chiarezza e specificità del quadro normativo di riferimento.
Sotto questo punto di vista, non può trovare accoglimento l’argomentazione difensiva, alla cui stregua la fissazione dello specifico livello retributivo del dipendente, nel confronto con le mansioni assegnate e con i relativi requisiti curriculari, avrebbe richiesto specifiche competenze tecnico-specialistiche, estranee alle funzioni proprie degli organi politici del Comune.
A tal riguardo, giova osservare che
il Sig. Be., quale Sindaco del Comune di Pistoia, operava in un ambito istituzionale di assoluta rilevanza, ricoprendo un ruolo che richiedeva la padronanza di quei fondamentali principi dell’agire amministrativo e della contabilità pubblica, peraltro di semplicissima ed intuitiva evidenza, che impongono di legare il compenso di soggetti assunti dall’esterno ex art. 90 TUEL a parametri oggettivi, suscettibili di verifica e riscontro immediati.
D’altro canto,
concorre a far risaltare ulteriormente la grave colpevolezza del Sindaco Be. la circostanza per cui lo stesso ha omesso di convocare la Giunta per determinare il compenso definitivo da attribuire al Fo., nonostante l’espressa previsione in tal senso contenuta nel decreto n. 130/07, in conformità all’art. 5, comma 3, del Regolamento sull’ordinamento degli uffici e servizi (esplicitamente richiamato).
Sul punto, non risultano condivisibili le tesi difensive, secondo le quali, non avendo i dirigenti competenti e l’Assessore delegato per materia posto in essere una serie di passaggi procedimentali, di asserita, esclusiva competenza degli stessi (istruzione e redazione da parte delle strutture burocratiche di una proposta di delibera, da trasmettere, previa acquisizione del visto dell’Assessore competente, al Dirigente del Servizio Affari Generali ed Istituzionali, affinché la stessa fosse posta all’ordine del giorno della Giunta), il Sindaco Be. si sarebbe trovato nell’impossibilità di proporre ed imporre la discussione e l’approvazione della delibera in questione.
La convocazione (e la presidenza) della Giunta rientrano, infatti, nelle precipue competenze sindacali, stante l’espressa previsione di cui all’art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
In ogni caso, poi, il Sindaco Be. avrebbe potuto (quanto meno) stimolare le competenti strutture burocratiche ad attivare ed espletare un procedimento amministrativo finalizzato a determinare in via definitiva il compenso del Fo., secondo quanto espressamente previsto nel decreto sindacale di nomina dello stesso.
Alla luce di tutto quanto sopra esposto,
va affermata la responsabilità amministrativa del Sindaco Be. in relazione alla vicenda de qua, ferma restando la necessità, che sarà successivamente soddisfatta, di procedere alla puntuale determinazione della somma da porre a carico dello stesso, a titolo di pregiudizio erariale.
   5.b) Per contro, deve essere rigettata la pretesa erariale nei confronti del convenuto Fe.Ca., attesa l’assenza di nesso eziologico.
Dagli atti di causa non emerge, infatti, alcuna prova certa del coinvolgimento dello stesso nella specifica vicenda per cui è causa.
Non risulta, in particolare, che al Fe., quale Segretario generale dell’Ente, sia stato preventivamente chiesto un parere sulla legittimità del decreto sindacale n. 130/07 (circostanza invero esclusa dalla stessa Procura contabile a pag. 27 dell’atto di citazione) e che lo stesso decreto, in epoca successiva alla sua adozione, sia stato a lui trasmesso.
Né il predetto coinvolgimento può farsi discendere dalla circostanza per cui il Fe. risulta tra i destinatari di specifica interpellanza diretta a far luce sulle procedure relative alla costituzione e al funzionamento dell’Ufficio stampa, dello Staff del Sindaco e dell’Ufficio Portavoce del Sindaco.
Tutto ciò in quanto la predetta interpellanza, acquisita al protocollo dell’Ente in data 5/06.07.2005, risulta ben antecedente al conferimento dello specifico incarico contestato in questa sede, riferendosi, dunque, ad un assetto organizzativo diverso da quello qui vagliato.
D’altro canto, in maniera alquanto significativa, lo stesso Organo requirente, in citazione, sottolinea la diversità e maggiore incisività dei compiti attribuiti al Fo. con il decreto n. 130 del 2007 contestato in questa sede (pag. 26).
Allo stesso modo,
i “compiti di collaborazione” e le “funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti”, intestati in capo al Segretario generale in base all’art. 97 T.U.E.L., non possono evidentemente comportare la responsabilità dello stesso rispetto a vicende, per le quali non risulti un diretto ed immediato coinvolgimento dello stesso.
In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, va disposta l’assoluzione del Sig. Fe.Ca..
All’assoluzione consegue, ai sensi dell’art. 3, comma 2-bis del decreto legge 543/96, convertito dalla legge n. 639/1996 e s.m.i. (oggi, art. 31 del nuovo codice della giustizia contabile, approvato con il d.lgs. n. 174/2016), il rimborso, da parte del Comune di Pistoia, delle spese legali, quantificate in euro 800,00.
6. Si pone a questo punto la necessità di procedere alla puntuale quantificazione dell’importo da porre a carico del convenuto Be., a titolo di pregiudizio erariale.
A tal riguardo, va ribadito che, nel periodo contestato in questa sede (2009-2012, rectius, gennaio 2009-08.05.2012, data di cessazione dell’incarico, come da determina dirigenziale n.1089 del 14.05.2012; all. n. 11-bis alla memoria di costituzione del sig. Be.), al Fo. è stato erogato l’importo complessivo lordo di euro 165.780,83 (vedasi schema riepilogativo riportato a pag. 1 dell’atto di citazione; vedasi, altresì, pag. 8 della relazione della Guardia di Finanza del 24.09.2013, prot. n. 303452/13, con la documentazione ivi allegata).
Al medesimo importo va, però, sottratto, in virtù della prescrizione già dichiarata in questa sede, quello lordo di euro 3.612,18 (relativo al mese di gennaio 2009), ottenendosi per questa via la somma complessiva lorda di euro 162.168,65.
Da tale importo va, poi, detratto quanto avrebbe dovuto essere erogato al Fo. in base al corretto livello di inquadramento, ossia euro 75.300,47 lordi, derivante dalla sommatoria degli importi sottoindicati:
   a) euro 20.076,21 per l’anno 2009 (ottenuto moltiplicando l’importo di euro 1.825,11, pari a 1/13 di quello annuale, comprensivo di 13^mensilità, di euro 23.726,43, come sopra calcolato, per 11, non considerando il mese di gennaio, coperto da prescrizione);
   b) euro 23.726,43 per l’anno 2010;
   c) euro 23.726,43 per l’anno 2011;
   d) euro 7.771,4 per l’anno 2012 (ottenuto, alla luce della cessazione dell’incarico in data 08.05.2012, moltiplicando l’importo di euro 1.825,11, come sopra calcolato, per 4 –primi quattro mese dell’anno- ed aggiungendo alla somma così ottenuta– euro 7.300,44- l’importo di euro 470,96, relativo al mese di maggio, a sua volta ottenuto dividendo l’importo mensile di euro 1.825,11 per 31 -giorni del mese- e moltiplicando quanto ottenuto per 8).
Per questa via, si ottiene l’importo lordo di euro 86.868,18 (pari alla differenza tra euro 162.168,65 ed euro 75.300,47).
Dal medesimo importo vanno, però, scomputate le ritenute fiscali e previdenziali, in quanto comunque recuperate all’Erario (in termini, tra le altre, Corte Conti, Sez. III, nn. 167 e 273 del 2014).
Le somme da scomputare al predetto titolo, in assenza di più sicuri parametri di riferimento, vanno equitativamente fissate, ai sensi dell’art. 1226 c.c., in una percentuale pari al 20% dell’importo lordo di euro 86.868,18, con la conseguenza che la somma da addebitare al convenuto Berti si riduce ad euro 69.494,54.
Tale importo va integralmente addebitato al convenuto Be., attese l’assoluzione dell’altro convenuto Fe. (per assenza di nesso eziologico) e l’impossibilità di ravvisare una compartecipazione nella causazione del danno di altri soggetti, non evocati in giudizio (in particolare, i componenti dell’apparato burocratico dell’Ente).
Questi ultimi, infatti, risultano intervenuti a dare mera attuazione ad una decisione già autonomamente assunta, nell’ambito delle sue precipue competenze sindacali, dal Sindaco Be., con l’adozione del più volte citato decreto n. 130 del 20.06.2007.
Allo stesso modo, il Collegio non ravvisa la sussistenza dei presupposti per l’esercizio del potere riduttivo dell’addebito di cui all’art. 52, comma 2, R.D. n. 1214/1934, alla luce della gravità della condotta addebitata, consistita nell’attribuzione, in violazione dei canoni di ragionevolezza e buon andamento della P.A., di un compenso sganciato da parametri oggettivi di riferimento e ben superiore a quello giustificato dai requisiti culturali e professionali dell’incaricato.
7. In conclusione, alla luce di tutto quanto sopra esposto, va disposta la condanna del Sig. BE.Re. al pagamento, in favore del Comune di Pistoia, dell’importo, da intendersi già comprensivo di rivalutazione, di euro 69.494,54.
Sul predetto importo sono dovuti gli interessi, come da dispositivo.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Toscana, in composizione collegiale, definitivamente pronunciando:
   - RIGETTA le richieste ed eccezioni preliminari dei convenuti, ad eccezione di quella di prescrizione parziale dell’azione erariale;
   - ACCOGLIE parzialmente l’eccezione di prescrizione dell’azione erariale, con riferimento all’importo di euro 3.612,18;
- RIGETTA la pretesa erariale nei confronti del Sig. FE.Ca., con il riconoscimento del diritto dello stesso al rimborso, da parte del Comune di Pistoia, delle spese legali, quantificate in euro 800,00;
   - CONDANNA il Sig. Sig. BE.Re. al pagamento, in favore del Comune di Pistoia, dell’importo di euro 69.494,54, già comprensivo di rivalutazione.
Sull’importo per cui è condanna sono dovuti gli interessi, nella misura di legge, dalla data di pubblicazione della presente sentenza e fino al soddisfo.
Le spese di giudizio, che si liquidano in € 694,98.= (Euro seicentonovantaquattro/98.=) seguono la soccombenza (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 19.09.2017 n. 209).

LAVORI PUBBLICIIl leasing finanziario in PPP non è sempre indebitamento. Sezione autonomie: ciò che conta è che i rischi siano in capo all'operatore economico.
Non basta il nome per qualificare il partenariato pubblico privato come «leasing operativo» e in quanto tale non impattante sull'indebitamento. Per evitare di peggiorare i propri conti e gravare sul tetto massimo all'indebitamento, gli enti dovranno dimostrare «rigorosamente» che è il partner privato ad accollarsi i rischi dell'operazione, in coerenza con i principi dettati da Eurostat.

Lo ha chiarito con la deliberazione 23.06.2017 n. 15 la sezione autonomie della Corte dei conti, ponendo così fine a una situazione di incertezza interpretativa che, in assenza di norme certe e univoche, grava sulla materia da anni.
A sollevare la questione dinanzi alla sezione autonomie è stata la sezione regionale di controllo della Lombardia, a sua volte chiamata a rispondere a un quesito del comune di Orio al Serio (Bg) che intendeva realizzare una palestra in partenariato pubblico privato, qualificando e contabilizzando l'operazione come «leasing operativo».
Uno schema giuridico che prevedendo per l'ente solo il godimento del bene, senza trasferimento della proprietà dello stesso al termine dell'operazione, non è annoverabile tra le forme di indebitamento. Diverso, invece, il caso del «leasing finanziario», il cui elemento caratterizzante, come chiarito dalla Cassazione, «è proprio l'effetto traslativo della proprietà al termine dell'operazione», il che lo qualifica come finanziamento e quindi come operazione impattante sull'indebitamento.
La sezione autonomie ha chiarito che, in via generale, il contratto riconducibile allo schema del leasing finanziario costituisce indebitamento, salvo che l'amministrazione, previa valutazione della convenienza ed economicità dell'operazione, non dimostri che i rischi siano allocati in capo al contraente privato.
Ciò dovrà risultare sia negli atti preparatori del contratto, sia in modo chiaro e puntuale nel contratto redatto ai sensi dell'art. 180 del codice appalti. Dunque la presunzione legale circa la qualificazione del leasing finanziario come fonte di indebitamento non può, secondo la Corte conti, continuare a essere definita assoluta (iuris et de iure), ma bensì solo relativa (iuris tantum), quindi ammessa salvo prova contraria.
«Non è sufficiente, insomma», scrive la Corte, «che un contratto venga nominalmente qualificato come contratto di partenariato pubblico privato, né che vi siano clausole di mero stile ma prive di chiaro contenuto esplicativo dei rischi e della loro allocazione tra le parti per escluderne l'annoverazione tra le fonti di indebitamento, con quello che ne consegue in termini di modalità di contabilizzazione, di computo ai fini del calcolo del tetto del debito massimo ammissibile, di responsabilità per quanti contribuiscano a porre in essere atti negoziali elusivi del limite di indebitamento».
Quello che conta, invece, è l'allocazione dei rischi in capo all'operatore economico. Essa rappresenta infatti una «condizione tipica» e quindi un parametro indispensabile per escludere l'operazione tra quelle di indebitamento puro. «Altre forme di realizzazione in partenariato latu sensu di opere e servizi il cui regolamento sia frutto dell'autonomia negoziale delle parti», conclude la Corte, «sono ascrivibili in via presuntiva alla figura del leasing finanziario, fattispecie riconducibile al contratto di finanziamento a fini di investimento che costituisce indebitamento per l'ente appaltante» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2017).
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MASSIMA
La Sezione delle autonomie della Corte dei conti, pronunciandosi sulla questione di massima posta dalla Sezione di regionale di controllo per la Lombardia con la deliberazione n. 36/2017/QMIG, enuncia i seguenti principi di diritto:
  
“1. Le operazioni di locazione finanziaria di opere pubbliche di cui all’art. 187 se pienamente conformi nel momento genetico-strutturale ed in quello funzionale alla regolamentazione contenuta negli artt. 3 e 180 del codice dei contratti, ai fini della registrazione nelle scritture contabili, non sono considerate investimenti finanziati da debito.
   2. Le procedure di realizzazione in partenariato di opere pubbliche e servizi che non siano sostanzialmente corrispondenti alla regolamentazione tipica generale, definita nelle surricordate norme del codice dei contratti, devono considerarsi rientranti nel novero dei contratti e delle operazioni assimilate al contratto di leasing finanziario, ai sensi dell’art. 3, comma 17, della l. n. 350/2003, indipendentemente dalla qualificazione formale attribuita dalle parti, secondo le disposizioni contenute nel punto 3.25 del principio contabile applicato all. 4/2 al d.lgs. n. 118/2011, con ogni coerente conseguenza in termini di modalità di contabilizzazione, di computo ai fini del calcolo del tetto del debito massimo ammissibile, di responsabilità per quanti contribuiscano a porre in essere atti negoziali elusivi del limite di indebitamento”.

CONSIGLIERI COMUNALI - ENTI LOCALIChi sfora sui bilanci segnalato dai revisori alla Corte conti. Linee guida della magistratura contabile per gli organi di regioni e province autonome.
Gli organi di revisione delle Regioni e delle Province autonome sono tenuti a verificare e a segnalare alla Corte dei conti il mancato rispetto dei termini per l'approvazione del bilancio di previsione, del rendiconto e del bilancio consolidato, posto che tale inadempimento adesso comporta la sanzione del divieto di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo. Inoltre, gli stessi dovranno attentamente vigilare sulla corretta attuazione dei principi sanciti dall'armonizzazione contabile, in particolare su quelli della programmazione, posto che l'attendibilità, la congruità e la coerenza dei documenti di programmazione sono i veri cardini dell'affidabilità dell'intero sistema di bilancio.

È quanto si evince dalla lettura delle linee guida (e del relativo questionario) che la Sezione Autonomie della Corte dei conti, con deliberazione 16.06.2017 n. 13, ha diramato per indirizzare le relazioni che i collegi dei revisori dei conti sono tenuti a presentare sui bilanci di previsione delle Regioni per il 2017-2019, ai sensi dell'articolo 1, comma 166 della legge finanziaria per il 2006.
Linee guida che, a conti fatti, si sono rivelate uno strumento efficace per la collaborazione tra la stessa magistratura contabile e gli organi di controllo interno, in quanto «favoriscono la condivisione delle informazioni contabili ed extracontabili ai fini del risultato di sana gestione economico-finanziaria degli enti».
La Corte evidenzia alcuni profili di novità rispetto al passato. Su tutti, quello introdotto dall'articolo 9, comma 1-quinquies, del decreto legge n. 113/2016. A partire dal bilancio di previsione 2017-2019, dal rendiconto 2016 e dal bilancio consolidato 2016, viene sanzionato sia il mancato rispetto dei termini previsti per l'approvazione dei citati documenti che il termine di trenta giorni dalla loro approvazione per l'invio delle risultanze alla Banca dati delle pubbliche amministrazioni (Bdap).
La sanzione come noto, si concretizza nel divieto assoluto per gli enti territoriali, di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo, con qualsivoglia tipologia contrattuale, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, fino a quando non avranno ottemperato. Per la Corte, è importante che l'organo di revisione verifichi il rispetto delle scadenze previste dalla legge, in quanto trattasi di «sanzioni autoapplicative» e che i divieti sopra richiamati siano rispettati fino all'avvenuto adempimento dell'obbligo di legge.
Il questionario allegato alle linee guida è composto da otto sezioni, tra cui quelle che evidenziano la presenza di problematiche legate alla gestione del personale, la verifica sulle coperture utilizzate per conseguire l'equilibrio di bilancio, la razionalizzazione del sistema delle partecipazioni e il rispetto delle norme in tema di indebitamento. Infine, la Corte sollecita gli organi di revisione ad un'attenta vigilanza sui principi di armonizzazione contabile. In particolare, si pone l'attenzione sul principio della programmazione, posto che dall'attendibilità, dalla congruità e dalla coerenza dei documenti di programmazione si otterrà quel grado di affidabilità dell'intero bilancio.
Alta vigilanza anche sui profili riguardanti la copertura finanziaria e la sostenibilità dell'indebitamento, gli accantonamenti al fondo rischi e perdite, nonché il bilancio preventivo economico consolidato del Servizio sanitario regionale e i piani di razionalizzazione degli enti e degli organismi strumentali della Regione (articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: I documenti digitali.
DOMANDA:
Si chiede conferma del fatto che ad oggi il CAD non è sospeso come non lo sono le regole tecniche, per cui le P.A. devono produrre gli originali dei propri documenti con mezzi informatici. Da una ricostruzione delle norme il termine per la digitalizzazione della P.A. avrebbe dovuto essere il 12/08/2017. Non mi risultano proroghe in tal senso.
Quindi la PA è obbligata a formare i propri documenti in modalità digitale?
RISPOSTA:
Il quesito è relativo all'obbligo per le amministrazioni di formare digitalmente gli originali dei propri documenti (art. 40, comma 1, D.Lgs. n. 82/2005). Il D.Lgs. 179/2016, nel modificare il CAD, non ha alterato il contenuto dell'obbligo, ma ha previsto una sospensione del termine ultimo di adeguamento alle regole tecniche (Dpcm 13.11.2014) fino a data da destinarsi, ossia finché non saranno emanate le nuove regole tecniche ai sensi dell'art. 71 CAD.
Tuttavia, questo non significa che -nel frattempo- le amministrazioni possano continuare a formare tutti gli originali dei documenti come analogici.
Ad esempio, nel caso in cui i documenti debbano essere pubblicati sul web oppure comunicati telematicamente ai destinatari, gli stessi dovranno essere formati come informatici e sottoscritti digitalmente nel rispetto delle regole tecniche (su quest'ultimo caso si veda Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 31.08.2017 n. 20672) (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Parità di genere per tutti. Si applica anche se non recepita nello statuto. Il principio va considerato precettivo anche per i piccoli comuni.
Un ente locale con una popolazione inferiore a 3.000 abitanti, quale disciplina dovrà applicare, in tema di parità di genere, nella composizione della giunta comunale?

La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha previsto, affinché sia rispettato il principio dell'equilibrio di genere, il quorum del 40% per i soli comuni con popolazione superiore ai 3.000 abitanti; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica resta vigente, invece, l'art. 6, comma 3, del dlgs n. 267/2000.
La disposizione citata prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti.
Tale disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» e ha aggiunto all'espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi». L'art. 1, comma 2, di tale legge, inoltre, prevede che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della stessa, adeguino i propri statuti e regolamenti alle disposizioni recate dell'art. 6, comma 3, del richiamato Tuel.
L'art. 2, comma 1, lett. b), della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il sindaco e il presidente nella provincia nominano i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
Tale normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini.
Nel caso dei comuni rientranti nella sopraindicata fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Tra l'altro, ferma restando la necessità dell'adeguamento dello statuto comunale da parte dell'ente interessato, le citate disposizioni sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione nello statuto stesso (articolo ItaliaOggi del 22.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Fruizione permessi l. 104 per assistenza soggetto ricoverato.
Domanda
Un dipendente fruisce dei 3 giorni di permesso di cui all’art. 33, comma 3, della l. 104/1992 per assistere ad un familiare disabile che viene ricoverato presso una struttura ospedaliera. Lo stesso dipendente riferisce che i medici della struttura documentano il bisogno di assistenza da parte di un familiare.
Il dipendente può fruire dei permessi ex l. 104/1992 anche se il disabile è ricoverato?
Risposta
L’art. 33, comma 3, della l. 104/1992 precisa che i permessi retribuiti spettano a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, tuttavia, l’INPS, nella circolare n. 32 del 06.03.2012, ha fatto un’elencazione delle ipotesi che fanno eccezione al requisito dell’assenza del ricovero a tempo pieno.
Premesso che per ricovero a tempo pieno si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativa, elenchiamo di seguito le eccezioni che legittimano a detta dell’INPS la fruizione dei permessi retribuiti anche in caso di ricovero:
   • interruzione del ricovero a tempo pieno per necessità del disabile in situazione di gravità di recarsi al di fuori della struttura che lo ospita per effettuare visite e terapie appositamente certificate (messaggio n. 14480 del 28.05.2010);
   • ricovero a tempo pieno di un disabile in situazione di gravità in stato vegetativo persistente e/o con prognosi infausta a breve termine (circolare n. 155 del 03.12.2010, p. 3);
   • ricovero a tempo pieno di un soggetto disabile in situazione di gravità per il quale risulti documentato dai sanitari della struttura il bisogno di assistenza da parte di un genitore o di un familiare, ipotesi precedentemente prevista per i soli minori (circolare n. 155 del 03.12.2010, p. 3).
La rilevanza costituzionale degli interessi protetti induce a ritenere legittima un’interpretazione estensiva della norma, così come operata dall’INPS, legittimando la fruizione dei permessi ove vi sia una certificazione medica dalla quale risulti la necessità di presenza del soggetto che presta assistenza (21.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI: Provvedimenti di esclusione presidente gara.
Domanda
Il presidente della commissione di gara può adottare i provvedimenti di esclusione?
Risposta
Il quesito presenterà una particolare rilevanza soprattutto in seguito alla definitiva redazione dell’albo dei commissari con il conseguente obbligo delle stazioni appaltanti di individuare (almeno) il presidente dell’organo giudicatore direttamente dall’elenco che verrà gestito dall’ANAC.
Come emerge dalle linee guida (in particolare le n. 5/2016 dedicate alle commissioni giudicatrici) la commissione di gara non potrà più adottare atti di amministrazione attiva e, tra questi, vanno sicuramente annoverati i provvedimenti di esclusione.
Prima di questa fase –e quindi nel regime transitorio– si deve ritenere che le commissioni possano procedere anche adottando tali provvedimenti.
Nel recente bando tipo relativo alle forniture e servizi sopra soglia comunitaria da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (approvato con la deliberazione ANAC n. 1228/2017 in vigore trascorsi 15 giorni dalla pubblicazione in G.U.), l’autorità anticorruzione chiarisce che i provvedimenti di esclusione non vengono adottati dalla commissione ma questa si limita a proporli al RUP (o al seggio di gara o all’ufficio/servizio preposto secondo la modalità organizzativa della stazione appaltante).
A tal riguardo, si legge nel documento che in qualsiasi fase delle operazioni di valutazione delle offerte tecniche ed economiche, “la commissione provvede a comunicare, tempestivamente” al soggetto individuato dalla stazione appaltante (che, come detto, può coincidere con il RUP, con un seggio di gara o con un ufficio/servizio appositamente apprestato) “i casi di esclusione”.
Nella fase di valutazione, i casi di esclusione potranno riguardare:
   a) la mancata separazione dell’offerta economica dall’offerta tecnica, ovvero l’inserimento di elementi concernenti il prezzo in documenti contenuti nelle buste A e B;
   b) la presentazione di offerte parziali, plurime, condizionate, alternative nonché irregolari, ai sensi dell’art. 59, comma 3, lett. a), del codice, in quanto non rispettano i documenti di gara, ivi comprese le specifiche tecniche;
   c) presentazione di offerte inammissibili, ai sensi dell’art. 59, comma 4 lett. a) e c), del codice, in quanto la commissione giudicatrice ha ritenuto sussistenti gli estremi per informativa alla Procura della Repubblica per reati di corruzione o fenomeni collusivi o ha verificato essere in aumento rispetto all’importo a base di gara.
Analogo ragionamento, sempre espresso dall’ANAC sia nel bando tipo sia nelle linee guida n. 3 (dedicate al responsabile unico del procedimento) è previsto in relazione alle offerte che dovessero, dopo la verifica condotta a cura del RUP, risultare anomale. Anche in questo caso il provvedimento di esclusione è di competenza del RUP a prescindere dalla circostanza che coincida o meno con il responsabile del servizio e sia o meno un dirigente (20.12.2017 - link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sanzioni pecuniarie whistleblower.
Domanda
Nella nuova disposizione normativa in materia di segnalazioni di illecito presentate dai dipendenti (whistleblower), sono previste sanzioni pecuniarie?
Risposta
Le nuove disposizioni in materia di segnalazione di illeciti sono contenute nella legge 27.11.2017, n. 179 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 291 del 14.12.2017, in vigore dal 29.12.2017.
La disposizione si compone di tre articoli. Nel primo viene completamente riscritto l’art. 54-bis, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165, che era stato introdotto nell’ordinamento con la legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190).
Le sanzioni amministrative pecuniarie, prima non previste, vengono inserite nel comma 6, e prevedono tre distinte casistiche:
   1. qualora venga accertata l’adozione di misure discriminatorie da parte degli enti nei confronti del segnalante, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura, una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro;
   2. qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro;
   3. qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile dell’Anticorruzione delle necessarie attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
L’ANAC stabilirà l’importo della sanzione da applicare, sulla base delle dimensioni dell’amministrazione cui si riferisce la segnalazione (19.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI: Quesito: In una gara per l’affidamento dei servizi di mensa scolastica è obbligatorio che il concorrente indichi nella propria offerta i costi di manodopera?
Risposta. Il D.Lgs. n. 56/2107 ha modificato l’art. 95 del D.lgs. n. 50/2016 introducendo al comma 10 “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)”.
L’appalto oggetto di quesito non rientra tra le deroghe previste dal codice, pertanto, quand’anche il bando non esplicitasse tale onere, i concorrenti sono tenuti a specificare non solo gli oneri aziendali, ma anche i costi di manodopera che dovrà sostenere per l’esecuzione dell’appalto (tratto dalla newsletter 15.12.2017 n. 192 di http://asmecomm.it).

APPALTI: Quesito: Si può procedere all’aggiudicazione di una gara senza aver eseguito le verifiche dei requisiti sulla ditta prima in graduatoria?
Risposta. La Stazione Appaltante non può procedere alla fase aggiudicazione definitiva senza aver eseguito la verifica dei requisiti richiesti si concorrenti. L’art. 32, comma 5, del D.Lgs. n. 50/2016 ha precisato che “la stazione appaltante, previa verifica della proposta di aggiudicazione ai sensi dell’articolo 33, comma 1, provvede all’aggiudicazione”.
Il successivo comma 7 specifica che “l’aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti” (tratto dalla newsletter 15.12.2017 n. 192 di http://asmecomm.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigli, quorum equo. No all'ostruzionismo della maggioranza. I consiglieri di opposizione devono poter esercitare il proprio mandato.
Affinché possano ritenersi valide le sedute consiliari di seconda convocazione, quale quorum deve ritenersi necessario?

Il Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali demanda al regolamento comunale, «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto», la determinazione del «numero dei consiglieri necessario per la validità delle sedute», con il limite che tale numero non può, in ogni caso, scendere sotto la soglia del «terzo dei consiglieri assegnati per legge all'ente, senza computare a tale fine il sindaco e il presidente della provincia» (art. 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000).
Nella fattispecie in esame, il consiglio comunale ha deliberato la modifica del regolamento sul funzionamento dell'organo consiliare recante «seduta di seconda convocazione» prevedendo, ai fini della validità della seduta, la presenza di «almeno quattro consiglieri».
Poiché il consiglio comunale in questione è composto da soli tre consiglieri di minoranza, è stata segnalata la difficoltà di questi ultimi di poter esercitare il proprio mandato elettivo, a causa del ripetersi delle assenze della maggioranza e alla conseguente mancanza del numero legale previsto per la validità delle sedute del consiglio.
In merito a tale problematica, il Tar Sicilia, Catania, sez. I 18/07/2006, n. 1181, pronunciandosi in tema di c.d. «ostruzionismo di maggioranza», ha evidenziato che il comportamento preordinato al conseguimento della mancanza del numero legale delle assemblee rappresentative costituisce una inammissibile prevaricazione della maggioranza nei confronti delle minoranze, alle quali viene impedito di esercitare il proprio ruolo di opposizione e quindi l'esercizio di un diritto politico costituzionalmente garantito.
Secondo il Tar citato, l'art. 49 della Costituzione preclude ai partiti politici e ai loro rappresentanti «qualunque opera non solo di aperto sabotaggio ma anche di subdola, lenta e surrettizia erosione delle istituzioni democratiche».
Pertanto, la modifica regolamentare proposta, unitamente alla lamentata assenza sistematica dei componenti di maggioranza, potrebbero configurare un inammissibile svilimento dei diritti e delle prerogative dei consiglieri di minoranza. Premesso che il vigente ordinamento non prevede poteri di controllo di legittimità sugli atti degli enti locali in capo al ministero dell'interno, si ritiene che l'ente locale in oggetto debba valutare l'opportunità di rivedere la normativa regolamentare in questione (articolo ItaliaOggi del 15.12.11.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: WhatsApp e accertamenti di violazione.
Domanda
In presenza di servizio comunale di segnalazione dai cittadini tramite WhatsApp o altro social network, la polizia locale –o in generale l’organo addetto al controllo– hanno un obbligo di intervento? E se si, possono procedere ad accertare una violazione?
Risposta
Con il dilagare dei social network diversi comuni hanno attivato un numero mobile dedicato alle segnalazioni da parte del cittadino. Tale servizio il più delle volte viene fornito per far partecipare il cittadino su temi quali la manutenzione stradale o il verde pubblico, servizio veicolato solitamente tramite “WhatsApp”.
In sostanza il singolo utente, in preda molto spesso a quello che viene definito il fenomeno da “leone da testiera”, riversa le più disparate segnalazioni, spesso allegando ai messaggi, foto o anche video. Tra questi anche cittadini eccessivamente zelanti, che con accanimento “sollecitano” pedantemente i diversi uffici comunali.
Tra questi uffici in primis c’è la Polizia locale, a cui il cittadino si rivolge principalmente per chiedere l’applicazione di una sanzione, perché convinto di aver subito un abuso o aver visto una “grave” violazione.
Senza entrare nel merito di come andrebbe attivato il servizio, per esempio con identificazione esatta degli utenti e specificando limiti e responsabilità etc…, nel caso di una segnalazione qualificata da parte di un cittadino, nasce un obbligo da parte della pubblica amministrazione di verificare prima di tutto la fondatezza della stessa. Nel caso di segnalazioni anonime si rammenta che non sussiste alcun obbligo, ma mera facoltà quale stimolo di indagine.
La norma che disciplina, dal punto di vista amministrativo, l’attività accertativa è l’art. 13 della l. 689/1981 che prevede che “gli organi addetti al controllo sull’osservanza delle disposizioni per la cui violazione è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro possono, per l’accertamento delle violazioni di rispettiva competenza, assumere informazioni e procedere a ispezioni di cose e di luoghi diversi dalla privata dimora, a rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici e ad ogni altra operazione tecnica”.
Pertanto nel caso in cui l’organo addetto al controllo sia sollecitato tramite una segnalazione, che può costituire violazione (amministrativa), al fine di poter accertare il fatto, deve acquisire tutti gli elementi necessari all’istruttoria tra cui le fotografie, sentire a verbale il segnalante e verificare luoghi, data e ora dei fatti. Risulta chiaro che la procedura da attivare è assai gravosa considerata la dettagliata attività accertativa da svolgere. Il rischio concreto poi è di inseguire e generare numerose ripicche tra cittadini.
Quindi si ritiene che, in caso di segnalazioni, seppur qualificate, veicolate tramite i social network, salvo fatti significativi e che si ritengono rilevanti, le stesse siano in generale da trattare quale stimolo costruttivo per l’intervento e la vigilanza dell’organo addetto al controllo (15.12.2017 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Tassa di concorso.
Domanda
È possibile prevedere una tassa di ammissione ai concorsi? E di quale importo?
Risposta
In base all’art. 27, comma 6, del d.l. 55/1983, “La tassa di ammissione ai concorsi per gli impiegati presso i comuni, le province, loro consorzi ed aziende stabilita dall’articolo 1 del regio decreto 21.10.1923, n. 2361, nonché la tassa di concorso di cui all’articolo 45 della legge 08.06.1962, n. 604 , e successive modificazioni, sono eventualmente previste dalle predette amministrazioni in base ai rispettivi ordinamenti e comunque fino ad un massimo di lire 20.000.”
La norma è stata modificata con la l. 340/2000.
Si tratta di un contributo economico la cui esazione è facoltativa, ma qualora inserito nel regolamento dei concorsi, trova quale limite l’importo di € 10,33.
Vedasi anche il parere 17.12.2008 del Consiglio di Stato, Sez. I, affare n.  01596/2008 (14.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI: Concordato continuità aziendale.
Domanda
In sede di apertura di una procedura di gara un operatore economico ha dichiarato di trovarsi in stato di concordato con continuità aziendale.
È sufficiente quanto dichiarato dalla ditta ai fini dell’ammissione alla fase successiva, oppure è necessario richiedere precisazioni e/o dichiarazioni integrative?
Risposta
Il concordato con continuità aziendale non costituisce causa di esclusione dalla partecipazione alle procedure di affidamento di concessioni e appalti pubblici di lavori, forniture e servizi, e non preclude la stipula dei relativi contratti.
Al momento, in assenza di indicazioni specifiche rinvenibili nel vigente codice dei contratti, possono ravvisarsi due ipotesi, a cui conseguono differenti adempimenti amministrativi, riconducibili rispettivamente alla partecipazione a procedure di gara nella fase antecedente all’omologazione ovvero successive al decreto di omologa.
Nella situazione sopra delineata, la stazione appaltante dovrà sicuramente attivare il soccorso istruttorio, ai sensi dell’art. 83, comma 9, del codice e richiedere:
   a) nel caso di impresa ammessa a concordato con continuità aziendale non ancora omologato, le dichiarazioni di cui all’art. 110, commi 3 e 5, del codice (dichiarazioni integrative necessarie):
È ammesso a concordato con continuità aziendale [_] Sì [_] No
---------------
In caso di risposta affermativa alla lettera d):
– è stato autorizzato dal giudice delegato ai sensi dell’ articolo 110, comma 3, lett. a) del Codice
[_] Sì [_] No
In caso affermativo indicare il provvedimento di ammissione e di autorizzazione a partecipare alle gare specificando il numero dei provvedimenti e il Tribunale che li ha rilasciati: …………………………………………..
---------------
– la partecipazione alla procedura di affidamento è stata subordinata ai sensi dell’art. 110, comma 5, all’avvalimento di altro operatore economico?
[_] Sì [_] No
In caso affermativo indicare l’Impresa ausiliaria: …………………………………………..
   b) nel caso di impresa ammessa a concordato con continuità aziendale già omologato, l’indicazione del Tribunale che ha pronunciato l’omologazione e la data del citato decreto (precisazione).
Come recentemente affermato dal Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento, con sentenza del 24.05.2017 n. 179, “La procedura di concordato, per le finalità proprie della partecipazione alle gare pubbliche e degli adempimenti necessari, si esaurisce con il decreto di omologa ex art. 181 L.F., e che a seguito della pronuncia di questo si verifica per l’imprenditore il passaggio dal regime di spossessamento attenuato, proprio della procedura, al riacquisto della piena capacità di agire”.
Nella stessa linea interpretativa va collocata la determinazione ANAC n. 3 del 23.04.2014, in cui è precisato che in ambito concordatario “la cessazione della causa ostativa coincide… con la chiusura della procedura, che viene formalizzata con il decreto di omologazione del concordato preventivo ai sensi dell’art. 180 L.F.” (13.12.2017 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Decadenza dalla carica di un consigliere comunale. Procedimento.
   1) Non è necessario procedere alla comunicazione formale di avvio del procedimento di decadenza di un consigliere per ripetute assenze, qualora lo stesso abbia già fatto pervenire spontaneamente le proprie motivazioni a giustificazione della mancata presenza alle sedute consiliari.
   2) Il consiglio comunale, organo competente a pronunciarsi sulla decadenza, esaminate le cause giustificative addotte dal consigliere e la loro fondatezza, serietà e rilevanza, procede a deliberare circa la decadenza o meno dell'amministratore interessato.
   3) Nel silenzio di previsioni statutarie o regolamentari specifiche sulla modalità di voto, il consiglio comunale delibera a scrutinio segreto in merito alla decadenza di un amministratore per ripetute assenze.

Il Comune chiede un parere in materia di decadenza dei consiglieri comunali dalla carica per ripetute assenze. In particolare, desidera sapere:
   1) se sia necessario procedere all’avvio formale del procedimento di decadenza atteso che il consigliere in riferimento ha già fatto pervenire spontaneamente le proprie motivazioni a giustificazione delle sue assenze dalle sedute consiliari;
   2) quale sia l’oggetto della proposta di deliberazione da sottoporre al consiglio comunale ed in che termini lo stesso debba deliberare nel caso in cui intenda “respingere” l’istanza di decadenza;
   3) se il voto dei consiglieri debba o meno essere a scrutinio segreto.
In via generale, si ricorda che l’articolo 43, comma 4, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (TUEL), recita: “Lo statuto stabilisce i casi di decadenza per la mancata partecipazione alle sedute e le relative procedure, garantendo il diritto del consigliere a far valere le cause giustificative”.
Atteso che lo statuto dell’Ente è di data antecedente all’entrata in vigore del TUEL rileva il disposto di cui all’articolo 273 dello stesso nella parte in cui prevede che: “Le disposizioni degli articoli […] 289 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 04.02.1915, n. 148, si applicano fino all’adozione delle modifiche statutarie e regolamentari previste dal presente testo unico”.
In particolare, l’articolo 289 del R.D. 148/1915, al primo comma, stabilisce che: “I consiglieri, che non intervengono ad una intera sessione ordinaria, senza giustificati motivi, sono dichiarati decaduti.”. Il successivo terzo comma dispone, poi, che: “La decadenza è pronunciata dai rispettivi Consigli.”.
Quanto allo statuto comunale, lo stesso all’articolo 18, rubricato “Decadenza”, prevede che: “Si ha decadenza dalla carica di consigliere comunale: a) omissis; b) Per mancato intervento, senza giustificati motivi, ad una intera sessione ordinaria”. Il comma 2 del medesimo articolo, specifica, poi, che: “La decadenza è pronunciata dal consiglio comunale, d’ufficio, promossa dal Prefetto o su istanza di qualunque elettore del comune, decorso il termine di 10 giorni dalla notificazione all’interessato della relativa proposta”.
Ciò premesso e per rispondere al primo quesito posto, si osserva che la necessità di avvio del procedimento di contestazione mediante idonea comunicazione all’interessato, in conformità a quanto previsto dalla norma statutaria (nella parte in cui prevede la notificazione all’interessato della proposta di decadenza) e in ossequio ai principi espressi sul punto anche dalla giurisprudenza,
[1] si giustifica in relazione alla ratio sottesa a tale adempimento. In particolare, la regola procedimentale stabilita dall’articolo 7 della legge 07.08.1990, n. 241 [2] è, in via di principio, “volta all'esigenza di garantire piena visibilità all'azione amministrativa nel momento della sua formazione, nel contempo assicurando la partecipazione di coloro che hanno interesse al provvedimento finale. Funzione principale della norma è dunque quella di consentire al cittadino di dialogare con l'Amministrazione nelle more dell'emissione del provvedimento finale [3].
La giurisprudenza, sul punto, ha rilevato che: “La comunicazione prescritta dall'art. 7 della legge n. 241 del 1990 costituisce attuazione del principio in forza del quale il procedimento amministrativo, quando è preordinato all'emanazione di provvedimenti che apportano limitazioni agli interessi dei privati, deve essere disciplinato in modo che i cittadini siano messi in grado di esporre le loro ragioni, sia a tutela dei propri interessi sia a titolo di collaborazione nell'interesse pubblico, prima che sia assunta la determinazione da parte dell'Amministrazione”.
Atteso un tanto segue che, qualora lo scopo cui la comunicazione di avvio del procedimento è preordinata sia già stato raggiunto, risulta non necessario procedere con un formale atto di notificazione di instaurazione del procedimento amministrativo.
In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza la quale ha affermato che: “La comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo, di cui agli art. 7 e 8 l. 07.08.1990 n. 241, ha lo scopo di consentire all'interessato, a proposito di ogni atto amministrativo che possa recare offesa ai suoi diritti, libertà e interessi, di proporre fatti e argomenti e, occorrendo, di offrire mezzi di prova di cui l'autorità amministrativa terrà conto; e, pertanto, quando tale scopo sia stato in qualsiasi modo raggiunto, una comunicazione formale dell'avvio del procedimento è superflua e la sua omissione non rende illegittimo il provvedimento.”
[4]
Passando a trattare della seconda questione posta, atteso che nella fattispecie in esame la proposta di decadenza è stata sollevata da un consigliere nell’esercizio dei poteri a questi spettanti ai sensi dell’articolo 43, comma 1, del TUEL nella parte in cui dispone che: “I consiglieri comunali […] hanno diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del consiglio”, si ritiene che oggetto della proposta di deliberazione debba essere la richiesta di decadenza del consigliere XX per ripetute assenze.
[5] Il consiglio comunale, organo competente a pronunciarsi sulla decadenza, [6] esaminate le cause giustificative addotte dal consigliere interessato e la loro fondatezza, serietà e rilevanza, procederà a deliberare circa la decadenza o meno dell’amministratore interessato.
Quanto alla formula da utilizzare nel caso in cui l’organo consiliare non ritenga sussistano i presupposti per procedere alla dichiarazione di decadenza, premessa l’inesistenza di formule prestabilite, rientra nell’autonomia dell’organo consiliare utilizzare la dicitura più congeniale. A mero titolo esemplificativo si riportano alcune formulazioni utilizzate nella prassi:
   - “Oggetto: procedimento di decadenza del consigliere XX”; “Delibera: 1) di ritenere fondate le motivazioni a giustificazione delle assenze del consigliere comunale XX alla partecipazione alle sedute del consiglio comunale; 2) di non procedere alla dichiarazione di decadenza del consigliere comunale”;
   - “Oggetto: Pronuncia del consiglio comunale sulla decadenza del consigliere XX, ai sensi dell’articolo YY dello Statuto comunale”; “Delibera: di pronunciarsi contro la decadenza dalla carica di consigliere di XX”;
   - “Oggetto: Art. YY del vigente statuto comunale – Procedimento di decadenza per mancata partecipazione ai lavori del consiglio comunale. Determinazioni”; “Delibera: di accogliere le giustificazioni presentate dal consigliere XX, dando atto pertanto che non sussistono i presupposti per dichiarare la decadenza dalla carica di consigliere comunale dello stesso”.
Passando a trattare dell’ultima questione posta, nel silenzio di previsioni specifiche sull’argomento nello statuto o nel regolamento dell’Ente, soccorrono le considerazioni della giurisprudenza la quale, con riferimento ad un’intervenuta pronuncia di decadenza di un consigliere, ha affermato che: «[…] in base alla giurisprudenza formatasi sull’art. 289 t.u. com. prov. 1915 (r.d. 04.02.1915, n. 148), la segretezza del voto, prescritta per le “deliberazioni concernenti persone”, può essere derogata solo quando la delibera, pur riguardando persone determinate, sia del tutto vincolata, dipendendo esclusivamente dall’accertamento di fatti ed elementi obiettivi, sicché anche sotto tale aspetto la delibera, assunta con voto palese, con evidente lesione della posizione del ricorrente, deve ritenersi illegittima»
[7].
Nello stesso senso anche il Supremo giudice amministrativo ha affermato che: “Le deliberazioni degli organi collegiali concernenti persone sono regolate dal principio di segretezza del voto, in base al quale dal verbale della riunione non devono risultare i voti dei singoli membri né il modo con cui risultano espressi”.
[8]
---------------
   [1] Così TAR Abruzzo, Pescara, sentenza del 07.11.2006, n. 689. Nello stesso senso, TAR Campania, Napoli, sentenza del 04.12.1992, n. 436.
   [2] L’articolo 7 della legge 241/1990, rubricato “Comunicazione di avvio del procedimento”, al comma 1, recita: “Ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, l'avvio del procedimento stesso è comunicato, con le modalità previste dall'articolo 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti ed a quelli che per legge debbono intervenirvi. Ove parimenti non sussistano le ragioni di impedimento predette, qualora da un provvedimento possa derivare un pregiudizio a soggetti individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari, l'amministrazione è tenuta a fornire loro, con le stesse modalità, notizia dell'inizio del procedimento.”.
   [3] Gabriele Casoni, “La comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della legge n. 241/1990: ratio e principi informatori”, marzo 2011, in www.sepel.it
   [4] Consiglio di Stato, sez. V, sentenza del 26.09.1995, n. 1364. Nello stesso senso si veda, anche, Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’01.04.1997, n. 306 ove si afferma che: “L'obbligo della comunicazione all'interessato dell'avvio del procedimento amministrativo, previsto dagli art. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, trova completamento e giustificazione nel c.d. "diritto", riconosciutogli dal successivo art. 10, di presentare memorie scritte e documenti che la p.a. procedente ha l'obbligo di valutare, se pertinenti all'oggetto del procedimento stesso, per cui, se tale scopo è stato raggiunto in qualunque modo, la comunicazione s'appalesa superflua e si riespandono i principi di economicità e di speditezza dell'azione amministrativa, di cui al precedente art. 1”.
   [5] Per completezza espositiva, si osserva che, verificatisi i presupposti e le condizioni previsti dallo statuto per l’avvio del procedimento di decadenza, questo debba necessariamente essere attivato. Un tanto emerge proprio dalla previsione statutaria del comune interessato ove si legge che: “La decadenza è pronunciata […] d’ufficio”.
   [6] In tal senso depone l’articolo 289, terzo comma, del R.D. 148/1915 applicabile alla fattispecie in esame nonché l’articolo 18, comma 2 dello statuto comunale nella parte in cui recita “La decadenza è pronunciata dal consiglio comunale”.
   [7] Così, TAR Puglia, Bari, sez. II, sentenza del 07.11.2006, n. 3903.
   [8] Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 27.03.2002, n. 1748
(12.12.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Compilazione sezioni Amministrazione Trasparente non soggette ad obbligo.
Domanda
Nella sezione Amministrazione trasparente del sito internet dell’ente, quando non ci si riconosce nella fattispecie a cui si riferisce un obbligo di pubblicazione, come ci si comporta? Si può lasciare la sotto sezione completamente vuota?
Risposta
Il cosiddetto “Albero della Trasparenza” (approvato da ultimo dall’allegato 1 alla deliberazione ANAC n. 1310 del 28.12.2016) si compone di sottosezioni di livello 1 e sotto sezioni di livello 2 che non possono essere modificate, integrate o rinominate, a proprio piacimento, dalle singole amministrazioni.
Ci sono situazioni, però, in cui l’ente non è tenuto ad adottare determinati atti o non si trova nella situazione particolare definita dalla normativa vigente, in materia di trasparenza (d.lgs. 33/2013 e successive modificazioni ed integrazioni).
In questi casi, è necessario che nella sotto sezione di riferimento venga inserita una dicitura –o caricato un documento– in cui sia esplicitata la ragione della mancata pubblicazione dei dati e delle informazioni richieste dalla normativa, per ciascuna sotto sezione di riferimento, con evidenza della data di aggiornamento.
Tutto ciò risulta indispensabile per evitare che l’ANAC, ma anche altri soggetti, rilevino l’omessa pubblicazione di dati, cosa che risulterà, invece, inevitabile nel caso in cui la sotto sezione rimanga vuota.
Ecco, di seguito, alcuni esempi che possono riguardare gli enti locali:
• ORGANIZZAZIONE > SANZIONI PER MANCATA COMUNICAZIONE DI DATI: ad oggi non è stata notificata all’Ente nessuna sanzione di questa tipologia;
• ORGANIZZAZIONE > RENDICONTI GRUPPI CONSILIARI / REGIONALI: la normativa non si applica nei confronti degli enti locali;
• CONSULENTI E COLLABORATORI > per l’anno 2017 l’Ente non ha conferito incarichi di consulenza o collaborazione.
• STRUTTURE SANITARIE PRIVATE ACCREDITATE: Disposizione applicabile ai soli enti del Servizio Sanitario Nazionale (12.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI: Split payment e base calcolo per acquisiti attività commerciale.
Domanda
Il nostro ente locale dal 2015 annota gli acquisti effettuati nell’esercizio di attività commerciale e assoggettati a split payment, nel registro vendite di cui all’art. 23 del d.p.r. 633/1972.
Si è deciso di calcolare l’acconto IVA 2017 utilizzando il metodo storico. Come deve essere determinata la base di calcolo, alla luce di quanto stabilito dall’art. 2, comma 4, del d.m. 27.06.2017?
Risposta
Il comma 1, dell’art. 5, del d.m. 23.01.2015, inserito dal d.m. 27.06.2017, ha stabilito che a decorrere dal 01/07/2017 le PA e le società che effettuano acquisti di beni e servizi nell’esercizio di attività commerciali, in relazione alle quali sono identificate agli effetti dell’imposta sul valore aggiunto, versano con modello F24 l’imposta dovuta in applicazione del meccanismo della scissione dei pagamenti entro il giorno 16 del mese successivo a quello in cui l’imposta diviene esigibile, senza possibilità di compensazione, utilizzando un apposito codice tributo.
In alternativa (comma 1, dell’art. 5, del d.m. 23.01.2015), le PA e le società possono continuare ad avvalersi della possibilità, già prevista nella precedente disciplina, di annotare le fatture di acquisto nel registro di cui agli artt. 23 o 24 del d.p.r. 633/1972, entro il 15 del mese successivo a quello in cui l’imposta è divenuta esigibile, con riferimento al mese precedente.
L’art. 2, comma 4, del d.m. 27.06.2017 ha poi stabilito che, per l’anno 2017, i soggetti di cui all’art. 5, comma 1, del d.m. 23.01.2015, effettuano il versamento dell’acconto determinato con il metodo storico, tenendo conto dell’ammontare dell’imposta divenuta esigibile, in regime di split payment, nel mese di novembre 2017 (per i contribuenti mensili) o nel terzo trimestre 2017 (per i contribuenti trimestrali).
Ciò premesso e nonostante che la circolare 27/E del 07.11.2017, non ne faccia menzione, si ritiene che tale disposizione transitoria non riguardi gli enti locali, i quali applicano lo split da gennaio 2015, ma bensì i nuovi soggetti destinatari dello split payment a decorrere dal 01/07/2017.
Ne consegue che l’ente locale, in sede di calcolo dell’acconto IVA con il metodo storico, dovrà fare riferimento solo al debito del mese di dicembre 2016 (per i soggetti mensili) o al debito risultante dalla dichiarazione IVA relativa al 2016 (per i soggetti trimestrali su opzione) (11.12.2017 - link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Protocollo online aperto. I consiglieri possono prenderne visione. Inammissibile chiedere di specificare in anticipo l'oggetto dell'accesso.
Ai sensi della vigente normativa, un consigliere comunale può chiedere l'accesso al sistema informatico gestionale dell'ente?

Sebbene la materia dovrebbe trovare apposita disciplina nel regolamento dell'ente, secondo il consolidato orientamento del ministero dell'interno, «non paiono sussistere elementi ostativi all'accoglimento della richiesta».
Il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha affermato, in merito, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000; inoltre il Tar Lombardia, Brescia, con sentenza 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare poiché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
La previa visione dei vari protocolli (dei quali il protocollo informatico rappresenta una innovazione tecnologica prevista, tra l'altro, dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/05 e successive modificazioni - codice dell'amministrazione digitale) è, pertanto, necessaria per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
In tal senso, anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere del 22.02.2011, ha osservato che, ai sensi della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente accedere i consiglieri comunali che, pertanto, possono prendere visione in via informatica di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall'ente; ciò, in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi. I precedenti pareri espressi dalla Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi rafforzano, peraltro, l'orientamento favorevole già manifestato.
In particolare la Commissione, con il parere del 03.02.2009, ha precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa».
Con il parere del 16.03.2010, ha ribadito l'accessibilità del consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel); infine, con il parere del 25.05.2010, ha rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo informatico
(articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Affidamento PO a personale categoria C.
Domanda
Il nostro ente di piccole dimensioni è diviso in tre aree. È possibile attribuire la posizione organizzativa ad un dipendente di categoria C?
Risposta
Sulla questione, spesso controversa, registriamo un recente intervento della magistratura contabile secondo cui qualora il sindaco, pur in presenza di un dipendente inquadrato in categoria D, conferisca l’incarico di responsabile del settore (PO) ad un dipendente di categoria C –dunque, in posizione non apicale– risponde di danno erariale, consistente nelle spese sborsate dall’ente.
Questo, infatti, è quanto indicato dalla Corte dei Conti – sezione giurisdizionale per la Sicilia – con sentenza 26.10.2017 n. 658, nel giudizio erariale nei confronti del sindaco di un ente il quale aveva proceduto alla nomina, in qualità di incaricato di PO, di un lavoratore della categoria C, pur in presenza di altro dipendente inquadrato nella categoria D nel medesimo servizio.
Del resto, avverso il provvedimento sindacale, aveva ricorso, in sede civile, il dipendente di categoria più elevata, peraltro ottenendo, con sentenza definitiva, le differenze retributive corrispondenti al mancato pagamento dell’indennità accessoria di funzione, nei limiti fissati dal vigente contratto collettivo di settore.
Sicché, a fronte del risarcimento del danno e conseguente dichiarazione del debito fuori bilancio, la magistratura contabile condannava il sindaco, per il danno erariale causato all’ente in conseguenza della sua condotta antigiuridica, posta in violazione di precisissime e indubbiamente chiare norme contrattuali (07.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI SERVIZI: Acquisizione CIG in caso di rinnovo e proroga tecnica.
Domanda
Il comune deve appaltare un servizio biennale del valore di € 30.000,00, al netto dell’IVA, con opzione di rinnovo per altri due anni per ulteriori € 30.000,00 e con proroga c.d. tecnica.
Nella richiesta del CIG come deve essere considerato l’eventuale rinnovo, nonché la proroga tecnica prevista negli atti di gara ai sensi dell’art. 106, comma 11, del codice?
Risposta
Il codice CIG (codice identificativo gara), quale strumento che consente di assolvere agli obblighi di comunicazione all’Osservatorio, di contribuzione e di tracciabilità dei flussi finanziari, deve essere acquisito dal responsabile del procedimento, e riportato a seconda della tipologia delle procedure, nel bando o avviso di gara, nella lettera d’invito e negli acquisti privi di tali modalità nel contratto.
L’esatta quantificazione del valore di un affidamento incide sulle diverse modalità di acquisizione del CIG che, per importi pari o superiori a 40.000,00 euro, avviene attraverso il sistema c.d. SIMOG, a cui si ricollegano gli adempimenti di cui sopra, ovvero nella forma dello Smart CIG per gli affidamenti al di sotto di tale soglia, con funzioni prevalentemente di monitoraggio.
Ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. 50/2016, “il calcolo del valore stimato di un appalto pubblico di lavori, servizi e forniture, è basato sull’importo totale pagabile, al netto dell’IVA, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo”.
Pertanto, con riferimento alla procedura di gara che l’amministrazione deve appaltare, nell’acquisizione del CIG, da effettuarsi tramite il sistema SIMOG, il RUP dovrà riportare nei passaggi relativi alla registrazione:
• importo a base d’asta: € 60.000,00;
• l’appalto prevede ripetizioni: SI.
In sede di rinnovo, trattandosi di una nuova manifestazione di volontà delle parti contraenti, la stazione appaltante dovrà acquisire un nuovo CIG, sempre tramite il sistema SIMOG (ma non pagare un nuovo contributo), specificando:
• importo a base d’asta: € 30.000,00;
• ripetizione di precedente contratto: SI;
• CIG contratto originario: (riportare il codice CIG del contratto originario).
La modifica della durata contrattuale in corso di esecuzione, prevista negli atti di gara, per il tempo strettamente necessario alla conclusione delle procedure per l’individuazione del nuovo contraente, ai sensi dell’art. 106, comma 11, del Codice (c.d. proroga tecnica), non deve essere computata nel valore stimato originario dell’appalto. Solo qualora la modifica comporti un aumento del 20% del valore contrattuale, la stazione appaltante dovrà acquisire un nuovo CIG, con procedura semplificata (Smart CIG) od ordinaria, in base al valore della modifica, indicando nella tendina “procedura di scelta del contraente”: affidamento diretto per variante superiore al 20% dell’importo contrattuale.
Al contrario, è necessario considerare nel valore complessivo dell’appalto l’eventuale proroga, quale opzione inserita nel capitolato e finalizzata alla prosecuzione del rapporto contrattuale per un tempo prestabilito (esercitabile esclusivamente dalla pubblica amministrazione, con obbligo dell’operatore di assoggettarvisi).
Ad esempio, nel caso di un appalto avente durata certa biennale del valore di 30.000,00 euro, con eventuale opzione di proroga annuale per un importo di 15.000,00 euro, in sede di registrazione del CIG, tramite il sistema SIMOG, il RUP dovrà riportare nel passaggi relativi all’acquisizione del CIG:
• importo a base d’asta: € 45.000,00;
• l’appalto prevede ripetizioni: NO (06.12.2017 - link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dichiarazioni collaboratori e consulenti.
Domanda
Per i collaboratori e consulenti (art. 15 d.lgs. 33/2013), nell’apposita sezione di Amministrazione trasparente, va pubblicata la dichiarazione sull’insussistenza di situazioni di conflitto di interessi anche potenziale, prodotti dai collaboratori medesimi?
Risposta
Per i soggetti incaricati in qualità di consulenti e collaboratori, va pubblicata (anche) una dichiarazione che attesti l’avvenuta verifica dell’insussistenza di situazioni di conflitto di interessi, anche potenziale.
Ciò significa che l’incaricato deve presentare una dichiarazione in cui si attesti la non sussistenza di tale conflitto e che ci sia –all’interno dell’ente– un altro soggetto che ne attesti l’avvenuta verifica, con esito negativo.
Le informazioni di cui sopra devono essere pubblicate entro tre mesi dal conferimento dell’incarico e devono essere mantenute per i tre anni successivi alla cessazione dello stesso.
La mancata pubblicazione degli estremi degli atti di conferimento degli incarichi e dell’attestazione, comporta l’inefficacia dell’atto, non consentendo, quindi, né l’utilizzo della prestazione eventualmente resa, né la liquidazione del compenso pattuito. Nel caso in cui questo sia stato comunque corrisposto, si determina responsabilità in capo a chi l’ha disposto e l’irrogazione di una sanzione pari alla somma pagata.
Tutte le informazioni pubblicate in questa sotto sezione, devono essere aggiornate tempestivamente, compresi, ovviamente, i dati sullo stato di avanzamento degli eventuali pagamenti  (05.12.2017 - link a www.publika.it).

APPALTI: Le procedure di acquisto.
DOMANDA:
Si chiede se nella fase transitoria un comune non capoluogo iscritto AUSA possa indire gara in via autonoma per servizio sotto soglia senza passare per mercato elettronico per assenza o non funzionalità del metaprodotto.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno preliminarmente ricordare che in base al D.Lgs. 50/2016 (art. 37, c. 4), se la stazione appaltante è, come in questo caso, un comune non capoluogo di provincia, fermo restando quanto previsto al comma 1 e al primo periodo del comma 2, è tenuto a procedere secondo una delle seguenti modalità:
   a) ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati;
   b) mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrali di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall’ordinamento;
   c) ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.042014, n. 56.
Per quanto riguarda specificatamente i servizi sottosoglia occorre poi distinguere a seconda che l’affidamento sia di importo compreso fino a 40 mila euro od oltre fino alla soglia comunitaria (v. art. 35 comma 1, lett. c). Il comma 1 dell’art. 37 cit. dispone, al comma 1, che “le stazioni appaltanti, fermi restando gli obblighi di utilizzo di strumenti di acquisto e di negoziazione, anche telematici, …, possono procedere direttamente e autonomamente all’acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e di lavori di importo inferiore a 150.000 euro, nonché attraverso l’effettuazione di ordini a valere su strumenti di acquisto messi a disposizione dalle centrali di committenza. Per effettuare procedure di importo superiore alle soglie indicate al periodo precedente, le stazioni appaltanti devono essere in possesso della necessaria qualificazione ai sensi dell’articolo 38”.
Tuttavia va ricordato che ai sensi dell’art. 1, commi 449 e 450, della L. 296/2006 (legge finanziaria 2007), fermi restando gli obblighi/facoltà per l’utilizzo di CONSIP, sussiste l’obbligo di utilizzare in maniera alternativa ed equivalente o il mercato elettronico della P.A. (MEPA, NECA) oppure il sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento (SINTEL).
Qualora, peraltro, il bene non risulti presente né sul mercato elettronico della PA né nell’ambito CONSIP, e nemmeno sia possibile far riferimento al sistema al sistema telematico messo a disposizione dalla centrale regionale di riferimento (quale SINTEL) (cfr. l. 296/2006, art. 1, c. 450 cit., secondo periodo), si ritiene in genere che sussista la possibilità di procedere anche in forma cartacea ed autonoma senza ulteriori limitazioni (art. 37, c. 1, D.Lgs. 50/2016).
Ove invece si tratti di beni e servizi compresi tra € 40.000,00 e soglia comunitaria (art. 35) il comma 2 del cit. art. 37 dispone che “.…per … forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia di cui all’articolo 35, nonché per … lavori di manutenzione ordinaria d’importo superiore a 150.000 euro e inferiore a 1 milione di euro, le stazioni appaltanti in possesso della necessaria qualificazione … procedono mediante utilizzo autonomo degli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate ….In caso di indisponibilità di tali strumenti anche in relazione alle singole categorie merceologiche , le stazioni appaltanti operano ai sensi del comma 3 o procedono mediante lo svolgimento di procedura ordinaria ai sensi del presente codice” (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Va compreso nel quorum per l'approvazione. Per il varo è necessario il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri.
Nel caso in cui anche il voto del sindaco sia stato computato nel quorum funzionale previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000, può considerarsi legittima la deliberazione consiliare con la quale è stata approvata una modifica allo statuto dell'ente?

L'art. 6, comma 4, del Tuel, dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La citata normativa prevede un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche; in particolare, prescrive che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si deve ripetere la votazione entro 30 giorni e, inoltre, stabilisce che lo statuto si ritiene approvato se ottiene per due volte -in sedute successive- il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio.
Premesso che sulla questione l'orientamento del giudice amministrativo non è univoco (cfr. Tar Puglia sent. 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'approvazione dello statuto, pertanto, comporta -attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.)- che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Dunque, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche implica che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato Testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco e il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi dell'01.12.11.2017).

APPALTI SERVIZI: Convenzione per la gestione del servizio di tesoreria da parte di un Consorzio imbrifero montano (BIM).
L’affidamento del servizio di tesoreria deve essere effettuato mediante procedure ad evidenza pubblica e con modalità che rispettino, tra gli altri, i principi della concorrenza, della non discriminazione e della trasparenza.
Il Consorzio dei comuni del bacino imbrifero montano (BIM) chiede un parere in materia di affidamento del servizio di tesoreria. Più in particolare, desidera sapere se, attesa la necessità di stipulare un nuovo contratto per l’affidamento del servizio di tesoreria (per avvenuta scadenza di quello in essere), possa convenzionarsi con l’Unione territoriale intercomunale -cui aderiscono molti comuni costituenti il consorzio in oggetto– al fine di utilizzare il servizio di tesoreria della stessa.
Sentito il Servizio finanza locale, al quesito posto si ritiene di fornire risposta negativa per le motivazioni che in appresso verranno esplicitate.
In via preliminare, si ricorda che il Consorzio di comuni del bacino imbrifero montano è un consorzio obbligatorio, istituito ai sensi dell’articolo 1 della legge 27.12.1953, n. 959 cui si applicano, per espressa disposizione statutaria, “le norme di principio sugli Enti Locali” (articolo 24, comma 1, dello Statuto).
[1]
Con riferimento all’affidamento del servizio di tesoreria, l’articolo 22 dello statuto consortile recita: “Il servizio di tesoreria, da disciplinare con il regolamento di contabilità, verrà affidato ad istituto bancario abilitato alle funzioni, sotto l’osservanza della legge e regolamenti in materia”.
Senza entrare nel merito delle modalità di affidamento del servizio in riferimento, ciò che preme rilevare in questa sede è che lo stesso deve, in ogni caso, essere effettuato mediante le procedure ad evidenza pubblica e con modalità che rispettino i principi della concorrenza. Un tanto deriva dall’applicazione sia del disposto di cui all’articolo 210 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267
[2] nella parte in cui prevede che: “L'affidamento del servizio viene effettuato mediante le procedure ad evidenza pubblica stabilite nel regolamento di contabilità di ciascun ente, con modalità che rispettino i principi della concorrenza” sia del disposto di cui all’articolo 30 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, [3] il quale, al comma 1, recita: “L'affidamento e l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni, ai sensi del presente codice garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Nell'affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice. […]”.
Il Consorzio verrebbe meno all’obbligo sullo stesso gravante di affidare il proprio servizio di tesoreria mediante apposita procedura ad evidenza pubblica qualora lo stesso potesse aderire ad altro servizio già in essere tra altri soggetti.
Inoltre, l’eventuale adesione ad un contratto già in essere, stipulato tra altri soggetti giuridici,
[4] si tradurrebbe in una modifica dell’originario rapporto negoziale [5] con conseguente necessità di avviare una nuova procedura concorsuale da parte di tutti i soggetti coinvolti pena la frustrazione dei principi di tutela della concorrenza e di par condicio tra tutti i partecipanti alla gara.
Sul tema la giurisprudenza amministrativa ha affermato che: “[…] l’adesione postuma, da parte di un’amministrazione pubblica, agli esiti di una procedura di gara alla quale sia risultata estranea, indetta sulla scorta di una convenzione alla quale non aveva aderito, integrava violazione dei principi generali di evidenza pubblica di derivazione comunitaria e di stampo nazionale, che impediscono l’affidamento di una fornitura senza una procedura individuale o collettiva di cui sia stato parte, formalmente e sostanzialmente, il soggetto affidante”.
[6]
---------------
   [1] In giurisprudenza si veda, Consiglio di Stato, sez. I, sentenza del 14.11.2002, n. 2001 ove si afferma che: “I consorzi obbligatori tra comuni compresi nel bacino imbrifero montano (B.I.M.) svolgono funzioni che non si esprimono secondo logiche imprenditoriali, ma che si traducono in interventi guidati da considerazioni diverse da quelle relative ai costi ed all'efficiente combinazione dei vari fattori produttivi, per cui ai medesimi consorzi non va applicata la disciplina delle aziende speciali ma quella generalmente dettata per gli enti locali […]”.
   [2] “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”.
   [3] “Codice dei contratti pubblici”.
   [4] Nel caso di specie, Unione territoriale intercomunale da un lato, l’istituto bancario dall’altro.
   [5] A prescindere dalla considerazione per cui sarebbe necessaria la manifestazione di volontà di consenso di entrambi i soggetti del contratto già concluso.
   [6] Così, Consiglio di Stato, sez. III, sentenza del 04.02.2016, n. 442. Peraltro, il medesimo giudice consente, a determinate condizioni, l’adesione ad un contratto già concluso da parte di un soggetto giuridico che sia rimasto estraneo alla procedura concorsuale qualora negli atti di gara sia presente una clausola di estensione o di adesione la quale, si ritiene, che “in tanto possa essere ammessa, in quanto soddisfi i requisiti, in primis di determinatezza, prescritti per i soggetti e l’oggetto della procedura cui essa accede” (così Consiglio di Stato, sez. V, sentenza dell’11.02.2014, n. 663)
(20.11.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Amianto. Sanzioni e controlli. Legge regionale 29.09.2003, n. 17, art. 8-bis, co. 1 (Regione Lombardia, nota 13.11.2017 n. 33278 di prot.).
---------------
La nota regionale scaturisce a fronte di interrogativi formulati da parte di un comune bergamasco siccome riportati nel prosieguo.
...
OGGETTO: L.R. 29.09.2003 n. 17 - Norme per il risanamento dell’ambiente, bonifica e smaltimento dell’amianto. RICHIESTA CHIARIMENTI.
   La presente per chiedere chiarimenti applicativi per quanto citato in oggetto. Segnatamente, premesso:
   a) che l’art. 6, comma 1, così recita:
      1. Al fine di conseguire il censimento completo dell’amianto presente sul territorio regionale ai sensi dell’articolo 12 della legge 257/1992, i soggetti pubblici e i privati proprietari sono tenuti a:
         a) per edifici, impianti o luoghi nei quali vi è presenza di amianto o di materiali contenenti amianto, a comunicare tale presenza all’ASL competente per territorio, qualora non già effettuato;
         b) per mezzi di trasporto nei quali vi è presenza di amianto o di materiali contenenti amianto, a comunicare alla ASL competente per territorio ed alla amministrazione provinciale tale presenza;
         c) per impianti di smaltimento di amianto o di materiali contenenti amianto, a comunicare alla ASL competente per territorio ed alla amministrazione provinciale i quantitativi smaltiti, aggiornando l’informazione annualmente.

   b) che l’art. 8-bis, comma 1, della L.R. 29.09.2003 n. 17 così dispone:
“Art. 8-bis - Sanzioni e controlli
1. La mancata comunicazione di cui all’articolo 6, comma 1, comporta, a carico dei soggetti proprietari pubblici e privati inadempienti, l’applicazione di una sanzione amministrativa da € 100,00 a € 1.500,00.”;

   c) che l’art. 9, comma 2-bis, recita quanto segue:
“2-bis. All’introito delle somme provenienti alla Regione dalle sanzioni previste all’articolo 8-bis, si provvede con l’UPB 3.4.10 “Introiti diversi”, iscritta allo stato di previsione delle entrate del bilancio per l’esercizio finanziario 2012 e successivi.”,
lo scrivente Settore si trova a gestire un affare laddove il proprietario del manufatto, avente copertura in cemento-amianto, non ha provveduto alla comunicazione di cui alla precedente lett. a).
   Sicché, chi scrive -non comprendendo appieno il tenore letterale della norma- formula i seguenti interrogativi al fine di avere contezza circa il corretto modus operandi:
   1.
qual è il soggetto che deve irrogare la sanzione ex art. 8-bis? Detto altrimenti, la scrivente Amministrazione oppure l’ATS di Bergamo?
   2.
la sanzione da comminare parrebbe evincersi che la introiti la Regione, siccome deducibile “indirettamente” dalla lettura dell’art. 9, comma 2-bis? E’ corretta tale interpretazione? In caso affermativo
   3.
quali sono i riferimenti da indicare nell’ingiunzione di pagamento affinché il destinatario della medesima possa provvedere in merito?

TRIBUTI: Tosap - Esenzioni.
Fermo restando che l’articolo 49, d.lgs. 507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è prevista l’esenzione dal pagamento della tosap, l’articolo 82 del d.lgs. 117/2017, contenente il Codice del Terzo settore, consente agli enti locali di introdurre, nel proprio regolamento, un’ulteriore ipotesi di esenzione, oltre che di riduzione, dal pagamento della tassa in esame, che si aggiunge a quelle già contemplate dal summenzionato d.lgs. 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il d.lgs. 460/1997, art. 21, a vantaggio esclusivo delle Onlus, è stata ora estesa a beneficio di tutti gli enti appartenenti al cosiddetto Terzo settore che soddisfino i seguenti requisiti:
   - abbiano la veste giuridica di cui all’art. 4, d.lgs. 117/2017 (associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni riconosciute o non riconosciute, eccetera);
   - svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico e sociale di cui all’art. 5 e, quindi, non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale;
   - siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del Terzo settore.

L’Ente domanda se, alla luce dell’attuale normativa, sia legittimo inserire, nel proprio regolamento tosap, l’esenzione dal pagamento della tassa per manifestazioni patrocinate dal Comune stesso e organizzate da associazioni locali di promozione sociale, culturale e ricreativa (ad esempio, Pro Loco).
Si svolgono, in merito al summenzionato quesito, le seguenti osservazioni, sentito il Servizio volontariato e lingue minoritarie della Direzione centrale cultura, sport e solidarietà.
Fino allo scorso mese di luglio, la normativa di riferimento al fine dell’inquadramento dell’odierno quesito era rappresentata principalmente dal decreto legislativo 15.11.1993, n. 507
[1] e in particolare dagli articoli 49 e 45, comma 7 [2].
Nello specifico, l’articolo 49 del decreto legislativo 507/1993 disciplina le ipotesi di esenzione dal tributo in esame, tra le quali non rientra la fattispecie delineata dall’ente instante
[3].
L’articolo 45, comma 7, del medesimo decreto stabilisce, invece, la riduzione della tariffa ordinaria, nella misura dell’80 per cento, per le occupazioni temporanee realizzate in occasioni di manifestazioni culturali oltre che politiche e sportive. Ai sensi della disposizione da ultimo richiamata, per le manifestazioni culturali, sportive o politiche (ma non ricreative), la tariffa è, pertanto, pari al 20 per cento di quella ordinaria, senza alcun potere di modifica da parte degli enti impositori
[4].
Il quadro normativo delineato era poi completato dalla disposizione di cui all’articolo 23 della legge 07.12.2000, n. 383 –Disciplina della associazioni di promozione sociale- che prevedeva la possibilità, per gli enti locali, di deliberare, a favore delle associazioni regolarmente registrate, riduzioni -ma non esenzioni- sui tributi di propria competenza.
In base all’articolo 21, decreto legislativo 04.12.1997, n. 460
[5], gli enti locali potevano, inoltre, prevedere la possibilità di riconoscere agevolazioni ed esenzioni in favore dei soggetti qualificabili come Onlus [6].
Il contesto normativo sopra illustrato è stato parzialmente riscritto in seguito all’emanazione del decreto legislativo 03.07.2017, n. 117, recante il Codice del Terzo settore
[7], che, con l’articolo 102, rispettivamente comma 1, lettera a) e comma 2 lettera a), ha abrogato, tra gli altri, l’articolo 23 della legge 383/2000 e l’articolo 21 del decreto legislativo 460/1997 [8].
L’articolo 82, comma 7, del decreto legislativo 117/2017 stabilisce la possibilità, per i Comuni, di “deliberare nei confronti degli enti del Terzo settore che non hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei tributi di loro competenza e dai connessi adempimenti
[9] [10].
È necessario, ora, richiamare le particolari disposizioni che segnano l’entrata in vigore dell’articolo 82, comma 7.
Poiché la summenzionata disposizione prevede, per gli enti locali, la possibilità di deliberare esenzioni o riduzioni tributarie, la norma stessa potrebbe dare luogo, seppure indirettamente, a delle forme di aiuti di stato. Il legislatore del Codice ha, così, previsto che l’articolo 82 non entri in vigore insieme alla maggior parte delle disposizioni del decreto legislativo, ma ne ha previsto un’applicazione differita: o in via transitoria dal 01.01.2018 (soltanto a beneficio di Onlus, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale) o, comunque, subordinatamente all’autorizzazione della Commissione europea, chiamata a verificare la compatibilità di alcune delle disposizioni del Codice stesso con il Trattato comunitario ed i principi di quest’ultimo posti a tutela del mercato unico europeo
[11].
Ed invero, ai sensi dell’articolo 104, comma 2, del decreto legislativo 117/2017, salvo quanto previsto dal comma 1, le disposizioni del titolo X, che disciplinano il “Regime fiscale degli enti del terzo settore”, tra cui quella dell’articolo 82, comma 7 “si applicano agli enti iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore a decorrere dal periodo di imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea di cui all'articolo 101, comma 10, e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo di operatività del predetto Registro”.
Ai sensi del medesimo articolo 104, comma 1, tra gli altri, l’articolo 82, comma 7, si applica, sebbene in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018 e fino al periodo di imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X, secondo quanto indicato dal già richiamato comma 2, a favore delle Onlus iscritte negli appositi registri, delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, nonché alle associazioni di promozione sociale iscritte nei registi nazionali e regionali di cui alla legge 383/2000
[12].
Si rammenta che, per l’articolo 4 del Codice del Terzo settore, sono, tra gli altri, “enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale … le associazioni, riconosciute o non riconosciute, … gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritti nel registro unico nazionale del Terzo settore”.
Ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del summenzionato decreto legislativo 117/2017: “Gli enti del Terzo settore … esercitano in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l'esercizio, le attività aventi ad oggetto: … d) … le attività culturali di interesse sociale con finalità educativa; … f) interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio, ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e successive modificazioni; … i) organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato e delle attività di interesse generale di cui al presente articolo; … k) organizzazione e gestione di attività turistiche di interesse sociale, culturale o religioso; … t) organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche”.
Richiamata la normativa di riferimento per la fattispecie in esame, si espongono le seguenti riflessioni.
Fermo restando che l’articolo 49, decreto legislativo 507/1993, contiene un elenco tassativo di ipotesi in cui è prevista l’esenzione dal pagamento del tributo, a decorrere dal periodo di imposta successivo alla predetta autorizzazione della Commissione europea e, comunque, non prima del periodo di imposta successivo all’operatività del Registro unico nazionale del terzo settore, ma, in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018, a favore di Onlus, organizzazioni di volontariato ed associazioni di promozione sociale, purché iscritte negli appositi registri, l’articolo 82 del Codice del Terzo settore consente agli enti locali di introdurre, nel proprio regolamento tosap, un’ulteriore ipotesi di esenzione, oltre che di riduzione, dal pagamento della tassa in esame che si aggiunge a quelle già contemplate dal summenzionato decreto legislativo 507/1993.
Tale ipotesi di esenzione dal pagamento della tassa per l’occupazione di suolo pubblico, prevista, prima, con il decreto legislativo 460/1997, articolo 21, a vantaggio esclusivo delle Onlus, è stata ora estesa a beneficio di tutti gli enti appartenenti al cosiddetto Terzo settore che soddisfino i seguenti requisiti:
   - abbiano la veste giuridica di cui all’articolo 4, decreto legislativo 117/2017 (associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni riconosciute o non riconosciute, eccetera);
   - svolgano, in forma prevalente, le attività di interesse pubblico e sociale di cui all’articolo 5 e, quindi, non abbiano per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale;
   - siano viepiù iscritti nel Registro unico nazionale degli enti del Terzo settore.
In attesa del pronunciamento della Commissione europea su alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo 117/2017, tra le quali, per quanto qui di interesse, l’articolo 82, comma 7, che prevede la possibilità, per tutti gli enti locali, di introdurre, nei propri regolamenti, ipotesi di esenzione dal pagamento dei tributi di propria competenza ed in attesa dell’istituzione ed operatività del Registro unico nazionale per gli enti del Terzo settore, la disposizione di riferimento rimane, comunque, l’articolo 49, decreto legislativo 507/1993; e soltanto per le organizzazioni di promozione sociale, le Onlus, e le organizzazioni di volontariato anche l’articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017, che troverà applicazione, in via transitoria, a decorrere dal 01.01.2018 (secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1, decreto legislativo 117/2017).
Conservano, inoltre, valore tutte le osservazioni che questo Servizio ha già espresso in precedenti pareri in merito alle esenzioni dal pagamento della tosap, al carattere tassativo dei casi di dispensa dal pagamento dei tributi ed in merito all’impossibilità di applicare istituti quali l’interpretazione analogica ed estensiva alle norme di natura eccezionale
[13].
In conclusione, conformemente alle argomentazioni sopra esposte, si evidenzia, quanto all’interrogativo sottoposto all’attenzione dello scrivente, che la fattispecie di esenzione delineata dall’ente locale –esenzione a favore delle associazioni locali di promozione sociale culturale e ricreativa– ferma restando l’applicazione dell’articolo 49, decreto legislativo 507/1993 e dei suoi limiti, potrebbe essere ricondotta nel campo di applicazione dell’articolo 82, comma 7, e degli articoli 4 e 5, decreto legislativo 117/2017, con i vincoli temporali di entrata in vigore della disposizione in materia di tributi locali (articolo 82, decreto legislativo 117/2017), come sanciti dagli articoli 104, commi 1 e 2 e 101, comma 10, medesimo decreto.
L’ipotesi di occupazione, descritta dall’ente instante, non può, quindi, essere esonerata dal pagamento della tassa in esame ai sensi dell'articolo 49 del decreto legislativo 507/1993, in quanto non riconducibile nel suo ambito di applicazione, riferibile alle sole occupazioni espressamente e tassativamente individuate dalla medesima norma. La fattispecie illustrata dal Comune potrebbe, tuttavia, essere dispensata dal pagamento del tributo, a titolo facoltativo e, quindi, per volontà del medesimo ente, con apposito atto deliberativo, in conformità alle previsioni di cui all’articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017, secondo quanto previsto dall’articolo 104, comma 1: e cioè, in via transitoria, dal 01.01.2018 fino al periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea ed, in ogni caso, fino al periodo di imposta successivo all’operatività del Registro unico nazionale degli enti del terzo settore, soltanto a beneficio delle organizzazioni di volontariato, delle associazioni di promozione sociale e delle Onlus, purché iscritte negli apposti registri disciplinati dalle rispettive leggi di settore.
Ottenuta l’autorizzazione della Commissione europea ed intervenuta l’operatività del summenzionato Registro, l’ente locale potrà, invece, deliberare l’esenzione dalla tosap a beneficio di enti del terzo settore, diversi da quelli appena richiamati ed in via definitiva anche a beneficio di questi ultimi, purché regolarmente iscritti nel relativo Registro unico nazionale, quando entreranno pienamente in vigore le disposizioni del titolo X, tra cui quella dell’articolo 82, comma 7, nel rispetto dei termini, già ampiamente illustrati, di cui all’articolo 104, comma 2 e 101, comma 10; fermi, in tutti i casi, i requisiti di cui agli articoli 4 e 5 del medesimo decreto.
L’esenzione ipotizzata dall’ente potrà, quindi, essere conforme alle previsioni del legislatore statale (articolo 82, comma 7, decreto legislativo 117/2017), detentore esclusivo, nel nostro ordinamento giuridico, della potestà legislativa primaria in materia di tributi locali
[14] ed essere, conseguentemente, inserita, con apposito atto deliberativo, nel regolamento dell’ente locale in materia di tosap.
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   [1] La legge citata si intitola “Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'art. 4 della legge 23.10.1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale”.
   [2] Si rammenta come la tosap sia regolamentata dalla legge dello Stato solo per ciò che concerne le disposizioni generali (articoli 38-57 del decreto legislativo 507/1993). Per le norme di applicazione è fatto, invece, rinvio ai regolamenti comunali (si legga “Memento Pratico Fiscale anno 2008”, Francis Lefebvre, Ipsoa, pagg. 1154-1155 e “Guida operativa ai tributi locali”, Il Sole 24 Ore, seconda edizione, pag. 141, 147). Nella specifica e puntuale applicazione della tosap, oltre alla legge statale, i Comuni devono, quindi, utilizzare lo strumento regolamentare. L’articolo 40 del decreto legislativo 507/1993 prescrive, invero, agli enti impositori, di approvare il regolamento per l’applicazione della tassa in esame, individuando anche un contenuto minimo che deve essere sempre assicurato all’interno dell’atto deliberativo in discorso. Esiste, quindi, una parte del regolamento che l’ente locale deve necessariamente sviluppare, a fronte di una solamente eventuale. Il contenuto eventuale sarà regolato in base alla particolare realtà ed alle specifiche esigenze del Comune, in accordo con il principio di legalità sancito dall’articolo 23 della Costituzione e con i limiti espressamente contenuti nell’articolo 52, comma 1, del decreto legislativo 15.12.1997, n. 446. L’ente locale deve, quindi, obbligatoriamente prevedere, all’interno del proprio regolamento, la disciplina generale delle occupazioni permanenti e temporanee, con la determinazione di eventuali aumenti o riduzioni di tariffa, in corrispondenza delle varie fattispecie individuate dalla legge. L’articolo 52 del decreto legislativo 446/1997 contiene una norma fondamentale per la disciplina della potestà regolamentare generale dei Comuni e ne ha rafforzato l’autonomia già loro attribuita. Con l’emanazione del decreto legislativo 446/1997, sono, invero, intervenute importanti modifiche in materia di gestione del tributo in esame, proprio perché con l’articolo 52 del suddetto decreto, è stata attribuita agli enti locali un’ampia autonomia regolamentare, relativamente alla disciplina delle proprie entrate. In tal senso, si legga “La tassa per l’occupazione di spazi e aree pubbliche: i lineamenti generali del tributo” di Luca Bonadonna, in “Tributi locali e regionali”, n. 5/2006, pag. 714. Sul potere regolamentare del Comune in materia di tosap, si legga anche il parere datato 12.11.2014, protocollo n. 29322, emesso dallo scrivente e consultabile nella relativa banca dati.
   [3] L’articolo 3, comma 67, della legge 28.12.1995, n. 549 apporta una deroga all’applicazione del decreto legislativo 507/1993, in materia di tosap, ma tale deroga, non contemplata per le occupazioni in esame, prevede l’esonero dall’obbligo del pagamento della tassa per manifestazioni o iniziative a carattere politico, nelle sole circostanze in cui l’area occupata non sia superiore ai 10 metri quadrati. Sono politiche quelle manifestazioni poste in essere da partiti, gruppi politici riconosciuti o da organizzazioni sindacali dirette al raggiungimento di tale specifica finalità (Ministero delle finanze, circolare del 25.03.1994, n. 13/E). Si legga “Guida operativa ai tributi locali”, cit., pag. 146. Va rilevato, quindi, che, ex articolo 3, comma 67, legge 549/1995, nei soli confronti dei soggetti promotori di iniziative a carattere esclusivamente politico, è disposta l’esenzione dalla tosap, se la superficie occupata non supera i dieci metri quadrati. Si legga, al riguardo, “Manuale dei tributi locali”, Maggioli editore, V edizione, pag. 337.
   [4] Si legga, al riguardo, “Manuale dei tributi locali”, cit., pag. 337.
   [5] Intitolato “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”.
   [6] L’articolo 21, del decreto legislativo in discorso stabiliva, infatti, che i Comuni “possono deliberare nei confronti delle Onlus la riduzione o l’esenzione dal pagamento dei tributi di loro pertinenza e dai connessi adempimenti”.
   [7] Il testo normativo ora richiamato è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 02.08.2017 ed è entrato il vigore il giorno successivo.
   [8] Ai sensi dell’articolo 102, comma 2, lettera a), del decreto legislativo 117/2017, l’articolo 21 della legge 460/1997 è abrogato a decorrere dal termine di cui all’articolo 104, comma 2, medesimo decreto, ovverosia a decorrere dal periodo di imposta successivo all’autorizzazione della Commissione europea di cui all’articolo 101, comma 10, su alcune disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore, autorizzazione da richiedere a cura del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. L’abrogazione, comunque, non sarà efficace prima del periodo di imposta successivo all’operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore.
   [9] Tale possibilità è contemplata in relazione a tutti i tributi locali diversi dall’imposta municipale propria e dal tributo per i servizi indivisibili, per i quali l’esenzione dal pagamento è prevista alle condizioni e nei limiti di cui comma 6 del medesimo articolo 82.
   [10] La disposizione ora richiamata riprende, parzialmente, estendendone la previsione non solo alle riduzioni ma anche alle esenzioni, quella contenuta, in relazione alle associazioni di promozione sociale, nell’articolo 23 della legge 383/2000, abrogata dall’articolo 102, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 117/2017 e conferma, per le Onlus, quella contenuta nell’articolo 21 della legge 460/1997, parimenti abrogato dal decreto legislativo 117/2017, nei termini di cui dall’articolo 102, comma 2, lettera a) e 104, comma 2.
   [11] Ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (nella versione consolidata, a fronte dell’entrata in vigore il 01.12.2009 del Trattato di Lisbona, firmato, a Lisbona, il 13.12.2007, dai rappresentanti dei ventisette Stati membri dell’Unione stessa) “alla Commissione sono comunicati in tempo utile perché presenti le sue osservazioni, i progetti diretti a istituire o modificare aiuti”. Se ritiene che un progetto non sia compatibile con il mercato interno dell’Unione, la Commissione inizia senza indugio una specifica procedura e “lo Stato membro interessato non può dare esecuzione alle misure progettate prima che tale procedura abbia condotto ad una decisione finale”.
   [12] Ai sensi dell’articolo 104, comma 1, decreto legislativo 117/2017, le disposizioni di cui all’articolo 82 “si applicano in via transitoria a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2017 (quindi dal 01.01.2018 n.d.r.) e fino al periodo d'imposta di entrata in vigore delle disposizioni di cui al titolo X secondo quanto indicato al comma 2, alle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all'articolo 10, del decreto legislativo 04.12.1997, n. 460 iscritte negli appositi registri, alle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri di cui alla legge 11.08.1991, n. 266, e alle associazioni di promozione sociale iscritte nei registri nazionali, regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano previsti dall'articolo 7 della legge 07.12.2000, n. 383”.
   [13] Si leggano i pareri datati 19.08.2010, protocollo n. 13660, 19.09.2013, protocollo n, 26839, emessi dallo scrivente e consultabili nella relativa banca dati, oltre che il più recente parere datato 14.09.2017, protocollo n. 9264, parimenti consultabile nella relativa banca dati.
   [14] In tal senso, Corte Costituzionale, 22-24.02.2006, n. 75, ove si legge che l’articolo 117, comma 2, lettera e), Cost. riserva, al legislatore nazionale, la competenza esclusiva nella materia del sistema impositivo, essendo i tributi erariali istituiti da legge dello Stato e da questa disciplinati, salvo quanto espressamente rimesso all’autonomia dei Comuni. Si legga “Limiti al potere di introdurre per via regolamentare esenzioni ed agevolazioni nella disciplina dei tributi locali (nota a Corte Cost. n. 75/2006)” di Andrea Giovanardi, in “Rivista di diritto tributario”, n. 7-8/2006, II, pagg. 545 e ss.
(07.11.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Messa in sicurezza immobile di privato deceduto.
Nella successione legittima, le categorie di successibili sono individuate dal codice civile e ne sono esclusi gli affini, ossia i parenti dell’altro coniuge.
Il chiamato all’eredità acquista la qualità di erede con l’accettazione dell’eredità (art. 459 c.c.), espressa o tacita (art. 474 c.c.).
Il decorso del termine di dieci anni per accettare l’eredità (art. 480 c.c.) rende del tutto inutile una dichiarazione di rinuncia tardiva, trattandosi di un’eredità rispetto alla quale il diritto di accettare si è ormai prescritto, ma, al fine di escludere l’acquisto della qualità di erede in capo al chiamato all’eredità, occorre, altresì, escludere che detto acquisto non sia conseguito ad una accettazione tacita, ai sensi dell’art. 476 c.c., e/o ad una situazione di possesso di alcuno dei beni ereditari, ai sensi dell’art. 485 c.c., inteso, secondo la Corte di Cassazione, come mera relazione materiale tra i beni (anche mobili e anche un solo bene) e il chiamato all’eredità.
La mancanza di eredi successibili entro il sesto grado –cui la giurisprudenza equipara il decorso del termine per accettare– comporta la devoluzione dell’eredità allo Stato (art. 586 c.c.).

Il Comune riferisce di aver avviato il procedimento per la messa in sicurezza di un immobile privato in condizioni di precaria stabilità.
In particolare, essendo la proprietaria di detto immobile deceduta nel 2001 senza figli, ed essendo deceduti sia il primo che il secondo marito, il procedimento è stato notificato al figlio di una delle sorelle decedute ed al figlio in vita del secondo coniuge. Il legale del figlio della sorella ha fatto sapere che il suo assistito non ha mai accettato l’eredità della zia, non era in possesso dei beni ereditari e non ha mai posto in essere alcun atto di disposizione sugli stessi. Il figlio in vita del secondo coniuge ha fatto sapere per le vie brevi di non poter essere qualificato come chiamato all’eredità del de cuius.
Il Comune chiede, dunque, se sia possibile e legittimo proseguire il procedimento per la messa in sicurezza dell’immobile nei confronti dei suddetti soggetti ai quali lo stesso è stato notificato.
L’art. 456 c.c. prevede che la morte di una persona determina l’apertura della sua successione; il successivo art. 457 c.c. stabilisce che l’eredità si devolve per legge (c.d. successione legittima) o per testamento e che non si fa luogo alla successione legittima se non quando manca, in tutto o in parte, quella testamentaria.
L’Ente, nella formulazione del quesito, non fa riferimento alla presenza di un testamento, per cui, le considerazioni che seguono saranno incentrate sulle regole della successione legittima.
Le categorie di successibili, nella successione legittima, sono il coniuge, i discendenti legittimi e naturali, gli ascendenti legittimi, i collaterali, gli altri parenti e lo Stato, nell’ordine e secondo le regole stabilite dalla legge (art. 565 e segg. c.c.)
[1].
Sono esclusi dalle categorie di successibili, nella successione legittima, gli affini, ossia i parenti dell’altro coniuge. Ne consegue che i figli del coniuge della persona della cui eredità si tratta non sono chiamati all’eredità di questa, con la quale intercorre un rapporto giuridico di semplice affinità, privo di rilevanza in ambito successorio.
Pertanto, nel caso di specie, il figlio del secondo coniuge deceduto della proprietaria dell’immobile non ha titolo per accedere alla successione legittima di questa
[2].
Venendo alla posizione del figlio della sorella del de cuius (nipote), questi rientra tra i chiamati all’eredità, ma la qualità di erede non si acquista automaticamente, bensì per effetto dell’accettazione (art. 459 c.c.).
L’accettazione può essere espressa o tacita (art. 474 c.c.): è espressa quando il chiamato all’eredità in un atto pubblico o in una scrittura privata ha dichiarato di accettarla o ha assunto il titolo di erede (art. 475 c.c.); è tacita quando il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede (art. 476 c.c.).
Inoltre, ai sensi dell’art. 485 c.c., l’acquisto della qualità di erede può verificarsi in capo al chiamato all’eredità, che, a qualsiasi titolo, si trovi nel possesso di beni ereditari, in caso di mancata redazione dell’inventario nei (brevi) termini ivi previsti.
In questo caso –osserva la Corte di Cassazione– l’acquisto dell’eredità non è riconducibile ad una accettazione tacita, ma unicamente alla legge che ricollega determinati effetti ad un certo comportamento
[3].
Presupposto imprescindibile dell’acquisto, da parte del chiamato, ex art. 485 c.c., della qualità di erede è, oltre all’esistenza di beni ereditari, che egli a qualsiasi titolo si trovi nel possesso di tali beni (non necessariamente dell’intera massa ereditaria, ma anche solo di qualche bene, anche se mobile). Possesso che non deve necessariamente manifestarsi in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà sui beni ereditari, ma si esaurisce in una mera relazione materiale tra i beni (anche un solo bene) e il chiamato all’eredità, con la consapevolezza della loro appartenenza al compendio ereditario
[4].
Nel caso di specie, il decesso del de cuius risale al 2001 e non risulta intervenuta accettazione espressa, né formale rinuncia
[5] da parte del nipote del de cuius, che –a dire del legale– non era nel possesso dei beni ereditari e non ha posto in essere alcun atto di disposizione sugli stessi.
In proposito, se si può asserire che il decorso del termine prescrizionale di dieci anni per l’accettazione dell’eredità (art. 480 c.c.) rende del tutto inutile una dichiarazione di rinuncia tardiva, trattandosi di un’eredità rispetto alla quale il diritto di accettare si è ormai prescritto
[6], va osservato che, al fine di escludere l’acquisto della qualità di erede in capo al nipote del de cuius, occorre altresì escludere che detto acquisto non sia conseguito ad una accettazione tacita, ai sensi dell’art. 476 c.c., e/o ad una situazione di possesso di alcuno dei beni ereditari, ai sensi dell’art. 485 c.c., nei termini specificati dalla Corte di Cassazione[7].
Queste circostanze risultano, invero, meramente asserite dal legale della parte interessata.
Ne deriva che la questione posta dall’Ente se sia possibile e legittimo proseguire nel procedimento di messa in sicurezza dell’immobile nei confronti del nipote del de cuius va posta nei termini di valutazione dell’Ente se sia il caso di proseguire, in relazione alla sussistenza di circostanze che possano avere determinato l’accettazione tacita dell’eredità e/o l’acquisto della stessa in forza di legge e alla possibilità di darne prova, nell’eventualità che la persona interessata agisca in giudizio per far valere la sua posizione di non erede.
In questo senso indirizzano le considerazioni della Corte di Cassazione
[8], che, se pur espresse in tema di obbligazioni tributarie –in una lite originata dall’impugnazione di un avviso di liquidazione, da parte del contribuente, cui era stato notificato nella sua qualità di erede e dunque di (preteso) obbligato per il debito del de cuius, e che, ricevuto l’atto, aveva formalizzato la propria rinunzia all’eredità, pur essendo trascorsi più di dieci anni dalla morte– possono rivelarsi utili al caso in esame.
Ebbene, la Suprema Corte –nel ribaltare le decisioni dei Giudici di merito, che avevano rigettato il ricorso contro l’avviso di liquidazione– ha ritenuto che, tenuto conto che l’accettazione dell’eredità è il presupposto perché si possa rispondere dei debiti ereditari, una eventuale rinuncia, anche se tardivamente proposta, esclude che possa essere chiamato a rispondere dei debiti tributari il rinunciatario, sempre che egli non abbia posto in essere comportamenti dai quali desumere una accettazione implicita dell’eredità (art. 476 c.c.), ma della relativa prova l’Amministrazione finanziaria è parte processualmente onerata.
Ai sensi dell’art. 521 c.c. –osserva la Corte di Cassazione– la rinuncia ha effetto retroattivo, pertanto, chi rinuncia all’eredità è considerato come se non fosse mai stato chiamato.
Nondimeno –continua la Suprema Corte– un atto di rinuncia tardivo determina la conseguenza che l’amministrazione finanziaria è legittimata a notificare al contribuente rinunciatario gli atti impositivi, e costui è tenuto a costituirsi in giudizio per far valere il proprio difetto di legittimazione passiva, e quindi la sua estraneità ai debiti tributari del de cuius. Mentre l’Amministrazione finanziaria, se vuol far valere la pretesa fiscale, è onerata della prova che il contribuente è decaduto dal diritto di esercitare una valida rinuncia, ad esempio per aver posto in essere atti incompatibili con la volontà di rinunciare che siano concludenti e significativi della volontà di accettare l’eredità
[9].
Questi principi potranno essere utili all’Ente al fine di valutare se proseguire il procedimento amministrativo di messa in sicurezza dell’immobile nei confronti del nipote del de cuius, ove reputi che sia possibile che questi abbia acquistato la qualità di erede e fornirne la prova.
Altrimenti, sul presupposto dell’assenza di ulteriori successibili della defunta entro il sesto grado, sembrerebbe venire in considerazione la successione dello Stato, ai sensi dell’art. 586 c.c., secondo cui, in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato.
In proposito, la giurisprudenza
[10] ha ritenuto che il decorso del termine per accettare è parificabile alla mancanza di eredi successibili di cui all’art. 586 c.c. e determina l’acquisto automatico e retroattivo in capo allo Stato italiano, erede necessario, dei beni relitti.
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   [1] Oltre al coniuge, possono distinguersi diversi ordini di successibili: i figli, i genitori, i fratelli e sorelle, nonché i discendenti di questi ultimi, gli ascendenti, i collaterali dal terzo al sesto grado.
La successione non ha luogo tra i parenti oltre il sesto grado (art. 575, c. 2, c.c.).
   [2] Ed invero, la posizione del figlio del coniuge potrebbe venire in considerazione in relazione all’eredità del proprio genitore, eventualmente comprensiva anche della quota di beni da questi ereditati dalla moglie, ove a quest’ultima sia sopravvissuto, secondo le norme del diritto successorio.
   [3] Cass. civ., sez. II, 22.06.1995, n. 7076. Conforme la dottrina, secondo cui, in quest’ipotesi, l’acquisto dell’eredità si ricollega ad una fattispecie legale tipica, automaticamente sufficiente a determinare l’effetto previsto dal legislatore (cfr. Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 2013, pp. 1281 e 1282; 1286).
   [4] Cass. civ. n. 7076/1995 cit.; Cass. civ., sez. II, 14.05.1994, n. 4707.
   [5] Ex art. 519 c.c., la rinunzia all’eredità deve farsi con dichiarazione, ricevuta da un notaio o dal cancelliere del tribunale del circondario in cui si è aperta la successione, e inserita nel registro delle successioni.
   [6] Cass. civ., sez. trib., 29.03.2017, n. 8053. In quella fattispecie, di cui si dirà nel prosieguo, la Suprema Corte ha osservato che, invero, la giustificazione causale dell’atto di rinunzia tardiva si era espressa nell’interesse del rinunziante a stabilizzare e chiarire la sua condizione e volontà di “non essere erede”.
   [7] Vi sono anche altre ipotesi che, in forza di legge, possono determinare l’acquisto dell’eredità: ai sensi dell’art. 487 c.c., colui che, non essendo nel possesso dei beni ereditari, abbia dichiarato di accettare con beneficio di inventario, deve redigere l’inventario entro tre mesi, in mancanza, è erede puro e semplice; e ancora, ai sensi dell’art. 527 c.c., i chiamati all’eredità che abbiano sottratto o nascosto beni dell’eredità decadono dalla facoltà di rinunziarvi e si considerano eredi puri e semplici (Cfr. Andrea Torrente e Piero Schlesinger, Manuale di diritto privato, cit., pp. 1281 e 1282).
   [8] Cass. civ., n. 8053/2017 cit.
   [9] In quella fattispecie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che l’Amministrazione finanziaria non avesse ottemperato a detto onere probatorio, per cui ha accolto il ricorso originario della contribuente, compensando, peraltro, le spese tra le parti.
   [10] Tribunale di Marsala 14.06.2004, richiamata da Paolo Cendon, Commentario al Codice civile, Volume 6, Giuffrè Editore, 2008, p. 586. V. anche Cass. civ., Sez. II, 09.03.2006, n. 5082, che equipara alla mancanza di successibili il caso in cui i chiamati abbiano rinunciato
(02.11.2017 - link a
www.regione.fvg.it).

NEWS

INCARICHI PROFESSIONALILegali scelti sulla fiducia. Nessun obbligo di bando di gara per la p.a.. Parere del Consiglio nazionale forense sulle linee guida dell'Anac.
Avvocato della p.a. scelto sulla fiducia. Non c'è infatti obbligo di bando di gara per l'affidamento dei servizi legali della pubblica amministrazione. Il procedimento può avvenire anche in via diretta, sulla base del rapporto fiduciario con il professionista.

È quanto afferma la
nota 21.12.2017 n. 30842 di prot. del Consiglio nazionale forense sulle linee guida Anac in materia di affidamento dei servizi legali, di natura contraria.
Secondo l'Autorità per l'anticorruzione, infatti, non vi è alcuna distinzione tra categorie di incarichi legali sottoposti alla disciplina procedimentale di gara o meno. Anche gli incarichi di natura giudiziale e pregiudiziale, secondo l'Anac, devono essere affidati dalle amministrazioni con un vero e proprio procedimento comparativo di gara, perché «non possono essere affidati come se si trattasse di un incarico intuitus personae, in cui è sufficiente dimostrare il rispetto dei principi generali dell'azione amministrativa, dovendo invece seguire alcune regole minime».
In pratica, l'Anac, secondo il Cnf, da un lato supera definitivamente la distinzione tra il contratto d'opera professionale e l'appalto, con l'attrazione di tutte le prestazioni rese dall'avvocato in questo secondo ambito. Dall'altro lato, interpreta la normativa nel senso in cui anche i contratti esclusi dal codice restano comunque sottoposti ad alcuni principi generali dalla cui applicazione discenderebbe l'assoggettamento a una serie di regole che formano un classico procedimento di gara per la selezione del contraente della p.a.
A parere del Cnf, l'applicazione dei principi generali è comunque compatibile col rispetto delle regole dell'azione amministrativa. Il fatto cioè che non sia imposta una gara come modello di scelta dell'avvocato non esclude che la p.a. debba comunque fare una scelta oculata, in linea con i principi di efficienza, efficacia ed economicità, dandone conto con apposita motivazione.
«L'acquisizione del curriculum dell'avvocato e l'indicazione del perché ad esso ci si rivolge», si legge nel parere, «sono peraltro anche presidi di trasparenza amministrativa, per certi aspetti persino superiori a quelli assicurati dalla gara, per quanto semplificata essa sia».
In particolare, il Cnf sottolinea come, in conformità alle direttive 2014/24/Ue e 2014/25/Ue e alla disciplina contenuta nel dlgs 18.04.2016, n. 50, i servizi legali elencati all'art. 17, comma 1, lett. d) (arbitrato o conciliazione, procedimenti giudiziari dinanzi a organi giurisdizionali o autorità pubbliche, servizi di certificazione e autenticazione di documenti che devono essere prestati da notai, servizi legali prestati da fiduciari o tutori designati o altri servizi legali i cui fornitori sono designati per legge per svolgere specifici compiti) possono essere affidati dalle amministrazioni aggiudicatrici in via diretta, «secondo l'intuitus personae e su base fiduciaria, e nel rispetto dei principi generali che sempre guidano l'azione amministrativa».
Per gli altri servizi legali, invece, vale l'affidamento mediante un procedimento comparativo di evidenza pubblica semplificato nei termini e secondo i presupposti previsti per legge. Il parere richiama, in questo senso, la recente sentenza del Tar Puglia (11.12.2017, n. 1289) e la posizione espressa dal Consiglio di stato nella sentenza n. 2730 del 2012.
In conclusione, il Cnf auspica che i rilievi espressi nel parere «possano essere oggetto di adeguata considerazione da parte dell'Autorità nazionale anticorruzione al fine dell'adozione di una versione definitiva delle linee guida coerente con il quadro normativo conferente, e utile a favorire il buon andamento dell'azione amministrativa» (articolo ItaliaOggi del 28.12.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTILo scudo della privacy sull'Imu. Vietato fornire gli elenchi dei versamenti e degli immobili. Un parere del Garante blocca l'applicazione della legge sull'accesso generalizzato (Foia).
Salva la privacy dei contribuenti Imu. Il comune non può fornire gli elenchi dei soggetti che hanno pagato l'Imu e degli immobili soggetti all'imposta. Questo nemmeno se la richiesta è formulata ai sensi della legge sull'accesso civico (dlgs n. 33/2013, noto come Foia, Freedom of information act): l'istanza è sproporzionata e viola la privacy delle persone, di cui si potrebbe venire a sapere anche il tenore reddituale e patrimoniale. Inoltre si elude il pagamento dei diritti per le visure e la specifica norma sulle modalità di conoscenza dei dati inseriti nel pubblico catasto. Al massimo si può dare l'importo complessivamente riscosso per il singolo tributo.

È il parere rilasciato dal Garante della privacy (provvedimento 30.11.2017 n. 506), con cui si blocca per l'ennesima volta l'accesso generalizzato, sulla carta apparentemente in grado di aprire tutte le porte della p.a., ma neutralizzato dallo stesso ordinamento con norme che ne bloccano l'operatività.
Nel caso specifico il responsabile per la trasparenza del comune di Genova si è rivolto al Garante per un parere sulla richiesta di avere due elenchi in materia di Imu: a) quello dei contribuenti che hanno versato l'Imposta municipale unica (Imu) sulla prima casa a partire dall'anno 2014; b) quello degli immobili a uso residenziale prima casa, per i quali nello stesso periodo di tempo è stata pagata l'imposta.
La richiesta è stata formulata ai sensi della legge sull'accesso civico, con richiesta di riversare i dati su un supporto informatico. Il comune ha detto di no, invocando la privacy dei contribuenti, pur dichiarandosi disponibile a fornire, se di interesse il dato complessivo di quanto riscosso dall'amministrazione con codice tributo «abitazione principale». I problemi sollevati sono stati più di uno: se l'elenco degli immobili sia un elenco di dati personali tutelati dalla privacy; se conta qualcosa il fatto gli immobili e i dati dei loro proprietari sono già pubblicati in pubblici registri (il catasto), anche se non sotto forma dell'elenco richiesto.
Il Garante ha rilevato che fornire un elenco degli immobili e la relativa classificazione ai fini Imu significa dare la possibilità di conoscere numerosi dati personali relative ai proprietari: dati identificativi dei soggetti interessati, residenza in un certo comune, natura dell'abitazione quale propria abitazione principale, qualità di «proprietario» di un immobile di una certa tipologia con l'identificazione dell'immobile stesso, aver versato o meno uno specifico tributo.
Inoltre è possibile conoscere il tenore di vita o la situazione patrimoniale dei soggetti (nel caso concreto sono tenuti a pagare l'Imu coloro che hanno abitazione principale negli immobili appartenenti alle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, cioè «abitazioni di tipo signorile», «abitazioni in ville» e «castelli» o «palazzi di eminenti pregi artistici o storici»).
Tutte queste informazioni non sono contenuti in alcun pubblico registro immobiliare, né sono rilasciabili dall'Ufficio catastale (che non è in possesso di questi specifichi dati). Peraltro anche in relazione ai dati contenuti nella banca dati catastale, il Garante sottolinea che la conoscenza di tali dati resta regolamentata da specifiche discipline di settore su forme e modalità di rilascio dei dati, prevedendo inoltre il pagamento di appositi tributi.
Questo significa che l'accesso civico alla predetta banca dati va escluso ai sensi dell'articolo 5-bis, comma 3, del dlgs n. 33/2013, in quanto il relativo accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti. Strada sbarrata all'accesso civico, dunque, per violazione della privacy e strada sbarrata anche alla possibilità di fornire un accesso civico parziale, limitato al solo elenco degli immobili senza il nome di coloro che hanno pagato il tributo. Ciò in quanto le predette informazioni non escludono del tutto la possibilità che il soggetto proprietario dell'immobile sia identificato indirettamente mediante il collegamento con altre banche dati (come la banca dati catastale, elenchi telefonici, pagine bianche ecc.).
Un no secco all'accesso civico è motivato, infine, dal fatto che, secondo il Garante, la conoscenza indiscriminata delle informazioni richiesta appare non necessaria o comunque sproporzionata, rispetto allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali. Per il controllo generalizzato sul complessivo esercizio delle funzioni amministrative del comune in materia tributaria, conclude il Garante, potrebbero eventualmente essere utili informazioni diverse, fornite in maniera aggregata senza dati personali, relativi al pagamento del tributo, fra cui ad esempio, il dato complessivo di quanto riscosso con codice tributo «abitazione principale» (articolo ItaliaOggi del 28.12.2017).

ENTI LOCALIVideosorveglianza, istanze al Mise.
Per l'installazione degli impianti di videosorveglianza i comuni devono presentare una apposita istanza al Ministero dello sviluppo economico. Specialmente se sono associati e vogliono lavorare in rete. E per chi non si adegua sono guai grossi in caso di ispezione.

Lo ha ribadito il Ministero dello sviluppo economico, ispettorato Piemonte e Valle d'Aosta, con la circolare 24.11.2017.
Nella scorsa primavera alcune prefetture hanno diffuso i pareri del Mise, secondo il quale le reti di videosorveglianza finalizzate sia alla sicurezza che al monitoraggio del traffico, ai sensi del codice delle comunicazioni elettroniche, sono equiparate ad un servizio di comunicazione ad uso privato, soggetto all'autorizzazione generale, previa dichiarazione di inizio attività, e al pagamento dei relativi contributi.
Successivamente, l'11.03.2017, la X commissione del Senato, nel corso della conversione in legge del pacchetto sicurezza, ha espresso un parere ad hoc, invitando la commissione referente a valorizzare l'esigenza che i sistemi di videosorveglianza, installati dalle amministrazioni locali con le finalità di ordine e sicurezza pubblica, siano esonerati dall'obbligo di autorizzazioni, contributi e canoni di concessione. E pochi giorni dopo, il 16.03.2017, il governo ha accolto come raccomandazione l'ordine del giorno 9/04310-A/023 che lo impegna a «chiarire la corretta interpretazione della norma a favore degli enti locali ed esonerare quest'ultimi da contributi, oneri e/o canoni di concessione o autorizzazione se questi sono destinati a soddisfare esigenze e/o servizi di ordine e/o sicurezza pubblica e/o urbana e/o a consentire comunicazioni elettroniche inerenti servizi di polizia statali o locali ivi comprese le radiocomunicazioni».
Ciò nonostante, l'11.05.2017, il sottosegretario del Ministero dello sviluppo economico ha ribadito (INTERROGAZIONE A RISPOSTA IMMEDIATA IN COMMISSIONE 5/11327 dell'On. Sandro Biasotti) che nel caso di collegamento via cavo qualunque comune che installi o metta in esercizio una rete di comunicazione elettronica su supporto fisico a uso privato deve chiedere un'autorizzazione al Mise. E per conseguire l'autorizzazione deve essere presentata una dichiarazione di inizio attività con i relativi i contributi.
Con la nota in commento l'ispettorato Piemonte e Valle d'Aosta conferma questa interpretazione in netto contrasto con lo spirito della sicurezza urbana integrata e approfondisce ulteriormente la questione del corretto esercizio degli impianti di videosorveglianza e controllo accessi da parte dei comuni.
A parere del Mise per gli impianti di sicurezza cittadini che collegano tra di loro strade, piazze e parcheggi non è possibile applicare la deroga introdotta dall'art. 99/5° del dlgs 259/2003. Quindi tutte queste installazioni, compresi i varchi ztl, «se realizzate su supporto fisico, ad onde convogliate o in fibra ottica sono soggette ad autorizzazione generale ai sensi degli artt. 99, 104 e 107 del codice delle comunicazioni elettroniche». Solo le comunicazioni radio in tecnologia «base» possono considerarsi in libero uso, prosegue la circolare. Ma solo se non vengono connessi più comuni e più enti diversi tra di loro.
In pratica a parere dell'estensore del parere centrale quasi la totalità degli impianti di videosorveglianza comunale è fuori legge se non sono stati licenziati dal ministero. In attesa delle necessarie modifiche normative è quindi opportuno sottoscrivere specifici accordi in prefettura per un uso condiviso interforze degli impianti di videosorveglianza.
Del resto l'art. 100 del codice delle comunicazioni ammette una deroga ad hoc per gli impianti in uso allo stato per finalità di sicurezza pubblica. Si tratta quindi di condividere con il rappresentante governativo le criticità derivanti dal mancato raccordo normativo tra il dl 14/2017 e il codice delle comunicazioni elettroniche. E formalizzare l'uso anche per finalità di ordine e sicurezza pubblica delle più moderne tecnologie comunali (articolo ItaliaOggi del 28.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGOUn contratto dopo dieci anni. Stretta su molestie e regali. E 85 euro lordi in busta. STATALI/ Cosa prevede l'accordo siglato all'Antivigilia di Natale da Aran e sindacati.
Dopo quasi 10 anni di blocco contrattuale è stato firmato il 23 dicembre scorso, tra Aran e organizzazioni sindacali, il nuovo contratto dei dipendenti della pubblica amministrazione. Tra le novità, oltre all'aumento di 85 euro lordi al mese, la stretta contro le molestie, lo stop ai regali di valore ai dipendenti, pugno duro contro chi attacca la malattia alle ferie, orari flessibili, welfare aziendale e sanzioni patteggiate.
E ancora, come sottolineato dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia su Facebook, «la salvaguardia del bonus 80 euro per i lavoratori che lo percepivano, il disco rosso ai premi a pioggia e alle fasce predeterminate». A questa firma seguiranno gli accordi per il comparto conoscenza, sanità ed enti locali. Vediamo le novità del contratto.
AUMENTO DI 85 EURO, ASSEGNO PER STIPENDI BASSI. Un aumento medio di 85 euro mensili lordi. Questo per il complesso dei dipendenti delle funzioni centrali, ovvero dipendenti dei ministeri, della agenzie fiscali e degli enti pubblici non economici (247 mila «teste»). Si va da un minimo di 63 euro a un massimo di 117 ma grazie a un'extra (21-25 euro mensili) da riconoscere alle fasce retributive più basse, almeno per dieci mensilità, l'adeguamento risulterà di almeno 84 euro per tutti. Le amministrazioni più ricche potranno contare su un plus (dai 9 a i 14,5 euro a testa) nel salario accessorio. Le tranche di rialzi andranno a regime da marzo. Attesa anche l'una tantum con gli arretrati da 545 euro.
PIÙ VOCE A SINDACATI, BONUS ECCELLENZA DEL 30%. Le organizzazioni dei lavoratori non saranno più solo informate delle decisioni prese dall'amministrazione, ma si darà vita a un confronto (una sorta di concertazione nella versione 2.0) e nelle materie che hanno riflessi sugli orari e sull'organizzazione del lavoro, si potrà anche contrattare (da turni a straordinari). I bonus di eccellenza non potranno più ricadere più nella stessa proporzione su tutti e la maggiorazione del premio rispetto al resto del personale sarà del 30%.
TETTO A PRECARIETÀ, DURATA MASSIMA 4 ANNI. Il contratto a tempo determinato non potrà superare i 36 mesi, prorogabili di altri 12 ma solo se in via eccezionale. Come nel privato, il numero dei dipendenti a termine non potrà andare oltre il 20% del totale. Superate le soglie non si potrà essere assunti (si entra solo per concorso) ma l'esperienza maturata farà punteggio.
VIA CHI COMMETTE MOLESTIE SESSUALI, STOP A DONI DI VALORE. Vengono esplicitate e rafforzate le sanzioni da infliggere in questi casi: in prima battuta il molestatore incappa in una sospensione (fino a un massimo di 6 mesi). Ma se il comportamento viene replicato scatterà l'espulsione definitiva. Via anche chi chiede regali sopra i 150 euro come scambio di favori.
PUGNO DURO ASSENZE STRATEGICHE, CI RIMETTE TUTTO L'UFFICIO. Si rimarrà fuori dall'ufficio e senza stipendio fino a due assenze ingiustificate in continuità con le giornate festive. La stessa sanzione è prevista per ingiustificate assenze di massa. Se la condotta si ripete si passa al licenziamento. E non si scappa, visto che tutto sarà registrato in un «fascicolo personale». Soprattutto quando in un ufficio si registrano tassi di assenteismo anomali, non giustificabili, a rimetterci saranno un po' tutti, visto che sarà il monte premi non potrà essere aumentato. Una clausola tuttavia direziona la sanzioni maggiori sui singoli assenteisti.
ORARI FLESSIBILI, PERMESSI FRAZIONABILI E FERIE SOLIDALI. La pubblica amministrazione apre le porte all'orario di lavoro «elastico», con fasce di tolleranza in entrata e in uscita. Viene anche potenziata la possibilità di passare al part-time. Inoltre anche nella p.a il lavoratore, su base volontaria e a titolo gratuito, potrà cedere ad un altro dipendente, che abbia necessità familiari (figli piccoli) o di salute, la parte che eccede le quattro settimane di ferie di cui ognuno deve necessariamente fruire. Ci sarà poi la possibilità di «spacchettare» in ore, oggi sono riconosciuti in giorni (nel limite di tre), i permessi come quelli per motivi familiari o personali.
LUNA DI MIELE ASSICURATA ANCHE PER COPPIE OMOSESSUALI. Le unioni civili valgono come i matrimoni su permessi e congedi. I conviventi potranno così godere dei 15 giorni di stop retribuito riconosciuti per le nozze. Anche nella p.a il lavoratore potrà cedere ad un altro dipendente, che abbia necessità familiari o di salute, la parte che eccede le settimane di ferie obbligatorie.
STRETTA CONTRO ABUSI LEGGE 104. TUTELE PER TERAPIE SALVAVITA. Di norma i permessi previsti dalla legge sulla disabilita andranno inseriti in una programmazione mensile e solo in caso di «documentata necessita» la domanda potrà essere presentata nelle 24 ore precedenti. Intanto le tutele previste per le terapie salvavita vengono estese anche ai giorni di assenza dovuti agli effetti collaterali dei trattamenti (con un limite temporale di quattro mesi). Arrivano inoltre i permessi ad hoc per viste specialistiche.
WELFARE AZIENDALE. In sede di contrattazione di secondo livello, le amministrazioni potranno riconoscere ai loro dipendenti benefit ad hoc, dalla polizze sanitarie alle borse di studio per i figli, dal biglietti gratis per i musei ai prestiti facili. Gli statali potranno poi contare su un organismo ad hoc per dare impulso al benessere, con un focus su misure di prevenzione dello stress da lavoro e di fenomeni di burn-out.
SANZIONE PATTEGGIATA. Una sorta di clausola anti-ricorsi per gestire attraverso procedure di conciliazione le condotte da sanzionare, secondo il codice disciplinare del pubblico impiego. I tecnici parlano di «determinazione concordata della sanzione», che ovviamente esclude la funzione più grave, quella del licenziamento (articolo ItaliaOggi del 27.12.2017).
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Al riguardo, si legga anche:
Aran e Organizzazioni sindacali hanno firmato l’Ipotesi di contratto collettivo nazionale di lavoro 2016-2018 del nuovo comparto Funzioni Centrali, nel quale sono confluiti i precedenti comparti di Ministeri, Agenzie Fiscali, EPNE, Agid, Cnel ed Enac (link a www.aranagenzia.it).

APPALTI: Appalti, nuove soglie Ue dal 2018. Più spazio alle gare italiane e allo stop dell'offerta anomala. Quattro regolamenti in Gazzetta Ue fissano i limiti minimi oltre cui scatta la gara europea.
Dal 01.01.2018 saranno in vigore le nuove soglie europee per contratti pubblici; in aumento tutti i valori con più spazio all'applicazione delle disposizioni «nazionali», ad esempio sulle offerte anomale.

È questo l'effetto della pubblicazione Gazzetta Ufficiale dell'Unione Europea del 19.12.2017 dei regolamenti n. 2363, 2365, 2366 e 2367 della Commissione europea che, come è usuale ogni due anni, determina i valori al di sopra dei quali si applica la disciplina europea nei diversi settori (ordinari o «speciali») e per le diverse tipologie di appalto.
Per i lavori la soglia passa da 5,225 milioni di euro a 5,548 milioni di euro; per appalti di servizi e forniture aggiudicati da amministrazioni che sono autorità governative centrali i valori crescono da 135.000 a 144.000 euro; nel caso in cui servizi e forniture siano aggiudicati dalle altre amministrazioni la soglia passa da 209.000 a 221.000 euro.
Per i cosiddetti «settori speciali» (energia termica, elettricità, gas, acqua, trasporti e servizi postali) nel caso di lavori si applicheranno le regole Ue delle direttive sopra i 5,548 milioni (erano 5,225 milioni), mentre per servizi e forniture, che hanno soglie doppie rispetto ai settori ordinari, si passa da 418.000 a 443.000 euro.
Per le concessioni esiste invece una sola concessione, l'unica soglia che viene portata a 5,548 milioni come i bandi di lavori.
Infine
per lavori, di forniture e di servizi nei settori della difesa e della sicurezza la soglia dei lavori è a 5,548 milioni, mentre per servizi e forniture è a a 443.000 euro.
La rilevanza di questi valori emerge in più punti del codice. Per esempio, recependo le direttive Ue si è stabilito (art. 35) che la scelta del metodo per il calcolo del valore stimato di un appalto o di una concessione non può essere fatta con l'intenzione di escluderlo dall'ambito di applicazione delle disposizioni del codice relative alle soglie europee. Questo perché se un contratto è soggetto alla disciplina nazionale non è, in primo luogo, oggetto di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale Europea e quindi è soggetto ad una minore apertura alla concorrenza.
Un'altra disciplina strettamente connessa alle soglie Ue è quella della esclusione automatica delle offerte anomale, ammessa soltanto al di sotto delle soglie di applicazione della normativa europea. In questi casi il codice (art. 98, comma 7) ammette che le stazioni appaltanti, per contratti di importo inferiori alle soglie Ue, possano prevedere nel bando l'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata; è poi il comma 2 dello stesso art. 97 a stabilire che, per non rendere predeterminabile la soglia anomalia, i parametri di riferimento per il calcolo della soglia vengono sorteggiati fra 5 metodi (cosiddetto «anti-turbativa») (articolo ItaliaOggi del 22.12.2017).

LAVORI PUBBLICI: Soa con sede estera abilitate. Nuova disciplina per gli incentivi ai tecnici degli enti. Modifica al codice appalti nel ddl di Bilancio per superare la procedura di infrazione.
Le Soa potranno avere anche la sede all'estero, senza obbligo di sedi secondarie in Italia, per qualificare le imprese di costruzioni italiane; gli incentivi ai tecnici delle pubbliche amministrazioni dovranno afferire ad un unico capitolo di spesa.

Sono queste le ultime modifiche al codice dei contratti pubblici passate in commissione bilancio della camera nell'ambito della discussione del disegno della Manovra 2018.
La più rilevante è certamente quella inerente alle Soa (società organismo di attestazione), le società di diritto privato che dal 2000 si occupano di qualificare le imprese di costruzioni, un sistema che sostituì l'Albo nazionale dei costruttori e che anche il nuovo codice ha ritenuto di confermare. L'art. 84 del codice appalti, infatti, riproducendo quanto già previsto dall'articolo 40 del dlgs 163/2006 dispone che «i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150 mila euro, provano il possesso dei requisiti di qualificazione, di regola, mediante attestazione da parte degli appositi organismi di diritto privato autorizzati dall'Anac».
Sulle Soa la Corte di giustizia europea affermò che solo le società con poteri decisionali connessi all'esercizio dei poteri pubblici devono stabilire la sede legale sul territorio nazionale di appartenenza, mentre quelle a scopo di lucro che operano in condizioni di concorrenza possono stabilirla ovunque. A seguito di questo orientamento il legislatore italiano con la legge di delegazione europea 2015-2016 ha eliminato l'obbligo di sede legale in Italia ma ha mantenuto l'obbligo, per le società estere, di avere comunque una sede secondaria sul territorio nazionale. Su questo punto l'Anac ha più volte sostenuto che questa esigenza derivava dal fatto di potere effettuare adeguatamente i controlli che il codice dei contratti pubblici le ha assegnato.
L'emendamento approvato nei giorni scorsi stabilisce che le società organismi di attestazione, ovvero gli organismi con requisiti equivalenti di un altro Stato membro dello spazio economico europeo (See), devono avere sede in uno Stato membro dello stesso See che attribuisca all'attestazione che essi adottano la capacità di provare il possesso dei requisiti di qualificazione in capo all'esecutore di lavori pubblici.
In altre parole, è sufficiente che la Soa residente all'estero svolga la sua attività in un ordinamento giuridico che preveda efficacia giuridica all'attestazione rilasciata, così da consentire all'impresa attestata di partecipare alle gare pubbliche.
Niente più sede secondaria in Italia, ma la Soa potrà operare con valore legale delle attestazioni rilasciate soltanto se l'ordinamento del paese di stabilimento attribuisce alla sua attività tale valore. Ciò dovrebbe essere sufficiente a superare la procedura di infrazione aperta contro l'Italia e a consentire all'Anac, in sede di controllo, di prendere atto del valore probante dell'attestazione. Altra cosa sarà poi il controllo sugli assetti societari delle Soa.
Un'altra modifica al codice dei contratti pubblici approvata nei giorni scorsi riguarda la disciplina dell'incentivo ai tecnici delle pubbliche amministrazioni e in particolare la precisazione per cui (comma 5-bis aggiuntivo all'articolo 113 del codice) gli incentivi debbano fare capo «al medesimo capitolo di spesa previsto per i singoli lavori, servizi e forniture»; una norma da coordinare con il primo comma che in maniera più generale dice nella sostanza la stessa cosa ma facendo riferimento alla nozione di appalto e al bilancio e allo stato di previsione della spesa. A queste modifiche si aggiungono poi quelle relative alla disciplina dei concessionari autostradali e degli acconti (si veda ItaliaOggi del 19.12.2017) (articolo ItaliaOggi del 22.12.2017).

VARI: Il notaio può apporre sigilli. Studio cnn.
Il notaio può apporre sigilli su delega del giudice. Questa attività non è una prerogativa del solo cancelliere.
Lo precisa lo studio 23.10.2017 n. 516-2917/C del Consiglio nazionale del notariato. L'esigenza di bloccare beni può manifestarsi in molti campi, primo tra tutti quello delle successioni, ma di sigilli si parla ogni volta che bisogna assicurare la custodia, da parte dell'autorità giudiziaria, di un patrimonio che corre il rischio di essere disperso per la mancanza, assenza, incapacità del titolare oppure quando quest'ultimo sia stato dichiarato fallito.
La sigillazione consiste nella chiusura dei locali o contenitori in cui si trovano i beni mobili da conservare, e nella applicazione di un segno distintivo, per impedire la sottrazione attraverso l'effrazione, oltre che per consentirne l'identificazione. Se comunemente l'attività è svolta dal cancelliere, tuttavia, spiega la circolare, la materiale attività di sigillazione può essere affidata anche al notaio, con apposita delega del giudice. In concreto il notaio deve conservare i documenti rinvenuti e, se ci sono cose che non possono essere sigillate, vanno specificamente descritte.
Dopo l'apposizione dei sigilli non è più possibile, neanche dal notaio procedente, accedere nei locali già chiusi se non per cause urgenti e dopo motivato decreto del tribunale; le chiavi, ritirate dal notaio, devono essere consegnate al cancelliere che le custodisce; se vi sono oggetti sui quali non è possibile apporre i sigilli o che sono necessari all'uso personale di coloro che abitano nella casa, vanno descritte nel verbale. Non è, invece, chiaro se il notaio abbia il potere del notaio di aprire porte e rimuovere gli ostacoli durante l'attività di sigillazione.
Delle operazioni effettuate il notaio, come detto, deve redigere un apposito verbale, per il quale non è richiesto l'intervento dei testimoni. Il verbale, qualificato come atto pubblico a contenuto non patrimoniale, deve contenere le circostanze intervenute nel corso delle operazioni stesse e dello stesso deve essere trasmessa una copia al giudice (articolo ItaliaOggi del 16.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGOWhistleblowing, tutele dal 29 dicembre.
Debutteranno il 29 dicembre le nuove tutele degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato.

È stata infatti pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 30.11.2017, n. 179 destinata a modificare in maniera significativa la gestione dei rapporti di lavoro sia nel settore pubblico che in quello privato.
Nel settore pubblico si ha la sostituzione dell'art. 54-bis del Testo unico del pubblico impiego (dlgs 30.03.2001, n. 165) con la previsione di una rafforzata protezione del dipendente pubblico che, nell'interesse della pubblica amministrazione per la quale lavora, segnali violazioni o condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro; la norma prevede ora espressamente che il dipendente non potrà subire ritorsioni (come per esempio sanzioni disciplinari, licenziamento, demansionamento, trasferimenti presso altri uffici) dovute alla segnalazione da lui effettuata ne essere sottoposto ad eventuali altre misure aventi effetti negativi sulla sua condizione di lavoro.
Il dipendente pubblico potrà inviare le segnalazioni al responsabile interno della struttura aziendale preposto alla prevenzione della corruzione e della trasparenza oppure direttamente all'Anac (Autorità nazionale anticorruzione) o all'autorità giudiziaria ordinaria o contabile a seconda della natura della segnalazione.
Le tutele contro atti ritorsivi o discriminatori sono state inoltre estese ai dipendenti di enti pubblici economici e ai dipendenti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico nonché a dipendenti e collaboratori di imprese fornitrici di beni o servizi alla pubblica amministrazione.
Nel settore privato la nuova normativa prevede l'inserimento dopo il comma 2 dell'art. 6 del dlgs 231/2001, i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, ai sensi dei quali i Modelli di organizzazione e gestione previsti nell'ambito della normativa sulla responsabilità amministrativa degli enti, dovranno prevedere tra l'altro:
   • uno o più canali che consentano a coloro che a qualsiasi titolo rappresentino o dirigano l'ente di presentare, a tutela dell'integrità dell'ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte; tali canali garantiscono la riservatezza dell'identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione;
   • almeno un canale alternativo di segnalazione idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell'identità del segnalante;
   • misure idonee a tutelare l'identità del segnalante e a mantenere la riservatezza dell'informazione in ogni contesto successivo alla segnalazione, nei limiti in cui l'anonimato e la riservatezza siano opponibili per legge.
Alla luce di quanto sopra i modelli 231 dovranno quindi essere adeguatamente aggiornati con l'introduzione di un impianto regolamentare idoneo a disciplinare internamente un sistema di segnalazione delle violazioni conforme alle intervenute novità legislative. Il modello dovrà, tra l'altro riportare una descrizione specifica con riguardo:
   • ai soggetti abilitati a effettuare le segnalazioni;
   • ai contenuti oggetto di tali segnalazioni;
   • alle funzioni aziendali preposte alla gestione del sistema di whistleblowing nonché
   • alle forme di tutela riservate alla protezione dell'identità dei soggetti segnalanti e alle relative sanzioni previste nei confronti di chi viola tali misure (articolo ItaliaOggi del 16.12.2017).

TRIBUTISì all'iscrizione ipotecaria per i crediti dei comuni.
Semaforo verde all'iscrizione ipotecaria, in esenzione da tributi e diritti, a garanzia dei crediti tributari e patrimoniali dei comuni anche quando la riscossione coattiva è affidata ad un concessionario locale.

L'importante chiarimento è stato fornito dall'agenzia delle entrate con la risoluzione 12.12.2017 n. 149/E, in risposta all'istanza di interpello di una società concessionaria della riscossione delle entrate degli enti locali.
Preliminarmente, l'agenzia osserva che, secondo la disciplina vigente, per riscuotere coattivamente le proprie entrate, i comuni possono avvalersi, alternativamente, di una seguenti modalità:
   - affidamento all'Agenzia delle entrate-riscossione, oppure,
   - riscossione in forma diretta o con affidamento ai soggetti di cui all'art. 52, comma 5, lettera b), del dlgs n. 466/1997 (i cosiddetti «concessionari locali»).
Nel primo caso la riscossione coattiva è effettuata ai sensi alle disposizioni del dpr n. 602/1973, sulla base del ruolo, il quale, ai sensi dell'art. 77, decorso inutilmente il termine di pagamento, costituisce titolo per iscrivere ipoteca sugli immobili del debitore e dei coobbligati per un importo pari al doppio dell'importo complessivo del credito per cui si procede.
Nel secondo caso, la riscossione è effettuata invece tramite l'ingiunzione fiscale di cui al rd n. 639/1910; al riguardo, l'amministrazione finanziaria aveva precisato con circolare n. 4/2008, in base al quadro normativo dell'epoca, che non era possibile considerare l'ingiunzione fiscale un titolo idoneo all'iscrizione di ipoteca, al pari del ruolo, né applicare ai «concessionari locali» le esenzioni previste dagli artt. 47 e 47-bis del dpr n. 602/1973, essendo necessario interpretare in modo restrittivo le disposizioni in materia di garanzie reali e di esenzioni tributarie.
La situazione è però cambiata con l'articolo 14-bis, comma 1, del dl n. 201/2011, che, modificando l'art. 7, comma 2, del dl n. 70 del 2011, ha stabilito alla lettera gg) che, a decorrere dalla data prevista dalla precedente lettera gg-ter (prorogata più volte e fissata da ultimo al 30.06.2017), la riscossione coattiva delle entrate dei comuni tramite ingiunzione fiscale è effettuata secondo le disposizioni del titolo II del dpr n. 602/1973, in quanto compatibili, nel rispetto dei limiti di importo e delle condizioni stabilite per gli agenti della riscossione in caso di iscrizione ipotecaria e di espropriazione forzata immobiliare.
Alla luce di quest'ultima disposizione, quindi, l'agenzia ritiene necessario rivedere le precedenti conclusioni, sia sotto il profilo civilistico che fiscale, avendo il legislatore inteso assimilare, da un punto di vista sostanziale, il trattamento da riservare alla riscossione coattiva effettuata dai comuni a quello previsto per l'agente nazionale della riscossione.
Di conseguenza, l'Agenzia è dell'avviso che le agevolazioni fiscali previste dagli articoli 47 e 47-bis del dpr 602/1973 possano applicarsi anche nelle ipotesi in cui il comune provveda a riscuotere coattivamente le proprie entrate tributarie e patrimoniali, anziché mediante il concessionario nazionale, direttamente oppure tramite affidamento ai concessionari locali. La risoluzione puntualizza infine che quanto sopra vale soltanto per i comuni e non si applica, quindi, per la riscossione coattiva di altre amministrazioni o enti locali (articolo ItaliaOggi del 13.12.2017).

ENTI LOCALI - VARIPrivacy uguale in tutta Europa. Le regole garantiranno uniformità a livello comunitario. Le novità normative al centro del convegno organizzato a Bologna a fine novembre.
Dal 2018 cambia tutto l'impianto normativo sulla privacy. La stampa specializzata ci ha già da tempo segnalato che gli obblighi di adeguamento al Gdpr (General data protection regulation) dovranno essere assolti entro il 25/05/2018. Ma che cos'è il Gdpr? Che cosa dobbiamo fare in tema privacy, in particolare sui nostri sistemi informativi, per effetto della rinnovata normativa?
Per fornire il necessario supporto alle aziende associate, AssoSoftware ha intrapreso un'attività di studio e analisi della problematica -con il supporto dei maggiori esperti italiani e del Garante delle privacy- creando un gruppo di lavoro permanente, cui partecipano gli specialisti del Comitato tecnico delegati dalle società di software associate.
Ne è un concreto esempio il recente convegno AssoSoftware, che si è tenuto a Bologna il 28-29.11.2017, dal titolo «le novità 2018 e gli impatti sullo sviluppo dei software», dai cui atti abbiamo preso spunto per la realizzazione di questo approfondimento.
In quella sede, tra gli altri argomenti, si è affrontato il tema privacy, con l'intervento dell'avvocato Giovanni Guerra, uno dei maggiori esperti italiani in materia, dal titolo «Gdpr: il nuovo regolamento generale sulla protezione dei dati personali», nel corso del quale il relatore ha esaminato gli aspetti più specifici legati proprio al trattamento dei dati in ambito informatico.
Dunque non solo fisco e lavoro per le software house associate ad AssoSoftware, anche se, come sempre in questi appuntamenti, nel corso del convegno i relatori (tutti autorevoli esponenti degli enti di riferimento: l'Agenzia delle entrate, l'Inps, la Sogei) hanno trattato argomenti di estrema attualità, quali la Cu/2018 e il 770/2018, il 730/2018, l'Iva/2018 e le novità sulle comunicazioni Iva, gli studi di settore e i nuovi Isa 2018, le novità contributive Inps 2018 - ma anche un'attenzione particolare agli aspetti legati alla tutela della privacy. Di seguito, in estrema sintesi, le principali novità contenute nel Gdpr.
La marcia di avvicinamento alla scadenza del 25/05/2018
Una premessa. La nuova normativa sulla privacy è contenuta in un regolamento europeo che è direttamente applicabile in Italia e non necessita di una norma di recepimento, come invece avviene quando la normativa europea è contenuta in una direttiva.
Il regolamento europeo n. 2016/679 sulla protezione dei dati (Gdpr) è di fatto già in vigore anche in Italia dal 24/06/2016, tuttavia è prevista come data ultima per l'adeguamento il 25/05/2018. A partire da tale data sarà abrogata la direttiva 95/46/Ce e conseguentemente verranno meno diverse disposizioni dell'attuale codice della privacy italiano. Le finalità del nuovo regolamento sono:
   - il superamento della situazione di disomogeneo recepimento della direttiva attualmente vigente da parte degli stati membri e garantire un livello uniforme di protezione delle persone in tutta la Ue;
   - l'imposizione delle stesse regole del gioco per le imprese operanti nella Ue, ma anche per le imprese extra-Ue che offrono servizi a cittadini della Ue.
Le conferme
La normativa privacy continua ad applicarsi solo al trattamento dei dati personali relativi alle persone fisiche.
Di fatto le persone giuridiche ne sono escluse, ancorché rimangano tutelate nell'ambito delle comunicazioni elettroniche.
Con «dato personale» si intende qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile «interessato»)
Confermate dal Gdpr le figure chiave nella gestione dei dati personali e degli adempimenti privacy, in particolare il «titolare», il «responsabile» e per ultimi gli «incaricati». Rinnovata la definizione di responsabile, che è quella della persona fisica o giuridica, servizio o altro organismo, che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento.
Qualora un trattamento debba essere effettuato per conto del titolare del trattamento, quest'ultimo ricorre unicamente a responsabili del trattamento che presentino garanzie sufficienti per mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate in modo tale che il trattamento soddisfi i requisiti del presente regolamento e garantisca la tutela dei diritti dell'interessato. Le nuove definizioni aiutano anche a capire meglio i ruoli di alcuni attori.
Le software house, ad esempio, ancorché consentano di utilizzare i loro software in cloud (SaaS ecc ) -salvo casi particolari- in linea generale non devono essere nominate titolari del trattamento (come spesso avveniva in passato), ma sempre e solo responsabili dello stesso.
Peraltro anche il commercialista e il consulente del lavoro, che ad esempio elaborano dati per le aziende loro clienti, non sono necessariamente titolari del trattamento, ma sono sicuramente responsabili dello stesso in quanto trattano i dati per conto del titolare (l'azienda loro cliente) e per le finalità da questi stabilite.
Le novità
La prima e principale novità è l'introduzione del cosiddetto «principio di responsabilizzazione», per effetto del quale vengono meno molti dei precedenti adempimenti burocratici. Infatti, i dati personali devono essere trattati nel rispetto dei principi di liceità, correttezza e trasparenza, limitazione della finalità, minimizzazione dei dati, esattezza, limitazione della conservazione, integrità e riservatezza. Il tutto deve avvenire sotto la propria personale responsabilità e con meno carta.
La seconda novità riguarda il principio del «privacy by design», ossia la protezione dei dati fin dalla progettazione. Si tratta di mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate, quali ad esempio la pseudonimizzazione, volte ad attuare in modo efficace i sopra citati principi di protezione dei dati e di integrare nel trattamento le necessarie garanzie al fine di soddisfare i requisiti del regolamento e di tutelare i diritti degli interessati.
La terza novità riguarda il principio del «privacy by default», ossia la messa in atto di misure tecniche e organizzative adeguate per garantire che siano trattati, per impostazione «predefinita», solo i dati personali necessari per ogni specifica finalità del trattamento. L'adesione a un meccanismo di certificazione può essere utilizzato come elemento per dimostrare la conformità ai requisiti di «privacy by design» e «privacy by default».
La quarta novità riguarda il rafforzamento di alcuni diritti degli interessati. In particolare i diritti di accesso ai dati, di rettifica e integrazione dei dati, di cancellazione o diritto all'oblio, di limitazione di trattamento dei dati personali conservati, di portabilità dei dati, di opposizione per motivi legittimi e al marketing. Per i produttori di software la problematica più complessa da gestire riguarda il diritto alla cancellazione o diritto all'oblio, in quanto si devono riuscire a contemperare le esigenze civilistiche, fiscali e in materia di lavoro del soggetto che tratta il dato, con quelle del soggetto che ne richiede la cancellazione. Sul punto sono comunque in corso ulteriori approfondimenti.
Data Center solo in Europa
I soggetti che erogano servizi in cloud dovranno garantire che l'ubicazione dei data center o server non comporti trasferimenti di dati in un paese terzo al di fuori della Ue (es.: Usa). Il trasferimento di dati al di fuori della Ue è ammesso solo:
   - verso paesi terzi che garantiscono un livello di protezione adeguato in base alle decisioni della Commissione europea (elenco pubblicato on-line: restano in vigore passate decisioni della Commissione e autorizzazioni del Garante finché non modificate!): vedi il recente accordo con Usa-Ue su cosiddetto scudo privacy!
   - se esistono garanzie adeguate come clausole contrattuali standard, norme vincolanti d'impresa (Bcr), adesione a codici di condotta o certificazioni privacy (con impegno ad applicare nel proprio paese);
   - se, in assenza, ricorrano ulteriori condizioni, come il consenso dell'interessato, obblighi contrattuali, ecc.
Conclusioni
Abbiamo fornito solo qualche spunto. L'impatto per le software house, in particolare per quelle che operano sulla rete non è chiaramente indifferente. Come AssoSoftware stiamo esaminando, insieme ai nostri associati, tutte le situazioni che ci vengono sottoposte con l'obiettivo di dare una risposta a ognuna delle questioni aperte (articolo ItaliaOggi del 13.12.2017).

VARI: La Pec è argine contro lo spam. Necessario il consenso del titolare per fare marketing. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via ai ritocchi al Codice dell'amministrazione digitale.
La pubblica amministrazione digitale frena lo spam.
Gli indirizzi Pec (Posta elettronica certificata) e i recapiti digitali non possono essere utilizzati se non per le comunicazioni aventi valore legale e per le comunicazioni da parte di enti pubblici. Per scopi diversi, come quelli del marketing, ci vuole il consenso dell'interessato.

Per limitare le comunicazioni elettroniche indesiderate, il decreto legislativo correttivo del Cad, Codice dell'amministrazione digitale, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, chiarisce la portata della disposizione sull'uso dei domicili digitali, preferendo il generale divieto espresso di utilizzi diversi.
La norma è contenuta in un ampio provvedimento di modifica del dlgs 82/2005, con l'incentivo, oltre al resto, a digitalizzare i rapporti con i cittadini, promuovendo il domicilio digitale (si veda ItaliaOggi del 09.09.2017).
Nella versione finale, il testo ha cura di specificare che il domicilio digitale non deve diventare il luogo virtuale in cui facilmente accatastare (beninteso virtualmente, ma con fastidio reale) messaggi di spam.
Ma vediamo di illustrare la questione.
Il Codice dell'amministrazione digitale prevede elenchi di indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e delle pubbliche amministrazioni.
Il correttivo cambia il nome: non si parlerà più di posta elettronica certificata, ma di domicili digitali e gli elenchi delle Pec diventano elenchi di domicili digitali.
I domicili digitali comprendono, infatti, sia l'indirizzo di posta elettronica certificata sia il servizio elettronico di recapito certificato qualificato.
Dei domicili digitali ci saranno tre elenchi: l'elenco dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti e cioè l'Indice nazionale dei domicili digitali (Ini-Pec, articolo 6-bis del Cad); l'Indice degli indirizzi della pubblica amministrazione e dei gestori di pubblici servizi (articolo 6-ter del Cad); e un terzo elenco, tutto nuovo, ovvero l'elenco dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato, chiamato dal decreto correttivo «Indice degli indirizzi delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato» (nuovo articolo 6-quater del Cad).
Siamo di fronte a liste molto appetibili, anche per il marketing. Non a caso il garante della privacy ha chiesto di modificare il nascituro articolo 6-quinquies del Cad, che si occupa di consultazione e accesso. Nel dettaglio della nuova disposizione, si prevede che la consultazione online degli elenchi di professionisti, imprese, p.a. e privati (articoli 6-bis, 6-ter e 6-quater del Cad) è consentita a chiunque tramite sito web e senza necessità di autenticazione. Gli elenchi sono realizzati in formato aperto. Inoltre l'estrazione dei domicili digitali dagli elenchi sarà effettuata secondo modalità fissate da Agid nelle Linee guida.
Ma, attenzione, si aggiunge che in assenza di preventiva autorizzazione del titolare dell'indirizzo, è vietato l'utilizzo dei domicili digitali per finalità diverse dall'invio di comunicazioni aventi valore legale o comunque connesse al conseguimento di finalità istituzionali dei soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, del Cad (enti pubblici istituzionali, gestori servizi pubblici).
In una versione iniziale del decreto correttivo in esame si leggeva una diversa formulazione, secondo la quale in assenza di preventiva autorizzazione del titolare dell'indirizzo, comunicazioni, diverse da quelle aventi valore legali e diverse da quelle provenienti da p.a. e gestori di pubblici servizi, sarebbero state comunicazioni indesiderate ai sensi dell'articolo 130 del Codice della privacy (decreto legislativo 196/2003).
In proposito il garante della privacy ha chiesto di eliminare il riferimento all'articolo 130 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e di introdurre al suo posto un espresso divieto.
L'osservazione è stata accolta, per rendere più evidente, come spiega la relazione di accompagnamento, l'intento di limitare lo spam.
Questo generale divieto di utilizzare il domicilio digitale dovrà però essere coordinato con le norme del Regolamento Ue sulla privacy (n. 2016/679), e su questo si attendono i decreti legislativi da adottarsi ai sensi della legge 163/2017 (articolo ItaliaOggi del 12.12.2017).

EDILIZIA PRIVATAComuni, oneri urbanistici utilizzabili anche nel 2018.
Sugli oneri di urbanizzazione il pendolo sta tornando indietro. Un emendamento alla manovra che pare blindato dovrebbe estendere al 2018 la disciplina già applicata nel biennio 2016-2017, consentendo ai comuni un utilizzo assai più libero di tali entrate.

Per comprendere la questione, è necessario premettere che l'espressione «oneri di urbanizzazione» indica in modo atecnico i proventi di titoli abilitativi edilizi per i quali il richiedente è chiamato a compartecipare ai costi sociali delle opere che intende realizzare, ad esempio per il collegamento delle fognature, la realizzazione di strade e marciapiedi, il rafforzamento del sistema di illuminazione pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal fine, occorre versare all'ente competente (in genere il comune) un somma correlata all'incidenza di tali costi per la collettività di riferimento, cui si aggiunge un'ulteriore quota ragguagliata al costo di costruzione e che si collega all'incremento di capacità contributiva del titolare a seguito dell'intervento autorizzato.
Data la natura degli «oneri», è naturale che il loro utilizzo da parte del comune debba essere coerente con le finalità cui sono destinati, almeno per la prima quota (quella appunto legata ai costi delle opere di urbanizzazione). Ma finora non sempre è stato così: spesso le difficoltà a quadrare i conti hanno costretto i sindaci a dirottarli su altre tipologie di spese, a volte comunque di investimenti, più spesso di natura corrente. Ciò, come detto, sulla base di una lunga serie di norme ad hoc, a partire dall'art. 2, comma 8, della l 244/2007, che consentiva di utilizzare tali entrate per finanziare per una quota non superiore al 50%, spese correnti indifferenziate e, per una quota non superiore ad un ulteriore 25%, spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Negli anni 2016 e 2017, invece, la materia è stata regolata dal comma 737 della l 208/2015, che ha permesso di spendere gli «oneri» anche interamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche. Dal 2018, invece, dovrebbe entrare in vigore il comma 460 della l. 232/2016, che circoscrive le spese finanziabili alla realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria e altre fattispecie meno frequenti (fra cui nuovamente la progettazione).
Ma come detto un correttivo alla legge di bilancio punta a rimandare di un altro anno l'entrata in vigore di tale normativa vincolistica, lasciando anche per il 2018 le cose come stanno. Il che consentirebbe ai sindaci di utilizzare gli oneri per finanziare un ventaglio più ampio di spese (dagli arredi alla manutenzione dei software) che altrimenti sarebbero spesso assai difficile da coprire (articolo ItaliaOggi del 12.12.2017).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIIl direttore lavori vigile imparziale. Anche per le opere in subappalto. La Conferenza unificata ha dato via libera al dm che riforma questa figura.
Il direttore dei lavori dovrà rispettare l'articolo 42 del Codice degli appalti in materia di conflitto di interessi. Non potrà avere interessi economici nello svolgimento dei lavori perché dovrà vigilare e dirigerli in modo imparziale. E le sue verifiche si estenderanno anche al subappalto. Controllando che in cantiere vi siano solo imprese autorizzate che svolgano effettivamente le lavorazioni dichiarate nei contratti.
È col decreto del ministero dei trasporti e delle infrastrutture, che ha ricevuto via libera dalla Conferenza unificata lo scorso 6 dicembre, che sono state dettate le nuove linee di indirizzo per il direttore dei lavori e il direttore dell'esecuzione nei contratti relativi a servizi e forniture in materia di appalti.
Il direttore dei lavori riceverà dal Responsabile unico procedimento (Rup) le istruzioni per garantire la regolarità dei lavori, l'ordine da seguire nella loro esecuzione e la periodicità con cui presentare un rapporto sulle attività di cantiere. Il direttore dei lavori non potrà accettare altri incarichi dall'esecutore fino all'approvazione del certificato di collaudo o del certificato di regolare esecuzione. Una volta conosciuta l'identità dell'aggiudicatario, il direttore dei lavori dovrà segnalare alla stazione appaltante l'esistenza di eventuali rapporti intercorrenti, in modo che sia la stazione appaltante a decidere se i rapporti possano incidere sull'incarico da svolgere.
Previa autorizzazione del Rup, il direttore dei lavori provvederà alla consegna dei lavori:
   - per le amministrazioni statali, non oltre 45 giorni dalla data di registrazione alla Corte dei conti del decreto di approvazione del contratto, e non oltre 45 giorni dalla data di approvazione del contratto quando la registrazione della corte dei conti non è richiesta per legge;
   - per le altre stazioni appaltanti il termine di 45 giorni decorrerà dalla data di stipula del contratto.
Il direttore dei lavori dovrà comunicare all'esecutore, con un congruo preavviso, il giorno e il luogo in cui questi deve presentarsi, munito del personale idoneo, nonché delle attrezzature e dei materiali necessari per eseguire, ove occorra, il tracciamento dei lavori secondo i piani, profili e disegni di progetto.
All'esito delle operazioni di consegna dei lavori, il direttore dei lavori e l'esecutore sottoscriveranno il relativo verbale e, da tale data, decorre utilmente il termine per il compimento dei lavori (articolo ItaliaOggi del 12.12.2017).

EDILIZIA PRIVATASisma bonus, ripartizione doc. Detrazione anche per spese a completamento dell'opera. Nella risoluzione n. 147/2017 le direttive dell'Agenzia sull'applicazione dell'incentivo.
Chi intende avvalersi della detrazione del 70% in caso di diminuzione di una classe di rischio sismico (elevabile all'80% se le classi di rischio sono due), dovrà ripartire la detrazione in cinque rate (e non in dieci rate). Inoltre, la detrazione prevista per gli interventi antisismici può essere applicata anche alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie al completamento dell'opera.
In caso di effettuazione sul medesimo edificio di interventi antisismici, di manutenzione straordinaria e di riqualificazione energetica il limite di spesa agevolabile è unico (in quanto riferito a un determinato immobile) e pari a 96.000 euro annuali. Entro tale plafond non sono invece compresi gli interventi di riqualificazione energetica (ecobonus), relativi alla riqualificazione globale dell'edificio, agli interventi su strutture opache e infissi e alla sostituzione di impianti termici, per i quali il limite della detrazione del 65% è specificatamente previsto dalle norme di riferimento.

Sono queste i chiarimenti forniti dall'Agenzia delle entrate con la risoluzione 29.11.2017 n. 147/E, in risposta all'interpello presentato da un istante che aveva posto quesiti in ordine alla detrazione per lavori antisismici, ai sensi dell'art. 16 del dl n. 63/2013 e dell'art. 16-bis del Tuir.
Il quesito. Il caso di cui all'interpello riguarda interventi di ristrutturazione di un immobile ubicato in zona sismica ad alta pericolosità (zona 2). L'interpellante vorrebbe innanzitutto ottenere ai sensi dell'art. 16, comma 1-quater, del dl n. 63/2013, una riduzione del rischio sismico che determini il passaggio a una classe di rischio inferiore.
La realizzazione dell'intervento, comporterebbe la spettanza di una detrazione dall'Irpef pari al 70% delle spese sostenute, fino ad un ammontare complessivo delle stesse non superiore a 96.000 euro, da ripartire in cinque quote annuali di pari importo. La spesa complessiva ipotizzata dall'istante è di 250.000 euro, da sostenersi nel corso del 2017, così suddivisa:
   - 120.000 euro per interventi di cui alla lett. i) dell'art. 16-bis del Tuir, consistenti in opere di risanamento strutturale di mura, coperture e pavimenti, ivi compresi, quindi, interventi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria quali, per esempio, intonacatura, imbiancatura e posa pavimenti;
   - 40.000 euro per interventi di cui alla lett. b) dell'art. 16-bis del Tuir, consistenti, ad esempio, nel rifacimento dell'impianto idraulico ed elettrico e nella sostituzione di sanitari e infissi interni;
   - 90.000 euro per interventi di cui alla legge n. 296/2006, art. 1, comma 344, consistenti, per esempio, nel rifacimento di infissi esterni e dell'impianto di riscaldamento.
L'istante ha chiesto pertanto di sapere se, la detrazione maggiorata del 70% o dell'80% (sisma bonus) possa essere fruita in dieci quote annuali e non in cinque.
Inoltre, l'istante ha chiesto se valga anche per gli interventi di riduzione del rischio sismico quanto chiarito, più in generale, per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio con riferimento alle spese per interventi di manutenzione ordinaria realizzati nell'ambito di interventi più vasti, ossia che qualora la manutenzione ordinaria (per esempio, intonacatura e tinteggiatura, rifacimento di pavimenti ecc.) sia necessaria per il completamento dell'opera nel suo complesso, occorre tener conto del carattere assorbente dell'intervento di natura «superiore» rispetto a quello di natura «inferiore» (circolare n. 57/E del 1998).
Infine, l'istante ha chiesto di sapere se il limite massimo di spesa previsto per gli interventi di ristrutturazione (per il 2017 pari a 96.000 euro) sia riferibile anche agli interventi sostenuti sulla medesima unità immobiliare per misure antisismiche.
Il parere dell'Agenzia. Nella risoluzione 147/2017, l'Agenzia ha fatto innanzitutto riferimento all'art. 16-bis, comma 1, lett. i), Tuir, il quale dispone che sono ammessi alla detrazione gli interventi «relativi all'adozione di misure antisismiche con particolare riguardo all'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica, in particolare sulle parti strutturali, per la redazione della documentazione obbligatoria atta a comprovare la sicurezza statica del patrimonio edilizio, nonché per la realizzazione degli interventi necessari al rilascio della suddetta documentazione.
Gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche e all'esecuzione di opere per la messa in sicurezza statica devono essere realizzati sulle parti strutturali degli edifici o complessi di edifici collegati strutturalmente e comprendere interi edifici e, ove riguardino i centri storici, devono essere eseguiti sulla base di progetti unitari e non su singole unità immobiliari
».
Per tali interventi effettuati su edifici adibiti ad abitazione e ad attività produttive, ubicati nelle zone sismiche ad alta pericolosità (ordinanza presidente del consiglio dei ministri n. 3274/2003), l'art. 16, comma 1-bis, del dl n. 63/2013 riconosce una detrazione di imposta nella misura del 50%, fino a un ammontare complessivo delle spese sostenute non superiore a 96.000 euro per unità immobiliare per ciascun anno, da ripartirsi in cinque quote annuali di pari importo nell'anno di sostenimento ed in quelli successivi.
Sisma bonus. I commi 1-quater e 1-quinquies del medesimo art. 16, prevedono che qualora dagli interventi derivi una diminuzione del rischio sismico, calcolata in base al decreto del Mintrasporti 28.02.2017, n. 58 come modificato da successivo dm 07.03.2017, n. 65, la detrazione sopraindicata spetta nella misura del 70% in caso di diminuzione di una classe di rischio e nella misura dell'80% in caso di diminuzione di due classi di rischio.
L'interpellante ha chiesto se la detrazione del 70% di cui al citato art. 16 del dl n. 63/2013 possa essere fruita, a discrezione del contribuente, anziché in cinque rate, in 10 rate come stabilito dall'art. 16-bis del Tuir.
Al riguardo l'Agenzia fa presente che la norma non prevede la possibilità di scegliere il numero di rate in cui fruire del beneficio e, pertanto, il contribuente se intende avvalersi della maggiore detrazione del 70% (o dell'80%) dovrà necessariamente ripartire la detrazione in cinque rate.
Resta ferma la possibilità di avvalersi dell'agevolazione ai sensi dell'art. 16-bis, lett. i), del Tuir, fruendo della detrazione del 50% della spesa da ripartire in dieci rate di pari importo.
L'Agenzia inoltre ritiene, concordando con l'istante, che anche per gli interventi relativi all'adozione di misure antisismiche possa valere il principio secondo cui l'intervento di categoria superiore assorbe quelli di categoria inferiore a esso collegati o correlati.
La detrazione prevista per gli interventi antisismici può quindi essere applicata, per esempio, anche alle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria necessarie al completamento dell'opera (circ. n. 7 del 2017).
Limite di spesa. Per quel che attiene al quesito riguardante il limite di spesa agevolabile in caso di effettuazione sul medesimo edificio di interventi antisismici, di interventi di manutenzione straordinaria e di interventi di riqualificazione energetica, si precisa che per gli interventi di cui all'art. 16-bis del Tuir il limite di spesa agevolabile, attualmente stabilito in 96.000 euro annuali, è unico in quanto riferito al determinato immobile.
Ciò in quanto interventi di consolidamento antisismico per i quali è possibile fruire della detrazione in cinque anni ed, eventualmente, nella maggior misura del 70% o dell'80%, ai sensi dell'art. 16 del dl n. 63/2013, non possono fruire di un autonomo limite di spesa in quanto tale norma non individua una nuova categoria di interventi agevolabili, ma rinvia alla lett. i) del citato art. 16-bis del Tuir.
Nel caso in cui gli interventi realizzati in ciascun anno consistano nella mera prosecuzione di lavori iniziati negli anni precedenti, sulla stessa unità immobiliare, ai fini della determinazione del limite massimo delle spese ammesse in detrazione, occorre tenere conto anche delle spese sostenute negli anni pregressi.
La spesa per la quale si è già fruito della relativa detrazione nell'anno di sostenimento non deve quindi superare il limite complessivo. Questo vincolo non si applica se in anni successivi sono effettuati interventi autonomamente certificati dalla documentazione richiesta dalla normativa edilizia vigente, ossia non di mera prosecuzione di quelli iniziati in anni precedenti.
Ecobonus. Nel suddetto limite di spesa di 96.000 euro non sono compresi, invece, gli interventi di riqualificazione energetica (eco bonus) di cui all'art. 1 della legge 296/2006: riqualificazione globale dell'edificio o, in alternativa, interventi su strutture opache e infissi e sostituzione impianti termici, per i quali l'istante potrà beneficiare della detrazione del 65% nei limiti specificatamente previsti dalle norme di riferimento (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.12.2017).

ATTI AMMINISTRATIVITrasparenza a macchia d'olio. Dal 2018 obbligate associazioni, onlus e fondazioni. La legge sulla concorrenza (124/2017) impone la pubblicazione di sovvenzioni e incarichi.
La trasparenza amministrativa travalica i confini della p.a. Dopo la mole di adempimenti posti a carico di soggetti pubblici dal dlgs 33/2013 (testo unico sulla trasparenza) a partire dal 2018, obblighi di pubblicazione graveranno anche su associazioni di protezione ambientale, associazioni dei consumatori e degli utenti, nonché su associazioni, onlus e fondazioni che intrattengono rapporti economici con pubbliche amministrazioni (o enti assimilati) o società da esse controllate o partecipate, comprese le società con titoli quotati.
La legge sulla concorrenza (legge 124/2017, art. 1, commi 125-129) impone a tali associazioni, onlus e fondazioni di pubblicare entro il 28 febbraio di ogni anno, sui propri siti o portali, le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici per somme superiori a 10 mila euro, ricevuti nell'anno precedente da dette amministrazioni o società a partecipazione pubblica; se i beneficiari hanno forma di impresa, la pubblicazione va fatta nella nota integrativa del bilancio di esercizio e nella nota integrativa dell'eventuale bilancio consolidato.
Gli obblighi di pubblicazione gravanti sui soggetti beneficiari di sovvenzioni, contributi ecc. sono correlati ai corrispondenti obblighi pubblicazione a carico dei soggetti eroganti. Se questi ultimi sono società o enti controllati da pubbliche amministrazioni, l'obbligo di pubblicazione degli atti di erogazione è sancito nella stessa legge sulla concorrenza, ma con un rimando al testo unico sulla trasparenza (art. 26); se invece l'erogante è un'amministrazione dello stato, l'obbligo è previsto direttamente dal Testo unico, a partire da importi superiori a mille euro. I nuovi adempimenti si intersecano, quindi, con quelli di cui al Testo unico sulla trasparenza: ma la norma che li dispone non modifica il Testo unico, bensì resta a sé stante. La ricognizione del complessivo quadro normativo non potrà non risentirne.
Gli obblighi di disclosure imposti ai soggetti indicati dalle nuove norme sono presidiati da un sistema di controlli che pare poco convincente. Innanzitutto, l'inosservanza degli obblighi di pubblicazione da parte dei beneficiari comporta la restituzione di quanto hanno ricevuto. Ma chi verificherà che essi assolvano ogni adempimento?
Sono gli eroganti (anche se la legge sulla concorrenza non lo dice in modo espresso), ai quali le somme andranno restituite, ma solo se essi sono a propria volta adempienti agli obblighi di pubblicazione loro prescritti. Appare poco verosimile che le amministrazioni possano effettivamente controllare le pubblicazioni dei beneficiari delle loro elargizioni, pur restando esposte alle responsabilità conseguenti.
Obblighi di pubblicazione sono posti a carico anche delle pubbliche amministrazioni, società o enti pubblici eroganti, come visto: in questo caso, la violazione potrà essere rilevata d'ufficio dagli organi di controllo dell'erogante o dallo stesso destinatario della concessione (oltre che da chiunque altro vi abbia interesse). Dato che la pubblicazione degli atti di concessione è una «condizione legale di efficacia» delle concessioni stesse, la denuncia della mancata pubblicazione rischia di renderle inefficaci: è poco credibile che chi ne è destinatario si sottoponga a tale rischio denunciando l'inadempimento dell'amministrazione.
Per completezza, è utile aggiungere che il Foia italiano (Freedom of information act, decreto legislativo 97/2016) ha fatto venir meno la responsabilità degli organi dirigenziali delle pubbliche amministrazioni per l'omissione o l'incompletezza della pubblicazione delle erogazioni economiche più volte menzionate. Un'ultima notazione: il Testo unico sulla trasparenza non si applica alle società a controllo pubblico con titoli quotati. Ma la norma della legge sulla concorrenza le include espressamente tra i destinatari degli obblighi di pubblicazione (articolo ItaliaOggi Sette dell'11.12.2017).

INCARICHI PROFESSIONALICompensi dei legali più certi. Parcelle maggiori per chi assiste una pluralità di soggetti. Orlando ha firmato ieri il decreto sui parametri. Crescono i riferimenti per il giudice.
Aumentare i compensi per l'avvocato che assiste più soggetti, dare un riferimento al giudice per stabilire la liquidazione del compenso del legale, eliminare i dubbi interpretativi e colmare vuoti della regolazione. Queste le principali modifiche apportate ai parametri per la liquidazione del compenso degli avvocati contenuti nel decreto ministeriale che ieri il ministro della giustizia Orlando ha firmato e trasmesso al Consiglio di stato.
Ad annunciarlo lo stesso dicastero di via Arenula con una nota pubblicata sul proprio sito web.
Come si può leggere nella nota emessa dal ministero «l'intervento normativo ha recepito alcune delle proposte avanzate dal Consiglio nazionale forense apportando modifiche per: evitare che il giudice provveda alla liquidazione del compenso dell'avvocato senza avere come riferimento alcuna soglia numerica minima, con il rischio di rendere inadeguata la remunerazione della prestazione professionale; aumentare i compensi dovuti all'avvocato che assiste più soggetti aventi la stessa posizione processuale, sia mediante l'incremento del compenso spettante per i soggetti assistiti oltre il primo, sia mediante l'aumento della soglia massima di soggetti assistiti; consentire, nel processo amministrativo, una maggiorazione del compenso relativo alla fase introduttiva del giudizio quando l'avvocato propone motivi aggiunti».
Oltre agli interventi integrativi, il decreto è intervenuto, come detto, per «eliminare dubbi interpretativi e colmare vuoti di regolazione».
Nello specifico le precisazioni fanno riferimento ad alcune situazioni particolari, come nel caso di compensi tabellari da adottare per gli avvocati che svolgono funzioni in sede di arbitrato oppure nel caso in cui sia stata integrata la disciplina parametrale per la previsione di un compenso per le funzioni e l'attività svolta dall'avvocato nei casi di procedimenti di mediazione e in quelli di negoziazione assistita. Il decreto va a modificare i l vecchio dm 55 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 02.04.2014 (regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense).
L'argomento risulta di stretta attualità vista la recente approvazione della norma che garantisce un equo compenso a tutti i professionisti, compresi gli avvocati. La disposizione, contenuta nel dl fiscale (dl 16/10/2017 n. 148), stabilisce che il compenso è considerato equo quando commisurato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché «al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia».
La legge professionale forense (247/2012) prevede che l'aggiornamento dei parametri per la liquidazione dei compensi debba essere effettuato ogni due anni su proposta del Consiglio nazionale forense (articolo ItaliaOggi del 08.12.2017).

EDILIZIA PRIVATA: IL COLLEGATO FISCALE/ Oneri urbanistici, luci e ombre. Sì all'uso in opere pubbliche. Ma servizi locali a rischio. Gli effetti combinati del decreto fiscale e dei paletti introdotti dalla legge di Bilancio 2017.
La stretta sull'utilizzo degli oneri di urbanizzazione, introdotta dalla legge di Bilancio 2017 (la legge 232/2016) complica la vita di tutti coloro, professionisti e imprese, che lavorano per le p.a. locali. Ma il recente decreto fiscale riapre invece la possibilità di destinarlo anche alla progettazione di opere pubbliche.
Le entrate derivanti dagli oneri, infatti, non potranno più essere utilizzate per pagare servizi e forniture diverse da quelle relative alle opere urbanistiche, oltre ad altre spese meno frequenti. Di conseguenza, le condizioni introdotte dalla l. 232/2016 mettono dei paletti alla quadratura dei bilanci dei comuni, mettendo anche a rischio spese essenziali per l'erogazione dei servizi locali.
L'allarme è suonato spesso negli ultimi anni, ma alla fine il legislatore è sempre venuto in soccorso dei sindaci con «leggine» di proroga che hanno rinviato nel tempo il problema. Dal 1° gennaio 2018, invece, entrerà in vigore una nuova disciplina organica, di cui è necessario tenere conto già adesso nella costruzione dei prossimi preventivi.
Per comprendere la questione, è necessario premettere che l'espressione «oneri di urbanizzazione» indica in modo atecnico i proventi di titoli abilitativi edilizi per i quali il richiedente è chiamato a compartecipare ai costi sociali delle opere che intende realizzare, per esempio per il collegamento delle fognature, la realizzazione di strade e marciapiedi, il rafforzamento del sistema di illuminazione pubblica ecc., e le connesse sanzioni.
A tal fine, occorre versare all'ente competente (in genere il comune) una somma correlata all'incidenza di tali costi per la collettività di riferimento, cui si aggiunge un'ulteriore quota ragguagliata al costo di costruzione e che si collega all'incremento di capacità contributiva del titolare a seguito dell'intervento autorizzato.
Non tutti i titoli abilitativi sono onerosi, ma solo quelli da cui deriva un aggravio del carico urbanistico sul territorio, mentre sono gratuiti gli interventi minori, quali le opere di manutenzione ordinaria, straordinaria e di risanamento conservativo.
Data la natura degli «oneri», è naturale che il loro utilizzo da parte del comune debba essere coerente con le finalità cui sono destinati, almeno per la prima quota (quella appunto legata ai costi delle opere di urbanizzazione). Ma finora non sempre è stato così: spesso le difficoltà a quadrare i conti hanno costretto i sindaci a dirottarli su altre tipologie di spese, a volte comunque di investimenti, più spesso di natura corrente.
Ciò, come detto, sulla base di una lunga serie di norme ad hoc, a partire dall'art. 2, comma 8, della legge 244/2007, che consentiva di utilizzare tali entrate per finanziare per una quota non superiore al 50%, spese correnti indifferenziate e, per una quota non superiore a un ulteriore 25%, spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
Negli anni 2016 e 2017, invece, la materia è stata regolata dal comma 737 della legge 208/2015, che ha permesso di spendere gli «oneri» anche interamente per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche.
Dal 2018, infine, entrerà in vigore il comma 460 della legge 232/2016, che circoscrive le spese finanziabili alle seguenti: realizzazione e manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, interventi di riuso e di rigenerazione, interventi di demolizione di costruzioni abusive, acquisizione e realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano. La fattispecie più rilevante e frequente è la prima, che riporta gli oneri alla loro funzione naturale di strumento di finanziamento delle opere di urbanizzazione e delle relative attività di manutenzione (anche ordinaria): a essa si aggiungono altre casistiche, meno ricorrenti.
Viceversa, escono dall'orbita delle spese finanziabili tutte le voci non riconducibili a tale lista, come per esempio gli acquisti e le manutenzioni di automezzi, mobili, arredi, strumenti informatici, per le quali occorrerà trovare altre coperture non sempre a portata di mano, vista anche la conferma del blocco dei tributi locali.
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Senza progetto l'amministrazione locale rischia di avere solo briciole.
Una destinazione alternativa per gli oneri è rappresentata dalle spese di progettazione di opere pubbliche. Lo prevede nuovamente, a decorrere dal 2018, una norma contenuta nel maxi-emendamento al decreto fiscale (dl 148/2017) già approvata dal senato, che quindi reintroduce almeno in parte la disciplina dell'ultimo biennio.
Nel frattempo, però, la normativa in materia di lavori è cambiata, sotto due profili che rendono la novità particolarmente rilevante.
Da un lato, il nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016) ha profondamente modificato la fase iniziale dell'iter progettuale, che ora si sostanzia non più nel progetto preliminare, ma nel progetto di fattibilità tecnica ed economica. Quest'ultimo deve individuare la soluzione progettuale con il miglior rapporto costi/benefici per la collettività e rispetto al «vecchio» preliminare generico si appesantisce di adempimenti e documenti. I relativi costi, tuttavia, non possono trovare spazio all'interno del quadro economico, per cui la possibilità di coprirli (in tutto o in parte) con gli oneri rappresenta un importante elemento di flessibilità.
Il secondo fattore da considerare è il ruolo sempre più cruciale che la progettazione ha assunto al fine di consentire agli enti di accedere ai bonus che consentono loro di finanziare i propri investimenti derogando alle ristrettezze del pareggio di bilancio.
I diversi meccanismi di alleggerimento dei vincoli di finanza pubblica prevedono la possibilità per lo stato e le regioni di distribuire agli enti locali delle sorte di «permessi di sforamento» che consentono di finanziare spese di investimenti mediante applicazione di avanzo di amministrazione o ricorso al debito.
Accedere al riparto, però, non è semplice: da qualche anno a questa parte, la normativa ha reso più stringenti i requisiti necessari, individuando delle fattispecie prioritarie che danno diritto a chi vi rientra di usufruire di una corsia preferenziale.
Oltre a privilegiare gli investimenti su alcune materie sensibili (edilizia scolastica, bonifiche e da ultimo impiantistica sportiva), il legislatore attribuisce sempre maggiore rilevanza al possesso, da parte dell'amministrazione locale richiedente, di un progetto, di norma esecutivo (con annesso crono-programma), più raramente solo definitivo. Per verificarlo, è sufficiente scorrere gli elenchi delle priorità previste nell'ambito del Patto verticale nazionale, su cui il ddl di Bilancio 2018 interviene (oltre che aumentando la dote da 700 a 900 milioni), proprio enfatizzando ulteriormente il ruolo centrale della progettualità.
Senza progetto, in altri termini, si rischia di restare a bocca asciutta o di doversi accontentare delle briciole. Da qui, l'opportunità di investire eventuali risorse libere in tale direzione, in modo da costruirsi una sorta di «parco progetti» spendibile sui vari «mercati» (nazionale, ma anche regionali) di spazi finanziari.
Fanno eccezione i piccoli comuni (fino a 5 mila abitanti), per i quali sono previste delle priorità anche senza progetti o in presenza di una progettazione solo preliminare. Tale agevolazione, tuttavia, presenta anche qualche possibile rischio: gli enti che ottengono spazi e non li utilizzano integralmente vanno incontro a una sanzione molto pesante, ossia l'esclusione dai riparti per l'anno successivo. Ciò potrebbe portare tali amministrazioni nella scomoda situazione di non poter più disporre di bonus proprio quando dal progetto si passa alla sua attuazione (con i conseguenti impatti contabili). Ed è evidente che tali eventualità è più probabile quando si aderisce al meccanismo senza le idee chiare sulle opere da mettere in cantiere e sui relativi tempi di realizzazione. In una parola, senza un progetto (articolo ItaliaOggi Sette del 04.12.2017).

PUBBLICO IMPIEGO - VARIEcoreati, più facile denunciare. Tutela rafforzata per i dipendenti che segnalano illeciti. Gli effetti della legge sul whistleblowing approvata in via definitiva il 15 novembre.
Tutela rafforzata per i dipendenti pubblici che denunciano gli illeciti anche di interesse ambientale di cui sono a conoscenza per lavoro, allargamento dello scudo ai fornitori privati della p.a. e introduzione di analogo (seppur depotenziato) istituto nelle imprese che utilizzano il modello «231».
La riscrittura delle norme sul cosiddetto «whistleblowing», che promette grazie all'ampliato e duplice fronte pubblico/privato di aprire una rinnovata lotta anche agli ecoreati, arriva con la legge approvata in via definitiva dal parlamento il 15 novembre 2017 recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato».
Whistleblowing nella p.a. Le novità sono introdotte attraverso la riformulazione dell'articolo 54-bis della legge 165/2001, il Testo unico del pubblico impiego. In primo luogo viene allargata la platea dei lavoratori pubblici protetti, ora comprendente i dipendenti degli enti di diritto privato sottoposti al controllo pubblico ex articolo 2359 del codice civile così come i lavoratori e i collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione pubblica.
In secondo luogo viene rimodulato il novero dei soggetti destinatari delle segnalazioni, e questo: prevedendo (oltre all'Autorità nazionale anticorruzione e quella giudiziaria) anche il «responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza» ex lege 190/2012 (recante il codice del processo amministrativo); non contemplando più tra i canali di destinazione il «superiore gerarchico».
In terzo luogo viene estesa la tutela dell'identità del denunciante, assicurata in tutti i procedimenti seguenti alla segnalazione, con la specificazione delle ipotesi eccezionali in cui potrà essere rivelata.
In quarto luogo, nel confermare la nullità delle condotte ritorsive a carico dei segnalanti (licenziamento, demansionamento, trasferimento e ogni altra condotta con effetti negativi diretti o indiretti determinata dalla denuncia) vengono introdotte puntuali sanzioni irrogabili direttamente dall'Anac.
Le pene colpiranno sia le p.a. che hanno adottato le azioni ritorsive (con sanzione amministrativa pecuniaria fino a 30 mila euro) sia i suddetti responsabili della prevenzione che non hanno analizzato le denunce pervenute (fino a 50 mila euro). Il potenziamento dell'istituto nella p.a. potrà rafforzare anche il contrasto degli illeciti «indirettamente» danneggianti l'ecosistema, quali il reato di corruzione (art. 318 c.p.) e quello di «indebita induzione a dare o promettere denaro o altra utilità» (319-quater c.p.), cui appaiono essere «sensibili» sia gli appalti verdi che i procedimenti di rilascio delle autorizzazioni ambientali.
Il whistleblowing nel settore privato. Le regole sul whistleblowing esordiscono tra le condizioni che le organizzazioni devono rispettare per poter arginare la propria responsabilità amministrativa «231» in caso di condotte illecite di propri lavoratori. In base al dlgs 231/2001, enti e imprese rispondono direttamente, con sanzioni amministrative (pecuniarie e interdittive) per determinati reati commessi nell'interesse o a vantaggio dell'organizzazione da amministratori, dirigenti e dipendenti. Le stesse entità non rispondono di tali illeciti indicati dal decreto (i «reati presupposto») solo se dimostrano: di aver adottato e attuato prima della loro commissione un «modello di organizzazione e gestione» idoneo a prevenirli; di aver svolto effettiva vigilanza sulla sua osservanza; la fraudolenta elusione del modello da parte degli autori dell'illecito.
E tra i requisiti d'idoneità di tale modello la nuova legge inserisce ora: la previsione di uno o più canali che consentano ai lavoratori di presentare segnalazioni di illeciti garantendo la riservatezza della loro identità; almeno un canale alternativo con modalità informatiche; il divieto di atti ritorsione (denunciabili ad Ispettorato del lavoro e sindacati, e la cui adozione è comunque nulla); la previsione di sanzioni sia per chi adotta atti di ritorsione che per chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni infondate (e non per chi omette di verificare o analizzare le segnalazioni ricevute, come nella p.a.).
Il nuovo provvedimento detta anche le caratteristiche che le segnalazioni dovranno avere, ossia: l'essere circonstanziate e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti; il vertere su condotte illecite rilevanti ex dlgs 231/2001 o su violazioni del «modello» di cui il denunciante è a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.
Larga la copertura dell'istituto, se si considera che il campo di applicazione del dlgs 231/2001 abbraccia sia gli enti forniti di personalità giuridica che quelli privi, con la sola esclusione di stato, enti pubblici territoriali, enti pubblici non economici, enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale (coperti comunque dalle disposizioni ex articolo 54-bis della legge 165/2001).
Tra i reati ambientali previsti dal dlgs 231/01 (e la cui commissione potrà essere utilmente segnalata tramite il nuovo strumento) vi sono: inquinamento e disastro ambientale; traffico o abbandono di materiale ad alta radioattività; gli illeciti su gestione rifiuti, inquinamento acque ed aria, omessa bonifica; gestione di sostanze lesive dell'ozono stratosferico; danni ad animali e vegetali; inquinamento da navi punito ex dlgs 202/2007. E questo oltre ai reati «connessi» alla gestione di risorse ambientali, anch'essi richiamati dal dlgs 231/2001, e ai quali può qui altresì aggiungersi la «corruzione tra privati» (art. 2635 c.c.).
Fornitori della p.a. Lo scudo del rinnovato istituto estende i propri confini grazie all'ampia e citata nozione del «dipendente pubblico» tutelato contro atti discriminatori e rivelazione illegittima di identità. Riconoscendo tale status ai «lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell'amministrazione pubblica» la nuova legge incoraggia la segnalazione di illeciti da parte di tutte le aziende che interagiscono con la p.a. in forza di gare a evidenza pubblica (che, ai sensi del nuovo dlgs 50/2016, «Codice appalti», devono avvenire anche nel rispetto di precisi criteri ambientali).
La scriminante ad hoc. La neo legge introduce infine una specifica causa di giustificazione per tutte le segnalazioni e denunce.
Tali «informative», nel rispetto di determinate condizioni, costituiranno giusta causa della rivelazione delle notizie eventualmente coperte da obblighi di segreto ex articoli 326, 622 e 623 c.p., 2105 c.c. Per godere della scriminate, le denunce dovranno:
   - essere effettuate nelle forme e nei limiti ex lege 165/01 e dlgs 231/01;
   - finalizzate a perseguire interesse e integrità delle amministrazioni o lotta a malversazioni;
   - provenire da soggetti diversi dai consulenti degli enti o delle persone fisiche coinvolte; non comportare la comunicazione di notizie o documenti in modalità eccedenti la finalità di eliminare l'illecito; effettuate utilizzando solo i citati canali a tal fine predisposti (articolo ItaliaOggi Sette del 04.12.2017).

INCARICHI PROGETTUALI: Gli architetti ricorrono alla Cedu contro il Cds.
Il Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori ha presentato ieri ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo per contestare la violazione dei diritti contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo lesi con la sentenza del Consiglio di stato 4614/2017.

La sentenza è relativa al bando emesso dal comune di Catanzaro, che per la realizzazione del proprio piano strutturale aveva stabilito un euro di compenso per il professionista incaricato.
Secondo gli architetti, la sentenza ha violato il diritto di proprietà legittimando la richiesta di prestazioni in forma gratuita ai liberi professionisti, consentendo al comune di Catanzaro un ingiustificato arricchimento a fronte di prestazioni lavorative di carattere intellettuale.
«Una sentenza che rappresenta una pericolosa istigazione a delinquere, come io stesso ho denunciato la scorsa settimana nel corso di una audizione dinanzi alla Commissione parlamentare Antimafia», ha dichiarato Giuseppe Cappochin, presidente degli architetti italiani (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017).

LAVORI PUBBLICIConsultazione per grandi opere. Obbligo anche per terminal marittimi, linee elettriche, dighe. Nuova bozza di dpcm sul débat public attuativo del codice dei contratti. In arrivo quello sul Bim.
Il débat public, con la consultazione pubblica sulle grandi opere, si applicherà per infrastrutture stradali e autostradali oltre i 500 milioni, ferrovie di lunghezza superiore a 30 chilometri e aeroporti con piste di più di un chilometro e mezzo.

Sono queste le indicazioni che, per le opere di maggiore importanza, si deducono dall'allegato 1 alla bozza di decreto della presidenza del consiglio che da pochi giorni è stata restituita al ministero delle infrastrutture (proponente) per essere trasmessa agli enti che dovranno esprimere il parere.
È uno dei decreti attuativi del codice dei contratti pubblici (cui a brevissimo si aggiungerà quello sul Bim, Building informazione modelling che sarebbe alla firma del ministro Delrio), forse quello di cui si sottolineò la particolare rilevanza al momento della presentazione della riforma da parte del governo Renzi.
Oltre alle strade, autostrade e ferrovie, il decreto si applicherà anche ad altre importanti opere quali i terminal marittimi di importo, oltre 200 milioni e le linee elettriche di più di 40 chilometri, i gasdotti e oleodotti e dighe.
La bozza di decreto prevede però che si possa ricorrere alla procedura di consultazione pubblica anche per le opere ricomprese nell'allegato 1 rientranti in soglie dimensionali ridotte del 50%, su richiesta: della presidenza del consiglio o dei ministeri direttamente interessati alla realizzazione dell'opera; di un consiglio regionale o di una provincia o di una città metropolitana territorialmente interessati dall'intervento; di uno o più consigli comunali o di unioni di comuni territorialmente interessati dall'intervento, se complessivamente rappresentativi di almeno 100 mila abitanti; di almeno 50 mila cittadini elettori nei territori in cui è previsto l'intervento; di almeno un terzo dei cittadini elettori per gli interventi che interessano le isole con non più di 100 mila abitanti e per il territorio di comuni di montagna.
Il provvedimento prevede che il dibattito pubblico si svolga nelle fasi iniziali di elaborazione di un progetto di un'opera o di un intervento, in relazione ai contenuti del progetto di fattibilità ovvero del documento di fattibilità delle alternative progettuali; non può svolgersi oltre l'avvio della progettazione definitiva.
Il dibattito pubblico potrà durare al massimo quattro mesi a decorrere dalla pubblicazione del dossier di progetto, prorogabili di ulteriori due mesi in caso di comprovata necessità.
Sarà cura dell'amministrazione aggiudicatrice o dell'ente aggiudicatore provvedere alla trasmissione alla commissione che dominerà il dossier una comunicazione, con allegato il progetto di fattibilità ovvero il documento di fattibilità delle alternative progettuali, che contiene l'intenzione di avviare la procedura, la descrizione degli obiettivi e le caratteristiche del progetto adottate in coerenza con le indicazioni delle linee guida per la valutazione degli investimenti pubblici emanate dal ministero delle infrastrutture e dei trasporti o dai ministeri competenti ai sensi del decreto legislativo 29.12.2011, n. 228.
Inoltre, dovranno essere indicati uno o più soggetti dell'ente o amministrazione che la rappresenti in tutte le fasi del procedimento di dibattito pubblico. Le diverse fasi del dibattito saranno infatti gestite da una sorta di project manager definito responsabile del dibattito, a sua volta scelto con procedura di gara. Sarà lui a chiudere il dibattito prevedendo una relazione finale che esponga tutte le posizioni in campo e le possibili soluzioni da adottare (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017).

APPALTICommissariamento, utili bloccati alle consorziate. Sentenze Cds sulle imprese coinvolte in inchieste giudiziarie.
Il commissariamento di imprese coinvolte in inchieste giudiziarie relative ad appalti determina il blocco degli utili di tutte le imprese coinvolte, comprese le consorziate che hanno avuto l'incarico di eseguire i lavori.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato in sette sentenze, di analogo tenore, emesse dalla III Sez. (sentenza 26.10.2017 n. 2581, n. 2582, n. 2583, n. 2584, n. 2585, n. 2586, n. 2587).
In particolare, si trattava di chiarire se, in presenza di un provvedimento prefettizio che dispone di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell'impresa limitatamente alla completa esecuzione di un opera pubblica, ex art 32 dl n. 90/2014, la regola che dispone l'accantonamento in apposito fondo dell'utile d'impresa derivante dall'esecuzione del contratto commissariato fosse estensibile o meno anche agli utili spettanti alle imprese che eseguono i lavori per conto del concessionario, con il quale sono consorziate.
Si trattava della vicenda del Consorzio Venezia Nuova concessionario dei lavori del Mose, commissariato a dicembre 2014 dalla prefettura, su richiesta dell'Anac. La norma che disciplina il commissariamento si pone due obiettivi: garantire la completa esecuzione degli appalti e neutralizzare il rischio derivante dall'infiltrazione criminale nelle imprese, riguardando quindi il contratto (da portare a termine) e non l'impresa.
All'interno di questa finalità, ha detto il Consiglio di stato, si inserisce il settimo comma dell'art. 32 che impone l'accantonamento degli utili che dal contratto commissariato (eventualmente) derivano (al netto delle spese per la realizzazione dell'opera pubblica). L'obiettivo è di evitare il paradossale effetto di far percepire, proprio attraverso il commissariamento che conduce all'esecuzione del contratto, il profitto dell'attività criminosa.
Per i giudici, quindi la misura degli utili già accantonati (e la loro eventuale capienza) non ha alcuna influenza con l'operatività dell'accantonamento che la norma impone come sempre obbligatorio e riferito esclusivamente all'utile netto: «Soltanto in esito ai processi penali potrà farsi questione in ordine alla misura degli utili confiscabili (se ritenuti profitto del reato) e all'eventuale residuo da redistribuire agli aventi diritto».
Nel caso esaminato, le sentenze del Consiglio di stato concludono che essendo il consorzio l'unica controparte della stazione appaltante, l'atto negoziale di (ri)trasferimento delle singole quote delle risorse percepite per i lavori fatti eseguire dalle imprese consorziate (mediante accordi interni di natura privatistica) è atto che rientra nei poteri dei commissari e non riguarda la governance delle imprese estranee al commissariamento.
Pertanto, l'obbligo giuridico che grava sui commissari di accantonare tutti gli utili (senza distinzione alcuna) che discendono dal contratto commissariato, «non si vede come sia possibile distinguere tra utili spettanti al Consorzio e utili di competenza delle imprese consorziate».
Ciò anche perché nel rapporto di concessione, le singole imprese consorziate non hanno alcun rapporto con la pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi dell'01.12.2017).

VARIIl deposito prezzo è facoltativo. Meglio anticipare l'intenzione prima di stipulare il rogito. Il vademecum del Consiglio nazionale del notariato per applicare la nuova disposizione.
Deposito del prezzo: istruzioni per l'uso. Il Consiglio nazionale del notariato ha pubblicato sul proprio sito internet (www.notariato.it), una sorta di vademecum per la corretta applicazione della nuova disposizione introdotta dalla c.d. legge sulla concorrenza n. 124/2017 ed entrata in vigore lo scorso 29 agosto.
Vediamo più da vicino di cosa si tratta.
Chi compra un immobile si vede esposto al rischio che, tra la data del rogito dinanzi al notaio e la data della sua trascrizione nei registri immobiliari, venga pubblicato su questi ultimi un gravame inaspettato a carico del venditore: un'ipoteca, un sequestro, un pignoramento, una domanda giudiziale, eccetera. Occorre comunque avvertire che questo tipo di inconvenienti si verificano nella pratica assai raramente, perché i notai sono soliti adempiere al predetto obbligo di trascrizione in tempi molto brevi.
La legge n. 124/2017 ha quindi previsto che, qualora sia richiesto da almeno una delle parti del contratto, il notaio sia obbligato a tenere in deposito presso di sé il saldo del prezzo messo a disposizione dall'acquirente e destinato al venditore, fino a quando non sia stato eseguito il prescritto adempimento pubblicitario presso i registri immobiliari, con il quale si acquisisce la certezza che l'acquisto si è perfezionato senza subire gravami. Come ribadito dal notariato, si tratta di una tutela facoltativa che la nuova legge mette a disposizione di chi compra casa: in sede di rogito l'acquirente, a seconda dei casi, può quindi optare per avvalersene o rinunziarvi.
Nel vademecum si evidenzia altresì come sarebbe opportuno che tale intenzione venisse manifestata dall'acquirente al venditore già prima del rogito, dunque in sede di preliminare, in modo da regolamentare con anticipo la circostanza tra le parti. In ogni caso nulla esclude che l'acquirente possa manifestare l'opzione al venditore anche direttamente in sede di stipula del rogito.
In questo caso lo scenario che tipicamente si realizza nello studio notarile, ovvero la consegna del saldo del prezzo al venditore e di quella delle chiavi all'acquirente, è destinato a mutare, almeno per quanto riguarda il primo aspetto. L'assegno che si è soliti consegnare al proprietario di casa dovrà infatti essere intestato non più al venditore, bensì al notaio stesso, in modo da consentire al professionista di depositarne l'importo su di un conto corrente dedicato appositamente aperto in banca con la specifica destinazione di «conto dedicato ai sensi della legge 147/2013».
Occorre in ogni caso evidenziare come, a garanzia delle parti, la legge preveda che le somme depositate nel conto corrente dedicato aperto dal notaio costituiscono patrimonio separato da quello personale del professionista. Dette somme sono inoltre escluse dalla successione del notaio e dal regime patrimoniale della sua famiglia, risultando altresì impignorabili a richiesta di chiunque, così come impignorabile è il credito al pagamento o alla restituzione delle stesse.
Il professionista può ovviamente disporre delle somme in tal modo vincolate solo per gli specifici impieghi per i quali le stesse sono state depositate fiduciariamente presso di questi. Quindi, una volta eseguita la registrazione e la pubblicità dell'atto di trasferimento della proprietà immobiliare e dopo aver verificato l'assenza di gravami e formalità pregiudizievoli ulteriori rispetto a quelle esistenti alla data dell'atto o da questo risultanti, il notaio dovrà provvedere senza indugio a disporre lo svincolo degli importi depositati a favore del venditore).
Da segnalare anche che gli interessi maturati su tutte le somme depositate ai sensi della normativa in questione, al netto delle spese e delle imposte relative al conto corrente, quindi anche il prezzo della compravendita, sono espressamente finalizzati a rifinanziare i fondi di credito agevolato destinati ai finanziamenti alle piccole e medie imprese, secondo le modalità e i termini che saranno individuati in prosieguo con apposito dpcm che dovrà essere adottato, su proposta del ministro dell'economia e delle finanze, entro 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge sulla concorrenza (quindi con decorrenza dallo scorso 29.08.2017).
Il notariato ha infine voluto evidenziare come il deposito del prezzo garantisca il corretto e sicuro perfezionamento del trasferimento del denaro dall'acquirente al venditore, il quale incasserà le somme dopo qualche giorno ma non correrà alcun rischio in ordine all'effettivo incasso della somma pattuita (articolo ItaliaOggi Sette del 27.11.2017).

APPALTIForniture mai senza privacy. Trasmissione dei dati da monitorare. Ruoli identificati. Le norme della legge europea sulle esternalizzazioni, che anticipano il regolamento Ue.
Quando si esternalizzano compiti e funzioni non bisogna dimenticarsi della privacy. E ruoli e responsabilità «privacy» devono essere messi nero su bianco, seguendo un facsimile predisposto dal Garante della privacy.

Lo sottolinea la legge europea 2017, approvata definitivamente dalla camera l'08.11.2017, che modifica l'articolo 29 del Codice della privacy (sul responsabile del trattamento), anticipando in gran parte il contenuto dell'articolo 28 del regolamento Ue 2016/679 sulla protezione dei dati (efficace dal 25.05.2018).
Un'impresa o un ente pubblico svolge la sua attività tipica e istituzionale sia con la propria organizzazione e il proprio personale sia avvalendosi di fornitori esterni, i quali ultimi eseguono l'attività o pezzi dell'attività. L'esternalizzazione del servizio o di pezzi del servizio molto spesso comporta l'invio delle informazioni necessarie all'espletamento del compito. Tali informazioni possono essere «dati personali».
Tanto per fare un esempio, esternalizzare la compilazione delle buste paga implica il passaggio, dal datore di lavoro al fornitore di servizi di consulenza del lavoro, dei dati dei lavoratori. E lo stesso capita per i dati dei clienti di un'impresa, in relazione all'esecuzione degli obblighi contrattuali. Il committente del servizio e il fornitore esterno, dunque, deve accordarsi sui profili della tutela della riservatezza delle persone, i cui dati transitano dal primo al secondo e viceversa.
Se protezione dei dati personali significa che l'interessato non deve perdere di vista le informazioni che lo riguardano, allora la trasmissione dei dati è un'operazione da monitorare. E il monitoraggio si fa innanzitutto richiedendo a committente e fornitore esterno di formalizzare il loro rispettivo ruolo e le loro responsabilità.
In altre parole l'interessato (cui si riferiscono i dati) deve poter sapere se, come e quando i suoi dati sono passati dal soggetto Alfa al soggetto Beta e quali ruoli sia Alfa che Beta stiano giocando.
Le possibilità sono in astratto due:
   1) Alfa e Beta sono sullo stesso piano e decidono insieme finalità e modalità del trattamento: in questo caso si parla di «contitolarità del trattamento»;
   2) Alfa e Beta non sono sullo stesso piano, in quanto Beta tratta i dati per conto di Alfa: in questo caso abbiamo un «titolare del trattamento» (nell'esempio, Alfa) e un responsabile del trattamento (Beta).
In tutti e due i casi bisogna scrivere atti e documenti che chiariscano bene la vicenda nell'interesse della persona fisica cui si riferiscono i dati.
La parola d'ordine è documentazione. La legge europea 2017, come detto, si occupa del responsabile del trattamento. E lo fa per stabilire che titolare (committente) e responsabile (fornitore esterno) devono redigere un «atto giuridico», principalmente un contratto, in cui esplicitare i loro rapporti sulla falsa riga di modello, che il Garante della privacy metterà a disposizione.
Nel dettaglio la legge europea 2017 aggiunge due commi (il 4-bis e il 5) all'articolo 29 del Codice della privacy (dlgs 196/2003).
La prima integrazione (il comma 4-bis) recita che il titolare (alias l'impresa o l'ente pubblico) può avvalersi, per il trattamento di dati, anche sensibili, di soggetti pubblici o privati che assumono la qualifica di responsabile del trattamento.
Per la verità la possibilità di designare un soggetto esterno quale responsabile esterno del trattamento è già prevista dal codice della privacy. Quindi, fin qui niente di nuovo.
La parte effettivamente nuova è quella in cui il comma 4-bis prescrive che i titolari devono stipulare con i responsabili atti giuridici in forma scritta, che specificano: 1) la finalità perseguita; 2) la tipologia dei dati; 3) la durata del trattamento; 4) gli obblighi e i diritti del responsabile del trattamento; 5) le modalità di trattamento.
Altra parte nuova è quella in cui il comma 4-bis assegna al garante il compito di stendere schemi tipo degli atti fra titolare e responsabile.
La legge europea 2017 riscrive il comma 5 dell'articolo 29 del Codice della privacy ed elenca gli obblighi del responsabile del trattamento:
   a) attenersi alle condizioni degli atti giuridici sottoscritti;
   b) attenersi alle istruzioni ricevute dal titolare del trattamento.
La legge europea 2017 specifica le prerogative del titolare del trattamento, che si sintetizzano nel potere di vigilanza sull'osservanza, da parte del responsabile, delle norme sulla privacy, delle istruzioni ricevute e degli atti giuridici sottoscritti.
Cerchiamo di rendere l'effetto concreto di queste norme. Quando una società, nell'esempio sopra iniziato, affida prestazioni di assistenza dei clienti a una società di servizi esterna, dovrà scrivere un atto giuridico, nella quale si precisano tutti compiti e obblighi reciproci.
La società di servizi esterna dovrà tollerare ispezioni e/o dovrà elaborare relazioni periodiche sullo stato di applicazione della disciplina della privacy.
Si noti che i poteri ispettivi possono essere decisamente invasivi e, quindi, è meglio che titolare e responsabile si accordino trovando il giusto equilibrio.
Le disposizioni esaminate anticipano quanto disposto dall'articolo 28 del regolamento Ue n. 2016/679, che impone un contratto (o altro atto giuridico) tra titolare e responsabile esterno del trattamento: anche la disciplina europea prevede il potere ispettivo del titolare del trattamento.
Il regolamento Ue prevede anche la possibilità che il responsabile del trattamento nomini un sub-responsabile del trattamento, seguendo gli indirizzi predefiniti dal titolare del trattamento.
Inoltre il regolamento Ue assoggetta a sanzione amministrativa la mancata stesura di un contratto tra titolare e responsabile del trattamento.
In ogni caso, a prescindere dei dettagli, il messaggio è chiaro: quando si mandano in giro i dati delle persone, a queste persone bisogna rendere conto e bisogna preoccuparsi di responsabilizzare i destinatari dei dati stessi.
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Dai tabulati alla ricerca: altri interventi.
Tabulati telefonici conservati per sette anni; ricerca scientifica agevolata dalla possibilità di autorizzare il riutilizzo dei dati anonimizzati; task force (più 25 unità) presso il Garante della privacy per gestire l'applicazione del regolamento Ue 2016/679. Sono i tre fronti su cui operano, in materia di privacy, altrettante disposizioni della legge europea 2017.
Ricerca scientifica. Riutilizzabili i dati per finalità di ricerca scientifica o per scopi statistici. La legge europea 2017 interviene sulla materia della ricerca scientifica per stabilire le condizioni del riutilizzo dei dati.
Nel dettaglio si prevede che nell'ambito delle finalità di ricerca scientifica o per scopi statistici può essere autorizzato dal Garante il riutilizzo dei dati, anche sensibili, a esclusione di quelli genetici, a condizione che siano adottate forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati ritenute idonee a tutela degli interessati.
Il Garante comunicherà la decisione adottata sulla richiesta di autorizzazione entro 45 giorni, decorsi i quali la mancata pronuncia equivale a rigetto. Con il provvedimento di autorizzazione o anche successivamente, sulla base di eventuali verifiche, il Garante stabilirà le condizioni e le misure necessarie ad assicurare adeguate garanzie a tutela degli interessati nell'ambito del riutilizzo dei dati, anche sotto il profilo della loro sicurezza.
Si tratta di una norma a favore della ricerca, che può riutilizzare i dati se anonimizzati. La norma viene inserita come articolo 110-bis del codice della privacy nel capo relativo ai trattamenti per scopi statistici o scientifici.
La materia è sviluppata dal Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per scopi statistici e scientifici (provvedimento del Garante n. 2 del 16.06.2004, Gazzetta Ufficiale 14.08.2004, n. 190). Con la legge europea 2017 si apre la possibilità dell'utilizzo dei dati previa autorizzazione del garante.
Data retention. Sette anni di conservazione del traffico telefonico e telematico.
Per la lotta contro il terrorismo, per garantire strumenti di indagine efficaci in considerazione delle straordinarie esigenze di contrasto del terrorismo, anche internazionale, per le finalità dell'accertamento e della repressione di gravi reati (previsti dagli articoli 51, comma 3-quater, e 407, comma 2, lettera a), del Codice di procedura penale), la legge europea 2017 allunga il termine di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico e dei dati relativi alle chiamate senza risposta: il termine è stabilito in 72 mesi.
Si tratta di una forte eccezione alla regola generale fissata dal Codice della privacy (articolo 132, commi 1 e 1-bis), il quale fissa la data retention in due anni per il traffico telefonico, in un anno per quello telematico e in 30 giorni per le chiamate senza risposta.
Task force del gpdp. La legge europea 2017 rimpolpa l'organico del Garante per la privacy. Anche per fare fronte al surplus di attività collegata all'adeguamento al regolamento Ue 2016/679. A decorrere dall'anno 2018 viene stanziato un contributo aggiuntivo pari a 1.400.000 euro. Il personale è aumentato di 25 persone (articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAAria, stretta contro le emissioni. Limiti aggiornati e sanzioni più aspre per i trasgressori. Il dlgs approvato il 10 novembre estende la platea degli impianti soggetti ad autorizzazione.
Allargamento degli impianti che necessitano della preventiva autorizzazione per emettere inquinanti in atmosfera, con parallelo upgrade dei valori limite da rispettare e inasprimento delle sanzioni per le condotte contra legem.

Queste, insieme a una semplificazione burocratica per le autorizzazioni ed alla lotta alle emissioni (anche) semplicemente sgradevoli, le principali novità previste dal decreto legislativo approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri del 10.11.2017. Il neodecreto riscrive le regole per la tutela dell'aria attualmente previste dal Codice ambientale recependo sul piano nazionale le ultime norme Ue sul controllo degli impianti di combustione medi.
Il contesto normativo. Il restyling licenziato dal governo interessa l'intera parte quinta del dlgs 152/2006, recante la disciplina sulle emissioni in atmosfera prodotte, salvo mirate eccezioni, sia dagli stabilimenti produttivi che dagli impianti termici mediante un preciso binario di norme: da un lato i valori limite ammissibili di inquinanti (condizioni minime e inderogabili per tutti gli impianti); dall'altro le tipologie di autorizzazioni necessarie per poterli emettere in aria (dettate per le singole categorie di impianti e cedevoli ove l'ordinamento preveda altri e speciali regimi, come l'«Aia» o l'«Aua»).
Le novità per gli stabilimenti produttivi. Il decreto delegato del 10 novembre 2017 interessa le emissioni prodotte dagli stabilimenti produttivi sotto entrambi i profili indicati.
Sotto il primo profilo arriva l'aggiornamento dei valori limite di emissione alle classi di rischio delle sostanze chimiche previste dall'ultima disciplina comunitaria in materia, con il mantenimento però, ove più stringenti, dei parametri già previsti dall'attuale disciplina nazionale.
Sotto il profilo autorizzativo arriva invece la citata semplificazione burocratica, con il rinnovato ruolo dato alle «autorizzazioni di carattere generale» ex articolo 272 del dlgs 152/2006, ossia a quei provvedimenti recanti le condizioni dettate dalle Autorità pubbliche competenti in merito a valori limite da rispettare e altri oneri cui i gestori degli stabilimenti è sufficiente che aderiscano per poter legittimamente esercitare la propria attività.
In primo luogo, la possibilità di aderire alle «autorizzazioni generali» viene infatti estesa a tutte le tipologie di impianti (anche i citati «medi», come chiarito dal nuovo articolo 273-bis del Codice ambientale) ad eccezione di quelli che utilizzano determinate sostanze pericolose, individuate dalle indicazioni «H» previste dall'Allegato VI (paragrafo 1.1.2.1.2) al regolamento Ue 1272/2008/Ce (il provvedimento comunitario di riferimento in materia, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri).
In secondo luogo, viene portato da 10 a 15 anni il termine massimo entro cui l'Autorità competente dovrà procedere a «rinnovare» il proprio provvedimento di autorizzazione generale, allungandone quindi la valenza.
Il restyling di settore, come accennato, tocca infine anche il sistema sanzionatorio, con un rilevante incremento di quelle pecuniarie: a titolo di esempio, per l'esercizio di impianti in assenza di autorizzazione, ferma restando la pena dell'arresto fino a due anni, l'alternativa sanzione dell'ammenda passa dalla forbice di 258/1032 euro a quella di 1.000/10 mila euro. Questo accompagnato, però, da una revisione del sistema dei controlli, poiché viene sancito che i relativi apparecchi potranno essere usati anche fini dell'accertamento delle eventuali violazioni sono ove coincidano con «sistemi di monitoraggio in continuo» e tale utilizzo sia espressamente stato previsto dalla sottesa autorizzazione alle emissioni.
In assenza di tali condizioni, i dati rilevanti legittimeranno l'Autorità a impartire solo prescrizioni per il ripristino della conformità, salva la possibilità di imporre la cessazione dell'esercizio degli impianti il caso di pericolo per salute umana o peggioramento della qualità dell'aria.
Gli impianti medi di combustione. Debutta nell'articolo 268 del Codice ambientale la nozione di medio impianto di combustione, coincidente con quello di potenza termica tra 1 e 50 Mw, ora oggetto sia di specifici valori limite di emissione che del regime autorizzativo ereditato dai fratelli più grandi.
Sebbene, a differenza di molti Stati Ue, in Italia una disciplina sulle emissioni degli impianti inferiori ai 50 mw sussista già in base allo storico dpr 203/1998, con il recepimento della direttiva 2015/2193/Ue vengono ora sottoposti ad autorizzazione numerosi impianti prima esclusi, come quelli che processano metano, gpl o biogas con potenza termica compresa tra 1 e 3 mw.
Fuori dalla portata delle nuove regole resteranno invece gli impianti di incenerimento o coincenerimento rifiuti ex Parte IV del dlgs 152/2006 (che continueranno ad essere soggetti alla peculiare e relativa normativa) e quelli alimentati a biomassa da rifiuto ex Parte V (che resteranno sotto le regole ex articoli 208 e 214 dello stesso Codice).
Le emissioni odorigene. Con il neoarticolo 272-bis esordisce nel «Codice ambientale» anche la lotta all'inquinamento odorigeno, ossia alle emissioni di sostanze inquinanti tendenzialmente non nocive alla salute ma caratterizzate comunque da odore sgradevole, come le emissioni da discariche. E questo conferendo alle regioni i poteri di adottare misure per la prevenzione e la limitazione di tali emissioni da stabilimenti produttivi.
In particolare gli enti territoriali potranno a tal fine stabilire particolari valori limite di emissione mediante prescrizioni agli impianti interessati.
Gli impianti termici civili. In base alla rivisitata disciplina ex del dlgs 152/2006 l'onere di attestare sia l'idoneità al rispetto dei valori limite che la conformità alle caratteristiche costruttive passa dall'installatore al costruttore che dovrà provvedere tramite un apposito documento di accompagnamento dell'impianto. Il tutto si rifletterà sul piano del sistema sanzionatorio, il quale colpirà il produttore di impianti termici civili che non metterà a disposizione la documentazione attestante la loro idoneità così come il responsabile d'esercizio e manutenzione che non li iscriverà nell'apposito ed istituendo registro.
Combustibili. Trasversali a tutte le tipologie di impianti, infine, le nuove norme (ex riformulato articolo 294 del Codice ambientale) sul rendimento: i più grandi impianti produttivi e i termici dovranno infatti essere dotati di sistemi di controllo della combustione che ne ottimizzino il rendimento (articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).

LAVORI PUBBLICIBeni culturali, il ministero svolta. C'è il rischio di confusione sui livelli di progettazione. Dall'11 novembre entrano in vigore le nuove regole sui lavori e gli affidamenti diretti.
Dall'11 novembre in vigore le nuove regole per progettare ed eseguire lavori nel settore dei beni culturali; ammesso l'appalto integrato e l'affidamento diretto per lavori fino a 300mila euro, in casi di somma urgenza.

Sono questi alcuni dei punti rilevanti del decreto ministeriale 22.08.2017, n. 154 attuativo del codice dei contratti pubblici che detta il regolamento per i lavori, sui beni culturali mobili e immobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico, artistico o archeologico.
Il provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello scorso 27 ottobre, entrerà in vigore l'11 novembre e sostituirà la precedente disciplina che poggiava sul dm 294/2000, sugli articoli da 239 a 248 del regolamento del codice dei contratti pubblici (dpr. 207/2010), oltre che sull'articolo 251 che disciplinava il collaudo dei lavori.
Dall'11 novembre tutte queste norme non saranno più applicabili anche se va detto che il decreto riproduce in buona parte le norme regolamentari del 2010. Il testo, che va letto anche alla luce di quanto dispongono alcuni articoli del codice (da 145 a 151), enuncia un primo importante principio che si sostanza nell'obbligo di inserimento degli interventi nel settore dei beni culturali nei documenti di programmazione dei lavori pubblici e di realizzarli in base ai tempi e alle priorità derivanti dal criterio della «conservazione programmata».
Per la qualificazione delle imprese di costruzione (articoli da 4 a 11) viene definita una disciplina generale e una ad hoc al di sotto dei 150 mila euro (art. 12). L'affidamento dei lavori dovrà avvenire, di regola, sulla base del progetto esecutivo; il decreto elenca tuttavia i casi in cui la progettazione esecutiva può essere omessa e si può quindi affidare lavori partendo dalla progettazione definitiva, casi che sono peraltro riconducibili alla necessità di integrare la progettazione durante le fasi di cantiere.
Dal punto di vista delle procedure il decreto, nei «casi di somma urgenza, nei quali ogni ritardo sia pregiudizievole alla pubblica incolumità o alla tutela del bene, per rimuovere lo stato di pregiudizio e pericolo e fino all'importo di trecentomila euro», prevede l'affidamento dei lavori in via diretta ad una o più imprese scelte dalla stazione appaltante. La progettazione e direzione lavori è disciplinata agli artt. 14-22 del decreto.
Il testo elenca nel dettaglio i contenuti dei livelli progettuali: progetto di fattibilità tecnica ed economica, scheda tecnica (art. 16), progetto definitivo e progetto esecutivo; questi contenuti sono sostitutivi di quelli dell'emanando decreto generale sui progetti di cui all'articolo 23, comma 3, del codice. Spetterà poi al ministero definire, entro sei mesi dall'entrata in vigore del decreto, linee di indirizzo, norme tecniche e criteri ulteriori preordinati alla progettazione e alla esecuzione di lavori su beni culturali. I livelli dettati dal decreto sono però ritenuti applicabili soltanto a valle dell'emanazione del decreto ministeriale sui livelli di progettazione delle altre opere (diverse da quelli inerenti i beni culturali).
Qualche serio problema si potrebbe quindi porre già dopo l'11 novembre laddove il decreto generale sui livelli di progettazione (previsto dall'articolo 23, comma 3, del codice dei contratti) non sarà certamente approvato (visto che da poco è passato al vaglio del consiglio superiore dei lavori pubblici) e le norme del dpr 207/2010 non saranno applicabili in base all'articolo 216, comma 9, del codice. Non sembra quindi chiaro quale disciplina sarà applicabile (articolo ItaliaOggi del 03.11.2017).

LAVORI PUBBLICIBeni culturali, appalti urgenti. Affidamento diretto se c'è pericolo e sotto 300 mila. L'iter d'emergenza tra i punti del decreto (ieri in Gazzetta) che regolamenta i lavori.
Possibile l'esecuzione di lavori su beni culturali e scavi archeologici con la procedura semplificata di somma urgenza (e quindi con affidamento diretto) nei casi in cui ogni ritardo sia pregiudizievole alla pubblica incolumità o alla tutela del bene, per rimuovere lo stato di pregiudizio e pericolo e fino all'importo di 300 mila euro. Nei casi in cui non sia prevista l'iscrizione a un ordine o collegio professionale, le prestazioni relative alla progettazione di fattibilità, definitiva ed esecutiva delle opere possono essere espletate anche da un soggetto con qualifica di restauratore di beni culturali.

Sono solo alcune delle previsioni contenute nel decreto 22.08.2017, n. 154 del ministero dei beni culturali «Regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali tutelati ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42», pubblicato ieri sulla Gazzetta Ufficiale n. 252 e che entrerà in vigore l'11 novembre prossimo.
Il provvedimento riguarda gli appalti pubblici di lavori sui beni culturali tutelati dal Codice dei beni culturali e del paesaggio e i seguenti lavori: scavo archeologico, comprese le indagini archeologiche subacquee; monitoraggio, manutenzione e restauro di beni culturali immobili; monitoraggio, manutenzione e restauro dei beni culturali mobili, superfici decorate di beni architettonici e materiali storicizzati di beni immobili di interesse storico, artistico o archeologico.
Il regolamento richiede una serie di requisiti di ordine speciale per la qualificazione necessaria all'esecuzione dei lavori: idoneità tecnica; idoneità organizzativa e adeguata capacità economica e finanziaria. I requisiti sono attestati dalle Soa (Società organismi di attestazione) nell'ambito della procedura di qualificazione delle imprese. Per i lavori sotto i 150 mila euro i requisiti autocertificati ai sensi del dpr 28.12.2000, n. 445, sono dichiarati in sede di domanda di partecipazione o in sede di offerta e sono accompagnati da una certificazione di buon esito dei lavori rilasciata dall'autorità preposta alla tutela dei beni su cui si è intervenuti.
Se i lavori non superano 40 mila euro, la certificazione di buon esito può essere rilasciata anche da una amministrazione aggiudicatrice. Per la direzione tecnica, i professionisti coinvolti sono gli architetti e per talune categorie di appalti i restauratori di beni culturali (articolo ItaliaOggi del 28.10.2017).

EDILIZIA PRIVATAIn 18 regioni moduli unificati per attività produttive e permessi a costruire.
Al 26 ottobre sono 18 (su venti) le regioni che hanno recepito il nuovo modulo unificato e standardizzato del permesso di costruire in materia edilizia e delle attività commerciali e artigianato. Parliamo delle regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campana, Emilia Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sardegna, Toscana, Umbria, Valle d'Aosta e Veneto.

È quanto emerge dal report elaborato dalla Funzione pubblica, assieme alla Conferenza delle regioni e aggiornato al 26 ottobre scorso circa l'adozione da parte delle regioni della modulistica unificata e standardizzata per le attività commerciali e artigianali e del modello unificato relativo al permesso di costruire.
Come previsto dall'accordo in Conferenza unificata dello scorso 6 luglio, dal 20 ottobre tutti i comuni, sui loro siti istituzionali, avrebbero dovuto pubblicare il nuovo modello unificato relativo al permesso a costruire e la nuova modulistica relativa alle attività commerciali.
Come previsto dall'art. 2, 5° comma, del dlgs n. 126/2016, la mancata pubblicazione dei moduli e delle informazioni indicate sopra entro il termine oramai scaduto del 20.10.2017 costituisce illecito disciplinare punibile con la sospensione dal servizio, con privazione della retribuzione da tre giorni a sei mesi.
Evoluzione legislativa. Con l'accordo della Conferenza unificata del 04.05.2017 (pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale 05/06/2016, n. 128) sono stati approvati un primo gruppo di moduli unificato per le attività commerciali.
In seguito, con l'accordo della Conferenza unificata 06.07.2017 (Gazzetta Ufficiale 16/08/2017, n. 190) è stato adeguato anche il modulo relativo alla richiesta di permesso di costruire ed è stato adottato un secondo gruppo di moduli per attività commerciali e produttive.
Infine, con altro accordo del 06.07.2017 è stato esteso il modulo «notifica ai fini della registrazione», a tutti gli operatori del settore alimentare, anche per attività diverse da quelle commerciali.
Contenuti moduli commercio e artigianato. La modulistica prende in considerazione i diversi eventi della vita delle imprese (avvio, trasferimento, ampliamento, subingresso o cessazione), della dimensione delle attività commerciali, delle modalità di vendita e della localizzazione nel caso di bar e ristoranti (articolo ItaliaOggi del 28.10.2017).

LAVORI PUBBLICIDirezione lavori, pronte le regole. Contabilità online e nuova disciplina per le varianti. La bozza del decreto ministeriale recepisce le linee guida dell'Anac che diventano vincolanti.
Il direttore dei lavori dovrà obbligatoriamente segnalare alla stazione appaltante i rapporti in corso con l'impresa di costruzione aggiudicataria dell'appalto ai fini della valutazione del grado di incompatibilità; nuova disciplina delle varianti e obbligo di contabilità in formato elettronico.

È quanto prevede la bozza di decreto ministeriale attuativo del codice dei contratti pubblici che reca la disciplina di dettaglio in tema di direzione lavori, già disciplinata dal dpr 207/2010 ai titoli VIII e IX.
Questa materia sarà regolata da un decreto ministeriale che recepirà le linee guida Anac rendendole di fatto vincolanti. Il provvedimento, prima di divenire efficace, dovrà avere il via libera della Conferenza unificata e del Consiglio di stato.
Una delle principali novità rispetto alla disciplina regolamentare, ancora oggi in vigore, sulla direzione lavori riguarda le incompatibilità del direttore dei lavori. La bozza stabilisce che al direttore dei lavori sia precluso, dal momento dell'aggiudicazione e fino al collaudo, di accettare nuovi incarichi professionali dall'esecutore. Sugli incarichi già in essere la bozza precisa che la compresenza di un rapporto con l'impresa non sia, in se, elemento ostativo allo svolgimento dell'incarico di direzione lavori.
Prevede però che il direttore dei lavori, una volta conosciuta l'identità dell'impresa aggiudicataria, debba segnalare l'esistenza di rapporti in corso e sarà poi onere della stazione appaltante valutare «l'incidenza di detti rapporti sull'incarico da svolgere». Il parametro da adottare per questa valutazione è quello indicato al comma 4 dell'articolo 42 del codice che rinvia, anche per la fase di esecuzione del contratto, alle incompatibilità normativamente previste per la fase di aggiudicazione dell'appalto o della concessione.
La stazione appaltante dovrà quindi valutare se il rapporto in corso fra direttore dei lavori e impresa, «direttamente o indirettamente», possa «essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza» nel contesto della fase di esecuzione. In caso di mancata astensione dall'assunzione dell'incarico, se il direttore dei lavori è interno alla stazione appaltante, l'articolo 42 fatte salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale, prevede che scatti la responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico.
Importante è anche la parte della bozza che definisce la materia delle varianti in corso d'opera, disciplinate in via generale dall'articolo 106 del codice dei contratti pubblici (modifiche ai contratti in corso). Il particolare per le varianti che non superano il 20% del valore del contratto viene prevista la stipula di un «atto di sottomissione» dell'impresa per eseguire o non eseguire (con motivato dissenso) i lavori di cui alla perizia di variante, ma senza obbligo di eseguire i lavori alle stesse condizioni del contratto originario, il che sembra aprire alla possibilità, ad esempio, di fissare nuovi prezzi.
Inoltre, la bozza inserisce un obbligo di comunicazione da parte della stazione appaltante (da inviare prima che sia realizzato il 25% dell'importo del contratto) di procedere alla stipula dell'atto di sottomissione al fine di escludere qualsiasi indennizzo a favore dell'impresa. Da ciò sembra dedursi che se tale comunicazione non dovesse avvenire, l'impresa potrebbe chiedere l'indennizzo. Previsto, infine, anche l'inserimento dell'obbligo di utilizzare per la contabilità dei lavori, al posto di «strumenti elettronici specifici», delle «piattaforme, anche telematiche, interoperabili a mezzo di formati aperti non proprietari», per non limitare la concorrenza tra operatori (articolo ItaliaOggi del 27.10.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Più garanzie a chi compra casa. Diventa obbligatorio il preliminare notarile trascritto. Nella riforma del fallimento norma a tutela di chi acquista immobili da costruire.
Nuove garanzie per chi compra immobili da costruire. Diventa obbligatorio il preliminare notarile trascritto.

Lo prevede il disegno di legge delega n. 2681 (Atto Senato n. 2681) per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza definitivamente approvato dal Parlamento nella seduta dell'11 ottobre scorso.
L' art. 12 (Garanzie in favore degli acquirenti di immobili da costruire) prevede in particolare che il Governo è delegato ad adottare (entro 12 mesi) disposizioni in materia di tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire al fine di garantire il controllo di legalità da parte del notaio sull'adempimento dell'obbligo di stipulazione della fideiussione di cui agli articoli 2 e 3 del decreto legislativo 20.06.2005, n. 122, nonché dell'obbligo di rilascio della polizza assicurativa indennitaria di cui all'articolo 4 del medesimo decreto legislativo.
Le nuove norme dovranno stabilire che l'atto o il contratto avente come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire, nonché qualunque atto avente le medesime finalità, debba essere stipulato per atto notarile (pubblico o scrittura privata autenticata) e dovranno prevedere l'adempimento dell'obbligo assicurativo a pena di nullità relativa del contratto.
Il legislatore ha preso atto della parziale disapplicazione della Legge 2005/122 nella parte relativa all'obbligo, a favore del consumatore promissario acquirente di un immobile da costruire e a carico del costruttore, di prestare fideiussione su caparre e acconti versati e rilasciare una polizza assicurativa decennale per i danni derivanti da rovina o da gravi difetti della costruzione. Secondo i dati di Assocond-Conafi, dall'entrata in vigore della Legge n. 122, le famiglie coinvolte nei fallimenti del settore edilizio sono circa 100 mila con danni superiori ai 2,5 miliardi di euro. Il 70% delle nuove costruzioni è stato venduto senza garanzia fideiussoria.
Questo è purtroppo l'esito di una norma la cui applicazione è stata lasciata al mercato. La mancanza di un soggetto terzo che controllasse il rispetto degli obblighi di legge lasciato al volontario e prudente apprezzamento delle parti ha prodotto risultati evidentemente insoddisfacenti. Il notaio viene quindi chiamato in causa per il suo ruolo di garante della legalità che rimette in equilibrio le asimmetrie informative nel rapporto tra contraente forte (costruttore) e contraente debole (acquirente consumatore).
Si tratta di un ulteriore tassello che mira a rafforzare le garanzie per chi compra casa e a rendere sempre più sicuro il sistema immobiliare, anche a seguito della recente entrata in vigore della norma sul deposito prezzo a tutela degli acquirenti di immobili: alle parti di un atto notarile è concessa infatti la facoltà di chiedere al notaio che venga depositato su apposito conto dedicato (soggetto a rigide regole di separazione e securizzazione) il prezzo, ovvero il saldo, oltre alle somme destinate all'estinzione di altri gravami o spese non pagate (per esempio, spese condominiali o ipoteche a garanzia di mutui da estinguere) e di svincolare la somma al venditore solo a seguito dell'esito positivo dei controlli successivi alla stipula e degli adempimenti effettuati dal notaio (articolo ItaliaOggi del 21.10.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Corruzione. Tutelati i dipendenti «spioni».
Maggiore tutela per i dipendenti nel settore pubblico e privato che denunciano casi di corruzione nella pubblica amministrazione o nell'azienda in cui lavorano.

È l'obiettivo della legge sul cosiddetto whistleblowing approvata ieri al Senato (Atto Senato n. 2208 - Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato).
Il provvedimento, che torna alla camera, prevede che il pubblico dipendente che, nell'interesse dell'integrità della pubblica amministrazione, segnali al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza o all'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), o denunci all'autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non possa essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione.
Tutela che si estende anche ai collaboratori o consulenti, nonché ai lavoratori ed ai collaboratori, a qualsiasi titolo, di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzino opere in favore dell'amministrazione pubblica (articolo ItaliaOggi del 19.10.2017).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Rurali, accatastamento limitato. Obbligo solo per immobili dotati di autonomia funzionale. Uncem Piemonte ha predisposto una nota alla luce dei chiarimenti delle Entrate.
L'obbligo di accatastamento dei fabbricati rurali riguarda solo gli immobili dotati di autonomia funzionale e reddituale non ancora censiti al Catasto edilizio urbano. Tuttavia, per gli altri fabbricati deve essere segnalata all'Agenzia delle entrate l'assenza dell'obbligo di dichiarazione.

Il chiarimento rispetto alla procedura prevista dall'art. 13, comma 14-ter, del dl 201/2011 è contenuto nella nota 13.10.2017 diffusa dall'Uncem Piemonte, che raccoglie i chiarimenti forniti dall'amministrazione finanziaria in una serie di incontri con i rappresentanti dei comuni montani per dirimere le numerose problematiche segnalate da sindaci e tecnici.
Rientrano fra gli immobili da accatastare tutti quelli dotati di autonomia funzionale e reddituale, non ancora censiti al Catasto edilizio urbano.
In tal caso, è obbligatorio procedere all'accatastamento dell'immobile, con l'ausilio di un tecnico abilitato.
Gli immobili che non rientrano nell'obbligo di dichiarazione sono invece quelli elencati all'art. 3, comma 2 e 3, del dm 29.02.1998, n. 28, e cioè: fabbricati o loro porzioni in corso di costruzione o di definizione; costruzioni inidonee a utilizzazioni produttive di reddito, a causa dell'accentuato livello di degrado (collabenti); lastrici solari e aree urbane; manufatti con superficie coperta inferiore a 8 mq; serre adibite alla coltivazione e protezione delle piante sul suolo naturale; vasche per l'acquacoltura o di accumulo per l'irrigazione dei terreni; manufatti isolati privi di copertura; tettoie, porcili, pollai, casotti, concimaie, pozzi e simili, di altezza utile inferiore a 1,80 m, purché di volumetria inferiore a 150 mc; manufatti precari, privi di fondazione, non stabilmente infissi al suolo. Inoltre, non sono soggetti all'obbligo di dichiarazione i fabbricati diruti (ruderi).
L'assenza dell'obbligo di dichiarazione dovrà essere segnalata all'ufficio dell'Agenzia che ha trasmesso l'avviso bonario, utilizzando il modello cartaceo appositamente predisposto ed allegato all'avviso medesimo oppure il canale telematico disponibile sul sito istituzionale. È necessario segnalare all'ufficio con le medesime modalità anche il caso in cui sul terreno in precedenza occupato da fabbricati rurali sia praticata una coltivazione. In tali casi, non verrà contestata alcuna sanzione.
Nel caso in cui risulti invece sussistente l'obbligo di accatastamento del fabbricato rurale, si procederà alla contestazione della prevista sanzione (min 1.032,00), salvo che l'ufficio non riceva, in tempo utile, l'atto di aggiornamento (Docfa, oltre al precedente Pregeo) e il contestuale pagamento della sanzione in misura ridotta, così perfezionandosi il ravvedimento operoso (1/6 del minimo, pari a 172,00).
La mera segnalazione della perdita dei requisiti di ruralità non è condizione sufficiente a regolarizzare la posizione catastale e si rende comunque necessario presentare un atto di aggiornamento (Docfa). La nota ricorda, infatti, che l'obbligo di accatastamento sussiste in ogni caso per i fabbricati che passano dalla categoria degli esenti a quella dei soggetti all'imposta. In tal caso l'Ufficio verificherà la data dichiarata di perdita dei requisiti, al fine di valutare i presupposti della potestà sanzionatoria. Si rammenta che tale potestà decade il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è avvenuta la violazione.
A beneficio dei professionisti incaricati, si segnala che, ai fini dell'accatastamento Docfa è stato previsto l'utilizzo della tipologia «Fabbricato ex rurale - art. 2, comma 36 o 37, dl n. 262/06». Nella dichiarazione i professionisti dovranno indicare, nel campo «data ultimazione lavori», la data in cui si è verificato il «caso d'uso», specificando tale evento nelle «note relative al documento e relazione tecnica» (cosiddetto «caso d'uso»: trasferimento di diritti reali, mutazione nello stato giuridico del bene o perdita dei requisiti di ruralità ai fini fiscali) (articolo ItaliaOggi del 18.10.2017).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, solo 5 regioni a norma. Regolamento tipo ignorato da 10 enti a statuto ordinario. A distanza di un anno dal varo delle nuove norme (e a termini scaduti) la situazione è confusa.
Ad oggi solo cinque regioni, su 15 a statuto ordinario, hanno recepito con propria legge o delibera il «regolamento edilizio tipo». Parliamo delle regioni Campana, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria e Puglia. Il termine per il recepimento da parte delle regioni ordinarie è oramai scaduto lo scorso 18 aprile. Ma per comuni e regioni che non si sono adeguati nei termini non è prevista l'applicazione di alcuna sanzione.
È con l'intesa del 20.10.2016 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16.11.2016 n. 268) sottoscritta tra governo, regioni e comuni che è stato adottato il regolamento edilizio tipo (allegato 1), le definizioni uniformi (allegato A) e la raccolta delle disposizioni nazionali in materia edilizia (allegato B).
L'intesa della Conferenza unificata (si veda ItaliaOggi del 21.10.2016) prevedeva, in via generale, che il governo, le regioni ordinarie e gli enti locali si impegnano ad utilizzare le definizioni uniformi nei propri provvedimenti legislativi e regolamentari, che sono adottati dopo il 20.10.2016 (data di sottoscrizione dell'intesa). E stabiliva che le regioni a statuto ordinario entro il 18.04.2017 (cioè, 180 giorni dall'adozione dell'intesa) dovessero provvedere a recepire lo schema di regolamento edilizio tipo e le definizioni uniformi (potendo anche personalizzarle).
Nell'atto di recepimento le regioni stabiliscono i metodi e le procedure (non superiori a 180 giorni) entro cui i comuni devono adeguare i propri regolamenti edilizi per conformarli allo schema di regolamento edilizio tipo.
Se la regione recepisce il regolamento edilizio e il comune non si adegua nei termini. L'intesa stabilisce che se il comune non si adegua a quanto previsto dalla regione le definizioni uniformi (allegato A) e le disposizioni sovraordinate in materia edilizia (allegato B) trovano diretta applicazione, prevalendo sulle disposizioni comunali con esse incompatibili.
Se la regione non si adegua. In caso di mancato recepimento da parte della regione i comuni possono comunque provvedere all'adozione dello schema di regolamento edilizio tipo e dei relativi allegati.
Cosa succede se né la regione né il comune provvedono all'adeguamento. L'intesa non disciplina né poteri sostitutivi né sanzioni se la regione e il comune non si adeguano ai relativi contenuti. Vi è unicamente un impegno a realizzare delle attività di monitoraggio sull'attuazione del regolamento edilizio, con cadenza almeno annuale.
Impostazione tipo del regolamento. Il regolamento edilizio tipo è suddiviso in due parti. Nella prima, rubricata «principi generali e disciplina generale in materia edilizia», è richiamata e non riprodotta la disciplina generale dell'attività edilizia operante in modo uniforme su tutto il territorio nazionale e regionale.
Nella seconda, denominata «disposizioni regolamentari comunali in materia edilizia», è raccolta la disciplina regolamentare in materia edilizia, di competenza comunale, la quale, sempre, al fine di assicurare la semplificazione e l'uniformità della disciplina edilizia, deve essere ordinata nel rispetto di una struttura generale valevole su tutto il territorio statale.
I requisiti tecnici integrativi devono essere espressi attraverso norme prestazionali, che fissino risultati da perseguirsi nelle trasformazioni edilizie. Le prestazioni da raggiungere potranno essere prescritte in forma quantitativa, ossia attraverso l'enunciazione di azioni da praticarsi affinché l'intervento persegua l'esito atteso.
Le 42 definizioni allegate allo schema di regolamento rappresentano una sorta di mini vocabolario, per cui termini come «porticato», «tettoia» o «veranda» avranno lo stesso significato in tutta la penisola (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).

LAVORI PUBBLICILavori stradali come nella Ue. L'accordo quadro solo con progetti esecutivi in gara. Risposta dell'Anac al ministero delle infrastrutture sugli obblighi di progettazione.
Per affidare nuovi lavori con l'accordo quadro occorre procedere alla preventiva redazione del progetto esecutivo, da porre a base di gara.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione (Anac) in una lettera trasmessa nei giorni scorsi al Ministero delle infrastrutture in merito all'utilizzazione, nel settore dei lavori, dell'istituto oggi disciplinato dall'articolo 54 del nuovo codice dei contratti pubblici e reso di uso generalizzato nei settori ordinari dalle direttive europee del 2014, sulla scia di quanto avvenuto nel resto d'Europa, a partire dalla Gran Bretagna.
La lettera dell'Anac riguarda un appalto stradale bandito con un accordo quadro quadriennale (circa 130 milioni), diviso in tre lotti da aggiudicare ad un solo operatore economico per ogni lotto. Così facendo la stazione appaltante poneva in gara il progetto definitivo e non quello esecutivo; da ciò emergevano le perplessità del ministero delle infrastrutture che chiamava in causa l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone.
Il parere dell'Anac, dopo un contraddittorio con la stazione appaltante, è arrivato nei giorni scorsi ed ha ribadito che devono essere tenuti fermi «gli obblighi di progettazione previsti dal Codice» e la conseguente necessità di porre a base di gara un progetto esecutivo, anche perché soltanto in questo modo, ha detto l'Anac, si salvaguarda un principio fondamentale del nuovo codice, cioè la centralità del progetto. L'Autorità ha segnalato inoltre che si tratta anche di garantire ulteriori esigenze di tutela del mercato attraverso l'adeguata conoscenza delle caratteristiche dell'intervento da realizzare.
Viene quindi censurata la procedura seguita (accordo quadro sulla base di un progetto definitivo) e di fatto si mette in condizione la stazione appaltante di rivedere il percorso seguito.
Il problema affrontato dall'Autorità mette in evidenza una distonia della stessa normativa del 2016, peraltro non oggetto di intervento da parte del primo decreto correttivo (56/2017). Se infatti da una parte va salvaguardato il principio dell'affidamento di lavori sulla base del progetto esecutivo (derogato per alcune specifiche fattispecie dal decreto 56 quali l'elevato contenuto tecnologico e impiantistico e le manutenzioni fino a 2,5 milioni), dall'altra parte va anche messo in evidenza che è lo stesso codice dei contratti pubblici a individuare la casistica applicativa dell'accordo quadro. In particolare, in base all'articolo 3, comma 1, lettera iii) lo strumento serve a «stabilire le clausole relative agli appalti da aggiudicare in un dato periodo in particolare per quanto riguarda i prezzi e se del caso le quantità previste».
Appare evidente la contraddizione interna allo stesso codice. Le stesse direttive europee, ai «considerando nn. 60 e 61», dopo avere affermato che si tratta di una formula «ampiamente utilizzata e considerata come tecnica di aggiudicazione efficiente in tutta Europa», fanno chiaramente intendere che si tratta di uno strumento flessibile che consente libertà nell'affidamento degli appalti; nel contempo si sottolinea anche l'esigenza di indicare nei documenti di gara i criteri su cui si baserà l'affidamento (le quantità, «il valore o le caratteristiche dei lavori», compresa l'esigenza di un grado di servizio più elevato o di sicurezza rafforzato).
Soprattutto, la direttiva precisa che «l'accordo quadro non dovrebbe limitare o distorcere la concorrenza». In altre parole l'accordo quadro va applicato «cum grano salis», e lo ha ricordato anche l'Anac, bilanciando le esigenze della stazione appaltante con quelle del mercato. E questo prima ancora di mettere d'accordo il codice con se stesso e, in particolare, l'articolo 3 con l'articolo 54 e con il successivo articolo 59 (articolo ItaliaOggi del 13.10.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIRc avvocati, obbligo prorogato. A disposizione altri 30 giorni per sottoscrivere la polizza. Il ministero della giustizia rinvia l'adempimento a causa del ritardo delle istruzioni.
Proroga a tempo scaduto per l'assicurazione obbligatoria degli avvocati. Nel giorno dell'entrata in vigore dell'obbligo, per tutti i legali, di dotarsi di una polizza a copertura dei rischi derivanti dall'esercizio dell'attività professionale e degli infortuni, è stato infatti pubblicato in Gazzetta Ufficiale (n. 238 di ieri) un decreto del ministro della giustizia del 10 ottobre scorso che ne dispone il rinvio di 30 giorni.
Motivo? Il Consiglio nazionale forense è in ritardo con il perfezionamento della procedura di definizione della convenzione collettiva che offre agli iscritti una polizza a condizioni di particolare favore.
Lo scrive lo stesso ministro della giustizia, Andrea Orlando, all'interno del decreto, anticipato ieri dal Cnf agli ordini territoriali, alle unioni regionali forensi e alla Cassa forense. Ordini e avvocati, infatti, aspettavano da tempo le istruzioni del Cnf in merito alla polizza in convenzione, arrivate solo a poche ore dall'entrata in vigore degli obblighi previsti dal dm 22.09.2016 (si veda ItaliaOggi di ieri).
La compagnia che si è aggiudicata il bando di gara è infatti Aig Europe, e i punti qualificanti della polizza presentata dal Cnf sono, tra l'altro: la copertura di tutti i danni provocati nell'esercizio dell'attività, sia patrimoniali, sia non patrimoniali, indiretti, permanenti, temporanei, futuri, anche per colpa grave, la copertura della responsabilità civile derivante da fatti colposi o dolosi di collaboratori, praticanti, dipendenti, sostituti processuali.
È inoltre prevista la copertura della responsabilità per danni derivanti dalla custodia di documenti, somme di denaro titoli e valori ricevuti in deposito, la copertura della responsabilità solidale dell'avvocato, la retroattività illimitata, la ultrattività illimitata in caso di cessazione dell'attività. In caso di sinistro, poi. È previsto il divieto di recesso da parte dell'assicuratore, la copertura Rc verso terzi e prestatori d'opera, la facoltà di reintegro del massimale in caso di sinistro.
I premi partono da 117 euro per i giovani avvocati ed è possibile effettuare combinazioni assicurative senza franchigia. Per fare alcuni esempi, secondo la convenzione Cnf-Aig, l'avvocato con fatturato fino a 15 mila euro, massimale da 350 mila euro e nessuna franchigia paga un premio di 146 euro, se invece il fatturato va da 70 mila a 100 mila euro, il massimale è pari a un milione e la franchigia a 250 euro, il premio è di 289 euro.
Per ogni ordine territoriale che aderirà alla polizza del Cnf, è previsto uno sconto sui premi aggiudicati a gara in funzione del numero di adesioni alla convenzione: se compreso tra il 5 e il 10% degli iscritti all'albo, lo sconto è del 5%, se tra il 10 e il 15%, lo sconto sarà del 10% (articolo ItaliaOggi del 12.10.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Acqua e birra, meno rifiuti. Esercenti e produttori all'appello del vuoto a rendere. Dal 10 ottobre in vigore il dm sul riutilizzo dei contenitori. Sperimentazione da febbraio.
Meno rifiuti da gestire dopo la vendita al pubblico di birra e acqua minerale all'interno di bar, ristoranti, alberghi, residenze di villeggiatura e altri punti di consumo. E spazio invece al riutilizzo, più e più volte, dei contenitori impiegati, a tutto vantaggio dell'ambiente e, almeno dal punto di vista del ritorno d'immagine, anche degli esercenti che si riveleranno «ecofriendly».
Sono gli obiettivi del decreto ministeriale n. 142/2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 settembre scorso e in vigore da martedì 10 ottobre, che introduce il sistema del «vuoto a rendere» (Var) su adesione volontaria che sarà oggetto di sperimentazione per un anno, dal 07.02.2018 al 07.02.2019.
I titolari degli esercizi che decideranno di aderire saranno inseriti in un registro di virtuosi pubblicato dal ministero dell'ambiente sul web e potranno ottenere un attestato di benemerenza da esporre nel proprio punto di consumo.
Il consumatore non dovrà fare nulla, né tantomeno il nuovo sistema potrà far lievitare il prezzo della birra o dell'acqua acquistata e consumata nel locale (le nuove regole riguardano il solo consumo fuori casa).
Le norme. La novità è stata introdotta dal «Collegato ambientale» o «Collegato Green economy», vale a dire la legge n. 221/2015 che ha aggiunto l'articolo 219-bis (rubricato «Sistema di restituzione di specifiche tipologie di imballaggi destinati all'uso alimentare») al Codice ambientale, il decreto legislativo n. 152/2006.
L'art. 219-bis, in particolare, prevede che «al fine di prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio e di favorire il riutilizzo degli imballaggi usati (...) è introdotto, in via sperimentale e su base volontaria del singolo esercente, il sistema del vuoto a rendere su cauzione per gli imballaggi contenenti birra o acqua minerale serviti al pubblico da alberghi e residenze di villeggiatura, ristoranti, bar e altri punti di consumo».
La sperimentazione avrà durata di 12 mesi, al termine dei quali, continua la norma, «si valuterà, sulla base degli esiti della sperimentazione stessa e sentite le categorie interessate, se confermare e se estendere il sistema del vuoto a rendere ad altri tipi di prodotto nonché ad altre tipologie di consumo».
È sempre l'art. 219-bis del Codice ambientale a prevedere, al comma 4, l'adozione di un regolamento che disciplini le modalità della sperimentazione e stabilisca forme di incentivazione del sistema di Var e i valori cauzionali per ogni tipologia di imballaggio. Regolamento adottato con decreto del ministero dell'ambiente n. 142/2017 in vigore da martedì 10 ottobre.
Come funzionerà la filiera del vuoto a rendere. I titolari dei punti di consumo potranno aderire al sistema compilando un modulo ad hoc (facsimile in pagina), al momento dell'acquisto dell'acqua e della birra contenuta in imballaggi riutilizzabili, e trasmettendo o consegnando lo stesso modulo al produttore o al distributore delle bevande acquistate al momento della consegna degli imballaggi pieni.
I distributori e i produttori di acqua e birra dovranno informare gli esercenti sulle bevande commercializzate in imballaggi riutilizzabili e dovranno garantire la restituzione dell'imballaggio medesimo.
Il dm 142/2017 ha previsto che la sperimentazione abbia inizio dal 120° giorno successivo all'entrata in vigore del regolamento, dunque partirà il 07.02.2018.
Da martedì 10 ottobre partirà inoltre un periodo di 60 giorni entro il quale i produttori di bevande dovranno comunicare al ministero dell'ambiente l'adesione alla filiera indicando il marchio e la linea di birra o di acqua minerale e le caratteristiche del relativo imballaggio (materiale, volume, peso e numero di turnazioni), inviando i dati per via telematica all'indirizzo vuotoarendere@minambiente.it o con le altre modalità indicate dal ministero sul proprio sito web.
Al momento dell'acquisto delle bevande, il titolare del bar, ristorante o albergo dovrà versare una cauzione che sarà recuperata al momento della restituzione dell'imballaggio vuoto.
L'importo della cauzione sarà proporzionale al volume dell'imballaggio (si veda tabella) e sarà ricompreso fra 0,05 e 0,3 euro. In ogni caso, si specifica nel decreto, la cauzione in alcun modo potrà comportare aumento del prezzo d'acquisto per il consumatore e dovrà rimanere invariato in tutte le fasi di commercializzazione.
Le modalità per la gestione dei vuoti, nonché i tempi di ritiro e restituzione, verranno concordati fra le imprese interessate.
Incentivi. Per chi aderisce sono previsti benefici di tipo pubblicitario. Gli operatori aderenti alla sperimentazione del vuoto a rendere saranno infatti inseriti in un registro predisposto dal dicastero, pubblicato sul sito istituzionale e aggiornato con cadenza mensile. Il ministero concederà a tali operatori un attestato di benemerenza che potrà essere affisso nei punti di consumo (articolo ItaliaOggi Sette del 09.10.2017).

TRIBUTIResidenza disgiunta, caos Imu. La tesi del Mef appare in contrasto con le norme del dl 201. Uffici tributi e contribuenti attendono regole certe in vista della scadenza del 31/12.
Il 31.12.2017, termine per accertare le violazioni Imu del 2012, si avvicina e da anni sia articoli sia risposte a quesiti, facendosi forza di quanto riportato dalla circolare del Mef 3/Df del 2012, riferiscono che due coniugi con residenza anagrafica e dimora abituale in due distinti immobili ubicati in comuni diversi possono usufruire entrambi delle agevolazioni riservate all'abitazione principale. Ma ne siamo proprio certi?
L'art. 13, comma 2, del dl 201/2011 definisce abitazione principale «l'immobile iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente». Da questa enunciazione si comprende che per poter considerare un immobile abitazione principale bisogna che siano rispettati una serie di requisiti, con la conseguenza che se tutto il nucleo familiare (del quale un coniuge fa sicuramente parte) non risiede anagraficamente e non dimora abitualmente in un'unica unità abitativa ci troviamo di fronte ad un altro fabbricato.
L'art. 13 dispone inoltre che «nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l'abitazione principale e per le sue relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano a un solo immobile».
In questo caso i due immobili non rientrerebbero nel concetto di «abitazione principale», proprio perché non in possesso di tutti i requisiti richiesti, ma si prevede la possibilità di applicare, per uno di questi, «le agevolazioni per l'abitazione principale». Il combinato disposto delle due frasi non sembrerebbe però affermare quello che scrive il Mef poiché non limita assolutamente nulla (non avendo nulla da limitare) considerato che gli immobili cui si riferisce in partenza sarebbero altri fabbricati.
Il fatto che due coniugi non possano considerare abitazione principale due immobili in due comuni diversi sembrerebbe rafforzato analizzando l'evoluzione che ha avuto l'art. 13, comma 2, che inizialmente indicava il solo possessore mentre dal 29/04/2012, con l'introduzione del dl 16/2012, è diventato quello attuale facendo espressamente riferimento al nucleo familiare e introducendo la possibilità di scelta nel caso i due coniugi risiedano all'interno dello stesso territorio comunale. Se il legislatore fosse stato in linea con quanto stabilito dal Mef avrebbe avuto necessità di variare la definizione iniziale?
La risposta sembrerebbe essere «no», in quanto, avendola variata, ha portato la definizione dell'abitazione principale a essere più restrittiva sia di quella iniziale Imu sia di quella valida per la vecchia Ici.
Al momento non si registrano sentenze della Corte di cassazione che riguardano l'argomento sulla nuova Imu (solo sentenze di Ctp che tendono a essere favorevoli ai comuni) ma ne sono state emesse ai fini Ici, per la quale la Suprema corte ha più volte affermato (ad es. sentenza n. 14389/2010 o la recente Ordinanza n. 15444/2017) che l'agevolazione spetta esclusivamente se tutti i componenti della famiglia hanno i requisiti richiesti.
Vista l'analogia delle due imposte sembrerebbe che anche per la nuova imposta il ragionamento potrebbe essere uguale e, se così fosse, quanto affermato nella circolare del Mef non sarebbe corretto.
In questa complicata situazione, ognuno potrà farsi la propria idea, ma avere più certezze da parte del legislatore sarebbe auspicabile per evitare inutili rischi, da una parte di contenzioso e dall'altra di danno erariale, oltre ad agevolare il rapporto tra uffici tributi e contribuenti (articolo ItaliaOggi del 06.10.2017).

EDILIZIA PRIVATARegolamento su barriere architettoniche. Sì della camera.
Un regolamento unico dove confluiranno tutte le norme in materia di abbattimento delle barriere architettoniche per gli edifici pubblici e privati e per gli spazi e i servizi pubblici o aperti al pubblico o di pubblica utilità.

Lo prevede la proposta di legge approvata ieri (Atto Camera n. 1013) a larghissima maggioranza dall'aula della camera (438 voti a favore, 5 astenuti, un voto contrario). Il testo, approvato in prima lettura, passa all'esame del Senato.
L'articolo 1 stabilisce che il regolamento venga emanato «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore» della legge, su proposta del ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il ministro dell'economia e delle finanze, previa deliberazione del Consiglio dei ministri. Attualmente la disciplina sull'abbattimento delle barriere architettoniche è contenuta da una parte, nel dpr n. 503/1996 e, dall'altra, nel dm 236/1989, due provvedimenti che l'articolo 2 della legge abroga.
L'articolo 3 prevede la ricostituzione di una commissione permanente «con il compito di individuare la soluzione a eventuali problemi tecnici derivanti dall'applicazione della legge. Alla commissione spetterà elaborare proposte di modifica e aggiornamento, anche finalizzate a semplificare la realizzazione di innovazioni tecnologiche, dirette all'eliminazione delle barriere architettoniche, nelle parti comuni degli edifici esistenti e nelle loro pertinenze. Non solo. La commissione dovrà anche adottare linee guida tecniche basate sulla progettazione universale prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite e procedere a un monitoraggio sistematico dell'attività delle pubbliche amministrazioni sull'adozione di piani di eliminazione delle barriere architettoniche.
I membri della Commissione saranno nominati dal ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza stato-regioni. Ai componenti della Commissione non saranno corrisposti compensi, gettoni di presenza o rimborsi di spese (articolo ItaliaOggi del 04.10.2017).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAEcobonus, istruzioni per l'uso. Detrazione anche per le spese 2017 per la domotica. La guida dell'Agenzia delle entrate sulle agevolazioni fiscali per il risparmio energetico.
L'ecobonus del 70 o del 75% va calcolato sull'ammontare complessivo delle spese non superiore a 40.000 euro, moltiplicato per il numero di unità immobiliari che compongono l'edificio.
È quanto si legge nell'ultima guida «Le agevolazioni fiscali per il risparmio energetico» dell'Agenzia delle entrate del 12.09.2017. Il vademecum è stato aggiornato per adeguarne il contenuto alle recenti modifiche che hanno interessato la disciplina dell'ecobonus.
Nella guida viene dunque confermato che le detrazioni potenziate del 70-75% sono calcolate su un ammontare complessivo delle spese non superiore a 40.000 euro, moltiplicato per il numero delle unità immobiliari che compongono l'edificio.
Inoltre, il documento chiarisce che la detrazione è stata estesa anche alle spese effettuate nel 2017 per l'acquisto, l'installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali per il controllo a distanza degli impianti di riscaldamento, produzione di acqua calda o climatizzazione delle unità abitative, finalizzati ad aumentare la consapevolezza dei consumi energetici da parte degli utenti e a garantire un funzionamento più efficiente degli impianti.
Inoltre, la guida a cura dell'Agenzia delle entrate, pubblicata sul sito www.agenziaentrate.gov.it, illustra le novità dell'ecobonus relative alla cessione del credito, alla luce del recente provvedimento n. 165110 del 28.08.2017.
La nuova guida. In particolare, la guida riepiloga la disciplina della detrazione Irpef/Ires per gli interventi di riqualificazione energetica degli edifici, realizzati sia su singole abitazioni che su parti comuni condominiali, anche alla luce delle modifiche introdotte, da ultimo, dalla legge di Bilancio 2017.
La legge n. 232/2016, oltre a confermare la proroga, fino al 31.12.2017, della detrazione Irpef/Ires nella misura «potenziata» del 65% per i lavori di riqualificazione energetica su edifici, ha previsto, altresì, per i soli interventi che riguardano l'intero condominio, la proroga della detrazione fino al 31.12.2021.
Inoltre, sempre con riferimento ai lavori di efficienza energetica su parti comuni condominiali, è stato previsto un aumento della percentuale di detrazione in ragione dell'intervento effettuato, che dalla misura ordinaria del 65% viene elevata al:
   - 70% se l'intervento riguarda l'involucro dell'edificio, con un'incidenza superiore al 25% della superficie disperdente lorda dell'intero edificio;
   - 75% se l'intervento è finalizzato a migliorare la prestazione energetica invernale ed estiva e consegua almeno la qualità media di cui al dm 26.06.2015.
Il bonus 65%. Non ci sono grosse novità sul fronte dell'ecobonus 65% sulle singole abitazioni per cui sono state prorogate le regole dell'anno scorso: fino al 31.12.2017 coloro che eseguono interventi di riqualificazione energetica sulle singole unità immobiliari hanno diritto a una detrazione fiscale del 65% (dall'Irpef e dall'Ires) da spalmare su 10 anni.
Per gli interventi realizzati su parti comuni di edifici condominiali, invece, la legge di bilancio 2017 (legge n. 232/2016) ha prorogato l'ecobonus 65% fino al 31.12.2021.
L'Agenzia delle entrate ricorda anche che la detrazione vale anche, relativamente alle spese effettuate tra il 01.01.2016 e il 31.12.2017, per l'acquisto, l'installazione e la messa in opera di dispositivi multimediali per il controllo a distanza degli impianti che ne consentano anche la regolazione.
Nella guida delle Entrate si specifica che si ha diritto all'agevolazione anche quando il contribuente finanzia la realizzazione dell'intervento di riqualificazione energetica mediante un contratto di leasing. In tale ipotesi, la detrazione spetta al contribuente stesso (utilizzatore) e si calcola sul costo sostenuto dalla società di leasing. Pertanto, non assumono rilievo, ai fini della detrazione, i canoni di leasing addebitati all'utilizzatore.
Dal 01.01.2018 l'agevolazione sarà sostituita con la detrazione (del 36%) prevista per le spese relative alle ristrutturazioni edilizie.
Le disposizioni dell'Enea. Le condizioni richieste dalla norma per usufruire delle maggiori detrazioni devono essere asseverate da professionisti abilitati attraverso l'attestazione della prestazione energetica degli edifici. L'Enea potrà effettuare controlli, anche a campione, su queste attestazioni. L'attestazione non veritiera, per la quale il professionista è chiamato a rispondere, comporta la decadenza dal beneficio.
Sulle detrazioni del 70 e 75% anche l'Enea ha pubblicato un vademecum.
Per l'invio della documentazione relativa agli interventi di riqualificazione energetica di parti comuni degli edifici condominiali, che possono accedere alle detrazioni fiscali del 70% o del 75% (fino al 31.12.2021), deve essere utilizzato il portale http://finanziaria2017-condomini.enea.it/. Per gli altri interventi, invece, va utilizzato il portale http://finanziaria2017.enea.it, dedicato all'invio telematico all'ente della documentazione necessaria a usufruire delle detrazioni fiscali del 65% per la riqualificazione energetica del patrimonio edilizio esistente.
La cessione del credito. Per le spese sostenute dal 01.01.2017 al 31.12.2021 per interventi di riqualificazione energetica di parti comuni degli edifici condominiali, compresi quelli che danno diritto alle maggiori detrazioni del 70 e 75%, i condòmini che, nell'anno precedente a quello di sostenimento della spesa, si trovano nella cosiddetta «no tax area» (incapienti) possono cedere un credito pari alla detrazione Irpef spettante.
La cessione può essere disposta in favore dei fornitori dei beni e dei servizi necessari alla realizzazione degli interventi, di altri soggetti privati (persone fisiche, anche esercenti attività di lavoro autonomo o d'impresa, società ed enti) e di istituti di credito e intermediari finanziari.
I soggetti che ricevono il credito hanno, a loro volta, la facoltà di cessione.
Si considerano «incapienti» i contribuenti che hanno un'imposta annua dovuta inferiore alle detrazioni (da lavoro dipendente, pensione o lavoro autonomo) spettanti. In sostanza, sono incapienti i seguenti contribuenti che nell'anno precedente a quello in cui hanno sostenuto le spese:
   - pensionati con reddito complessivo costituito solo da redditi da pensione non superiori a 7.500 euro, goduti per l'intero anno, redditi di terreni per un importo non superiore a 185,92 euro, reddito dell'abitazione principale e relative pertinenze;
   - lavoratori dipendenti e i contribuenti con redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente con reddito complessivo non superiore a 8.000 euro;
   - i contribuenti con redditi derivanti da lavoro autonomo o da un'impresa minore e i possessori di alcuni «redditi diversi» di importo non superiore a 4.800 euro.
I condòmini appartenenti ai cosiddetti «condomini minimi» che, non avendo l'obbligo di nominare l'amministratore, non vi abbiano provveduto, possono cedere il credito incaricando un condomino di effettuare gli adempimenti con le stesse modalità previste per gli amministratori di condominio.
I titolari di reddito d'impresa. Tali soggetti possono fruire della detrazione solo con riferimento ai fabbricati strumentali da essi utilizzati nell'esercizio della loro attività imprenditoriale (ris. Agenzia delle entrate n. 340/2008). Per esempio, non possono usufruire dell'agevolazione le imprese di costruzione, ristrutturazione edilizia e vendita, per le spese sostenute per interventi di riqualificazione energetica su immobili «merce» (ris. Agenzia delle entrate n. 303/2008).
Se cambia la titolarità dell'immobile. In caso di variazione della titolarità dell'immobile durante il periodo di godimento dell'agevolazione, le quote di detrazione residue (non utilizzate) potranno essere fruite dal nuovo titolare, salvo diverso accordo delle parti da indicare nell'atto di trasferimento.
Questo vale per i trasferimenti a titolo oneroso o gratuito della proprietà del fabbricato o di un diritto reale sullo stesso. Invece, il beneficio rimane sempre in capo al conduttore o al comodatario qualora dovesse cessare il contratto di locazione o comodato. Infine, in caso di decesso dell'avente diritto, la fruizione del beneficio fiscale si trasmette, per intero, esclusivamente all'erede che conservi la detenzione materiale e diretta del bene (articolo ItaliaOggi Sette del 02.10.2017).

PUBBLICO IMPIEGOVisite fiscali, ci penserà l'Inps ma solo se avrà i soldi E il lavoratore irreperibile rischia il controllo in ambulatorio. Con il decreto madia cambieranno a regime anche le fasce di reperibilità dei dipendenti.
Dal 1° settembre prossimo l'Inps gestirà anche le visite fiscali dei dipendenti della scuola.
La novità è prevista dal decreto legislativo n. 75 del 27.05.2017 (cosiddetto decreto Madia) che, a regime, prevede anche l'armonizzazione delle fasce orarie di reperibilità tra pubblico e privato. Vale a dire, i periodi di tempo nell'ambito della giornata, in cui il dipendente non potrà muoversi da casa per consentire al medico di effettuare la visita di controllo. Attualmente le fasce nel settore privato vanno dalle 10,00 alle 12,00 e dalle 17,00 alle 19,00. Mentre nel settore pubblico, per effetto del decreto Brunetta che ne ha ampliato i termini, sono fissate dalle 9,00 alle 13,00 e dalle 15,00 alle 18,00.
L'istituto nazionale della previdenza sociale ha già emanato le prime disposizioni di attuazione con il messaggio 3265 del 09.08.2017. L'ente previdenziale ha spiegato che sarà costituito un polo unico delle visite fiscali che dovrà occuparsi anche dei dipendenti della scuola, che gestirà le visite e che lo farà su richiesta delle amministrazioni interessate o anche d'ufficio. E ha ricordato che le richieste delle amministrazioni saranno soddisfatte solo fino alla concorrenza del budget assegnato dal legislatore pari a 17 milioni di euro. Che dovranno bastare per coprire le spese di tutte le viste fiscali che saranno effettuate nell'intero territorio nazionale.
Pertanto, dopo avere ricevuto la richiesta, l'Inps verificherà la disponibilità del budget e, una vota superato, bloccherà le richieste in eccedenza. In buona sostanza, dunque, fino a quando ci saranno soldi a sufficienza per pagare i medici fiscali l'Inps darà corso alle richieste. Quando i soldi finiranno le viste fiscali non saranno più effettuate.
La procedura di richiesta delle visite da parte delle scuole avverrà via web in modo automatizzato. Ma nella prima fase il sistema potrebbe non riconoscere tutte le amministrazioni aventi titolo all'accesso. In questi casi, le scuole potranno procedere autocertificando il proprio titolo e l'Inps procederà successivamente ad effettuare i dovuti controlli. Le scuole dovranno specificare nella richiesta anche se dovrà essere effettuata o meno la visita ambulatoriale, nelle modalità già attualmente previste in caso di assenza del lavoratore a visita domiciliare, al fine di consentire la verifica dell'effettiva sussistenza dello stato di malattia.
L'Inps ha chiarito, inoltre, che dal 01.09.2017 gli applicativi in uso presso l'istituto saranno adattati al fine di acquisire i dati dei certificati dei dipendenti pubblici e disporre un numero prestabilito di visite d'ufficio. Anche per le visite mediche di controllo disposte d'ufficio verrà restituito alle scuole l'esito, incluse le informazioni circa i casi di assenza al domicilio e la conseguente convocazione a visita ambulatoriale. In caso di assenza del lavoratore al domicilio a seguito di visita medica di controllo disposta d'ufficio, si procederà con l'invito a visita ambulatoriale in conformità a quanto avviene per i lavoratori del settore privato.
Nel corso della visita ambulatoriale dovranno essere valutate soltanto l'effettiva sussistenza dello stato morboso e la relativa prognosi, mentre non rientrerà tra i compiti dell'istituto la valutazione delle eventuali giustificazioni prodotte. L'ente previdenziale ha chiarito anche che il dipendente pubblico è tenuto, qualora debba assentarsi dal proprio domicilio (per esempio per sottoporsi a una visita specialistica), ad avvisare unicamente la scuola. E dovrà essere quest'ultima ad avvisare l'Inps (articolo ItaliaOggi del 22.08.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Il Foia non mette a nudo gli atti di un procedimento disciplinare. PRIVACY/ Il parere del Garante 254/2017 sul Freedom of information act.
Il Foia (Freedom of information act) non scoperchia gli atti del procedimento disciplinare a carico di un dipendente pubblico. Vince la riservatezza del singolo.

È quanto indica il Garante della privacy con il provvedimento 31.05.2017 n. 254, che bilancia i diversi interessi, dando prevalenza a quello del dipendente pubblico a non essere esposto al pubblico ludibrio.
Tra l'altro, questo il messaggio sotteso al provvedimento, l'accesso Foia non deve essere abusato e non è lo stratagemma per avere tutte le informazioni senza limiti.
Nel caso specifico è stata presentata una richiesta di accesso civico per ottenere la copia degli atti relativi alla sanzione disciplinare inflitta a un dipendente comunale, che ha impugnato la sanzione davanti al giudice del lavoro.
Il comune ha negato la copia, sostenendo che l'accesso generalizzato poteva provocare un pregiudizio concreto alla protezione dei relativi dati personali.
Anche il Garante è per il no.
Scrive, infatti, il garante che la conoscenza delle informazioni contenute negli atti relativi alla sanzione disciplinare inflitta al dipendente comunale unita al citato regime di pubblicità degli atti oggetto dell'accesso generalizzato è suscettibile di determinare un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali.
Il Garante aggiunge che, quando l'oggetto della richiesta di accesso riguarda documenti contenenti informazioni relative a persone fisiche non necessarie al raggiungimento degli scopi tipici dell'accesso generalizzato (controllo generalizzato sulla attività della p.a., sulla spesa pubblica e partecipazione al dibattito pubblico), oppure informazioni personali di dettaglio che risultino comunque sproporzionate, eccedenti e non pertinenti, l'ente destinatario della richiesta, nel dare riscontro alla richiesta di accesso generalizzato, dovrebbe in linea generale scegliere le modalità meno pregiudizievoli per i diritti dell'interessato.
Nel caso concreto, la legittima esigenza conoscitiva rappresentata dal richiedente l'accesso generalizzato dovrebbe trovare soddisfazione nella conoscenza dei fatti connessi all'emergenza finanziaria che ha coinvolto il Comune, nel cui contesto è maturata la sanzione disciplinare, indipendentemente dalle valutazioni connesse alla responsabilità del singolo dipendente.
I documenti richiesti tramite l'accesso generalizzato contengono invece dati personali che risultano in ogni caso sproporzionati, eccedenti e non pertinenti rispetto alla soddisfazione del bisogno conoscitivo.
Quindi il comune ha fatto bene a negare l'accesso civico (articolo ItaliaOggi Sette del 31.07.2017).

APPALTIProvi Lei, presidente, a fare il Rup. Lettera a Raffaele Cantone.
   Illustrissimo presidente Raffaele Cantone,
Le scrivo, senza alcuna vena polemica, dopo aver letto sulla stampa un articolo in cui Lei sostiene che la colpa del caos appalti sia da attribuire agli amministratori pubblici che si lavano le mani o addirittura che boicottano la Sua riforma.
Facile scaricare, come sempre alla parte più debole del Paese, responsabilità di una classe politica e dirigente centrale che vive lontano mille anni luce dalla realtà dei comuni, in specie quelli piccoli e piccolissimi.
Non sembra possibile che ogni volta che il parlamento e il governo mettono mano a una riforma dimenticano che esiste questa parte sana, forte e virtuosa della nazione imponendole norme e procedure impossibili da applicare integralmente e, soprattutto, dannose.
Partiamo dal codice appalti: 220 articoli, 50 decreti attuativi, 172 refusi individuati e corretti. A un anno dall'entrata in vigore del Codice, con il dlgs correttivo vengono apportate altre 441 modifiche e viene stabilita l'approvazione di altri 60 decreti attuativi. A tutto ciò si aggiungono 1.388 delibere Anac nel 2016 (4 delibere al giorno compresi sabati e domeniche). Evidentemente a Roma nessuno sa cosa sia esattamente un'analisi d'impatto normativo. Il Codice appalti ha promesso semplificazione, ma solo a parole. La realtà è ben diversa. E vediamo perché.
Per i lavori sotto i 40.000 euro, per esempio, prima si dice che è escluso l'obbligo di motivazione per affidare direttamente un lavoro o un servizio ma poi si ritiene necessario garantire i seguenti principi enunciati dall'articolo 30: libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Gli amministratori locali si chiedono come si possano rispettare questi principi se si procede con affidamento diretto.
Caos assoluto anche per quanto riguarda gli incentivi per funzioni tecniche. Per corrisponderli si dovrebbero tagliare gli incentivi a tutti gli altri istituti finanziati dal fondo della contrattazione decentrata. E veniamo al costo della manodopera. Si rende sempre e comunque obbligatoria la verifica della congruità dei costi. L'impresa è tutt'altro che agevole perché sul piano tecnico le tabelle ministeriali sul costo del lavoro riportano costi medi che non possono tenere conto di particolari agevolazioni o sgravi di cui si avvantaggi di volta in volta il singolo operatore economico. Dunque non difficilmente il costo della manodopera indicato dall'appaltatore può rivelarsi inferiore a quello delle tabelle.
Dal Suo scranno, presidente Cantone, tutto sembra facile. Provi Lei almeno una volta a fare il Responsabile unico del procedimento (Rup) in un piccolo comune e capirebbe le difficoltà che quotidianamente incontrano gli amministratori locali. E ancora, per predisporre i progetti di fattibilità si richiedono indagini obbligatorie (geologiche, idrogeologiche, sismiche, storiche, paesaggistiche, urbanistiche), verifiche preventive dell'interesse archeologico, studi preliminari sull'impatto ambientale, diagnosi energetiche, misure per la produzione e recupero di energia con riferimento all'impatto sul piano economico-finanziario dell'opera.
A questo punto non siamo in un progetto di fattibilità, ma davanti a un vero e proprio strumento di progettazione completo. Ma quale amministrazione rischierà di buttare migliaia e migliaia di euro per pagare un progettista senza avere la certezza del finanziamento?
Siamo al diluvio burocratico, generato da burocrazie distanti, non in grado di interpretare desideri, passioni, interessi, aspettative, bisogni di amministratori pubblici che cercano di garantire i servizi malgrado la legge. Tanto che mi chiedo: è la corruzione che ostacola la crescita o l'anticorruzione? Con osservanza (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).

ENTI LOCALI - VARINo profit, riordino a 360 gradi Controlli e sanzioni più incisivi. Il codice dedicato punta a razionalizzare vincoli e benefici di enti e organizzazioni.
Sistema dei controlli e delle sanzioni più incisivo, anche ad opera degli uffici registro unico nazionale del Terzo settore territorialmente competente, regime ad hoc di determinazione del reddito per le attività commerciali svolte dagli enti aventi natura non commerciale, razionalizzazione e semplificazione dei regimi contabili semplificati.

Sono queste alcune delle principali novità che il legislatore ha apportato alla galassia delle imprese del no profit attraverso la riforma degli enti del comparto.
La nuova normativa di riferimento è il Codice del Terzo settore, ovvero il testo unico del no profit in cui sono contenute le norme di carattere giuridico, fiscale, societario e agevolativo a cui gli enti di appartenenza dovranno attenersi.
Enti del Terzo settore. Oltre agli enti del Terzo settore «tipici» (come le organizzazioni di volontariato o le imprese sociali), il codice ammette enti «atipici» (come le associazioni e le fondazioni), purché operino senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, svolgano una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, e siano iscritti nel Registro unico nazionale del Terzo settore.
Registro unico del Terzo settore. Le informazioni che il registro deve contenere riguardano denominazione, forma giuridica, sede legale, sedi secondarie, data di costituzione, oggetto dell'attività di interesse generale, partita Iva, patrimonio minimo, generalità dei soggetti che ricoprono cariche sociali, ecc. Nel Registro vanno inoltre iscritte le modifiche dell'atto costitutivo/statuto, le deliberazioni di trasformazione, fusione, scissione, estinzione, liquidazione e cancellazione ecc. Obbligatorio anche il deposito dei bilanci e dei rendiconti delle raccolte fondi svolte nel periodo di competenza.
In caso di mancato o incompleto deposito degli atti e dei loro aggiornamenti nonché di quelli relativi alle informazioni obbligatorie nel rispetto dei termini previsti, l'ufficio del Registro unico procederà a diffidare l'ente ad adempiere ai propri obblighi, assegnando un termine non superiore a 180 giorni, decorsi inutilmente i quali l'ente sarà cancellato dal Registro. Il deposito degli atti e i relativi aggiornamenti sono oneri a carico degli amministratori (art. 2630 c.c.).
Destinazione del patrimonio e assenza dello scopo di lucro. La norma che disciplina la destinazione del patrimonio e l'assenza dello scopo di lucro è di centrale rilevanza, in quanto pone un vincolo di destinazione di eventuali utili (ad esclusione delle imprese sociali) e del patrimonio degli enti del Terzo settore allo svolgimento delle attività di interesse generale per l'esclusivo perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. In aderenza alla legislazione previgente, è vietata la distribuzione sia diretta che indiretta di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve, comunque denominati, a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori, ecc.
Si considerano in ogni caso distribuzione indiretta di utili:
   - la corresponsione ad amministratori, sindaci non proporzionati all'attività svolta e alle responsabilità assunte;
   - la corresponsione a lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del 40% rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi;
   - l'acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale;
   - le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, a soci, associati o partecipanti, ai fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, e loro parenti e affini, salvo che tali cessioni o prestazioni non costituiscano l'oggetto dell'attività di interesse generale dell'ente;
   - la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di quattro punti al tasso annuo di riferimento.
Scritture contabili e bilancio. Gli enti del Terzo settore devono redigere il bilancio di esercizio formato dallo stato patrimoniale, dal rendiconto gestionale, con l'indicazione delle entrate, dei proventi, delle uscite e dei costi dell'ente, e dalla relazione di missione che illustra le poste di bilancio, l'andamento economico e finanziario dell'ente e le modalità di perseguimento delle finalità statutarie. Il bilancio degli enti del Terzo settore con ricavi, rendite, proventi o entrate inferiori a 220 mila euro potrà essere redatto nella forma del rendiconto finanziario per cassa.
Gli enti che esercitano la propria attività principalmente in forma di impresa commerciale dovranno tenere le scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c. e depositare il bilancio (da redigere, a seconda dei casi, ai sensi degli artt. 2423 e segg. 2435-bis o 2435-ter c.c.) presso il registro delle imprese.
Regime fiscale del social lending. Al fine di favorire la raccolta di capitale di rischio, i soggetti gestori dei portali online, che intervengono nel pagamento degli importi percepiti dai soggetti che prestano fondi attraverso tali portali, nell'ambito del regime fiscale del c.d. «social lending», operano sugli stessi importi una ritenuta a titolo di imposta con l'aliquota prevista per i titoli di Stato (12,5%).
Agevolazioni fiscali. Il legislatore ha operato una revisione complessiva della definizione di ente non commerciale, una razionalizzazione e semplificazione del regime di deducibilità e detraibilità delle erogazioni liberali e dei regimi fiscali e contabili semplificati previsti per gli enti del Terzo settore; sono state inoltre introdotte agevolazioni fiscali per favorire il trasferimento di beni patrimoniali a tali enti ed è stata rivista l'attuale disciplina delle Onlus.
Il regime fiscale è stato disegnato tenendo conto della distinzione tra attività commerciali e non commerciali svolte, la quale consente di disciplinare in termini differenti la fiscalità degli enti che svolgono l'attività istituzionale con modalità commerciali rispetto a quelli che non esercitano (od esercitano solo marginalmente) l'attività di impresa.
Oltre a consentire di definire meglio definire il concetto di non commercialità, la riforma prevede agevolazioni in materia di imposte sulle successioni e donazioni per i trasferimenti a favore dell'ente, di imposta di registro, ipotecaria e catastale, di social bonus, ecc.
Inoltre, nel volontariato e nella promozione sociale, la non commercialità è ulteriormente valorizzata, considerando una serie di attività nei confronti dei terzi e degli stessi soci, che non assumono rilevanza sotto il profilo fiscale.
In terzo luogo, la riforma valorizza sul piano tributario l'eventuale carattere commerciale delle attività, principali o secondarie, esercitate dall'ente, che può costituire un elemento del tutto fisiologico in rapporto alle finalità di interesse generale perseguite.
Per questo, la riforma introduce un regime ad hoc di determinazione del reddito, avente carattere opzionale, per le attività commerciali svolte (in modo non prevalente o secondario) dagli enti aventi natura non commerciale, basato su diversi coefficienti che si applicano, a scaglioni, sull'ammontare dei ricavi derivanti dalle prestazioni di servizi o cessioni di beni.
Mentre le disposizioni in materia di social bonus, di agevolazioni fiscali (detrazioni e deduzioni in caso di erogazioni liberali) ecc. entreranno in vigore dal 01.01.2018, le altre disposizioni (per la determinazione e tassazione del reddito d'impresa), entreranno progressivamente in vigore a partire dal periodo d'imposta successivo all'autorizzazione della Commissione europea e comunque non prima del periodo di imposta successivo a quello in cui diventerà operativo il Registro unico nazionale.
Controlli. Il legislatore ha definito gli ambiti dei controlli interni ed esterni sugli enti del Terzo settore, che sono finalizzati ad accertare:
   a) la sussistenza e la permanenza dei requisiti necessari all'iscrizione al Registro unico nazionale;
   b) il perseguimento delle finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale;
   c) l'adempimento degli obblighi derivanti dall'iscrizione al Registro unico nazionale;
   d) il diritto di avvalersi dei benefici anche fiscali e del 5 per mille derivanti dall'iscrizione nel Registro;
   e) il corretto utilizzo delle risorse pubbliche, finanziarie e strumentali, ad essi attribuite.
L'ufficio del Registro unico nazionale territorialmente competente rispetto alla sede legale dell'ente sarà il soggetto competente ad esercitare le attività di controllo di cui alle lettere a), b) e c), attraverso accertamenti documentali, visite ed ispezioni, periodicamente o in tutti i casi in cui venga a conoscenza di atti o fatti che possano integrare violazioni alle disposizioni del codice, anche con riferimento ai casi di cui alla lettera b).
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Crediti privilegiati per il volontariato.
Regole e privilegi per le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale. Il legislatore della riforma del Terzo settore ha riservato a favore di tali enti diversi strumenti di finanziamento con l'obiettivo di promuovere anche l'accesso degli enti no profit ai fondi Ue e in particolare (ma non solo) a quelli del Fondo sociale europeo.
Giro di vite invece sul fronte delle fondazioni e associazioni per le quali, fra l'altro, corre l'obbligo di nominare un soggetto incaricato della revisione legale dei conti al superamento, per due esercizi consecutivi, di alcuni parametri di natura patrimoniale.
Accesso al credito agevolato. La norma costituisce la riproposizione dell'art. 24, comma 1, della legge 383/2000, che consente alle associazioni di promozione sociale e alle organizzazioni di volontariato che svolgano attività sulla base di progetti o risultino affidatarie di servizi di interesse generale in regime di convenzione con le pubbliche amministrazioni, di beneficiare delle forme di agevolazione creditizia o di garanzie già previste dalle norme vigenti in favore di cooperative e loro consorzi (si fa in particolare richiamo alla legge 24.11.2003, n. 326).
La ratio della norma originaria e della sua riproposizione è quella di estendere a enti che per definizione svolgono attività e servizi di interesse generale e in particolare lo fanno in regime convenzionale con le pubbliche amministrazioni, il favor già riservato dal legislatore agli enti cooperativi anche in forma consortile.
Crediti privilegiati. I crediti delle organizzazioni di volontariato e delle associazioni di promozione sociale, inerenti allo svolgimento delle attività di interesse generale, hanno privilegio generale sui beni mobili del debitore.
Vengono riproposti estendendoli anche alle organizzazioni di volontariato, in virtù della loro peculiare funzione e del riconoscimento del particolare valore sociale di tali soggetti, i benefici già previsti in favore delle associazioni di promozione sociale dall'articolo 24, commi 2 e 3 della legge n. 383/2000 recante la disciplina delle associazioni di promozione sociale.
La ratio della norma risiede nella «presunzione di meritevolezza» delle attività di interesse generale di tali organizzazioni, considerato che le previsioni dell'art. 2751-bis fanno riferimento a crediti maturati dai lavoratori subordinati e parasubordinati, dai lavoratori autonomi, dagli artigiani e coltivatori diretti ecc., tutti soggetti che l'ordinamento ritiene meritevoli di particolare tutela, tutela che si ritiene di riconoscere anche a quei soggetti privi di finalità lucrative che svolgono compiti di riconosciuto valore sociale.
Accesso al Fondo sociale europeo. Il governo, d'intesa con le regioni e con le province autonome, potrà promuovere ogni iniziativa per favorire l'accesso delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato ai finanziamenti del Fondo sociale europeo per progetti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi istituzionali, nonché in collaborazione con la Commissione europea, per facilitare l'accesso ai finanziamenti comunitari, inclusi i prefinanziamenti da parte degli Stati membri e i finanziamenti sotto forma di sovvenzioni globali.
La ratio della norma è quella di promuovere l'accesso degli enti del Terzo settore ai fondi Ue, in particolare (ma non solo) a quelli del Fondo sociale europeo, anche alla luce del ruolo riconosciuto a livello comunitario ai soggetti dell'economia sociale, ai quali sono da ricondurre gli enti del Terzo settore.
Finanziamento di progetti di interesse generale. Il legislatore ha disciplinato un nuovo strumento finanziario, il Fondo per il finanziamento di progetti e di attività di interesse generale nel Terzo settore, destinato a sostenere, anche attraverso le reti associative, lo svolgimento di attività di interesse generale attraverso il finanziamento di iniziative e progetti promossi da organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e fondazioni comprese tra gli enti del Terzo settore iscritti nel registro unico nazionale.
Sostegno alle organizzazioni di volontariato. È prevista la concessione di contributi per la realizzazione di progettualità da parte delle organizzazioni di volontariato per far fronte ad emergenze sociali e per l'applicazione di metodologie di intervento particolarmente avanzate. I progetti potranno essere realizzati anche attraverso partenariati con altre organizzazioni di volontariato ed in collaborazione con gli Enti locali.
Sostegno alle associazioni di promozione sociale. Come per le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, in ragione della loro natura, potranno destinare le proprie iniziative progettuali anche alla formazione degli associati e più in generale al rafforzamento della capacity building (o capacity development).
Vengono mantenute in essere le cinque «associazioni storiche» (Ens, ente nazionale sordi; Anmil, associazione nazionale mutilati invalidi del lavoro; Uici, unione italiana ciechi e ipovedenti; Unms, unione nazionale mutilati per servizio, Anmic associazione nazionale mutilati e invalidi civili, tutte persone giuridiche privatizzate) a cui saranno destinati finanziamenti per le attività istituzionali di promozione e integrazione sociale degli aderenti (si tratta di un finanziamento complessivo di 2.580.000 euro da ripartirsi in parti uguali tra tutti i suindicati enti).
A fronte di tale finanziamento si prevede la sottoposizione delle stesse a specifici obblighi, a partire dalla trasmissione all'amministrazione erogatrice del contributo, entro un anno dalla erogazione del contributo, il rendiconto sull'utilizzo del contributo ricevuto per l'anno precedente.
Contributo per l'acquisto di autoambulanze. In continuità con l'originaria norma istitutiva, è prevista l'erogazione di contributi alle organizzazioni di volontariato per l'acquisto di autoambulanze, autoveicoli per attività sanitarie e di beni strumentali, utilizzati direttamente ed esclusivamente per attività di interesse generale, nonché per le sole fondazioni, per la donazione dei beni ivi indicati nei confronti delle strutture sanitarie pubbliche.
L'elemento innovativo riguarda la possibilità dell'erogazione del contributo anche per l'acquisto di autoveicoli per attività sanitarie (es. per trasporto sangue, organi ecc.).
Attività di volontariato. Gli enti del Terzo settore possono avvalersi di volontari nello svolgimento delle attività di interesse generale, dei quali devono tenere un apposito registro.
Dalla gratuità dell'attività del volontario discende il divieto di retribuire l'attività del volontario, al quale possono soltanto essere rimborsate, dall'ente tramite il quale svolge l'attività, le spese effettivamente sostenute e documentate per l'attività prestata, peraltro entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall'ente medesimo. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo forfetario.
Titoli di solidarietà. La norma prevede che le banche italiane, comunitarie ed extracomunitarie autorizzate ad operare in Italia, possano emettere obbligazioni e altri titoli di debito nonché certificati di deposito con l'obiettivo di sostenere le attività istituzionali degli enti del Terzo settore. Su tali titoli le banche emittenti non potranno applicare le commissioni di collocamento con l'obbligo di destinare l'intera raccolta effettuata agli enti del Terzo settore.
Gli emittenti potranno erogare, a titolo di liberalità, una somma commisurata all'ammontare nominale collocato dei titoli, ad uno o più enti del Terzo settore ritenute meritevoli. Qualora tale somma sia almeno pari allo 0,60% del predetto ammontare, agli emittenti spetterà un credito d'imposta pari al 50% della stessa erogazione liberale. Gli interessi, i premi ed ogni altro provento derivante dai titoli di cui sopra sono assoggettati al medesimo regime fiscale previsto per i titoli di Stato.
Controlli su associazioni e fondazioni. Le associazioni, riconosciute o non riconosciute, e le fondazioni del Terzo settore devono nominare un revisore legale dei conti o una società di revisione quando superino per due esercizi consecutivi due dei seguenti limiti:
   - totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 1.100.000 euro;
   - ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate: 2.200.000 euro;
   - dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 12 unità.
L'obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non vengono superati.
La nomina è altresì obbligatoria quando siano stati costituiti patrimoni separati.
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Imposte graduate sul merito. Nei decreti attuativi la ridefinizione dell'ambito applicativo delle agevolazioni fiscali.
Il Terzo Settore fa il pieno di agevolazioni tributarie e regimi forfetari. Enti iscritti al registro unico, associazioni di volontariato e di promozione sociale con nuovi regimi forfetizzati destinati a graduare il trattamento tributario, in relazione alla maggiore o minore meritevolezza degli obiettivi perseguiti.
Queste alcune delle numerose novità introdotte dal legislatore riformatore nei decreti attuativi di riforma del cosiddetto Terso Settore ovvero per il comparto degli enti no profit, comprese le imprese sociali (si veda ItaliaOggi 18/07/2017)
I decreti attuativi d'interesse sono due, uno destinato alla generalità degli enti del Terzo Settore e uno destinato alle imprese sociali. Posto che agli enti appartenenti a questo comparto si rende applicabile la disciplina Ires, il provvedimento, soprattutto, tende a definire l'ambito applicativo delle disposizioni e delle agevolazioni, stabilendo quali attività, pur configurandosi come commerciali, siano degne di non essere tassate («attività decommercializzate»).
Rientrano tra queste, tutte le attività di interesse generale, come indicate in un precedente articolo (art. 5), incluse quelle accreditate, contrattualizzate o convenzionate con le pubbliche amministrazioni; quindi, per esempio, si qualificano tali le prestazioni di servizi eseguite a favore di determinati soggetti, ma in convenzione con il comune, a prescindere dall'entità e della qualità del servizio.
Non solo. Il provvedimento attuativo della riforma stabilisce anche che, in ossequio ai dettami comunitari, la prestazione non deve essere considerata di natura commerciale, quando i corrispettivi introitati non superano i costi effettivi, costituiti sia dai costi diretti che i costi indiretti.
Inoltre, nell'ipotesi di svolgimento di attività non riconducibili tra quelle decommercializzate, di cui al citato art. 5, i costi indiretti effettivamente sostenuti dovranno essere assegnati a ciascuna di tali attività, in misura proporzionale, al fine di poter eseguire correttamente la valutazione in merito alla tipologia di attività esercitata, come precisato anche nella relazione illustrativa.
In aggiunta a tali attività, la nuova disciplina tributaria prevede la non partecipazione alla formazione del reddito, per gli enti appartenenti al detto comparto, dei fondi raccolti tramite raccolte pubbliche eseguite, in via occasionale, anche nella forma di offerte di beni di modico valore o di servizi ai sovventori, in occasione a celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione, compresi gli apporti, anche aventi natura di corrispettivo, eseguiti dalle pubbliche amministrazioni, di cui al comma 2, art. 1, dlgs 165/2001, finalizzati allo svolgimento di attività non commerciali (circ. 124/E/1998).
Al contrario, l'ente si deve considerare commerciale, con tutte le conseguenze del caso, anche in ambito tributario, a prescindere da qualsiasi previsione statutaria, se i proventi istituzionali, di cui al citato art. 5, realizzati con modalità commerciale, e art. 6, fatta eccezione delle cosiddette attività di sponsorizzazione, del decreto attuativo in commento, risultano superiori alle entrate delle attività istituzionali, nel medesimo periodo d'imposta, tenendo presenti che non sono da inquadrare commerciali i contributi, le sovvenzioni, le liberalità, le quote associative e ogni altra entrata assimilabile a quest'ultime tipologie.
Due le ulteriori precisazioni: le attività di sponsorizzazione indicate non sono da ritenere esaustive ma meramente indicative, quindi anche altre attività non contemplate, se rispettose dei requisiti propri delle attività istituzionali, possono essere riconosciute non commerciali e le attività, svolte nei confronti degli associati e dei loro familiari e/o conviventi, compreso il versamento delle quote, non devono essere considerate attività commerciali ma, al contrario, non commerciali e, di conseguenza, non soggette a tassazione.
In continuità con quanto indicato dalle disposizioni attualmente vigenti, dalla dottrina e dalla giurisprudenza, invece, devono essere considerati commerciali i corrispettivi per cessione di beni e prestazioni di servizi effettuate nei confronti di associati e relativi familiari verso un pagamento specifico, inserendo in tale ultimo contesto anche i contributi e le quote aggiuntive determinate in funzione delle diverse e/o maggiori prestazioni (corrispettivi specifici); in tal caso, i corrispettivi devono essere tassati e, quindi, concorrono alla formazione del reddito complessivo dell'ente o come reddito d'impresa o, in assenza di una vera e propria organizzazione e in presenza di una mera occasionalità, da soggetto non partita Iva, come redditi diversi.
Con particolare riferimento alle organizzazioni di volontariato (Odv), di cui alla legge 266/1991, è disposto che non devono essere considerate attività commerciali le attività di vendita di beni acquisti a titolo gratuito da terzi a titolo di sovvenzione, la cessione di beni prodotti dagli assistiti e dai volontari purché la vendita sia eseguita dall'ente e le attività di somministrazione di alimenti e bevande in occasione di raduni, celebrazioni, manifestazioni e quant'altro a carattere occasionale, mentre, per le associazioni di promozione sociale (Aps), di cui alla legge 383/2000, non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, la cessione di pubblicazioni agli associati e la somministrazione di alimenti e bevande presso la propria sede, nonché l'organizzazione di viaggi e soggiorni, se attività complementari alle istituzionali e se rivolte verso associati.
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Regimi forfetari opzionali in relazione ai destinatari.
Coefficienti di redditività variabili dal 7 al 17% per gli enti del Terzo Settore iscritti al registro unico e dell'1% e del 3%, rispettivamente, per le associazioni di volontariato e quelle di promozione sociale.
Il provvedimento attuativo della riforma introduce, in aggiunta a quanto previsto dall'art. 145, dpr 917/1986 (Tuir), tre ulteriori regimi forfetari di determinazione del reddito per la generalità degli enti non profit e per le due particolari tipologie di associazioni.
Il primo regime prevede, se opzionato, l'applicazione di coefficienti di redditività funzionali alla determinazione del reddito d'impresa, per i corrispettivi che non possono assumere la qualifica di istituzionali, come indicato in precedenza, sempre che i relativi proventi non prevalgano sulle entrate non commerciali.
Questo primo regime si rende applicabile a tutti gli enti del Terzo Settore iscritti al Registro unico nazionale, mentre per i non iscritti continua a essere applicabile quello prescritto dall'art. 145 del Tuir; quindi, tale ultimo articolo si applica a una serie di soggetti come le formazioni e associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza, le associazioni datoriali e gli enti assoggettati a controllo dei precedenti e agli enti ecclesiastici e delle confessioni religiose.
Il nuovo regime elenca i nuovi coefficienti di redditività, da applicarsi in base alla tipologia del corrispettivo e sulla base dell'entità dei ricavi, ai quali devono essere aggiunti, come avviene sempre in applicazione a regimi di questo genere, le eventuali plusvalenze patrimoniali, le sopravvenienze attive, i dividendi e gli interessi e i ricavi derivanti dagli immobili patrimonio eventualmente detenuti.
L'opzione deve essere esercitata nella dichiarazione annuale dei redditi riferibile al periodo d'imposta in cui il regime è stato applicato (comportamento concludente), fino a revoca e per almeno un triennio, essendo la scelta riferita a un regime contabile, con possibilità di utilizzo delle perdite fiscali prodotte nei periodi d'imposta anteriori rispetto a quello di applicazione del regime forfetario.
Il vantaggio ulteriore è che gli enti in regime forfetario non sono soggetti a studi di settore e parametri ovvero agli indicatori di affidabilità, applicabili a partire dall'attuale periodo d'imposta (2017).
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Social bonus pronto al debutto.
Tra le numerose agevolazioni destinate al Terzo Settore, spicca il «social bonus» nella misura del 65% per le erogazioni liberali in denaro eseguite dalle persone fisiche. Il credito d'imposta indicato spetta in misura appena ridotta, e pari al 50%, per le erogazioni eseguite da enti e società.
Così il provvedimento di attuazione della riforma del «no profit» che, al fianco a una nuova visione del Terzo Settore e di una maggiore esenzione dall'imposizione diretta delle attività svolte in conformità alle attività statutarie, ha introdotto una serie di bonus e di ulteriori agevolazioni per aumentare l'appeal del comparto, sempre più operativo sul territorio e sempre più a corto di fondi per effetto della nota congiuntura economica.
Social bonus. La prima apprezzabile iniziativa concerne l'introduzione di un credito d'imposta modulato, da applicarsi alle erogazioni liberali eseguite in denaro a favore dei soggetti appartenenti al Terzo Settore, rispettivamente pari al 65% per le persone fisiche e al 50% per gli enti e le società.
Come precisato nella relazione illustrativa, il credito d'imposta è riconosciuto alle persone fisiche e agli enti non commerciali, in quanto equiparati, nella misura massima del 15% del reddito imponibile, mentre ai soggetti a reddito d'impresa, quindi società commerciali di qualsiasi tipo (non si fa espresso riferimento ai soggetti Ires), escluse le società semplici, il tetto è fissato al 5 per mille dei ricavi annualmente realizzati.
Il credito d'imposta è da ripartire in tre quote annuali e, in analogia con quanto prescritto per il più noto «art bonus», il credito d'imposta non è rilevante ai fini della determinazione del reddito e del tributo regionale (Irap), quindi non sconta alcuna tassazione e può essere utilizzato in compensazione da tutti i beneficiari (persone fisiche, società ed enti non commerciali), ai sensi dell'art. 17, dlgs 241/1997.
Tale introito deve rispettare, però, un'ulteriore condizione, posta a carico dell'ente beneficiario, in quanto l'erogazione di denaro deve essere destinata «in via prevalente» allo sviluppo delle attività istituzionali, come indicate dall'art. 5 del provvedimento in commento.
Erogazioni liberali. Prevista una detrazione pari al 30% degli oneri sostenuti dal contribuente per le erogazioni liberali e/o in natura a favore degli enti appartenenti al Terzo Settore, anche imprese sociali e cooperative sociali, per un importo massimo pari a 30 mila euro per ciascun periodo d'imposta, con un incremento al 35% se il destinatario è una organizzazione di volontariato (Odv), di cui alla legge 266/1991, condizionata alla presentazione di una dichiarazione di ente non commerciale da parte del beneficiario, al momento dell'iscrizione nel Registro unico nazionale e sempre se destinate all'esercizio delle attività istituzionali (civiche, solidaristiche e di utilità sociale). In aggiunta, possibile detrazione del 19% dei contributi associativi fino a un tetto di euro 1.300 versati dai soci alle società di mutuo soccorso.
Successioni e donazioni. Con la finalità di potenziare il patrimonio e la liquidità degli enti non commerciali appartenenti al Terzo Settore, con espressa esclusione (anche per le agevolazioni che saranno indicate a breve) delle imprese sociali e l'inclusione delle cooperative sociali, si conferma il non assoggettamento all'imposta sulle successioni e donazioni e alle imposte ipotecarie e catastali per tutti i trasferimenti, a titolo gratuito, effettuati a favore di detti enti e da questi utilizzati per lo svolgimento delle attività istituzionali, come indicate nel proprio statuto sociale.
L'agevolazione, come detto, è destinata a supportare il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, come indicato dal comma 1, dell'art. 8 del decreto in commento.
Imposizione indiretta. Numerose le agevolazioni previste nell'ambito delle imposte di registro, ipotecarie e catastali.
La prima riguarda l'applicazione in misura fissa (attualmente pari a euro 200) per le imposte appena indicate dovute per gli atti relativi alle operazioni straordinarie come fusione, scissione trasformazione, poste in essere dagli enti del comparto (che rispettano i relativi requisiti), nonché per gli atti costitutivi e per le modifiche statutarie, compresi gli adeguamenti dipendenti dalle modifiche o integrazioni normative di qualsiasi tipologia.
Le medesime imposte sono ancora dovute in misura fissa, per gli atti di trasferimento (traslativi) a titolo oneroso della proprietà di beni immobili e per gli atti di trasferimento o costitutivi di diritti immobiliari di godimento, posti in essere a favore degli del comparto, incluse in tal caso anche le imprese sociali, nel rispetto della condizione che prevede l'utilizzo diretto, in attuazione degli scopi istituzionali entro cinque anni dalla data di trasferimento; l'agevolazione è stata sollecitata in fase di predisposizione della legge delega (lett. l, art. 9) e si rende applicabile se il legale rappresentante dell'ente dichiara in atto, contestualmente, la destinazione del bene.
In caso di mancato rispetto dell'impegno o di dichiarazione mendace, le imposte sono dovute nella misura ordinaria, quindi proporzionale, e si rende applicabile una sanzione pari al 30% con aggravio degli interessi di mora, applicabili a partire dalla data in cui l'imposta dovuta avrebbe dovuto essere versata.
Si evidenzia che la detta agevolazione era rimasta in piedi fino al 2013, ma limitatamente alle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus).
Tributi locali. Il decreto di attuazione stabilisce l'esenzione da imposta municipale propria (Imu) e da tributo sui servizi indivisibili (Tasi) per gli immobili, posseduti dagli enti in commento, purché «esclusivamente» destinati allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, di religione e culto.
Le condizioni per l'ottenimento dell'esonero sono l'utilizzo esclusivo per l'esercizio di dette attività, restando esclusi gli immobili utilizzati esclusivamente per le attività commerciali o anche in modo promiscuo, e l'esercizio delle attività indicate con modalità non commerciali da intendersi, in particolare, come gestione autonoma e organizzata delle stesse.
Imposta di bollo e CC.GG.. Con un ulteriore intervento, il legislatore introduce, in maniera generalizzata, l'esenzione da imposta di bollo di tutti gli atti, documenti, istanze, contratti, copie conformi, estratti, certificazioni, dichiarazioni, attestazioni e, si dispone testualmente, di «ogni altro documento, cartaceo o informatico in qualunque modo denominato» posto in essere o richiesto dagli enti del Terzo Settore.
Sempre sul tema dei tributi locali, quelli diversi da quelli appena indicati, è stata inserita una norma di carattere generale, con la quale è data facoltà ai comuni, alle province, alle città metropolitane e alle regioni, di deliberare esenzioni e riduzioni discrezionali, con possibile alleggerimento anche degli adempimenti connessi.
Prevista, infine, l'esenzione della tassa di concessione governativa per gli atti e i provvedimenti degli enti del Terzo Settore.
Irap. Possibile il riconoscimento dell'esenzione e/o la riduzione dell'imposta regionale sulle attività produttive (Irap), di cui al dlgs. 446/1997, ma in tal caso nel pieno rispetto di quanto previsto dalla normativa comunitaria e di quanto indicato dalla Corte di giustizia dell'Ue.
Imposta sugli intrattenimenti. Posto l'obbligo di comunicazione preventiva alla Siae dell'evento, sono esentate dall'imposta sugli intrattenimenti le attività ricreative svolte in occasione o in concomitanza di celebrazioni, ricorrenze o campagne di sensibilizzazione da parte degli enti del Terzo Settore (articolo ItaliaOggi Sette del 24.07.2017).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIL'impresa fuori legge chiude. In caso di impiego di lavoratori in nero gli ispettori Inps e Inail dispongono la sospensione.
Gli ispettori dell'Inps e dell'Inail possono chiudere l'attività d'impresa. Dal 10 luglio il personale di vigilanza degli enti previdenziali deve adottare il provvedimento di sospensione dell'attività d'impresa (e anche procedere alla revoca), con specifico riferimento all'impiego di lavoratori «in nero».
Più ispettori in campo. La novità è arrivata da una nota interna del 20 giugno, con cui l'Inl ha fornito indicazioni a tutto il proprio personale di vigilanza, composto adesso non solo dagli ispettori del ministero del lavoro, ma anche dagli ispettori di Inps e Inail.
In particolare, l'istituzione dell'Ispettorato (Inl) a seguito del Jobs act, ha determinato che anche il personale degli istituti di previdenza è tenuto a procedere, con specifico riferimento all'impiego dei lavoratori «in nero», sia ad adottare il provvedimento di sospensione che la sua revoca, a far data dal 10 luglio.
Tali provvedimenti di sospensione, ha spiegato l'Inl, devono essere tempestivamente comunicati alla Itl di competenza (la sede territoriale dell'ispettorato, ex Dpl poi divenute Dtl) e potrà essere revocata dal seguente personale ispettivo: dallo stesso personale ispettivo che ha adottato il provvedimento (sia Inl, sia Inps, sia Inail); da altro personale ispettivo (sia Inl, sia Inps, sia Inail); dal dirigente della sede territoriale dell'Inl o da suo delegato. Con l'occasione delle nuove indicazioni operative, l'Inl ha fornito le Faq in materia di sospensione dell'attività imprenditoriale (altri chiarimenti su ItaliaOggi dell'8 luglio).
Lo stop all'attività. È il caso di ricordare che lo stop forzoso all'attività d'impresa è un provvedimento che può essere emesso in sede d'ispezione, ai sensi dell'art. 14, comma 1, del T.u. sicurezza (dlgs n. 81/2008), nel caso di:
   a) impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale lavoratori presenti sul luogo di lavoro, salvo che il lavoratore irregolare risulti l'unico occupato dall'impresa; oppure
   b) di gravi e reiterate violazioni in materia di sicurezza sul lavoro (si veda tabella).
Esclusi professioni e onlus. In una Faq, l'Inl ribadisce che lo studio professionale non può essere «chiuso» dall'ispettore, neppure in presenza di lavoro nero. La sospensione riguarda l'attività imprenditoriale, spiega l'Inl, intesa come attività economica organizzata, esercitata in modo professionale al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi. Tali caratteristiche non si riscontrano nei casi di studi professionali e neppure di altre categorie di soggetti quali onlus, associazioni culturali e altre associazioni senza scopo di lucro.
Il calcolo dei lavoratori in nero. È stato chiesto di chiarire se, ai fini della individuazione della «base di computo» sulla quale calcolare la percentuale di lavoratori «in nero», vanno conteggiati i lavoratori sopraggiunti nel corso dell'accesso ispettivo.
L'Inl ha spiegato che, al fine di evitare possibili comportamenti «opportunistici» da parte del datore di lavoro sottoposto a ispezione, la base di computo su cui calcolare la percentuale di lavoratori «in nero» ai fini dell'emanazione del provvedimento di sospensione, andrà individuata dall'ispettore alla luce della «fotografia» di quanto riscontrato al momento dell'ingresso in azienda.
Pertanto, laddove sopraggiungano lavoratori nel corso dell'accesso ispettivo (ferma restando la contestabilità della maxi-sanzione per lavoro «nero» in sede di verbalizzazione unica), nella base di computo sulla quale calcolare la percentuale di lavoratori «in nero» vanno conteggiati esclusivamente i lavoratori trovati all'atto dell'ingresso in azienda.
Fuori i soci amministratori. Il socio amministratore non rientra nella nozione di lavoratore (ex art. 2, comma 1, del dlgs n. 81/2008) e, pertanto, non va computato nella base di calcolo «attesa la sostanziale diversità che intercorre tra coloro che, prestando attività a favore dell'impresa, rivestono la carica di amministratori e sono dotati, pertanto, dei tipici poteri datoriali e chi invece, pur appartenendo alla compagine societaria non dispone di tali poteri gestori».
I lavoratori distaccati. I lavoratori regolarmente distaccati vanno computati nella base di calcolo ai fini dell'adozione della sospensione nei confronti del datore di lavoro distaccatario, come lavoratori occupati.
L'art. 14 del dlgs n. 81/2008, spiega una Faq, prevede che venga disposto il provvedimento di sospensione quando sia riscontrato l'impiego di personale non risultante da documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20% del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro.
I lavoratori distaccati, pur formalmente in forza presso il distaccante, sono di fatto inseriti nell'organizzazione aziendale del distaccatario, il quale ne coordina l'attività ed esercita nei loro confronti il potere direttivo e di controllo. Inoltre, ai sensi dell'art. 3, comma 6, del dlgs n. 81/2008, sono a carico del distaccatario «tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato». Tanto premesso, l'Inl precisa che i lavoratori distaccati vanno considerati come lavoratori presenti sul posto di lavoro e devono essere computati nella base di calcolo ai fini dell'adozione del provvedimento di sospensione nei confronti del distaccatario che ne è l'effettivo utilizzatore.
Arresto per chi non ottempera alla sospensione. In caso di inottemperanza all'ordine di sospensione, il datore di lavoro è punito con l'arresto da tre a sei mesi o con ammenda da 2.500 a 6.400 euro nelle ipotesi di sospensione per lavoro irregolare e con l'arresto fino a sei mesi nelle ipotesi di sospensione per gravi e reiterate violazioni in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
Secondo il ministero del lavoro, l'inottemperanza alla sospensione per occupazione di lavoratori in nero, in quanto sanzionata con pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda, rientra nell'ambito applicativo della prescrizione obbligatoria (la cui disciplina è dettata dall'art. 301 del T.u. sicurezza).
In particolare, il T.u. prevede che «alle contravvenzioni in materia di igiene, salute e sicurezza sul lavoro previste dal presente decreto nonché da altre disposizioni aventi forza di legge, per le quali sia prevista la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda ovvero la pena della sola ammenda, si applicano le disposizioni in materia di prescrizione ed estinzione del reato di cui agli articoli 20, e seguenti, del decreto legislativo 19.12.1994, n. 758».
In ordine al suo contenuto, secondo il ministero del lavoro la prescrizione consisterà nel sospendere l'attività imprenditoriale sino ad avvenuta regolarizzazione dei lavoratori interessati, perché la prescrizione è legata necessariamente al raggiungimento del fine ultimo che il legislatore ha perseguito nell'introdurre il potere di sospensione, istituto evidentemente «strumentale» ad una sollecita regolarizzazione delle violazioni accertate. Pertanto, ne deriva pure che l'adempimento alla prescrizione obbligatoria, attraverso la regolarizzazione completa delle posizioni lavorative e l'ottenimento della revoca della sospensione attraverso il pagamento della somma aggiuntiva prevista, consentirà l'ammissione al pagamento di un quarto del massimo dell'ammenda (pari a euro 1.600).
Per quanto riguarda l'inottemperanza al provvedimento di sospensione emesso per gravi e reiterate violazioni prevenzionistiche, è prevista la sanzione dell'arresto sino a sei mesi, evidentemente non ammessa a prescrizione obbligatoria. In tal caso il personale ispettivo provvede esclusivamente a informare l'autorità giudiziaria della commissione del reato, ferma restando la possibilità, da parte dell'imputato, di richiedere al giudice l'applicazione della procedura agevolativa (di cui all'articolo 302 del T.u. sicurezza) (articolo ItaliaOggi Sette del 17.07.2017).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIVia, obiettivo semplificazione. Risposte p.a. in tempi ridotti. Meno dossier da presentare. Dal 21 luglio in vigore la riforma della procedura per la valutazione d'impatto ambientale.
Stretta sui termini di risposta della p.a. sull'impatto ambientale di un progetto, ma con il parallelo alleggerimento della documentazione che il proponente deve presentare in sede di valutazione. Unificazione delle procedure di Via nazionali e regionali, con l'introduzione però degli ulteriori meccanismi burocratici del «pre-screening» e del «provvedimento unico» ambientale.

Molte le novità della riforma sulla valutazione di impatto ambientale previste dal dlgs 16.06.2017 n. 104 emanato in attuazione della direttiva 2014/52/Ue.
Le nuove regole, pubblicate sulla G.U. del 06.07.2017 e in vigore dal giorno 21, riformulano le disposizioni contenute nella parte seconda del dlgs 152/2006 (cosiddetto «Codice ambientale») rivedendo anche i rapporti con la vicina «autorizzazione integrata ambientale» (cosiddetta «Aia»).
L'impatto ambientale da valutare. Il dlgs 104/2017 ridefinisce il concetto di impatto ambientale, che da «alterazione» delle varie componenti dell'ambiente individuate dall'articolo 5 del dlgs 152/2006 viene traslato al plurale e coincide ora con gli effetti significativi, diretti e indiretti, di un piano, di un programma o di un progetto, sui seguenti fattori: popolazione e salute umana; biodiversità, con particolare attenzione alle specie e agli habitat protetti in virtù della direttiva 92/43/Cee e della direttiva 2009/147/Ce; territorio, suolo, acqua, aria e clima; beni materiali, patrimonio culturale, paesaggio; interazione tra i fattori sopra elencati.
Questo, però, senza più contemplare l'impatto «cumulativo» previsto invece dall'uscente definizione ex dlgs 152/2006.
Screening e pre-screening. Alleggerita la fase di «screening», quale «verifica di assoggettabilità» a Via di un progetto, attivata allo scopo di valutare, ove previsto, se un progetto determina potenziali impatti ambientali significativi e negativi e deve essere quindi sottoposto al vero e proprio procedimento di Via.
Per affrontare la fase di «screening» sarà sufficiente presentare (in base ai rinnovati articoli 5 e 19 del dlgs 152/2006) in luogo del progetto preliminare e studio di fattibilità uno «studio preliminare ambientale», quale «documento contenente le informazioni sulle caratteristiche del progetto e sui suoi probabili effetti significativi sull'ambiente». E per modifiche, estensioni o adeguamenti tecnici finalizzati a migliorare rendimento e prestazioni ambientali dei progetti sarà invece possibile attivare su base volontaria una (inedita) fase di «pre-screening».
In base al rinnovato articolo 9 del dlgs 152/2006, il soggetto che ha dubbi sulla procedura autorizzativa da intraprendere per i citati interventi potrà infatti «in ragione della presunta assenza di potenziali impatti ambientali significativi e negativi ( ) richiedere all'autorità competente, trasmettendo adeguati elementi informativi tramite apposite liste di controllo, una valutazione preliminare al fine di individuare l'eventuale procedura da avviare».
Competenze e regole procedurali. Ridisegnati i confini tra Via nazionale e regionale, con un irrobustimento della competenza ministeriale. Attraverso la rivisitazione degli allegati al dlgs 152/2006 passano infatti alla competenza statale, in considerazione alla loro valenza per l'economica nazionale, i progetti relativi ad infrastrutture e impianti energetici, salvo mirate eccezioni per strutture di stretto interesse locale.
Sempre soggetti alla Via statale i rilievi geofisici attraverso l'uso della tecnica «air gun» o di quella esplosiva. Uniformate le procedure di valutazione: «Verifica di assoggettabilità» e vera e propria Via, sia nazionale che regionale, andranno condotte sotto il tetto delle regole dettate dal riformulato dlgs 152/2006.
Alle regioni sarà consentito disciplinare l'organizzazione e le modalità di esercizio delle proprie funzioni amministrative e di introdurre, nel rispetto delle norme Ue e nazionali, ulteriori semplificazioni burocratici, con divieto però di derogare ai termini procedimentali massimi (più avanti illustrati).
Documenti progettuali. In base al nuovo articolo 20 del dlgs 152/2006, sugli elaborati progettuali da presentare ai fini del procedimento di Via si aprirà un confronto tra proponente e p.a., laddove il primo trasmetterà al secondo, in formato elettronico, una proposta di elaborati progettuali e questi esprimerà la propria valutazione «assicurando che il livello di dettaglio degli elaborati progettuali sia di qualità sufficientemente elevata e tale da consentire la compiuta valutazione degli impatti ambientali».
L'esordio del «Pua», il provvedimento unico ambientale. Con il restyling del dlgs 152/2006 esordisce il «Pua», il provvedimento unico in materia ambientale che raccogliendo in una unica licenza, assieme alla Via, i diversi ed altri necessari titoli autorizzativi promette di introdurre semplificazioni burocratiche. Ma il condizionale è d'obbligo, poiché il nuovo provvedimento unico ambientale, declinato (dai nuovi articoli 27 e 27-bis del dlgs 152/2006) in «nazionale» e «regionale» appare essere a geometria variabile.
Il «Pua nazionale» non sarà infatti obbligatorio, ma attivabile solo su istanza del soggetto interessato e limitatamente al rilascio della prima Via unitamente agli altri titoli, quali: Aia; autorizzazione a scarichi nel sottosuolo ed in acque sotterranee; autorizzazione a immersione in mare di materiali derivanti da escavi e pose in loco; autorizzazione paesaggistica e culturale; autorizzazione per vincolo idrogeologico; nulla osta di fattibilità ex disciplina «Seveso»; autorizzazione antisismica.
Il «Pua regionale» sarà invece la strada obbligatoria per ottenere la prima Via insieme agli altri necessari atti di «autorizzazioni, intese, concessioni, licenze, pareri, concerti, nulla osta e assensi comunque denominati, necessari alla realizzazione e all'esercizio del medesimo progetto e indicati puntualmente in apposito elenco predisposto dal proponente stesso».
In entrambi i casi, rinnovi e riesame di singoli atti autorizzativi dovranno però seguire le rispettive e diverse strade procedurali.
Sempre a livello trasversale, l'Aia relativa ai progetti da sottoporre a «verifica di assoggettabilità a Via» potrà essere rilasciata solo dopo l'esito negativo del suddetto screening.
I tempi burocratici. La novella legislativa promette di contenere Via e Pua statali rispettivamente entro i 195 e 325 giorni, così come entro i 235 giorni l'iter per il rilascio del provvedimento unico ambientale regionale.
I termini procedurali sono considerati «perentori» ai sensi e per gli effetti degli articoli 2, commi da 9 a 9-quater, e 2-bis, della legge 241/1990. E questo con la conseguenza, prevista dalla citata disciplina di richiamo, che la loro violazione comporterà lo scattare dei poteri sostituitivi in seno alla P.a. e la responsabilità dei dirigenti inadempimenti.
Il regime transitorio. Le nuove regole si applicheranno a tutti i procedimenti di assoggettabilità e di Via avviati a partire dal 16.05.2017 (dunque, con effetto retroattivo, per onorare gli obblighi Ue) e con il conseguente onere dei proponenti i progetti sub valutazione di effettuare le integrazioni documentali e gli ulteriori adempimenti richiesti dalle Autorità procedenti.
Resteranno sotto il pregresso regime i procedimenti Via che sono già in corso alla citata data, salva però la possibilità per i proponenti di portarli sotto la nuova disciplina mediante apposita istanza (articolo ItaliaOggi Sette del 17.07.2017).

ENTI LOCALILa privacy non può attendere. Il registro delle attività di trattamento tra le priorità. Le indicazioni del Garante in vista dell'applicazione del regolamento europeo.
Nomina del responsabile della protezione dei dati, istituzione dei registri di trattamento e preparazione delle procedure di segnalazione degli attacchi informatici subiti. Sono le tre cose che il Garante della privacy chiede agli enti pubblici di fare fin da subito, con priorità assoluta, per adeguarsi alla privacy a tinte Ue. E cioè al Regolamento 2016/679/Ue.
La nuova disciplina, spiega il Garante, impone alle amministrazioni un diverso approccio nel trattamento dei dati personali, prevede nuovi adempimenti e richiede un'intensa attività di adeguamento, preliminare alla sua definitiva applicazione a partire dal 25.05.2018.
Una normativa che, dunque, comincia a battere il tempo. Il catalogo delle cose da fare è lungo e se non inizia subito ci saranno problemi grossi, una volta che il Regolamento diventerà pienamente efficace. Anche in considerazione delle sanzioni amministrative pecuniarie prescritte per le violazioni.
Il tutto si può tradurre con: non si può aspettare quella data con le mani in mano, perché gli adempimenti non sono istantanei, ma vanno preparati e i procedimenti amministrativi sottesi hanno il loro decorso tecnico. E un anno passa in fretta. Le cose da mettere in lavorazione, tra l'altro, sono tante, ma, per il Garante, tre emergono per l'urgenza. Vediamo quali.
IL RESPONSABILE DELLA PROTEZIONE DEI DATI (RPD)
È una nuova figura che le pubbliche amministrazioni devono obbligatoriamente nominare. E il Rpd deve essere nominato in funzione delle qualità professionali e della conoscenza specialistica della normativa e della prassi in materia di protezione dati.
Il garante sottolinea la opportunità di un diretto coinvolgimento del Rpd in tutte le questioni che riguardano la protezione dei dati personali, sin dalla fase transitoria: ciò è sicuramente garanzia di qualità del risultato del processo di adeguamento in atto. In questo ambito, sono da tenere in attenta considerazione i requisiti normativi relativamente a: posizione (riferisce direttamente al vertice), indipendenza (non riceve istruzioni per quanto riguarda l'esecuzione dei compiti) e autonomia (attribuzione di risorse umane e finanziarie adeguate).
Sul punto si aggiunge che i procedimenti per la scelta del Rpd, soprattutto se esterno, prendono un po' di tempo, ad esempio per lo svolgimento di selezioni o gare. Tempi di cui tenere conto per non sforare la data del 25.05.2018.
REGISTRO DELLE ATTIVITÀ DI TRATTAMENTO
Il garante ammonisce: è essenziale avviare quanto prima la ricognizione dei trattamenti svolti e delle loro principali caratteristiche (finalità del trattamento, descrizione delle categorie di dati e interessati, categorie di destinatari cui è prevista la comunicazione, misure di sicurezza, tempi di conservazione, e ogni altra informazione che il titolare ritenga opportuna al fine di documentare le attività di trattamento svolte) funzionale all'istituzione del registro.
La ricognizione sarà l'occasione per verificare anche il rispetto dei principi fondamentali, la liceità del trattamento (verifica dell'idoneità della base giuridica) nonché l'opportunità dell'introduzione di misure a protezione dei dati fin dalla progettazione e per impostazione (privacy by design e by default): tutto ciò in modo da assicurare, entro il 25 maggio 2018, la piena conformità dei trattamenti in corso.
NOTIFICA VIOLAZIONE DEI DATI
È fondamentale, rileva il Garante, la pronta attuazione delle nuove misure relative alle violazioni dei dati personali, tenendo in particolare considerazione i criteri di attenuazione del rischio indicati dalla disciplina e individuando quanto prima idonee procedure organizzative per dare attuazione alle nuove disposizioni.
Secondo le disposizioni del Regolamento, in caso di attacco bisogna fare una notificazione al Garante e, in alcuni casi, anche agli interessati.
Anche per questo adempimento, si devono stanziare risorse, predisporre strumenti interni o acquisirli in outsourcing, assegnare personale interno o affidarsi a consulenti: tutte cose che hanno bisogno di tempo (articolo ItaliaOggi Sette del 17.07.2017).

ENTI LOCALISocietà partecipate al restyling. Modifiche degli statuti con il notaio entro il 31 luglio. Gli amministratori devono convocare le assemblee per l'adeguamento al dlgs n. 175/2016.
Gli amministratori delle società di capitali a controllo pubblico dovranno, nei prossimi giorni convocare l'assemblea che, alla presenza di un notaio, provvederà ad adeguare lo statuto alle regole introdotte dal dlgs 175/2016. Il termine per tale convocazione è stato prorogato dal dlgs 16/06/2017 n. 100 al prossimo 31 luglio.
Le previsioni del nuovo decreto. Il citato decreto legislativo n. 100/2017 (in G.U. del 26/6/2017) contiene «Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016 n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica». Il decreto correttivo è stato emanato a seguito della sentenza della Corte costituzionale (la 25/11/2016 n. 251) con la quale è stata ravvisata una violazione delle norme costituzionali sul concorso di competenze statali e regionali da parte della legge 7/8/2015 n. 124 (deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
A tale problema si è data soluzione con un testo condiviso da Regioni ed enti locali in sede di Conferenza unificata confluito nel citato dlgs n. 100/2017. La legge n. 175/2016 imponeva alle società a controllo pubblico, di cui all'art. 11 del dlgs 175/2016 (nonché alle società in house di cui all'art. 16) una serie di modificazioni finalizzate all'adeguamento statutario. Tali modifiche non operando «ope legis» dovranno essere poste in essere dalle società entro il termine non più del 31.12.2016 ma, in relazione alla proroga operata dal dlgs n. 100/2017, del 31.07.2017.
Gli obblighi di convocazione dell'assemblea. I destinatari degli obblighi di modifica sono in primis gli amministratori della società tenuti a convocare l'assemblea straordinaria nelle spa (ex art. 2365 c.c., comma 1), e qualificata nelle srl (ex art. 2479, comma 4). L'assemblea dovrà prevedere un ordine del giorno del tipo «modifiche statutarie ai sensi del dlgs 175/2016, così come modificato dal dlgs n. 100/2017» o dizioni equivalenti. In entrambe la tipologie societarie, ovviamente, i soci, per le modifiche statutarie dovranno avvalersi del notaio ex art. 2375 c.c.
Le sanzioni per amministratori e sindaci. Nel caso in cui gli amministratori ed i sindaci in sede sostitutiva, nell'ambito delle spa o nelle srl che li abbiano nominati, non abbiano provveduto alla convocazione, i componenti degli organi di amministrazione e controllo risultano passibili delle sanzioni di cui all'art. 2631 c.c., trattandosi di una specifica omissione di convocazione dell'assemblea dei soci per «caso previsto dalla legge» (la sanzione amministrativa pecuniaria all'uopo prevista va da 1.032 a 6.197 euro per ciascun componente del cda e del collegio sindacale). Qualora, di contro, l'assemblea fosse stata convocata, anche magari poi risultata deserta per mancato raggiungimento dei quorum costitutivi, nessuna responsabilità potrà essere ascritta in capo ad amministratori e sindaci.
L'intervento sostitutivo dei soci. Qualora gli amministratori e (se presenti) i sindaci non provvedano alla convocazione, ferma restando la loro responsabilità ex art. 2631 c.c., il potere di convocazione può essere esercitato dai soci secondo regole diverse, distinguendo fra spa o srl. Nelle spa, ai sensi del comma 1 dell'art. 2367 c.c. potranno richiedere all'organo amministrativo di provvedere alla convocazione 1/10 dei soci.
Gli stessi poi, in caso di prolungata inerzia degli amministratori e del Collegio sindacale (ex art. 2367, comma 2 c.c.), sono autorizzati, ai sensi dell'art. 2367, comma 2 a rivolgere apposita istanza al Presidente del Tribunale del luogo dove ha sede la società affinché questo provveda con decreto a convocare l'assemblea, designando la persona delegata a presiederla (art. 2367, comma 2 c.c.).
Nelle srl, le regole delle spa di norma non si applicano. La giurisprudenza di merito prevalente (Trib. Milano 03/07/2015; Trib. Roma 26/4/2011), recentemente suffragata dalla Cassazione (Cass. 25/05/2016 n. 10821) ritiene, infatti, che in queste società, il potere di convocare l'assemblea in caso di inerzia dell'organo amministrativo possa essere esercitato (anche qualora l'atto costitutivo nulla prevedesse a riguardo) dal socio (o dai soci) titolari di almeno un terzo delle partecipazioni.
Le modifiche al cda. L'art. 11, comma 2 del dlgs 175/2016 prevede che (salvo situazioni particolari), l'organo amministrativo delle società a controllo pubblico sia costituito da un amministratore unico. Tale previsione è stata tuttavia «edulcorata» dall'art. 7 del dlgs 100/2017 , che sostituendo il comma 3 dell'art. 11 ora prevede: «L'assemblea della società a controllo pubblico, con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri».
Ne deriva che l'assemblea straordinaria nelle Spa (o qualificata nelle srl) potrà anche decidere di mantenere l'organo pluripersonale ma dovrà da un lato giustificarlo (con le dimensioni e la complessità della gestione) e dall'altro far sì che tale opzione non determini né aggravi di costi né spese sostenibili per la società.
Ai sensi dell'art. 11, comma 9, lett. a), inoltre, nell'ambito del cda le deleghe di gestione vanno attribuite ad un solo amministratore, salvo , che l'assemblea non abbia preventivamente assegnato espressa possibilità di conferire le stesse anche al presidente.
La carica di vicepresidente va esclusa o oppure va previsto che qualora essa sia istituita in caso di assenza o impedimento del presidente, la funzione sia assolta a titolo gratuito.
Va altresì ricordato che agli amministratori (art. 11, comma 9, lett. c) dovrà essere riconosciuto solo un compenso onnicomprensivo, determinato annualmente in via anticipata con decisione dell'assemblea. Ai componenti del cda non potrà essere riconosciuto nessun gettone di presenza, né premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento delle attività, né trattamenti di fine mandato.
Anche tali limiti dovranno trovare allocazione nello statuto. Altresì vietato sarà corrispondere tfm ai componenti gli organi sociali. Non è inoltre ammesso istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società (es. comitato nomine, comitato rischi ecc.). Nelle srl, infine, ai sensi dell'art. 11, comma 5, dovrà escludersi la possibilità di ricorrere ad amministrazioni disgiuntive o congiuntive a due o più soci essendo d'obbligo avvalersi dell'amministratore unico o del cda.
I controlli. Nelle srl l'art. 3, comma 2 dispone che l'atto costitutivo o lo statuto debbano prevedere la nomina di un organo di controllo o di un revisore a prescindere dai limiti dimensionali della società (art. 3, comma 2). Ne deriva che il revisore è sempre obbligatorio ma i soci possono optare per un collegio sindacale, nonché, si ritiene per un sindaco unico. In questi ultimi casi all'organo pluripersonale o monocratico dovranno essere delegati anche i controlli contabili.
Nelle spa a controllo pubblico, inoltre, lo stesso art. 3, comma 2, prevede che la revisione legale dei conti non possa essere affidata al collegio sindacale. Ne deriva che nelle spa di questo tipo, si dovrà prevedere anche statutariamente la nomina di un revisore esterno (persona fisica o società di revisione) che affianchi il collegio sindacale.
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In house, vigilanza diretta.
Caratteristica operativa di questo tipo di società è quella di poter ricevere affidamenti diretti di contratti pubblici dalle p.a. che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto (art. 16, comma 1, dlgs 175/2016 .
Le clausole degli atti costitutivi di tali società devono consentire la possibilità per l'ente pubblico controllante (o gli enti pubblici controllanti) di esercitare direttamente la gestione e la vigilanza della società.
Fra le clausole più rilevanti che gli statuti debbono prevedere in tale tipologia societaria si ricorda, in particolare, la necessità di perseguire i seguenti obiettivi:
   1) che la società effettui oltre l'ottanta per cento del fatturato nello svolgimento dei compiti alla stessa affidati dall'ente pubblico o dagli enti pubblici soci;
   2) che la nomina e revoca degli amministratori competano al socio/soci controllante/controllanti;
   3) che le decisioni «strategiche» del cda siano subordinate ad autorizzazioni assembleari (art. 2364 n. 5 c.c. per le spa e art. 2479 c.c. per le srl) (articolo ItaliaOggi Sette del 10.07.2017).

APPALTIEconomie da ribassi d'asta con strascichi sull'esercizio.
Le economie da ribassi d'asta realizzate su opere per le quali gli enti territoriali hanno ottenuto spazi finanziari a valere sul pareggio di bilancio, se non riutilizzate, determinano l'impossibilità di beneficiare di ulteriori assegnazioni nell'esercizio finanziario successivo.

Il chiarimento arriva dal Mef all'indomani della diffusione del dm 138205 del 27/6, che disciplina gli adempimenti relativi al monitoraggio del saldo di finanza pubblica per l'esercizio in corso.
Il dm dedica particolare attenzione alla rendicontazione degli spazi acquisiti per spese di investimento, consentendo agli enti beneficiari di monitorarne l'impiego già in corso di gestione e di rideterminare il proprio saldo obiettivo finale (e il conseguente eventuale sforamento rispetto al saldo conseguito) laddove non li utilizzino integralmente.
Gli spazi (acquisiti mediante intese regionali o patti di solidarietà nazionali) sono, infatti, assegnati con specifico vincolo di destinazione, per cui gli enti che li hanno acquisiti devono tendere a un obiettivo di saldo che tenga conto del loro eventuale mancato utilizzo per le finalità per cui sono stati attribuiti.
Ma non basta. La legge 232/2016 stabilisce che, se gli spazi concessi in attuazione non sono totalmente utilizzati, l'ente sprecone non potrà beneficiare di assegnazioni nell'esercizio finanziario successivo.
Accade che gli enti chiedano cifre più alte di quelle che poi si rivelano necessarie, ad esempio perché i lavori sono aggiudicati con un ribasso d'asta. La verifica sarà rigorosa: gli spazi liberati dai ribassi dovranno essere riprogrammati o su opere complementari a quelle originarie o su altri interventi o scatteranno le penalizzazioni e l'ente l'anno successivo resterà a bocca asciutta.
Tale meccanismo è del 2017, le prime verifiche scatteranno nel 2018, mentre non vi sono conseguenze per gli enti che abbiano in tutto in parte lasciato inutilizzati spazi acquisiti negli anni scorsi (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2017).

PUBBLICO IMPIEGODoppio limite per i contratti a tempo.
Doppio limite per i contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione. La riforma al dlgs 165/2001 disposta col dlgs 75/2017 tocca anche l'art. 36, comma 2, il cui 3° periodo dispone: «I contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del decreto legislativo 15.06.2015, n. 81, escluso il diritto di precedenza che si applica al solo personale reclutato secondo le procedure di cui all'articolo 35, comma 1, lett. b), del presente decreto».
Col rinvio chiaro alla normativa vigente nel lavoro privato sul contratto a tempo determinato, non vi è più alcun dubbio: anche al lavoro pubblico si estende il tetto alle assunzioni ex art. 23, comma 1, dlgs 81/2015, ai sensi del quale «salvo diversa disposizione dei contratti collettivi non possono essere assunti lavoratori a tempo determinato in misura superiore al 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione, con un arrotondamento del decimale all'unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione. Per i datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato».
Attualmente, i contratti collettivi nazionali di lavoro non prevedono tetti diversi ai contratti a tempo determinato.
Ma potrebbero intervenire per esercitare la flessibilizzazione loro consentita al tetto, perché il limite al numero di dipendenti assumibili a tempo determinato fissato dal dlgs 81/2015 si affianca al limite finanziario ex art. 9, comma 28, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010, che consente di assumere con contratti flessibili (e, dunque, non solo col tempo determinato) solo entro il tetto del 50% di quanto speso nel 2009 (100% per gli enti locali in regola con gli obblighi di riduzione della spesa di personale). La coesistenza di questi due tetti pone il problema della prevalenza tra loro.
Laddove il limite finanziario consentisse un maggior numero di assunzioni rispetto al 20% del personale a tempo determinato in forza, gli enti sono da considerare autorizzati ad andare oltre? E, nel caso opposto, qualora il tetto del 20% del personale a tempo indeterminato fosse superiore al limite assunzionale del 2009, gli enti sarebbero autorizzati ad assumere oltre il limite finanziario? Saranno queste le domande che sul piano pratico si porranno gli operatori.
Tuttavia, è abbastanza facile immaginare che senza un intervento di coordinamento normativo o del Ccnl, prevarranno risposte restrittive: il tetto di spesa prevarrà sul limite al numero dei contratti, se questo determinasse assunzioni in numero maggiore ai fondi 2009; nel caso inverso, anche laddove le risorse riferite al 2009 fossero superiori al tetto massimo del numero dei dipendenti assumibili, in ogni caso il 20% dei dipendenti a tempo indeterminato verrebbe considerato invalicabile. L'applicazione del limite al numero di contratti attivabili non incide, invece, sugli art. 19, comma 6, dlgs 165/2001 e 110, commi 1 e 2, dlgs 267/2000, in tema di assunzioni di dirigenti a contratto a tempo determinato: infatti, l'art. 29, dlgs 81/2015 esclude espressamente l'applicazione ai dirigenti delle norme contenute nel capo del medesimo decreto dedicato al lavoro a termine.
Pertanto, per i dirigenti a contratto restano i limiti fissati dalle due norme speciali relative al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione citate prima. Semmai, per gli incarichi a contratto il problema è un altro: poiché a partire dall'approvazione delle linee di indirizzo con le quali la Funzione pubblica sbloccherà il passaggio dalle dotazioni organiche ai fabbisogni, applicare le percentuali di dirigenti a contratto previste dagli art. 19, commi 6, del dlgs 165/2001, e 110, commi 1-2, del dlgs 267/2000 sarà difficilissimo.
Infatti, la consistenza organica degli enti sarà data semplicemente dal personale in servizio e dalle risorse disponibili per le assunzioni, di volta in volta vigenti. Dunque, non vi saranno più posti della dotazione organica su cui computare i dirigenti a contratto, i quali, stando alla normativa vigente potranno essere solo extra dotazione e finanziati con le risorse assunzionali per il tempo determinato, nel caso dell'art. 19, comma 6, del dlgs 165/2001 per le p.a. statali e regionali; finanziati invece con le risorse per il tempo indeterminato nel caso degli enti locali, poiché la spesa degli incarichi a contratto ai sensi dell'art. 110 non rientra nei limiti dell'art. 9, comma 28, dl 79/2010 (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2017).

PUBBLICO IMPIEGOLavoro occasionale al via. Da lunedì la registrazione al sito dell'Inps. Circolare dell'istituto previdenziale sulle nuove prestazioni attivabili.
Debutta il nuovo lavoro occasionale. Da lunedì, infatti, datori di lavoro e lavoratori potranno registrarsi al sito Inps, accedendo alla piattaforma elettronica dedicata o chiamando al contact center.
La registrazione è un passaggio propedeutico allo svolgimento delle nuove prestazioni, attivabili con due forme contrattuali: libretto di famiglia (per i senza partita Iva) e contratto di prestazione occasionale (professionisti, imprese e partita Iva).
A spiegarlo è l'Inps nella circolare 05.07.2017 n. 107.
Due forme contrattuali. La nuova disciplina prevede che i datori di lavoro (utilizzatori) possano acquisire prestazioni di lavoro occasionale, entro certi limiti considerati al netto dei contributi e altri oneri (si veda in tabella), secondo due diverse forme contrattuali:
   • il Libretto Famiglia (per le persone fisiche non nell'esercizio di un'impresa o di una libera professione);
   • il Contratto di prestazione occasionale (per gli altri datori di lavoro: professionisti, lavoratori autonomi, imprenditori, associazioni, fondazioni ed altri enti di natura privata, Pubbliche amministrazioni).
Le differenze tra le due forme riguardano, oltre ai datori di lavoro che le possono utilizzare, le modalità e i tempi di comunicazione della prestazione, l'oggetto della prestazione e il regime dei compensi e delle contribuzioni obbligatorie.
Come attivare le nuove prestazioni. La circolare spiega che, in entrambe le ipotesi, l'attivazione delle nuove prestazioni richiede alcuni adempimenti:
   • la registrazione del datore di lavoro e del lavoratore (prestatore) attraverso piattaforma informatica gestita dall'Inps o anche tramite il contact center dell'Inps;
   • il versamento, da parte del datore di lavoro, della provvista necessaria per il pagamento delle prestazioni e dei contributi obbligatori; tale versamento va fatto attraverso F24 o con altri strumenti di pagamento elettronici. Attenzione; l'Inps precisa che, a seconda della forma di pagamento utilizzata, le somme versate sono di norma utilizzabili entro 7 giorni dal loro versamento;
   • comunicazione preventiva di lavoro occasionale da parte del datore di lavoro, tramite la stessa piattaforma online o anche mediante contact center dell'Inps.
Gli adempimenti saranno possibili da lunedì 10 luglio su www.inps.it/PrestazioniOccasionali, oppure avvalendosi dei servizi di contact center.
Pagamenti tracciabili. Le nuove prestazioni non sono retribuite dai datori di lavoro (utilizzatori), ma direttamente dall'Inps entro il giorno 15 di ogni mese con riferimento alle prestazioni svolte durante tutto il mese precedente. A tal fine, all'atto della registrazione, i prestatori devono indicare l'Iban del c/c bancario o postale, o del libretto postale ovvero della carta di credito, sul cui l'Inps potrà fare i pagamenti.
Attenzione; in caso di errata compilazione dei dati relativi all'Iban, l'Inps si tira fuori da qualsiasi forma di responsabilità in caso di erogazione del compenso a beneficiari diversi dal prestatore. In caso di mancata indicazione dell'Iban, invece, l'Inps eroga i compensi mediante bonifico bancario domiciliato pagabile presso le Poste. In tal caso, però, gli oneri di pagamento del bonifico, pari a 2,60 euro, sono a carico del lavoratore e verranno trattenuti sul compenso.
In campo i consulenti. Gli adempimenti possono essere svolti direttamente dalle soggetti interessati, oppure tramite intermediari ed enti di patronato solamente per i servizi di registrazione del prestatore e degli adempimenti relativi all'utilizzo del Libretto Famiglia (da parte di utilizzatore e prestatore) (articolo ItaliaOggi del 06.07.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Concorso pubblico sotto chiave. La privacy dei candidati blocca l'accesso generalizzato. Lo ha precisato il Garante con un parere in tema di Freedom of information act.
I temi del concorso pubblico rimangono sotto chiave. Il Foia non può essere strumentalizzato per raccogliere gli elaborati. La privacy dei singoli candidati blocca il cosiddetto accesso civico generalizzato (cioè chiesto da chiunque e senza una motivazione particolare).

È quanto precisato dal Garante con il provvedimento 24.05.2017 n. 246, nel quale si precisa che chi ha un interesse diretto, concreto e attuale (ad esempio impugnare l'esito del concorso) non perderà nulla, perché potrà sempre chiedere copia degli atti utilizzando il diverso accesso documentale previsto dalla legge 241/1990.
Nel caso concreto siamo di fronte alla richiesta di accesso civico per avere copie delle prove scritte corrette e valutate (ben 254 elaborati) di un concorso a posti di commissario di Polizia di stato, richiesta presentata da un soggetto che non ha partecipato al concorso. Il problema è se con l'accesso civico si possono dare in copia gli elaborati scritti di prove concorsuali.
Il Garante sottolinea che l'elaborato scritto presentato a un concorso pubblico è, in linea di massima, indicativo anche di molteplici aspetti di carattere personale circa le caratteristiche individuali, relativi ad esempio alla preparazione professionale, alla cultura, alle capacità di espressione, o al carattere del candidato, che costituiscono aspetti valutabili nella selezione dei partecipanti. Non solo. In alcuni casi, e a seconda della traccia sottoposta, il contenuto degli elaborati può essere potenzialmente capace di rivelare anche informazioni e convinzioni che possono rientrare nella categoria dei dati sensibili, in particolare questi riguarda le tracce su temi storici o di cultura generale che potrebbero rivelare opinioni politiche, convinzioni filosofiche o di altro genere.
In merito alla richiesta di copia degli elaborati scritti relativi a prove concorsuali, il garante ritiene che l'accesso è suscettibile di determinare, a seconda delle ipotesi e del contesto in cui possono essere utilizzati da terzi, un pregiudizio concreto alla tutela della protezione dei dati personali. Le norme prevedono, però, la possibilità di accordare un accesso civico parziale, con omissis o schermature di parti dei documenti.
In proposito il Garante avverte che anche se si fornisce la copia degli elaborati priva dell'associazione ai dati personali identificativi dei candidati, poiché gli elaborati scritti delle procedure concorsuali sono redatti di proprio pugno dai candidati, non si può escludere completamente la possibilità di re-indentificare a posteriori il soggetto interessato tramite la conoscenza o la comparazione della relativa grafia.
C'è poi ancora un'altra possibile causa ostativa: l'elaborato è il risultato di un'opera creativa intellettuale del candidato e non è escluso che si possa opporre all'accesso l'esistenza di interessi legati alla proprietà intellettuale o al diritto d'autore. Chi vuole avere i temi di altri partecipanti al concorso deve dimostrare di avere i requisiti dell'accesso previsto dalla legge 241/1990 e cioè un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso (articolo ItaliaOggi Sette del 03.07.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIADistributori, bonifica al titolare. Torna il tacito rinnovo per tutte le polizze ramo danni. La Camera dà via libera al ddl Concorrenza. Telemarketing, stop al consenso in diretta.
Obbligo di bonifica a carico dei titolari dei distributori di carburante dismessi quando ne viene accertata la contaminazione dei terreni sottostanti.

Lo prevede la nuova versione del ddl concorrenza, approvata ieri alla Camera con 218 voti favorevoli, 124 contrari e 36 astenuti (tra cui Mdp). Il testo è atteso ora in Senato per la quarta lettura.
Sono cinque le novità introdotte alla Camera; oltre alla norma sui distributori, si concentrano su assicurazioni, telemarketing, energia e società di odontoiatria.
Distributori di carburante. È l'unica modifica non introdotta in commissione ma direttamente dal passaggio in Aula. L'emendamento, a firma M5s, garantisce l'obbligo di bonifica dei terreni precedentemente utilizzati come distributori di carburanti. A carico dei titolari degli impianti si avrà l'obbligo di rimuovere le strutture interrate se il sito viene riutilizzato. Senza riutilizzo, invece, nel caso venga accertata la contaminazione, i precedenti proprietari dovranno farsi carico della bonifica dei predetti terreni.
Assicurazioni. Viene soppresso il divieto di tacito rinnovo delle polizze ramo danni di ogni tipologia. L'emendamento, approvato in commissione Attività produttive, prima firma Michele Pelillo (Pd), dà quindi la possibilità di rinnovo delle polizze alle stesse condizioni del periodo di copertura precedente alla scadenza, ma rischia di eliminare vantaggi in termini di competitività secondo l'opinione espressa da operatori del settore. Il ddl introduce sconti per gli automobilisti che accettano di inserire scatole nere e apparati simili all'interno delle vetture, oltre che per i guidatori meno soggetti a incidenti nelle aree a più alta concentrazione degli stessi.
Telemarketing. Abolita la norma, introdotta in seconda lettura del ddl al Senato, che prevedeva l'accettazione della chiamata da parte del destinatario senza tener conto del consenso preventivo dello stesso e, invece, istituiva la possibilità di richiedere il consenso in diretta, una volta che il destinatario avesse appreso le informazioni relative alla natura della chiamata e al soggetto per cui veniva effettuata.
Energia. Viene soppressa la disposizione che offriva la possibilità di mettere all'asta la fornitura di energia elettrica per gli utenti che, al momento della scadenza del regime tutelato in programma al primo luglio 2018, non avessero scelto uno specifico operatore per la fornitura di energia.
Società di odontoiatri. Introdotti vincoli più restrittivi per le società di odontoiatri. Ognuna di esse dovrà avere un direttore sanitario che risulti iscritto all'albo della categoria. Viene inoltre previsto che l'esercizio della professione all'interno delle suddette strutture sia consentito esclusivamente a chi abbia l'abilitazione necessaria ad esercitarlo. Dopo quasi 900 giorni di attesa, il testo andrà in Senato per la definitiva approvazione oppure per l'ennesimo rinvio (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIncentivi ai tecnici solo se c’è il direttore dell’esecuzione.
Gli incentivi per forniture e servizi possono essere assegnati solo quando risulti obbligatorio incaricare un direttore dell’esecuzione diverso dal responsabile unico del procedimento.

Non può che essere letta in questo modo la previsione dell’articolo 113, comma 2, ultimo periodo, del dlgs 50/2016 come modificata dal decreto «correttivo», ai sensi del quale «la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione».
La previsione introdotta dal dlgs 56/2017 ha lo scopo chiarissimo di limitare quanto più possibile la spesa per incentivazione delle attività tecniche connesse agli appalti per l’acquisizione di beni e servizi, per evitare una crescita incontrollabile della spesa del personale. Sarebbe fin troppo facile eludere la norma, nominando sempre espressamente un direttore dell’esecuzione per ciascuna fornitura e ciascun servizio: significherebbe vanificare totalmente lo scopo della riforma.
Pare necessario, allora, leggere la previsione dell’articolo 113, comma 2, del codice dei contratti in stretta connessione con il punto 10 delle Linee Guida Anac 3/2016, dedicate al Rup di servizi e forniture.
Tale punto 10 evidenzia cinque casi nei quali il responsabile unico del procedimento non può coincidere col direttore dell’esecuzione:
   a) quando si tratta prestazioni di importo superiore a 500 mila euro;
   b) per interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   c) per prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico);
   d) se si tratta di interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
   e) per ragioni concernente l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.
Solo quando ricorrono queste ipotesi, da specificare e motivare in profondità nei provvedimenti con cui si incarica un direttore dell’esecuzione diverso dal responsabile unico del procedimento, appare possibile innescare l’incentivo. Ovviamente, nulla esclude che anche non ricorrendo le 5 ipotesi previste dal codice ciascuna amministrazione per fare fronte a particolari proprie esigenze organizzative disponga comunque di non far coincidere l’incarico di Rup con quello di direttore dell’esecuzione.
Il regolamento sull’assegnazione degli incentivi, allora, in questo caso dovrà essere estremamente chiaro nell’escludere che spetti la ripartizione degli incentivi (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

ENTI LOCALIPartecipate, vademecum Anci. Le assunzioni non sono ancora congelate.
Le società partecipate possono avviare e concludere le procedure di assunzione di personale fino alla data di pubblicazione del decreto del ministro del lavoro che stabilirà le modalità di trasmissione alle regioni degli elenchi degli esuberi. Solo dopo la pubblicazione del dm, infatti, scatterà il divieto di assunzioni a tempo indeterminato che resterà in vigore fino al 30.06.2018, proprio per consentire alle società di coprire eventuali carenze di personale esclusivamente attingendo agli elenchi di cui sopra.

È uno dei tanti chiarimenti a beneficio dei comuni e delle società a controllo pubblico contenuti nell'ultimo quaderno operativo che l'Anci ha dedicato al Testo unico delle partecipate (dlgs n. 175/2016), ormai pienamente a regime dopo la pubblicazione in Gazzetta e l'entrata in vigore del decreto correttivo (dlgs n. 100/2017).
Il quaderno è composto innanzitutto da un'utile nota di lettura del T.u., così come integrato e corretto dalle ultime modifiche introdotte per venire incontro alle richieste degli enti locali. Seguono due tabelle con lo scadenzario degli adempimenti a carico degli enti locali e delle società. A cominciare dalla prima data da segnare sul calendario, il prossimo 31 luglio entro cui gli statuti sociali dovranno essere adeguati alla riforma. Per finire uno schema di delibera (si veda modello in pagina) per la revisione straordinaria delle partecipazioni, che il consiglio comunale dovrà approvare entro il 30 settembre, e una proposta di statuto per le società a responsabilità limitata in house.
Il quaderno della collana «Manuali tecnici per amministratori» è stato predisposto dal gruppo di lavoro coordinato dal vicesegretario Anci, Stefania Dota in collaborazione con lo studio Narducci ed è scaricabile gratuitamente dal sito web dell'Anci cliccando qui (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

LAVORI PUBBLICIOpere, arriva il débat public. Per grandi infrastrutture e se lo chiedono 50 mila cittadini. Pronto lo schema di decreto che potrebbe presto approdare sul tavolo del cdm.
Pronto lo schema di decreto che introduce il dibattito pubblico per le grandi infrastrutture. Il «débat public» sarà applicabile per opere di importo superiore ai 200 milioni e anche quando lo richiederanno 50 mila cittadini o il progettista. Sarà gestito da un esperto selezionato da un elenco istituito ad hoc e dovrà concludersi al massimo entro cinque mesi.

Sono questi i punti principali dello schema di dpcm predisposto dal ministero delle infrastrutture e inviato al ministero dei beni culturali e a quello dell'ambiente per il «concerto». Dopo il via libera dei ministeri il testo sarà approvato in via preliminare dal consiglio dei ministri e poi trasmesso alle competenti commissioni parlamentari di camera e senato e al Consiglio di stato per i rispettivi pareri, prima di tornare in consiglio dei ministri per il varo definitivo.
Dal punto di vista dell'ambito di applicazione oggettivo, lo schema di decreto (che attua il disposto del codice dei contratti pubblici) prevede che il dibattito pubblico sa avviato per le opere di importo minimo compreso tra i 200 e i 500 milioni di euro, importi variabili in base alla tipologia di intervento. È inoltre stabilito che sia obbligatorio su richiesta delle amministrazioni centrali (presidenza del consiglio e ministeri) e degli enti locali (più di 100 mila abitanti) o su richiesta di almeno 50 mila cittadini. Il soggetto proponente l'intervento sarà invece sempre libero di chiedere il dibattito pubblico.
Oggetto del dibattito sarà la redazione progetto di fattibilità tecnico-economica e la finalità sarà quella di individuare le alternative progettuali sulle quali, quindi, il proponente può ancora intervenire in fase progettuale.
La procedura durerà quattro mesi prorogabili di altri due, se necessario. Il dibattito pubblico verrà gestito da una figura professionale selezionata ad hoc attraverso procedure di evidenza pubblica scelti fra soggetti idonei ricompresi nell'elenco dei fornitori elaborato dalla Commissione nazionale per il dibattito pubblico prevista dallo stesso decreto. Si tratterà di un soggetto indipendente che svolgerà il proprio compito in autonomia in coordinamento con il proponente dell'intervento e con il progettista.
Il dibattito pubblico sarà anticipato da una fase dedicata alla progettazione del processo decisionale (massimo tre mesi) e dovrà tenere conto delle caratteristiche dell'intervento e delle peculiarità del contesto sociale e territoriale di riferimento; in sostanza si concretizzerà in incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, oltre che nella raccolta di proposte e di posizioni da parte di cittadini e altri soggetti interessati
Al termine delle consultazioni, il proponente avrà tre mesi di tempo per presentare una relazione conclusiva da cui dovrà emergere la volontà o meno di realizzare l'intervento, le eventuali modifiche apportate al progetto e le ragioni che hanno condotto a non accogliere eventuali proposte.
A fianco del proponente opererà un comitato di monitoraggio composto dagli enti locali direttamente coinvolti dall'intervento allora dopo di contribuire alla definizione delle modalità di svolgimento del dibattito pubblico, collaborare alla realizzazione e alla supervisione del dibattito, concorrere alla soluzione dei problemi e delle criticità che eventualmente si manifestino durante il dibattito, nonché contribuire alla discussione e alla valutazione delle proposte emerse nel corso del dibattito pubblico (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

APPALTIL'albo dei commissari slitta a fine anno. Per gare d'appalto e concessioni. Lo propone l'Anac.
Slitta a fine 2017, da fine giugno, il termine per mettere a punto l'albo dei commissari di gara di appalti e concessioni pubbliche. Le stazioni appaltanti avranno l'obbligo di segnalare all'Anac la nomina dei commissari di gara entro tre giorni. Sarà ammesso non prevedere coperture assicurative per i commissari di gara.

Sono questi i principali effetti previsti dalla proposta di adeguamento delle linee guida n. 3 dell'Autorità nazionale Anticorruzione sui commissari di gara di cui è scaduto mercoledì scorso il termine per l'invio delle osservazioni. L'adeguamento delle linee guida sulla disciplina dei commissari di gara, uno dei cardini della riforma del nuovo codice appalti, è dovuto all'entrata in vigore del dlgs 56/2017, l'Autorità ha ritenuto opportuno procedere all'aggiornamento delle linee guida n. 5/2016 per tenere conto delle modifiche normative apportate dal decreto 56 e per tarare le linee guida su alcuni elementi di sviluppo del processo informatico di iscrizione e aggiornamento dell'albo delle commissioni giudicatrici, oltre che, infine, di alcuni suggerimenti pervenuti da operatori del settore.
In base al codice dei contratti pubblici, come risultante dal decreto correttivo, fra le altre cose è previsto l'obbligo di scegliere il presidente delle commissioni di gara tra gli esperti selezionati dall'Autorità per gli affidamenti relativi a contratti per i servizi e le forniture di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, per i lavori di importo inferiore a un milione di euro o per quelli che non presentano particolare complessità.
Il documento Anac, che verosimilmente sarà mantenuto nella sua impostazione di fondo, prevede innanzitutto che per contratti a elevato contenuto tecnologico o innovativo la stazione appaltante, entro 30 giorni antecedenti il termine per la richiesta, invii una richiesta motivata all'Autorità per selezionare i componenti al proprio interno.
Sempre a carico della stazione appaltante viene previsto l'obbligo di comunicare all'Autorità entro tre giorni l'avvenuta pubblicazione della commissione di gara.
Il software di acquisizione dei dati e il regolamento potranno eventualmente definire un eventuale dettaglio dei dati da comunicare. Fra i requisiti per essere iscritti all'albo è stato inserito anche l'eventuale titolo di formazione specifica (master, dottorato, Phd), valutabile oltre che con riferimento alla contrattualistica pubblica anche in relazione ai settori di competenza.
Si prevede inoltre la possibilità dell'assenza di una copertura assicurativa nei casi in cui i commissari siano dipendenti della stazione appaltante che li richiede come componenti interni.
Infine è stato spostato da fine giugno a fine dicembre di quest'anno il termine per l'adozione del Regolamento dell'Authority anticorruzione di funzionamento dell'albo, uno degli adempimenti propedeutici al reale avvio del nuovo sistema di nomina dei commissari.
Sarà infatti necessaria anche l'approvazione di un decreto del ministero delle infrastrutture che fissi le tariffe e il tetto ai compensi dei commissari. Fino a quel momento si potranno nominare commissari interni (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).

EDILIZIA PRIVATAFeste, sindaci in campo. Verifiche preliminari e valutazione rischi. Nota del Viminale ai comuni sulla sicurezza nelle manifestazioni estive.
Feste e manifestazioni estive in massima sicurezza previa valutazione dei rischi anche da parte del Comitato provinciale per l'ordine pubblico. Ma in prima battuta spetterà ai soggetti organizzatori e ai comuni attivare assieme alle forze dell'ordine tutte le verifiche preliminari finalizzate a evitare il sovraffollamento e una valutazione complessiva dei rischi.

Lo ha chiarito il Ministero dell'Interno con la nota 19.06.2017 n. 11464 di prot..
I recenti fatti di Torino hanno evidenziato la necessità di potenziare sia i dispositivi fisici a tutela delle persone (safety), sia i servizi di ordine e sicurezza pubblica (security), in caso di manifestazioni pubbliche.
Per questo motivo il capo della polizia ha adottato la circolare del 7 giugno (si veda ItaliaOggi del 16/06/2017) indirizzata agli organi dello stato. Ed ora il Viminale ha fornito indicazioni di dettaglio anche ai comuni, tramite le prefetture, specificamente dedicate alle misure fisiche di sicurezza delle piazze e delle manifestazioni. La spirito delle indicazioni centrali è quello di raccordare i sindaci e la polizia locale con le altre forze dell'ordine per effettuare una valutazione specifica del quadro complessivo dei rischi connessi ad ogni singola manifestazione.
Dal confronto tra amministratori comunali, polizia locale, carabinieri e polizia di stato potrà emergere la necessità di coinvolgere anche il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, in un'ottica di sicurezza integrata. Gli eventi da analizzare preventivamente, specifica la circolare, sono tutte le manifestazioni di piazza, a prescindere dal numero previsto dei partecipanti. Anche se si tratta di eventi che non richiedono l'attivazione dei comitati comunali e provinciali di vigilanza sui pubblici spettacoli.
Servirà un approccio flessibile alle singole manifestazioni per individuare un quadro complessivo dei rischi che non può essere correlato solo al numero delle persone presenti, prosegue la nota. La criticità di un determinato evento, prosegue il ministero, «discende da un insieme di fattori oggettivi di contesto, su cui incidono, al di là del mero dato numerico dei partecipanti, anche concomitanti fattori contestuali, come, per esempio, la particolare conformazione o dimensione del luogo di svolgimento della manifestazione».
Attenzione alle manifestazioni di tipo statico e a quelle di tipo dinamico. In particolare per quelle itineranti occorrerà individuare fattori ulteriori di vulnerabilità durante l'itinerario. Anche se non è necessaria l'attivazione delle commissioni comunali o provinciali sui locali di pubblico spettacolo il Viminale consiglia di fare riferimento alla normativa sottesa come utile parametro valutativo dei rischi. Al ricorrere di condizioni straordinarie, prosegue la nota, il comitato provinciale per l'ordine pubblico potrà sempre imporre ulteriori precauzioni.
E in questo caso saranno soprattutto i vigili del fuoco a fornire istruzioni ad hoc. Particolarmente importante risulta infine il piano di emergenza, da adottare a cura dell'organizzatore. E per evitare il sovraffollamento delle manifestazioni anche ad accesso libero sarà necessario utilizzare apparecchi conta persone oppure potenziare il servizio di vigilanza privata.
Un ultimo profilo di rischio risulta correlato alla possibile propagazione degli effetti di panico collegati o connessi al verificarsi di eventi imprevedibili anche di carattere naturale.
Questa condizioni sono fronteggiabili solo con adeguate misure di prevenzione e di valutazione preventiva del deflusso delle persone. Anche potenziando il servizio antincendio nelle manifestazioni, conclude la nota (articolo ItaliaOggi del 29.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Ammessi gli avvocati dipendenti. Proposta cgil. Cancellare l'incompatibilità per gli avvocati sans papier.
Lo prevede una proposta di legge (Atto Camera n. 4408 - Modifica all'articolo 19 della legge 31.12.2012, n. 247, in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato) presentata ieri dalla Cgil, che modifica un articolo del nuovo ordinamento forense eliminando l'incompatibilità tra lavoro dipendente e autonoma professione di avvocato.
In particolare, l'incompatibilità «non si verifica per gli avvocati che svolgano attività di lavoro dipendente, o parasubordinato in via esclusiva presso lo studio di un altro avvocato, o associazione professionale o società tra avvocati o multidisciplinare», purché «la natura dell'attività svolta dall'avvocato riguardi esclusivamente quella riconducibile ad attività propria della professione forense».
Pertanto, «al lavoratore saranno applicate le norme del contratto collettivo nazionale di riferimento». L'iniziativa del sindacato è stata concordata con alcune associazioni di categoria, tra cui l'Associazione nazionale forense. «Il progetto di legge depositato dall'onorevole Chiara Gribaudo», afferma il segretario generale, Luigi Pansini, «testimonia la sua attenzione al rapporto la tra legge ordinamentale forense e idea del lavoro autonomo.
In considerazione anche dell'appoggio dato all'elaborazione della proposta dalla Cgil possiamo auspicare che ci sia finalmente all'orizzonte un intervento organico sulla situazione lavorativa degli avvocati mono committenti, che sono e dovranno essere sempre avvocati». «La spinosa situazione degli avvocati che esercitano in regime di mono committenza», continua Pansini, «si protrae da tempo, tanto che la stessa Cgil sul tema ha meritoriamente preso le mosse dalle elaborazioni dell'Anf del 2010 e del 2012.
Negli anni non vi è mai stato un intervento preciso e mirato e nel frattempo la situazione ha visto dei sostanziali mutamenti in quanto nel 2012 è entrata in vigore una legge ordinamentale che, sebbene, come da noi più volte denunciato, sia nata vecchia, incide sull'attività anche dell'avvocato mono committente che può svolgersi in varie forme e con modalità differenti pur mantenendo inalterate specificità, natura e funzioni» (articolo ItaliaOggi del 29.06.2017).

VARIObbligo di stima della casa se la banca la vende. Studio del notariato affronta il caso del mutuo non pagato.
Obbligo di stima della casa se la banca la vende per rientrare del mutuo non pagato. Il debitore deve poter contare sul fatto che la banca non si limiterà a spuntare un prezzo pari al credito, ma si adopererà per spuntare il prezzo più alto possibile, parametrato al valore dell'immobile, magari con una eccedenza per il consumatore.
L'equilibrio tra le posizioni della banca e del mutuatario è suggerito dallo
studio 08.06.2017 n. 1-2017/C, della commissione studi civilistici del Consiglio nazionale notariato, dedicato alle riforme in tema di garanzie del credito bancario.
Patto Marciano. Nei mutui per l'acquisto della casa la legge prevede il patto marcino, cioè la facoltà per la banca di acquisire o mettere in vendita il bene finanziato, rivalendosi sul ricavato e con versamento al debitore dell'eventuale eccedenze rispetto al residuo debito e con liberazione dalle obbligazioni del mutuo (esdebitazione).
Lo studio dei notai affronta il problema se l'istituto funziona diversamente a seconda che si preveda l'acquisto (o la restituzione) della proprietà del bene da parte della banca, oppure la facoltà della banca di procedere alla vendita dell'immobile a terzi. Nel primo caso la tutela della posizione del mutuatario sarebbe più forte, in quanto il valore dell'immobile viene determinato mediante stima successiva alla scadenza del debito redatta da un perito indipendente.
Nel secondo caso, invece, la tutela del debitore sarebbe nelle mani della banca e rimessa alla capacità della stessa di spuntare sul mercato il miglior prezzo di realizzo, da considerarsi il punto di raffronto per rilevare l'eventuale eccedenza dello stesso rispetto al debito residuo (da dare al consumatore). Questa opzione potrebbe interpretarsi nel senso che non vi sia una stima successiva all'inadempimento che determini il valore del bene confidando in una convergenza di interessi, che in realtà non c'è. L'interesse della banca è di avere un prezzo almeno pari al debito residuo, mentre quello del consumatore è di ottenere un prezzo superiore al debito residuo.
I notai consigliano un'interpretazione nel senso che è sempre necessaria una stima successiva all'inadempimento per determinare il prezzo al quale eseguire la vendita a terzi, Senza la stima del bene, lasciando che la banca venda liberamente sul mercato, sarebbe troppo forte il rischio di sacrifici sproporzionati per il debitore, rispetto all'importo del debito garantito, perché non vi sarebbe alcuna verifica sul reale valore di mercato del bene.
Prestito vitalizio. È il finanziamento agli ultrasessantenni dietro ipoteca sulla casa e rimborso a carico degli eredi, La legge il potere della banca di soddisfarsi direttamente sul bene oggetto di garanzia e soprattutto prevedendo la esdebitazione degli eredi del beneficiario del prestito. Questo finanziamento pone comunque problemi interpretativi in caso di vendita del bene da parte del debitore.
Per tutela della banca, i notai ritengono necessario dare conto della legittimazione del finanziatore a vendere il bene in sede di iscrizione dell'ipoteca, trattandosi di ipoteca con effetti speciali. La vendita da parte del debitore potrebbe essere stipulata, ma non regge rispetto all'alienazione successivamente effettuata dalla banca. Pertanto, in caso di vendita del bene oggetto di garanzia da parte del titolare, in capo alla banca permane il potere di vendita anche se è cambiato il proprietario. La banca, quindi, potrà quindi vendere il bene e venderlo libero da diritti reali minori o ipoteche che possono averlo gravato successivamente all'iscrizione dell'ipoteca a garanzia del prestito vitalizio.
L'eventuale supero deve essere distribuito dal finanziatore agli aventi diritto In alternativa alla vendita diretta la banca può optare per la procedura esecutiva ordinaria, facendo valere la sua qualità di creditore ipotecario. In ogni caso, qualunque sia il procedimento di esecuzione adottato, opera l'esdebitazione in quanto tale effetto è collegato al tipo di finanziamento e non al procedimento di attuazione del credito adottato dal finanziatore (articolo ItaliaOggi del 28.06.2017).

TRIBUTIDichiarazioni Imu, no duplicati. Esentato il coltivatore che ha presentato il modello Ici. Si è espresso il dipartimento delle finanze del Mef: vanno denunciate eventuali modifiche.
L'obbligo di presentazione delle dichiarazioni Imu, il cui termine scade il prossimo 30 giugno, non deve essere assolto se i contribuenti hanno già presentato in passato la dichiarazione, anche per l'Ici, e non sono intervenute medio tempore delle variazioni. Le dichiarazioni sono ultrattive e producono effetti anche per gli anni successivi se i contribuenti non devono denunciare modifiche intervenute sulla loro posizione soggettiva, anche per quanto concerne il diritto a fruire delle agevolazioni fiscali.

In questi termini si è di recente espresso il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia (risoluzione 3/DF) in merito all'esenzione dall'imposta municipale sui terreni, che spetta a coltivatori diretti e imprenditori agricoli in presenza dei requisiti di legge.
Gli agricoltori, dunque, hanno diritto all'esenzione Imu se a suo tempo hanno presentato la dichiarazione e non sono intervenute modifiche che possono pregiudicare il loro diritto a beneficiare del trattamento agevolato.
L'esenzione per i terreni agricoli. Secondo il ministero, i coltivatori non sono «tenuti a presentare nuovamente la dichiarazione Imu, dal momento che il comune è già in possesso delle informazioni necessarie per il riconoscimento delle agevolazioni previste dalla legge». Ribadisce che le riduzioni vanno dichiarate sia nel caso in cui si acquista sia in quello in cui si perde il relativo diritto. Tuttavia, l'adempimento non va osservato se il comune è già in possesso delle informazioni necessarie «per verificare la sussistenza dei requisiti richiesti per il riconoscimento dell'esenzione dall'Imu».
L'adempimento è imposto, invece, se la qualificazione soggettiva di coltivatore o imprenditore agricolo ha subito variazioni rispetto all'anno precedente. Sempre il ministero in passato ha precisato che l'esenzione Imu spetta a tutti i titolari di terreni sia agricoli che incolti. Ancorché la norma di legge preveda espressamente l'esenzione Imu per i terreni agricoli, i benefici si estendono a tutti i terreni indipendentemente dalla loro coltivazione.
Per suffragare questa interpretazione viene richiamata una pronuncia della Cassazione (7369/2012), secondo cui la nozione civilistica di terreno agricolo «va intesa nel senso che il presupposto dell'imposta resta integrato in presenza del possesso di terreni suscettibili di essere destinati a tale utilizzo, e non in conseguenza dell'effettivo esercizio su di essi, delle attività predette».
L'articolo 1, comma 13, della legge 208/2015 stabilisce che a partire dal 2016 non sono tenuti al pagamento dell'imposta i titolari di terreni montani o di collina ubicati nei comuni elencati nella circolare del ministero dell'economia e delle finanze 9/1993. Inoltre, sono esonerati i terreni agricoli posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, a prescindere dalla loro ubicazione, quelli ubicati nelle isole minori, nonché quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile.
Il legislatore, come è già avvenuto in passato, per individuare i comuni montani o di collina rinvia alla circolare ministeriale 9/1993. Quindi, non fa più fede l'elenco predisposto dall'Istituto nazionale di statistica (Istat), al quale le amministrazioni locali hanno dovuto fare riferimento per il 2015. Nell'elenco allegato alla citata circolare, redatto utilizzando i dati forniti dal ministero dell'agricoltura e delle foreste, sono indicati i comuni, suddivisi per provincia di appartenenza, sul cui territorio i terreni agricoli saranno esenti dall'imposta municipale, come previsto dall'articolo 7, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 504/1992. Se a fianco dell'indicazione del comune non è riportata alcuna annotazione, vuol dire che l'esenzione opera sull'intero territorio. Qualora, invece, sia riportata l'annotazione parzialmente delimitato «PD», l'agevolazione sarà circoscritta a una parte del territorio.
Questo comporta che negli enti montani e di collina non sono più richiesti requisiti soggettivi in capo ai possessori dei terreni, ma conta solo la loro inclusione nella circolare ministeriale. Gli altri terreni, indipendentemente dalla loro ubicazione, possono invece fruire del trattamento agevolato solo se posseduti e condotti da coltivatori diretti e imprenditori agricoli professionali, iscritti nella previdenza agricola. Sono poi esonerati dal prelievo i terreni ubicati nei comuni delle isole minori di cui all'allegato A della legge 448/ 2001 e quelli a immutabile destinazione agro-silvo-pastorale a proprietà collettiva indivisibile e inusucapibile.
Contribuenti tenuti all'adempimento. Una volta stabilito, come evidenziato dal ministero, che la dichiarazione deve essere ripresentata solo in presenza di variazioni, va sottolineato però che coloro che vantino il diritto a fruire di riduzioni d'imposta non sono esonerati dal relativo obbligo. Pertanto, sono tenuti all'adempimento i titolari di fabbricati inagibili o inabitabili e di fatto non utilizzati, coloro che possiedono immobili di interesse storico o artistico.
Inoltre, vanno denunciati tutti i casi in cui l'amministrazione comunale non possiede le notizie utili per verificare la correttezza dell'operato dei contribuenti. Nello specifico, tra i casi più significativi, l'adempimento è richiesto quando: l'immobile ha formato oggetto di locazione finanziaria o di un atto di concessione amministrativa su aree demaniali; l'immobile viene concesso in locazione finanziaria, un terreno agricolo diventa area edificabile o, viceversa, l'area diviene edificabile in seguito alla demolizione di un fabbricato. Va dichiarato qualsiasi atto costitutivo, modificativo o traslativo del diritto che abbia avuto a oggetto un'area fabbricabile.
Il valore dell'area, che è quello di mercato, deve sempre essere dichiarato dal contribuente, poiché questa informazione non è presente nella banca dati catastale. Ecco perché l'obbligo non sussiste quando viene alienata un'area fabbricabile, se non ha subito modifiche il suo valore di mercato rispetto a quello dichiarato in precedenza. L'obbligo non è abolito neppure per gli immobili posseduti dalle imprese e distintamente contabilizzati, classificabili nel gruppo catastale D, che sono tenute a dichiarare il valore venale del bene sulla base delle scritture contabili, sia in aumento che in diminuzione, fino all'anno di attribuzione della rendita catastale.
La dichiarazione, poi, deve essere presentata per gli immobili relativamente ai quali siano intervenute delle modifiche rilevanti ai fini della determinazione dell'imposta dovuta e del soggetto obbligato al pagamento. Anche gli enti non commerciali che sono stati esonerati fino al 2011 dall'obbligo di presentare la dichiarazione Ici, sono invece tenuti a denunciare ai comuni gli immobili posseduti per l'Imu. Non è più applicabile per questi enti l'articolo 10 della normativa Ici (decreto legislativo 504/1992), che escludeva espressamente dall'obbligo dichiarativo gli immobili esenti.
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Termine unificato al 30 giugno.
Termine unico per le denunce Imu, Tasi e Tari. Devono infatti essere presentate entro il 30 giugno dell'anno successivo alla data di inizio del possesso o della detenzione di locali e aree. Nel caso di occupazione in comune di un immobile, la dichiarazione può essere presentata solo da uno degli obbligati. Per la Tari restano ferme le superfici già dichiarate per Tarsu, Tia1, Tia2 e Tares. All'imposta sui servizi indivisibili, invece, si applicano le stesse regole stabilite per l'imposta municipale.
Anche per la Tasi, dunque, la dichiarazione non va presentata se gli elementi rilevanti sono acquisibili attraverso la consultazione della banca dati catastale o gli enti sono già in possesso delle informazioni necessarie per verificare il corretto adempimento dell'obbligazione tributaria. Va ricordato, infine, che per la dichiarazione Tasi può essere utilizzato lo stesso modello già approvato per l'Imu.
Il dipartimento delle finanze del ministero dell'economia, con la circolare 2/2015, ha sostenuto che per l'imposta sui servizi non serve un modello di dichiarazione ad hoc e che i comuni in molti casi già dispongono delle informazioni necessarie per effettuare i controlli e gli accertamenti sui due tributi, nonostante siano diversi i soggetti passivi, vale a dire proprietari, inquilini, comodatari (articolo ItaliaOggi Sette del 26.06.2017).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAValvole, rischio sanzioni bis. Entro il 30/6 serve l'installazione. Non basta la delibera. Nonostante la proroga, non più del 70% degli immobili si è adeguato alla normativa.
Ultima chiamata per gli adempimenti in materia di termoregolazione e contabilizzazione del calore. Tra pochi giorni, ovvero il 30 giugno, scade infatti il termine per mettersi in regola con quanto previsto dal dlgs 102/2014, dopo la deroga arrivata in extremis con il c.d. decreto milleproroghe dello scorso mese di dicembre (dlgs 244/2016). Dal mese di luglio potrebbero quindi scattare i controlli orchestrati dalle amministrazioni regionali, dai quali potrebbero scaturire sanzioni pecuniarie fino a 2.500 euro sia per i condomìni che per i singoli condomini inadempienti.
Nel frattempo, proprio in queste settimane, il ministero dello sviluppo economico, con il supporto tecnico di Enea e Cti (Comitato termotecnico italiano), ha provveduto ad aggiornare i chiarimenti messi a punto per rispondere ai principali dubbi applicativi riscontrati fra gli addetti ai lavori (si veda la sintesi in tabella).
Nelle predette faq si evidenzia come non sia sufficiente per evitare le sanzioni che l'assemblea condominiale abbia deliberato l'installazione di un sistema di termoregolazione e contabilizzazione del calore. Il fatto che l'installatore incaricato non sia riuscito a rispettare i tempi per problemi tecnici o organizzativi non solleva, infatti, il condominio e i condomini dalla responsabilità di non avere rispettato i termini di legge.
L'unica possibilità per gli inadempienti, come ribadito anche nelle faq del ministero, è quella di documentare, tramite apposita relazione di un progettista o di un tecnico abilitato, l'impossibilità tecnica di provvedere all'installazione dei sottocontatori o una inefficienza in termini di costi e una sproporzione rispetto ai risparmi energetici potenziali (qualora poi sussista un impedimento anche per l'installazione di sistemi di termoregolazione e di contabilizzazione del calore da installare in corrispondenza a ciascun corpo scaldante, deve essere prodotta una ulteriore relazione tecnica di un progettista o un tecnico abilitato con specifico riferimento alla norma tecnica UNI EN 15459).
Ma la proroga di sei mesi decisa a dicembre 2016 è servita realmente a dare il tempo ai condomini ritardatari di mettersi in regola con gli adempimenti del dlgs 102/2014? Secondo quanto riferito a ItaliaOggi Sette da Qundis Gmbh, azienda che si occupa dello sviluppo di sistemi per la raccolta dei dettagli sui consumi energetici, in questo periodo il mercato non è ripartito come forse ci si aspettava, anche perché i mesi primaverili sono stati inaspettatamente freddi e molti lavori già pianificati sono slittati a giugno. A detta degli operatori, l'attività nel settore è leggermente rallentata. Solo il Piemonte e poche altre regioni hanno ripreso a lavorare a pieno regime.
Il mercato italiano, secondo Qundis, non è però saturo, essendo ragionevole ipotizzare che non più del 70% degli immobili interessati si sia adeguato alla nuova normativa. Il mese di giugno dovrebbe quindi avere registrato una forte impennata per le imprese del settore. Ma è anche prevedibile che il mercato, dopo la pausa estiva, lungi dal fermarsi, riprenda il normale ciclo di attività in autunno (articolo ItaliaOggi Sette del 26.06.2017).

ENTI LOCALI - VARIDa fine anno si parte con i semafori countdown.
Dal 19.12.2017 potranno essere installati sulle strade italiane i semafori con il countdown, purché omologati.

È infatti stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 19.06.2017 il tanto atteso
decreto 27.04.2017 del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti recante «Caratteristiche per omologare e installare dispositivi finalizzati a visualizzare il tempo residuo di accensione delle luci dei nuovi impianti semaforici», titolo così rettificato come da comunicato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 21.06.2017.
Ai sensi dell'art. 60, comma 1, della legge di riforma stradale n. 120 del 29.07.2010, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti, sentita la Conferenza stato-città e autonomie locali, avrebbe dovuto emanare entro il 12.10.2010 il decreto per definire le caratteristiche per l'omologazione e per l'installazione di dispositivi finalizzati a visualizzare il tempo residuo di accensione delle luci dei nuovi impianti semaforici.
Dopo una lunga attesa durata più di sei anno e mezzo, il decreto ministeriale del 27.04.2017, applicabile dal 19.12.2017, detta finalmente le condizioni per l'abbinamento delle tabelle contasecondi con le lanterne semaforiche, che è consentito soltanto in occasione dell'installazione di nuovi impianti semaforici o della sostituzione congiunta delle lanterne e del regolatore semaforico.
Le luci countdown dovranno essere installate in abbinamento con le lanterne semaforiche cui sono associate, in posizione autonoma, poste in alto al di sopra della luce rossa fino all'altezza massima di 4 metri dal piano viario. Le tabelle contasecondi potranno essere installate anche per regolare i sensi unici alternati temporanei istituiti in caso di cantieri stradali (articolo ItaliaOggi del 24.06.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIP.a., nuove regole per gli incarichi.
Anac pronta a vigilare e intervenire con linee guida ad hoc sull'affidamento degli incarichi legali nella p.a. A tal fine, infatti, serve un criterio che, sulla base del rapporto qualità/prezzo, valorizzi adeguatamente anche il profilo qualitativo della prestazione, dando prevalente rilievo alla competenza, al percorso formativo e alla specializzazione del professionista, invece che al solo costo.

Questo l'esito dell'incontro avvenuto nei giorni scorsi tra il presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone e il presidente dell'Unione nazionale degli avvocati amministrativisti, Umberto Fantigrossi, avente ad oggetto l'affidamento degli incarichi legali da parte delle pubbliche amministrazioni che non dispongono di avvocature interne.
«Per l'affidamento da parte di enti pubblici di servizi legali, sia che si tratti di incarichi conferiti in via diretta o su base fiduciaria, sia che si tratti di incarichi conferiti a seguito di confronto concorrenziale», ha sottolineato Fantigrossi, «è da escludere che il criterio di selezione possa essere solo il minor prezzo ovvero dal massimo ribasso. Serve, invece, un criterio che, sulla base del rapporto qualità/prezzo, valorizzi adeguatamente anche il profilo qualitativo della prestazione, assicurando la massima tutela all'interesse pubblico alla qualità della prestazione e quindi, nel contempo, al diritto di difesa».
Al termine dell'incontro il presidente Cantone ha preso atto della preoccupazione espressa dagli avvocati e ha assicurato che interverrà sul tema con un apposito atto di regolazione (articolo ItaliaOggi del 24.06.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

PATRIMONIO - VARITerre abbandonate al recupero. Prima il censimento, poi la valorizzazione dei beni. Il decreto Sud punta anche sugli immobili inutilizzati e scommette sul ruolo dei sindaci.
Ruolo cruciale dei comuni nel recupero dei terreni abbandonati o incolti e degli immobili in stato di abbandono.

È una delle novità più interessanti per gli enti locali previste dal decreto sul Mezzogiorno (dl 91/2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 141 di martedì scorso).
Il provvedimento messo a punto dal governo Gentiloni delinea un percorso che coinvolge i sindaci dapprima nel censimento di tali beni e successivamente nella individuazione, mediante appositi bandi, di adeguati progetti di valorizzazione. La misura è disciplinata dall'art. 3 del dl, il quale dispone innanzitutto che, entro tre mesi, i comuni delle regioni meridionali (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia) provvedano, nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ad una ricognizione complessiva dei propri beni immobili suscettibili di recupero.
Potrà trattarsi di terreni agricoli sui quali non sia stata esercitata l'attività agricola minima da almeno dieci anni, di terreni boschivi nei quali non siano stati attuati interventi di sfollo o diradamento negli ultimi quindici anni, ovvero anche di aree edificate ad uso industriale, artigianale, commerciale, turistico-ricettivo, che risultino in stato di abbandono da almeno quindici anni.
Terminato il censimento, partirà la fase 2: i comuni dovranno pubblicare sul proprio sito istituzionale l'elenco dei beni oggetto di ricognizione, che potranno essere dati in concessione, per un periodo non superiore a nove anni rinnovabile una sola volta, a soggetti che abbiano presentato progetti di valorizzazione. Gli interessati dovranno avere, al momento della presentazione della domanda, un'età compresa tra i 18 e i 40 anni ed aderire ad un bando predisposto dagli stessi comuni, che dovranno ovviamente assicurare una imparziale valutazione delle candidature, sulla base di criteri che premino i progetti a minore consumo di suolo e con i più elevati standard di qualità architettonica e paesaggistica.
La formale assegnazione dei beni sarà effettuata entro e non oltre sessanta giorni dall'approvazione della graduatoria, con obbligo per i beneficiari di eseguire le attività previste dai progetti approvati.
Un meccanismo simile è previsto anche per i beni privati, in tal caso nella forma dell'affitto e non della concessione.
Un'altra misura interessante per gli enti locali del Sud è quella prevista dall'art. 15, che assegna alle Prefetture uffici territoriali un ruolo di supporto tecnico e amministrativo al fine di migliorare la qualità dell'azione amministrativa, rafforzare il buon andamento, l'imparzialità e l'efficienza della loro azione amministrativa, nonché per favorire la diffusione di buone prassi, atte a conseguire più elevati livelli di coesione sociale ed a migliorare i servizi.
Questo ruolo di tutoraggio, che scatterà su richiesta delle amministrazioni interessate, sarà inizialmente svolto in via sperimentale nelle medesime regioni in precedenza citate, ma, laddove i risultati siano positivi, potrà poi essere esteso anche ad altre realtà (articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

CONSIGLIERI COMUNALISindaci e assessori più tutelati. Violenze o minacce punite col carcere fino a sette anni. Via libera definitivo della Camera alla legge che estende la protezione dei corpi politici.
Più tutele a sindaci, assessori e consiglieri locali.

La Camera dei deputati ha approvato ieri in via definitiva le norme che ampliano la portata del delitto di minaccia o violenza a un corpo politico. Ecco, in sintesi, le principali novità.
Più tutele a singoli amministratori.
Viene estesa ai singoli componenti l'attuale fattispecie che punisce, con la reclusione da uno a sette anni, ogni violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario. La formulazione allargata, in pratica, tutela i singoli amministratori locali in quanto tali, anche quando operano al di fuori dell'organismo collegiale. Nei confronti delle intimidazioni si procede d'ufficio e si può far ricorso alle intercettazioni. L'arresto in flagranza diventa obbligatorio ed è applicabile la custodia cautelare in carcere. La pena, inoltre, è aumentata fino a un terzo se la violenza o la minaccia è commessa con armi, da più persone o persona a viso coperto, da associazioni segrete o in forma anonima.
Stop minacce interdittive. Rischia da uno a sette anni anche chi minaccia o usa violenza per ottenere o impedire l'adozione di un provvedimento (anche legislativo) o a causa della sua adozione.
Aggravante da ritorsione. Scatta l'aggravante quando alcuni specifici delitti (lesioni, violenza privata, minaccia o danneggiamento) costituiscono atti intimidatori ritorsivi per un atto compiuto nell'adempimento del mandato o delle funzioni.
In questo caso la pena aumenta da un terzo alla metà. L'aggravante non si applica però se a causare l'intimidazione e' stato lo stesso amministratore eccedendo in modo arbitrario i limiti delle sue attribuzioni.
Atti intimidatori contro candidati. Intimidire un aspirante consigliere comunale costerà il carcere. Sarà punito infatti col carcere da 2 a 5 anni chi ostacola, con minacce o atti di violenza, la partecipazione a elezioni comunali o regionali.
Monitoraggio minacce contro amministratori. Vengono definiti funzionamento e composizione dell'Osservatorio sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali che ha il compito di monitorare il fenomeno intimidatorio e promuovere iniziative di formazione e a favore della legalità.
Le reazioni. «Il sì della Camera premia il nostro impegno, in un momento in cui le intimidazioni a danno dei sindaci costituiscono un fenomeno preoccupante e in aumento», commenta il presidente dell'Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro. «Lo Stato è al fianco di tutti gli amministratori locali che subiscono intimidazioni e minacce. Questo il messaggio forte della legge», fa eco Donatella Ferranti, presidente commissione Giustizia della Camera (articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti locali, via al data base. Piattaforma predisposta da Aran e Cnel.
Arriva la banca dati dei contratti integrativi delle amministrazioni pubbliche.

A renderla disponibile sono l'Aran e il Cnel che hanno predisposto un'apposita piattaforma accessibile al sito www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti integrativi (o di secondo livello) stipulati dalle amministrazioni pubbliche e dai sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti, oltre 25 mila fino ad oggi, sono inviati da ciascuna amministrazione pubblica all'Aran e al Cnel mediante la procedura di trasmissione congiunta che è attiva dal 01.10.2015.
La banca dati sarà accessibile a tutti.
I dati saranno consultabili e scaricabili mediante «filtri di ricerca» che consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per territorio di riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di ridurre i propri oneri informativi in materia di trasparenza. Le nuove norme, introdotte con il decreto Madia n. 97/2016 che ha recepito nell'ordinamento italiano il cosiddetto «Foia» (acronimo di Freedom of information act, ossia il diritto di accesso generalizzato sul modello anglosassone) sollevano infatti le amministrazioni pubbliche dall'obbligo di pubblicazione dei contratti integrativi inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno. In tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare il sito di ciascuna amministrazione, avranno a disposizione un'unica pagina web «nazionale» nella quale saranno consultabili (e scaricabili) tutti i contratti integrativi acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e istituzioni di ricerca, interessati al tema delle relazioni sindacali nella pubblica amministrazione, un importante patrimonio informativo sul quale sarà possibile effettuare elaborazioni e ricerche ad hoc
(articolo ItaliaOggi del 21.06.2017).

APPALTIDa luglio split payment esteso. Il meccanismo del versamento diretto all'Erario si applica anche ai servizi professionali.
Split payment dell'Iva ad ampio raggio: dal primo luglio prossimo, l'ambito soggettivo di applicazione del meccanismo speciale previsto dall'art. 17-ter del dpr 633/1972, che impone ai clienti il versamento del tributo direttamente all'erario anziché ai propri fornitori, raggiunge e supera quello della fatturazione elettronica obbligatoria.

Saranno infatti coinvolti tutti i soggetti ricompresi nel perimetro del bilancio pubblico consolidato, come già previsto per la «fattura p.a.», nonché le società controllate dalle amministrazioni pubbliche e le principali società quotate. Anche i professionisti, inoltre, dovranno rinunciare all'incasso dell'Iva, essendo stata cancellata la norma che escludeva dallo split payment le prestazioni di servizi sottoposte alla ritenuta d'acconto.
Vediamo più da vicino le novità introdotte dal dl 50/2017, stabilizzate dopo la conversione in legge con qualche modifica rispetto al testo originario, già autorizzate dall'Ue. Va ricordato, infatti, che lo split payment, autorizzato dal Consiglio dell'Ue, nella precedente versione, fino al 31.12.2017, con la decisione del 25.04.2017 ha incassato il «via libera», nella riedizione del dl 50, fino al 30.06.2020.
La norma fino al 30 giugno. Secondo l'art. 17-ter del dpr 633/72 nel testo antecedente alle modifiche, ancora applicabile fino al 30 giugno prossimo, il meccanismo della scissione dei pagamenti si applica alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello stato, degli organi dello stato, degli enti pubblici territoriali e dei consorzi tra essi costituiti ai sensi dell'art. 31 del dlgs n. 267/2000, delle camere di commercio, degli istituti universitari, delle aziende sanitarie locali, degli enti ospedalieri, degli enti pubblici di ricovero e cura aventi prevalente carattere scientifico, degli enti pubblici di assistenza e beneficenza e di quelli di previdenza. Sono esclusi i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito.
La norma allargata. A decorrere dalle operazioni per le quali è emessa fattura dal 01.07.2017, lo split payment si applicherà alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nei confronti:
   1. della pubblica amministrazione, come definita dall'art. 1, comma 2 della legge n. 196/2009; tale definizione comprende tutti i soggetti inseriti nel conto economico consolidato, secondo l'elenco pubblicato dall'Istat (da ultimo, G.U. n. 229 del 30.09.2016), comprese le autorità indipendenti e, in ogni caso, le amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del dlgs n. 165/2001 (ossia tutte le amministrazioni dello stato, compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello stato ad ordinamento autonomo, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le camere di commercio e loro associazioni, gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale, l'Aran, le agenzie di cui al dlgs n. 300/1999 e il Coni). Si tratta, in sostanza, dell'intera platea dei soggetti già individuati come destinatari della fattura elettronica obbligatoria, compresi dunque, per esempio, gli ordini professionali (il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti si è già attivato con una richiesta di differimento dell'applicazione della norma);
   2. delle società controllate, ai sensi dell'art. 2359, primo comma, nn. 1) e 2) del codice civile, direttamente dalla presidenza del consiglio dei ministri e dai ministeri;
   3. delle società controllate, ai sensi dell'art. 2359, primo comma, n. 1), c.c., direttamente da regioni, provincie, città metropolitane, comuni, unioni di comuni;
   4. delle società controllate direttamente o indirettamente, ai sensi dell'art. 2359, primo comma, n. 1), c.c., dalle società di cui ai precedenti punti 2 e 3, anche nel caso in cui le controllanti rientrino nel perimetro dei soggetti pubblici agli effetti del bilancio consolidato oppure fra le società di cui al successivo punto 5;
   5. delle società quotate inserite nell'indice Ftse Mib della borsa; il ministro dell'economia ha facoltà di individuare, con proprio decreto, un indice alternativo.
È stato poi abrogato il comma 2 dell'art. 17-ter, che escludeva dallo split payment i compensi per prestazioni di servizi assoggettati a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito: di conseguenza, anche le prestazioni in esame, rese nei confronti dei soggetti elencati nei commi 1 e 1-bis dell'art. 17-ter, dal 1° luglio rientreranno nel meccanismo speciale.
In sede di conversione del dl, è stato precisato che sono esclusi dal meccanismo speciale gli enti pubblici gestori di demanio collettivo, limitatamente alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi afferenti alla gestione dei diritti collettivi di uso civico; una soluzione in tal senso era già stata fornita dal governo, nel precedente quadro normativo, con una risposta ad interrogazione parlamentare del 19.03.2015.
Al fine di evitare incertezze e responsabilità dei fornitori, è stato inoltre stabilito che, a richiesta, i cessionari/committenti devono rilasciare ai cedenti/prestatori un documento con il quale attestano di rientrare tra i soggetti destinatari dello split payment. I fornitori che siano in possesso di questa attestazione sono tenuti ad applicare il meccanismo speciale.
Infine, è prevista l'emanazione di un decreto del ministro dell'economia (che avrebbe dovuto già essere emanato entro 30 giorni dal 24 aprile), recante le modalità di attuazione delle disposizioni in esame. In sostanza, sarà rivisitato il precedente decreto del 23.01.2015.
Escluse le operazioni soggette ad inversione contabile. Resta fermo, come in precedenza, l'applicabilità dello split payment alle operazioni per le quali i cessionari/committenti «non sono debitori dell'imposta ai sensi delle disposizioni in materia di imposta sul valore aggiunto».
Sono pertanto escluse dal meccanismo le operazioni soggette al regime particolare dell'inversione contabile (o reverse charge): ad esempio, le operazioni menzionate nell'art. 17, quinto e sesto comma, nell'art. 74, settimo e ottavo comma, del dpr 633/1972 (prestazioni di subappalto in edilizia, cessioni di fabbricati imponibili su opzione, prestazioni di servizi di pulizia, demolizione, installazione impianti e di completamento degli edifici, cessioni di oro, di rottami ecc.), le operazioni transfrontaliere (es. acquisti intracomunitari, acquisti di beni e servizi da fornitori esteri ecc.).
Naturalmente, affinché l'operazione rientri nel regime dell'inversione contabile (e sia quindi esclusa dallo split payment) è necessario che il cessionario/committente agisca in veste di soggetto passivo, requisito che non è richiesto, invece, ai fini dell'applicazione dello split payment.
In sostanza, il regime dell'inversione contabile, caratterizzato da profili di specialità sia oggettivi (riguarda solo alcune operazioni) che soggettivi (richiede lo status di soggetto passivo del destinatario), ha diritto di precedenza sul meccanismo, anch'esso speciale, dello split payment: pertanto, qualora sussistano i presupposti dell'inversione contabile, il cessionario/committente assume la qualifica di debitore dell'imposta e dovrà, in quanto tale, applicare l'imposta stessa all'operazione imponibile ricevuta, individuandone la base imponibile e l'aliquota, mentre il fornitore si limiterà ad emettere la fattura senza addebito dell'imposta e con l'annotazione «inversione contabile».
Esclusioni riconosciute dalla prassi. In via interpretativa, l'agenzia delle entrate ha dichiarato che lo split payment non può trovare applicazione nei seguenti casi:
   - in tutte le ipotesi in cui la fattura del fornitore, in forza di particolari disposizioni, non evidenzia l'Iva (per esempio, operazioni soggette al regime del margine, a quello dell'editoria, ecc.)
   - operazioni legittimamente non documentate da fattura, bensì da ricevuta o scontino fiscale (es. acquisti effettuati presso commercianti al minuto)
   - operazioni documentate dalle fatture semplificate di cui all'art. 21-bis, dpr 633/1972
   - particolari operazioni nelle quali il cessionario/committente non effettua alcun pagamento al fornitore, il quale ha già nella propria disponibilità il corrispettivo (ad esempio, servizi di riscossione delle entrate e altri proventi)
 - fatture emesse in dipendenza dell'esercizio del diritto di rivalsa dell'imposta pagata a seguito di accertamento, secondo le disposizioni dell'ultimo comma dell'art. 60 del dpr n. 633/1972 (articolo ItaliaOggi Sette del 19.06.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabile rifiuti, titoli doc. Esami d'idoneità da sostenere all'ingresso e in itinere. Tempistiche e regole nelle delibere nn. 6 e 7 dell'Albo gestori: nuovi requisiti dal 16 ottobre.
Titoli di studio ed esperienza ad hoc, verifica d'idoneità con esami davanti all'Albo gestori ambientali sia in ingresso che in itinere. Cambiano dal 16.10.2017 i requisiti per poter svolgere l'attività del responsabile tecnico della gestione dei rifiuti, figura obbligatoria per le imprese che effettuano professionalmente determinate attività afferenti ai residui.

A dettare tempistiche e regole di dettaglio della riforma a monte prevista dal dm 120/2014 sono le deliberazioni 30.05.2017 nn. 6 e 7 dell'Albo nazionale gestori ambientali, l'ente al quale in base al dlgs 152/2006 (il noto Codice ambientale) devo iscriversi le suddette imprese.
Chi è il responsabile tecnico. In base all'articolo 12 del citato dm 120/2014 (il regolamento sull'Albo gestori ambientali, adottato in attuazione del dlgs 152/2006) il responsabile tecnico è il soggetto interno o esterno all'organizzazione dell'impresa che ha il compito di porre in essere, mediante una attività effettiva e continuativa, azioni dirette ad assicurare la corretta organizzazione della gestione dei rifiuti da parte dell'azienda e di vigilare sull'applicazione della normativa vigente.
Un obbligo per le imprese. In base all'articolo 212 del dlgs 152/2006 (e salvo mirate eccezioni) l'iscrizione all'Albo gestori ambientali è requisito per il legittimo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione (attività formalizzate in «categorie» dall'articolo 8 del dm 120/2014).
Ai sensi dell'articolo 10 dello stesso decreto le imprese e gli enti che fanno richiesta di iscrizione all'Albo gestori ambientali devono necessariamente nominare, a pena di improcedibilità della relativa domanda, almeno un responsabile tecnico in possesso dei requisiti professionali stabiliti dal dm 120/2014 e dai regolamenti (attuativi) del Comitato nazionale dell'Albo.
I nuovi requisiti professionali ex dm 120/2014. Secondo quanto disposto dagli articoli 10, 11 e 12 del dm 120/2014, il responsabile tecnico deve essere in possesso di determinati requisiti di carattere sia generale che specifico. Ai sensi del comma 4, citato articolo 10, tra i requisiti di carattere generale vi sono l'assenza di interdizione o inabilitazione dagli uffici direttivi di persone giuridiche e imprese, l'assenza di recenti condanne per reati gravi o di settore, l'assenza di misure restrittive antimafia.
Tra i requisiti di carattere specifico, vi sono invece ex articolo 12 (che ne affida l'esatta determinazione al Comitato nazionale dell'Albo), titolo di studio, esperienza maturata nei settori di attività, idoneità attestata da una verifica della preparazione sia iniziale che di aggiornamento quinquennale.
E le regole dell'Albo gestori. L'esatta determinazione dei suddetti requisiti è arrivata con le citate due deliberazioni del Comitato nazionale dell'Albo gestori 30.05.2017 nn. 6 e 7. In relazione ai requisiti generali, la delibera 7/2017 specifica la necessità del possesso di cittadinanza italiana, comunitaria o di altro Stato che riconosca analoghi diritti. In relazione ai requisiti specifici, il combinato disposto delle due deliberazioni restituisce un sistema per cui titoli di studio ed anni di esperienza richiesti crescono in funzione della complessità dell'attività svolta (data dal volume di rifiuti gestiti così come dalla quantità di persone coinvolte).
Titoli di studio ed esperienza. La delibera 30.05.2017 n. 7 individua nel diploma di scuola secondaria il minimo titolo di accesso, con dispensa però per responsabili tecnici che già svolgono tale funzione in imprese/enti iscritte all'Albo alla data del 16.10.2017 (giorno di entrata in vigore della delibera 6/2017).
In base alla delibera 30.05.2017 n. 6 l'esperienza richiesta coincide invece con almeno un anno di attività (per arrivare a 8, in base a categoria di iscrizione e volume della sottesa attività) e deve coincidere con almeno una tra le seguenti attività: di legale rappresentante; di responsabile o direttore tecnico, dirigente, funzionario direttivo di impresa di settore; dipendente dell'azienda che ha effettuato un periodo certificato di affiancamento a un responsabile tecnico.
Verifica d'idoneità. La deliberazione 7/2017 individua come modalità di verifica una prova d'esame da sostenere in sessioni prefissate davanti alle Sezioni locali dell'Albo e costituita da 80 quesiti a risposta multipla (scelti tra i 5 mila pubblicati sul sito dell'albo e periodicamente aggiornati).
In base alla stessa delibera tali quiz verteranno per una metà su argomenti comuni a tutte le categorie di iscrizione (tra cui disciplina dell'Albo, diritto ambientale, normativa sulla sicurezza sul lavoro) e per una metà su argomenti propri delle specifiche attività (corrispondenti alle citate categorie ex dm 120/2014 di iscrizione all'Albo).
Per il superamento dell'esame occorreranno almeno 66 punti nella verifica iniziale e almeno 58 in quella di aggiornamento quinquennale. Le domande di partecipazione alle verifiche dovranno essere presentate esclusivamente in via informatica entro una precisa finestra temporale precedente le date d'esame, date delle quali la deliberazione 7/2017 definisce il primo calendario che interessa sette regioni, apripista delle quali il Veneto, con esame fissato per il 19.12.2017.
Deroghe. In base all'articolo 13 del dm 120/2014 e della deliberazione 6/2017 è dispensato dalle verifiche il legale rappresentante dell'impresa che ricopre anche l'incarico di responsabile tecnico e che abbia maturato almeno 20 anni di esperienza nel settore di attività oggetto dell'iscrizione.
Operatività nuove regole e regime transitorio. Le nuove regole su requisiti e relativa verifica acquisiscono operatività dal 16.10.2017, data di entrata in vigore della deliberazione 6/2017.
Fino a quella data: le domande relative alla nomina del responsabile tecnico presentate saranno dall'Albo istruite e deliberate ai sensi delle disposizioni precedenti alla nuova disciplina in essere; i responsabili tecnici in attività in imprese/enti già iscritte all'Albo possono continuare a svolgerla in regime transitorio per cinque anni alla scadenza dei quali dovranno poi sostenere la verifica di aggiornamento per poterla proseguire (articolo ItaliaOggi Sette del 19.06.2017).

APPALTIAvvalimento, stretta dell'Anac. Risorse e mezzi nel contratto. Anomalie segnalate dal Rup. Schema di proposta dell'Autorità anticorruzione aggiornato in base al correttivo appalti.
Contratto di avvalimento con indicazione, a pena di nullità, delle risorse e dei mezzi prestati all'impresa che ne beneficia; il prestito dei mezzi e delle risorse materiali deve escludere che l'impresa che li presta li possa utilizzare nella sua azienda. Il Rup (Responsabile unico del procedimento) deve segnalare le anomalie.

Sono queste alcune delle scelte che l'Autorità nazionale anticorruzione ha delineato e sottoposto all'attenzione degli operatori del settore, con il documento messo in consultazione pubblica ieri.
Si tratta di un primo schema della proposta che l'Autorità presieduta da Raffaele Cantone al ministero delle infrastrutture e dei trasporti per l'adozione del decreto di cui all'art. 83, comma 2, dlgs n. 50/2016. Il decreto dovrà disciplinare, tra l'altro, i casi e le modalità di avvalimento di cui all'art. 89 del codice.
Le scelte che l'Autorità ha compiuto e che ha sottoposto all'attenzione del mercato, sono state dettate dall'esigenza, emersa fortemente nell'esercizio dell'attività di vigilanza sui contratti pubblici e ribadita spesso in molte pronunce giurisprudenziali, di scongiurare che l'avvalimento si riduca ad un prestito soltanto formale di requisiti, non supportato dall'effettiva messa a disposizione di risorse umane e strumentali idonee a garantire la capacità esecutiva dell'impresa ausiliata.
Le indicazioni proposte dall'Anac, in raccordo con la consolidata giurisprudenza che si è formata anche sotto il precedente codice, vanno nella direzione di imporre l'esatta e dettagliata individuazione dei requisiti oggetto di avvalimento, di richiedere un contenuto minimo del contratto e di attribuire valenza, ai fini del conseguimento del rating di impresa, all'esito negativo dei controlli ex art. 89, comma 9, del codice.
Tutto ciò nel contesto anche delle modifiche apportate dal codice dal decreto correttivo 56/2017 che ha eliminato, dall'art. 89, l'inciso che consentiva l'avvalimento anche per la dimostrazione dei requisiti di qualificazione di cui all'art. 84 del codice (cioè quelli necessari all'attestazione Soa).
Conseguentemente, il documento di consultazione non prevede la possibilità di conseguire l'attestazione di qualificazione mediante ricorso al prestito dei requisiti di idoneità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa. Altri elementi che hanno guidato l'Anac nella predisposizione del documento sono quelli inerenti l'esigenza di assicurare, per ciascun intervento, l'equilibrio tra costi e benefici ad esso connessi. Premesso quindi che l'avvalimento deve sostanziarsi a pena di nullità in un contratto ad hoc e in una dichiarazione dell'impresa ausiliaria che attesti che non partecipa alla gara, l'Anac chiarisce che esso deve avere ad oggetto risorse e mezzi determinati e deve durare per tutta la durata del contratto.
Importante notare che, dice l'Autorità, «i mezzi e le risorse messe a disposizione dall'impresa ausiliaria devono essere destinati esclusivamente all'esecuzione dell'appalto per il tempo necessario, con l'impossibilità, per l'impresa ausiliaria, di utilizzarli nella propria attività aziendale»; non solo: la stazione appaltante deve essere messa in condizione di effettuare «una sicura verifica circa la loro effettiva disponibilità».
Inoltre, va considerato che, per quel che concerne i controlli effettuati in fase di esecuzione del contratto, «al responsabile unico del procedimento è fatto obbligo di comunicare all'Anac l'eventuale esito negativo dei controlli di cui all'art. 89, comma 9, del Codice, affinché l'Autorità possa tenerne conto ai fini del sistema di rating di impresa di cui all'art. 83, comma 10, del Codice» (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a., dotazioni organiche addio. Arriva il piano triennale dei fabbisogni di personale. Cosa cambia con la riforma del pubblico impiego. Al via la stabilizzazione dei precari.
Il dlgs n. 75 del 25.052017, di riforma del pubblico impiego, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale Serie generale n. 130 del 7 giugno scorso, unitamente a quello sulla valutazione della performance, n. 74/2017, con entrata in vigore dal prossimo 22 giugno. Tra le novità più interessanti, il ruolo della programmazione del personale e la stabilizzazione dei precari.
Viene superato il concetto di dotazione organica, in favore della programmazione del fabbisogno di personale.
Si dispone, nel testo novellato dell'art. 6 del Testo unico del pubblico impiego che le amministrazioni pubbliche definiscano l'organizzazione degli uffici, secondo le modalità e gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, previa informazione sindacale. Il ruolo centrale è assunto dal piano triennale dei fabbisogni di personale, finalizzato all'ottimale impiego delle risorse pubbliche disponibili, per perseguire obiettivi di performance organizzativa, efficienza, economicità e qualità dei servizi ai cittadini, in coerenza con l'organizzazione degli uffici, con la pianificazione pluriennale delle attività e della performance. Apposite linee di indirizzo saranno emanate in materia da pare del governo centrale.
Sulla gestione delle risorse umane, all'articolo 7 si introduce il comma 5-bis, che vieta alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che nascondano forme di rapporto di lavoro subordinato. Le modifiche intervengono in coerenza con le disposizioni del decreto legislativo n. 81/2016: si prevedono esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, a esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, per le finalità e in presenza delle condizioni già indicate dall'art. 7 vigente.
Nelle procedure concorsuali, viene introdotta la possibilità, per le p.a. di individuare idonei, in numero non superiore al venti per cento dei posti messi a concorso, con arrotondamento all'unità superiore, e di richiedere, tra i requisiti previsti per specifici profili o livelli di inquadramento, il possesso del titolo di dottore di ricerca.
Il Formez e la Commissione Ripam forniranno supporto alle amministrazioni e al dipartimento della Funzione pubblica in materia di reclutamento di personale.
Se da un lato viene deprecato e stigmatizzato il ricorso al rapporto di lavoro flessibile e precario, dall'altro si liberalizzano, per un triennio, le cosiddette «stabilizzazioni».
Sbandierato, attraverso i mass-media, come un passaggio obbligato per le amministrazioni, si tratta, in realtà di una possibilità, a scelta dell'ente, nel triennio 2018-2020, in coerenza con i propri fabbisogni e con l'indicazione della relativa copertura finanziaria, di assumere a tempo indeterminato, il personale non dirigenziale, inquadrato con contratto a tempo determinato. Il personale deve essere già stato selezionato con procedure concorsuali, aver maturato almeno tre anni di servizio, anche non continuativi, negli ultimi otto anni alle dipendenze dell'amministrazione procedente.
Nello stesso triennio si potranno stabilizzare, alle stesse condizioni e garantendo l'adeguato accesso dall'esterno, anche i lavoratori con contratti di lavoro flessibile. Questi potranno essere riservatari di procedure concorsuali, in misura non superiore al cinquanta per cento dei posti disponibili. Anche per questi lavoratori l'anzianità minima prevista è di tre anni, non continuativi, negli ultimi otto, alle dipendenze dell'ente che bandisce il concorso.
Non rileva, per entrambe le procedure, il servizio prestato negli uffici di diretta collaborazione, né quello prestato in virtù di contratti di cui all'articolo 110 del Tuel.
L'impianto della riforma sembra essere costruito per asservire le politiche assunzionali alle «direttive» degli organi politici. La sparizione della dotazione organica e delle proposte dirigenziali comporta che l'unico vincolo sia quello di carattere finanziario, in un procedimento, per definizione, ad alto rischio di corruzione. Tuttavia anche su questo versante, le norme prevedono misure, responsabilità e sanzioni esclusivamente per i pubblici funzionari.
Non è questa la strada per cambiare la pubblica amministrazione. Mutuando le parole di Pasquale Villari, nelle «Lettere meridionali»: «La mediocrità è una potenza livellatrice, vorrebbe ridurre tutti gli uomini alla sua misura, odia il genio che non comprende, detesta l'ingegno che distrugge l'armonia della sua ambita uguaglianza» (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

APPALTI - ENTI LOCALI: Dal nuovo spesometro allo split payment, le novità Iva 2017 per gli enti.
L'Iva degli enti locali delinea un quadro degli adempimenti 2017 in forte discontinuità con gli anni precedenti. Due norme sono al centro di questo vero stravolgimento: il dl n. 193 del 24/10/2016 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 225 dell'01/12/2016) e il dl n. 50 del 24/4/2017 in discussione al senato (atto senato n. 2853).
Il decreto fiscale del 2016 noto per la soppressione di Equitalia, porta la fine del vecchio Spesometro, sostituito con uno nuovo dal 2017, le nuove Comunicazioni delle liquidazioni Iva, le nuove scadenze delle Dichiarazioni Iva, la ridefinizione delle Dichiarazioni integrative.
A febbraio 2017 la Circolare n. 1/E dell'Agenzia delle entrate chiariva come il nuovo Spesometro interessasse dal 2017 anche gli enti locali, essendo venute meno le peculiarità che non rendevano applicabile quello precedente. I comuni e le diverse amministrazioni pubbliche escluse ogni anno dall'adempimento con Provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate, dovranno ora comunicare quattro volte l'anno le fatture emesse e ricevute, non transitate attraverso la piattaforma di interscambio (non in forma di fattura elettronica).
Unica facilitazione, per il solo 2017, l'accorpamento delle scadenze che da trimestrali diventano semestrali (16 settembre, e 28 febbraio dell'anno successivo). Quest'agevolazione non riguarda l'altro adempimento che comincia dal 2017, la Comunicazione delle l4iquidazioni Iva. In questo caso le scadenze restano quattro, aggiungendosi alle date citate per il nuovo Spesometro, quelle del 31 maggio e del 30 novembre. Il quadro sanzionatorio di questi due adempimenti non è dei più teneri ma sembra appurato che in entrambi i casi i contribuenti potranno avvalersi di sanzioni ridotte e del ravvedimento.
La dichiarazione annuale Iva si conferma definitivamente fuori dal modello Unico, cosa peraltro inevitabile già dal 2008, anno di fuoriuscita di quella Irap. La scadenza per quella del 2017 è stata il 28 febbraio e sarà il 30 aprile per le successive. La novità di maggior rilievo del decreto fiscale del 2016 è però quella che uniforma, estendendoli all'indietro di cinque anni, i termini per trasmettere le dichiarazioni integrative, facendo scomparire qualsiasi distinzione tra quelle a favore e le altre. Si allineano i tempi di integrazione a quelli per l'accertamento ma, a ben vedere, anche a quelli previsti per i poteri sanzionatori della Corte dei conti.
È bene ricordare che i maggiori crediti emergenti dall'integrativa di un anno, oltre i termini di trasmissione di quello successivo, possono essere spesi solo per pagare debiti sorti nell'anno successivo a quello in cui si integra.
Il secondo decreto (dl n. 50 del 24/04/2017), del 2017, risponde dal punto di vista fiscale agli impegni presi dall'Italia con Bruxelles a febbraio 2017 con la lettera del ministro Padoan.
Lo Split payment si allarga verso nuovi committenti e nuovi percettori per le fatture emesse da luglio 2017. Ad aggiungersi sono le società partecipate dagli enti centrali e locali, fino a considerare le società quotate all'indice Ftse Mib della Borsa italiana, fuori dal comparto pubblico. L'applicazione si dovrebbe estendere anche ai professionisti con ritenuta, fino a ora esclusi. La decisione del Consiglio Ue 2017/784 del 25/4/2017 (G.U. UE 6/5/2017) ha inoltre protratto il periodo di validità dello Split al 30.06.2020 e qualsiasi speranza legata al fatto che il decreto non sia ancora stato convertito in Legge impatta contro la considerazione che questo è legato al rientro dell'Italia nei parametri richiesti dall'Europa.
Altre due novità sono in sintesi l'obbligo di registrare le fatture di acquisto rilevanti nell'anno di ricezione delle stesse e la loro detraibilità al più tardi entro l'anno in cui sorge il diritto alla detrazione. Queste prescrizioni, unite all'imposizione di comunicare le liquidazioni periodiche, comporterà un forte spostamento da gestioni Iva fatte una volta l'anno ad altre fatte su base mensile, più onerose ma capaci di difendere da sanzioni e interessi.
Laddove queste nuove impostazioni permettano agli Enti locali di maturare o anche solo di conservare crediti Iva, interviene un'ultima voce del Decreto del 2017 in conversione che abbassa il limite per l'utilizzo degli importi in compensazione (mediante quindi F24 per pagare altre imposte) da 15.000,00 a soli 5.000,00. Novità che impongono maggiore attenzione da parte degli enti (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

ATTI AMMINISTRATIVICon il Foia diritto di accesso anche per finalità di marketing. Imprese libere di ottenere dati e documenti per promuovere la vendita di prodotti e servizi.
Sdoganato il «Foia-marketing»: dalla p.a. si possono ottenere con facilità dati e documenti per finalità commerciali.

La circolare 30.05.2017 n. 2/2017 del ministro della funzione pubblica sul «Foia» (acronimo di «Freedom of information act», libertà di accesso civico alle informazioni della p.a.), specifica che tra le possibili motivazioni della richiesta di accesso generalizzato (previsto dal dlgs 33/2013, come modificato dal dlgs 97/2016) ci sono anche gli scopi commerciali delle imprese. Tra gli scopi commerciali, è legittimo inserire anche la finalità di promuovere le vendita di prodotti e servizi e cioè tutta l'attività che generalmente si censisce sotto il nome di marketing.
L'accesso civico generalizzato è, dunque, la chiave per ottenere l'accesso a una miniera di informazioni appetibili per il mercato e per le imprese.
L'indicazione di apertura alle finalità commerciali accompagna l'illustrazione, operata dalla circolare ministeriale, della disciplina della trasparenza delle pubbliche amministrazioni (centrali e locali) dopo le modifiche introdotte dal dlgs 97/2016. Con il comma 2 dell'art. 5 dlgs. 33/2013 (inserito dal decreto 97/16), la p.a. è disegnata come una «casa di vetro».
La circolare 2/2017 si occupa degli aspetti procedurali e va ad aggiungersi alle linee guida dell'Autorità nazionale anticorruzione (determinazione 1309 del 28/12/2016), che si è invece occupata dei limiti all'accesso generalizzato posti da interessi pubblici (segreto di stato, sicurezza nazionale, ecc.) e da interessi privati (privacy delle persone fisiche, riservatezza industriale e societaria ecc.).
La circolare è ispirata al massimo favore per le imprese e i cittadini che intendono ottenere dati e documenti da un ente pubblico. Non a caso il documento ha suscitato la reazione critica del garante della privacy.
Il punto più importante della circolare è in fondo al suo allegato 1, dedicato alla presentazione della richiesta.
La lettera f) dell'allegato 1 spiega che l'impresa o il cittadino che fanno la richiesta non sono obbligati ma possono essere invitati a dichiarare lo scopo della richiesta. L'allegato esemplifica alcune scelte e l'ultima di queste opzioni (da inserire nel modulo di richiesta predisposto dalla singola p.a.) è «per finalità commerciali».
C'è dunque l'indicazione ufficiale da parte del ministero che l'accesso civico generalizzato può avere una finalità commerciale. Più chiaro di così. Può partire allora il «Foia-marketing».
L'indicazione è in netto contrasto con quanto indicato dal garante della privacy a proposito di un altro accesso civico, quello disciplinato da un diverso comma, il primo, dell'art. 5 del dlgs sulla trasparenza: si tratta della richiesta alla p.a. di pubblicare sul sito le informazioni che per legge devono essere pubblicate (per esempio il curriculum dei dirigenti o i dato reddituali degli organi politici).
A proposito di questo comma il garante, nelle sue linee guida (deliberazione 243 del 15.05.2014) indicava casi di illiceità per fini di marketing dei dati pubblicati nella sezione «amministrazione trasparente»). Le letture da parte delle diverse autorità sono evidentemente diverse. E ci si chiede se basta un comma a fare la differenza. D'altra parte ci si potrebbe chiedere se effettivamente la finalità commerciale sia compresa nelle finalità dell'accesso civico generalizzato previste dall'art. 5, comma 2 del dlgs 33/2013: «Favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull'utilizzo delle risorse pubbliche e promuovere la partecipazione al dibattito pubblico».
Probabilmente nella circolare 2/2017 si ritiene che il perseguimento dello scopo commerciale è funzionale alla partecipazione al dibattito pubblico.
Si deve, peraltro, ricordare che una finalità commerciale può essere desunta dalla qualifica del soggetto richiedente e che in ogni caso le p.a. devono bilanciare questo interesse economico con gli interessi pubblici e privati e valutare se conta di più evitare un pregiudizio ai diritti individuali.
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L'analisi. Procedure semplici in teoria, piene di ostacoli nella pratica.
Il nuovo Foia o diritto di accesso generalizzato: sulla carta una strada tutta in discesa, nella realtà un percorso accidentato pieno di contraddizioni anche per la diversità dei soggetti chiamati a tutelare i vari interessi in gioco.
Con il Foia le imprese possono condividere i dati e i documenti delle pubbliche amministrazioni. Senza limitazioni formali e ostruzionismi.
La p.a. non può dire di no, per cavilli procedurali, a una richiesta di accesso generalizzato e l'identificazione del richiedente serve solo per mandare i documenti alla persona giusta. A disegnare questa corsia preferenziale per le imprese, nella richiesta di informazioni al settore pubblico, è la circolare del ministro della funzione pubblica, Marianna Madia, n. 2/2017, del 30.05.2017, che si occupa del decreto legislativo 97/2016 e più in dettaglio delle modifiche dallo stesso apportate al decreto 33/2013, noto come decreto sulla trasparenza.
È il decreto 97/2016 ad aver introdotto l'accesso civico generalizzato, ispirato ai principi dell'omologo americano «Freedom of information act», che ha ormai superato il mezzo secolo dalla sua adozione negli Usa.
Si tratta del diritto di chiunque a chiedere dati e documenti a qualsiasi p.a. senza dovere dimostrare un particolare titolo e senza dovere dichiarare una particolare motivazione.
Ci sono però limiti a questo accesso. I limiti sono dettati dalla legge a tutela di interessi pubblici (come i segreti di stato) o privati (come la privacy).
Questa breve descrizione introduce l'argomento dell'equilibrio assolutamente instabile in cui si trova l'accesso generalizzato.
In questo momento storico, infatti, sul tema i protagonisti stanno tirando i capi della fune in un senso o nell'altro e, ad un osservatore esterno, il Foia appare come un camaleonte.
La circolare del ministero della funzione pubblica, a firma del ministro Marianna Madia, scommette sulla condivisione (nessuna possibilità di restrizione della dei dati fruibili a mezzo di regolamenti locali; nessuna possibilità di scremare le richieste con il controllo di un titolo legittimante; fino ad arrivare alla regola tendenziale della prevalenza della trasparenza nei casi dubbi).
Ma non tutti la pensano così e il diritto di accesso «Foia» assume toni cangianti: altri importanti attori (garante della privacy in primis) vedono un Foia-camaleonte di colore diverso (con portata e limitazioni differenti). E può essere che la possibilità di assumere tratti, a volte antitetici e contraddittori, sia uno stratagemma per consentire la sopravvivenza dell'istituto in diversi habitat.
Le conseguenze problematiche di questo sono a carico dei due interlocutori: la singola p.a. e la persona fisica alla quale si riferiscono informazioni contenute in atti e documenti. Tutto ciò in un quadro in cui, particolare non trascurabile, tante autorità hanno poteri sanzionatori e, comunque, il cittadino può fare causa per ottenere il risarcimento del danno.
Proviamo a osservare più da vicino.
Un cittadino o un'impresa rivolgono un'istanza di accesso generalizzato (articolo 5 del dlgs 33/2013).
Secondo la circolare della funzione pubblica non va identificato per capire se ha diritto ad avere dati e documenti, ma solo per spedire quanto richiesto alla persona giusta o per evitare doppi invii: chiunque sia ha diritto.
Ma il Consiglio di stato sul punto dice che si deve valutare la posizione legittimante, quindi il richiedente deve essere identificato per capire anche se ha diritto di rivolgere la richiesta. A chi dare ascolto?
Ma andiamo avanti. Bisogna esaminare la richiesta. L'ufficio della p.a. potrà farlo con propri regolamenti, o solo sulla base di disposizioni di legge (di una vaghezza siderale)? La circolare della funzione pubblica dice che i singoli enti pubblici non possono definire limiti ed eccezioni all'accesso generalizzato con propri regolamenti: bisogna attenersi alle regole di legge e alla giurisprudenza europea. Ma il garante della privacy invoca limiti precisi (e ciò farebbe pensare a una lista delle esclusioni o a qualcosa che le somigli molto).
Poi l'autorità anticorruzione dice che i rifiuti all'accesso documentale bloccano anche il generalizzato: e però i rifiuti al documentale possono avere come riferimento i singoli regolamenti degli enti (che rientrerebbero dalla finestra). Come fare?
Bisogna, poi, vedere se ci sono terzi, la cui privacy potrebbe essere danneggiata.
Per la funzione pubblica il solo essere nominati negli atti non significa avere il diritto alla privacy. Ma il garante della privacy ammonisce che, così, facendo, si ispira lassismo. Come comportarsi?
Si avanti con la pratica e rimane, comunque, il dubbio: vince la trasparenza o vince la privacy? La circolare della funzione pubblica non tentenna: vince la trasparenza.
A questo punto storce il capo il garante della privacy, ma lo storcono anche gli estensori del Foia che, mentre compilavano la relazione di accompagnamento, illustravano che la legge implicitamente pretendeva la ponderazione (ma quale piatto della bilancia pesa di più non è stato disposto).
Infine il funzionario si determina a dire di no, ma deve motivare.
La funzione pubblica, da un lato, sembra restringere in un angolino le chance di questo «no», ma l'articolo 5-bis del Foia ha un elenco delle possibili motivazioni del «no» lunghe come un igienico rotolone. Dall'altro lato, il garante della privacy si chiede sconsolato come farà il singolo funzionario a fare il bilanciamento se un piatto della bilancia è e deve rimanere vacuo.
Su uno sfondo costituzionale molto vintage, l'imparzialità e il buon andamento della p.a. amaramente abbozzano. A questo punto, un documento interno, con una casistica, per carità non vincolante, che non impedisca la valutazione «caso per caso», ma che possa essere solo uno spunto iniziale per comportarsi in maniera omogenea, almeno nel singolo ente, non può ritenersi una brutta idea.
D'altra parte se è vero che la circolare del ministro confessa che il Foia serve a «condividere con la collettività il proprio patrimonio di informazioni» (qualcuno avrà il retropensiero che questo serva per alimentare il business con i big data), è altrettanto vero che questa condivisione deve avere delle regole e non può essere fatta sulle spalle della privacy del cittadino.
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L'informazione passa dai social. Amministrazioni ed enti pubblici esortati a comunicare tramite Facebook e Twitter.
Largo alla p.a. sui social network. Anziché stare ad aspettare le istanze di accesso gli enti pubblici devono postare e twittare. La circolare 2/2017 del ministro della funzione pubblica sull'acceso civico generalizzato (art 5, comma 2, dlgs 33/2013) consiglia caldamente la cosiddetta trasparenza «proattiva»: monitorare la rete e vedere cosa richiesto e caricarlo sui social.
Queste e altre istruzioni per l'uso sono indicate nella circolare, che sposta l'ago della bilancia verso forme di trasparenza estrema. Ma vediamo in dettaglio le prescrizioni ministeriali.
Richiesta. Non si può dichiarare inammissibile una domanda di accesso generalizzato per motivi formali o procedurali.
Nel caso di domanda generica o esplorativa (per accertare il possesso di dati o documenti), l'amministrazione non deve respingerla subito, ma deve assistere il richiedente e invitarlo per iscritto a ridefinire l'oggetto della domanda o a indicare gli elementi sufficienti.
Identificazione. L'identificazione del richiedente non è necessaria ai fini dell'esercizio del diritto. Tuttavia, l'identificazione è indispensabile per la gestione delle domande: per esempio, per rispondere alla persona giusta.
In caso di richiesta anonima, l'amministrazione deve comunicare al richiedente la necessità di identificarsi.
Non puoi dirmi di no. Nel caso di differimento o diniego parziale, deve essere fornita adeguata motivazione.
Non è legittimo un diniego di accesso in base all'argomento che i dati o documenti richiesti risalirebbero a una data anteriore alla entrata in vigore del dlgs n. 33/2013 o del dlgs n. 97/2016.
L'accesso non può essere negato perché la conoscibilità dei dati potrebbe provocare un generico danno all'amministrazione o alla professionalità delle persone coinvolte; oppure per generiche ragioni di confidenzialità delle informazioni; o ancora per ragioni di opportunità, derivanti dalla insussistente opportunità o necessità di consultare gli organi di indirizzo politico.
Media. In caso di domande di accesso provenienti da giornalisti e organi di stampa le p.a. devono verificare con la massima cura la veridicità e la attualità dei dati e dei documenti rilasciati, per evitare diffusione di informazioni non affidabili o non aggiornate.
Richieste massive. Per dire di no a richiese massive la p.a. deve fornire una adeguata prova, della manifesta irragionevolezza dell'onere che una accurata trattazione della domanda comporterebbe.
Dialogo. Le amministrazioni devono adoperarsi per soddisfare l'interesse conoscitivo su cui si fondano le domande di accesso, evitando atteggiamenti ostruzionistici.
È necessario un «dialogo cooperativo» con il richiedente in tutti i passaggi salienti per rimediare a irregolarità e incompletezza della domanda, per indicare le modalità di invio per riferire la decisione finale.
Regolamenti. Le amministrazioni non possono individuare con regolamento, circolare o altro atto interno le categorie di atti sottratti all'accesso generalizzato.
Presentazione. Le domande presentate alle pubbliche amministrazioni per via telematica sono valide se inviate da un indirizzo di posta elettronica certificata o non certificata; se nel messaggio di posta elettronica è indicato il nome del richiedente (senza necessità di sottoscrizione autografa); e se è allegata al messaggio una copia del documento di identità del richiedente.
Inoltre le p.a. sono invitate a mettere in funzione un help desk.
Tempi. Il procedimento si deve concludere entro 30 giorni dalla presentazione della domanda.
Se non si rispetta il termine l'interessato può attivare la procedura di riesame e di proporre ricorso al giudice amministrativo.
Sforare espone il dipendente pubblico a gravi conseguenze: deve essere segnalato sia all'ufficio di disciplina, sia al vertice politico dell'amministrazione e agli organi cui compete la valutazione della dirigenza e delle performance individuali (articolo ItaliaOggi Sette del 12.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIOpere, placet ambientale unico. Al posto delle abilitazioni e autorizzazioni sui lavori statali. CONSIGLIO DEI MINISTRI/ Via libera al decreto legislativo che semplifica la Via e la Vas.
Arriva il provvedimento unico ambientale per i progetti assoggettati a valutazione di impatto ambientale statale; sostituisce tutti i titoli abilitativi e autorizzativi. Introdotto il pre-screening sul progetto per individuare l'eventuale procedura da avviare; completa digitalizzazione degli oneri informativi; razionalizzazione del riparto delle competenze stato-regioni; nuove norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale.

Sono solo alcune delle novità contenute nel decreto approvato ieri in via definitiva dal Consiglio dei ministri, che attua che la direttiva 2014/52/Ue sulla valutazione dell'impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati.
In particolare, il decreto precisa in modo puntuale quali progetti, di competenza statale devono essere sottoposti a una previa verifica di assoggettabilità a Via (pre-screening). E quali progetti, invece, devono essere sottoposti direttamente a Via senza uno screening preventivo, in linea con quanto previsto dalla direttiva europea di riferimento.
Per i progetti assoggettati a Via statale, il proponente potrà richiedere, in alternativa al provvedimento di Via ordinario (comprensivo della sola valutazione d'incidenza, cosiddetta «Vinca», laddove necessaria), il rilascio di un provvedimento unico ambientale, che coordina e sostituisce tutti i titoli abilitativi o autorizzativi, comunque riconducibili ai fattori «ambientali» da prendere in considerazione ai fini della Via. Il decreto elimina, per la verifica di assoggettabilità a Via, l'obbligo, per il proponente, di presentare gli elaborati progettuali (progetto preliminare o studio di fattibilità). Sarà quindi effettuato uno screening sulla base, esclusivamente, dello studio preliminare ambientale, secondo quanto previsto dalla normativa Ue.
Invece, per i procedimenti di Via, sarà ammessa la presentazione di elaborati progettuali di livello equivalente al «progetto di fattibilità», di cui al codice dei contratti pubblici (ex preliminare del «Codice De Lise»), o, comunque, con un livello tale da consentire la compiuta valutazione degli impatti ambientali, con la possibilità di aprire, in qualsiasi momento, una fase di confronto con l'autorità competente, finalizzata a condividere la definizione del livello di dettaglio degli elaborati progettuali necessari allo svolgimento della procedura.
Viene, invece, eliminata la fase di consultazione formale del pubblico nella procedura di verifica di assoggettabilità a Via, non richiesta dalla normativa europea.
Quindi, viene abrogato il dpcm 27.12.1988, recante le norme tecniche per la redazione degli studi di impatto ambientale (Sia), sostituito dal nuovo Allegato VII alla seconda parte del dlgs n. 152/2006.
Sulla «Commissione Via», il decreto precisa che i commissari sono nominati dal ministro dell'ambiente, senza obbligo di esperire procedura concorsuale, con motivazione sul possesso, da parte dei soggetti prescelti, dei necessari requisiti. Prevista la riduzione complessiva dei tempi per la conclusione dei procedimenti, abbinata alla qualificazione di tutti i termini come «perentori».
Il decreto definisce inoltre regole omogenee per il procedimento di Via su tutto il territorio nazionale, con conseguente rimodulazione delle competenze normative delle regioni, alle quali viene attribuito il solo potere di disciplinare l'organizzazione e modalità di esercizio delle proprie funzioni amministrative, con facoltà di delegarle agli enti territoriali subregionali e di prevedere forme e modalità ulteriori di semplificazione e coordinamento.
Introdotta la completa digitalizzazione degli oneri informativi a carico dei proponenti con l'eliminazione integrale degli obblighi di pubblicazione sui mezzi di stampa (articolo ItaliaOggi del 10.06.2017).

ENTI LOCALIGestioni associate per tutti. Non contano gli abitanti. Tre funzioni a scelta degli enti. Ricci (Anci): accelerare sulla riforma in modo da trovare risorse nella legge di bilancio.
Gestioni associate per tutti i comuni, senza distinzioni a seconda della popolazione. Sarà l'assemblea dei sindaci a livello provinciale a decidere gli ambiti dei nuovi Bacini omogenei che sostituiranno le unioni dei comuni e in cui i municipi confluiranno sulla base di criteri che prescinderanno dal numero di abitanti.
A contare, invece, sarà la «contiguità territoriale e socio-economica». Sulla base di questi criteri, i comuni si metteranno insieme per gestire in forma associata almeno tre funzioni fondamentali. Chi ne assocerà di più o deciderà di mettere insieme le funzioni più pesanti (come per esempio quella di organizzazione generale, controllo e gestione finanziaria e contabile) sarà premiato in sede di distribuzione degli incentivi statali e regionali.

Questa la ricetta che il ministero degli affari regionali e l'Anci stanno mettendo a punto per rottamare l'associazionismo forzoso (quello previsto dal dl 78/2010 e di fatto mai entrato in vigore per la decisa opposizione dei piccoli comuni, obbligati a mettersi insieme se sotto i 5 mila abitanti).
Il nuovo assetto ordinamentale è ormai allo studio da mesi e a rallentarne il cammino è stato prima il quadro di incertezza politica che ha fatto seguito al referendum costituzionale di dicembre e ora le prospettive di una fine anticipata delle legislatura.
Per questo l'Anci vuole accelerare. E dopo aver provato a inserire nella manovra correttiva (dl 50/2017) un emendamento (dichiarato inammissibile per estraneità di materia) che di fatto avrebbe anticipato l'entrata in vigore della riforma, sta ripensando a un altro veicolo normativo per fare entrare subito in vigore le nuove regole. Con il duplice scopo di evitare l'ennesima proroga delle norme del dl 78 (congelate fino al 31.12.2017) e al contempo rendere operativi gli incentivi già dal 2018, attraverso appositi stanziamenti da reperire nella prossima legge di bilancio.
Sul dossier, stanno lavorando il ministro per gli affari regionali, Enrico Costa e il suo sottosegretario Gianclaudio Bressa, mentre per l'Anci se ne sta occupando Matteo Ricci, sindaco di Pesaro e responsabile enti locali del Pd. «Vogliamo anticipare la riforma», dice Ricci a ItaliaOggi, «in modo da poter programmare sufficienti risorse nella sessione di bilancio. C'abbiamo provato con l'emendamento alla manovrina, ma purtroppo la commissione bilancio della camera l'ha cassato in quanto ordinamentale. Ora incontreremo nuovamente il governo per concordare il da farsi».
Anci e governo infatti non si incontrano dall'11 aprile e in quell'occasione l'esecutivo decise di accogliere molte richieste dei sindaci. Come per esempio quella di mettere da parte il limite di 15 mila abitanti, inizialmente previsto nella bozza di riforma, come soglia demografica per individuare gli enti assoggettati all'obbligo.
Ora nella nuova bozza, che ItaliaOggi ha avuto modo di leggere, non c'è più alcun riferimento al numero di abitanti. Così come non si fa più cenno alla durata triennale e alla revisione annuale del Piano per le unioni e le fusioni. Il confronto è invece ancora in corso sulla tipologia di funzioni da mattere insieme. L'Anci vuole che le 3 funzioni siano a scelta dei comuni, senza imposizioni. Il ministero invece vorrebbe che la funzione di organizzazione generale, controllo e gestione finanziaria e contabile faccia obbligatoriamente parte del pacchetto. Tuttavia l'Anci fa notare come sia proprio questa funzione ad aver creato problemi applicativi, «per la sua complessità e per l'incerta e non completa definizione». Di qui la richiesta che non venga considerata obbligatoria ma solo incentivata maggiormente. E incentivi specifici dovranno essere previsti anche per l'edilizia scolastica.
La bozza di riforma lascia libere i sindaci di individuare lo strumento associativo più idoneo alle loro esigenze. Oltre alle unioni e alle fusioni, il provvedimento fa salve le convenzioni, considerate «strumento di flessibilità nella costruzione dei processi associativi». Solo i comuni appartenenti alle unioni e quelli istituiti a seguito di fusione potranno godere di incentivi (quote di riserva, forme di priorità o prelazione) nella distribuzione del Fondi europei (articolo ItaliaOggi del 10.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTIIl catasto non è più obbligatorio. Infrastrutture di reti di comunicazione.
Per i nuovi immobili che costituiscono infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, dal 01.07.2016 non è più obbligatoria la dichiarazione in Catasto. Per quelli già iscritti, a seguito della modifica della procedura Docfa, dal 03.07.2017 è possibile presentare un atto di aggiornamento per richiedere l'attribuzione della nuova categoria catastale, denominata F/7 - Infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, senza l'attribuzione della rendita.
È quanto chiarisce la circolare 08.06.2017 n. 18/E dell'Agenzia delle entrate - Direzione Centrale Catasto, Cartografia e Pubblicità Immobiliare, che fornisce indicazioni sulle modalità di iscrizione in catasto di beni costituenti infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, alla luce delle novità introdotte dal dlgs n. 33/2016.
Quest'ultimo, spiega una nota delle Entrate, ha escluso dal concetto di «unità immobiliare» gli elementi di reti pubbliche di comunicazione elettronica ad alta velocità e le altre infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, comprese le opere di infrastrutturazione per la realizzazione delle reti pubbliche di comunicazione elettronica ad alta velocità in fibra ottica in grado di fornire servizi di accesso a banda ultralarga.
Per le infrastrutture di questo tipo che risultano già iscritte in catasto, è possibile, quindi, presentare un atto di aggiornamento per variare la vecchia categoria catastale (con rendita) e attribuire la nuova categoria F/7 (senza rendita). Per le nuove realizzazioni, invece, l'iscrizione in catasto (sempre in categoria F/7 senza attribuzione di rendita) rappresenta una facoltà, generalmente connessa all'eventuale costituzione o trasferimento di diritti reali che richiedono l'identificazione catastale del bene, e non più, quindi, un obbligo.
Resta fermo, invece, chiarisce la circolare, l'obbligo di dichiarazione in catasto dei fabbricati o porzioni di fabbricato con una destinazione d'uso non strettamente funzionale alle reti di comunicazione, come uffici, alloggi, autorimesse, magazzini ecc., da censire nella apposita categoria, con attribuzione di rendita (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

ENTI LOCALIAvanzi di amministrazione utilizzabili per estinguere i mutui.
Gli enti locali potranno utilizzare l'avanzo di amministrazione destinato agli investimenti per estinguere anticipatamente i propri mutui, qualora non dispongano di una quota sufficiente di avanzo libero, abbiano accantonato il 100% del fondo crediti di dubbia esigibilità e garantiscano un pari livello di investimenti aggiuntivi.

La novità è stata prevista da uno degli emendamenti al dl 50/2017 approvati alla Camera, introducendo nel testo un nuovo art. 26-bis che, a sua volta, modificherà l'art. 187 del Tuel.
Quest'ultima è la norma che disciplina la composizione e le modalità di utilizzo del risultato di amministrazione, ovvero delle risorse che (se hanno segno positivo) rappresentano «i risparmi» degli enti.
Essa impone di distinguere il risultato in quattro quote: la quota vincolata, dove confluiscono le risorse non ancora spese ma destinate a finalità di spesa già definite puntualmente (ad esempio, quelle derivanti da un mutuo contratto per realizzare un nuovo edificio scolastico); la quota accantonata, dove vengono appostati il fondo crediti dubbia esigibilità e gli accantonamenti per le passività potenziali (fondi spese e rischi); la quota destinata agli investimenti, che ospita risorse che hanno un vincolo solo generico a spese che incrementano il patrimonio dell'ente (e non un vincolo specifico, come per le risorse della quota vincolata); la quota libera, che viene calcolata per differenza fra il risultato complessivo e le altre quote.
Il correttivo approvato a Montecitorio consentirà di utilizzare la quota destinata agli investimenti anche per l'estinzione anticipata di mutui (e, si ritiene, di altre eventuali forme di prestiti).
Ciò, però, purché l'ente rispetti tre condizioni: 1) l'avanzo libero non deve essere «sufficiente»; 2) l'ente abbia accantonato il 100% del fcde; 3) l'ente garantisca un pari livello di investimenti aggiuntivi.
Tali previsioni pongono numerosi dubbi interpretativi. La prima condizione pare presupporre che l'operazione di estinzione anticipata sia di importo superiore alla (eventuale) quota libera del risultato di amministrazione, per cui, ad esempio, se l'ente intende estinguere un mutuo con capitale residuo di 100 e dispone di avanzo libero per 70, può colmare il gap di 30 con l'avanzo destinato.
La seconda sembra fare riferimento alla consistenza del fcde a rendiconto e non a preventivo. Ciò posto, pare che la norma richieda di dimostrare che il fcde accantonato nell'ultimo rendiconto approvato sia pari al 100% dell'importo che emerge dall'applicazione del c.d. metodo ordinario, escludendo in partenza gli enti che utilizzano il c.d. metodo semplificato perché nel bilancio di previsione si avvalgono della possibilità di stanziare un fcde più basso.
Assai incerta, infine, anche la portata della terza condizione: non si capisce, infatti, che cosa significhi «garantire investimenti aggiuntivi». Deve trattarsi di maggiori impegni di spesa? Rispetto a quale periodo temporale? E come gioca al riguardo l'esigibilità della spesa (basta impegnare l'intera somma anche se una parte confluisce a fondo pluriennale vincolato)?
Tutte questioni che dovranno essere chiarite in sede applicativa (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

APPALTIAppalti, manodopera ai raggi X. Prima dell'aggiudicazione necessario controllare i costi. Il decreto correttivo al codice dei contratti complica la procedura di affidamento.
Nuove complicazioni procedurali negli appalti. Il correttivo al codice dei contratti, se per un verso ha corretto ben poco le storture del dlgs 50/2016, per altro verso ne ha introdotte di nuove. In particolare, il legislatore ha inteso tornare per l'ennesima volta sul tema del costo della sicurezza e della manodopera, modificando l'articolo 95, comma 10, del codice dei contratti, che adesso stabilisce: «Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a). Le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell'aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all'articolo 97, comma 5, lettera d)».
Si è, fortunatamente, abbandonata l'idea di far determinare alle stazioni appaltanti il costo della manodopera, impresa totalmente impossibile per l'assenza di un salario minimo e le moltissime possibilità offerte alle aziende dalla normativa sui contratti di lavoro di attivare contratti con costi aziendali molto difformi tra loro. Si pensi solo alle assunzioni effettuate tra il 2015 e il 2017 con gli sgravi triennali previsti dalla legge 208/2015, o alle assunzioni di percettori di Naspi con sgravio pari al 20% dell'indennità spettante al lavoratore, o alle assunzioni di apprendisti, o di lavoratori over 50.
Soltanto le aziende possono sapere, concretamente, quale sia il costo effettivo della manodopera impiegata negli appalti. Appare, quindi, corretto imporre, con l'articolo 95, comma 10, alle imprese di esporre i costi relativi, ricordando che si tratta di un obbligo discendente direttamente dalla legge, il cui inadempimento implica l'esclusione degli operatori economici dalle gare, anche se tale obbligo non sia richiamato dal bando o gli atti di avvio della gara.
Esentati da tale obbligo sono solo alcune prestazioni per le quali il costo della manodopera appaia non rilevante o impossibile da definire nella sua incidenza: è il caso dei servizi intellettuali (non c'è manodopera in senso proprio) e delle forniture senza posa in opera (è impresa impossibile comprendere quale possa essere l'incidenza del costo della manodopera in una penna). La norma esclude dall'obbligo, poi, gli appalti affidati con le procedure semplificate regolate dall'articolo 36, comma 2, lettera a), di importo inferiore ai 40.000 euro.
In tutti gli altri casi, il correttivo introduce un nuovo e inedito adempimento: verificare quanto prevede l'articolo 97, comma 5, lettera d) e, cioè, se il costo del personale risulti inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle tabelle previste dall'articolo 23, comma 16, sempre del codice dei contratti: si tratta delle tabelle elaborate dal ministero del lavoro e delle politiche sociali sulla base dei valori economici definiti dalla contrattazione collettiva nazionale tra le organizzazioni sindacali e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi, delle norme in materia previdenziale ed assistenziale, dei diversi settori merceologici e delle differenti aree territoriali.
L'impresa è tutt'altro che agevole. Sul piano tecnico, le tabelle riportano costi medi; ancora una volta, non possono tenere conto di particolari agevolazioni e sgravi di cui si avvantaggi di volta in volta il singolo operatore economico. Dunque, non difficilmente il costo della manodopera indicato dall'appaltatore può rivelarsi inferiore a quello riportato nelle tabelle.
Inoltre, si nota che mentre prima del correttivo l'analisi del costo della manodopera in rapporto alle tabelle scattava solo se l'offerta risultasse affetta da possibili anomalie, la nuova formulazione dell'articolo 95, comma 10, rende obbligatorio sempre e comunque la verifica della congruità di detti costi. Anche nel caso di gara gestita col criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, che impedisce l'anomalia se l'aggiudicatario non abbia ottenuto sia i punti relativi al prezzo, sia la somma dei punti relativi agli altri elementi di valutazione, entrambi pari o superiori ai quattro quinti dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara.
Il correttivo impone, dunque, sempre e comunque di attivare la verifica del costo della manodopera «prima dell'aggiudicazione». Il che pone ulteriori problemi procedurali. La verifica di detto costo, se quello esposto dall'appaltatore risultasse inferiore alle tabelle, impone un procedimento in contraddittorio, che garantisce all'appaltatore almeno 15 giorni per presentare per iscritto spiegazioni. Aggiungendo il tempo necessario all'istruttoria, si può agevolmente superare il termine di 30 giorni previsto dall'articolo 33, comma 1, perché si formi per silenzio assenso appunto l'aggiudicazione (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

APPALTIL'arbitrato diventa retroattivo. Accordi bonari: abolito il collegio consultivo tecnico. Novità del correttivo della riforma appalti sul contenzioso in fase di esecuzione del contratto.
Se viene rifiutata la proposta di accordo bonario per un appalto pubblico, è ammesso il ricorso entro sessanta giorni. L' arbitrato è possibile anche per l'esecuzione di contratti concernenti gare bandite prima del 19 aprile 2016; soppresso il collegio consultivo tecnico.

Sono queste alcune delle novità in tema di contenzioso in fase di esecuzione del contratto introdotte dal decreto correttivo del codice appalti (dlgs 56/2017).
Per la disciplina dell'accordo bonario (articoli 205 e 206 del codice) già un anno fa si rese possibile l'utilizzazione di questo strumento anche in relazione ai contratti di fornitura di beni e servizi; in particolare, oltre che per lavori pubblici relativi a infrastrutture strategiche e insediamenti produttivi. Sempre per i lavori pubblici, ai fini del ricorso all'accordo bonario, il codice del 2016 aveva stabilito che l'utilizzo dell'accordo bonario fosse ammesso se la variazione dell'importo dell'opera è prevista tra il 5 e il 15% (tranne che per i contratti di rilevanza comunitaria).
La procedura prevede un ricorso, solo eventuale, ad un esperto scelto da una lista di 5 soggetti proposti dalla Camera arbitrale su richiesta del Rup (in mancanza di richiesta di nomina, la proposta di accordo bonario, con indicazione della somma riconosciuta, è formulata dallo stesso responsabile unico del procedimento, il Rup, appunto); la conclusione del procedimento è fissata in 45 giorni.
Il decreto correttivo interviene inserendo un nuovo comma 6-bis in cui si prevede che l'impresa, in caso di rifiuto della proposta di accordo bonario, ovvero di inutile decorso del termine per l'accettazione, può instaurare un contenzioso giudiziario entro i successivi sessanta giorni e che questo termine è previsto a pena di decadenza.
Altra novità apportata dal decreto 56/2017 (art. 112) è l'abrogazione dell'articolo 207 del Codice che disciplinava il Collegio consultivo tecnico. La soppressione della norma ha lo scopo di recepire le osservazioni del Consiglio di Stato (parere n. 855/2016), che rilevava come non fosse chiaro se il ricorso al collegio consultivo, per dirimere le controversie, costituisse un sistema alternativo all'accordo bonario né come i due istituti si rapportassero tra di loro.
Infine, per gli arbitrati, il decreto correttivo precisa che le procedure di arbitrato di cui all'articolo 209 si applicano anche alle controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti pubblici cui si applica l'articolo 209, per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima della data di entrata in vigore del codice.
La disposizione prevede quindi che la nuova disciplina dell'articolo 209 si possa applicare anche a fattispecie concernenti la fase esecutiva di contratti oggetto di affidamento di contratti per i quali il bando o l'avviso sia stato pubblicato prima del 19 aprile 2016.
L'articolo 209 del codice prevede che il deferimento ad un collegio arbitrale sia possibile per controversie su diritti soggettivi, in fase esecutiva, di contratti di lavori, servizi, forniture, di concorsi di progettazione e di idee, oltre che per controversie concernenti il mancato raggiungimento dell'accordo bonario di cui agli articoli 205 e 206 possono essere deferite ad arbitri.
Dal momento che l'articolo 209 prevede anche che debba essere la stazione appaltante ad indicare nel bando o nell'avviso con cui indice la gara ovvero, se il contratto conterrà o meno la clausola compromissoria, il decreto correttivo chiarisce che è comunque ammessa tale facoltà anche per i bandi precedenti il 19.04.2016 (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

TRIBUTIAtti tributari notificabili con Pec. A partire dal 1° luglio. Va allegato l'avviso di accertamento. La chance è prevista dal decreto fiscale. Non serve l'intervento del messo notificatore.
L'art. 60, del dpr n. 600 del 29/09/1973, come modificato dall'art. 7-quater, comma 6, del dl n. 193/2016, convertito con legge n. 225, consente, a decorrere dal 01.07.2017, di notificare gli atti impositivi tributari direttamente a mezzo di posta elettronica certificata (Pec).
A ben vedere, il combinato disposto di cui all'art. 48, comma 2, del dlgs n. 82/2005 (decreto che ha emanato il Codice dell'amministrazione digitale - Cad) e all'art. 149-bis c.p.c., legittima gli enti locali alla notifica a mezzo Pec già da alcuni anni.
La disposizione codicistica, però, richiede l'intervento dell'agente notificatore (ovvero il messo notificatore/messo comunale) tenuto a certificare l'eseguita notificazione mediante la redazione della relata di notifica ai sensi dell'art. 148, co. 1 cpc, sottoscritta con firma digitale. L'art. 60 citato, invece, in deroga all'articolo 149-bis c.p.c. e alle modalità di notificazione previste dalle norme relative alle singole leggi d'imposta, stabilisce che la notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati alle imprese individuali, o costituite in forma societaria, ed ai professionisti iscritti in albi o elenchi istituiti con legge dello Stato, può essere effettuata direttamente dal competente ufficio (ovvero senza l'intermediazione dell'agente notificatore) a mezzo di posta elettronica certificata, all'indirizzo del destinatario risultante dall'indice nazionale degli indirizzi Pec (Ini-Pec) con le modalità previste dal regolamento di cui al dpr n. 68 del 11/02/2005.
Mentre non può esservi alcun dubbio sull'estensione della notifica a mezzo Pec ex art. 149-bis cpc agli enti locali, alcune perplessità si hanno circa l'applicabilità anche agli atti tributari dei comuni della notifica diretta a mezzo Pec. La sua collocazione nell'art.60, una disposizione che disciplina (direttamente e per richiamo) la notifica degli accertamenti erariali, sembrerebbe limitarne l'efficacia ai soli atti emessi dall'Agenzia delle entrate.
Di contro, l'aver previsto ad opera dell'art. 7-quater, dl 193/2016, conv. in legge n. 225 del 01/12/2016 la possibilità, anche in deroga alle ordinarie modalità di notifica previste dalle singole leggi d'imposta non compatibili con quelle di cui all'art.60, di notificare gli atti direttamente a mezzo Pec, sembra avere il precipuo scopo di attribuire alla disposizione de qua, una portata ampia e generale, tale da consentirne l'applicazione anche agli atti impositivi dei tributi locali.
Pur auspicando un intervento legislativo chiarificatore in merito, si ritiene che una lettura costituzionalmente orientata dell'art.60, volta ad assicurare a tutti gli enti impositori uguali garanzie e strumenti, nella delicata fase della notificazione dei propri atti impositivi, consenta di ritenere legittima, a decorrere dal 1° luglio, la notifica diretta a mezzo Pec anche per gli atti impositivi degli enti locali.
L'uso della Pec per la notifica degli atti tributari informatici richiama inevitabilmente il già citato Cad, normativa di riferimento per il digitale nella p.a. Va, però, rilevato che a mente dell'art. 2, co. 6 del Cad, le relative disposizioni non sono applicabili «all'esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale». Ciò malgrado, si è dell'avviso che tale arresto possa ritenersi superato dalla normativa sopravvenuta.
L'art. 7-quater citato, infatti, presuppone l'applicazione del Cad e ciò potrebbe indurre a ritenere che il dl n. 193/2016, abbia implicitamente abrogato la limitazione di cui all'art. 2 rendendo applicabili le regole del Cad anche agli atti tributari. Tenuto conto, peraltro, che per gli atti tributari emessi attraverso procedure informatizzate è ammessa, in luogo della sottoscrizione autografa, l'indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, a maggior ragione dovrebbe essere ammessa la generazione di copie conformi o duplicati informatici a norma, con firma digitale, senza necessità della sottoscrizione autografa dell'atto.
In conclusione, la notifica degli atti impositivi può essere fatta a mezzo Pec, allegando sempre un documento informatico (l'avviso di accertamento) formato ai sensi dell'art. 23-bis, co. 2, del Cad, ovvero copia informatica di documento originario informatico, dotata quindi di una dichiarazione di conformità all'originale detenuto nei sistemi informativi dell'ente locale ed effettuata da un soggetto autorizzato, che appone a tal fine la propria firma digitale o qualificata.
In alternativa, con Pec è possibile notificare non una copia ma un duplicato dell'originale che, ai sensi dell'art. 23-bis, co. 1, del Cad, detiene medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui è tratto.
Sia nel caso della copia informatica di documento informatico che di duplicato informatico, gli stessi devono essere prodotti in conformità alle «Regole tecniche sul documento informatico» di cui al dpcm 13.11.2014. In base a tali regole tecniche, si precisa, l'eventuale dichiarazione di conformità della copia può essere in unico file o in file separato, ma con le accortezze in tal caso richieste, appunto, dalle citate Regole tecniche (articolo ItaliaOggi del 09.06.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOT.u. e performance, i decreti Madia in G.U..
Pubblicati ieri in Gazzetta Ufficiale i due decreti sul pubblico impiego e sulle performance dei dipendenti della pubblica amministrazione.
I provvedimenti, contenenti disposizioni di attuazione della legge 07.08.2015, n. 124 che detta la riforma della pubblica amministrazione, erano stati approvati dal Consiglio dei ministri lo scorso 19 maggio (si veda ItaliaOggi del 20.05.2017) ed entrambi entreranno in vigore il 22 giugno prossimo.
Il decreto legislativo 74/2017, che modifica il dlgs 150/2009, ha lo scopo di migliorare la produttività dei lavoratori attivi nel settore pubblico e di potenziare l'efficienza e la trasparenza delle pubbliche amministrazioni. Ispirandosi ai principi di semplificazione, il testo introduce alcune novità per quanto riguarda il sistema premiale e di valutazione del rendimento dei dipendenti.
Prima di tutto, si è chiarito che il rispetto di queste disposizioni non solo incide sull'erogazione dei premi ma anche sulla progressione economica, sul conferimento di incarichi dirigenziali e di responsabilità. Anche in fini disciplinari: se per tre anni di seguito un dipendente consegue una valutazione negativa, verrà licenziato.
Tutte le amministrazioni sono tenute a misurare il rendimento, del suo complesso, delle unità operative e dei singoli lavoratori e oltre al raggiungimento di specifici obiettivi devono raggiungere obiettivi generali, priorità coerenti con le politiche nazionali. Le figure di monitoraggio sono gli organismi indipendenti di valutazione, che osservano l'andamento delle performance e segnalano criticità e debolezze.
Invece, modificando e integrando il dlgs 165/2001 (Testo unico del pubblico impiego), il decreto legislativo 75/2017 riguarda il codice disciplinare con i licenziamenti, il nuovo regime per le visite fiscali e le regole per i concorsi con il capitolo sulla stabilizzazione dei precari. Infatti detta sanzioni più efficaci in caso in cui il dipendente pubblico compia uno sbaglia, ora i vizi formali della procedura non consentiranno più di annullare le sanzioni. Spazio da settembre al polo unico delle visite fiscali, che verranno gestite dall'Inps che già le gestiva per i dipendenti privati (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2017).

TRIBUTIIl comodato si fa in due. Agevolazioni nazionali e anche comunali. IMU/ Opzioni alternative in vista della scadenza per i versamenti.
Per i comodati abitativi agli stretti familiari, le agevolazioni possono arrivare non solo dalla normativa nazionale, ma anche (eventualmente) da quella comunale.
In vista del 16 giugno, data di scadenza del primo versamento per il 2017, occorre tenere conto di entrambe le possibilità, alternative tra loro, anche se molti operatori sono convinti che per il comodato esista solo la regolamentazione nazionale.
Il comodato statale
Anche se non vengono più assimilate all'abitazione principale, le unità abitative concesse in comodato ai parenti in linea retta entro il primo grado hanno un trattamento agevolato, benché condizionato al verificarsi di determinate condizioni.
La legge 208/2015 (legge di Stabilità per il 2016), infatti, prevede (articolo 1, comma 10) la riduzione del 50% della base imponibile per le unità immobiliari (fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9) concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado (padre-figlio e viceversa) che le utilizzano come abitazione principale (cioè come residenza anagrafica e insieme dimora abituale), a condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda un solo immobile in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori abitualmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato.
Il beneficio si applica anche nel caso in cui il comodante, oltre all'immobile concesso in comodato, possieda nello stesso comune un altro immobile (che sia) adibito a propria abitazione principale (sempre escluse le A/1, A/8 e A/9). Ai fini dell'applicazione dell'agevolazione, è richiesta la presentazione della dichiarazione Imu nei termini previsti.
È stato chiarito che l'agevolazione si applica anche nel caso di possesso di altri immobili, purché non abitativi. Alle abitazioni (e pertinenze, con i relativi limiti) che rientrano in questa norma statale, e quindi con la base imponibile ridotta alla metà, i comuni possono applicare l'aliquota ordinaria oppure un'aliquota agevolata.
Il comodato comunale
Nei regolamenti comunali (e relative delibere), però, esistono anche altre fattispecie di comodati a cui si applicano aliquote agevolate, pur restando intera (e non dimezzata) la base imponibile.
Basta leggersi pazientemente i regolamenti, e si possono trovare dei tesoretti di agevolazioni inaspettati.
Si va dal caso del rapporto di primo grado in linea retta, ma con la richiesta di alcune soltanto delle condizioni poste dalla norma nazionale, fino anche al secondo grado collaterale (tra fratelli), e così via.
Per queste situazioni locali, di solito è prevista la presentazione di un modulo-richiesta (spesso entro il 16 o 31 dicembre dello stesso anno di computo dell'Imu, e con efficacia fino a modifica della situazione), invece della dichiarazione ministeriale. E non sempre è richiesto un contratto scritto, o che sia registrato.
Conguagli in sede di saldo a dicembre
A questo punto sarà opportuno che gli operatori (o gli stessi singoli contribuenti) facciano un inventario puntuale delle situazioni di comodato che stanno gestendo, verificando se i vari comuni interessati hanno una propria normativa in proposito, oltre a quella nazionale della legge 208/2015.
Eventuali situazioni e condizioni presenti potranno essere verificate anche più avanti, in tempi meno «caldi», e conguagliate in sede di saldo. Dipenderà dalle condizioni poste dal singolo comune (articolo ItaliaOggi dell'08.06.2017).

ATTI AMMINISTRATIVIAccesso generalizzato a 360°. Chance ai cittadini per perfezionare istanze incomplete. Circolare del ministro Madia sull'attuazione del Freedom of information act (Foia).
Accesso generalizzato ad ampio spettro. La pubblica amministrazione non può dichiarare inammissibile una domanda di accesso per motivi formali o procedurali. Non solo. Nel caso di domanda formulata in termini talmente vaghi da non consentire di identificare l'oggetto della richiesta o volta ad accertare il possesso di dati o documenti da parte dell'amministrazione, quest'ultima deve assistere il richiedente per definire insieme l'oggetto della domanda.
In ultimi analisi, l'amministrazione deve ritenere inammissibile una richiesta soltanto quando abbia invitato (per iscritto) il richiedente a ridefinire o completare l'oggetto della domanda e il richiedente non abbia fornito i chiarimenti richiesti.

Questo uno dei punti chiave contenuti nella circolare 30.05.2017 n. 2/2017 della Funzione pubblica recante «Attuazione delle norme sull'accesso civico generalizzato (c.d. Foia)», che esamina numerosi aspetti applicativi del Freedom of information act (Foia, appunto) ovvero il decreto legislativo 25.05.2016, n. 97.
Nella circolare, il ministro Marianna Madia ribadisce che la normativa sul diritto di accesso generalizzato (che attribuisce a chiunque il diritto di richiedere atti e documenti alla p.a. prescindendo da un interesse concreto e qualificato) non prevede in linea di principio la possibilità di rigetto della domanda per motivi formali o procedurali.
«Le p.a.», si legge nella nota, «devono tener conto della difficoltà che il richiedente può incontrare nell'individuare con precisione i dati o i documenti di suo interesse». Per questa ragione, conformemente a quanto richiesto dal Consiglio di Stato nel parere del 18.02.2016, la versione finale del testo (articolo 5, comma 3, del dlgs 97/2016) ha previsto che non sia più obbligatorio per il richiedente identificare «chiaramente» i dati o documenti che si vogliono ottenere.
Quindi, in presenza di una domanda formulata in termini talmente vaghi da non consentire di identificare l'oggetto della richiesta (c.d. richiesta generica) o volta ad accertare il possesso di dati o documenti da parte dell'amministrazione (c.d. richiesta esplorativa), l'amministrazione non potrà rigettare l'istanza giudicandola inammissibile, ma dovrà assistere il richiedente al fine di giungere a una adeguata definizione dell'oggetto della domanda.
L'inammissibilità, precisa la circolare n. 2 dovrà quindi essere considerata come un'ipotesi restrittiva. Che scatterà solo quando la p.a. abbia invitato il richiedente a ridefinire l'oggetto della domanda o a indicare gli elementi sufficienti per consentire l'identificazione dei dati o documenti di suo interesse, e il richiedente non abbia fornito i chiarimenti richiesti.
Identificazione del richiedente. Nonostante, in linea di principio, l'identificazione del richiedente non sia necessaria ai fini dell'esercizio del diritto di accesso, tuttavia la Funzione pubblica la ritiene indispensabile ai fini di una corretta gestione delle domande. Per questo, palazzo Vidoni la ritiene condizione di ricevibilità della richiesta. In caso di richiesta anonima o da parte di un soggetto la cui identità sia incerta, l'amministrazione dovrà comunicare al richiedente la necessità di identificarsi.
Modalità di invio. La richiesta potrà essere inviata in modo tradizionale oppure tramite mail o Posta elettronica certificata (Pec). Per agevolare i cittadini, le p.a. dovranno comunicare sul proprio sito istituzionale nella sezione «Amministrazione trasparente» (con link ben visibile in home page) le informazioni generali sulla procedura da seguire per presentare una domanda di accesso generalizzato, i rimedi disponibili (procedura di riesame e ricorso in via giurisdizionale), in caso di mancata risposta dell'amministrazione entro il termine di conclusione del procedimento o in caso di rifiuto parziale o totale, nonché il nome e i contatti dell'ufficio che si occupa di ricevere le domande di accesso (articolo ItaliaOggi del 07.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGOLavoro agile ai blocchi di partenza. La direttiva di palazzo vidoni.
Al via il lavoro agile nella pubblica amministrazione. Con la direttiva 3/2017, il ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, traccia le linee guida alle quali le p.a. dovranno attenersi per attuare quanto prevede l'articolo 14 della legge 124/2015 e centrare l'obiettivo di estendere la modalità lavorativa «agile» ad almeno il 10% dei dipendenti entro tre anni.
La direttiva si coordina anche con le previsioni contenute nell'articolo 18 del cosiddetto Statuto del lavoro autonomo (non ancora pubblicato in Gazzetta Ufficiale), il cui comma 3 prevede proprio l'estensione della disciplina del lavoro agile anche al pubblico impiego, per il tramite di direttive attuative del citato articolo 14 della legge 124/2015.
Lo scopo dell'introduzione del lavoro agile nella p.a. è scardinare l'esecuzione della prestazione lavorativa da vincoli di luogo e cornici orarie. Spetterà alle singole amministrazioni e ai dirigenti, in qualità di titolari esclusivi dei poteri organizzativi e datoriali, individuare quali prestazioni lavorative si prestino allo svolgimento secondo queste modalità.
La direttiva 3/2017 punta sia allo sviluppo del telelavoro, sia, soprattutto, all'introduzione del lavoro agile che si differenzia dal primo per una serie di aspetti. Il telelavoro, in fondo, è sostanzialmente un sistema per rendere da remoto prestazioni che eseguibili prevalentemente avvalendosi di strumentazione informatica (imputazione dati, protocollazioni, registrazioni fatture). Il lavoro agile non necessariamente richiede connessioni telematiche e strumenti tecnici (anche se non li esclude): soprattutto è finalizzato a consentire la realizzazione della prestazione lavorativa non necessariamente nel luogo di lavoro.
A questo proposito, la direttiva invita le amministrazioni ad estendere il lavoro agile verso attività che presuppongano un'attenta analisi delle modalità di esecuzione, con precisa individuazione del risultato. Per esempio, un'attività ispettiva esterna, una volta standardizzata una durata minima e una massima dell'ispezione, può essere anche gestita in modo agile. La direttiva, oltre a ricordare la necessità di riorganizzare i servizi che si possano prestare al lavoro agile, punta molto (forse eccessivamente) anche sulla funzione di welfare aziendale ad esso collegata.
Si intende perseguire, infatti, in maniera esplicita anche il fine di tutelare le cure parentali, puntando ad assegnare lo smart working anche in relazione alla rilevazione dei bisogni del personale dipendente e delle esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
La direttiva richiama espressamente la necessità di dare rilievo alle politiche di ciascuna amministrazione «in merito a: valorizzazione delle risorse umane e razionalizzazione delle risorse strumentali disponibili nell'ottica di una maggiore produttività ed efficienza; responsabilizzazione del personale dirigente e non; riprogettazione dello spazio di lavoro; promozione e più ampia diffusione dell'utilizzo delle tecnologie digitali; rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance; agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».
L'obiettivo generale consiste nel consentire entro tre anni (quindi entro il giugno 2020) ad almeno il 10% dei dipendenti di avvalersi delle nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa, «garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera».
La direttiva specifica che l'obiettivo del 10% va garantito se vi sia un numero congruo di dipendenti che lo richiedono: segno che lo smart working non può essere imposto (articolo ItaliaOggi del 07.06.2017).

ENTI LOCALI: Spese «liberate» da verificare entro luglio. Tolti i vincoli per l’acquisto di immobili cofinanziato da Ue, Stato o Regioni.
Bilanci. Via i limiti su consulenze, convegni e formazione - Novità da gestire con la salvaguardia degli equilibri.

Vincoli di spesa allentati in vista dell’assestamento del bilancio di previsione e della verifica degli equilibri finanziari per le annualità 2017/19, in scadenza il prossimo 31 luglio.
Le novità giungono dagli emendamenti approvati al testo originario del DL 50/2017, che ora è passato all’esame del Senato.
In evidenza, in particolare, il venir meno delle limitazioni poste dall’articolo 6, commi 7, 8, 9 e 13 del Dl 78/2010 e dalle disposizioni cosiddette “taglia-carta” (si veda Il Sole 24 Ore del 29 maggio). Con il Dl 78/2010, varato nel bel mezzo della crisi economico-finanziaria del nostro Paese, è stata di fatto preclusa l’autonomia decisionale degli enti in riferimento a particolari voci di bilancio, il cui controllo, secondo le intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto determinare il contenimento della spesa pubblica corrente.
A decorrere dal 2011, infatti, la spesa annua per studi e incarichi di consulenza, per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nel 2009, mentre la spesa per formazione deve essere contenuta entro il limite del 50 per cento. Lo stesso articolo 6 ha poi vietato qualunque sponsorizzazione a carico delle pubbliche amministrazioni.
Con l’emendamento che entrerà in vigore con la legge di conversione al Dl 50/2017 si stabilisce per il 2017, a favore dei Comuni e delle loro forme associative, la cessazione di questi vincoli, a condizione che l’ente sia in regola con il pareggio di bilancio e che abbia approvato il rendiconto 2016 entro i termini di legge (30.04.2017). Le nuove disposizioni impattano però anche negli anni successivi. In un’ottica programmatoria di medio periodo si stabilisce infatti che, a decorrere dal 2018, le norme di favore si applicano a tutti i Comuni (e delle loro forme associative) che riescono ad approvare i bilanci di previsione entro il 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento, e che dimostrino di aver rispettato il saldo fra entrate finali e spese finali previsto dall’articolo 9 della legge 243/2012.
Oltre a queste semplificazioni viene prevista, per favorire lo svolgimento delle funzioni di promozione del territorio, dello sviluppo economico e della cultura in ambito locale, la non applicazione dei vincoli alle spese per mostre effettuate da regioni ed enti locali o da istituti e luoghi della cultura di loro appartenenza.
In materia di acquisto di immobili pubblici, il testo emendato del Dl 50/17 stabilisce che non si applica l’obbligo di dichiarare l’indispensabilità e l’indilazionabilità per gli acquisti di immobili pubblici finanziati con risorse del Cipe o cofinanziati dalla Ue, oppure dallo Stato o dalle regioni. In questi casi, non occorre neppure acquisire attestazione di congruità del prezzo da parte dell’agenzia del Demanio.
Le operazioni di assestamento del bilancio 2017 e l’avvio della programmazione 2018/2020 non possono poi prescindere dalle novità in tema di spesa di personale. In base all’articolo 22 del Dl 50/2017, nei Comuni con popolazione superiore a mille abitanti, per gli anni 2017 e 2018, le facoltà assunzionali di personale a tempo indeterminato di qualifica non dirigenziale sono infatti innalzate al 75 per cento (non più 25 per cento) della spesa corrispondente alle cessazioni dell’esercizio precedente.
È richiesto però che il rapporto tra dipendenti e popolazione dell’anno precedente risulti inferiore al limite fissato per gli enti dissestati e/o strutturalmente deficitari (per gli anni 2017/2019 si veda il decreto 10.04.2017). Per i Comuni con popolazione compresa fra mille e 3mila abitanti, che rilevano nell’anno precedente una spesa di personale inferiore al 24 per cento della media delle entrate correnti registrate nei consuntivi dell’ultimo triennio, il turnover è innalzato al 100 per cento.
La manovra interviene anche in materia di risorse agli enti locali. Vengono infatti assegnate risorse aggiuntive per l’importo complessivo di un milione di euro nel 2017 agli enti che partecipano alla sperimentazione delle novità in materia di banca dati Siope + e incentivate le fusioni fra comuni attraverso l’incremento di un milione di euro per ciascuna delle annualità 2017 e 2018
 (articolo Il Sole 24 Ore del 05.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGO«Promozioni», quota del 20% da calcolare sulla singola area. Personale. Criteri stringenti sulla riserva alle progressioni di parte degli spazi assunzionali.
La giurisprudenza e la legislazione più recente hanno sempre più ristretto i margini entro i quali potevano essere effettuate le progressioni verticali. Era consolidato il principio secondo il quale questi margini non potessero essere estesi al punto da consentire riserve per tutti i posti messi a concorso.
Su questa una scelta, compiuta in modo assai netto da parte del legislatore e confermata dalla Corte Costituzionale, è intervenuto il decreto legislativo 150/2009, per il quale le progressioni verticali possono essere effettuate esclusivamente sotto forma di riserva nell’ambito dei concorsi pubblici, con il divieto della possibilità di bandire concorsi esclusivamente riservati al personale interno.
È sul questo quadro normativo che il legislatore delegato dalla legge Madia introduce una misura transitoria, valida per il triennio 2018/2010, finalizzata alla «valorizzare le professionalità interne», con stringenti limiti numerici e procedurali. La procedura è chiaramente limitata alla progressione tra aree e categorie, con ciò rendendo evidente la non applicabilità all’accesso alla posizione dirigenziale, che rimane sempre da effettuare con il concorso pubblico a tutti gli effetti.
Il punto di partenza è rappresentato dal contestuale superamento del concetto di dotazione organica e la valorizzazione dei limiti di spesa, oltre che dal piano dei fabbisogni che ogni amministrazione elaborerà secondo le proprie regole ed esigenze, nei limiti economici e nel rispetto delle linee guida (in verità messe in dubbio dal Consiglio di Stato in sede di parere preventivo) previste dal nuovo articolo 6-bis del decreto nella nuova versione; per gli enti locali le quote assunzionali sono definite in linea generale sulla base delle cessazioni avvenute nell’anno precedente seppur nell’incertezza (alimentata da vari e discordanti pareri della Corte dei Conti) circa la possibilità di cumulare e utilizzarne i resti degli anni precedenti.
L’attivazione delle procedure totalmente interne potrà avvenire soltanto entro il limite del 20% delle nuove assunzioni previste nei piani. Dalla formulazione letterale della norma sembrerebbe che il riferimento sia alle singole e specifiche categorie (o aree): conseguentemente il calcolo del 20% andrà fatto sul corrispondente numero di posti della stessa categoria (o area) inseriti nel piano e non sul totale delle nuove assunzioni.
Di rilievo anche gli stringenti limiti ai requisiti e ai titoli da valutare, fermo restando il possesso del titolo di studio richiesto per l’accesso dall’esterno; e ancora, particolarmente rilevante è il carattere delle prove selettive. Infatti, il riferimento a procedure volte ad accertare la capacità di utilizzare e applicare nozioni teoriche per la soluzione di casi specifici e concreti, consente di ritenere non sufficiente una prova per soli titoli e colloquio, ma indica la necessità di prevedere (in sede regolamentare) forme selettive più stringenti tra le quali almeno una prova scritta.
Il fine principale (la valorizzazione del personale) e la temporaneità della disposizione consente di poter ritenere non applicabili al caso di specie quelle disposizioni in materia di assunzioni quali la previa mobilità o l’utilizzo delle graduatorie vigenti da attivare prima di una nuova assunzione, in dubbio, invece, la verifica delle posizioni professionali in sovrannumero. E ancora, nel caso di specie la nuova assunzione incide sui costi del personale e sulle quote assunzionali nei limiti di costo e per il differenziale tra il precedente ed il nuovo inquadramento, ovviamente nel rispetto limite spesa personale (commi 557 e 562 dell’articolo 1 della legge 296/2006), e nel rispetto pareggio bilancio
(articolo Il Sole 24 Ore del 05.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPrestazioni occasionali doc. La pubblica amministrazione deve motivare la scelta. MANOVRA CORRETTIVA/ Gli effetti della nuova disciplina sostitutiva dei voucher.
Prestazioni occasionali necessariamente giustificate da una causa da motivare.
La nuova disciplina del lavoro occasionale sostitutiva dei voucher, introdotta dall'articolo 54-bis della manovra correttiva all'esame del Senato (dl 50/2017) per le amministrazioni pubbliche si presenta di difficile attuazione.
Ai sensi del comma 13 dell'articolo 54-bis «il contratto di prestazione occasionale è il contratto mediante il quale un utilizzatore, di cui ai commi 6, lettera b), e 7, acquisisce, con modalità semplificate, prestazioni di lavoro occasionali o saltuarie di ridotta entità, entro i limiti di importo di cui al comma 1, alle condizioni e con le modalità di cui ai commi 14 e seguenti». Le pubbliche amministrazioni sono gli utilizzatori previsti dal comma 7.
Tale norma è quella che impone di considerare il lavoro occasionale come rapporto di lavoro flessibile «causale», cioè strettamente legato a una specifica esigenza lavorativa, che, pertanto, deve essere evidenziata e motivata nei provvedimenti per attivare lo strumento e anche nel contratto stipulato col lavoratore.
Le condizioni poste dal comma 7 dell'articolo 54-bis alle p.a. per utilizzare il lavoro occasionale sono molteplici. In primo luogo, occorre il rispetto dei vincoli previsti dalla vigente disciplina in materia di contenimento delle spese di personale. In secondo luogo, bisogna rispettare il limite massimo di durata oraria, fissata dal successivo comma 20, in 280 ore l'anno. In terzo luogo, le collaborazioni occasionali sono ammesse esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali, da motivare.
Il decreto esplicita 4 possibili tipologie di esigenze quali causa del lavoro occasionale. Una prima è il suo utilizzo «nell'ambito di progetti speciali rivolti a specifiche categorie di soggetti in stato di povertà, di disabilità, di detenzione, di tossicodipendenza o che fruiscono di ammortizzatori sociali». Una seconda tipologia riguarda lo «svolgimento di lavori di emergenza correlati a calamità o eventi naturali improvvisi». Il lavoro occasionale sarò in terzo luogo utilizzabile «per attività di solidarietà, in collaborazione con altri enti pubblici o associazioni di volontariato» e, infine, «per l'organizzazione di manifestazioni sociali, sportive, culturali o caritative».
Soltanto la seconda e la quarta tipologia sono pienamente comprensibili e coerenti con l'enunciazione delle esigenze temporanee o eccezionali, riguardando la necessità di una provvista di personale necessario a far fronte a necessità legate ad emergenze o a manifestazioni.
L'impiego del lavoro occasionale in progetti di volontariato pare sostanzialmente un intento di mettere a disposizione della p.a. uno strumento agile di riduzione salariale, visto che simili esigenze potrebbero essere gestite senza alcun problema con il lavoro a tempo determinato.
Molto delicata è la questione dell'impiego del lavoro occasionale per progetti rivolte a persone in stato di povertà, detenzione, disabilità o percettori di ammortizzatori sociali. Il rischio è creare politiche attive di lavoro poco efficaci, anzi politiche passive sotto mentite spoglie, finalizzate ad assegnare un reddito, con lavori occasionali che mai potranno condurre allo sbocco occupazionale definitivo presso la p.a.
Il superamento del limite orario annuo imposto dalla norma con una p.a. non comporta la trasformazione in lavoro a tempo indeterminato, come avviene per i privati. La p.a. non è, per altro, obbligata a rispettare per le prestazioni rese dal medesimo prestatore il tetto previsto dal comma 1, lettera c), della norma di 2.500 euro. Né le pubbliche amministrazioni sono tenute ad avere alle proprie dipendenze almeno 5 lavoratori, come si impone alle imprese private. C'è, invece, il tetto annuale di spesa massima complessiva di 5 mila euro.
È bene puntualizzare che la norma prevede una misura del compenso oraria netta «minima» di 9 euro. Attribuire, quindi, a un collaboratore occasionale attività ascrivibili a mansioni lavorative che se regolate con un contratto a termine comporterebbero un netto superiore, potrebbe esporre a responsabilità civili, a meno che non sia chiaramente espresso nel contratto di prestazione occasionale la concorde rinuncia del prestatore a ogni vertenza e la piena accettazione del pagamento orario.
Ricordiamo che in un comune, ai sensi della contrattazione collettiva vigente, per la categoria di ingresso nella posizione economica B3, il costo orario lordo sarebbe di circa 14 euro e quello netto di circa 10 euro. Di poco inferiori gli oneri, se l'inquadramento fosse nella posizione economica B1: lordo 13,25, netto 9,45 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2017).

APPALTIStazioni appaltanti, i controlli Anac tornano ma senza multe. Le disposizioni in materia di opere pubbliche. stop agli edifici residenziali intorno agli stadi.
Fondo per la progettazione delle opere da realizzarsi nelle zone a rischio sismico; vietata la realizzazione di edifici residenziali intorno agli stadi; ripristinati i poteri Anac di controllo sulle stazioni appaltanti ma senza sanzioni; procedure derogatorie per gli interventi per i Mondiali di sci alpino a Cortina del 2021; risorse per l'edilizia scolastica. Sono queste alcune delle principali novità contenute nella Manovra approvata alla Camera (decreto-legge 50/2017).
Una novità dell'ultima ora, introdotta in Commissione con un emendamento del relatore, è costituita dal nuovo articolo 41-bis del testo della Commissione sul quale si è votata la fiducia che istituisce un «Fondo per la progettazione definitiva ed esecutiva nelle zone a rischio sismico».
L'obiettivo è quello di favorire gli investimenti, per il triennio 2017-2019, per nuove opere o per adeguamenti di quelle esistenti situate nei Comuni ubicati nelle zone a elevato rischio sismico (zona 1). Il fondo avrà una dotazione di 40 milioni così suddivisi: 5 milioni di euro per l'anno 2017, 15 milioni di euro per l'anno 2018 e 20 milioni di euro per l'anno 2019.
Gli enti locali potranno fare richiesta al Ministero dell'interno per ottenere i contributi per finanziare i progetti, entro il 15 settembre per l'anno 2017 e entro il 15 giugno per ciascuno degli anni 2018 e 2019. Il contributo verrà attribuito con decreto ministeriale entro il 15 settembre per l'anno 2017, e il 15 novembre per gli anni 2018 e 2019. I Comuni potranno stipulare una apposita convenzione, «al fine di sostenere le attività di progettazione, con oneri a carico del contributo concesso», con Invitalia Spa, società Cassa depositi e prestiti Spa o società da essa controllate.
Il decreto-legge approvato dalla Camera risolve poi la questione dei poteri di controllo dell'Anac sugli atti delle stazioni appaltanti (cancellati dal decreto correttivo del Codice appalti, entrato in vigore il 20 maggio) con la previsione che l'Autorità è legittimata ad agire in giudizio per l'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture».
È inoltre stabilito che entro 60 giorni dalla notizia di un provvedimento viziato dalla violazione del codice, l'Anac possa inviare un parere motivato nel quale indica specificamente i vizi di legittimità riscontrati. Nel caso di inerzia da parte della stazione appaltante, l'Anac non potrà più irrogare sanzioni (fino a 25 mila euro) ma potrà presentare ricorso dinanzi al giudice amministrativo;
Viene in parte riscritta la disciplina per la costruzione degli stadi stabilendo che gli studi di fattibilità possano ricomprendere anche la costruzione di immobili con destinazioni d'uso diverse da quella sportiva, complementari e/o funzionali al finanziamento e alla fruibilità dell'impianto, oltre alla eventuale demolizione dello stadio esistente e la ricostruzione costruzione di impianti.
Viene però del tutto esclusa la possibilità di costruire nuovi complessi di edilizia residenziale intorno allo stadio; unica eccezione: la realizzazione di «alloggi di servizio strumentali alle esigenze degli atleti e dei dipendenti della società o dell'associazione sportiva utilizzatrice, nel limite del 20% della superficie utile». Dettagliati anche gli elaborati che dovranno corredare i progetti definitivi degli impianti sia privati, sia pubblici, fra cui la bozza di convenzione urbanistica e il piano economico-finanziario che dovrà recare anche l'indicazione degli istituti bancari finanziatori dell'intervento.
Previsti anche risorse pari a 15 milioni per edilizia scolastica è autorizzata la spesa di 15 milioni per l'anno 2017 a beneficio delle province e delle città metropolitane.
Per la coppa del mondo di sci alpino a Cortina del 2020 e i mondiali dell'anno seguente, si prevede che un commissario governativo predisponga il piano degli interventi da realizzare (impianti e strade) con utilizzo di procedure derogatorie; chiese garanzie aggiuntive (+20%) alle imprese che dovranno realizzare i lavori entro il 31.12.2019 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2017).

ATTI AMMINISTRATIVICon l'accesso generalizzato la privacy è a rischio.
La trasparenza non batte la privacy. Ma la bozza di circolare del ministro della semplificazione Marianna Madia sull'accesso civico generalizzato (cosiddetto Foia) mette a repentaglio la riservatezza dei cittadini: stabilisce che, nei casi dubbi, a priori prevale l'accesso; rischia di negare la parola agli interessati nominati nei documenti di cui si chiede l'accesso.

A denunciarlo è la lettera 30.05.2017 firmata da Antonello Soro, presidente del garante per la protezione dei dati, che elenca una serie di criticità. Vediamo quali.
Bilanciamento. La bozza di circolare afferma il principio della tutela preferenziale dell'interesse conoscitivo del richiedente l'accesso generalizzato. Il Garante della privacy non è d'accordo: le pubbliche amministrazioni devono fare il bilanciamento degli interessi e non c'è la regola che nei casi dubbi vince la trasparenza.
Controinteressati. La bozza di circolare afferma che chi è citato nei documenti non necessariamente deve essere avvisato in caso di richiesta di accesso a quegli atti. Il passaggio, secondo il garante, è fuorviante perché rischia di indurre le p.a. a non chiedere la partecipazione del soggetto cui si riferiscono i dati, che non potrebbe dire parola anche se i dati sono suoi.
Registro. La bozza di circolare prevede la pubblicazione di un registro, contenente l'elenco delle richieste con il relativo esito. Il garante replica che la pubblicazione non è prevista da norma di legge o di regolamento, e quindi bisogna comunque eliminare i dati personali eventualmente presenti.
Termine. Nella bozza di circolare è indicato che il termine iniziale dei 30 giorni per rispondere alle richieste di accesso civico decorre dalla data di presentazione dell'istanza. Il garante risponde che il termine deve partire dalla data di effettiva ricezione dell'istanza, e cioè dalla data, certa e dimostrabile, di materiale acquisizione della stessa, indipendentemente dalla data di protocollazione: e cioè la data di consegna della Pec o della raccomandata, la data di recapito della mail non certificata o il timbro con la data di ricezione se l'istanza è consegnata a mani. In assenza però di elementi certi sulla ricezione in tempi antecedenti alla protocollazione, il termine decorre da quest'ultima (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOAssunzioni nei piccoli comuni. Ok a sostituzione (condizionata) del 100% dei cessati. MANOVRA CORRETTIVA/ Le novità per gli enti locali nel decreto passato al Senato.
Personale, contabilità e province. Si concentrano in questi tre ambiti le novità di interesse degli enti locali introdotte dalla Camera in sede di conversione del dl 50/2017, ora al Senato.
Per quanto concerne il primo aspetto, il correttivo più importante riguarda i mini-enti da 1.000 a 3.000 abitanti, che (come già accade per quelli più piccoli) potranno assumere il 100% dei cessati dell'anno precedente se spendono per gli stipendi meno del 24% delle proprie entrate correnti.
Interessanti anche le modifiche che puntano a rendere più agevoli i nuovi ingressi nelle unioni. In materia contabile, vengono soddisfatte sia le richieste degli enti virtuosi di vedere alleggeriti i limiti di spesa da rispettare (ma per quest'anno occorre aver approvato il rendiconto 2016 entro il 30 aprile, mentre dal 2018 sarà necessario varare il preventivo entro il 31 dicembre dell'anno precedente), sia quelle degli enti in affanno con le troppe scadenze, che ottengono più tempo per chiudere la contabilità dello scorso esercizio.
Infine, il capitolo province, dove si registra l'ennesimo tentativo di tamponare gli effetti della riforma «Delrio», concedendo agli enti di area vista un po' di ossigeno finanziario che, però, quasi certamente non basterà a risolvere problemi strutturali (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti decentrati unilaterali. Manca l'intesa? la p.a. può adottare atti sostitutivi.
Resta pieno il potere delle amministrazioni di adottare atti unilaterali sostitutivi dei contratti decentrati, nel caso di perdurare del mancato accordo.

Il decreto di riforma del dlgs 165/2001, modifica l'articolo 40, comma 3-ter, del dlgs 165/2001 nell'intento di rispettare quanto previsto nell'intesa Governo sindacati del 30.11.2016. Essa impegnava il Governo a vincolare il ricorso all'atto unilaterale all'espletamento di tutte le procedure negoziali, al rispetto della correttezza e al verificarsi di un «pregiudizio economico» connesso allo stallo delle trattative.
Il nuovo comma 3-ter dell'articolo 40 dispone che «Nel caso in cui non si raggiunga l'accordo per la stipulazione di un contratto collettivo integrativo, qualora il protrarsi delle trattative determini un pregiudizio alla funzionalità dell'azione amministrativa, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede fra le parti, l'amministrazione interessata può provvedere, in via provvisoria, sulle materie oggetto del mancato accordo fino alla successiva sottoscrizione e prosegue le trattative al fine di pervenire in tempi celeri alla conclusione dell'accordo».
Tale norma fa tesoro della giurisprudenza maturata sul tema, secondo la quale l'atto unilaterale sostitutivo del mancato accordo è legittimo solo se le trattative nel frattempo proseguano e l'atto medesimo sia l'ultima ratio per evitare appunto pregiudizi alla funzionalità dell'azione. L'atto unilaterale, quindi, va specificamente motivato.
Nella relazione allegata al testo si legge che «con la modifica apportata, si introduce un criterio più rigoroso e restrittivo per l'amministrazione che intendesse provvedere unilateralmente (occorre il pregiudizio alla funzionalità dell'azione amministrativa) e si prevede altresì che le trattative sindacali non vengano interrotte. Ne discende che non si riscontra alcun vulnus al principio della contrattazione, come invece segnalato dalle commissioni parlamentari, bensì un chiarimento in senso opposto (come richiesto dalla 1ª Commissione Senato)».
Il testo previgente, in effetti, autorizzava l'adozione dell'atto unilaterale «al fine di assicurare la continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica», non per rimediare ad un pregiudizio.
Sul piano formale, quindi, la riforma Madia appare rispettosa dell'accordo del 30.11.2016 e rispondere alle preoccupazioni del Parlamento e del Consiglio di stato.
Tuttavia, sul piano sostanziale cambia pochissimo. La continuità e il migliore svolgimento della funzione pubblica erano pregiudicate, nel previgente sistema, dallo stallo delle trattative e dall'assenza del contratto decentrato, tanto quanto, oggi, col nuovo testo il medesimo stallo determini pregiudizio evidente alla funzionalità dell'azione amministrativa.
Detto pregiudizio è, di fatto, in re ipsa: coincide di per sé con l'assenza del titolo giuridico in base al quale l'ente può legittimamente destinare le risorse ai fini, in particolare, della produttività. È noto che i servizi ispettivi del Mef e la Corte dei conti hanno colpito in particolare le amministrazioni che avessero erogato le risorse decentrate e i premi in assenza del contratto o con contratti sottoscritti anni dopo quello di spettanza o comunque a fine esercizio finanziario.
I nuovi principi contabili adottati ai sensi del dlgs 118/2011 impongono con estrema chiarezza la stipulazione del contratto come fonte della lecita erogazione del trattamento accessorio.
Quindi, l'imperiosa necessità che il contratto sia stipulato a fini contabili e la necessità che in particolare le risorse variabili riferite alla «performance» siano destinate a inizio anno, per evitare che siano distribuite a pioggia a consuntivo, rendono di per sé uno stallo che vada oltre i primissimi mesi di ciascun anno foriero di pregiudizio all'azione amministrativa, esponendo gli enti a pesantissime responsabilità amministrative ed erariali, rispetto alle quali l'atto unilaterale non solo può, ma anzi deve costituire un baluardo (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

APPALTICollaudi esterni, ultima ratio. Certificato differenziato per tipo e valore del contratto. Le modifiche apportate dal primo correttivo del codice appalti in attesa del decreto del Mit.
Certificato di collaudo sostituibile con quello di regolare esecuzione, da emettere entro tre mesi dall'ultimazione delle prestazioni contrattuali; compensi dei collaudatori interni all'amministrazione contenuti nell'incentivo del 2%; possibilità di affidare a terzi il collaudo solo per accertata carenza di organico.

È quanto ha stabilito il nuovo articolo 102 del codice dei contratti pubblici, come modificato dal decreto correttivo 56/2017 che stabilisce un regime differenziato per l'emissione del certificato di collaudo a seconda del tipo di contratto e del valore dell'affidamento.
Così, per i contratti pubblici di lavori di importo superiore a un milione di euro e inferiore alla soglia di applicazione della normativa Ue (5,2 milioni circa) il certificato di collaudo può essere sostituito dal certificato di regolare esecuzione rilasciato per i lavori dal direttore dei lavori.
Sarà però il decreto del ministro delle infrastrutture e dei trasporti di approvazione delle linee guida Anac sul direttore dei lavori e sul direttore dell'esecuzione, ancora non emesso, a dettagliare i casi in cui il certificato di collaudo dei lavori e il certificato di verifica di conformità potranno essere sostituiti dal certificato di regolare esecuzione.
Per i lavori di importo pari o inferiore a un milione di euro e per gli altri contratti forniture e servizi di importo inferiore alla soglia di applicazione della normativa europea (quindi al di sotto dei 209 mila euro) la stazione appaltante potrà sempre sostituire il certificato di collaudo o il certificato di verifica di conformità con il certificato di regolare esecuzione.
In ogni caso il certificato di regolare esecuzione dovrà essere emesso non oltre tre mesi dalla data di ultimazione delle prestazioni.
Il decreto correttivo del codice precisa poi che non solo il collaudo finale (come stabilito con il decreto 50/2016), ma anche la verifica di conformità deve avere luogo non oltre sei mesi dall'ultimazione dei lavori, salvi i casi, individuati dal decreto ministeriale, e che entrambi tali documenti hanno carattere provvisorio e assumono carattere definitivo dopo due anni.
Sulla disciplina di nomina della commissione di collaudo: la stazione appaltante nominerà i collaudatori tra i propri dipendenti o dipendenti di altre amministrazioni pubbliche in numero variabile da uno a tre componenti che dovranno essere in possesso di una qualificazione rapportata alla tipologia e caratteristica del contratto, nonché di requisiti di moralità, competenza e professionalità, oltre che essere iscritti all'albo dei collaudatori nazionale o regionale di pertinenza.
Per quel che attiene ai compensi la nuova norma prescrive che, per i dipendenti della stazione appaltante, sia contenuto nell'ambito dell'incentivo di cui all'articolo 113 del codice, mentre per i dipendenti di altre amministrazioni pubbliche è determinato ai sensi della normativa applicabile alle stazioni appaltanti e nel rispetto delle disposizioni di cui all'articolo 61, comma 9, del dl 25/06/2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133.
Una disciplina ad hoc viene prevista per il collaudo statico dei lavori: i collaudatori delle strutture (per la redazione del collaudo statico) verranno individuati fra dipendenti della stazione appaltante ovvero tra i dipendenti delle altre amministrazioni.
La possibilità di scegliere sul mercato, con apposita gara ad evidenza pubblica per l'affidamento del servizio di collaudo viene circoscritta ai casi di «accertata carenza nell'organico della stazione appaltante, ovvero di altre amministrazioni pubbliche» (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

APPALTIAnac torna a controllare le stazioni appaltanti. Restituiti all'Authority i suoi poteri con la manovra di governo.
Ripristinato il potere di controllo dell'Anac sugli atti illegittimi delle stazioni appaltanti; a un parere motivato potrà seguire l'eventuale impugnativa al Tar dell'atto dell'amministrazione.

Lo prevede l'articolo 52-ter del decreto-legge 50/2017 (la cosiddetta manovra correttiva approvata alla camera) che mette fine al polverone determinatosi subito dopo il consiglio dei ministri del 19 aprile che approvò il decreto correttivo del codice dei contratti pubblici: il testo portato in riunione non prevedeva infatti, la soppressione dei poteri di raccomandazione vincolanti dell'Anac, mentre quello uscito dal consiglio dei ministri cancellava la norma (comma 2 dell'articolo 211 del decreto 50/2016).
Si trattava della disposizione che affidava all'Anticorruzione il potere sanzionatorio in caso di atti illegittimi emessi dalla stazione appaltante. In questi casi l'Anac, mediante atto di raccomandazione, avrebbe potuto invitare la stazione appaltante ad agire in autotutela e a rimuovere gli eventuali effetti degli atti illegittimi, entro un termine non superiore a sessanta giorni.
In caso di mancato adeguamento della stazione appaltante alla raccomandazione vincolante dell'Autorità la stazione appaltante sarebbe stata punita con la sanzione amministrativa pecuniaria (che incideva anche sul sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti) variabile da 250 a 25 mila euro posta a carico del dirigente responsabile.
In realtà il Consiglio di stato aveva, già un anno fa, eccepito «significative criticità sul piano della compatibilità con il sistema delle autonomie, in quanto introduce un potere di sospensione immediata e uno di annullamento mascherato che esorbitano dai meccanismi collaborativi ammessi dalla Consulta con la sentenza 14.02.2013» e sotto il profilo della «ragionevolezza e presunzione di legittimità degli atti amministrativi».
I giudici, un anno fa, avevano anche suggerito come rettificare la norma: «è da preferire allora una riformulazione in chiave di controllo collaborativo al fine di giustificare il potere dell'Anac, usando una locuzione coincidente con la qualificazione usata dalla Consulta con riguardo alla legittimazione processuale conferita dall'art. 21-bis cit. all'Autorità garante della concorrenza e del mercato».
Seguendo questa linea, con il decreto-legge 50/2017 vengono inseriti tre commi nell'art. 211 del codice (1-bis, ter e quater) stabilendo che l'Anac «è legittimata ad agire in giudizio per l'impugnazione dei bandi, degli altri atti generali e dei provvedimenti relativi a contratti di rilevante impatto, emessi da qualsiasi stazione appaltante, qualora ritenga che essi violino le norme in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture».
In particolare l'Anac potrà emettere nei confronti della stazione appaltante, entro sessanta giorni dalla notizia di un provvedimento viziato dalla violazione del codice, un parere motivato nel quale verranno indicati specificamente i vizi di legittimità riscontrati.
Nel caso di inerzia da parte della stazione appaltante, l'Anac potrà presentare ricorso dinanzi al giudice amministrativo.
Sarà poi l'Authority a definire con proprio regolamento i provvedimenti sui quali esercitare il controllo (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTIAccertamenti anonimi. Bastano il timbro e le iniziali del dirigente. CASSAZIONE/ La firma è valida anche se non risulta leggibile.
È legittimo l'accertamento anche se non riporta la firma del dirigente ma solo sigla e timbro. Ma non solo. L'atto può essere emesso sulla base dei dati raccolti dalla Guardia di finanza nell'indagine penale nonostante siano stati trasmessi alle Entrate senza l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria.

Sono questi, in sintesi, i principi affermati dalla Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 20.12.2017 n. 30560.
È stato quindi integralmente respinto il ricorso di una società che lamentava l'invalidità dell'accertamento privo della firma leggibile e per esteso del dirigente e motivato sui dai raccolti nell'ambito dell'inchiesta penale.
Con riguardo al primo aspetto gli Ermellini hanno infatti precisato che la nullità di un atto non dipende dalla illeggibilità della firma di chi si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di individuare l'identità del firmatario dell'atto, con la precisazione che l'autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza giuridica degli atti amministrativi.
Sul secondo fronte il Collegio di legittimità ha invece ribadito l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria, richiesta dalle norme per la trasmissione, agli Uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell'ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, e non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi (articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
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MASSIMA
2.4. Il motivo, relativamente alla censura supra sub a), non pone una questione motivazionale, ma di interpretazione della norma, in particolare se il timbro del titolare dell'Ufficio, apposto sull'avviso di accertamento, equivalga al requisito della sottoscrizione, richiesto dalla norma stessa.
La censura è infondata, tenuto conto delle caratteristiche formali degli avvisi, che recano tutti non solo il timbro ma anche la sigla (come riscontrato dalla Corte mediante esame dei documenti), ed «
avuto riguardo al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità secondo cui la nullità di un atto non dipende dalla illeggibilità della firma di chi si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, ma dall'impossibilità oggettiva di individuare l'identità del firmatario dell'atto, con la precisazione che l'autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza giuridica degli atti amministrativi, quanto meno quando i dati esplicitati nello stesso contesto documentativo dell'atto consentano di accertare la sicura attribuibilítà dello stesso a chi deve esserne l'autore secondo le norme positive, come è confermato dal D.Lgs. 12.02.1993, n. 39, art. 3 il quale, prevedendo, nel caso di emanazione di atti amministrativi attraverso sistemi informatici e telematici, che la firma autografa sia sostituita dall'indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile, ribadisce sul piano positivo l'inessenzialità ontologica della sottoscrizione autografa ai fini della validità degli atti amministrativi (cfr. Cass. 1^ sez. 07.08.1996 n. 7234; Id. I sez. 24.09.1997 n. 9394; id. 3^ sez. 10.02.2000 n. 1458; id. 1^ sez. 28.12.2000 n. 16204; id. 1^ sez. 22.11.2004 n. 21954, tutte con riferimento ad ordinanza-ingiunzione. Con specifico riferimento alla materia tributaria: Cass. 5^ sez. 27.02.2009 n. 4757, secondo cui la nullità della cartella di pagamento deve essere esclusa anche in mancanza di sottoscrizione del funzionario competente se gli altri elementi formali consentano inequivocabilmente di riferire l'atto all'organo amministrativo titolare del potere di emetterlo; id. 5^ sez. 23.02.2010 n. 4283 secondo cui "l'avviso di mora emesso dal concessionario del servizio di riscossione è valido, pur se privo della sottoscrizione da parte del funzionario competente, in quanto la carenza di tale elemento formale non implica alcuna menomazione né del potere del concessionario, che dipende da rapporto "a monte" con l'ente impositore, né della responsabilità in ordine all'emissione del singolo alto impositivo, sempre riferibile nei confronti dei terzi all'ente che lo emette, a prescindere dall'identità del funzionario che materialmente lo esegue, né, a fortiori, delle prerogative e del diritto di difesa de/soggetto destinatario dell'atto" (Cass. n. 26176/2011)».

PUBBLICO IMPIEGO: Il diritto del dipendente pubblico ad ottenere il trasferimento a una sede di lavoro che consenta di prestare assistenza al congiunto disabile (configurato, ai sensi dell'art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992, con l'espressione "ove possibile") non viene meno nel caso in cui l'amministrazione che si oppone non dia adeguata prova delle ragioni oggettive che rendono prevalente l'interesse organizzativo a trattenere il dipendente nell'attuale sede e, dunque, recessivo l'interesse alla tutela del disabile al quale prestare assistenza.
Nella valutazione dell'istanza va tenuto conto, infatti, che la posizione del dipendente pubblico che, invocando la legge 05.02.1992, n. 104, chiede per ragioni familiari l'assegnazione per trasferimento ad altra sede di servizio, si qualifica come interesse legittimo, per cui spetta all'Amministrazione valutare l'istanza alla luce delle esigenze organizzative e di efficienza complessiva del servizio ma, trattandosi di disposizioni rivolte a dare protezione a valori di rilievo costituzionale, ogni eventuale limitazione o restrizione nella relativa applicazione deve comunque essere espressamente dettata e congruamente motivata.
Di conseguenza, ai fini di ottenere una sede di lavoro più vicina alla residenza delle persone cui prestare assistenza, sussistendone le condizioni di legge l'Amministrazione può condizionare detto trasferimento solo provando il bisogno di corrispondere ad indeclinabili esigenze organizzative o di efficienza complessiva del servizio, esigenze che nel caso di specie non risultano ricorrere.
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... per la riforma della sentenza 26.05.2016 n. 742 del TAR PIEMONTE-TORINO: SEZ. I, resa tra le parti, concernente il diniego di trasferimento.
...
1. Il sig. -OMISSIS-, in servizio presso la Casa Circondariale di Biella dal maggio 2001, con funzione di assistente capo del Corpo di Polizia penitenziaria, chiedeva in data 07.02.2013, ai sensi dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992, il trasferimento presso le case circondariali di Brindisi o di Lecce, al fine di poter assistere il padre, affetto da grave patologia e la madre, in stato di salute precaria, e per poter essere più vicino ai figli, affidati congiuntamente al coniuge da cui era separato.
Il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - Direzione Generale del Personale, con provvedimento del 07.05.2013, respingeva la domanda.
1.2. Il sig. -OMISSIS- in data 15.07.2013 presentava una nuova domanda di trasferimento, che veniva ancora una volta respinta dall'Amministrazione con nota del 21.10.2013.
Il sig. -OMISSIS-, quindi, proponeva ricorso gerarchico che pure veniva respinto con decreto del 07.04.2014, in cui si affermava che nella sede di Biella erano presenti 187 agenti, mentre 229 erano le unità in pianta organica, senza precisare il numero dei detenuti.
1.3. Il sig. -OMISSIS- presentava una terza istanza di trasferimento anche questa respinta dal Ministero della Giustizia con atto del 29.01.2015, notificato all'interessato in data 11.5.2015, sempre motivata da carenza di organico, in quanto a fronte di 171 unità in pianta organica, nella sede erano in servizio 155 unità per 266 detenuti.
1.4. Avverso detto provvedimento il sig. -OMISSIS- proponeva ricorso al TAR per il Piemonte assumendo che l'Amministrazione non avrebbe rispettato l'impegno a corrispondere alla sua istanza in caso di sopravvenienze favorevoli, ma avrebbe autorizzato il trasferimento di altri dipendenti.
1.5. Il TAR con ordinanza n. 282 del 03.03.2016, preso atto della contraddittorietà dei dati relativi indicati nei diversi provvedimenti, chiedeva all’Amministrazione di predisporre una relazione sulla situazione dell’organico degli agenti in servizio presso la Casa Circondariale di Biella alla data di presentazione della domanda di trasferimento del sig. -OMISSIS-.
1.6. Di seguito, il TAR con sentenza n 742 del 26.05.2016 ha rigettato il ricorso, atteso che dalla relazione depositata dall'Amministrazione era emerso che nel ruolo agenti e assistenti maschili della Casa Circondariale di Biella, a fronte di una previsione organica di 171 unità, risultavano assegnate n. 166 unità (di cui 3 distaccate in entrata e 14 in uscita); che gli organici delle sedi di gradimento del ricorrente risultavano in soprannumero; che un trasferimento risulta "possibile" qualora non ostino esigenze organizzative ed operative dell'Amministrazione di appartenenza.
2. Avverso la sentenza il sig. -OMISSIS- ha proposto appello.
...
3. L'appello è fondato e va accolto.
3.2. Nella relazione depositata l'Amministrazione ha fatto presente che nessun trasferimento in uscita dalla sede biellese è stato adottato nei confronti di pari ruolo, dall'anno 2011 ad oggi verso le sedi richieste dall'appellante e che, tuttavia, sono stati emessi dei provvedimenti di distacco temporaneo in applicazione dell'art. 7 del D.P.R. n. 254/1999, della durata, a seconda della gravità delle motivazioni messe a sostegno delle istanze, di non più di complessivi 6/8 mesi senza oneri.
Ha precisato, altresì, che anche il sig. -OMISSIS- ha beneficiato di tali provvedimenti temporanei dal 04.06.2012 al 05.01.2013; dal 03.06.2013 al 10.01.2014; dal 14.04.2014 al 06.03.2016, dall'01.06.2016 al 31.07.2016, dall'01.08.2016 all'01.03.2017 e dal 15.06.2017 al 15.08.2017.
Il Ministero della Giustizia ha, quindi, evidenziato che alla data del 26.11.2014, per il ruolo maschile degli agenti e assistenti (ad esclusione dei distacchi autorizzati) erano assegnate presso la Casa Circondariale di Biella 166 unità sulle 171 previste; presso la Casa Circondariale di Brindisi 148 unità sulle 125 previste; presso la Casa Circondariale di Taranto 242 unità sulle 241 previste; presso la Casa Circondariale di Lecce 511 unità sulle 519 previste.
4. Orbene, il Collegio osserva che la scopertura dell'organico della sede di Biella risulta abbastanza lieve e, comunque, non dissimile dalla scopertura all'epoca esistente presso la Casa Circondariale di Lecce e che dette scoperture appaiono del tutto ordinarie in relazione al turn-over del personale per collocamenti a riposo e movimentazioni varie, oltre che nell'attesa della conclusione dei concorsi per le nuove assunzioni.
E lo stesso ripetersi di frequenti e prolungati distacchi di cui ha fruito il sig. -OMISSIS- ed altri suoi colleghi è prova, inoltre, della situazione della Casa Circondariale di Biella non presenta carenze tali da impedire allontanamenti di personale del ruolo e del grado dell'interessato.
Invero, il diritto del dipendente pubblico ad ottenere il trasferimento a una sede di lavoro che consenta di prestare assistenza al congiunto disabile (configurato, ai sensi dell'art. 33, comma 5, l. n. 104 del 1992, con l'espressione "ove possibile") non viene meno nel caso in cui l'amministrazione che si oppone non dia adeguata prova delle ragioni oggettive che rendono prevalente l'interesse organizzativo a trattenere il dipendente nell'attuale sede e, dunque, recessivo l'interesse alla tutela del disabile al quale prestare assistenza (Consiglio di Stato sez. III 10.11.2015 n. 5113).
4.3. Nella valutazione dell'istanza va tenuto conto, infatti, che la posizione del dipendente pubblico che, invocando la legge 05.02.1992, n. 104, chiede per ragioni familiari l'assegnazione per trasferimento ad altra sede di servizio, si qualifica come interesse legittimo, per cui spetta all'Amministrazione valutare l'istanza alla luce delle esigenze organizzative e di efficienza complessiva del servizio ma, trattandosi di disposizioni rivolte a dare protezione a valori di rilievo costituzionale, ogni eventuale limitazione o restrizione nella relativa applicazione deve comunque essere espressamente dettata e congruamente motivata.
4.4. Di conseguenza, ai fini di ottenere una sede di lavoro più vicina alla residenza delle persone cui prestare assistenza, sussistendone le condizioni di legge l'Amministrazione può condizionare detto trasferimento solo provando il bisogno di corrispondere ad indeclinabili esigenze organizzative o di efficienza complessiva del servizio, esigenze che nel caso di specie non risultano ricorrere.
5. Per quanto rappresentato sussistevano i presupposti per cui il trasferimento richiesto dal sig. -OMISSIS- ai sensi dell'art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992 doveva essere accolto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.12.2017 n. 5983 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Nel caso in esame, la realizzazione ex novo di un corpo interrato di consistente volumetria (> 800 mc), ancorché destinato alla allocazione degli impianti tecnici, sfugge alla qualificazione di semplice miglioria rispetto alla originaria ipotesi progettuale, costituendo ad avviso del Collegio una vera e propria variante.
In altri termini, non appare quindi coerente con le prescrizioni della lex specialis e con il divieto -normativamente previsto- di apportare varianti al progetto posto a base di gara, rubricare come semplice soluzione migliorativa degli aspetti funzionali e distributivi (criterio A.2, punto 4, del Disciplinare di gara) la realizzazione di una nuova cubatura interrata ove allocare gli impianti.
Correttamente parte ricorrente richiama la recente pronuncia del TAR Sardegna che, in relazione alla sostanziale differenza tra “soluzioni tecniche migliorative” e “variante” e facendo applicazione dell’insegnamento del Consiglio di Stato ritiene come le prime “si differenziano dalle varianti perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione”.
Anche per il Consiglio di Stato, pur nell’ambito del pregresso quadro normativo, si tratta di "variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche", direttamente riferibili alle singole forniture e le lavorazioni in cui si sostanzia l’opera, in virtù delle quali quest’ultima può risultare meglio rispondente al quadro delle esigenze funzionali poste a base della progettazione ed ai relativi aspetti qualitativi, come predeterminati nel progetto preliminare ai sensi dell’art. 17 d.p.r. n. 207/2010.
Le varianti, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara ex art. 76 d.lgs. n. 163/2006, sopra citato, e l’individuazione dei relativi requisiti minimi (comma 3 della citata disposizione), che segnano i limiti entro i quali l’opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dall’amministrazione, pur tuttavia consentito.
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Con la prima censura parte ricorrente si duole della mancata esclusione della proposta progettuale presentata dalla aggiudicataria Re.Co.St., nella qualità sopra indicata, avendo in considerazioni alcune delle ipotesi progettuali prospettate che, lungi dal costituire semplici migliorie, previste dal disciplinare, avrebbero essere valutate come vere e proprie inammissibili varianti.
La censura, nei termini che seguono, risulta fondata.
Ebbene, osserva il Collegio che il progetto esecutivo posto oggetto di gara prevedeva la collocazione delle unità impiantistiche (relative al trattamento dell’aria, alla climatizzazione ecc.) sul lastrico solare di copertura, previa demolizione del volume/lucernario esistente e l'inserimento di lucernari a cupola (poco invasivi).
Il progetto presentato dalla controinteressata Re.Co.St. prevede rispettivamente:
   a) il mantenimento (previa ristrutturazione) del volume/lucernario già esistente sulla copertura;
   b) la creazione di un nuovo vano interrato (adiacente il limitrofo fabbricato B) ove collocare il complesso degli apparati tecnologici;
   c) l'eliminazione delle schermature previste in progetto.
Ritiene il Collegio che la soluzione progettuale sub. b) costituisca, come opinato dalla ricorrente, una effettiva variante al progetto esecutivo posto a base di gara ed in quanto tale risulta inammissibile.
Ed invero la soluzione proposta dalla aggiudicataria implica la realizzazione di un nuovo volume interrato, non previsto dal progetto posto a base di gara, di non trascurabili dimensioni (S>200 mq — V>800 mc) e posto in aderenza al viciniore edificio “B”, per la realizzazione del quale sono necessari importanti opere di scavo (stimate in circa 400cm dalla quota piano posa). Per la realizzazione del nuovo vano tecnico interrato, nella proposta progettuale della controinteressata si prevede la riduzione della capacità della vasca destinata alla riserva idrica antincendio del realizzando complesso (pari di mc. 50 nel progetto a base di gara e quindi ridotta soli 26,30 mc nell'offerta di controparte).
A differenti conclusioni non potrebbe giungersi, ad avviso del Collegio, mercé il richiamo al fatto che le nuove opere previste, siccome destinate alla allocazione di impianti tecnici a servizio dell’edificio, non possano costituire una variante essenziale o un nuovo volume in senso tecnico. Invero, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. VI, 08/20/2016, n. 507, con cui si conferma la sentenza del TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, n. 291/2015) la nozione di “volume tecnico” non computabile nella volumetria non ricorre se non quando non sussistano modalità alternative di costruzione non implicanti aumenti di volumetria o comunque incrementi volumetrici del tutto contenuti.
Nel caso in esame, la realizzazione ex novo di un corpo interrato di consistente volumetria (> 800 mc), ancorché destinato alla allocazione degli impianti tecnici, sfugge alla qualificazione di semplice miglioria rispetto alla originaria ipotesi progettuale, costituendo ad avviso del Collegio una vera e propria variante.
Opportunamente parte ricorrente rimarca come la stazione appaltante, nel progetto posto a base gara e nel CSA, si premurava di attenzionare i concorrenti sul fatto che "i lavori di recupero riguardano unità edilizie limitrofe ed adiacenti ad unità abitate...", rimarcando la necessità "di evitare danni alle cose ed agli immobili non oggetto di intervento in questa sede" per non intaccare la tenuta strutturale dei fabbricati viciniori.
In altri termini, non appare quindi coerente con le prescrizioni della lex specialis e con il divieto -normativamente previsto- di apportare varianti al progetto posto a base di gara, rubricare come semplice soluzione migliorativa degli aspetti funzionali e distributivi (criterio A.2, punto 4, del Disciplinare di gara) la realizzazione di una nuova cubatura interrata ove allocare gli impianti.
Correttamente parte ricorrente richiama la recente pronuncia del TAR Sardegna (Sez. I, 19.04.2017, n. 262) che, in relazione alla sostanziale differenza tra “soluzioni tecniche migliorative” e “variante” e facendo applicazione dell’insegnamento del Consiglio di Stato (Sez. V, 21.12.2012, n. 6615) ritiene come le primesi differenziano dalle varianti perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione”.
Anche per il Consiglio di Stato (Sez. V, sentenza 29.03.2011, n. 1925), pur nell’ambito del pregresso quadro normativo, si tratta di "variazioni migliorative rese possibili dal possesso di peculiari conoscenze tecnologiche", direttamente riferibili alle singole forniture e le lavorazioni in cui si sostanzia l’opera, in virtù delle quali quest’ultima può risultare meglio rispondente al quadro delle esigenze funzionali poste a base della progettazione ed ai relativi aspetti qualitativi, come predeterminati nel progetto preliminare ai sensi dell’art. 17 d.p.r. n. 207/2010.
Le varianti, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara ex art. 76 d.lgs. n. 163/2006, sopra citato, e l’individuazione dei relativi requisiti minimi (comma 3 della citata disposizione), che segnano i limiti entro i quali l’opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dall’amministrazione, pur tuttavia consentito... (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 20.12.2017 n. 2942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Occorre rammentare la sussistenza di una sostanziale differenza tra “soluzioni tecniche migliorative” e “variante”, e la giurisprudenza amministrativa ritiene come le prime “si differenziano dalle varianti perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione”.
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Le censure possono essere congiuntamente scrutinate e risultano entrambe infondate in relazione alle doglianza mosse nei confronti della I.Co.Ser..
Valgano a tal fine le seguenti considerazioni:
   - in primo luogo, quanto alla attribuzione del punteggio per le migliorie relativi ai criteri C.1 e C.2 (organizzazione del cantiere) la non perfetta coincidenza tra le soluzioni proposte dalla ricorrente e dalla I.Co.Ser. non fa emergere quella palese irrazionalità entro i cui margini può essere esercitato il controllo giurisdizionale dal parte del Giudice rispetto alle valutazioni tecnico discrezionali formulate dalla Commissione (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, 11/12/2015 n. 5655; TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 12/04/2016, n. 951): invero a fronte di soluzioni differenti il Consorzio Stabile Galileo qui ricorrente ha avuto assegnato per le predette voci punti 11,43 rispetto ai punti 14,15 riconosciuti alla I.Co.Ser.;
   - in relazione alla attribuzione di punti 6,23 per il criterio B.1, quanto la soluzione proposta per il pacchetto di copertura (strato di marmittoni in graniglia di marmo posti su strato di sabbia di 3 cm di spessore, in luogo del previsto massetto in calcestruzzo con areanti dello spessore di cm. 10 del progetto a base di gara) osserva il Collegio che l’ipotesi progettuale della I.Co.Ser. (relativa allo sola copertura e non anche agli altri impalcati, come invece contestato alla prima graduata Research) correttamente sia stata qualificata dalla stazione appaltante quale “miglioria” ammissibile, tenuto conto altresì che -quanto al range del maggior peso della soluzione proposta- è rimasta incontestata la prospettazione di parte resistente secondo cui si rientra nei limiti “previsti dalla normativa per i solai di copertura calpestabili”: invero occorre rammentare la sussistenza di una sostanziale differenza tra “soluzioni tecniche migliorative” e “variante”, e la giurisprudenza amministrativa (cfr. di recente TAR Sardegna, Sez. I, 19.04.2017, n. 262; Cons. di Stato, Sez. V, 21/12/2012, n. 6615) ritiene come le primesi differenziano dalle varianti perché possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati "aperti" a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione del pregio delle offerte dal punto di vista tecnico, rimanendo comunque preclusa la modificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall’amministrazione” (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 20.12.2017 n. 2941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 15, co. 2, D.P.R. n. 380/2001, esige un «provvedimento motivato», nel quale devono essere adeguatamente rappresentati e valutati i «fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso» che abbiano impedito l’inizio dei lavori.
Ciò implica una manifestazione di volontà espressa da parte dell’Amministrazione competente, che espliciti gli esiti della valutazione di congruità dei motivi addotti dal richiedente: «la proroga dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall’atto originario.
Nell’ambito della materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell’originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede all’originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia.
La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione».
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Ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001, senza dubbio la decadenza del permesso di costruire costituisce “effetto automatico del trascorrere del tempo”.
Ed infatti, l’art. 15 citato prevede, per quel che interessa nella presente sede:
   “1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
   2. Il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
   3. La realizzazione della parte dell’intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione (...)”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire, l’istituto della decadenza ha natura dichiarativa e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue
ex lege al presupposto legislativamente indicato.
Tuttavia, l’intervenuta decadenza, realizzatasi per superamento dei termini previsti per la realizzazione della costruzione (ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001), comporta la impossibilità di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora da eseguire, sempre che le stesse non possano essere realizzate sulla base di denuncia di inizio attività.
In sostanza, una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso (e come la norma prevede), a provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione”».
Ed ancora: «la pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc».
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La conseguenza di tale intervenuta decadenza è la illegittimità derivata del provvedimento in variante successivamente intervenuto, in quanto adottato dall’Amministrazione comunale in carenza del titolo abilitativo presupposto.
Il nuovo provvedimento, infatti, in quanto volto a introdurre una variante rispetto al precedente permesso, lo presuppone ancora valido ed efficace, atteso che «rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica -tra l’altro- le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale».
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Tutto ciò premesso, con censura fondata e assorbente i ricorrenti rilevano la illegittimità del p.a.u. n. 15/2016, in quanto adottato in variante di un permesso di costruire (il n. 86/2013) ormai decaduto per l’inutile decorso del termine di inizio dei lavori, non essendo intervenuta alcuna proroga espressa da parte del Comune di Polllica.
Sul punto non vi è contestazione: il Comune di Pollica, nella «Relazione di chiarimenti» depositata il 04.03.2017, dichiara che «non ritenne necessario alcun atto formale di proroga».
In ordine alla necessità di una proroga espressa, il Collegio rileva che l’art. 15, co. 2, D.P.R. n. 380/2001, esige un «provvedimento motivato», nel quale devono essere adeguatamente rappresentati e valutati i «fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso» che abbiano impedito l’inizio dei lavori; ciò implica una manifestazione di volontà espressa da parte dell’Amministrazione competente, che espliciti gli esiti della valutazione di congruità dei motivi addotti dal richiedente: «la proroga dei termini stabiliti da un atto amministrativo ha la natura giuridica di provvedimento di secondo grado, in quanto modifica, ancorché parzialmente, il complesso degli effetti giuridici delineati dall’atto originario (ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 18.09.2008, n. 4498). Nell’ambito della materia edilizia, la differente qualificazione tra provvedimenti di rinnovo della concessione edilizia e di proroga dei termini di ultimazione dei lavori è riscontrabile nel senso che, mentre il rinnovo della concessione presuppone la sopravvenuta inefficacia dell’originario titolo concessorio e costituisce, a tutti gli effetti, una nuova concessione, la proroga è atto sfornito di propria autonomia che accede all’originaria concessione ed opera semplicemente uno spostamento in avanti del suo termine finale di efficacia. La proroga è quindi disposta con provvedimento motivato sulla scorta di una valutazione discrezionale, che in termini tecnici si traduce nella verifica delle condizioni oggettive che la giustificano, tenendo presente che, proprio perché il risultato è quello di consentire una deroga alla disciplina generale in tema di edificazione, i presupposti che fondano la richiesta di proroga sono espressamente indicati in norma e sono di stretta interpretazione» (Cons. di Stato, IV, sent. n. 1013/2014).
Pertanto -e in disparte la questione della concreta assentibilità della proroga stessa alla luce delle giustificazioni fornite dalla Ak.Im., in tutto riconducibili alla stessa società e non a fatti estranei, come richiesto invece dalla legge- il permesso di costruire n. 86/2013 doveva (e deve) ritenersi decaduto: «ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001, senza dubbio la decadenza del permesso di costruire costituisce “effetto automatico del trascorrere del tempo”.
Ed infatti, l’art. 15 citato prevede, per quel che interessa nella presente sede: “1. Nel permesso di costruire sono indicati i termini di inizio e di ultimazione dei lavori.
2. Il termine per l’inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l’opera deve essere completata non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. Entrambi i termini possono essere prorogati, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti estranei alla volontà del titolare del permesso. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, esclusivamente in considerazione della mole dell’opera da realizzare o delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari.
3. La realizzazione della parte dell’intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante denuncia di inizio attività ai sensi dell’articolo 22. Si procede altresì, ove necessario, al ricalcolo del contributo di costruzione (...)”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di chiarire (Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2011 n. 5028), l’istituto della decadenza ha natura dichiarativa e presuppone un atto di accertamento di un effetto che consegue
ex lege al presupposto legislativamente indicato.
Tuttavia, l’intervenuta decadenza, realizzatasi per superamento dei termini previsti per la realizzazione della costruzione (ai sensi dell’art. 15, co. 2, DPR n. 380/2001), comporta la impossibilità di realizzare la “parte non eseguita” dell’opera a suo tempo assentita, e la necessità del rilascio di un nuovo titolo edilizio per le opere ancora da eseguire, sempre che le stesse non possano essere realizzate sulla base di denuncia di inizio attività.
In sostanza, una volta intervenuta la decadenza, chiunque intenda completare la costruzione necessita di un nuovo ed autonomo titolo edilizio, che deve provvedere a richiedere, sottoponendosi ad un nuovo iter procedimentale, volto sia a verificare la coerenza di quanto occorre ancora realizzare con le prescrizioni urbanistiche vigenti nell’attualità, sia, se del caso (e come la norma prevede), a provvedere al “ricalcolo del contributo di costruzione”
» (Cons. di Stato, IV, sent. n. 1747/2014; in termini, Cons. di Stato, IV, sent. n. 1520/2016 e Cons. di Stato, VI, sent. n. 5324/2017).
E ancora: «la pronunzia di decadenza del permesso di costruire è connotata da un carattere strettamente vincolato, dovuto all’accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l’inerzia del titolare a darvi attuazione. Pertanto, un tale provvedimento ha carattere meramente dichiarativo di un effetto verificatosi ex se, in via diretta, con l’infruttuoso decorso del termine prefissato con conseguente decorrenza ex tunc (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. IV, 21.08.2013, n. 4206; id., 07.09.2011, n. 5028)» (Cons. di Stato, IV, sent. n. 1013/2014).
La conseguenza di tale intervenuta decadenza è la illegittimità derivata del provvedimento in variante successivamente intervenuto, in quanto adottato dall’Amministrazione comunale in carenza del titolo abilitativo presupposto.
Il nuovo provvedimento, infatti, in quanto volto a introdurre una variante rispetto al precedente permesso, lo presuppone ancora valido ed efficace, atteso che «rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica -tra l’altro- le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale» (Cass. pen., III, sent. n. 24236/2010).
Nella fattispecie in esame, in esame, invece, il p.a.u. n. 15/2016 interviene quando era già decorso il termine di efficacia del p.d.c. n. 86/2013, sicché risulta privo dei presupposti per la sua adozione (TAR Campabia-Salerno, Sez. I, sentenza 20.12.2017 n. 1774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi più trasparenti. Annotazioni dell'esaminatore senza segreti. CORTE DI GIUSTIZIA UE/ Sì alla rettifica per errore materiale.
Esami e concorsi più trasparenti grazie alla privacy. Il candidato può sfruttare il diritto di accesso ai dati per avere conoscenza integrale delle sue prove di esame, delle correzioni e delle annotazioni dell'esaminatore; il candidato può anche ottenere la rettificazione delle correzioni in caso di errore materiale commesso dal valutatore (anche se ovviamente non si possono rettificare le risposte sbagliate).
È quanto deciso dalla Corte di giustizia Ue, con la sentenza 20.12.2017 causa C-434/16, in una vicenda irlandese.
Si tratta, nel caso specifico, delle prove di esame di abilitazione alla professione di consulente fiscale, che sono state chieste dal candidato senza successo. Il diniego dell'organizzazione professionale, che ha tenuto l'esame, è stato motivato con il fatto che la prova d'esame non conterrebbe dati personali e tanto meno sarebbero stati tali le correzioni apportate dagli esaminatori.
Il tema, apparentemente astratto, della qualifica del tema d'esame e cioè se rappresentino un dato personale, così come per le correzioni, assume, invece, profili di concretezza, se si pensa al fatto che solo avendo integralmente le prove di esame l'interessato può contestarle davanti a un giudice e opporsi all'esito in ipotesi non favorevole o pretendere che le prove non siano pubblicate.
La sentenza della Corte del Lussemburgo risolve le questioni di interpretazioni della direttiva europea sulla privacy n. 95/46 in senso favorevole al candidato. Secondo la Corte le risposte scritte fornite dal candidato durante un esame professionale e le eventuali annotazioni dell'esaminatore costituiscono informazioni concernenti tale candidato. Rientrano nel concetto di dato personale, infatti, tutte le informazioni concernenti la persona interessata. Le risposte scritte fornite da un candidato a un esame professionale, dice la sentenza, riflettono il livello di conoscenza e di competenza del candidato in un dato settore e anche i suoi processi di riflessione, il suo giudizio e il suo spirito critico; con queste risposte si valutano le capacità professionali del candidato e la sua idoneità a esercitare il mestiere e il successo o il fallimento del candidato all'esame può avere un effetto sulla vita del candidato.
Allo stesso modo le annotazioni dell'esaminatore relative alle risposte del candidato riflettono l'opinione o la valutazione dell'esaminatore sulle prestazioni individuali del candidato.
La Corte esemplifica le ricadute pratiche della sua impostazione: il candidato ha diritto a che le risposte e le annotazioni siano trattate solo all'interno del procedimento di esame, e può opporsi alla trasmissione a terzi, o alla pubblicazione, senza il suo consenso. Inoltre l'ente che organizza l'esame, deve garantire che le risposte e le annotazioni siano conservate in modo da evitare che terzi vi abbiano accesso in modo illecito.
C'è poi anche il diritto alla rettifica. Ma non bisogna esagerare. Il diritto di rettifica non può, evidentemente, consentire al candidato di rettificare, a posteriori, risposte sbagliate. La rettifica ha senso in altre ipotesi, ad esempio se le annotazioni sono inesatte, per il fatto che, per errore, le prove di esame sono state scambiate in modo tale che le risposte di un altro candidato siano state attribuite al candidato interessato.
Infine non può essere escluso che un candidato abbia il diritto di chiedere che le sue risposte all'esame e le annotazioni dell'esaminatore ad esse riferite, trascorso un certo periodo di tempo, siano cancellate, vale a dire distrutte.
Non sono dato personale, invece, le domande poste in sede di esame (articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).
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MASSIMA
Le risposte scritte fornite da un candidato durante un esame professionale e le eventuali annotazioni dell’esaminatore ad esse relative costituiscono dati personali del candidato ai quali egli ha, in linea principio, diritto di accesso
Riconoscere al candidato un tale diritto è infatti conforme all’obiettivo della legislazione dell’Unione di garantire la tutela della vita privata delle persone fisiche rispetto al trattamento dei dati che le riguardano.

APPALTI: Condanna omessa, fuori dalla gara. Ex amministratore di una società di costruzioni.
La mancata segnalazione dell'esistenza di una condanna, anche non definitiva, dell'ex amministratore di una società di costruzioni può portare all'esclusione dalla gara; legittimo prevedere forme di dissociazione dell'impresa dal comportamento degli ex amministratori.

Lo afferma la sentenza 20.12.02017 - causa C-178/16 della Corte europea in merito a una gara di appalto che ha visto un'impresa italiana, capogruppo di una costituenda associazione temporanea di imprese, risultare esclusa da una gara d'appalto pubblico indetta nel 2013 per la costruzione e gestione di un carcere.
L'esclusione era stata disposta in ragione del fatto che, nel corso della procedura, l'ex amministratore delegato dell'impresa di costruzioni era stato condannato con sentenza definitiva per reati finanziari e fiscali (false fatture) e per associazione a delinquere. La mancata indicazione di questa pronuncia in fase di autodichiarazione era stata considerata come violazione del dovere di leale collaborazione con la stazione appaltante (cioè la provincia di Bolzano). Non solo. Era stato anche ritenuto che l'impresa non avesse dimostrato la propria completa ed effettiva dissociazione dalla condotta criminosa di un soggetto che, nell'anno antecedente alla pubblicazione del bando di gara, aveva rivestito proprio all'interno della società una carica rilevante.
La mancata dissociazione, nei termini ora detti, costituisce, secondo una norma del Codice degli appalti pubblici (163/2006), una causa di esclusione dalla gara. Attivato il giudizio di fronte al Tar e poi al Consiglio di stato, la questione veniva portata all'attenzione della Corte europea che ha legittimato il contenuto della disciplina del codice dei contratti affermando che il diritto dell'Unione europea non osta a una normativa nazionale che dà rilievo al profilo della dissociazione dell'impresa rispetto ai comportanti degli amministratori.
La Corte europea osserva che le imprese agiscono a mezzo dei loro amministratori e che un comportamento contrario alla morale professionale di questi ultimi si riverbera sulla moralità dell'impresa. L'emissione di false fatture da parte dell'amministratore di un'impresa può essere considerata quindi un delitto che incide in senso negativo sulla moralità dell'impresa.
I giudici chiariscono che l'ente aggiudicatore può richiedere all'impresa di manifestare la propria dissociazione dagli atti illeciti dell'amministratore dichiarando l'esistenza di una condanna penale, anche non definitiva, a carico di costui. Nella pronuncia si sottolinea inoltre che anche una sentenza non definitiva a carico dell'amministratore dell'impresa offerente può fornire all'ente aggiudicatore un elemento idoneo a valutare l'ammissione di tale impresa alla gara d'appalto.
Una tesi che è anche alla base di recenti linee guida Anac sui gravi illeciti professionali (n. 6/2017), aggiornate con la determinazione n. 1008/2017, che consentono alla stazione appaltante di escludere anche sulla base di sentenze non definitive che incidono su profili morali dell'impresa (articolo ItaliaOggi del 21.12.2017).

APPALTIRinvio pregiudiziale – Appalti pubblici di lavori – Direttiva 2004/18/CE – Articolo 45, paragrafi 2 e 3 – Condizioni di esclusione dalla partecipazione all’appalto pubblico – Dichiarazione relativa all’assenza di sentenze definitive di condanna a carico degli ex amministratori della società offerente – Condotta penalmente rilevante di un ex amministratore – Condanna penale – Dissociazione completa ed effettiva dell’impresa offerente rispetto a tale amministratore – Prova – Valutazione da parte dell’amministrazione aggiudicatrice dei requisiti di tale obbligo.
L'Amministrazione può escludere dalla gara l'impresa che abbia omesso di dichiarare una condanna non definitiva a carico di un ex amministratore per un reato che incide sulla moralità professionale di tale impresa.
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1 La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettere c) e g), e paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi (GU 2004, L 134, pag. 114), nonché su determinati principi generali del diritto dell’Unione.
2 Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra, da un lato, l’Impresa di Costruzioni Ing. E. Ma. SpA (in prosieguo: la «Ma.») e la Gu. SpA, la prima delle quali in proprio e in qualità di capogruppo mandataria della costituenda associazione temporanea di imprese con la Gu., e, dall’altro, la Provincia autonoma di Bolzano (Italia) (in prosieguo: la «provincia di Bolzano»), l’Agenzia per i procedimenti e la vigilanza in materia di contratti pubblici di lavori servizi e forniture (ACP) e l’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), in merito all’esclusione della Mantovani dalla procedura di gara relativa all’aggiudicazione di un appalto di lavori avente ad oggetto il finanziamento, la progettazione definitiva ed esecutiva, la costruzione e la gestione della nuova Casa Circondariale di Bolzano.
...
5 Il decreto legislativo del 12.04.2006, n. 163 - Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE (supplemento ordinario alla GURI n. 100, del 02.05.2006), come modificato dal decreto legge del 13.05.2011, n. 70 (GURI n. 110, del 13.05.2011, pag. 1), convertito nella legge del 12.07.2011, n. 106 (GURI n. 160, del 12.07.2011, pag. 1) (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 163/2006»), disciplina in Italia, nel loro complesso, le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici nei settori dei lavori, dei servizi e delle forniture.
6 Il decreto legislativo n. 163/2006 contiene, nella sua parte II, l’articolo 38, che stabilisce i requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi. L’articolo 38, comma 1, lettera c), di tale decreto così dispone: «Sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti:
(...)
c) nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale; è comunque causa di esclusione la condanna, con sentenza passata in giudicato, per uno o più reati di partecipazione a un’organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all’articolo 45, paragrafo 1, direttiva [2004/18]; l’esclusione e il divieto operano se la sentenza o il decreto sono stati emessi nei confronti: del titolare o del direttore tecnico se si tratta di impresa individuale; dei soci o del direttore tecnico, se si tratta di società in nome collettivo; dei soci accomandatari o del direttore tecnico se si tratta di società in accomandita semplice; degli amministratori muniti di potere di rappresentanza o del direttore tecnico o del socio unico persona fisica, ovvero del socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci, se si tratta di altro tipo di società o consorzio. In ogni caso l’esclusione e il divieto operano anche nei confronti dei soggetti cessati dalla carica nell’anno antecedente la data di pubblicazione del bando di gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione della condotta penalmente sanzionata; l’esclusione e il divieto in ogni caso non operano quando il reato è stato depenalizzato ovvero quando è intervenuta la riabilitazione ovvero quando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna ovvero in caso di revoca della condanna medesima; (...)
».
7 Con bando pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 27.07.2013 (S 145‑251280), la provincia di Bolzano ha indetto una procedura di gara d’appalto per l’attribuzione, con procedura aperta, di un appalto di lavori avente ad oggetto il finanziamento, la progettazione definitiva ed esecutiva, la costruzione e la gestione della nuova Casa Circondariale di Bolzano. L’importo stimato dei lavori ammontava a EUR 165 400 000.
8 La Ma. ha presentato una domanda di partecipazione il 16.12.2013, in proprio e in qualità di capogruppo mandataria di una costituenda associazione temporanea di imprese. Tale società ha prodotto due dichiarazioni relative al rispetto dei requisiti generali previsti all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006. Il 04.12.2013 essa ha dichiarato che nei confronti del sig. B., quale presidente del consiglio di amministrazione, amministratore delegato e legale rappresentante cessato dalla carica in data 06.03.2013, non era stata pronunciata alcuna condanna passata in giudicato. Il 16.12.2013, la Ma. ha confermato il contenuto di tale dichiarazione.
9 Nella seduta di gara del 09.01.2014 l’amministrazione aggiudicatrice ha ammesso la Ma. con riserva, in attesa di chiarimenti relativi al sig. B. Un articolo di un quotidiano locale, pubblicato il 06.12.2013, rivelava infatti che il sig. B., in seguito all’accusa di aver promosso un sistema di fatture false, aveva patteggiato una condanna a un anno e dieci mesi di reclusione.
10 Successivamente, l’amministrazione aggiudicatrice ha acquisito il casellario giudiziale del sig. B., dal quale risultava che detta condanna era stata inflitta il 05.12.2013 ed era passata in giudicato il 29.03.2014. Nella seduta di gara del 29.05.2014, l’amministrazione aggiudicatrice ha invitato la Ma. a fornirle chiarimenti in merito a tale condanna.
11 La Ma. ha risposto facendo valere, in particolare, che la condanna del sig. B. era passata in giudicato successivamente alle proprie dichiarazioni datate 4 e 16.12.2013, che la sentenza del 06.12.2013 era stata pronunciata in camera di consiglio, e non in udienza pubblica, e che la pubblicazione di tale sentenza aveva avuto luogo solo il 03.02.2014. La Ma. ha aggiunto che, al fine di dimostrare la sua effettiva e completa dissociazione dalla condotta del sig. B., quest’ultimo era stato rimosso immediatamente da tutte le cariche sociali del gruppo Ma., gli organi di gestione della società avevano subìto un riassetto interno, le azioni detenute dal sig. B. erano state riscattate e nei suoi confronti era stata avviata un’azione di responsabilità.
12 Dopo aver stilato una graduatoria in cui la Ma. risultava classificata, con riserva, al quinto posto, l’amministrazione aggiudicatrice ha chiesto un parere all’ANAC in merito alla legittimità di un’eventuale esclusione della Ma.. L’ANAC ha sostanzialmente risposto che, sebbene, in mancanza di una sentenza irrevocabile, le dichiarazioni della Ma. non potessero essere qualificate come «falsa dichiarazione», tuttavia la mancata tempestiva comunicazione dello sviluppo delle vicende penalmente rilevanti riguardanti uno dei soggetti menzionati all’articolo 38, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 163/2006 poteva costituire una violazione del dovere di leale collaborazione con la stazione appaltante, impedendo così l’effettiva e completa dissociazione rispetto al soggetto interessato.
13 In tali circostanze, l’amministrazione aggiudicatrice ha deciso, nella seduta del 27.02.2015, di escludere la Ma. dalla gara d’appalto. Secondo il verbale di tale seduta, è stato constatato che i requisiti generali di cui all’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006 non erano soddisfatti «in ragione dell’insufficiente e tardiva dimostrazione della dissociazione dalla condotta penalmente rilevante posta in essere dal soggetto cessato dalla carica» e che la condanna «è intervenuta in un momento antecedente alla dichiarazione resa in gara e come tale avrebbe potuto essere dichiarata dalla Ma. in sede di partecipazione».
14 La Ma. ha adito il Tribunale regionale di giustizia amministrativa, Sezione autonoma di Bolzano (Italia) di un ricorso contro tale decisione di esclusione. Con sentenza 27.08.2015 n. 270 detto tribunale ha confermato la legittimità dell’esclusione, considerando che la sussistenza della condanna del sig. B. avrebbe potuto essere oggetto di una dichiarazione nel corso della procedura di aggiudicazione e che solo un concorrente che avesse fornito dichiarazioni corrispondenti alla realtà, senza depistare la stazione appaltante, poteva rivendicare il beneficio della dissociazione di cui all’articolo 38, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 163/2006.
15 La Ma. ha impugnato tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato (Italia) deducendo, tra gli altri motivi, la contrarietà al diritto dell’Unione dell’articolo 38 del decreto legislativo n. 163/2006 e chiedendo che venisse deferita alla Corte una domanda di pronuncia pregiudiziale.
16 In tali circostanze, il Consiglio di Stato (Sez. VI, ordinanza 21.03.2016 n. 1160) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: «Se osti alla corretta applicazione dell’art. 45, paragrafi 2, lettere c) e g), e 3, lett. a) della Direttiva [2004/18] e dei principi di diritto europeo di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di parità di trattamento, di proporzionalità e di trasparenza, di divieto di aggravio del procedimento e di massima apertura alla concorrenza del mercato degli appalti pubblici, nonché di tassatività e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, una normativa nazionale, quale quella dell’art. 38, comma 1, lett. c), [del decreto legislativo n. 163/2006], nella parte in cui estende il contenuto dell’ivi previsto obbligo dichiarativo sull’assenza di sentenze definitive di condanna (comprese le sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti), per i reati ivi indicati, ai soggetti titolari di cariche nell’ambito delle imprese concorrenti, cessati dalla carica nell’anno antecedente la pubblicazione del bando, e configura una correlativa causa di esclusione dalla gara, qualora l’impresa non dimostri che vi sia stata completa ed effettiva dissociazione dalla condotta penalmente sanzionata di tali soggetti, rimettendo alla discrezionalità della stazione appaltante la valutazione sull’integrazione della condotta dissociativa che consente alla stazione appaltante di introdurre, su un piano effettuale, a pena di esclusione dalla gara:
   i) oneri informativi e dichiarativi relativi a vicende penali non ancora definite con sentenza irrevocabile (e, quindi, per definizione di esito incerto), non previsti dalla legge neppure in ordine ai soggetti in carica;
   ii) oneri di dissociazione spontanea, indeterminati quanto alla tipologia delle condotte scriminanti, al relativo riferimento temporale (anche anticipato rispetto al momento di irrevocabilità della sentenza penale) e alla fase della procedura in cui devono essere assolti;
   iii) oneri di leale collaborazione dal contorno indefinito, se non con richiamo alla clausola generale della buona fede
».
...
55 Tenuto conto dell’insieme delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla questione sollevata dichiarando che la direttiva 2004/18, in particolare l’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettere c), d) e g), di tale direttiva, nonché i principi di parità di trattamento e di proporzionalità, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consente all’amministrazione aggiudicatrice:
   – di tener conto, secondo le condizioni da essa stabilite, di una condanna penale a carico dell’amministratore di un’impresa offerente, anche se detta condanna non è ancora definitiva, per un reato che incide sulla moralità professionale di tale impresa, qualora il suddetto amministratore abbia cessato di esercitare le sue funzioni nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara d’appalto pubblico, e
   – di escludere tale impresa dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione di appalto in questione con la motivazione che, omettendo di dichiarare detta condanna non ancora definitiva, l’impresa non si è effettivamente e completamente dissociata dalla condotta del suddetto amministratore.
...
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
La direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, in particolare l’articolo 45, paragrafo 2, primo comma, lettere c), d) e g), di tale direttiva, nonché i principi di parità di trattamento e di proporzionalità, devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale che consente all’amministrazione aggiudicatrice:
   – di tener conto, secondo le condizioni da essa stabilite, di una condanna penale a carico dell’amministratore di un’impresa offerente, anche se detta condanna non è ancora definitiva, per un reato che incide sulla moralità professionale di tale impresa, qualora il suddetto amministratore abbia cessato di esercitare le sue funzioni nell’anno precedente la pubblicazione del bando di gara d’appalto pubblico, e
   – di escludere tale impresa dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione di appalto in questione con la motivazione che, omettendo di dichiarare detta condanna non ancora definitiva, l’impresa non si è effettivamente e completamente dissociata dalla condotta del suddetto amministratore
(Corte di Giustizia U.E., Sez. IV, sentenza 20.12.02017 - causa C-178/16).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Reato di combustione illecite di rifiuti - Abbruciamento di rifiuti e connesso allarme di pericolo per la salute pubblica - Principio di precauzione - Aggravante - Territorio in stato di emergenza nel settore dei rifiuti - Artt. 256-bis, c. 1, 2, 3 e 4 d.lvo n. 152/2006.
Il reato di combustione illecita di rifiuti di cui all'art. 256-bis del d.lgs. n. 152 del 2006 si configura con l'appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, non essendo richiesto, per l'integrazione del reato, la dimostrazione del danno all'ambiente e il pericolo per la pubblica incolumità.
Il reato in esame, al pari delle altre fattispecie previste dall'art. 256 del medesimo decreto, è un reato di pericolo per la cui integrazione non occorre la dimostrazione di aver arrecato un danno all'ambiente.
Nella specie, era stato appiccato il fuoco a rifiuti abbandonati, quali lastre di policarbonato, bottiglie di vetro, contenitori in alluminio e materiale ferroso, fatto aggravato dall'essere stato commesso in territorio in cui vi è stato dichiarato lo stato di emergenza nel settore dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2017 n. 52610 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Opera edilizia in zona paesaggistica - Art. 734 codice penale - Presupposti per la configurabilità - Reato di danno - Effettiva compromissione delle bellezze protette - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004 - Art. 44, lett. e), d.P.R. n. 380/2001.
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen., stante la sua natura di reato di danno, è configurabile in presenza di un'effettiva compromissione delle bellezze protette, il cui accertamento è rimesso alla concreta valutazione del giudice penale, e prescinde sia dallo stato in cui si trovano i lavori sia dalla valutazione effettuata dalla pubblica amministrazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56085 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di falso ideologico - Dirigente, proprietario committente, esecutore, progettista e direttore dei lavori - Discrezionalità tecnica e valutazione di compatibilità ambientale - Verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Pubblico ufficiale e limiti ai criteri discrezionali di valutazione - Giurisprudenza.
E' configurabile il reato di falso ideologico nella valutazione tecnica in un contesto implicante la valutazione e accettazione di parametri normativamente determinati (Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P. M. in proc. Pasteris e altri, non mass.; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro).
In altri termini, se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro; Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro).
Nella specie, il rilascio del permesso a costruire e la valutazione di compatibilità ambientale espressa nell'autorizzazione paesaggistica dal dirigente erano fondate su presupposti urbanistici contrastanti con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su fascia costiera, illegittimo non essendo i fondi contigui e medesimo indice di fabbricabilità, parametri che vengono in rilievo sia ai fini del rispetto degli strumenti urbanistici ce ai fini ambientali e sul giudizio di valorizzazione del sito. Sia l'autorizzazione paesaggistica che il permesso a costruire erano, così, la diretta conseguenza dei falsi parametri contenuti nella relazione tecnica integrativa e paesaggistica redatta dal progettista e come tale anch'essa falsa.
In altri termini, la discrezionalità tecnica è vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative con conseguente integrazione del reato di falso ideologico se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri normativi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56085 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATANormativa antisismica - Inosservanze formali e sussistenza del reato - Effettiva pericolosità della costruzione - Irrilevanza - Opere edili in senso stretto - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Controllo preventivo della pubblica amministrazione - Testo Unico Edilizia - Giurisprudenza.
Le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica puniscono inosservanze formali, volte a presidiare il controllo preventivo della pubblica amministrazione sicché l'effettiva pericolosità della costruzione realizzata senza l'autorizzazione del genio civile e senza le prescritte comunicazione è del tutto irrilevante ai fini della sussistenza del reato.
In effetti, le norme dettate dagli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 non si riferiscono ad un qualsiasi manufatto realizzato in tali zone, ma solo alle opere edili in senso stretto, ossia alle costruzioni, sopraelevazioni e riparazioni edili, a prescindere dal materiale con cui vengono realizzate (Sez. 3, n. 28514 del 29/05/2007, dep. 18/07/2007, Libonati).
Costruzione in zona sismica - Opere in cemento armato - Particolari componenti costruttive - Struttura metallica - Reato edilizio di cui all'art. 44 T.U.E - Artt. 44, 64, 71, 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001.
Con riguardo al reato edilizio di cui all'art. 44 (per il quale la norma non richiede particolari componenti costruttive), l'assunto secondo cui rientrebbero nella sfera di applicabilità degli artt. 64 e 65 (capi b) e c) dell'imputazione) unicamente le opere che siano al tempo stesso costituite da cemento armato e struttura metallica, sì che sarebbe necessaria la coesistenza di entrambi gli elementi onde configurarsi la sussistenza dei reati relativi, confligge con l'interpretazione implicita che la giurisprudenza ha da sempre dato di dette fattispecie.
Invero, ove una tale prospettiva fosse corretta, nessun senso potrebbe avere il richiamo del legislatore alle opere in struttura metallica posto che una tale componente è già necessariamente presente in quelle a cemento armato, essendo dunque evidente che la disposizione è diretta a regolare anche, singolarmente, le opere che, non composte di cemento armato, possiedano una struttura metallica; del resto, anche sotto il profilo della ratio della disposizione, la sufficienza anche della sola struttura metallica si spiega in ragione della potenziale pericolosità di essa derivante dal materiale impiegato e della conseguente necessità che anche in tal caso le particolari precauzioni da adottare in fase di costruzione in zona sismica vengano adottate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56067 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Digestato e onere probatorio - Regime dei sotto-prodotti - Esenzione dall'applicazione della legge penale - Esclusione dalla disciplina dei rifiuti - Onere probatorio gravante sull'imputato - Fattispecie: sottoprodotto destinato all'uso agronomico - Art. 52 d.l. 134/2012 - Artt. 183, 184-bis, 185 e 256 d.Lgs. n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, l'applicazione della disciplina sulle terre e rocce da scavo, nella parte in cui sottopone i materiali da essa indicati al regime dei sotto-prodotti e non a quello dei rifiuti, è subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della sussistenza delle condizioni previste per la sua operatività, in quanto trattasi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria.
Anche, nel caso del digestato l'ipotesi di esenzione dall'applicazione della legge penale in quanto sottoprodotto destinato all'uso agronomico, spetta all'imputato, trattandosi di un'ipotesi di esclusione da responsabilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.12.2017 n. 56066 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) per consolidata giurisprudenza "l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione postula la stesura di un verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di accertamento.
In quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva, avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio. Ne consegue l'autonoma inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile attinto dai contestati interventi edilizi abusivi.“;
   b) in particolare, si è affermato che la portata della superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo.
Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il mero verbale di accertamento redatto dai vigili, inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, dal ricorso, questo sia ammissibile, avverso il formale atto di accertamento adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce, previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.”;
   c) è stato inoltre precisato coondivisibilmente, sempre nella medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale, incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza).
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2.1. Ritiene il Collegio che l’appello sia, sul punto, fondato, e che la statuizione di improcedibilità vada rimossa, in quanto:
   a) per consolidata giurisprudenza (tra le tante, si veda Tar Napoli-Campania, sez. VIII, 11/10/2011, n. 4645 ”l'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione postula la stesura di un verbale di verifica dello stato dei luoghi da parte della Polizia municipale che ha valore di atto endoprocedimentale, strumentale alle successive determinazioni dell'ente locale, e ha efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla Polizia municipale, alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, all'uopo occorrendo che la competente autorità amministrativa faccia proprio l'esito delle predette operazioni attraverso un formale atto di accertamento. In quanto tale, esso non può rivestire quella portata lesiva, avverso la quale si renda concreto ed attuale l'interesse ad ottenere tutela giurisdizionale; portata lesiva ravvisabile soltanto nel cennato atto formale di accertamento ex art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, con cui l'autorità amministrativa comunale recepisca gli esiti dei sopralluoghi effettuati dalla Polizia e formi, quindi, il titolo ricognitivo idoneo all'acquisizione gratuita dell'immobile al proprio patrimonio. Ne consegue l'autonoma inoppugnabilità di un simile atto, non essendo dal suo annullamento ritraibile alcuna utilità effettiva, stante la sua non lesività rispetto all'interesse vantato dal ricorrente al mantenimento della titolarità dell'immobile attinto dai contestati interventi edilizi abusivi.“;
   b) in particolare, si è affermato che la portata della superiore affermazione non è assoluta, in quanto “ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), infatti, il titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II. è costituito dall'accertamento dell'inottemperanza all'ingiunzione a demolire un manufatto abusivo.
Per tale atto deve intendersi non il mero verbale di constatazione di inadempienza, atteso il suo carattere endoprocedimentale, ma solo il formale accertamento compiuto dall'organo dell'ente dotato della relativa potestà provvedimentale.
Si deve quindi distinguere tra il ricorso proposto contro il mero verbale di accertamento redatto dai vigili, inammissibile in quanto incentrato su atto avente valore endoprocedimentale ed efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate durante l'accesso ai luoghi, dal ricorso, questo sia ammissibile, avverso il formale atto di accertamento adottato dalla competente autorità amministrativa, ai sensi dell'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, che, facendo propri gli esiti del mero verbale, sancisce l'effetto acquisitivo e costituisce, previo notifica all'interessato, titolo per l'immissione in possesso del bene e per la trascrizione nei RR.II.
.” (TAR Napoli-Campania, sez. VIII, 19/05/2015, n. 2763);
   c) è stato inoltre precisato coondivisibilmente, sempre nella medesima pronuncia, che tale effetto acquisitivo potrebbe discendere non dalla mera sottoscrizione del verbale di inottemperanza da parte di “agenti di polizia municipale, incaricati della mera funzione di rilevazione di circostanze in fatto con efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate,” ma dalla circostanza che l'atto in questione “sia stato eventualmente sottoscritto anche dal Responsabile dell'UTC del Comune, presente anch'esso all'accertamento” (ovverosia da un organo investito di funzioni di amministrazione attiva e che, eventualmente, in precedenza aveva anche sottoscritto l'ordinanza di demolizione di cui si era verificata l'ottemperanza);
   d) nel caso di specie, tale eventualità in ultimo mentovata non si era verificata, per cui il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione non possedeva quell’efficacia traslativa/acquisitiva da cui il Tar ha fatto discendere la statuizione di improcedibilità;
   e) si osserva peraltro che era pendente un ricorso proposto dalla odierna parte appellante avverso l’ordinanza di demolizione n. 4/2016, per cui viepiù la statuizione di improcedibilità va riformata in quanto oggettivamente inesatta, e ciò a prescindere da tutte le problematiche dedotte dalla parte appellante in ordine alla esattezza –o meno– della notifica della predetta ordinanza;
   f) e si osserva altresì che non è contestato che alla data in cui la causa fu assunta in decisione in primo grado (21.02.2017) ed alla data in cui fu pubblicata la sentenza impugnata (24.02.2017) non risultava alcuna acquisizione al patrimonio del Comune di Nola del fondo in contestazione posto che la interveniente società Policastro Leopoldo & figli s.r.l. aveva depositato una visura ipotecaria datata 02.02.2017 dalla quale non risultava alcuna trascrizione in tale senso (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Per costante giurisprudenza la responsabilità ex art. 192 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 non è oggettiva, ma dolosa o colposa.
Quanto, appunto, alla responsabilità del proprietario, è stato acutamente rilevato in passato che l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo.
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... per la riforma della sentenza 19.12.2017 n. 2506 del TAR per la CALABRIA – Sede di CATANZARO- SEZ. I.
...
1. Con la sentenza in epigrafe impugnata n. 2506 del 19.12.2016 il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sede di Catanzaro - ha respinto il ricorso proposto dalla parte odierna appellante Regione Calabria teso ad ottenere l’annullamento della ordinanza del Sindaco del Comune di Simeri Crichi del 19.02.2016, n. 7 impositiva dell’obbligo di rimuovere i rifiuti rifiuti abbandonati nell’alveo del fiume Alli, in corrispondenza del ponte sulla strada provinciale n. 13, lungo la stradina in sterrato parallela al fiume, nonché al ripristino dello stato dei luoghi.
...
2 Venendo al merito delle censure proposte, si osserva che:
   a) la censura infraprocedimentale è infondata: la convocazione del comune dava atto di quale fosse la problematica da risolvere,e le statuizioni consequenziali adottate discendono da norme di legge: la Regione non può invocare la violazione di alcuna garanzia di rispetto del contraddittorio, e d’altro canto non può neppure invocare che la “convocazione” sia stata indirizzata ad un “ramo” dell’amministrazione regionale non direttamente competente (a tutto concedere, era onere dell’ufficio intimato inoltrare la comunicazione al Dipartimento regionale competente); il contradidttorio si è dipanato sugli aspetti essenziali, e la regione appellante non può sindacare che esso non sia stato esteso a tematiche (effettiva titolarità dell’area) sì rilevanti, ma evincibili in via amministrativa attraverso la consultazione dei registri catastali: tutt’altro aspetto,ovviamente,concerne la legittimità –o meno- del provvedimento adottato dal comune, (il che integra il punto centrale della disamina del merito) ma sotto il profilo procedurale, l’azione amministrativa è immune da vizi, tanto più laddove si consideri che la circostanza che i rifiuti abbandonati non fossero pericolosi non vale ad escludere che non ricorresse una situazione connotata dall’urgenza del provvedere, il che rende legittima l’omissione dell’avviso partecipativo ex art. 7 della legge n. 241/1990;
   b) invece, proprio venendo alle censure di merito che più radicalmente contestano la legittimità del provvedimento adottato dal comune, rileva il Collegio che:
      I) è incontestato che l’area per il cui tramite si è verificato il deposito incontrollato da rifiuti non sarebbe di pertinenza del comune;
      II) va rammentato infatti che il presupposto della individuazione della Regione quale soggetto destinatario dell’ordinanza riposerebbe nella circostanza fattuale secondo cui i rifiuti si trovavano lungo una stradina sterrata che si trovava all’interno dell’alveo del fiume Alli, cui correva parallela e l’area rientrava nell’ambito del demanio fluviale, la cui gestione spettava alla Regione Calabria che, avendo compiti di gestione del demanio fluviale, aveva la giuridica disponibilità dell’area;
   c) appare corretto rilevare però che:
      I) non è contestato che la regione intimata non sia stata diretta responsabile dell’abbandono incontrollato di rifiuti;
      II) ad essa si imputa una omissione di controllo sull’abbandono posto in essere da terzi;
      III) per costante giurisprudenza la responsabilità ex art. 192 d.lgs. 03.04.2006, n. 152 non è oggettiva, ma dolosa o colposa;
      IV) quanto appunto alla responsabilità del proprietario, è stato acutamente rilevato in passato che (tra le tante, Consiglio di Stato, sez. V, 28.09.2015, n. 4504, TAR Bari-Puglia, sez. I, 24.03.2017, n. 287) “l'obbligo di diligenza va valutato secondo criteri di ragionevole esigibilità, con la conseguenza che va esclusa la responsabilità per colpa anche quando sarebbe stato possibile evitare il fatto solo sopportando un sacrificio obiettivamente sproporzionato; in tale ottica la mancata recinzione del fondo, con effetto contenitivo dubitabile, atteso che non sempre la presenza di una recinzione è di ostacolo allo sversamento dei rifiuti, non può comunque costituire di per sé prova della colpevolezza del proprietario, rappresentando la recinzione una facoltà e non un obbligo“.
      V) nel caso di specie, l’atto è carente di qualsivoglia elemento dimostrativo dell’elemento soggettivo e pertanto l’ordinanza impugnata è illegittima in quanto carente del momento valutativo della responsabilità dell’appellante Regione, mentre avrebbe dovuto necessariamente indicare i comportamenti quanto meno colposi della Regione Calabria causalmente collegati all’evento dannoso;
      VI) sotto il profilo fattuale, non è poi trascurabile che l’esistenza di una stradina sterrata che permette l’accesso incontrollato di chiunque nell’alveo del fiume Alli, utilizzata per il deposito dei rifiuti in argomento, ha consentito il formarsi della discarica abusiva: laddove si consideri che la stradina seppure non di pertinenza dell’amministrazione comunale, ricadeva nel territorio comunale e che nessuno ha dedotto che questa fosse controllata, appare non in linea con il concetto di responsabilità “colposa” che la responsabilità venga fatta ricadere sul proprietario del sito “finale” di ricezione dei rifiuti: e comunque, si osserva, che ricadendo la stradella nel territorio comunale,ed essendo la stessa aperta al transito (non è stato dedotto né provato il contrario) non si vede in forza di quale disposizione o principio il comune si spinga ad affermare che esso fosse esonerato da qualsiasi obbligo di vigilanza sulla stessa (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5911 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: a) la qualificazione giuridica dell’assetto urbanistico di un‘area va desunta dalle caratteristiche proprie della medesima: il Giudice non è pertanto vincolato dalle affermazioni sul punto dell’Amministrazione;
   b) per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa la destinazione ad attrezzature scolastiche ha natura conformativa e non espropriativa: anche in passato la Corte di Cassazione nell'affermare il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa ha "l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti".
Di converso, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che “la destinazione a zone per l'istruzione dell'obbligo, impressa all'area della parte originaria ricorrente, non comportava, quindi, l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale”;
   c) la recente giurisprudenza amministrativa di primo grado concorda con tale opinamento: “il vincolo di destinazione urbanistica "zona attrezzature di interesse pubblico (S12)" (attrezzature scolastiche) impresso ad un'area dal piano regolatore generale non ha natura sostanzialmente espropriativa (tale da comportarne la decadenza quinquennale), bensì costituisce un vincolo conformativo con validità a tempo indeterminato e senza obbligo di indennizzo, in quanto le attrezzature scolastiche sono realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato e non dalla sola mano pubblica.”.
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1. L’appello è fondato e va accolto, con conseguente riforma dell’impugnata decisione e reiezione del ricorso di primo grado, con salvezza degli atti impugnati.
2. La tesi di parte appellata –accolta dal Tar- è quella per cui il vincolo imposto in passato sull’area avesse carattere espropriativo; tale tesi sarebbe confortata dalla circostanza che la stessa amministrazione comunale odierna appellante tale l’avrebbe considerato in passato.
3. Osserva in contrario senso il Collegio che:
   a) la qualificazione giuridica dell’assetto urbanistico di un‘area va desunta dalle caratteristiche proprie della medesima: il Giudice non è pertanto vincolato dalle affermazioni sul punto dell’Amministrazione;
   b) per la costante giurisprudenza civile (Cassazione civile sez. I 17.05.2016 n. 10085) ed amministrativa (Consiglio di Stato, sez. IV, 04.06.2014 n. 2855) dalla quale il Collegio non ha intenzione di discostarsi la destinazione ad attrezzature scolastiche ha natura conformativa e non espropriativa: anche in passato la Corte di Cassazione nell'affermare il carattere non edificabile della destinazione ad edilizia scolastica, ha sostenuto che essa ha "l'effetto di configurare un tipico vincolo conformativo, come destinazione ad un servizio che trascende le necessità di zone circoscritte, ed è concepibile solo nella complessiva sistemazione del territorio, nel quadro della ripartizione zonale in base a criteri generali ed astratti" (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. I, 26.05.2010, n. 12862); di converso, la giurisprudenza amministrativa ha osservato che “la destinazione a zone per l'istruzione dell'obbligo, impressa all'area della parte originaria ricorrente, non comportava, quindi, l'imposizione di un vincolo espropriativo, ma solo conformativo, conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico per definire i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale, ponendo limitazioni in funzione dell'interesse pubblico generale” (cfr. Consiglio di Stato., IV, 19.02.2007, n. 870).
   c) la recente giurisprudenza amministrativa di primo grado concorda con tale opinamento (TAR Napoli, sez. II, 19.07.2016, n. 3623): “il vincolo di destinazione urbanistica "zona attrezzature di interesse pubblico (S12)" (attrezzature scolastiche) impresso ad un'area dal piano regolatore generale non ha natura sostanzialmente espropriativa (tale da comportarne la decadenza quinquennale), bensì costituisce un vincolo conformativo con validità a tempo indeterminato e senza obbligo di indennizzo, in quanto le attrezzature scolastiche sono realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato e non dalla sola mano pubblica.”.
4. E’ pertanto non condivisibile la premessa maggiore (avvenuta decadenza di un vincolo preordinato all’esproprio) sulla quale il Tar con la sentenza impugnata ha fondato l’obbligo di ritipizzazione.
5. Ciò sarebbe già sufficiente, in termini assorbenti, per accogliere l’appello.
5.1. Si osserva per completezza che, comunque, l’attuale inclusione dell’area nel c.d. “Siad” non riverbera particolari effetti negativi per la parte titolare del fondo, né potrebbe fondare una domanda di ritipizzazione del medesimo in quanto, in quanto per condivisa giurisprudenza di primo grado (TAR Napoli-Campania, sez. VIII, 08.11.2016, n. 5149) si ricava che “dall'esame della normativa nazionale e regionale emerge la chiara volontà del legislatore di assegnare al S.I.A.D. una funzione esaustiva di ogni esigenza di carattere sia commerciale sia urbanistico nel settore della media e grande distribuzione di vendita. Il legislatore, quindi, non ha inteso duplicare la programmazione dell'utilizzazione del territorio, separando in distinti atti la programmazione urbanistica e la programmazione commerciale. In secondo luogo, l'atto di individuazione delle aree da destinare agli insediamenti commerciali costituisce "strumento urbanistico" ed è in tale strumento che devono essere sia individuate le predette aree sia dettate tutte le prescrizioni urbanistiche di specie.”.
6. Conclusivamente, l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza deve essere integralmente respinto il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.12.2017 n. 5909 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Il conferimento di incarichi a soggetti estranei all’amministrazione è consentito solo nei casi previsti per legge o in relazione a eventi straordinari, cui non si possa far fronte con la struttura burocratica esistente.
Nel giudizio di responsabilità amministrativa, al giudice contabile è posto il divieto di sindacare nel merito le scelte discrezionali dell'amministrazione. Pertanto, l'organo giurisdizionale non può sostituirsi all'amministrazione nel compiere scelte d'opportunità, trasformandosi da "operatore di giustizia" ad "amministratore". Tuttavia, tale disposizione non può essere interpretata nel senso che l'azione discrezionale dell'amministrazione non sia sottoposta al vaglio di alcun parametro normativo, sicché la stessa si trasformi in espressione di puro "arbitrio".
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Affinché l'azione dell'amministrazione sia legittima è necessario che la stessa non si ponga in contrasto con la normativa di riferimento rappresentata dall'art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, dall'art. 1, lett. h), della L.R. n. 48/1991, dall'art. 110, comma 6, del D.Lgs. n. 267/2000, nonché dall'art. 14 della L.R. n. 7/1992, da cui si ricava il consolidato principio secondo il quale il conferimento di incarichi a soggetti estranei all'amministrazione è consentito solo nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi straordinari, ai quali non si possa far fronte con la struttura burocratica esistente.
Parimenti,
l'azione amministrativa non può non conformarsi ai canoni di razionalità, economicità, efficienza ed efficacia, diretto corollario del principio di rango costituzionale del "buon andamento" sancito dall'art. 97, comma 2, Cost..
Secondo costante orientamento di questa Corte, difatti, "
sulla configurazione di spazi discrezionali -e quindi di aree di insindacabilità-, svolgono un essenziale effetto conformatore i principi di economicità e di efficacia, contenuti nella L. 07.08.1990, n. 241, art. 1, quali, anche per l'attività regolata dal diritto pubblico, costituiscono un'ulteriore limite alla libertà di valutazione conferita alla p.a.. Tali criteri non esprimono un mero ed enfatico richiamo ai principi di legalità e di buona amministrazione contenuti nell'art. 97 Cost. Si tratta, infatti, non di un vincolo ad un generale dovere (quale quello del perseguimento del pubblico interesse affidato al singolo organo amministrativo), la cui concreta applicazione dà luogo non ad esercizio di discrezionalità amministrativa, ma a vere e proprie regole giuridiche, la cui inosservanza può dar luogo alla misura -correttiva o repressiva- che il giudice deve applicare ad esito della sua verifica. Tali principi, quindi, costituiscono una regola di legittimità dell'azione amministrativa, la cui osservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale, nel senso che lo stesso comporta il controllo della loro concreta applicazione, essendo lo stesso estraneo alla sfera propriamente discrezionale".
Siffatti fondamentali canoni conformatori assumono, dunque, rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa.
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FATTO
Con sentenza n. 2776/2013 la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Sicilia, accogliendo la domanda giudiziale che era stata proposta dalla Procura regionale della medesima Corte, ha condannato Ci.Ca., ex sindaco del Comune di Campobello di Marzara, al pagamento al predetto Ente locale della somma di euro 304.481,77, a titolo di risarcimento dei danni derivanti dagli illegittimi conferimenti di numerosi incarichi a soggetti estranei all'Amministrazione comunale.
Avverso il provvedimento suddetto Ci.Ca. ha interposto gravame dinanzi alla Sezione Giurisdizionale d'Appello della stessa Corte, deducendo, in particolare, il difetto di giurisdizione del giudice contabile che avrebbe con il suo sindacato, in base alla tesi propugnata dall'appellante, invaso la sfera del "merito" riservata all'amministrazione con conseguente superamento dei limiti esterni della giurisdizione.
Il giudice contabile di seconde cure, rigettando l'eccezione preliminare predetta, ha parzialmente riformato il dictum del giudice di primo grado confermando la sussistenza della responsabilità amministrativa patrimoniale di Ci.Ca. ma rideterminando la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno a euro 287.438,07, per via della decurtazione delle spese dovute per alcuni degli incarichi esterni conferiti ritenuti legittimi.
Cir.Ca. ha presentato ricorso per cassazione contro la sentenza predetta ex art. 362 c.p.c., riproponendo la questione di giurisdizione già formulata nel precedente grado di giudizio. La Procura regionale presso la Sezione Giurisdizionale d'Appello della Corte dei Conti, ha proposto controricorso.
Ragioni della decisione
1. un unico motivo di ricorso Ci.Ci. denuncia la "violazione dell'art. 1, co. 1, della I. 20/1994 - violazione dei limiti esterni alla giurisdizione contabile e della riserva di amministrazione - art. 360, co. 1, n. 1 c.p.c.".
In particolare, seconda la tesi propugnata dal ricorrente, la sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti avrebbe invaso con il proprio sindacato la sfera del merito riservata all'Amministrazione, "celando con rilievi di violazione di canoni di buona amministrazione astratti e indeterminati" un giudizio d'opportunità formulato ex post.
2. La censura è infondata: ai sensi della art. 1, comma 1, della L. n. 20/1994 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei Conti),
nel giudizio di responsabilità amministrativa, al giudice contabile è posto il divieto di sindacare nel merito le scelte discrezionali dell'amministrazione. Pertanto, l'organo giurisdizionale non può sostituirsi all'amministrazione nel compiere scelte d'opportunità, trasformandosi da "operatore di giustizia" ad "amministratore". Tuttavia, tale disposizione non può essere interpretata nel senso che l'azione discrezionale dell'amministrazione non sia sottoposta al vaglio di alcun parametro normativo, sicché la stessa si trasformi in espressione di puro "arbitrio".
Affinché l'azione dell'amministrazione sia legittima è necessario che la stessa non si ponga in contrasto con la normativa di riferimento rappresentata dall'art. 7, comma 6, del D.Lgs. n. 165/2001, dall'art. 1, lett. h), della L.R. n. 48/1991, dall'art. 110, comma 6, del D.Lgs. n. 267/2000, nonché dall'art. 14 della L.R. n. 7/1992, da cui si ricava il consolidato principio secondo il quale il conferimento di incarichi a soggetti estranei all'amministrazione è consentito solo nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi straordinari, ai quali non si possa far fronte con la struttura burocratica esistente (ex multis Cass., Sez. Un., n. 10069/2011; Cass., Sez. Un., n. 5288/2009).
Parimenti,
l'azione amministrativa non può non conformarsi ai canoni di razionalità, economicità, efficienza ed efficacia, diretto corollario del principio di rango costituzionale del "buon andamento" sancito dall'art. 97, comma 2, Cost..
Secondo costante orientamento di questa Corte, difatti, "
sulla configurazione di spazi discrezionali -e quindi di aree di insindacabilità-, svolgono un essenziale effetto conformatore i principi di economicità e di efficacia, contenuti nella L. 07.08.1990, n. 241, art. 1, quali, anche per l'attività regolata dal diritto pubblico, costituiscono un'ulteriore limite alla libertà di valutazione conferita alla p.a.. Tali criteri non esprimono un mero ed enfatico richiamo ai principi di legalità e di buona amministrazione contenuti nell'art. 97 Cost. Si tratta, infatti, non di un vincolo ad un generale dovere (quale quello del perseguimento del pubblico interesse affidato al singolo organo amministrativo), la cui concreta applicazione dà luogo non ad esercizio di discrezionalità amministrativa, ma a vere e proprie regole giuridiche, la cui inosservanza può dar luogo alla misura -correttiva o repressiva- che il giudice deve applicare ad esito della sua verifica. Tali principi, quindi, costituiscono una regola di legittimità dell'azione amministrativa, la cui osservanza può essere oggetto di sindacato giurisdizionale, nel senso che lo stesso comporta il controllo della loro concreta applicazione, essendo lo stesso estraneo alla sfera propriamente discrezionale" (così Cass., Sez. Un., n. 7024/2006).
Siffatti fondamentali canoni conformatori assumono, dunque, rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione amministrativa (ex plurimis Cass., Sez. Un., n. 10814/2016; Cass., Sez. Un., n. 21217/2015; Cass., Sez. Un., n. 25037/2013; Cass., Sez. Un., n. 10069/2011; Cass., Sez. Un., n. 14488/2003).
Alla luce delle considerazioni suesposte
appare, pertanto, conforme al dettato normativo il sindacato del giudice contabile il quale non ha compiuto una scelta d'opportunità tra diverse soluzioni possibili, ma ha giudicato della legittimità dei provvedimenti di conferimento di incarichi esterni secondo il paramento normativo rappresentato dalle disposizioni vigenti in materia e dai principi di rango costituzionale conformatori dell'attività amministrativa.
Il principio di insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali non preclude al giudice contabile di esaminare l'operato della pubblica amministrazione con riferimento ai parametri dell'efficacia, dell'efficienza e della economicità, dovendosi escludere che il giudice contabile abbia travalicato i limiti esterni della sua giurisdizione (Corte di cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 13.12.2017 n. 29920).

APPALTI: Alla Corte di giustizia la compatibilità comunitaria dell’esclusione automatica dalla gara per pregressa risoluzione del contratto.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Risoluzione precedente contratto per carenze in pregressa esecuzione – Valutazione affidabilità concorrente - Preclusione – Art. 80, comma 5, d.lgs. n. 50 del 2016 – Contrasto principi comunitari – Rimessione Corte di giustizia Ue.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia la questione se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), ed i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, la proporzionalità e la effettività, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, nonché la disposizione di cui all’art. 57, comma 4, lett. c) e g), di detta Direttiva, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dall’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo la quale la contestazione in giudizio di significative carenze evidenziate nell’esecuzione di un pregresso appalto, che hanno condotto alla risoluzione anticipata di un precedente contratto di appalto, preclude ogni valutazione alla stazione appaltante circa l’affidabilità del concorrente, sino alla definitiva statuizione del giudizio civile, e senza che la ditta abbia dimostrato la adozione delle misure di self cleaning volte a porre rimedio alle violazioni e ad evitare la loro reiterazione (1).
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   (1) Ad avviso del Tar la sopravvenuta normativa nazionale, vincolando la Stazione appaltante, con preclusione di ogni valutazione sull’affidabilità del concorrente, per effetto della mera contestazione in un giudizio civile della risoluzione contrattuale, non si presenta consonante con i principi dell’Unione. Essa lega inscindibilmente il giudizio interno e quello esterno, impedendo alla stazione appaltante ogni motivata valutazione sulla gravità dell’errore professionale che ha dato luogo alla pregressa risoluzione contrattuale, in violazione dei principio di proporzionalità ed effettività, e realizza una non corretta trasposizione della direttiva 2014/24/UE in parte qua.
In particolare, utilizzando nella trasposizione della direttiva la tecnica del ritaglio, ha costruito la significativa carenza nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto come ipotesi esemplificativa del grave illecito professionale (per il quale la direttiva peraltro prevede la possibilità di accertamento “con mezzi adeguati”), ma ne ha sterilizzato la portata applicativa, dal momento che disinnesca l’idoneità della stessa a fondare motivo di esclusione, con una sostanziale disapplicazione in parte qua delle previsioni della direttiva.
Né, ad avviso del Tar, vale obiettare che si tratta di ipotesi di esclusione facoltativa dalla gara, dal momento che ciò può rilevare solo nel momento in cui il legislatore nazionale decide se prevedere o meno una determinata causa di esclusione facoltativa; laddove invece, come nel caso in esame, la ipotesi sia stata prevista, il legislatore nazionale rimane vincolato al raggiungimento degli obiettivi indicati dalla direttiva, dovendo dotare l’ipotesi stessa della effettività di applicazione. Pertanto la stessa, una volta recepita, deve poter operare effettivamente.
Il Tar ritiene pertanto dubbia la conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina, sotto vari profili.
Le disposizioni sovranazionali prevedono quale causa di esclusione da procedure di affidamento la commissione di «gravi illeciti professionali» che siano stati dimostrati «con mezzi adeguati» dall’amministrazione aggiudicatrice (lett. c), o la diversa ipotesi così descritta: «…se l’operatore economico ha evidenziato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un requisito sostanziale nel quadro di un precedente contratto» che hanno causato «la cessazione anticipata di tale contratto precedente, un risarcimento danni o altre sanzioni comparabili» (lett. g), senza mai richiedere «alcun accertamento definitivo della responsabilità dell’appaltatore».
Si pone, in definitiva, la questione se, nella materia degli appalti pubblici, sia conforme ai richiamati principi euro-unitari la preclusione imperativa di ogni possibilità di valutazione autonoma e proporzionale della Stazione appaltante circa l’esclusione da una gara di un concorrente che sterilizzi le significative carenze evidenziate nell’esecuzione di precedenti contratti attraverso la mera proposizione di impugnativa della risoluzione contrattuale, e sino alla definizione di quel giudizio, con l’effetto di determinare, nell’ipotesi in cui il giudizio civile si concluda negativamente per l’operatore economico, ma la gara si sia svolta in senso a lui favorevole, la lesione del principio comunitario di affidabilità del concorrente, in quanto l’appalto sarebbe eseguito da un operatore economico indiscutibilmente non affidabile (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, ordinanza 13.12.2017 n. 5893 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In via generale, in materia edilizia tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno.
Inoltre, in assenza di una nozione giuridica di costruzione che, per la materia urbanistica, intenda espressamente far riferimento esclusivo alle sole opere realizzate sopra il livello stradale o il piano di campagna, contenuta in disposizioni di rango primario o secondario, ovvero nelle norme tecniche di attuazione degli strumenti regolatori, tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno.
In materia edilizia, i vani interrati sono, infatti, computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla stabile permanenza dell'uomo o lo strumento urbanistico non lo escluda espressamente.
Il Collegio condivide, quindi, il principio che, in via di principio, ai fini del calcolo della volumetria lorda rileva anche la volumetria interrata. Il suddetto principio, tuttavia, non è assoluto e opera salvo l’assenza di specifiche diverse diposizioni previste dalla normativa o dallo strumento urbanistico.
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Al riguardo il Collegio rileva come, in via generale, in materia edilizia tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno (TAR Campania Napoli Sez. VII, 07.01.2014, n. 1; TAR Puglia Bari Sez. III, 26.01.2012, n. 245).
Inoltre, in assenza di una nozione giuridica di costruzione che, per la materia urbanistica, intenda espressamente far riferimento esclusivo alle sole opere realizzate sopra il livello stradale o il piano di campagna, contenuta in disposizioni di rango primario o secondario, ovvero nelle norme tecniche di attuazione degli strumenti regolatori, tutti gli elementi strutturali concorrono al computo della volumetria del manufatto, siano essi interrati o meno (TAR Lazio Latina Sez. I, 05.02.2016, n. 71).
In materia edilizia, i vani interrati sono, infatti, computabili ai fini del calcolo della complessiva volumetria dell'immobile, salvo che siano insuscettibili di produrre un aumento del carico urbanistico, non siano destinati alla stabile permanenza dell'uomo o lo strumento urbanistico non lo escluda espressamente (TAR Puglia Lecce Sez. I, 09.09.2011, n. 1586).
Il Collegio condivide, quindi, il principio che, in via di principio, ai fini del calcolo della volumetria lorda rileva anche la volumetria interrata. Il suddetto principio, tuttavia, non è assoluto e opera salvo l’assenza di specifiche diverse diposizioni previste dalla normativa o dallo strumento urbanistico (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 13.12.2017 n. 5885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Conseguenza sul termine per l’impugnazione della mancata pubblicazione degli atti di esclusione e di ammissione nel sito della Stazione appaltante.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ammissione ed esclusioni – Impugnazione – Dies a quo – Art. 120, comma 2-bis, c.p.a. – Omessa pubblicazione dell’atto sulla piattaforma telematica della stazione appaltante - Individuazione.
Sebbene il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., inserito dall’art. 204, comma 1, lett. b), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, nella disciplina del c.d. rito super-speciale previsto per l’impugnazione degli atti di esclusione e di ammissione (d)alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture, faccia riferimento, ai fini della decorrenza dell’ivi previsto termine d’impugnazione di trenta giorni, esclusivamente alla pubblicazione del provvedimento di ammissione o esclusione sul profilo telematico della stazione appaltante ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, ciò non implica l’inapplicabilità del generale principio sancito dall’art. 41, comma 2, c.p.a. e riaffermato nel comma 5, ultima parte, dell’art. 120 c.p.a., per cui, in difetto della formale comunicazione dell’atto –o, per quanto qui interessa, in difetto di pubblicazione dell’atto di ammissione sulla piattaforma telematica della stazione appaltante–, il termine decorre dal momento dell’avvenuta conoscenza dell’atto stesso, purché siano percepibili i profili che ne rendano evidente la lesività per la sfera giuridica dell’interessato in rapporto al tipo di rimedio apprestato dall’ordinamento processuale (1).
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   (1) Ad avviso della Sezione che in difetto di un’espressa e univoca correlativa espressa previsione legislativa a valenza derogatoria e in assenza di un rapporto di incompatibilità, deve escludersi che il comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a. abbia apportato una deroga all’art. 41, comma 2, c.p.a. e al principio generale della decorrenza del termine di impugnazione dalla conoscenza completa dell’atto.
La piena conoscenza dell’atto di ammissione della controinteressata, acquisita prima o in assenza della sua pubblicazione sul profilo telematico della stazione appaltante, può dunque provenire da qualsiasi fonte e determina la decorrenza del termine decadenziale per la proposizione del ricorso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.12.2017 n. 5870 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIConcorsi, gestore uscente può non essere invitato. Rotazione nella trattativa privata.
In una procedura negoziata a inviti, l'applicazione del principio di rotazione può comportare anche l'esclusione del precedente gestore; diversamente occorre motivare puntualmente anche in relazione alla soddisfazione maturata nel precedente contratto.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 13.12.2017 n. 5854 rispetto a un ente locale che la stazione appaltante aveva scelto, per una procedura negoziata, di non invitare l'affidatario uscente, scelta ritenuta legittima dai giudici.
Il collegio ha affermato che il principio di rotazione, che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte, trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Da ciò discende, ad avviso del Consiglio di stato, che, anche al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l'ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che l'invito all'affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
La scelta effettuata, di non invitarlo, è quindi legittima. Diversamente, ove la stazione appaltante avesse inteso comunque procedere all'invito di quest'ultimo, avrebbe dovuto puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all'oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (come afferma la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell'Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4) (articolo ItaliaOggi del 22.12.2017).

APPALTI: Principio di rotazione - Appalti sotto soglia - Invito all’affidatario uscente - Carattere eccezionale - Motivazione.
Il principio di rotazione, obbligatorio per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti sotto soglia, trova fondamento nella esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito di quest’ultimo, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’ANAC, linee guida n. 4) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.12.2017 n. 5854 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Il principio di rotazione negli appalti sotto soglia.
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Contratti della P.A. – Appalti sotto soglia – Principio di rotazione – Art. 36, d.lgs. n. 50 del 2016 – Applicabilità – Obbligo.
L’applicazione del principio di rotazione, previsto dall’art. 36, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, è obbligatorio per le gare di lavori, servizi e forniture negli appalti cd. “sotto soglia” (1)
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   (1) Ha chiarito il Tar che il principio di rotazione ‒che per espressa previsione normativa deve orientare le stazioni appaltanti nella fase di consultazione degli operatori economici da consultare e da invitare a presentare le offerte‒ trova fondamento nell’esigenza di evitare il consolidamento di rendite di posizione in capo al gestore uscente (la cui posizione di vantaggio deriva soprattutto dalle informazioni acquisite durante il pregresso affidamento), soprattutto nei mercati in cui il numero di agenti economici attivi non è elevato.
Tale principio è dunque volto proprio a tutelare le esigenze della concorrenza in un settore, quale quello degli appalti “sotto soglia”, nel quale è maggiore il rischio del consolidarsi, ancor più a livello locale, di posizioni di rendita anticoncorrenziale da parte di singoli operatori del settore risultati in precedenza aggiudicatari della fornitura o del servizio.
Pertanto, anche al fine di ostacolare le pratiche di affidamenti senza gara ripetuti nel tempo che ostacolino l’ingresso delle piccole e medie imprese e di favorire, per contro, la distribuzione temporale delle opportunità di aggiudicazione tra tutti gli operatori potenzialmente idonei, il principio in questione comporta, in linea generale, che l’invito all’affidatario uscente riveste carattere eccezionale.
Per l’effetto, ove la stazione appaltante intenda comunque procedere all’invito di quest’ultimo, dovrà puntualmente motivare tale decisione, facendo in particolare riferimento al numero (eventualmente) ridotto di operatori presenti sul mercato, al grado di soddisfazione maturato a conclusione del precedente rapporto contrattuale ovvero all’oggetto e alle caratteristiche del mercato di riferimento (in tal senso, cfr. la delibera 26.10.2016, n. 1097 dell’Autorità nazionale anticorruzione, linee guida n. 4) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13.12.2017 n. 5854 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recupero sottotetti in Lombardia.
Il TAR Milano ribadisce che gli artt. 63 e seguenti della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 –che prevedono la possibilità di eseguire, in deroga alle previsioni urbanistiche, interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti– possono applicarsi solo qualora un sottotetto sia effettivamente esistente, intendendosi per tale un significativo spazio posto fra l’ultima soletta e la copertura dell’edificio che, proprio perché significativo, dia luogo ad un locale in qualche modo già fruibile.
Tali disposizioni non sono applicabili qualora lo spazio consista in una mera intercapedine del tutto inutilizzabile; a contrario non è invocabile la disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 64 della legge regionale n. 12 del 2005, la quale consente l’effettuazione di sopraelevazioni e ciò in quanto funzione di tale norma è quella di consentire interventi atti a conferire al sottotetto esistente le qualità necessarie per renderlo abitabile e non quella di consentire interventi volti alla creazione di sottotetti prima inesistenti.
Aggiunge il TAR che dal comma 4 dell’art. 63 della legge regionale n. 12 del 2005 –applicabile agli interventi da eseguirsi su edifici realizzati in forza di titoli successivi al 31.12.2005– si ricava:
   a) che gli interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti possono riguardare solo i sottotetti collocati in edifici che, per almeno il venticinque per cento, abbiano funzione residenziale; la norma ha lo scopo evidente di limitare tali interventi, che possono essere eseguiti in deroga alle previsioni urbanistiche, ai soli casi in cui sia rinvenibile l’esigenza di ampliamento di una unità residenziale;
   b) che gli interventi di cui si discute possono realizzarsi solo dopo che sia decorso il termine ivi previsto dal rilascio del certificato di agibilità dell’edificio; la stessa norma ha dunque anche lo scopo di limitare gli interventi di recupero in deroga alla normativa urbanistica a quei casi in cui l’ampliamento dell’unità abitativa (da attuarsi appunto mediante il recupero del sottotetto) sia volto a soddisfare esigenze sopravvenute, sorte dopo un significativo utilizzo della stessa unità.
Da quanto sopra si ricava dunque, secondo il TAR, che la normativa sugli interventi di recupero dei sottotetti non può essere utilizzata come escamotage per realizzare nuove unità abitative in deroga ai limiti volumetrici imposti dagli strumenti urbanistici (nel caso in esame, l’intervento di recupero riguardava il sottotetto di un edificio che non aveva funzione residenziale e per il quale tale destinazione era stata conferita proprio con l’atto impugnato; lo stesso titolo edilizio aveva quindi assentito sia il cambio di destinazione d’uso sia il recupero del sottotetto) (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
Ciò premesso, ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo meritevoli di accoglimento due decisive censure.
La prima di queste è quella che deduce l’inesistenza di un sottotetto, rilevando che lo spazio su cui l’interessato vorrebbe realizzare l’intervento di recupero consisterebbe in una mera intercapedine posta fra la soletta e la copertura del fabbricato.
In proposito il Collegio osserva che,
in base ad un consolidato principio da sempre espresso dalla Sezione, gli artt. 63 e seguenti della legge della Regione Lombardia n. 12 del 2005 –che prevedono la possibilità di eseguire, in deroga alle previsioni urbanistiche, interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti– possono applicarsi solo qualora un sottotetto sia effettivamente esistente, intendendosi per tale un significativo spazio posto fra l’ultima soletta e la copertura dell’edificio che, proprio perché significativo, dia luogo ad un locale in qualche modo già fruibile. Si è pertanto precisato che tali disposizioni non sono applicabili qualora lo spazio consista in una mera intercapedine del tutto inutilizzabile.
In questa sede si precisa poi che a contrario
non è invocabile la disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 64 della legge regionale n. 12, del 2005, la quale consente l’effettuazione di sopraelevazioni; e ciò in quanto funzione di tale norma è quella di consentire interventi atti a conferire al sottotetto esistente le qualità necessarie per renderlo abitabile, e non quella di consentire interventi volti alla creazione di sottotetti prima inesistenti.
Ciò premesso, va ora osservato che
l’intervento avversato ha ad oggetto uno spazio angusto caratterizzato dalla forma irregolare della copertura e da un’altezza molto contenuta, perciò attualmente del tutto inutilizzabile.
Si deve pertanto ritenere che tale spazio non sia qualificabile come “sottotetto” e che, di conseguenza, come correttamente rilevato dall’interessato, lo stesso non possa essere oggetto di un intervento di recupero a fini abitativi.

Va per queste ragioni ribadita la fondatezza della censura in esame.
L’altra censura decisiva è quella che deduce la violazione dell’art. 63, comma 4, della legge regionale n. 12 del 2005.
In proposito si osserva che dal comma 4 dell’art. 63 della legge regionale n. 12 del 2005 –applicabile agli interventi da eseguirsi su edifici realizzati in forza di titoli successivi al 31.12.2005– si ricava:
   a)
che gli interventi di recupero a fini abitativi dei sottotetti esistenti possono riguardare solo i sottotetti collocati in edifici che, per almeno il venticinque per cento, abbiano funzione residenziale. La norma ha lo scopo evidente di limitare tali interventi –che si ripete possono essere eseguiti in deroga alle previsioni urbanistiche– ai soli casi in cui sia rinvenibile l’esigenza di ampliamento di una unità residenziale;
   b)
che gli interventi di cui si discute possono realizzarsi solo dopo che sia decorso un triennio dal momento di rilascio del certificato di agibilità dell’edificio. La stessa norma ha dunque anche lo scopo di limitare gli interventi di recupero in deroga alla normativa urbanistica a quei casi in cui l’ampliamento dell’unità abitativa (da attuarsi appunto mediante il recupero del sottotetto) sia volto a soddisfare esigenze sopravvenute, sorte dopo un significativo utilizzo della stessa unità.
Da quanto sopra si ricava dunque che la normativa sugli interventi di recupero dei sottotetti non può essere utilizzata come escamotage per realizzare nuove unità abitative in deroga ai limiti volumetrici imposti dagli strumenti urbanistici.
Nel caso in esame, l’intervento di recupero dovrebbe riguardare il sottotetto di un edificio che non aveva funzione residenziale e per il quale tale destinazione è stata conferita proprio con l’atto impugnato (lo stesso titolo edilizio ha quindi assentito sia il cambio di destinazione d’uso che il recupero del sottotetto).
E’ dunque evidente come, con tale titolo, si sia in sostanza assentita la creazione di una nuova unità abitativa (anche se da ricavarsi in un edificio già esistente) per la quale è stato autorizzato l’immediato recupero del sottotetto. La violazione della norma invocata dal ricorrente è pertanto palese.
Ne consegue che, come anticipato, anche questa censura è fondata.
In conclusione, per le ragioni illustrate, il ricorso deve essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.12.2017 n. 2360 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime (dai confini) con normative locali, purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio.
Tali principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato.
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Con riguardo, infine, alla deroga alla disciplina di cui al DM 1444/1968, occorre considerare che l’art. 34 delle norme tecniche di attuazione del piano delle regole ha riprodotto, con riguardo alla distanza dai confini, gli standard previsti dal citato decreto (dettando, quale presupposto della deroga a tali parametri, la stipulazione di una convenzione con il vicino, cfr. comma 7).
Ne deriva l’infondatezza dell’assunto –espresso dall’ufficio tecnico in sede procedimentale per opporsi alle osservazioni del ricorrente– secondo cui il recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti, essendo classificato come ristrutturazione edilizia (art. 64, comma 2, delle legge regionale 12/2005), potrebbe legittimare una deroga al regime degli standard (distanze), tenuto conto che, nel caso che ci occupa, lo strumento urbanistico non ha fatto altro che richiamare disposizioni normative di rango superiore, a carattere inderogabile, come, appunto, il citato DM.
Sul punto vanno, infatti, richiamate le statuizioni della Corte costituzionale nella sentenza del 16.06.2005, n. 232, secondo cui “l'ordinamento statale consente deroghe alle distanze minime con normative locali, purché però siffatte deroghe siano previste in strumenti urbanistici funzionali ad un assetto complessivo ed unitario di determinate zone del territorio. Tali principi si ricavano dall'art. 873 cod. civ. e dall'ultimo comma dell'art. 9 del d.m. 02.04.1968, n. 1444, emesso ai sensi dell'art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, n. 1150 (introdotto dall'art. 17 della legge 06.08.1967, n. 765), avente efficacia precettiva e inderogabile, secondo un principio giurisprudenziale consolidato”.
Per le ragioni illustrate, il ricorso dev’essere accolto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.12.2017 n. 2359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Aggiudicazione - Impugnazione - Termine decadenziale di cui all’art. 120 c.p.a. - Verifica dei requisiti - Art. 32, cc. 7 e 8 d.lgs. n. 50/2016.
La verifica dei requisiti (art. 32, c. 7, d.lgs. n. 50/2016) condiziona l’operatività degli effetti giuridici dell’aggiudicazione, effetti che si producono nei confronti del solo aggiudicatario e dell’amministrazione aggiudicatrice e che sono essenzialmente rappresentati dalla possibilità, per le parti, di procedere alla stipulazione del contratto.
L’aggiudicazione definitiva, tuttavia, è provvedimento finale della procedura di gara, perfetto in tutti i suoi elementi e immediatamente lesivo per tutti coloro che hanno partecipato alla procedura e non hanno ottenuto l’aggiudicazione del contratto, i quali –se vogliono evitare l’effetto della inoppugnabilità- devono impugnarlo entro il termine decadenziale fissato dall’art. 120 del codice del processo amministrativo (cfr. adunanza plenaria n. 31/2012, secondo cui “Il termine per l’impugnazione dell’aggiudicazione definitiva, da parte dei concorrenti non aggiudicatari, inizia a decorrere dal momento in cui essi hanno ricevuto la comunicazione di cui all’art. 79, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 163/2006, e non dal momento, eventualmente successivo, in cui la stazione appaltante abbia concluso con esito positivo la verifica del possesso dei requisiti di gara in capo all’aggiudicatario”.
L’applicazione del principio non trova ostacoli nel testo dell’art. 32, comma 8, del nuovo codice dei contratti pubblici.).
Verifica dell’anomalia - Giustificazioni - Soglia minima utile - Discrezionalità tecnica della P.A.
Nelle gare pubbliche, il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta non mira ad individuare specifiche e singole inesattezze nella sua formulazione ma, piuttosto, ad accertare in concreto che la proposta economica risulti nel suo complesso attendibile in vista della corretta esecuzione dell'appalto; al di fuori dei casi in cui il margine positivo risulti pari a zero, non è possibile stabilire una soglia minima di utile al di sotto della quale l’offerta deve essere considerata anomala, poiché anche un utile apparentemente modesto può comportare un vantaggio significativo, sia per la prosecuzione in sé dell’attività lavorativa, sia per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico (Cons. Stato, Sez. V, 13/02/2017, n. 607 e 25/01/2016, n. 242; Sez. III, 22/01/2016, n. 211 e 10/11/2015, n. 5128); conseguentemente, così come il giudizio di anomalia, anche l'esame delle giustificazioni prodotte dai concorrenti a dimostrazione della non anomalia della propria offerta rientra nella discrezionalità tecnica dell'amministrazione, per cui soltanto in caso di macroscopiche illegittimità (quali gravi ed evidenti errori di valutazione o valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto) il giudice amministrativo può esercitare il proprio sindacato di legittimità, ferma restando l'impossibilità di sostituire il proprio giudizio a quello dell'amministrazione.
Costo del personale - Offerta anormalmente bassa - Norme inderogabili concernenti il trattamento retributivo - Tabelle ministeriali - Differenza.
In tema di verifica delle offerte anormalmente basse, l’art. 97, comma 5, del d.lgs. n. 50/2016 (che sul punto riprende il contenuto normativo del previgente art 87, comma 3, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163), prevede che «[…] l’offerta è anormalmente bassa in quanto: […] d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’art. 23, comma 16».
In tal caso, infatti, non sono ammesse giustificazioni (si veda il comma 6 dello stesso art. 97 cit.) e l’offerta economica deve essere esclusa dalla gara, venendo in gioco l’applicazione di norme inderogabili, per legge o per contratto, concernenti il trattamento retributivo. Diverso il caso delle tabelle ministeriali che, per le diverse voci che incidono sul costo del lavoro, non applicano valori minimi inderogabili per legge o per contratto, ma utilizzano valori medi.
Il compito affidato dalla legge all’amministrazione, nell’ipotesi in cui l’offerta economica indichi valori del costo del lavoro inferiori a quelli delle tabelle ministeriali, è quello di verificare –in contraddittorio con l’impresa offerente- se sussistano elementi che dimostrino la correttezza della proposta economica, sotto il profilo del rispetto delle norme legislative e contrattuali sul costo del lavoro, e la sua congruità e affidabilità sotto il profilo economico-finanziario, nonostante il mancato rispetto dei valori medi fissati dal ministero. I commi 1 e 4 dell’art. 97 consentono infatti all’impresa, che abbia presentato un’offerta sospettata di essere anormalmente bassa, di presentare giustificazioni in relazione a qualsiasi elemento, compreso quindi anche il costo del lavoro come determinato periodicamente nelle tabelle dal Ministro del lavoro.
Provvedimenti di ammissione o esclusione - Termine di impugnazione - Decorrenza - Art. 29 d.lgs. n. 50/222016 - Modifica introdotto con l’art. 19 del d.lgs. n. 56/2017.
La modifica introdotta all’art. 29 del d.lgs. n. 50/2016, con l’art. 19 del d.lgs. 19.04.2017, n. 56 (che ha aggiunto all’art. 29 cit. il seguente periodo: «Il termine per l’impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis, decorre dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione», in vigore dal 20.05.2017), seppure non possa essere qualificata nei termini di una norma di interpretazione autentica e quindi retroattivamente applicabile, si riverbera con relativa sicurezza anche sull’interpretazione del vecchio testo dell’art. 29 cit. di cui finisce per confermare la validità di un’interpretazione costituzionalmente orientata (arg. ex art 24 Cost.) che afferma la necessità di ancorare la decorrenza del termine per l’impugnazione dei provvedimenti di ammissione o di esclusione alla piena conoscenza dei fatti o degli atti dai quali l’interessato possa evincere l’effetto lesivo della propria situazione giuridica soggettiva (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 12.12.2017 n. 792 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Garanzie dell’incolpato nel procedimento disciplinare.
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   ● Pubblico impiego privatizzato – Procedimento disciplinare - Adeguato riscontro probatorio circa l’addebitabilità dei fatti all’incolpato – Necessità.
  
Pubblico impiego privatizzato – Procedimento disciplinare – Contraddittorio – Completa valutazione dei fatti addotti dall’incolpato – Necessità.
  
Nel procedimento disciplinare è ineludibile la necessità che vi sia un adeguato riscontro probatorio circa l’addebitabilità dei fatti di cui l’incolpato è ritenuto responsabile (1).
  
Nel procedimento disciplinare ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio con l’incolpato non è sufficiente fermarsi all’audizione o acquisizione acritica delle deduzioni scritte dell’incolpato, ma deve integrare una completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il diritto di difesa non ha un’applicazione piena nell’ambito dei procedimenti disciplinari (non è cioè paragonabile al diritto di difesa nel processo penale) e, tuttavia, l’onere della prova non può essere del tutto obliterato. Com’è noto, per principio generale, l’onere della prova, sia sul piano sostanziale sia su quello processuale, spetta a colui che avanza una pretesa o una domanda, per cui anche nel procedimento disciplinare è ineludibile la necessità che vi sia un adeguato riscontro probatorio circa l’addebitabilità dei fatti di cui l’incolpato è ritenuto responsabile (Cons. St., sez. III, 12.09.2016, n. 3843).
Ciò posto, nel caso esaminato la prova del fatto contestato è tratta esclusivamente dalle dichiarazioni della parte offesa dalla condotta ritenuta violativa delle regole disciplinari. Mutuando utili suggerimenti dalla giurisprudenza penale, il Tar ha ritenuto che le dichiarazioni della parte offesa possono essere legittimamente poste -da sole e in assenza di riscontri oggettivi esterni- a base dell'affermazione di responsabilità dell'incolpato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca del racconto (Cass. pen., sez. IV, 18.10.2011, n. 44644; id., sez. III, 03.05.2011, n. 28913).
Il vaglio positivo dell´attendibilità del dichiarante deve essere penetrante e rigoroso, più di quanto non lo sia quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, talché la deposizione della persona offesa può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se sottoposta al riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. La valutazione della credibilità della persona offesa rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale.
   (2) Negli anni si è andata affermando la distinzione tra il principio del giusto procedimento (mutuato dal sistema anglosassone del “due process of law”), che vale essenzialmente per i procedimenti e i provvedimenti che producono effetti restrittivi della sfera giuridica soggettiva dei cittadini, ed il principio di partecipazione, avente un ambito di applicazione più ampio, che assegna agli intervenienti nel procedimento un ruolo collaborativo riferito alla completezza della fase istruttoria e al miglioramento dei risultati della funzione.
Anche l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE -proclamata a Nizza il 07.12.2001 e recepita nel Trattato di Lisbona del 2007- ha ben definito il contenuto sostanziale rappresentato dal rispetto del diritto “di ogni individuo -nei confronti delle istituzioni- di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che gli rechi pregiudizio”.
Di qui il basilare principio, sostanziale e processuale, concretizzatesi nel diritto dell’incolpato di potersi difendere, venendo sentito o producendo prove e documenti, prima che l’organo titolare di potestà sanzionatoria adotti misure afflittive. Nello stesso senso, secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il diritto di difesa “impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista” (cfr.: Corte di giustizia, sentenza 24.10.1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal).
Il rispetto di tale regola non può esaurirsi nel passaggio formale dell’audizione o nell’acquisizione acritica delle deduzioni scritte dell’incolpato, ma deve integrare una completa valutazione delle circostanze e dei fatti alla luce degli apporti partecipativi, valutazione che deve altresì emergere dalla motivazione del provvedimento conclusivo del procedimento disciplinare (TAR Molise, sentenza 12.12.2017 n. 529 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Secondo condiviso e costante orientamento giurisprudenziale:
   a) “le associazioni di volontariato possono partecipare alle gare per l'affidamento di pubblici servizi nei casi in cui l'attività oggetto di gara sia funzionale allo scopo associativo dell'ente e compatibile con la disciplina statutaria di esso”;
   b) in particolare, “alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia la nozione comunitaria di imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di lucro dell'impresa, per cui l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici. Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si consideri che la legge quadro sul volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa. Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa … La esposta nozione di imprenditore, tra l'altro, risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006), che si riferisce all'imprenditore come "operatore economico" ammesso a partecipate alle gare per la realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni”;
   c) con la precisazione che, nell'ambito delle gare per l'affidamento dei servizi di trasporto infermi ed assistenza delle urgenze, la partecipazione delle associazioni di volontariato non altera il confronto concorrenziale tra gli operatori, ma avvantaggia la stessa stazione appaltante consentendole di aggiudicare un servizio connotato da elevati profili socio-sanitari a condizioni più vantaggiose sia sotto il profilo finanziario che di accessibilità del servizio stesso.
“La circostanza che le associazioni di volontariato non perseguano uno scopo di lucro non preclude alle stesse di poter partecipare alle procedure ad evidenza pubblica essendo sufficiente che l'offerta economica sia ancorata al puntuale computo degli oneri derivanti dalla prestazione, indicando livelli di profitto pari a zero”… “per altro verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di recente (su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da questa Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE su C-113/2014) la esigenza di tutelare la concorrenza va bilanciata, anche a livello comunitario, con altri principi quali quello della solidarietà, della economicità e dell'equilibrio del bilancio, che, nel trasporto di urgenza e di infermi, hanno un peso notevole, trattandosi di una attività dai preminenti profili socio sanitari, che il soggetto pubblico ha interesse ad offrire alla generalità alle condizioni più accessibili”;
   d) “pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella categoria delle attività economiche in concorrenza con gli altri operatori del settore”.
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Ciò posto, nelle gare pubbliche, aperte a “qualsiasi operatore economico” (art. 60 d.lgs. n. 50/2016), la c.d. clausola sociale:
   a. “ove richiamata dal bando, ha portata cogente con la conseguenza che l'offerente non può ridurre ad libitum il numero di unità da impiegare nell'appalto ma, a tutto concedere, può impugnare la clausola del bando adducendo che il numero di unità fino a quel momento adibito al servizio è incongruo e sovrabbondante”;
   b. “va, tuttavia, interpretata nel senso che l'appaltatore subentrante è obbligato ad assumere prioritariamente gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell'appaltatore uscente, ma a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante” "mentre i lavoratori -che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori- sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali”;
   c. “perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall'impresa uscente nell'esecuzione dell'appalto - risulta costituzionalmente legittima, quale forma di tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con l'organigramma dell'appaltatore subentrante e con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di impresa pure tutelata dall'art. 41 Cost.”.
Ne consegue, allora, che:
   1. “la suddetta clausola deve quindi essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente”;
   2. di contro, “è illegittima la clausola sociale del bando che scoraggi la partecipazione alla gara e limiti ultroneamente la platea dei partecipanti, poiché la finalità di garantire la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall'impresa uscente nell'esecuzione dell'appalto non può ledere i principi di libera concorrenza e libertà d'impresa”.
Dagli esposti principi deriva, quindi, che “nelle gare pubbliche l'impegno al rispetto delle condizioni contrattuali e retributive previste in favore del personale impiegato nell'appalto (c.d. clausola sociale) va assolto in sede di esecuzione del contratto e non in sede di partecipazione alla gara”, “dovendo qualificarsi la clausola sociale non come requisito di partecipazione, ma come modalità di esecuzione del servizio”, come tale da indicarsi in tempo utile affinché le imprese possano “valutare, senza alcuna lesione della "par condicio", la convenienza dell'offerta da presentare”.
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I. Parte ricorrente, associazione senza scopo di lucro iscritta all’Albo Regione Campania dei soggetti abilitati, autorizzati e/o accreditati a partecipare al sistema integrato di interventi e servizi sociali nonché l’attuale gestore del servizio trasporto infermi 118 presso l’ASL Napoli 2 Nord, impugna il bando di indizione della nuova gara per lo svolgimento triennale del servizio nella parte in cui l’Amministrazione ha ritenuto di escludere dalla partecipazione ai lotti 4 (Procida) e 5 (Ischia), quelli attualmente affidati alla ricorrente, proprio gli enti non aventi scopo di lucro, riservando la partecipazione alle sole imprese commerciali a differenza di quanto stabilito per gli altri 4 lotti sui 6 complessivi in cui è suddivisa la gara.
I.1. La clausola inibente la partecipazione alle associazioni di volontariato sarebbe stata motivata in ragione della considerazione che, trovando, per tali ultimi lotti, “applicazione l’art. 50 del d.lgs. 50 del 2016 volto a promuovere la stabilità occupazione del personale impiegato”, non sarebbe stata legittima nei loro confronti, anche sulla scorta del parere ANAC del 10.02.2016, un’imposizione implicante l’obbligatoria assunzione di personale dipendente, traducendosi, quest’ultima, in una indebita ingerenza nella relativa struttura organizzativa, tale da alterarne la natura soggettiva, facendone, cioè, venire meno il requisito costitutivo dell’avvalersi in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite di propri aderenti (art. 3, comma 1, l. n. 266/1991, ora, art. 32 del d.lgs. n. 117/2017).
...
V. Il ricorso è fondato.
V.1. Con motivi di ricorso la parte lamenta, tra gli altri profili, la violazione dei principi di massima partecipazione, concorrenza e non discriminazione nelle gare pubbliche nonché l’erronea applicazione dell’art. 50 del d.lgs. n. 50/2016 relativo alla cd. clausola sociale.
V.1.1. Le censure sono fondate.
V.1.2. Secondo condiviso e costante orientamento giurisprudenziale:
   a) “le associazioni di volontariato possono partecipare alle gare per l'affidamento di pubblici servizi nei casi in cui l'attività oggetto di gara sia funzionale allo scopo associativo dell'ente e compatibile con la disciplina statutaria di esso” (TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 23.01.2017 n. 39);
   b) in particolare, “alla luce della direttiva CE n. 18/2004 e della giurisprudenza della Corte di Giustizia (CGE 23.12.2009, causa C-305/08) la nozione comunitaria di imprenditore non presuppone la coesistenza dello scopo di lucro dell'impresa, per cui l'assenza di fine di lucro non è di per sé ostativa della partecipazione ad appalti pubblici. Quanto, in particolare, alle associazioni di volontariato, ad esse non è precluso partecipare agli appalti, ove si consideri che la legge quadro sul volontariato, nell'elencare le entrate di tali associazioni, menziona anche le entrate derivanti da attività commerciali o produttive svolte a latere, con ciò riconoscendo la capacità di svolgere attività di impresa. Esse possono essere ammesse alle gare pubbliche quali "imprese sociali", a cui il d.lgs. 24.03.2006 n. 155 ha riconosciuto la legittimazione ad esercitare in via stabile e principale un'attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni o di servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità d'interesse generale, anche se non lucrativa (cfr. Cons. Stato n. 283/2013 nonché n. 5882/2012) … La esposta nozione di imprenditore, tra l'altro, risulta recepita anche dal Codice dei Contratti (DLGS n. 163/2006), che si riferisce all'imprenditore come "operatore economico" ammesso a partecipate alle gare per la realizzazione di opere e l'affidamento di servizi senza ulteriori specificazioni” (Cons. di St., sez. III, 15.01.2016 n. 116, 27.07.2015 n. 3685 e sez. VI, 23.01.2013 n. 387).
   c) con la precisazione che, nell'ambito delle gare per l'affidamento dei servizi di trasporto infermi ed assistenza delle urgenze, la partecipazione delle associazioni di volontariato non altera il confronto concorrenziale tra gli operatori, ma avvantaggia la stessa stazione appaltante consentendole di aggiudicare un servizio connotato da elevati profili socio-sanitari a condizioni più vantaggiose sia sotto il profilo finanziario che di accessibilità del servizio stesso.
La circostanza che le associazioni di volontariato non perseguano uno scopo di lucro non preclude alle stesse di poter partecipare alle procedure ad evidenza pubblica essendo sufficiente che l'offerta economica sia ancorata al puntuale computo degli oneri derivanti dalla prestazione, indicando livelli di profitto pari a zero”… “per altro verso, come la Corte di Giustizia ha affermato di recente (su ordinanza di rinvio pregiudiziale effettuato da questa Sezione per questione con aspetti analoghi, vedi CGE su C-113/2014) la esigenza di tutelare la concorrenza va bilanciata, anche a livello comunitario, con altri principi quali quello della solidarietà, della economicità e dell'equilibrio del bilancio, che, nel trasporto di urgenza e di infermi, hanno un peso notevole, trattandosi di una attività dai preminenti profili socio sanitari, che il soggetto pubblico ha interesse ad offrire alla generalità alle condizioni più accessibili” (Cons. di St., sez. III, 15.01.2016 n. 116);
   d) “pertanto appare ormai pacifico che l'assenza di scopo di lucro non sia elemento idoneo ad escludere, in via di principio, che il servizio di trasporto di urgenza e di infermi svolto dalle associazioni di volontariato sia da classificare nella categoria delle attività economiche in concorrenza con gli altri operatori del settore” (Cons. di St. sez. III, 15.01.2016 n. 116).
V.1.3. Ciò posto, nelle gare pubbliche, aperte a “qualsiasi operatore economico” (art. 60 d.lgs. n. 50/2016), la c.d. clausola sociale:
   a. “ove richiamata dal bando, ha portata cogente con la conseguenza che l'offerente non può ridurre ad libitum il numero di unità da impiegare nell'appalto ma, a tutto concedere, può impugnare la clausola del bando adducendo che il numero di unità fino a quel momento adibito al servizio è incongruo e sovrabbondante”;
   b. “va, tuttavia, interpretata nel senso che l'appaltatore subentrante è obbligato ad assumere prioritariamente gli stessi addetti che operavano alle dipendenze dell'appaltatore uscente, ma a condizione che il loro numero e la loro qualifica siano armonizzabili con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore subentrante” (Cons. di St., sez. IV, 02.12.2013 n. 5725) “mentre i lavoratori -che non trovano spazio nell'organigramma dell'appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall'appaltatore uscente in altri settori- sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali” (Cons. di St., sez. V, 28.08.2017 n. 4079; TAR Puglia, Lecce, sez. II, 27.06.2017 n. 1056; TAR Toscana, Firenze, sez. III, 13.02.2017 n. 231);
   c. “perseguendo la prioritaria finalità di garantire la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall'impresa uscente nell'esecuzione dell'appalto - risulta costituzionalmente legittima, quale forma di tutela occupazionale ed espressione del diritto al lavoro (art. 35 Cost.), se si contempera con l'organigramma dell'appaltatore subentrante e con le sue strategie aziendali, frutto, a loro volta, di quella libertà di impresa pure tutelata dall'art. 41 Cost.” (Cons. di St., sez. V, 28.08.2017 n. 4079).
V.1.4. Ne consegue, allora, che:
   1. “la suddetta clausola deve quindi essere interpretata in modo da non limitare la libertà di iniziativa economica e, comunque, evitando di attribuirle un effetto automaticamente e rigidamente escludente” (Cons. di St., sez. III, 05.05.2017 n. 2078 e 30.03.2016 n. 1255; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 18.12.2015 n. 1769);
   2. di contro, “è illegittima la clausola sociale del bando che scoraggi la partecipazione alla gara e limiti ultroneamente la platea dei partecipanti, poiché la finalità di garantire la continuità dell'occupazione in favore dei medesimi lavoratori già impiegati dall'impresa uscente nell'esecuzione dell'appalto non può ledere i principi di libera concorrenza e libertà d'impresa” (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 15.03.2017 n. 209).
V.1.5. Dagli esposti principi deriva, quindi, che “nelle gare pubbliche l'impegno al rispetto delle condizioni contrattuali e retributive previste in favore del personale impiegato nell'appalto (c.d. clausola sociale) va assolto in sede di esecuzione del contratto e non in sede di partecipazione alla gara” (TAR Puglia, Lecce, sez. II, 29.07.2014 n. 2024), “dovendo qualificarsi la clausola sociale non come requisito di partecipazione, ma come modalità di esecuzione del servizio”, come tale da indicarsi in tempo utile affinché le imprese possano “valutare, senza alcuna lesione della "par condicio", la convenienza dell'offerta da presentare” (Cons. di St., Ad. Plen., 06.08.2013 n. 19).
V.2. Tanto premesso, l’Amministrazione, nell’escludere tout court la partecipazione alla gara delle associazioni di volontariato sul presupposto dell’impossibilità di imporre loro l’osservanza della predetta clausola, ha illegittimamente trasformato una condizione di esecuzione del servizio in requisito di partecipazione, peraltro, introducendo, in violazione del principio di tassatività di cui all’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, una causa di esclusione atipica e astratta.
V.2.1. Invero, sul piano prettamente istruttorio, occorre valutare in concreto, appunto in fase di esecuzione, se l'adempimento degli obblighi connessi al rispetto della clausola sociale sia tale da alterare effettivamente la struttura giuridica dell’associazione partecipante ovvero se gli impegni assunti rimangano nel quadro di un'assoluta marginalità delle attività collaterali dell'associazione.
V.2.2. Nel caso di specie, secondo assunto non contestato, le 15 unità lavorative –oggetto della protezione della clausola sociale– sono attualmente dipendenti della ricorrente, gestore in proroga, in quanto già assunte all’esito dell’aggiudicazione della precedente gara, con un rapporto tra lavoratori e volontari di 1 a 30 tale da potere ravvisare proprio quella marginalità che consente di mantenere inalterato il citato requisito costitutivo, di cui all’art. 3, comma 1, l. n. 266/1991, della prestazione personale, volontaria e gratuita dei propri aderenti.
V.2.3. D’altro canto, la medesima la legge 266 del 1991, all’art. 3 comma 4, vigente all’epoca di indizione della gara (ora, art. 33 del d.lgs. n. 117/2017), prevede che le organizzazioni di volontariato, pur avvalendosi in modo predominante delle prestazioni dei propri aderenti, possano assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo, in via marginale, cioè, nei limiti esclusivamente necessari al loro regolare funzionamento ovvero qualora occorrenti a qualificare e specializzare l'attività da esse svolte, rientrando, anche per tali limitazioni, tra i soggetti che possono partecipare alle gare pubbliche.
Invero, la marginalità dell’attività commerciale delle associazioni di volontariato volta, cioè, all’offerta dei beni e servizi sul mercato, costituisce, infatti, espressione del principio generale del diritto comunitario di divieto di abuso del diritto. Essa, in particolare, è volta ad evitare che stiano sul mercato enti aventi la veste giuridica di onlus ma che, di fatto, avendo un proprio apparato organizzativo basato su personale dipendente e svolgendo attività commerciale, beneficino, con effetti distorsivi della concorrenza, di un regime fiscale e previdenziale di favore.
VI. Sulla base delle sovresposte considerazioni, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso va accolto, essendo illegittimo il bando di gara per l’affidamento di un servizio nella parte in cui esclude dalla partecipazione le associazioni di volontariato presupponendo l’applicazione di una clausola sociale automaticamente escludente (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 11.12.2017 n. 5815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.
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Nell’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale
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Col secondo motivo gli appellanti deducono che l’ordine di demolizione non reca alcuna motivazione circa l’interesse pubblico perseguito dal comune.
Il mezzo va respinto.
Infatti, come chiarito dalla più autorevole giurisprudenza, il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare ( cfr. Ap. n. 9 del 2017).
Con il terzo motivo gli appellanti lamentano la mancata analitica individuazione, nel contesto dell’ordinanza demolitoria, dell’area di sedime acquisibile dal comune in caso di inottemperanza.
Il mezzo è infondato in quanto nell’ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.12.2017 n. 5788 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo una diversa tesi emersa più di recente e che fa leva sulla integrale applicazione dei generali presupposti di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, l’amministrazione non può fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata.
Oltre alla verifica del presupposto legalmente determinato, essa è tenuta a dar conto anche della sussistenza di altri due elementi costitutivi della complessa fattispecie, connotati da maggiore elasticità e indeterminatezza: la ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e l’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari.
Sicché, le amministrazioni sono responsabilmente tenute, in primo luogo, a fondare le proprie determinazioni su uno “scrupoloso esame delle pratiche; e se successivamente, emerge una erronea valutazione originaria, sono tenute a valutare la posizione di “affidamento” dei beneficiari del titolo rilasciato e a comparare l’interesse pubblico al “ripristino della legalità”, con quello del privato alla conservazione della posizione acquisita con il rilascio del provvedimento favorevole, configurandosi il potere in autotutela come “discrezionale”, anche quando incide su atti di primo grado “vincolati”.
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6. Il ricorso è fondato.
7. Va preliminarmente osservato che il ricorso ha ad oggetto unicamente l’ordinanza adottata dal Comune n. 29/2008, con cui sono stati annullati il permesso di costruire n. 25/2007 e quello in variante in corso d’opera n. 16/2008.
Deve pertanto respingersi l’eccezione di tardività sollevata dal Comune con riguardo all’ordinanza di ingiunzione e sospensione dei lavori del 07.08.2008, impugnata “solo ove occorra”, ma rispetto alla quale il ricorrente deduce unicamente la inefficacia quale atto endoprocedimentale, valendo la stessa anche quale “comunicazione di avvio” del provvedimento di ritiro, al fine di sollevare il vizio di illegittimità di quest’ultimo ex art. 7 L. 241/1990.
8. Deve inoltre precisarsi che, a prescindere dal nomen juris utilizzato dall’amministrazione, il provvedimento impugnato è qualificabile, ad avviso del Collegio, come atto di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies L. 241/1990, essendo stato adottato sulla base della ritenuta illegittimità originaria dei titoli edilizi rilasciati a favore del ricorrente (su tale più corretto inquadramento conviene anche la difesa dell’amministrazione).
9. Tanto premesso va ritenuto che:
9.1. non è fondata la censura di violazione dell’art. 7 l. 241/1990: l’atto di ingiunzione ha avuto anche la finalità di comunicare all’interessato che, sulla base di una denuncia da parte di privati circa le irregolarità edilizie, si avviava un procedimento volto alla “revoca” dei permessi di costruire. Tale indicazione, seppure non pienamente conforme alle dettagliate prescrizioni di cui all’art. 7 L. 241/1990, è di per sé idonea a rendere edotto il ricorrente della pendenza di un procedimento in autotutela, con indicazione seppure ancora generica dei motivi, alla cui più specifica delineazione è ovviamente funzionale la successiva istruttoria procedimentale.
9.2. Sono inammissibili le doglianze concernenti il vizio di violazione dell’art. 21-quinquies l. 241/1990, compreso quello della mancata indicazione dell’indennizzo, non potendo l’atto gravato, sussumersi nella fattispecie astratta di cui alla citata norma che disciplina la “revoca” dei provvedimenti amministrativi.
10. E’ invece fondata la doglianza (sub III del ricorso) di eccesso di potere per “insufficienza motivazionale”, dovendo così interpretarsi in sostanza le doglianze del ricorrente riportate in tale parte dell’atto introduttivo, con le quali viene dedotta la mancata “esplicitazione” delle ragioni di interesse pubblico sottese al provvedimento di ritiro, che non possono essere solo “riconducibili alla generica esigenza di preteso ripristino della legalità violata”.
Con tale censura viene sottoposta all’esame del Collegio la controversa questione –da ultimo risolta dal Consiglio di Stato con Ad. Plen. 8/2017- concernente il contenuto dell’impegno motivazionale che deve supportare la determinazione di “annullamento” di un titolo edilizio, in correlazione ai contrapposti interessi dei privati destinatari del provvedimento alla “conservazione” della situazione favorevole, anche nell’ipotesi in cui la illegittimità originaria del permesso di costruire sia stata determinata o agevolata dal comportamento dei privati (esempio attraverso la prospettazione di fatti non corrispondenti alla realtà, come parrebbe emergere nella fattispecie in esame stando alla prospettazione dell’amministrazione resistente).
11. Come di recente evidenziato dalla citata Adunanza Plenaria, l’orientamento maggioritario era nel senso che “l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (…) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 19.08.2016, n. 3660; id., V, 08.11.2012, n. 5691)” in particolare, alcuno specifico onere motivazione, oltre alla indicazione dei presupposti di illegittimità del provvedimento di primo grado, grava –secondo tale orientamento- sull’amministrazione specie quando la falsa rappresentazione dello stato dei luoghi da parte del beneficiario abbia indotto in errore l’amministrazione. (in tal senso –ex multis -: Cons. Stato, IV, 27.08.2012, n. 4619).
Secondo una diversa tesi, però, emersa più di recente e che fa leva sulla integrale applicazione, anche in tale settore, dei generali presupposti di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990, l’amministrazione non può fondare l’adozione dell’atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (in tal senso –ex multis-: Cons. Stato, VI, 29.01.2016, n. 351 del 2016; id., IV, 15.02.2013, n. 915).
Oltre alla verifica del presupposto legalmente determinato, essa è tenuta a dar conto anche della sussistenza di altri due elementi costitutivi della complessa fattispecie, connotati da maggiore elasticità e indeterminatezza: la ragionevolezza del termine di esercizio del potere di ritiro e l’interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell’interesse dei destinatari (Cons. Stato, VI, 27.01.2017, n. 341).
Alla stregua di tale seconda opzione ermeneutica, le amministrazioni sono responsabilmente tenute, in primo luogo, a fondare le proprie determinazioni su uno “scrupoloso esame delle pratiche; e se successivamente, emerge una erronea valutazione originaria, sono tenute a valutare la posizione di “affidamento” dei beneficiari del titolo rilasciato e a comparare l’interesse pubblico al “ripristino della legalità”, con quello del privato alla conservazione della posizione acquisita con il rilascio del provvedimento favorevole, configurandosi il potere in autotutela come “discrezionale”, anche quando incide su atti di primo grado “vincolati”.
12. Nel caso in esame, il Comune dopo aver adottato il permesso di costruire anche in variante previa una accurata analisi istruttoria (è emerso agli atti che il permesso di costruire n. 25 del 2007 è stato rilasciato dopo una integrazione documentale sollecitata dall’ufficio comunale; cfr. punto 5 controricorso del Comune), sulla base di una denuncia-esposto proveniente da terzi, ha attivato il procedimento in autotutela nel quale però ha dato solo conto delle “irregolarità” concernenti il “sottotetto” del fabbricato, da qualificarsi, ad avviso del Comune come “vano abitabile”, senza alcuna considerazione degli interessi contrapposti del beneficiario; tale valutazione appare tanto più esigibile in considerazione della fattispecie concreto, riguardando il titolo edilizio rilasciato circa un anno prima, un articolato fabbricato composto da “due vani al pian terreno, altri due al primo piano e da un unico vano al secondo”, in parte adibito ad ufficio in parte ad abitazione, mentre le irregolarità dedotte si riferiscono solo al contestato “sottotetto”.
13. In conclusione, condividendosi l’orientamento da ultimo avallato dall’Adunanza Plenaria, il provvedimento deve ritenersi carente sotto il profilo motivazionale con conseguente accoglimento del ricorso (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 11.12.2017 n. 1929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento degli incarichi di difesa in giudizio da parte della Pubblica amministrazione.
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Processo amministrativo – Legittimazione attiva - Incarico ad avvocati presso Pubbliche amministrazioni – Avviso pubblico - Impugnazione – Camera amministrativa – E’ legittimata.
  
Professioni e mestieri – Avvocati – Incarico presso Pubbliche amministrazioni – Conferimento – Criterio.
  
La Camera amministrativa e i suoi organi hanno titolo ad impugnare l’avviso pubblico con il quale un Comune ha indetto una procedura per la formazione di un elenco di avvocati o associazioni di avvocati, in sezioni distinte per discipline (diritto amministrativo, civile, penale, tributario, del lavoro) cui attingere per l’affidamento di incarichi professionali in quanto portatori degli interessi coinvolti nell’affidamento di incarichi professionali sulla base della maggiore specializzazione settoriale degli avvocati che aspirano ad essere iscritti alla sezione degli avvocati amministrativisti.
  
Il conferimento del singolo incarico episodico ad un legale, legato alla necessità contingente, non costituisce appalto di servizi legali, ma integra un contratto d’opera intellettuale incompatibile con la specifica disciplina codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica e con la stessa procedura dettata per i contratti esclusi dall’art. 27, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, in ragione del fatto che l’assunzione della difesa di parte in sede processuale è caratterizzata dall’aleatorietà del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali delle prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari secondo la disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.
Cionondimeno, venendo in rilevo atti di disposizione di risorse pubbliche, l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non essendo soggetta all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, deve essere condotta nel rispetto dei principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione, onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da soddisfare (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che nel caso sottoposto al suo esame i criteri individuati dal bando presentino una tale genericità da rendere plausibile il rilievo che –di fatto- la selezione sarebbe fondata sull’individuazione dell’offerta più bassa; ciò è chiaramente in contrasto con la tutela dell’interesse pubblico che la predeterminazioni di criteri certi ed obiettivi si proporrebbe di tutelare.
Ed invero, la richiesta specializzazione degli avvocati appare solo un criterio di orientamento dell’iscrizione nelle sezioni distinte per materie, mentre l’incarico verrebbe conferito sulla base del compenso richiesto, rispetto al quale il temperamento dell’adeguatezza all’importanza dell’attività e al decoro della professione appare irrimediabilmente generico. L’avviso non specifica infatti quali sono, ai fini del controllo di adeguatezza del compenso, i criteri di misurazione dell’importanza dell’attività e il limite superato il quale un compenso potrebbe essere giudicato non rispettoso del decoro della professione.
Anche i criteri fissati per l’iscrizione degli avvocati negli elenchi di settore, dai quali si sarebbe dovuto attingere per il conferimento degli incarichi pertinenti per materia, appaiono generici. Stabilire che l’iscrizione è determinata dalle specifiche competenze professionali acquisite con riguardo alle esperienze professionali maturate o alla partecipazione a corsi professionali, stages e convegni su materie inerenti alla sezione per la quale è chiesta l’iscrizione, non soddisfa il requisito di oggettività dei criteri che devono presiedere alle selezioni pubbliche (
TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 11.12.2017 n. 1289 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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... per l'annullamento:
   - dell'avviso pubblico del 07.05.2012 per la formazione di un elenco di avvocati cui attingere per l'affidamento d'incarichi legali;
   - di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale, compreso l'elenco eventualmente formato in applicazione del predetto avviso pubblico, con specifico riferimento al settore concernente il "diritto amministrativo";
...
La Camera Amministrativa distrettuale e gli altri ricorrenti -in proprio e quali membri degli organi della Camera Amministrativa- impugnano l’avviso pubblico con il quale il comune di Corato ha indetto una procedura per la formazione di un elenco di avvocati o associazioni di avvocati, in sezioni distinte per discipline (diritto amministrativo, civile, penale, tributario, del lavoro) cui attingere per l’affidamento di incarichi professionali.
L’adesione al bando deve contenere le dichiarazioni dell’aspirante sui requisiti generali e un curriculum sulle esperienze professionali acquisite e la partecipazione a corsi professionali, stages a convegni nelle materie inerenti al settore per il quale è richiesta l’iscrizione.
L’avviso stabilisce che “ogni singolo incarico legale verrà conferito, sentito il parere del dirigente del settore interessato circa la necessità di costituire il Comune di giudizio, con procedura concorrenziale, con riferimento e limitatamente al preventivo presentato dal professionista interpellato che comunque dovrà tener conto dell’adeguatezza del compenso professionale all’importanza dell’attività e al decorso della professione in linea con il principio di adeguatezza e proporzionabilità, mediante interpello di cinque avvocati individuati nella relativa sezione di competenza, con il criterio della rotazione e previo scorrimento sistematico in ordine alfabetico”.
I ricorrenti deducono violazione dell’art. 97 della Costituzione e falsa applicazione del decreto legislativo n. 163 del 12.04.2006 – violazione dell’art. 2222 e seguenti del codice civile – eccesso di potere per sviamento ed erroneità dei presupposti – irrazionalità manifesta.
La procedura indetta dal comune di Corato, poiché prevede l’affidamento di specifici incarichi, non sarebbe riconducibile all’appalto di servizi legali disciplinato dal codice dei contratti pubblici vigente ratione temporis.
In ogni caso, il criterio selettivo individuato nel preventivo presentato dal professionista sarebbe in contrasto con la natura fiduciaria dell’incarico e contrario anche all’interesse della pubblica amministrazione di dotarsi di servizi di qualità, né tale criterio potrebbe dirsi temperato dal riferimento alla complessità e difficoltà dei problemi tecnici implicati nel singolo affare, la cui valutazione richiede competenze professionali delle quali il Comune, proprio perché ha bisogno di affidarsi all’opera di professionisti, evidentemente non dispone; vaghi e inutilizzabili, come correttivo al criterio del prezzo più basso, sarebbero poi i riferimenti all’adeguatezza del compenso offerto all’importanza dell’attività e al decoro professionale; altrettanto generici e non oggettivi sarebbero infine i criteri individuati nell’avviso per l’iscrizione dei professionisti in uno o più settori dell’elenco dal quale attingere per il conferimento degli incarichi.
All’udienza del 17.10.2017 il Collegio ha trattenuto il ricorso in decisione.
1. Sussistono la legittimazione e l’interesse ad agire dei ricorrenti.
1.1. Sotto il primo profilo la Camera amministrativa e i suoi organi hanno titolo ad impugnare l’avviso pubblico in epigrafe in quanto portatori degli interessi coinvolti nell’affidamento di incarichi professionali sulla base della maggiore specializzazione settoriale degli avvocati che aspirano ad essere iscritti alla sezione degli avvocati amministrativisti.
1.2. Sotto il secondo profilo sussiste l’interesse ad impugnare l’avviso pubblico in quanto gli elenchi eventualmente formati, seppure venuti a scadenza nelle more del giudizio dopo dodici mesi dalla formazione, sono soggetti ad aggiornamento e rinnovo che postulano per loro natura la conservazione, in qualche misura, degli effetti della prima iscrizione.
2. Nel merito
ha rilievo il fatto che la procedura oggetto di avviso pubblico ha ad oggetto singoli incarichi di difesa in giudizio.
2.1.- Ciò stante,
non è soggetta alla disciplina del codice dei contratti pubblici vigente ratione temporis distinguendosi dai servizi legali di cui all’allegato II B sub 21 del decreto legislativo n. 163 del 12.04.2006, il cui affidamento segue le regole prescritte dagli articoli 20 e 21 dello stesso decreto legislativo.
L’orientamento maggioritario della giurisprudenza ritiene infatti che il conferimento del singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisce appalto di servizi legali, ma integra un contratto d’opera intellettuale incompatibile con la specifica disciplina codicistica in materia di procedure di evidenza pubblica e con la stessa procedura dettata per i contratti esclusi dall’art. 27 del d.lgs. n. 163/2006, in ragione del fatto che l’assunzione della difesa di parte in sede processuale è caratterizzata dall’aleatorietà del giudizio, dalla non predeterminabilità degli aspetti temporali, economici e sostanziali delle prestazioni e dalla conseguente assenza di basi oggettive sulla scorta delle quali fissare i criteri di valutazione necessari secondo la disciplina recata dal codice dei contratti pubblici.
2.2.- Cionondimeno, venendo in rilevo atti di disposizione di risorse pubbliche,
l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non essendo soggetta all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, deve essere condotta nel rispetto dei principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione, onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da soddisfare (in termini Consiglio di Stato 2730/2012; TAR Reggio Calabria n. 38/2016, contra, fra le altre, TAR Lazio, Latina, sez. I, 20.07.2011, n. 604).
La necessità di controllo dell’azione amministrativa, insita nel richiamo ai predetti principi, e la natura fiduciaria, tendenzialmente insindacabile, dell’incarico di assistenza e rappresentanza legale trovano sintesi nel disposto dell’art. 7 del decreto legislativo 30.03.2001 n. 165, specificamente dettato per attività di prestazione d’opera di cui si riporta uno stralcio, per quanto di interesse: “Fermo restando quanto previsto dal comma 5-bis, per specifiche esigenze, cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire esclusivamente incarichi individuali, con contratti di lavoro autonomo, ad esperti di particolare e comprovata specializzazione anche universitaria, in presenza dei seguenti presupposti di legittimità:
[…]
d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione.
Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione [di natura occasionale o coordinata e continuativa] per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi […]
”.

Il riferimento alla specializzazione dell’esperto, che deve essere comprovata e non solo supposta sulla base dell’appartenenza ad una categoria professionale o del possesso di un titolo di studio, dà conto dell’esigenza di una puntuale motivazione delle ragioni concrete che inducono l’Amministrazione conferente a scegliere la collaborazione di uno fra più esperti perché ritenuto maggiormente affidabile in relazione alla durata e all’oggetto e compenso della collaborazione.
Si tratta, come è evidente, di una procedura selettiva assimilabile a quella prescritta dall’art. 97 della Costituzione per l’accesso ai pubblici impieghi, che richiede una selezione sulla base di criteri predeterminati, oggettivi e “ripetibili” in sede di controllo dell’iter motivazionale.

Nel caso in decisione, tuttavia, appare evidente che i criteri individuati dal bando presentino una tale genericità da rendere plausibile il rilievo che –di fatto- la selezione sarebbe fondata sull’individuazione dell’offerta più bassa; ciò è chiaramente in contrasto con la tutela dell’interesse pubblico che la predeterminazioni di criteri certi ed obiettivi si proporrebbe di tutelare.
Ed invero, la richiesta specializzazione degli avvocati appare solo un criterio di orientamento dell’iscrizione nelle sezioni distinte per materie, mentre l’incarico verrebbe conferito sulla base del compenso richiesto, rispetto al quale il temperamento dell’adeguatezza all’importanza dell’attività e al decoro della professione appare irrimediabilmente generico. L’avviso non specifica infatti quali sono, ai fini del controllo di adeguatezza del compenso, i criteri di misurazione dell’importanza dell’attività e il limite superato il quale un compenso potrebbe essere giudicato non rispettoso del decoro della professione; con l’effetto che l’unico giudizio del Comune suscettibile di un sindacato di legittimità, sarebbe quello che, stante il principio di economicità, lo obbligherebbe a scegliere l’offerta al prezzo più basso in contrasto con la natura fiduciaria dell’incarico e i parametri indicati dall’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001.
Anche i criteri fissati per l’iscrizione degli avvocati negli elenchi di settore, dai quali si sarebbe dovuto attingere per il conferimento degli incarichi pertinenti per materia, appaiono generici. Stabilire che l’iscrizione è determinata dalle specifiche competenze professionali acquisite con riguardo alle esperienze professionali maturate o alla partecipazione a corsi professionali, stages e convegni su materie inerenti alla sezione per la quale è chiesta l’iscrizione, non soddisfa il requisito di oggettività dei criteri che devono presiedere alle selezioni pubbliche.
È noto infatti che le materie inerenti al diritto civile vengono in rilevo in tutti i contenziosi, non solo quelli davanti all’autorità giudiziaria ordinaria e altrettanto può dirsi per le altre discipline giuridiche che identificano le sezioni dell’elenco dal quale attingere per il conferimento degli incarichi; sicché il criterio dell’esperienza professionale maturata, proprio perché non è univoco in astratto, potrebbe -in concreto- favorire scelte arbitrarie.
Le stesse considerazioni valgono per la partecipazione a convegni che, sovente, hanno contenuto multidisciplinare.
3.- Devono pertanto essere accolte le censure di falsa applicazione del d.lgs. n. 163/2006, di violazione dell’art. 97 della Costituzione (del quale l’art. 7 del d.lgs. n. 165/2001 costituisce attuazione) e di eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento.
Conseguentemente il ricorso, assorbite le questioni non trattate, deve essere accolto.
Le spese possono essere compensate registrandosi in materia orientamenti non univoci della giurisprudenza.

APPALTI: Mancata previsione della clausola di esecuzione del Piano finanziario: rapporto tra eterointegrazione e principio di affidamento nelle concessioni.
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Contatti della pubblica amministrazione - Concessione – Clausola esecuzione Piano finanziario – Art. 171, comma 3, lett. b, d.lgs. n. 50 del 2016 – Omessa previsione – Conseguenza Lex specialis di gara - rapporto tra eterointegrazione e principio di affidamento.
La mancata previsione, nella lex specialis di gara, della clausola di cui all’art. 171, comma 3, lett. b, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (relativa all’obbligo, da parte dell’offerente, di eseguire il Piano finanziario) non incida sulla validità della procedura, producendosi quella forma di etero integrazione della lex specialis pacificamente ammessa e che permette, grazie al principio di conservazione, di colmarne le lacune del regolamento della selezione attraverso la diretta applicazione delle clausole previste dalla legge, con la conseguenza che la legge di gara resta integrata dalle previsioni delle norme e non potrà essere dichiarata illegittima in ragione della mancata menzione delle clausole di legge anche se escludenti (1).
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   (1) Ad avviso del Tar tale integrazione ab externo della legge di gara determina una qualche tensione con l’ulteriore principio dell’affidamento in base al quale gli operatori economici che partecipano ad una pubblica selezione devono poter contare sulla chiarezza e completezza delle regole di partecipazione. Al riguardo la Corte di Giustizia (sez. VI, 10.11.2016 - C-162/16, in particolare punto 32), con riferimento alla nota questione relativa alle conseguenze della mancata indicazione da parte dei candidati degli oneri della sicurezza, ha individuato un punto di equilibrio tra condizioni di partecipazione e tutela dell’affidamento, affermando che il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. In sostanza la Corte ha stabilito che l’esclusione del partecipante ad una procedura di affidamento può essere comminata allorché l’obbligo rimasto inosservato sia chiaramente statuito dalla legge di gara ovvero “dalla normativa nazionale”.
Ha aggiunto il Tar che nel caso sottoposto al suo esame, se è vero che la previsione della dichiarazione di impegno all’osservanza del piano finanziario è espressamente e chiaramente sancita dall’art. 171, comma 1, lett. c), del codice dei contratti, ma è altresì vero che il piano finanziario costituiva parte integrante dell’offerta e che pertanto l’impegno vincolante all’osservanza del piano stesso sorgeva di diritto in base al generale meccanismo dell’incontro tra proposta e accettazione e che, in ogni caso, l’obbligo espressamente assunto dalla controinteressata di adempiere a quanto sancito dal capitolato d’oneri implicava anche la necessaria osservanza di quelli previsti nel Piano finanziario, in quanto richiamati sostanzialmente all’art. 4 del capitolato stesso.
In altri termini, sia in base ai principi civilistici sul perfezionamento del contratto (scambio tra invito ad offrire/proposta che replica il meccanismo legge di gara/offerta) sia in relazione alle specifiche previsioni della lex specialis (Capitolato d’oneri richiamato dalla dichiarazione degli offerenti), l’aggiudicataria poteva vantare un sufficiente affidamento in ordine alla circostanza di aver assunto l’impegno definitivo al rispetto del piano finanziario prodotto, con la conseguenza che, in assenza di una chiara prescrizione in tal senso nella legge di gara, una specifica assunzione di obblighi sul punto avrebbe potuto ragionevolmente essere considerata ultronea ovvero formalistica.
Si vuol dire che l’affidamento dell’aggiudicataria risiede nel caso di specie nell’evidente sussistenza di un obbligo di rispettare gli impegni assunti nel progetto presentato a corredo della propria offerta, con la conseguenza che un ulteriore dichiarazione in tal senso avrebbe avuto carattere solo formale e, pertanto, la circostanza che l’obbligo di renderla non fosse sancito dalla
lex specialis può ragionevolmente aver fondato l’affidamento sulla inessenzialità della stessa da parte dell’aggiudicataria (TAR Molise, sentenza 11.12.2017 n. 520 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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IV) Con il quarto motivo, parte ricorrente formula in via subordinata la domanda di annullamento dell’intera procedura selettiva per non aver incluso nella lex specialis di gara la clausola di cui all’art. 171, co. 3, lett. b), del d.lgs. n. 50/2016 secondo cui la concessione è vincolata alla piena attuazione del piano finanziario e al rispetto dei tempi previsti dallo stesso per la realizzazione degli investimenti in opere pubbliche e che l'offerta deve espressamente contenere, a pena di esclusione, l’espresso impegno in tal senso del partecipante.
Anche a voler prescindere da tale vizio inficiante l’intera procedura, prosegue l’Associazione Campobasso, l’aggiudicataria avrebbe dovuto essere esclusa per non aver reso la predetta dichiarazione di impegno.
Il motivo è infondato sotto entrambi i profili di censura.
Preliminarmente il Collegio rileva che la concessione oggetto del presente giudizio ha natura economica, non essendo dubbio che l’attività di gestione dell’impianto sportivo avvenga con metodo economico ovvero con tendenziale rimunerazione dei fattori produttivi, ne consegue l’applicabilità, ai sensi dell’art. 164 del codice dei contratti, delle norme dettate dalla Parte III, Titolo I, Capo I del codice dei contratti, che esclude solo le concessioni di servizi “non economici”.
Ciò posto,
ritiene il Collegio che la mancata previsione della clausola di cui all’art. 171, co. 3, lett. b), del codice dei contratti non incida sulla validità della procedura, producendosi quella forma di etero integrazione della lex specialis pacificamente ammessa e che permette, grazie al principio di conservazione, di colmarne le lacune del regolamento della selezione attraverso la diretta applicazione delle clausole previste dalla legge, con la conseguenza che la legge di gara resta integrata dalle previsioni delle norme e non potrà essere dichiarata illegittima in ragione della mancata menzione delle clausole di legge anche se escludenti.
E’ chiaro che tale integrazione ab externo della legge di gara determina una qualche tensione con l’ulteriore principio dell’affidamento in base al quale gli operatori economici che partecipano ad una pubblica selezione devono poter contare sulla chiarezza e completezza delle regole di partecipazione.
Al riguardo la Corte di Giustizia, con riferimento alla nota questione relativa alle conseguenze della mancata indicazione da parte dei candidati degli oneri della sicurezza, ha individuato un punto di equilibrio tra condizioni di partecipazione e tutela dell’affidamento, affermando che: <<
il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti>> (cfr. Corte di Giustizia CE, Sez. 6, 10.11.2016 - C-162/16, in particolare punto 32).
In sostanza la Corte ha stabilito che
l’esclusione del partecipante ad una procedura di affidamento può essere comminata allorché l’obbligo rimasto inosservato sia chiaramente statuito dalla legge di gara ovvero “dalla normativa nazionale”.
Ora, venendo al caso de quo, è pur vero che la previsione della dichiarazione di impegno all’osservanza del piano finanziario è espressamente e chiaramente sancita dall’art. 171, co. 1 lett. c), del codice dei contratti, ma è altresì vero che il piano finanziario costituiva parte integrante dell’offerta e che pertanto l’impegno vincolante all’osservanza del piano stesso sorgeva di diritto in base al generale meccanismo dell’incontro tra proposta e accettazione e che, in ogni caso, l’obbligo espressamente assunto dalla controinteressata di adempiere a quanto sancito dal capitolato d’oneri implicava anche la necessaria osservanza di quelli previsti nel Piano finanziario, in quanto richiamati sostanzialmente all’art. 4 del capitolato stesso.
In altri termini, sia in base ai principi civilistici sul perfezionamento del contratto (scambio tra invito ad offrire/proposta che replica il meccanismo legge di gara/offerta) sia in relazione alle specifiche previsioni della lex specialis (Capitolato d’oneri richiamato dalla dichiarazione degli offerenti), l’aggiudicataria poteva vantare un sufficiente affidamento in ordine alla circostanza di aver assunto l’impegno definitivo al rispetto del piano finanziario prodotto, con la conseguenza che, in assenza di una chiara prescrizione in tal senso nella legge di gara, una specifica assunzione di obblighi sul punto avrebbe potuto ragionevolmente essere considerata ultronea ovvero formalistica.
Si vuol dire che l’affidamento dell’aggiudicataria risiede nel caso di specie nell’evidente sussistenza di un obbligo di rispettare gli impegni assunti nel progetto presentato a corredo della propria offerta, con la conseguenza che un ulteriore dichiarazione in tal senso avrebbe avuto carattere solo formale e, pertanto, la circostanza che l’obbligo di renderla non fosse sancito dalla lex specialis può ragionevolmente aver fondato l’affidamento sulla inessenzialità della stessa da parte dell’aggiudicataria.
Del resto, che questa sia la corretta conclusione lo dimostra lo stesso contratto di concessione da ultimo depositato in giudizio che, all’art. 4, ribadisce l’obbligo del concessionario di attenersi agli obblighi assunti con il progetto presentato in sede di partecipazione, ciò che rende all’evidenza inutile anche richiedere in questa fase la dichiarazione in questione, avendo l’aggiudicataria in tal modo già sottoscritto a tutti gli effetti la dichiarazione prescritta dal ripetuto articolo 171, co. 1, lett. b), del codice dei contratti.

APPALTI: Si deve richiamare il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa che, con riguardo alla valutazione di congruità delle offerte anomale, ha ritenuto che essa sia connotata da discrezionalità tecnica della stazione appaltante e che possa formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei limiti della manifesta illogicità, irragionevolezza ed errore nei presupposti di fatto.
La giurisprudenza afferma, inoltre, che la motivazione della commissione di gara deve essere rigorosa solo in caso di esito negativo, mentre in caso di valutazione di congruità è ritenuta sufficiente una motivazione per relationem alle giustificazioni presentate dall’impresa.
Il giudizio sull'anomalia dell'offerta ha, infatti, natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento; tale giudizio non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile.

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Il primo e il secondo motivo, per l’obiettiva connessione oggettiva fra gli stessi, possono esaminarsi congiuntamente. Con essi parte ricorrente lamenta l’inattendibilità dell’offerta per essere fondata su previsioni irrealistiche di ricavi e di costi, rispettivamente, in eccesso e in difetto. In ogni caso il progetto non garantirebbe nell’arco dei 9 anni di durata della concessione, il rientro dagli investimenti e dalle ingenti spese sostenute.
I motivi non meritano favorevole considerazione alla stregua dei seguenti rilievi.
Si deve richiamare, anche in questa sede di merito, il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa che, con riguardo alla valutazione di congruità delle offerte anomale, ha ritenuto che essa sia connotata da discrezionalità tecnica della stazione appaltante e che possa formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei limiti della manifesta illogicità, irragionevolezza ed errore nei presupposti di fatto. La giurisprudenza afferma, inoltre, che la motivazione della commissione di gara deve essere rigorosa solo in caso di esito negativo, mentre in caso di valutazione di congruità è ritenuta sufficiente una motivazione per relationem alle giustificazioni presentate dall’impresa (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 27.07.2017, n. 3702).
Il giudizio sull'anomalia dell'offerta ha, infatti, natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme, con conseguente irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento; tale giudizio non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica, essendo invero finalizzato ad accertare se l'offerta nel suo complesso sia attendibile (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 16.05.2017, n. 2319; III, 25.11.2016, n. 4990).
Peraltro i principi appena richiamati sono stati elaborati con riguardo alla valutazione delle offerte anomale, mentre nella fattispecie oggetto di causa non si fa questione di un giudizio di congruità, atteso che non sussistono i presupposti per qualificare anomala l’offerta proposta dall’aggiudicataria (né ciò è contestato), con la conseguenza che i margini entro cui sindacare in sede giurisdizionale la valutazione sul progetto operata dalla stazione appaltante devono considerarsi ancora più ristretti, trattandosi di un diretto sindacato sull’offerta in assenza di una previa valutazione di anomalia.
In ogni caso, pur attestandosi ai noti limiti ravvisati dalla dominante giurisprudenza amministrativa in materia di valutazione sulla congruità delle offerte anomale, nel caso di specie non si potrebbe comunque pervenire ad un giudizio di insostenibilità dell’offerta proposta dalla controinteressata, atteso che, anche prendendo per buona la relazione tecnica prodotta da parte ricorrente, i ravvisati errori del piano economico presentato dall’aggiudicataria non inciderebbero in modo sostanziale sulla rimuneratività dell’offerta; sicché, quand’anche si correggessero le cifre nel senso indicato dalla Associazione Campobasso, si perverrebbe solo ad una riduzione dell’utile di gestione, mentre l’offerta conserverebbe l’equilibrio economico, in linea con quanto prescritto dall’art. 165, co. 2, del codice dei contratti.
Stesso discorso vale per le stime sui ricavi che, secondo quanto evidenziato nella relazione di parte ricorrente, si fondano su un utilizzo previsto degli impianti sportivi di tipo prudenziale e che non coincide con il pieno impiego, con una previsione che ha, quindi, obiettivi margini di verosimiglianza.
Peraltro, il termine di paragone che parte ricorrente ravvisa nei costi da essa sostenuti e dai ricavi conseguiti negli anni in cui ha gestito l’impianto non possono costituire un riferimento obbligato, ben potendo le alternative soluzioni gestionali prospettate dall’aggiudicataria consentire una gestione potenzialmente più efficiente e improntata quindi ad un incremento dei ricavi e ad una riduzione dei costi, che non paiono manifestamente abnormi o fondati su assunti irragionevoli e rimangono, quindi, incensurabili
(TAR Molise, sentenza 11.12.2017 n. 520 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIGare, raggruppamenti secondo le competenze. Verticale ok se indicata la prestazione.
Il raggruppamento temporaneo di imprese di tipo verticale può essere costituito soltanto se la stazione appaltante ha individuato quali siano le prestazioni principali dell'appalto.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 07.12.2017 n. 5772 che prende in esame alcuni profili della disciplina dei raggruppamenti temporanei di imprese di tipo verticale.
La sentenza parte dalla considerazione che il tratto peculiare delle due tipologie di raggruppamenti (verticali e orizzontali) poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara.
In linea generale, nel raggruppamento orizzontale le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze (in percentuale) per l'esecuzione delle prestazioni costituenti l'oggetto dell'appalto, mentre nel raggruppamento verticale l'impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti. Quindi nel raggruppamento di tipo verticale un'impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili.
Il Consiglio di stato ha precisato che è possibile dar vita a raggruppamenti di tipo verticale (o, più correttamente, di ammetterli a una gara) solo laddove la stazione appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con chiarezza, le prestazioni principali e quelle secondarie.
In tale senso l'Adunanza plenaria di palazzo Spada (pronuncia n. 22 del 13.06.2012) aveva anche ritenuto illegittimo che fosse il concorrente stesso a individuare quale fosse la prestazione principale: «è precluso al partecipante alla gara procedere di sua iniziativa alla scomposizione del contenuto della prestazione, distinguendo fra prestazioni principali e secondarie, onde ripartirle all'interno di un raggruppamento di tipo verticale» e ciò in ragione della disciplina legale della responsabilità delle imprese riunite in associazione temporanea, elemento che giustifica l'attribuzione alla sola amministrazione dell'individuazione delle prestazioni principali (articolo ItaliaOggi del 15.12.11.2017).

LAVORI PUBBLICI: Condizione per ammettere alla gara i Raggruppamenti di tipo verticale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Raggruppamenti di tipo verticale – Ammissione alla gara – Condizione – Individuazione nella lex specialis di prestazioni “principali” e “secondarie”.
La distinzione tra Ati orizzontali e Ati verticali poggia sul contenuto delle competenze portate da ciascuna impresa raggruppata ai fini della qualificazione a una determinata gara: in linea generale, l’Ati orizzontale è caratterizzata dal fatto che le imprese associate (o associande) sono portatrici delle medesime competenze per l’esecuzione delle prestazioni costituenti l’oggetto dell’appalto, mentre l’Ati verticale è connotata dalla circostanza che l’impresa mandataria apporta competenze incentrate sulla prestazione prevalente, diverse da quelle delle mandanti, le quali possono avere competenze differenziate anche tra di loro, sicché nell’Ati di tipo verticale un’impresa, ordinariamente capace per la prestazione prevalente, si associa ad altre imprese provviste della capacità per le prestazioni secondarie scorporabili; ne consegue che è possibile dar vita a raggruppamenti di tipo verticale (o, più correttamente, di ammetterli ad una gara) solo laddove la stazione appaltante abbia preventivamente individuato negli atti di gara, con chiarezza, le prestazioni “principali” e quelle “secondarie” (1).
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   (1) Cons. St., A.P., 13.06.2012, n. 22.
Ad avviso della Sezione (che richiama in termini Cons. St., sez. III, 09.05.2012, n. 2689), è, infatti, precluso al partecipante alla gara procedere di sua iniziativa alla scomposizione del contenuto della prestazione, distinguendo fra prestazioni principali e secondarie, onde ripartirle all’interno di un raggruppamento di tipo verticale.
Tale divieto si giustifica in ragione della disciplina legale della responsabilità delle imprese riunite in associazione temporanea, ai sensi dell’art. 48, comma 5, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, posto che “per i raggruppamenti verticali, […] la responsabilità dei concorrenti che si fanno carico delle parti secondarie del servizio è circoscritta all’esecuzione delle prestazioni di rispettiva competenza, talché non pare possibile rimettere alla loro libera scelta l’individuazione delle prestazioni principali e di quelle secondarie (attraverso l’indicazione della parte del servizio di competenza di ciascuno) e la conseguente elusione della norma in materia di responsabilità solidale, in assenza di apposita previsione del bando di gara” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.12.2017 n. 5772 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come chiarito dalla Giurisprudenza, al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario, che è condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio del relativo permesso di costruire, occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
In sostanza, la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera.

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La società Le.Ca. s.r.l. nel 1997 ottenne dal comune di Dozza un’autorizzazione provvisoria per installare nell’area di proprietà box prefabbricati contenenti i servizi igienici a servizio dello stabilimento.
I vicini La.-Co. hanno impugnato tale autorizzazione con un primo ricorso al TAR Bologna, lamentando la violazione delle distanze dal confine e dall’abitazione di loro proprietà.
A distanza di pochi mesi il comune rilasciò una concessione 44/1997 per ristrutturare il complesso costruendo servizi igienici e strutture di supporto all’attività produttiva al posto dei box.
I vicini hanno impugnato tale titolo edilizio con un secondo ricorso.
Il Tar felsineo, riuniti i gravami, con la sentenza in epigrafe indicata ha: a) dichiarato il primo ricorso improcedibile b) accolto il secondo ricorso, annullando la concessione.
A sostegno del decisum il Tribunale ha osservato che l’opera assentita: a) viola le distanze dal confine e dalla proprietà altrui b) aumenta la cubatura il che è incompatibile con la nozione di ristrutturazione c) era stata autorizzata sulla base di una falsa rappresentazione delle preesistenze.
La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello oggi all’esame dalla soccombente che ne ha chiesto l’integrale riforma.
...
L’appello non è fondato e va pertanto respinto con integrale conferma della sentenza gravata.
Con la prima parte dell’unico motivo di impugnazione l’appellante sostiene che in realtà oggetto dell’autorizzazione ( prima) e della concessione ( poi) sono i medesimi box prefabbricati sin dall’inizio deputati ad ospitare i servizi igienici dello stabilimento.
Trattasi di strutture facilmente amovibili, in quanto non ancorate stabilmente al suolo, e che pertanto potevano essere installate senza la previa acquisizione di un titolo edilizio: solo per esigenze di semplificazione la società si è riferita a tali strutture nella domanda volta ad ottenere la concessione per la ristrutturazione del complesso aziendale.
Il mezzo è destituito di ogni fondamento.
Come chiarito dalla Giurisprudenza, al fine di verificare se una determinata opera abbia carattere precario, che è condizione per l'accertamento della non necessarietà del rilascio del relativo permesso di costruire, occorre verificare la destinazione funzionale e l'interesse finale al cui soddisfacimento essa è destinata; pertanto, solo le opere agevolmente rimuovibili, funzionali a soddisfare una esigenza oggettivamente temporanea, destinata a cessare dopo il tempo, normalmente non lungo, entro cui si realizza l'interesse finale, possono dirsi di carattere precario e, in quanto tali, non richiedenti il permesso di costruire.
Infatti, la precarietà o non di un'opera edilizia va valutata con riferimento non alle modalità costruttive, bensì alla funzione cui essa è destinata, con la conseguenza che non sono manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati ad una utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
In sostanza, la precarietà del manufatto, che ne giustificherebbe il non assoggettamento a concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal suo sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso al quale il manufatto è destinato e va, quindi, valutata alla luce dell'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale dell'opera (cfr. ex multis III Sez. n. 4850 del 2013).
Nel caso all’esame i box in questione ospitano tra l’altro i servizi igienici dello stabilimento (i quali per legge devono essere esterni agli spazi di lavorazione) e pertanto è semplicemente irrealistico predicarne la precarietà (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2017 n. 5762 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del DM 1444/1968, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali.
Di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata.
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario, il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, la giurisprudenza più recente ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità.

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4.) L’appello in epigrafe è fondato, nei limiti di seguito precisati, onde in riforma della sentenza gravata deve essere accolto il ricorso proposto in primo grado.
4.1) Con riguardo, infatti, alla rilevata inammissibilità dell’impugnazione dell’art. 16 delle N.T.A. del P.R.G., e quindi del primo motivo del ricorso in primo grado, deve ricordarsi che, secondo la più recente giurisprudenza di questa Sezione (cfr. n. 5322 del 04.08.2016): “…in linea generale, non è legittima l’adozione, negli strumenti urbanistici comunali, di norme contrastanti con quelle del citato decreto, atteso che quest’ultimo, essendo stato emanato su delega dell’art. 41-quinquies della legge 17.08.1942, nr. 1150 (inserito dall’art. 17 della legge 06.08.1967, nr. 765), ha efficacia di legge, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati non possono essere derogate dagli strumenti urbanistici comunali (cfr. Cass. civ., sez. II, 14.03.2012, nr. 4076); di conseguenza, le disposizioni di cui al d.m. nr. 1444/1968, essendo rivolte alla salvaguardia di imprescindibili esigenze igienico-sanitarie, sono tassative e inderogabili, e vincolano i Comuni in sede di formazione o revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e deve essere annullata se è oggetto di impugnazione, o comunque disapplicata stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 21.10.2013, nr. 5108; id., 22.01.2013, nr. 354; id., 27.10.2011, nr. 5759).
Pertanto, in punto di disapplicazione delle N.T.A. di uno strumento urbanistico risulta condivisibilmente superato il precedente indirizzo contrario (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 19.04.2005, nr. 1795; id., 12.07.2002, nr. 3929), il quale peraltro si basava su una presunta natura non direttamente precettiva delle prescrizioni contenute nel d.m. nr. 1444/1968, lasciando ferma e impregiudicata la ritenuta natura para-regolamentare, o di atto amministrativo generale, delle norme del P.R.G., e quindi la loro disapplicabilità da parte del giudice amministrativo.
Inoltre, e contrariamente a quanto si sostiene dalle parti appellanti, la giurisprudenza più recente –che qui si condivide- ammette la disapplicazione da parte del giudice amministrativo dell’atto regolamentare presupposto, ancorché non impugnato, non soltanto in ipotesi di giurisdizione esclusiva, ma anche in via più generale estesa alla giurisdizione generale di legittimità (cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.02.2015, nr. 515)
”.
Ne consegue che la tempestività della notificazione del ricorso alla Regione Calabria è priva di rilevanza essendo stata comunque sollecitata da parte ricorrente la disapplicazione dell’art. 16 delle N.T.A. nella parte in cui ammette una distanza minima inferiore a quella prescritta dal d.m. 1444/1968, non risultando peraltro contestato, in punto di fatto, che la sopraelevazione non rispetti il predetto limite minimo di distanza.
Dai rilievi che precedono discende la fondatezza del primo motivo del ricorso in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.12.2017 n. 5753 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIVia, il verbale è standard. Un solo schema per le contestazioni ambientali. In arrivo un decreto del ministro dell'ambiente. Tre le sanzioni previste.
In arrivo uno schema unico per i verbali di accertamento e contestazione in materia di Via (Valutazione di impatto ambientale). L'autorità competente procederà secondo la gravità delle infrazioni:
   - alla diffida, assegnando un termine entro il quale devono essere eliminate le inosservanze;
   - alla diffida con contestuale sospensione dell'attività per un tempo determinato, ove si manifesti il rischio di impatti ambientali negativi;
    - e, infine, alla revoca del provvedimento di verifica di assoggettabilità a Via, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida.

È con il parere 06.12.2017 n. 2554 che il Consiglio di Stato, Sez. consultiva, ha espresso il suo giudizio positivo sullo schema di decreto del ministro dell'ambiente sulla «Schema di decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare recante la “Definizione dei contenuti minimi e i formati dei verbali di accertamento, contestazione e notificazione dei procedimenti di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, come modificato dall’articolo 18 del decreto legislativo 16.06.2017, n. 104». Il decreto è attuativo dell'articolo 29 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, come modificato dall'articolo 18 del decreto legislativo 16.06.2017, n. 104.
Obiettivo della norma. L'obiettivo dell'intervento normativo consiste nell'agevolare l'azione di accertamento delle violazioni attraverso l'utilizzo di contenuti minimi e formati standardizzati. Il decreto punta anche a limitare, conseguentemente, la discrezionalità nell'operato dell'autorità preposta ad accertare inadempimenti o violazioni della specifica normativa sulla valutazione dell'impatto ambientale, garantendone l'uniformità attraverso la previsione di contenuti minimi per i verbali prima ricordati. E imponendo l'applicazione di specifici formati per la redazione degli stessi.
Contenuti minimi del verbale. Due gli allegati al decreto. In particolare, l'allegato 1 reca i contenuti minimi dei verbali di accertamento, contestazione e notificazione relativi ai procedimenti per le violazioni amministrative in materia di Via. Esso indica nella specie alcuni dei seguenti contenuti minimi:
   - identificazione del verbale;
   - identificazione del trasgressore e dell'obbligato in solido;
   - indicazione dei casi di trasgressione previsti dalla normativa vigente;
   - descrizione dettagliata della violazione;
   - indicazione delle specifiche norme violate;
   - indicazione delle singole attività di accertamento ambientale;
   - indicazione del momento e delle circostanze in cui è stata eseguita la contestazione;
   - indicazione delle modalità della notificazione al trasgressore e/o all'obbligato in solido;
   - indicazione dell'autorità competente;
   - indicazione dell'importo minimo e massimo della sanzione pecuniaria e delle modalità di pagamento;
   - indicazione delle modalità e dei termini per la presentazione di scritti difensivi;
   - indicazione delle spese del procedimento in caso di emissione di ordinanza-ingiunzione;
   - indicazione delle eventuali dichiarazioni del trasgressore cui la violazione viene contestata;
   - «avvertenze» sulla redazione, le copie e l'invio del verbale;
   - indicazione della autorità competente, cui il trasgressore deve fare riferimento per il seguito del procedimento;
   - indicazione del responsabile del procedimento;
   - indicazione dei verbalizzanti;
   - l'indicazione dei dati della (eventuale) relazione di notifica effettuata a mezzo postale.
L'allegato 2 contiene invece lo schema-format del verbale di accertamento e contestazione, recante le relative «Avvertenze» poste a tergo (articolo ItaliaOggi del 15.12.2017).

APPALTIResponsabilità solidale ampia. Consulta: scatta anche in caso di subfornitura.
La responsabilità solidale del committente per i crediti contributivi e retributivi scatta anche in caso di subfornitura e non solo in presenza di subappalto; prevale una lettura estensiva della norma che è costituzionalmente orientata e, perciò, legittima.
Così la Corte Costituzionale con la sentenza 06.12.2017 n. 254 sul giudizio di legittimità dell'art. 29, comma 2, del dlgs 276/2003 (attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14.02.2003, n. 30), promosso dalla Corte di appello di Venezia in riferimento agli art. 3 e 36 della Costituzione.
La vicenda vedeva una stazione appaltante condannata al pagamento di retribuzioni non corrisposte dall'impresa (sua) subfornitrice, ai lavoratori di quest'ultima. Nel ricorso era stata sollevata la questione incidentale di legittimità costituzionale della norma, applicata dal primo giudice, di cui all'art. 29, comma 2, del dlgs 276/2003, la quale stabilisce che «in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto».
Il punto che veniva posto era che la norma non dovesse essere applicata oltre i casi espressamente previsti (appalto e subappalto) e quindi non in caso di subfornitura; in sostanza, la fattispecie contrattuale (subfornitura) non poteva essere ricondotta nell'ambito di applicazione della legge (subfornitura è cosa diversa da subappalto).
La Corte, nel ritenere infondata la questione di legittimità offre una lettura ampia della norma e tale da ricomprendere nel suo alveo anche forme contrattuali non del tutto omogenee rispetto a quelle contemplate dalla norma; ciò nonostante dottrina e giurisprudenza di merito siano divise sulla configurazione giuridica e sul più corretto inquadramento sistematico del contratto di subfornitura (autonomia o meno dal contratto di appalto). La Corte evidenzia che, nonostante i diversi orientamenti, in ogni caso emerge sempre una apertura all'estensione della responsabilità solidale del committente ai crediti di lavoro dei dipendenti del subfornitore che «costituisce naturale corollario della tesi che configura la subfornitura come «sottotipo» dell'appalto e, a maggior ragione, di quella che sostanzialmente equipara i due negozi».
I giudici precisano che «la ratio dell'introduzione della responsabilità solidale del committente, che è quella di evitare il rischio che i meccanismi di decentramento, e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione, vadano a danno dei lavoratori utilizzati nell'esecuzione del contratto commerciale, non giustifica una esclusione (che si porrebbe, altrimenti, in contrasto con il precetto dell'art. 3 Cost.) della predisposta garanzia nei confronti dei dipendenti del subfornitore, atteso che la tutela del soggetto che assicura una attività lavorativa indiretta non può non estendersi a tutti i livelli del decentramento».
Occorre porsi, infatti, nella logica della necessaria «tutela dei dipendenti dell'impresa subfornitrice, in ragione della strutturale debolezza del loro datore di lavoro, tutele sarebbero da considerare ancora più intense e imprescindibili che non nel caso di un normale appalto» (articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).

PUBBLICO IMPIEGOCongedo disabili anche solo per la notte.
Non compie alcuna irregolarità il lavoratore che beneficia di un congedo straordinario retribuito per prendersi cura di un familiare disabile se concentra la sua assistenza al malato nelle ore notturne, facendosi aiutare da altri durante la giornata.
Lo si evince dalla sentenza 05.12.2017 n. 29062 con cui la Sez. lavoro della Corte di Cassazione ha confermato l'illegittimità del licenziamento di un uomo, riconoscendogli anche il diritto a essere reintegrato in azienda, il quale, durante indagini fatte eseguire dal datore di lavoro, era stato visto per diversi giorni presso la sua abitazione e non a casa della madre disabile grave, dove aveva spostato la residenza per assisterla durante il periodo di congedo (due anni) dal lavoro.
Il dipendente si era difeso sottolineando di aver prestato alla madre un'assistenza notturna, dato che la donna aveva manifestato «tendenza alla fuga, insonnia notturna e tratti di ipersonnia diurna» per cui vi era stata la necessità per il figlio di restare sveglio tutta la notte per evitare «possibili fughe» che già in passato si erano verificate.
La società datrice di lavoro aveva però emesso un provvedimento di licenziamento disciplinare a carico dell'uomo evidenziando invece che «l'assistenza, per essere adeguata» a quanto previsto dalla legge sul congedo «avrebbe dovuto essere prestata in via principale e privilegiata» dal dipendente «e solo in via residuale da altre persone».
Già il tribunale in primo grado aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento disponendo la reintegra ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori, mentre la Corte d'appello aveva modificato la tutela applicabile condannando la società al pagamento di 15 mensilità dell'ultima retribuzione.
La Suprema corte, con la sentenza depositata ieri, ribadisce le ragioni del lavoratore, ritenendo «accertato», come emerso dai giudizi di merito, che egli «prestava continuativa assistenza notturna alla disabile, alternandosi durante il giorno con altre persone», per cui l'addebito contestatogli dall'azienda era «insussistente».
«Né può ritenersi», osserva la Cassazione, «che l'assistenza che legittima il beneficio del congedo straordinario possa ritenersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, quali la cura dei propri interessi personali e familiari, oltre alle ordinarie necessità di riposo e di recupero delle energie psico-fisiche, sempre che risultino», rilevano i giudici di piazza Cavour, «complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale che deve avere carattere permanente, continuativo e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile».
Alla luce di ciò, conclude la Corte, «pur risultando materialmente accertato» che il lavoratore «si trovasse in alcune giornate del giugno 2013 lontano dall'abitazione della madre non è sufficiente a far ritenere sussistente il fatto contestato perché una volta accertato che, ferma la convivenza, questi comunque prestava continuativa assistenza notturna alla disabile, alternandosi durante il giorno con altre persone, con modalità da considerarsi compatibili con le finalità dell'intervento assistenziale, tanto svuota di rilievo disciplinare la condotta tenuta» (articolo ItaliaOggi del 06.12.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione.
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La locuzione “…immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto di tutela.
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
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La questione centrale sottoposta al Collegio concerne la qualificazione dell’intervento proposto dalla ricorrente, ossia se lo stesso vada classificato come ristrutturazione (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 oppure come nuova costruzione (ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. e), del medesimo decreto).
In particolare costituisce punto nodale della questione la portata dell’inciso di cui al citato art. 3, comma 1, lett. d), del DPR n. 380/2001 in punto di definizione degli interventi di ristrutturazione edilizia per il quale “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Nel caso di specie, infatti, si è in presenza di un intervento di demolizione e ricostruzione senza aumento di volumetria ma con modifica della sagoma, da realizzarsi su un immobile ricadente in zona E agricola, con destinazione commerciale giusto provvedimento di condono del 2010, non specificamente vincolato ma ricadente in zona genericamente vincolata ai sensi del DM 30.11.1965 (modificato nel 1968) di tutela paesaggistica del territorio del Comune di Olbia, oltre che nell’ambito del PPR che comprende il Comune di Olbia.
Occorre dunque stabilire, anzitutto, se la disposizione che esclude l’ammissibilità degli interventi di demolizione e ricostruzione con modifica di sagoma di immobili non specificamente vincolati ma ricadenti nelle zone agricole ricomprese in ambito vincolato debba trovare applicazione nel caso di specie.
Orbene, l’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) stabilisce che rientrano nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e, successiva, ricostruzione, con la stessa volumetria, del fabbricato preesistente.
La norma è il risultato di una recente modifica introdotta dall’articolo 30, comma 1, lett. a), del decreto legge 21.06.2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, dalla legge 09.08.2013, n. 98.
Prima di questa modifica, la disposizione specificava che, per poter essere considerati ristrutturazione edilizia, gli interventi di demolizione e ricostruzione dovevano rispettare il vincolo della sagoma.
La nuova norma, a differenza della precedente, non fa più menzione della sagoma; sicché deve ritenersi che, attualmente, possono considerarsi interventi di ristrutturazione anche quelli che si limitano semplicemente al rispetto della preesistente volumetria.
Sennonché, come detto, l’ultimo periodo della disposizione specifica a sua volta che “Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione […] costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente”.
Come si vede questa norma prevede un’eccezione alla regola generale sancita dal primo periodo della lett. d), eccezione che riguarda specificamente i beni ricadenti in aree sottoposte a vincolo ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Per questi immobili, dunque, continua a permanere il vincolo della sagoma; pertanto, qualora l’intervento di demolizione e ricostruzione ricada in area vincolata ed ecceda il limite della sagoma, esso non potrà qualificarsi alla stregua di intervento di ristrutturazione edilizia, ma andrà ascritto alla categoria della nuova costruzione, con necessaria applicazione applicati sia dell’art. 26 della LR 8/2015 che detta disposizioni generali di salvaguardia dei territori rurali, sia dell’art. 83 delle NTA del PPR.
Ad avviso del Collegio la locuzione “…immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42…” non può che essere inteso nel senso ampio ritenuto dall’ufficio regionale, non coincidendo con il singolo edificio ma comprendendo anche le aree e i terreni oggetto di tutela (in termini: Cass. Pen., Sez. III, 08.03.2016 n. 33043).
Più precisamente, vista la genericità della previsione, non possano operarsi distinzioni a seconda della fonte e della natura del vincolo; ne consegue che essa si applicherà anche nei casi di beni vincolati ai sensi della Parte terza del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché nei casi in cui detti vincoli comportino un regime di inedificabilità non già assoluta ma solo relativa.
L’interpretazione della norma in esame, condotta sulla base della sua lettera, porta dunque a ritenere che l’intervento di cui è causa –che incide su un’area soggetta a vincolo paesaggistico e che pacificamente non rispetta il limite della sagoma preesistente– va correttamente qualificato come intervento di nuova costruzione.
Sotto questo profilo non è decisiva la circostanza che l’immobile fosse stato oggetto di un provvedimento di condono anche in ordine alla destinazione commerciale.
Il condono edilizio è infatti un istituto eccezionale che consente al richiedente il mantenimento e la conservazione di un fabbricato abusivamente realizzato ma non lo sottrae alla disciplina urbanistica applicabile in ragione della sua localizzazione.
Pertanto –con riguardo al caso di specie- l’eventuale demolizione dell’immobile in questione comporterà –per il caso di riedificazione con modifica della sagoma- l’applicazione della disciplina della nuova costruzione in zona agricola, con conseguente verifica, ai fini del rilascio del titolo edilizio, del possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla normativa vigente.
Ciò, del resto, è confermato dall’art. 39, comma 5, della legge regionale n. 8/2015 in punto di rinnovo del patrimonio edilizio con interventi di demolizione e ricostruzione, che all’ultimo alinea precisa che “Nelle zone urbanistiche E ed H non è ammessa deroga alle vigenti disposizioni regionali”.
La qualificazione nei termini predetti di nuova costruzione dell’intervento proposto dalla ricorrente conduce quindi alla reiezione del ricorso che, a ben vedere, muove interamente dal presupposto non fondato che i lavori oggetto della DUAAP avessero natura di ristrutturazione edilizia.
In conclusione, quindi, il ricorso si rivela infondato e va respinto (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 05.12.2017 n. 772 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOFestivo, no straordinari per il vigile. Cassazione.
L'operatore di polizia municipale che presta servizio in turno e lavora in un giorno festivo infrasettimanale ha diritto solo ad una piccola maggiorazione stipendiale senza possibilità di effettuare un riposo compensativo o percepire compensi straordinari. Ma in questo modo viene differenziato il debito orario degli agenti di pm da quello degli altri colleghi dipendenti dal comune.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con l'ordinanza 04.12.2017 n. 28983.
La questione del turno festivo infrasettimanale della polizia locale è controversa. Alcuni comuni valutano infatti questa attività non come una prestazione ordinaria ma come una diversa fattispecie che da luogo alla possibilità per il lavoratore di fruire, al pari di ogni altro dipendente, del riposo compensativo corrispondente alla festività non goduta o del trattamento alternativo, ossia il compenso per lavoro straordinario festivo. Altri enti, invece, riconoscono in questa ipotesi la possibilità di fruire del riposo compensativo e della maggiorazione prevista dall'art 24 del ccnl.
Diverse amministrazioni, infine, considerano il servizio svolto in un turno ricadente in una festività infrasettimanale alla stessa stregua di quello svolto in una qualsiasi domenica in cui sia previsto il turno e quindi riconoscendo una piccola maggiorazione oraria ma senza l'applicazione del riposo compensativo e dello straordinario. I giudici del palazzaccio hanno aderito a quest'ultima interpretazione. A parere degli ermellini la prestazione effettuata dal vigile turnista nel giorno festivo infrasettimanale non permette di accedere allo straordinario ma solo alla maggiorazione oraria festiva prevista dall'art. 22 del ccnl.
In buona sostanza l'operatore di polizia municipale inserito in una turnazione oraria non ha diritto a pretendere nulla per il giorno di Natale o di Santo Stefano. Ma solo a richiedere un aumento del compenso orario per la prestazione effettuata in turno in un giorno festivo infrasettimanale (articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).

APPALTI: Esclusione dalla gara per inadempimenti e condotte negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto pubblico.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Errore professionale nell'esecuzione di contratti pubblici – Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 80 del 2016 – Presupposti – Individuazione – Norma innovativa rispetto alla previsione del Codice previgente – Conseguenza.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 -nella parte in cui include nei “gravi illeciti professionali” anche “il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio”, come pure il fornire “informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione”- ha carattere innovativo rispetto alla previsione dettata dall’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. 12.04.2006, n. 163, con la conseguenza che non è estensibile in via retroattiva a procedure di affidamento soggette all’abrogato Codice degli appalti pubblici (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che nelle gare di appalto svoltesi sotto il vigore del vecchio codice, l’errore professionale di cui alla lett. f) dell’art. 38, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 andava limitato ai soli inadempimenti e condotte negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto pubblico; esulavano pertanto dal campo applicativo della predetta norma i fatti, anche illeciti, occorsi nella prodromica procedura di affidamento.
In particolare, deve escludersi che ricorra il «grave errore professionale», previsto dall’art. 38, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006. nel caso di illecito anticoncorrenziale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 04.12.2017 n. 5704 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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1. Con il primo motivo d’appello il CNS censura la sentenza del Tribunale amministrativo laddove il giudice di primo grado ha affermato che un illecito anticoncorrenziale possa integrare una fattispecie di errore grave nell’esercizio dell’attività professionale ostativo alla partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici ai sensi della lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006. In contrario l’aggiudicatario richiama la giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione alla disposizione ora richiamata, che afferma in modo costante che ai fini di questa causa di esclusione rilevano i soli errori commessi nell’esecuzione di contratti pubblici (sono tra l’altro richiamati i precedenti di questo Consiglio di Stato di cui alle sentenze 19.08.2015, n. 3950 e della VI Sezione 01.06.2012, n. 3282).
2. Con il secondo motivo d’appello il CNS lamenta che nel ritenere pretestuosa e manifestamente illogica la motivazione con cui il consorzio COVAR ha confermato la propria partecipazione alla gara, una volta esaminata la rilevanza della sanzione comminatale dall’Autorità garante per la concorrente e per il mercato, in esecuzione dell’ordinanza cautelare del Tribunale amministrativo del Piemonte (ordinanza del 28.07.2016, n. 275), lo stesso giudice di primo grado avrebbe esorbitato dai limiti del sindacato ad esso spettante nei confronti delle valutazioni discrezionali riservate alla stazione appaltante circa l’affidabilità dell’operatore economico in relazione alla causa di esclusione di cui al più volte citato art. 38, comma 1, lett. f), del previgente codice dei contratti pubblici.
3. I motivi possono essere esaminati congiuntamente e sono fondati.
Deve innanzitutto essere data continuità all’incontrastato indirizzo di questo Consiglio di Stato che circoscrive l’errore professionale di cui alla lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 ai soli inadempimenti e condotte negligenti commessi nell’esecuzione di un contratto pubblico, e che per contro esclude dal campo applicativo della norma i fatti, anche illeciti, occorsi nella prodromica procedura di affidamento (da ultimo: Cons. Stato, V, 30.10.2017, n. 4973, 15.06.2017, n. 2934; in precedenza: Cons. Stato, V, 04.08.2016, n. 3542, 25.02.2016, n. 771, 21.07.2015, n. 3595, alcune delle quali richiamate dal CNS).
Come specificato nei precedenti in questione,
la delimitazione della fattispecie in esame alle sole condotte commesse nella fase di esecuzione di contratti pubblici si giustifica sulla base di ragioni di tipicità e tassatività della causa ostativa, e dunque per le correlate ragioni di certezza vantate dagli operatori economici in ordine ai presupposti che consentono loro di concorrere all’affidamento di commesse pubbliche (sulle esigenze di certezza nel settore dei contratti pubblici ed in particolare con riguardo alle cause di esclusione dalle relative procedure di affidamento si rinvia alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 02.06.2016, C-27/15).
4. Nella medesima linea interpretativa,
questo Consiglio di Stato ha escluso che gli estremi del grave errore professionale possano essere ricavati da procedimenti penali nei confronti di esponenti dell’impresa concorrente, per i rischi di sovrapposizione tra la causa ostativa di cui alla lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 con quella autonoma prevista dalla lettera c) della medesima disposizione e dunque anche in questo caso in violazione del principio di tassatività della cause di esclusione (Cons. Stato, VI, 02.01.2017, n. 1).
La giurisprudenza amministrativa ha inoltre precisato che la finalità dell’ipotesi contemplata dalla lettera f) è di consentire alla stazione appaltante di valutare la rilevanza del comportamento tenuto dall’impresa nell’esercizio della sua attività professionale in vista della corretta esecuzione dell’appalto da affidare; nell’ambito di questo indirizzo si precisa che il giudizio demandato all’amministrazione non ha carattere sanzionatorio ma fiduciario (ex multis Cons. Stato, IV, 11.07.2016, n. 3070; V, 13.07.2017, n. 3444, 20.02.2017, n. 742, 11.04.2016, n. 1412, 18.06.2015, n. 3107, 15.06.2015, n. 2928, 23.03.2015, n. 1567, 03.12.2014, n. 5973; VI, 01.09.2017, n. 4161).
5. Da ultimo –come sottolineato negli scritti conclusionali–
questa Sezione ha escluso che ricorra il «grave errore professionale» previsto dall’art. 38, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006 l’illecito anticoncorrenziali (sentenza 17.04.2017, n. 3505).
Nella medesima ottica del principio di determinatezza delle cause di esclusione da procedure di affidamento di contratti pubblici poc’anzi richiamato, in quest’ultimo precedente si è in particolare affermato che la disciplina di cui al previgente codice dei contratti pubblici «come pure (la) legge n. 287 del 1990, con riguardo alle sanzioni pecuniarie irrogate dall’A.G.C.M., non prevede alcuna sanzione accessoria rilevante in termini di esclusione dalla gara».
Per le ragioni sinora esposte –e condivise da questo collegio- al principio in questione deve essere data continuità nel presente giudizio.
6. L’opposta tesi propugnata dall’originaria ricorrente Te. e fatta invece propria dal giudice di primo grado conduce ad estendere il campo di applicazione della norma in esame ad ipotesi ad essa non riconducibili.
Quest’ultima si suddivide in due ipotesi, consistenti nella «grave negligenza o malafede nell’esecuzione delle prestazioni affidate dalla stazione appaltante che bandisce la gara» e nel «errore grave nell’esercizio della loro attività professionale», che tuttavia hanno un nucleo comune, incentrato sullo svolgimento dell’attività di impresa sulla capacità tecnica e correttezza esecutiva manifestata dall’operatore economico nello svolgimento di quest’ultima.
7. Esulano quindi dal perimetro applicativo della norma i fatti illeciti commessi al di fuori dell’esecuzione di rapporti contrattuali, a qualsiasi titolo sanzionati dall’ordinamento. Tali ipotesi risultano infatti incompatibili sul piano letterale e logico con la nozione di «errore» impiegata nella lettera f), nel contesto di una disposizione che per altre cause ostative, relative a fatti lesivi di interessi generali e non circoscritti alla sfera imprenditoriale, impiega invece le espressioni «gravi infrazioni» (lett. e) o «violazioni gravi» (lett. “g” e “i”); o ancora «hanno violato il divieto» (lett. d).
8. In contrario rispetto a quanto finora rilevato non induce il richiamo, operato dal giudice di primo grado, alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 18.12.2014, C-470/13.
E’ infatti vero che con questa pronuncia il giudice europeo ha stabilito che nell’ipotesi di «errore grave» commesso «nell’esercizio dell’attività professionale» previsto dall’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva 2004/18/CE del 31.03.2004 (relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi) «un’infrazione alle regole della concorrenza, in particolare qualora tale infrazione sia stata sanzionata con un’ammenda» (§ 35).
Tuttavia, è altrettanto vero –come sottolinea il CNS– che la pronuncia è stata resa in un giudizio sorto su un rinvio pregiudiziale avente ad oggetto la compatibilità con il diritto euro-unitario di previsioni legislative di uno Stato membro dell’Unione che attribuivano espressa rilevanza all’infrazione al diritto della concorrenza ai fini della partecipazione al procedure di affidamento di contratti pubblici.
La questione esaminata dalla Corte di giustizia era dunque se potesse essere ricondotta alla nozione utilizzata dall’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva 2004/18/CE la fattispecie prevista dalla legislazione ungherese in materia di contratti pubblici, la quale consente alle amministrazioni aggiudicatrici di impedire la partecipazione a procedure di affidamento agli operatori economici che hanno commesso «un’infrazione connessa alla propria attività economica e professionale, e constatata con decisione giurisdizionale passata in giudicato al massimo cinque anni prima».
9. Invece, nel caso di specie questa “interposizione” legislativa interna difetta.
Se infatti nel caso esaminato dal giudice europeo si verteva su una causa ostativa incentrata sull’«infrazione connessa alla propria attività economica e professionale», espressamente prevista dalla legge nazionale, nel caso di specie l’art. 38, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006 si limita per contro a riprodurre la formulazione normativa della direttiva europea, attraverso la nozione di «errore professionale», non ulteriormente specificata.
La Corte di giustizia ha quindi ritenuto che l’illecito anticoncorrenziale, rientrante nella causa di esclusione prevista dal legislatore interno, sia a sua volta riconducibile alla fattispecie dell’errore grave commesso nell’esercizio dell’attività professionale prevista dalla direttiva. Ciò nell’ambito di un giudizio di conformità del diritto interno rispetto allo strumento normativo sovranazionale finalizzato ad armonizzare le legislazioni degli Stati aderenti all’Unione europea, condotto secondo il tipico approccio “funzionale” che contraddistingue il diritto di quest’ultima, ovvero incentrato sulla verifica della corretta attuazione sul piano interno delle finalità perseguite a livello europeo.
10. Nel caso del previgente codice dei contratti pubblici manca invece il presupposto normativo “interno” e cioè l’opzione espressa del legislatore nazionale nel senso di declinare la nozione europea nel senso di ricondurvi anche l’illecito antitrust.
A fronte di ciò l’indagine deve essere affidata ai comuni criteri di interpretativi delle leggi, sanciti dall’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. preleggi).
11. A questo specifico riguardo, la differente formulazione della norma italiana rispetto a quella ungherese esaminata dalla Corte di giustizia ha carattere sostanziale: quest’ultima si riferisce a violazioni di legge commesse nell’ambito dell’attività di impresa ed a vantaggio di questa; la seconda, nel limitarsi ad impiegare il concetto di «grave errore professionale», deve invece ritenersi limitata ad inadempimenti di obblighi assunti dall’impresa stessa nei propri rapporti contrattuali.
Quindi, va evidenziato che
le intese restrittive della concorrenza non possono essere ricondotte all’attività professionale dell’impresa, ma costituiscono fatti illeciti commessi appunto a vantaggio di quest’ultima, in violazione delle norme a tutela del fisiologico esplicarsi delle attività economiche.
12. Pertanto, de iure condito –e più precisamente secondo il diritto vigente all’epoca dei fatti di causa– gli assunti della Te. non possono quindi essere condivisi, come peraltro ha precisato questa Sezione nella sopra citata sentenza 17.04.2017, n. 3505, sulla base del raffronto con l’attuale codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50.
Infatti,
premesso che l’art. 80, comma 5, lett. c), di quest’ultimo testo normativo include nei «gravi illeciti professionali» anche «il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio», come pure il fornire «informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione», nel precedente in esame si è evidenziato che questa previsione ha carattere innovativo rispetto a quella del previgente codice e che la stessa non è pertanto estensibile in via retroattiva a procedure di affidamento soggette a quest’ultimo.
Alle medesime conclusioni deve quindi giungersi per la gara oggetto del presente giudizio, anch’essa bandita prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016.
13. Va poi sottolineato che anche in occasione del parere reso da questo Consiglio di Stato sulle Linee guida ANAC n. 6 (Indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto che possano considerarsi significative per la dimostrazione delle circostanze di esclusione di cui all’art. 80, comma 5, lett. c), del codice) si è evidenziato che
la nozione di illecito professionale accolta da quest’ultima disposizione «abbraccia molteplici fattispecie, anche diverse dall’errore o negligenza, e include condotte che intervengono non solo in fase di esecuzione contrattuale, come si riteneva nella disciplina previgente [Cons. St., V, 21.07.2015 n. 3595], ma anche in fase di gara» (parere della Commissione speciale 03.11.2016 n. 2286).
14. Palesemente inconferente è invece l’ulteriore precedente della Corte di giustizia richiamato dal giudice di primo grado, e cioè la sentenza 13.12.2012, C-465/11.
In quel caso la questione pregiudiziale verteva sulla conformità all’art. 45, comma 2, lett. d), della direttiva 2004/18/CE della legislazione polacca nella parte in cui prevedeva come causa di esclusione automatica dalle procedure di gara ipotesi di risoluzione o inadempimento contrattuali. Quindi, come sottolinea il CNS, nella pronuncia in esame la Corte di giustizia ha ritenuto tale ipotesi di esclusione automatica non conforme alla normativa europea.
15. Sul punto, nondimeno, la Te. ha affermato nei propri scritti conclusionali che la soluzione cui è pervenuto il precedente di questa Sezione ora in esame «appare certamente insoddisfacente sul piano assiologico e valoriale», nella misura in cui consente alle amministrazioni di valutare la credibilità di un operatore economico per inadempimenti commessi nell’esecuzione di precedenti contratti pubblici «e non anche comportamenti particolarmente disdicevoli come quelli descritti dall’Agcm nel provvedimento con cui si è inflitta la pesante sanzione al Cns».
Ad ulteriore sostegno di questa tesi è richiamato il parere di questo Consiglio di Stato sullo schema del nuovo codice dei contratti pubblici, in cui si afferma che: «la condotta anticoncorrenziale è ritenuta pericolosa dall’ordinamento UE (e da quello nazionale) non solo quando abbia un effetto violativo delle regole concorrenziali, ma anche quando abbia soltanto ad oggetto il conseguimento di una siffatta violazione» (Comm. speciale, 01.04.2016, n. 855).
Richiamata quindi una diffusa giurisprudenza amministrativa di primo grado che ha affermato il principio opposto, la Te. ha quindi chiesto, in ragione di questo contrasto giurisprudenziale e della «obiettiva complessità delle questioni», di sollevare davanti alla Corte di giustizia dell’Unione la questione pregiudiziale della conformità della lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 all’art. 45, comma 2, lett. d), della citata direttiva 2004/18/CE (secondo il quale -come accennato in precedenza- può essere escluso dalla partecipazione a procedure di affidamento di contratti pubblici ogni operatore economico che «nell’esercizio della propria attività professionale, abbia commesso un errore grave, accertato con qualsiasi mezzo di prova dall’amministrazione aggiudicatrice»).
16. La richiesta non può tuttavia essere accolta.
In primo luogo, come si è sopra evidenziato
la norma interna è sostanzialmente riproduttiva di quella europea. Entrambe si imperniano in particolare sul concetto di grave errore commesso nell’esercizio dell’attività professionale, cosicché non si possono nutrire dubbi sulla corretta trasposizione interna del precetto comunitario.
Deve poi sottolinearsi che,
diversamente da quelle previste nel comma 1 dell’art. 45 della direttiva, la causa di esclusione su cui si controverte nel presente giudizio è di carattere facoltativo: recita infatti il comma 2 dell’art. 45 in esame: «Può essere escluso dalla partecipazione all'appalto ogni operatore economico». In questo caso la direttiva europea attribuisce quindi un potere discrezionale allo Stato membro, che nel caso di specie l’Italia ha legittimamente ritenuto di esercitare in linea con la previsione normativa contenuta nella direttiva.
Inoltre, contrariamente a quanto deduce la Te. la questione non riveste i pretesi caratteri di complessità che ne giustificherebbero la rimessione alla Corte di giustizia. Del pari, sono irrilevanti a questo fine i precedenti contrari dei Tribunali amministrativi, a fronte di un orientamento di questo Consiglio di Stato invece uniforme nel senso finora espresso. Quanto al parere 01.04.2016, n. 855, richiamato dall’originaria ricorrente, va rimarcato che esso concerne il nuovo codice dei contratti pubblici.
17. La richiesta di sollevare la questione pregiudiziale europea in esame sottende in realtà il tentativo di ricevere dalla Corte di giustizia l’avallo ad un’interpretazione analogica, in malam partem, di una norma interna conforme a quella sovraordinata, di cui costituisce puntuale attuazione nell’ordinamento giuridico nazionale. Infatti, con essa non si prospetta un contrasto tra questo duplice livello normativo, ma si lamenta «sul piano assiologico e valoriale» l’inidoneità della legge nazionale a “colpire” le imprese in tesi immeritevoli di aggiudicarsi contratti pubblici, della quale si prospetta quindi una lettura interpretativa di carattere additivo volta a colmarne le lacune.
A fronte di ciò non sussistono quindi i presupposti per sollevare la questione pregiudiziale, tanto in ragione della c.d. teoria dell’atto chiaro (sul punto è sufficiente richiamare la sentenza capostipite della Corte di giustizia 06.10.1982, C-283/81, Cilfit; da ultimo: Cons. Stato, VI, 12.10.2017, n. 4732), quanto sulla base della funzione di “filtro” che le autorità giurisdizionali nazionali sono chiamate a svolgere rispetto a interpretativo di carattere soggettivo e che non esibiscano requisiti minimi di idoneità per devolvere la questione al giudice europeo (cfr. in questo senso Cons. Stato, IV, 02.11.2017, n. 5048; V, 22.08.2016, n. 3667).
18. Le censure del CNS sono fondate anche nella parte relativa al giudizio di illegittimità espresso dal giudice di primo grado sulle motivazioni con cui il consorzio Covar ha confermato l’ammissione alla gara (con provvedimento n. 324 del 26.10.2016), dopo l’ordinanza cautelare di sospensione emanata su istanza della ricorrente Te. e il conseguente riesame della questione.
19. Deve premettersi sul punto che il CO. ha formulato il giudizio di affidabilità professionale del CNS sulla base delle seguenti considerazioni: innanzitutto le violazioni accertate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato, oltre a non essere state accertate con sentenza passata in giudicato, sono relative ad un servizio diverso da quello posto a gara (e precisamente: servizi di pulizia nelle scuole); inoltre, le condotte in questione non hanno inciso sul corretto svolgimento della procedura di gara in contestazione, alla quale ha partecipato «un numero di imprese tale da garantire il rispetto del principio della libera concorrenza», e in relazione alla quale non vi è prova «che siano stati conclusi accordi con altri operatori economici intesi a falsare la concorrenza».
20. Nel giudicare illegittima questa motivazione il Tribunale amministrativo ha affermato che le circostanze valorizzate dalla stazione appaltante non sono idonee ad escludere il grave errore professionale di cui alla lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006, poiché quest’ultimo comprende «qualsiasi comportamento scorretto che incida sulla credibilità professionale dell’operatore»; inoltre non è richiesta «alcuna coincidenza tipologica o contenutistica tra le vicende professionali poste in relazione», mentre la rilevanza dell’errore professionale «non è circoscritta a casi verificatisi nell’ambito di rapporti contrattuali intercorsi con la medesima stazione appaltante che bandisce la gara» ma attiene «indistintamente a tutta la precedente attività professionale dell'impresa, in quanto elemento sintomatico della perdita del requisito di affidabilità e di capacità professionale, influente sull’idoneità dell’impresa a fornire prestazioni che soddisfino gli interessi di rilievo pubblico».
21. Alle ragioni puntuali espresse dalla stazione appaltante il giudice di primo grado ne ha dunque contrapposte ed in particolare un suo proprio giudizio di inaffidabilità professionale evidentemente sostitutivo rispetto a quello dell’amministrazione, così esercitando un sindacato di merito al di fuori dei casi tassativi previsti dall’art. 134 cod. proc. amm..
A questo riguardo non può che essere richiamato il precedente di cui alla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 17.02.2012, n. 2312. Con questa pronuncia la Suprema Corte ha affermato che esorbita dai limiti della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo una decisione del Consiglio di Stato che con riguardo ad una motivata valutazione espressa della stazione appaltante sulla causa ostativa di cui alla medesima lett. f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006 -e dunque in un caso assolutamente in termini con la presente fattispecie– abbia ecceduto dai limiti della «verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall’appaltante come ragioni del rifiuto», in presenza di una precisa scelta legislativa che demanda alle amministrazioni di valutare il punto di rottura dell’affidabilità dell’operatore economico, pretendendo invece di stabilire se le ragioni dell’esclusione (in quel caso) fossero o meno condivisibili.
Ebbene, ciò è appunto quanto ha fatto il Tribunale amministrativo a fronte di una decisione dell’amministrazione di segno opposto, e cioè di ammissione alla gara, con sottostante giudizio di affidabilità dell’operatore malgrado l’illecito antitrust accertato nei suoi confronti.
22. In particolare, il consorzio CO. ha escluso che tali condotte del CNS ne pregiudicassero l’affidabilità per il servizio di igiene urbana posto a gara, in considerazione del fatto che nessuna influenza su quest’ultima poteva ravvisarsi.
Il Tribunale amministrativo ha invece ritenuto che queste puntuali ragioni fossero inidonee a sorreggere il giudizio finale espresso dall’amministrazione. Ciò sulla base di un diverso metro di giudizio, che alla luce di quanto statuito con riguardo al motivo dell’appello principale è risultato non conforme alla legge –ed anzi tende a connotare di contenuti etici il giudizio di affidabilità professionale demandato alle stazioni appaltanti– e dunque sulla scorta di apprezzamenti non imposti da norme sovraordinate, ma collocati nella sfera del merito amministrativo.
23. Dall’accoglimento del secondo motivo dell’appello principale del CNS discende un’ulteriore ragione per negare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. richiesto dalla Te. nei confronti della lettera f) del previgente codice dei contratti pubblici. Essa consiste nell’irrilevanza della questione interpretativa sull’ambito di applicazione di quest’ultima disposizione, una volta accertato che le ragioni che hanno indotto il CO. ad ammettere alla gara l’aggiudicatario dopo il riesame della questione relativa all’illecito antitrust commesso dal CNS sono comunque immuni dalle censure contro di esso svolte dall’originaria ricorrente.
24. Riformata quindi la statuizione di accoglimento dell’impugnazione della Te., vanno ora esaminati i motivi dell’appello incidentale di quest’ultima, che invece il Tribunale amministrativo ha respinto.
25. Con un primo motivo l’originaria ricorrente censura la sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il motivo relativo alla rilevanza delle condotte che hanno determinato l’adozione da parte dell’Autorità nazionale anticorruzione del decreto di commissariamento ex art. 32 del decreto-legge 24.06.2014, n. 90 (recante Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari; convertito dalla legge 11.08.2014, n. 114), in relazione a turbative d’asta commesse da esponenti del CNS in due procedure di affidamenti di contratti indette da AMA s.p.a., municipalizzata di Roma per l’ambiente, nell’ambito della nota indagine “mafia capitale”.
Sul punto l’originaria ricorrente sostiene che il consorzio aggiudicatario avrebbe dovuto essere escluso per non avere reso alcuna dichiarazione di tali precedenti e sottolinea che il coinvolgimento di quest’ultimo in fatti gravi aventi rilevanza penale, volti ad alterare gli esiti delle procedure di affidamento di contratti pubblici, sia «ipoteticamente riconducibile alla ipotesi di «errore professionale» ex art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs. n. 163/2006».
La Te. soggiunge al riguardo che l’omissione dichiarativa non sarebbe quindi sanabile dalla valutazione svolta sul punto dal COVAR dopo la sospensiva emessa dal Tribunale amministrativo (con la determinazione più volte citata n. 324 del 26.10.2016).
26. Il motivo è infondato.
Deve in primo luogo sottolinearsi che
l’obbligo dichiarativo dei precedenti professionali è inteso dalla costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato come strumentale rispetto alle valutazioni discrezionali di competenza delle stazioni appaltanti in ordine all’affidabilità ex art. 38, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006 dei partecipanti a procedure di affidamento. Si afferma al riguardo che il fatto in sé è indice di inaffidabilità dell’operatore economico, tale da giustificare la sua esclusione dalla gara (ex multis: Cons. Stato, III, 05.05.2014, n. 2289; IV, 04.09.2013, n. 4455; V, 27.09.2017, n. 4527, 17.07.2017, n. 3493, 22.12.2016, n. 5419, 15.12.2016, n. 5290, 04.10.2016, n. 4108, 26.07.2016, n. 3375, 19.05.2016, n. 2106, 18.01.2016, n. 122, 25.02.2015, n. 943, 11.12.2014, n. 6105, 14.05.2013, n. 2610).
Tuttavia, laddove tale valutazione sia quindi stata svolta, tanto più in senso positivo, non è consentito al giudice ricavare una ragione di esclusione di tipo formale rispetto ad un presupposto sostanziale –l’esistenza di un «grave errore professionale»- che la stazione appaltante, nell’esercizio delle attribuzioni ad essa riservate ai sensi della più volte citata lett. f) del previgente codice dei contratti pubblici, ha ritenuto sussistente, dandone adeguata motivazione.
27. Ciò è appunto quanto avvenuto nel caso di specie.
Nel rideterminarsi su sollecitazione del Tribunale amministrativo anche con riguardo al commissariamento ex art. 32 d.l. n. 90 del 2014 del CNS il CO. ha infatti ritenuto che:
   - i fatti all’origine di quest’ultimo provvedimento erano stati «posti in essere fuori dall’esecuzione di un contratto»;
   - a presupposto del commissariamento possono essere addotte anche «situazioni anomale e comunque solo sintomatiche di condotte illecite», e dunque ipotesi di reato non ancora accertate in via definitiva;
   - la misura in questione non priva l’impresa della capacità di contrarre con la pubblica amministrazione;
   - contro lo stesso provvedimento era pendente ricorso giurisdizionale;
   - rispetto alle presunte turbative d’asta il CNS «risulta essersi costituita parte offesa (sic)» nel procedimento penale;
   - infine, a conferma dell’affidabilità del CNS vi è il recente rinnovo della sua iscrizione nella White list della Prefettura di Bologna.
28. Dal complesso di queste valutazioni
emerge un chiaro giudizio di affidabilità professionale dell’aggiudicatario, malgrado le vicissitudini giudiziarie pregresse, che ancora una volta deve essere ritenuto legittimo ai sensi della lettera f) dell’art. 38 d.lgs. n. 163 del 2006.
29. Deve inoltre convenirsi con quanto afferma il CNS nelle proprie difese e cioè che
il commissariamento ex art. 32, d.l. n. 90 del 2014 non è codificato quale causa di esclusione dalle procedure di affidamento di contratti pubblici.
30. Con il secondo motivo dell’appello incidentale la Te. deduce «ulteriori doglianze riconducibili alla violazione dell’art. 38, comma 1, lett. f), del d.lgs n. 163/2006», consistenti in alcune condanne penali emesse nei confronti di soggetti operanti per conto del CNS per reati commessi a vantaggio di quest’ultimo in diverse procedure di affidamento.
31. Queste censure –dichiarate irricevibili dal Tribunale amministrativo– sono comunque infondate nel merito.
Si tratta infatti di condotte criminose che non hanno nulla a che vedere con l’esecuzione di contratti pubblici e che non possono ancora una volta essere ricondotte all’ipotesi normativa asseritamente violata.
32. Per fatti di rilievo penale la causa di esclusione che potrebbe in ipotesi venire in rilievo è quella prevista dalla lettera c) dell’art. 38 d.lgs. n. 163. Tuttavia, la Te. non ha dedotto la violazione di questa diversa fattispecie normativa, la quale richiede tra l’altro che i reati in questione siano commessi da soggetti che all’interno dell’impresa siano titolari delle cariche dettagliatamente elencati nella disposizione di legge in esame e, inoltre, che tali fatti, purché incidenti sulla moralità professionale, siano stati definitivamente accertati.
Sennonché, sul punto nulla viene riferito dall’originaria ricorrente e sul punto il CNS ha controdedotto, senza alcuna contestazione, che si tratta o di condanne riportate da soggetti non facenti parte della propria compagine o di fatti per i quali non vi è stata ancora una pronuncia definitiva da parte dell’autorità giudiziaria penale.
Tutto ciò è sufficiente per il rigetto del motivo (si richiama sul punto il precedente sopra citato costituito dalla sentenza della VI Sezione di questo Consiglio di Stato, 02.01.2017, n. 1).
33. Con un ulteriore motivo la Te. assume ancora una volta violato l’art. 38, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 163 del 2006, con riguardo all’omessa dichiarazione di una risoluzione contrattuale disposta in danno del CNS dall’Azienda sanitaria provinciale di Messina (deliberazione n. 981/CS del 13.04.2012 del commissario straordinario)
34. Il motivo è infondato.
Il CNS ha controdedotto e documentato che l’inadempimento che ha condotto all’adozione del provvedimento di risoluzione contrattuale ha riguardato le sole prestazioni di ristorazione demandate alla società Ge.Cu. s.r.l., mandante del raggruppamento di cui l’odierno controinteressato era mandatario (incaricato dei servizi di global service, avente anche ad oggetto il portierato, la gestione del centralino, la pulizia, sanificazione e disinfezione dei locali). Ciò emerge in modo chiaro dalla lettura del provvedimento di risoluzione –oggetto di valutazione anch’esso da parte del CO.– il quale, come sottolinea il CNS, è in realtà qualificabile come risoluzione parziale, in quanto avente ad oggetto i soli servizi di ristorazione affidati alla mandante Ge.Cu., per inadempimenti contrattuali ascrivibili in via esclusiva a quest’ultima.
Deve allora essere fatta applicazione del condivisibile principio espresso da questa Sezione secondo cui
non può essere esclusa da una gara di appalto un’impresa laddove la risoluzione contrattuale di un precedente contratto con una diversa amministrazione appaltante sia conseguente all’inadempimento imputabile ad altro operatore del raggruppamento temporaneo (Cons. Stato, V, 28.09.2015, n. 4512, 26.06.2015, n. 3241). In caso contrario il giudizio di affidabilità professionale dell’operatore economico riposerebbe irragionevolmente su fatti ad esso non ascrivibili.
...
37. In conclusione, l’appello principale deve essere accolto.
L’appello incidentale va invece respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Quanto al concetto di “piena conoscenza” (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare.
La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
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E' opportuno richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio in ordine alla questione della verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) dal momento della constatazione della presenza dello scavo è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali;
   e) l’apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto.
Infatti, se per un verso deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, al fine di evitare la creazione di una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con il principio dell’affidamento.
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8. L’appello è fondato e deve essere accolto.
8.1. Assume rilievo pregiudiziale (in ordine logico secondo le coordinate ermeneutiche stabilite dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), l’esame del quinto motivo di appello, con il quale si contesta la sentenza del TAR nella parte in cui ha disatteso l’eccezione di irricevibilità del ricorso è fondato e deve essere accolto.
Occorre, innanzitutto, chiarire, che il termine per proporre l’azione di annullamento è quello ordinario di sessanta giorni, non potendo valere il diverso termine previsto per l’azione risarcitoria. Infatti, la circostanza che gli originari ricorrenti abbiano avanzato domanda di risarcimento in forma specifica, unitamente a quella caducatoria, non consente ai primi di godere di un doppio regime temporale per avanzare le loro pretese e quindi, di poter invocare il più ampio termine previsto per la domanda di risarcimento in forma specifica, laddove risulti inutilmente decorso quello per la domanda di annullamento.
La possibilità, infatti, di ottenere tramite la domanda di risarcimento in forma specifica la stessa utilità, oggetto della domanda caducatoria, comporterebbe l’elusione costante del termine decadenziale previsto per la proposizione di quest’ultima attraverso un meccanismo, che finirebbe per comportare una disapplicazione non ammissibile della detta disciplina.
Quanto, invece, al concetto stesso di “piena conoscenza” (ed alla sua idoneità a costituire il dies a quo di decorrenza del termine per l’impugnazione dell’atto), occorre ricordare quanto la giurisprudenza della Sezione ha già avuto modo di osservare (tra le altre, Cons. Stato, Sez. IV, 06.10.2015 n. 6242; 28.05.2012 n. 3159).
La “piena conoscenza” del provvedimento impugnabile non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endoprocedimentali, la cui illegittimità infici, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
Ed infatti, mentre la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività, integra la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto (così determinando quella “piena conoscenza” indicata dalla norma), invece la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei “motivi aggiunti” -per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento di proposizione ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta- comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena conoscenza”.
Ed infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.
8.2. Tanto premesso, è opportuno richiamare i principi elaborati dalla giurisprudenza di questo Consiglio (Cons. Stato, Sez. IV, n. 1135 del 2016; Id., n. 4701 del 2016; Id., n. 3067/2017; Id., Sez. VI, n. 6165/2017) in ordine alla questione della verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di ponderare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   a) il termine per impugnare il permesso di costruzione edilizia decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che (come nel caso di specie) è data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni;
   b) l’inizio dei lavori segna il dies a quo sella tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   c) dal momento della constatazione della presenza dello scavo è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   d) la richiesta di accesso, invero, non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se da un lato, infatti, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali;
   e) l’apposizione del prescritto cartello di cantiere ha la funzione di esporre al pubblico i titoli edilizi rilasciati e i nominativi dei responsabili dall’attività edilizia in corso, onde consentire a eventuali controinteressati di far valere in sede amministrativa e/o giurisdizionale le proprie posizioni giuridiche soggettive eventualmente lese dall’attività edilizia (e rendere agevolmente individuabili i soggetti responsabili qualora durante lo svolgimento delle attività di cantiere derivino danni nel confronti di terzi), sicché è onere del ricorrente di attivarsi immediatamente e senza indugio presso i competenti uffici comunali per prendere visione del progetto.
Infatti, se per un verso deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, per altro verso deve parimenti essere salvaguardato l’interesse del titolare del permesso di costruire a che l’esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente o colposamente differito nel tempo, al fine di evitare la creazione di una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche in contrasto con il principio dell’affidamento (v. in tale senso, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 18.07.2016, n. 3191 ivi i richiami alla giurisprudenza della Cassazione penale sulla funzione del cartello di cantiere).
8.3. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, emerge che gli originari ricorrenti, proprietari confinanti di un immobile posto di fronte a quello oggetto dei contestati titoli edilizi, quanto meno alla data del maggio 2015, hanno avuto piena contezza della esistenza dei titoli edilizi e della loro portata lesiva, sicché da tale data è iniziato a decorrere il termine per impugnare i titoli edilizi, che risulta inutilmente decorso alla data di notifica del ricorso introduttivo di prime cure (27.10.2015).
Dall’esame dei documenti in atti e dalla circostanze deducibili dall’esito del contraddittorio risulta, infatti, che:
   I) sulla base del permesso di costruire del 12.09.2012 già in data 21.02.2013 venivano iniziati i lavori di demolizione dell’immobile preesistente;
   II) sulla base del secondo permesso di costruire del 09.12.2014 venivano iniziati i lavori di nuova edificazione, ossia secondo quanto indicato dagli stessi ricorrenti nel marzo 2015 lavori propedeutici allo scavo, nel maggio 2015 completamento dei lavori di scavo; nel giungo 2015 completamento dei lavori di fondazione;
   III) sia in relazione al primo che al secondo permesso di costruire venivano apposti i cartelli di cantiere, dotati di tutte le informazioni previste per legge;
   IV) dall’ottobre 2014 veniva esposto un cartello pubblicitario di considerevoli dimensioni, riportante fotografia dell’immobile erigendo, dal quale risultava che lo stesso sarebbe stato costituito da quattro livelli fuori terra;
   V) risulta documentalmente provato lo scambio di elaborati grafici tra professionisti incaricati dall’odierno appellante e gli originari ricorrenti inerenti al secondo permesso di costruire;
   VI) nel maggio del 2015 il tecnico di parte ricorrente invitava il progettista dell’odierna appellante ad effettuare lavori di consolidamento, al fine di tutelare il condominio dei ricorrenti.
Se è corretto ipotizzare, infatti, che la prova di piena conoscenza di un provvedimento deve essere fornita dalla parte che ha eccepito l'irricevibilità del ricorso, nel caso di specie non è logico ritenere che anche all’indomani del maggio 2015 gli originari ricorrenti non fossero edotti della portata dell’intervento edilizio contestato.
Pertanto, alla luce degli evidenziati elementi fattuali gravi, precisi, plurimi e concordanti, nonché tenuto conto della natura delle censure dedotte dall’originaria ricorrente –incentrate anche sulla impossibilità di procedere alla demolizione di manufatti ubicati nella zona per cui è causa nonché sulla diversità di sagoma per ciò che concerne il primo permesso di costruire del 2012 e sulla volumetria assentita in relazione al secondo permesso di costruire del 2014– deve ritenersi incontrovertibilmente comprovato che l’originaria parte ricorrente, sin dal mese di maggio 2015, e ben prima per ciò che concerne il primo permesso di costruire, fosse stata a piena conoscenza dell’intervento progettato e in grado di valutarne l’eventuale incidenza lesiva sulla propria sfera giuridica, a fronte di un ricorso introduttivo del giudizio di primo grado notificato il 27.10.2015, e dunque ampiamente oltre il termine di decadenza di cui all’art. 41, comma 2, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 04.12.2017 n. 5675 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La giurisprudenza ritiene che “la summa divisio circa l'ostensibilità o meno dei pareri legali consiste nell'individuazione della finalità che l'Amministrazione persegue con la richiesta del parere, nel senso che il diniego di accesso è illegittimo nel caso in cui il parere sia stato acquisito in relazione alla fase istruttoria del procedimento amministrativo, mentre l'ostensione è legittimamente negata quando il parere richiesto sia stato acquisito in rapporto ad una lite già in atto o ad una fase evidentemente precontenziosa o di lite potenziale al fine di definire la futura strategia difensiva dell'Amministrazione”.
“Il parere legale è ostensibile quando esso ha una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale ad esso; mentre se ne nega l'accesso quando il parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio”.
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I. Con istanza inoltrata via mail all’Amministrazione in data 26.05.2017, il ricorrente ha richiesto copia informale del parere legale del 02.08.2016 emesso dal consulente dell’ASUR, avvocato Ma.Ba., nell’ambito del procedimento disciplinare n. 3/2016 pendente a suo carico, essendo detto parere stato citato nel provvedimento adottato in pari data con cui è stata disposta, nei suoi confronti, la sospensione cautelare dal servizio.
A seguito di un sollecito inoltrato dal ricorrente in data 23.06.2017, l’ASUR, con nota prot. 71123 assunta in pari data, ha riscontrato con un diniego l’istanza di accesso, opponendo la non ostensibilità del parere legale, caratterizzato, per sua natura, da riservatezza.
Ciò anche in considerazione del fatto che il parere pro veritate sarebbe stato assunto senza la finalità di sfociare in un provvedimento amministrativo, ma sarebbe stato volto a tutelare gli interessi dell’Azienda a fronte dell’instaurarsi di un possibile contenzioso; inoltre, all’ostensione dell’atto sarebbe ostativo il punto 19 dell’allegato c) del regolamento aziendale ASUR sulle modalità di accesso, che appunto sottrae all’accesso i pareri e le consulenze richiesti dalle strutture aziendali ai propri dipendenti nell’interesse patrimoniale e non patrimoniale delle strutture stesse.
Di qui il presente ricorso, con cui il ricorrente, deducendo l’illegittimità del diniego sotto distinti profili, chiede la condanna dell’ASUR all’esibizione dell’atto richiesto.
In particolare, egli assume che:
   - il provvedimento di sospensione dal servizio richiama il parere legale, sicché esso deve essere reso disponibile ai sensi dell’art. 3, comma 3, della legge n. 241 del 1990;
   - la fase preliminare del procedimento disciplinare si inserisce nel procedimento amministrativo, per cui i relativi atti sono soggetti al principio della trasparenza che connota l’attività amministrativa; peraltro, trattandosi di atto adottato prima dell’emanazione dell’atto amministrativo di sospensione, come tale estraneo al giudizio civile in corso, la sua ostensione non sarebbe neppure idonea ad ostacolare il diritto di difesa e a violare la riservatezza dell’ASUR;
   - l’accesso defensionale è consentito dall’ordinamento (art. 24 della legge n. 241 del 1990) e prevale anche su eventuali interessi contrapposti;
   - per principio giurisprudenziale, sono ostensibili i pareri legali che sono stati espressamente richiamati nella parte motiva del provvedimento finale;
   - in ogni caso, l’ASUR darebbe una lettura distorta e contraddittoria del punto 19 del proprio regolamento, il quale non andrebbe riferito, come invece fa l’Amministrazione, ai documenti relativi a vertenze giudiziarie, altrimenti si rivelerebbe un inutile doppione del punto 10 del regolamento medesimo.
L’ASUR, costituita in giudizio, insiste nelle proprie difese invocando la natura precontenziosa del parere (rispetto al giudizio iniziato innanzi al giudice del lavoro) e quindi la sua non ostensibilità, citando, a sostegno delle proprie argomentazioni, diversa giurisprudenza.
All’esito dell’udienza camerale del 25.10.2017 la causa, sulle conclusioni delle parti, è stata trattenuta in decisione.
II. Il ricorso non è fondato per le ragioni che si vanno ad evidenziare.
La giurisprudenza, condivisibilmente, ritiene che “la summa divisio circa l'ostensibilità o meno dei pareri legali consiste nell'individuazione della finalità che l'Amministrazione persegue con la richiesta del parere, nel senso che il diniego di accesso è illegittimo nel caso in cui il parere sia stato acquisito in relazione alla fase istruttoria del procedimento amministrativo, mentre l'ostensione è legittimamente negata quando il parere richiesto sia stato acquisito in rapporto ad una lite già in atto o ad una fase evidentemente precontenziosa o di lite potenziale al fine di definire la futura strategia difensiva dell'Amministrazione” (TAR Lazio Roma, sez. II, 04.01.2016, n. 31).
Il parere legale è ostensibile quando esso ha una funzione endoprocedimentale ed è quindi correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato anche solo in termini sostanziali e, quindi, pur in assenza di un richiamo formale ad esso; mentre se ne nega l'accesso quando il parere viene espresso al fine di definire una strategia una volta insorto un determinato contenzioso, ovvero una volta iniziate situazioni potenzialmente idonee a sfociare in un giudizio” (Cons. Stato, sez. V, 05.05.2016, n. 1761).
Gli stessi principi sono stati ribaditi anche di recente dalla giurisprudenza (TAR Sicilia Catania, sez. I, 31.01.2017, n. 208 e TAR Puglia Lecce, sez. II, 30.01.2017, n. 171).
Nel caso in esame, il provvedimento disciplinare trasmesso all’interessato in allegato alla nota prot. 88736 del 03.08.2016, pur evidenziando, nelle premesse, che il parere legale è stato richiesto al consulente designato “a miglior inquadramento dell’intero procedimento”, risulta dettagliatamente e diffusamente motivato indipendentemente da tale parere quanto alle ragioni che lo hanno determinato. Non può quindi affermarsi, nella fattispecie (perché ciò non si evince dal provvedimento amministrativo di sospensione dal servizio), la funzione endoprocedimentale e strumentale del parere con riferimento all’adozione dell’atto conclusivo.
A tal fine, infatti, non rileva il richiamo formale ad esso contenuto nel provvedimento, né rileva il fatto che vi sia una coincidenza temporale tra l’acquisizione del parere legale e l’adozione del provvedimento medesimo, perché ciò non è sufficiente ad escludere che il parere sia stato acquisito al solo fine di definire la strategia difensiva in vista di una situazione potenzialmente idonea a sfociare in un giudizio (come di fatto accaduto).
Anzi, in termini più sostanziali, avuto riguardo al contenuto dell’atto conclusivo del procedimento disciplinare, si ricava che quest’ultimo è stato adottato all’esito di quanto emerso dagli atti istruttori nel loro complesso e sulla base dei fatti esaminati e contestati al ricorrente, diffusamente descritti nella parte motiva; non vi è invece nessun particolare riferimento al parere pro veritate del consulente legale quale atto posto a sostegno della decisione assunta, non potendosi ciò desumere dalla mera menzione di esso nelle premesse dell’atto.
Per tali ragioni, in linea con la giurisprudenza sopra richiamata, il Collegio reputa sottratto all’accesso il parere in questione.
Le argomentazioni che precedono rendono superfluo l’esame della censura rivolta dal ricorrente contro il punto 19 del Regolamento ASUR in materia di accesso (peraltro proposta “si opus”), atteso che esse sono sufficienti ad affermare la non ostensibilità del parere legale in parola, anche a prescindere dall’applicazione, al caso in esame, della citata disposizione regolamentare.
III. In conclusione, il ricorso è infondato e non merita accoglimento (TAR Marche, sentenza 04.12.2017 n. 902 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 citato (dove afferma che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum”, quindi l’irrilevanza e la ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
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Nel caso di specie, la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente l’integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che “una tantum” al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo.
E’, pertanto, evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione intimata di addossare alla titolare di un permesso edilizio rilasciato sei anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca del rilascio.
Anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241, posto che:
   a) non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
   b) non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato;
   c) in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso (sei anni) tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato entro un ragionevole termine.
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II – Il ricorso è fondato.
III – I provvedimenti impugnati accollano “ex post” alla ricorrente, in ragione del titolo edilizio rilasciato sei anni prima, ulteriori oneri concessori, a titolo di aggiornamento Istat, cioè in virtù di un meccanismo legislativo (ex art. 16 D.P.R. n. 380/2001) di adeguamento automatico del contributo concessorio.
In base alla direttiva del Consiglio comunale, il Responsabile del SUE ha chiesto il “conguaglio” (a seguito della rideterminazione in base a nuovi parametri stabiliti “ex post”) degli oneri concessori versati dal ricorrente in relazione al permesso di costruire n. 9/2011.
Il Collegio ritiene di escludere che si sia di fronte all’esercizio di un potere di autotutela volto a correggere eventuali errori di determinazione o calcolo, peraltro nemmeno chiaramente evidenziati in atti, né contestati con una comunicazione di avvio del procedimento. L’attività comunale appare piuttosto orientata ad addossare al privato, successivamente al rilascio del titolo edilizio, costi supplementari forzatamente ascritti al meccanismo legale di adeguamento degli oneri concessori.
Tale meccanismo consente di aggiornare gli importi ricorrendo, con riferimento alla voce relativa agli oneri di urbanizzazione, “ai riscontri e prevedibili costi delle opere di urbanizzazione primaria, secondaria e generale” o, in relazione alla voce relativa al costo di costruzione, facendo “riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata” su determinazione regionale, e in assenza di quest’ultima “in ragione dell'intervenuta variazione dei costi di costruzione accertata dall'Istat” (art. 16, nono comma).
Il procedimento di revisione mira dunque ad adeguare l’importo degli oneri concessori a fenomeni di natura sostanzialmente inflattiva -legati all’aumento generalizzato dei costi di urbanizzazione o costruzione- in maniera da far corrispondere a permessi edilizi rilasciati in epoche diverse un impegno economico sostanzialmente uniforme sui singoli istanti.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, fondato sullo stesso tenore letterale dell’art. 16 citato (dove afferma che “la quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione è corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire” e “la quota di contributo relativa al costo di costruzione, determinata all'atto del rilascio”), i contributi concessori devono essere stabiliti al momento del rilascio del permesso edilizio; a tale momento occorre dunque avere riguardo per la determinazione della entità dell’onere facendo applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del titolo edilizio.
Da tale affermazione di principio si trae il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e modalità di calcolo per gli oneri concessori ribadendosi l'integrale applicazione del principio “tempus regit actum”, quindi l’irrilevanza e la ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (cfr., “ex multis”: Consiglio di Stato n. 1504/2015; TAR Puglia Lecce n. 1799/2013; TAR Puglia Lecce n. 2164/2013; TAR Sicilia n. 2581/2016; nonché TAR Puglia Lecce n. 49/2013).
Di conseguenza, deve ritenersi che le delibere comunali che dispongono l'adeguamento degli oneri concessori possano trovare applicazione esclusivamente per i permessi rilasciati a far tempo dall'epoca di adozione dell'atto deliberativo e non anche per quelli rilasciati in epoca anteriore.
Nel caso di specie, si deve poi osservare che la determinazione degli oneri non solo avviene sulla base di parametri posteriori al titolo edilizio -e quindi in via retroattiva- ma che altresì la stessa pretesa comunale appare fondata sulla convinzione errata che sia possibile esigere periodicamente l’integrazione del pagamento ogni volta che l’importo tariffario venga modificato, posto che tale rideterminazione appare nella specie ancorata alle tabelle approvate anche per gli anni successivi a quello di rilascio del titolo edilizio.
Deve invece ritenersi, sulla base del dato normativo e in conformità dell’orientamento giurisprudenziale consolidato da cui non vi sono ragioni di discostarsi, che non solo la determinazione degli oneri debba avvenire sulla base delle tariffe vigenti ma che la stessa non possa essere richiesta che “una tantum” al momento del rilascio del permesso edilizio senza possibilità di esigersi pagamenti per annualità successive al rilascio del titolo (Cfr., “ex multis”: TAR Puglia Lecce, III Sez., 15.01.2013 n. 49).
E’, pertanto, evidentemente illegittima la pretesa dell’Amministrazione intimata di addossare alla titolare di un permesso edilizio rilasciato sei anni prima l’ulteriore carico finanziario derivante dal meccanismo di aggiornamento posto che la determinazione degli oneri concessori al momento del rilascio era stata -a quanto risulta dagli atti di causa- correttamente determinata sulla base delle tabelle vigenti all’epoca del rilascio.
Per ragione di completezza, si precisa che, anche qualificando come conseguenza del potere di autotutela la richiesta di integrazione degli oneri, la pretesa risulterebbe illegittima in quanto esercitata patentemente in violazione dell’art. 21-nonies della legge 07.08.1990 n. 241, posto che:
   a) non risulta chiaramente il vizio originario da rimuovere, limitandosi il Comune genericamente a richiamare le norme e le tabelle succedutesi nel tempo;
   b) non viene comparato in motivazione l’interesse pubblico con l’interesse del destinatario, tenendo conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato;
   c) in particolare non viene data alcuna motivazione in relazione al tempo trascorso (sei anni) tra la determinazione originaria e la successiva rideterminazione, tenendo conto che lo stesso art. 21-nonies della legge n. 241/1990 prescrive che il potere di ritiro venga esercitato entro un ragionevole termine.
IV - In conclusione, per le ragioni esposte, vista l’illegittimità dei provvedimenti impugnati, il ricorso deve essere accolto (TAR Molise, sentenza 04.12.2017 n. 490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Se la mancata ricezione della Pec dipende dal fatto che la casella del difensore risulta piena, motivo che ha comporta il rifiuto del messaggio da parte del sistema, la notifica si considera ugualmente valida.
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Casella Pec piena: la notifica della cancelleria è valida?
Responsabile l’avvocato che non svuota la casella di posta elettronica certificata e per questa ragione non riceve le e-mail della cancelleria.
Sei un avvocato e, come tutti i tuoi colleghi, hai la posta elettronica certificata (Pec) per ricevere le notifiche da parte della cancelleria del Tribunale e dagli altri avvocati. Magari ricevi poche Pec e, per questo, non ti curi di svuotare periodicamente la casella così come invece fai, di tanto in tanto, con quella delle e-mail tradizionali.
Proprio per questo non ti sei mai chiesto cosa potrebbe succedere se un giorno, proprio perché hai la casella di posta elettronica certificata piena, la Pec dovesse tornare indietro al mittente? Che valore avrebbe la notifica: si potrebbe considerare ugualmente valida oppure andrebbe ripetuta, magari nelle forme tradizionali con l’ufficiale giudiziario?
La risposta al tuo più che legittimo interrogativo è stata fornita dalla Cassazione con una sentenza di venerdì scorso [1 - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.12.2017 n. 54141]. La pronuncia è di particolare interesse per tutti i professionisti, per legge tenuti ad avere un indirizzo email certificato: essa spiega infatti come comportarsi quando il destinatario di una pec ha esaurito lo spazio libero, magari per un eccesso di spam o perché non si è curato di svuotare la casella. Vediamo dunque cosa hanno detto i giudici supremi.
Se la casella mail relativa alla Pec dell’avvocato è piena, la mancata notifica da parte della cancelleria è imputabile solo al destinatario che avrebbe dovuto accorgersi, per tempo, di aver esaurito i giga di spazio o, in caso di un eccesso di posta indesiderata, installare un software antispam per evitare messaggi affollassero il suo indirizzo di posta. Se, del resto, non fosse così, sarebbe fin troppo facile per l’avvocato, dopo aver adempiuto all’obbligo di attivare un abbonamento di posta elettronica certificata, riempirlo fino ad esaurire lo spazio e tornare a ricevere le notifiche alla vecchia maniera, ossia con l’ufficiale giudiziario. Con conseguente inutilità del nuovo sistema imposto dalla legge per tagliare i tempi e i costi del processo civile.
Dunque, se la mancata ricezione della Pec dipende dal fatto che la casella del difensore risulta piena, motivo che ha comporta il rifiuto del messaggio da parte del sistema, la notifica si considera ugualmente valida.
La pronuncia elenca una serie di accorgimenti che il professionista è tenuto ad adoperare per il corretto funzionamento della casella Pec. Ad esempio è tenuto a «dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati», a conservare «le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia», a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che «deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche, a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione».
Deve in definitiva ritenersi regolarmente perfezionata la comunicazione o la notificazione mediante deposito in cancelleria [2 - Art. 16, c. 6, dl n. 179/2012] nel caso in cui la mancata consegna del messaggio di Pec sia imputabile al destinatario, ciò che si verifica quando il destinatario medesimo, venendo meno agli obblighi previsti dalla legge [3 - Art. 20 del dm 44/2011], non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l’efficienza (commento tratto da e link a www.laleggepertutti.it).
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MASSIMA
2. Il difensore si duole del mancato ricevimento, in proprio e quale domiciliatario dei propri assistiti, dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale fissata avanti al tribunale di Livorno per il giorno 29/06/2017.
Sulla base degli atti, cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione del tipo di doglianza propostale, emerge che le tre notifiche all' avv. Al.Bo. (in proprio e quale difensore di fiducia dei due indagati) dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale avanti al tribunale di Livorno per il giorno 29/06/2017, effettuate tutte tramite posta elettronica certificata (d'ora in poi PEC) all'indirizzo ...@pec.ordineavvocatilivorno.it, furono trasmesse il giorno 21/06/2017 (ore 11.05 la prima, ore 11.06 le altre due) con esito "mancata ricezione".
Da successivi accertamenti sugli avvisi estrapolati dal sistema delle notifiche telematiche, di cui si dà conto nella nota della cancelleria del tribunale di Livorno in data 26/10/2017, è emerso che la "mancata ricezione", in tutti e tre i casi, è da individuarsi nella "casella piena" del destinatario, che ciò ha comportato il rifiuto del messaggio da parte del sistema.
3. Va premesso che
la PEC è il sistema che, per espressa previsione di legge (d.P.R. 11.02.2005, n. 68), consente di inviare e-mail con valore legale equiparato a una raccomandata con ricevuta di ritorno; in ambito penale, essa è espressamente prevista, dall'art. 16, comma 4, d.l. 18.10.2012, n. 179, convertito dalla l. 17.12.2012, n. 221, «per le notificazioni a persona diversa dall'imputato a norma dell'art. 148 c.p.p., comma 2-bis, artt. 149 e 150 c.p.p., e art. 151 c.p.p., comma 2».
Il sistema di posta certificata, grazie ai protocolli di sicurezza utilizzati, è in grado di garantire la certezza del contenuto, non rendendo possibili modifiche al messaggio, sia per quanto riguarda i contenuti che eventuali allegati.
Senza entrare nella compiuta disamina della disciplina prevista per la PEC, ai fini della vicenda in esame è sufficiente premettere che
il termine "certificata" si riferisce al fatto che il gestore del servizio del mittente rilascia a costui «la ricevuta di accettazione nella quale sono contenuti i dati di certificazione che costituiscono prova dell'avvenuta spedizione di un messaggio di posta elettronica certificata» (art. 6, comma 1, d.P.R. 11.02.2005, n. 68, recante "Regolamento recante disposizioni per l'utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell'articolo 27 della L. 16.01.2003, n. 3").
Allo stesso modo,
«il gestore di posta elettronica certificata utilizzato dal destinatario fornisce al mittente, all'indirizzo elettronico del mittente, la ricevuta di avvenuta consegna» (art. 6, comma 2), la quale, per espressa previsione normativa, «fornisce al mittente prova che il suo messaggio di posta elettronica certificata è effettivamente pervenuto all'indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario e certifica il momento della consegna tramite un testo, leggibile dal mittente, contenente i dati di certificazione».
Nel caso in cui, invece, il messaggio di posta elettronica certificata non risulti consegnabile, «il gestore comunica al mittente, entro le ventiquattro ore successive all'invio, la mancata consegna tramite un avviso secondo le modalità previste dalle regole tecniche di cui all'articolo 17» (art. 8). In un'evenienza del genere -ossia nel caso in cui il messaggio inviato tramite PEC non risulti consegnabile- la disciplina muta a seconda della causa della mancata consegna, se, cioè, essa sia imputabile o meno al destinatario.
Va, infatti, premesso che
l'art. 20 del d.m. 21/02/2011 n. 44 (recante "Regolamento concernente le regole tecniche per l'adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 07.03.2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell'articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge  29.12.2009, n. 193, convertito nella legge 22.02.2010, n. 24"), disciplina i "requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno", imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di PEC e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica.
In particolare,
il "soggetto abilitato esterno" -ossia, nel caso che ci occupa, il difensore della parte privata- ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. m), d.m. n. 44 del 2011:
   a) «
è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l'assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati» (comma 2);
   b) «
è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia» (comma 3);
   c)
è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che «deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all'articolo 34» (comma 4);
   d) «
è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione» (comma 5).
Di conseguenza, la mancata consegna è imputabile al destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dall'art. 20 d.m. n. 44 del 2011, non si doti dei necessari  strumenti informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza.
Orbene, nel primo caso -ossia quando la trasmissione via PEC non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario- trova applicazione l'art. 16, comma 6, d.l. n. 179 del 2012, secondo cui le notificazioni e le comunicazioni «sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria».
Peraltro, nonostante la mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore destinatario, accedendovi, viene informato dell'avvenuto deposito.
Ai sensi dell'art. 16, comma 4, d.m. n. 44 del 2011, infatti, «nel caso in cui viene generato un avviso di mancata consegna previsto dalle regole tecniche della posta elettronica certificata (...) viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell'articolo 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell'atto nella cancelleria o segreteria dell'ufficio giudiziario, contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori».
La notifica depositata in cancelleria è a disposizione dell'avvocato, il quale, per estrarne copia, ai sensi dell'art. 40, comma 1-ter, d.P.R. n. 115 del 2002, deve pagare il decuplo dei diritti normalmente dovuti.
Diversa è invece l'ipotesi in cui la notificazione non si è potuta effettuare telematicamente per causa non imputabile al destinatario; in tal caso, ai sensi del comma 8 del citato art. 16, "si applicano gli articoli 148 e seguente del codice di procedura penale" e la notificazione, pertanto, avviene nelle forme ordinarie previste dal codice di rito.
In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto: «
Deve ritenersi regolarmente perfezionata la comunicazione o la notificazione mediante deposito in cancelleria, ai sensi dell'art. 16, comma 6, d.l. n. 179 del 2012, nel caso in cui la mancata consegna del messaggio di PEC sia imputabile al destinatario, ciò che si verifica quando il destinatario medesimo, venendo meno agli obblighi previsti dall'art. 20 d.m. n. 44 del 2011, non si doti dei necessari strumenti informatici ovvero non ne verifichi l'efficienza».
4. Venendo al caso in esame, risulta che le comunicazioni dell'avviso di fissazione dell'udienza camerale avanti al tribunale di Livorno per il 29/06/2017, sebbene accettate dal sistema, non furono ricevute a motivo della "casella piena" del destinatario;
si è perciò in presenta di una mancata consegna per causa imputabile al destinatario, il quale, evidentemente, non ha adempiuto all'obbligo di dotarsi di servizio automatico di avviso dell'imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e di verificare l'effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione, di cui all'art. 20, comma 5, d.m. n. 44 del 2011.
Di conseguenza, la comunicazione si è regolarmente perfezionata mediante deposito in cancelleria, ai sensi dell'art. 16, comma 6, d.l. n. 179 del 2012 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.12.2017 n. 54141).

ATTI AMMINISTRATIVI: E' legittimo l’avviso di fissazione di udienza comunicato mediante PEC solo ad uno dei due avvocati difensori.
Ex art. 136, primo comma, c.p.a., ai fini dell’efficacia delle comunicazioni di segreteria è sufficiente che vada a buon fine una sola delle comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il collegio difensivo, disciplina peraltro ricognitiva di un principio generale espressione di una “sintesi equilibrata fra il diritto di difesa e l’esigenza di economia di atti”.
Invero, “è da presumere, in mancanza di espressa volontà contraria della parte, che il mandato alle liti conferito a più difensori sia disgiunto”, mentre “l'eventuale carattere congiuntivo del mandato professionale opera soltanto nei rapporti tra la parte ed il singolo procuratore, onerato verso la prima dell'obbligo di informare l'altro o gli altri procuratori”.

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6. All’udienza del 21.11.2017 il difensore di parte ricorrente ha chiesto il rinvio della trattazione della causa poiché l’avviso di fissazione di udienza è stato comunicato mediante PEC solo all’avvocato Di Bo. e non anche all’avvocato Sa.. La causa, preso atto della memoria depositata dal Comune di Sorrento, è stata trattenuta in decisione.
7. Il Collegio ritiene di dover esaminare in primo luogo la questione del difetto di comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza pubblica all’avv. Ca.Sa., sollevata dal difensore di parte ricorrente nel corso dell’udienza pubblica.
7.1. Il rilievo non ha fondamento.
L’avviso di fissazione dell’udienza è stato ritualmente comunicato tramite PEC (consegnata il 18.09.2017) all’avv. Di Bo., difensore inserito nel mandato ad litem assieme all’avv. Sa.. Tale comunicazione è idonea a raggiungere lo scopo a cui è destinata e a porre il ricorrente nella situazione di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa.
La regolarità della comunicazione è, infatti, pienamente conforme alla disciplina processuale (art. 136, primo comma, c.p.a. “ai fini dell’efficacia delle comunicazioni di segreteria è sufficiente che vada a buon fine una sola delle comunicazioni effettuate a ciascun avvocato componente il collegio difensivo”), disciplina peraltro ricognitiva di un principio generale espressione di una “sintesi equilibrata fra il diritto di difesa e l’esigenza di economia di atti” (cfr. Cons. Stato ord. 2708/2017, Cass. 10635/2017 ove si precisa che “è da presumere, in mancanza di espressa volontà contraria della parte, che il mandato alle liti conferito a più difensori sia disgiunto”, mentre “l'eventuale carattere congiuntivo del mandato professionale opera soltanto nei rapporti tra la parte ed il singolo procuratore, onerato verso la prima dell'obbligo di informare l'altro o gli altri procuratori”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 01.12.2017 n. 5714 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il principio giurisprudenziale secondo cui è consentito l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la presenza sull’intero comprensorio di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria (tale da rendere evidentemente del tutto superflua o inutile la formazione dello strumento attuativo), essendo state completamente realizzate le finalità cui quest’ultimo è preordinato, non è applicabile nelle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea (anche abusiva), ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di recupero o completamento della zona (in tali casi, si deve infatti ritenere che riprenda vigore la regola generale –di cui è espressione l'art. 12 d.P.R. n. 380/2001– che, in materia di governo del territorio, impone il rispetto delle norme del PRG che prevedano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio).
A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che <<l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata>>.
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2.10. Nella fattispecie oggetto di giudizio, dunque, legittimamente l’amministrazione comunale, successivamente ai rilievi espressi dall’amministrazione provinciale, ha ritenuto di procedere ad un approfondimento istruttorio, addivenendo alla conclusione della non congruità degli standard urbanistici prescritti per la Z.T.O. C2 complessivamente considerata, in specie con riferimento alle aree da destinare ad attività collettive ed a verde attrezzato e parcheggio.
2.11. A tale riguardo, peraltro, il Collegio ritiene anche di evidenziare che il principio giurisprudenziale secondo cui è consentito l'intervento costruttivo diretto purché si accerti la presenza sull’intero comprensorio di sufficienti opere di urbanizzazione primaria e secondaria (tale da rendere evidentemente del tutto superflua o inutile la formazione dello strumento attuativo), essendo state completamente realizzate le finalità cui quest’ultimo è preordinato, non è applicabile nelle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea (anche abusiva), ci si trovi di fronte ad una situazione che esige un intervento idoneo a restituire efficienza all'abitato, riordinando e talora definendo ex novo un disegno urbanistico di recupero o completamento della zona (cfr., ex multis, CdS, IV, 21.08.2013 n. 4200; TAR Campania, Salerno, II, 23.02.2012 n. 372; in tali casi, si deve infatti ritenere che riprenda vigore la regola generale –di cui è espressione l'art. 12 d.P.R. n. 380/2001– che, in materia di governo del territorio, impone il rispetto delle norme del PRG che prevedano, per una determinata zona, la pianificazione di dettaglio).
A tal proposito il Consiglio di Stato ha osservato che <<l'esigenza di un piano di lottizzazione, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, si impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedano una necessaria pianificazione della maglia e perciò anche in caso di lotto intercluso o di altri casi analoghi di zona già edificata e urbanizzata>> (CdS., IV, 13.10.2010 n. 7486; 01.10.2007 n. 5043 e 15.05.2002 n. 2592; V, 01.12.2003 n. 7799 e 06.10.2000 n. 5326) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 01.12.2017 n. 5712 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 e annullamento d’ufficio.
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Edilizia – Abusi – Sanatoria – Accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 – Presupposti – Individuazione.
  
Edilizia – Abusi – Sanatoria – Dichiarata illegittimo in sede penale – Accertamento di conformità ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 – Annullamento d’ufficio – Motivazione – Criterio di sufficienza.
  
L’accertamento di conformità di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è subordinato alla verifica della c.d. doppia conformità delle opere oggetto della sanatoria, ossia alla verifica di conformità rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della esecuzione delle opere sia al momento della presentazione della domanda di accertamento in sanatoria (1).
  
L’accertamento dell’illegittimità della concessione in sanatoria, pronunciato dal giudice ordinario in sede penale, determina la dequotazione dell’obbligo di motivare sulla sussistenza di un interesse pubblico specifico e concreto all’annullamento dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell’opera, dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria) (Cons. St., sez. VI, 04.07.2014, n. 3410).
   (2) Ad avviso del Tar in queste ipotesi, infatti, l’amministrazione non deve argomentare in maniera diffusa sulla sussistenza di un interesse pubblico a procedere all’autoannullamento dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 dovendo, anzi, provvedere (sempre) ad annullare gli atti dichiarati illegittimi dal giudice penale a meno che non emerga un interesse pubblico specifico e concreto a non provvedere all’autoannullamento dell’atto.
In altri termini, in questi casi, la valutazione che deve essere effettuata dall’amministrazione si volge non alla ricerca, in positivo, di una ragione per annullare in autotutela, ma alla ricerca, in negativo, di una ragione per non annullare (
TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 01.12.2017 n. 746 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
10. - Sulla base di quanto appena precisato, si possono esaminare le questioni sollevate con i motivi di ricorso, cercando di ordinarle intorno ai presupposti normativi indicati dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio.
10.1. - In primo luogo, appaiono del tutto evidenti i vizi di legittimità che l’amministrazione comunale ha posto alla base dell’autoannullamento.
L’accertamento di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 è subordinato, infatti, alla verifica della c.d. doppia conformità delle opere oggetto della sanatoria, ossia alla verifica di conformità rispetto alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al tempo della esecuzione delle opere sia al momento della presentazione della domanda di accertamento in sanatoria.
Il rilascio di un permesso in sanatoria con prescrizioni, con le quali si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione, contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell’opera, dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria).

Il punto è ormai pacifico in giurisprudenza: si veda, ex multis, Cons. St., VI, 04.07.2014, n. 3410.
Nel caso di specie, la concessione in sanatoria n. 81/2013, come si è già veduto, si pone in contrasto col paradigma normativo sopra delineato, posto che è stata rilasciata a condizione che fossero eseguite ulteriori opere, come risulta dalla piana lettura della concessione (cfr. doc. 55 di parte ricorrente) e come puntualmente rilevato nella motivazione dell’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio.
10.2. - Anche il secondo vizio di legittimità, rilevato dal giudice penale e fatto proprio dall’amministrazione comunale, deve ritenersi fondato, tenuto conto che
l’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 può essere adottata «per i lavori realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati» (art. 167, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004).
10.3. - Per concludere sul punto, le censure sollevate dalla ricorrente sono infondate, quindi, sia nella parte in cui si deduce l’assenza di una autonoma valutazione dell’amministrazione in ordine alle illegittimità rilevate dal giudice penale, sia nella parte in cui si lamenta il difetto di motivazione sui profili sopra esaminati.
11. - La seconda questione attiene alla carente motivazione dell’annullamento d’ufficio in ordine alle ragioni di interesse pubblico (ulteriori rispetto al mero ripristino della legalità) e alla prevalenza di queste sull’interesse della società ricorrente alla conservazione del provvedimento annullato.
Peraltro, le critiche formulate dalla ricorrente non tengono conto dei riflessi sull’attività amministrativa di quanto emerge dagli accertamenti derivanti dai provvedimenti giurisdizionali sopra richiamati, e in particolare dalle conseguenze che l’accertamento della illegittimità della concessione in sanatoria (di cui alla determinazione n. 81/2013), pronunciato dal giudice ordinario in sede penale, produce in termini di vincoli giuridici sulla successiva attività dell’amministrazione comunale.
Anche a non voler seguire la risalente tesi secondo cui l’annullamento d’ufficio dei provvedimenti illegittimi assume i contorni della doverosità giuridica per l’amministrazione competente,
quando l’invalidità dell’atto sia stata dichiarata in una sentenza del giudice ordinario passata in giudicato (per effetto di quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 2248/1865, All. E, legge cont. amm.), non si può non tenere conto del fatto che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto determina, quantomeno, la dequotazione (per usare una fortunata espressione) dell’obbligo di motivare sulla sussistenza di un interesse pubblico specifico e concreto all’annullamento.
In queste ipotesi, infatti, l’amministrazione non deve argomentare in maniera diffusa sulla sussistenza di un interesse pubblico a procedere all’autoannullamento, dovendo, anzi, provvedere (sempre) ad annullare gli atti dichiarati illegittimi dal g.o. a meno che non emerga un interesse pubblico specifico e concreto a non provvedere all’autoannullamento dell’atto.
In altri termini, in questi casi, la valutazione che deve essere effettuata dall’amministrazione si volge non alla ricerca, in positivo, di una ragione per annullare in autotutela, ma alla ricerca, in negativo, di una ragione per non annullare.

E nel caso di specie, non emergono elementi che avrebbero sorretto una decisione diversa dall’autoannullamento, nemmeno sotto il profilo di una pretesa tutela dell’affidamento della ricorrente fondata sulla apparente legittimità della concessione in sanatoria o maturata per il tempo trascorso tra il rilascio dell’atto invalido e il successivo provvedimento di annullamento d’ufficio.
Infatti, come risulta dalla documentazione in atti, il procedimento in autotutela è stato tempestivamente avviato dal Comune di Carloforte, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, con la nota del 30.06.2014 (cfr. doc. 60 di parte ricorrente); ossia, a poco più di un anno dalla determinazione n. 81/2013, del 13.06.2013, concernente l’accertamento in conformità; e a poco più di un mese dall’ordinanza emessa dal Tribunale penale di Cagliari (del 19.05.2014).
Pertanto, la tempestività della decisione dell’amministrazione comunale, nonché il particolare sviluppo che da tempo aveva assunto la vicenda in esame (basti pensare alle descritte vicende legate al procedimento penale), escludono che il privato possa avere maturato un affidamento incolpevole.

EDILIZIA PRIVATA: E’ pur vero che l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, secondo la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, è applicabile nelle ipotesi in cui il titolo edilizio sia affetto sia da vizi formali-procedimentali che di natura sostanziale.
Con la conseguenza che l’amministrazione comunale può rimuovere anche vizi sostanziali del permesso di costruire, purché questi siano emendabili («L’art. 38 t.u. n. 380 del 2001 […] va interpretato nel senso che in caso di annullamento del titolo edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso di costruire) è consentita qualora si sia trattato di vizi emendabili, che possono essere rimossi, ed è preclusa soltanto qualora si tratti di vizi inemendabili»).
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12. - Anche il quarto e il quinto motivo non sono fondati.
E’ pur vero che l’art. 38 del D.P.R. n. 380/2001, secondo la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato (seguita anche dalla Sezione: si veda TAR Sardegna, sez. II, 30.01.2017, n. 61), è applicabile nelle ipotesi in cui il titolo edilizio sia affetto sia da vizi formali-procedimentali che di natura sostanziale; con la conseguenza che l’amministrazione comunale può rimuovere anche vizi sostanziali del permesso di costruire, purché questi siano emendabili («L’art. 38 t.u. n. 380 del 2001 […] va interpretato nel senso che in caso di annullamento del titolo edilizio per vizi sostanziali la sanatoria (recte, la rinnovazione del titolo, l’emanazione di un nuovo permesso di costruire) è consentita qualora si sia trattato di vizi emendabili, che possono essere rimossi, ed è preclusa soltanto qualora si tratti di vizi inemendabili»: cfr. Consiglio di Stato sez. VI 10.09.2015 n. 4221).
Nel caso di specie, tuttavia, si tratta di difformità (tra le opere realizzate e quelle consentite con l’originaria concessione) non emendabili, ove si tenga conto di quanto risulta dallo stesso provvedimento di accertamento in sanatoria (di cui alla determinazione del responsabile del settore Area Tecnica, del 13.06.2013, n. 81, annullata con il provvedimento impugnato col ricorso in epigrafe) in cui si rileva la eccedenza volumetrica derivante dalla esecuzione «di n. 2 vani finiti, di cui uno destinato a bagno, con altezza interna superiore ai mt. 2,40: interventi che sono in contrasto con gli strumenti adottati sia al momento della realizzazione dell’opera (P.U.C.) che al momento della domanda …».
Vizio sostanziale non emendabile; e, difatti, non emendato nemmeno in sede di accertamento in conformità di cui all’art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, se non attraverso la condizione (illegittima, come si è già veduto) della esecuzione di ulteriori lavori idonei a ricondurre l’altezza dei vani predetti al di sotto dei 2,40 mt. (il che avrebbe escluso i relativi volumi dal calcolo della cubatura assentita con la originaria concessione edilizia).
13. - In conclusione, il ricorso deve essere integralmente respinto (
TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 01.12.2017 n. 746 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rinvio alla Ue sulla fusione fra offerenti. Modifica della compagine in gara.
Definire la portata del divieto di modificazione soggettiva della compagine offerente in caso di accordi che prevedano fusioni per incorporazioni.

È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza non definitiva 30.11.2017 n. 5621 (con rimessione alla Corte Ue) su un profilo interpretativo di identità giuridica ed economica fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte.
La vicenda aveva preso in considerazione un accordo concluso fra holding che controllano due operatori prequalificati in un momento compreso fra la prequalifica e la presentazione delle offerte. A tale proposito i giudici hanno chiarito che, anche se l'art. 28, par. 2, della direttiva 2014/24/Ue fosse da intendere nel senso di fissare il principio di tendenziale immodificabilità soggettiva fra i soggetti prequalificati e quelli che formulano le offerte, il diritto dell'Ue non vieterebbe comunque un'operazione di fusione per incorporazione realizzato prima della presentazione delle offerte.
La sentenza evidenzia che si potrebbe ritenere che il principio del divieto di modificazione soggettiva dei concorrenti non operi, per così dire, «in senso statico» (cioè soltanto nei momenti rilevanti della procedura di gara), ma anche «in senso dinamico», impedendo qualunque accordo che possa avere quale oggetto o quale effetto quello di modificare anche in futuro la composizione soggettiva dei partecipanti.
Se fosse così, però, le conseguenze sarebbero difficilmente gestibili dalle amministrazioni aggiudicatrici e vi sarebbe il rischio continuo di produrre illegittimità ex post degli atti di gara (anche a molto tempo di distanza dalle gare), il che si porrebbe in evidente contrasto con il generale principio della stabilità delle situazioni giuridiche tutelato a livello europeo.
Da qui la richiesta di chiedere alla Corte Ue se la norma della direttiva debba essere interpretata nel senso di imporre una piena identità giuridica ed economica fra prequalificati e offerenti in una procedura ristretta, vietando quindi un accordo concluso fra le holding (che controllano due operatori prequalificati) finalizzato alla fusione per incorporazione (dopo la presentazione dell'offerta)
(articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).

LAVORI PUBBLICI: Alla Corte di giustizia UE la questione concernente l’esistenza di un principio di identità giuridica ed economica tra i soggetti prequalificati e quelli offerenti nella procedura c.d. ristretta.
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Contratti pubblici – Procedura ristretta – Operatori prequalificati ed offerenti – Identità giuridica ed economica – Accordo fra holding che controllano due operatori prequalificati –– Rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE.
Va rimessa alla Corte di giustizia la questione se l’articolo 28, paragrafo 2, primo periodo della Direttiva 2014/24/UE, debba essere interpretato nel senso di imporre una piena identità giuridica ed economica fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte nell’ambito della procedura ristretta e se, in particolare, tale disposizione debba essere interpretata nel senso di ostare a un accordo concluso fra le holding che controllano due operatori prequalificati in un momento compreso fra la prequalifica e la presentazione delle offerte, laddove:
   a) tale accordo abbia per oggetto e per effetto (inter alia) la realizzazione di una fusione per incorporazione di una delle imprese prequalificate in un’altra di esse (operazione, peraltro, autorizzata dalla Commissione europea);
   b) gli effetti dell’operazione di fusione si siano perfezionati dopo la presentazione dell’offerta da parte dell’impresa incorporante (ragione per cui al momento della presentazione dell’offerta, la sua composizione non risultava mutata rispetto a quella esistente al momento della prequalifica);
   c) l’impresa in seguito incorporata (la cui composizione non risultava modificata alla data ultima per la presentazione delle offerte) abbia comunque ritenuto di non partecipare alla procedura ristretta, verosimilmente in attuazione del programma contrattuale stabilito con l’accordo stipulato fra le holding (1).

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   (1) I.- Con l’esaustiva ordinanza in epigrafe (redatta conformemente alle raccomandazioni approvate dalla Corte di giustizia per il caso di rinvio pregiudiziale di interpretazione 2016/C 439/01 in G.U. dell’Unione europea 25.11.2016) la quinta sezione del Consiglio di Stato rimette alla Corte di giustizia una articolata questione concernente la eventuale necessità dell’identità giuridica ed economica, fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte, nelle procedure ristrette.
La questione è sorta nell’ambito di un complesso contenzioso proposto avverso gli esiti di una procedura ristretta indetta dal soggetto attuatore per conto del Ministero dello Sviluppo economico ai fini dell’affidamento di una concessione di costruzione, manutenzione e gestione della rete passiva a Banda Ultra Larga di proprietà pubblica nelle cc.dd. ‘aree bianche’ presenti nelle Regioni Abruzzo, Molise, Emilia-Romagna, Lombardia, Toscana e Veneto.
Dopo aver respinto alcuni dei motivi di appello (in quanto indipendenti dall’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione europea), l’ordinanza è passata ad affrontare i restanti vizi da approfondire alla luce delle norme sovranazionali.
Il quesito di fondo viene precisato in relazione alla necessità di stabilire se l’ordinamento UE imponga (e in che misura) un principio di necessaria identità giuridica ed economica tra i soggetti prequalificati e quelli offerenti.
L’ordinanza esprime anche il punto di vista della Sezione rimettente (come richiesto dalle ricordate istruzioni,) secondo cui, anche se l’art. 28, par. 2, della Direttiva 2014/24/UE fosse da intendere nel senso di fissare il principio di tendenziale immodificabilità soggettiva fra i soggetti prequalificati e quelli che formulano le offerte, il diritto dell’UE non vieterebbe comunque un’operazione di fusione per incorporazione come quella in questione.
Peraltro, viene espressamente fatta salva la soluzione opposta laddove la Corte di giustizia affermasse che l’ordinamento euro unitario vieta, invece, in via di principio la conclusione di accordi fra operatori concorrenti e partecipanti alla medesima gara il cui oggetto o effetto sia quello di comportare una fusione per incorporazione fra gli stessi.
   II.- La questione rimessa, nei termini appena riassunti, dalla quinta sezione riguarda in particolare le procedure ristrette, in cui la presentazione dell’offerta è preceduta da una fase di “prequalificazione”; occorre verificare se l’impresa, prequalificatasi singolarmente, possa poi presentare offerta in a.t.i..
In linea di tendenza la giurisprudenza ha ritenuto che imprese singole, ciascuna prequalificatasi, possono associarsi in a.t.i. nella successiva fase di presentazione dell’offerta.
Tanto, in base alla considerazione che il legislatore ha inteso favorire il fenomeno del raggruppamento di imprese e individuare la presentazione dell’offerta come momento della procedura, da cui scatta il divieto di modificabilità soggettiva della composizione dei partecipanti, in quanto le norme vigenti fanno riferimento all’offerta, che è cosa diversa dalla richiesta di invito; pertanto, in presenza di disposizioni espresse che non consentono la modifica della composizione dei partecipanti dopo l’offerta e in assenza di analogo divieto per la fase della prequalificazione, deve escludersi che si possa pervenire in via pretoria ad un divieto, non sancito dal legislatore (Cons. Stato, sez. VI, 20.02.2008 n. 588, in Riv. giur. edilizia 2008, 3, I, 870).
Altra giurisprudenza, e l’Autorità di vigilanza, hanno tuttavia ritenuto che una impresa prequalificatasi singolarmente non potrebbe presentare offerta quale capogruppo di a.t.i. con impresa non previamente qualificatasi, perché ciò impedisce alla stazione appaltante la corretta verifica del possesso dei requisiti in capo ai concorrenti (cfr. Tar Lazio, sez. III, 14.03.2011 n. 2236; Autorità, parere 31.07.2008 n. 206).
Ancora di recente risulta essere stata ammessa quantomeno la rimodulazione del raggruppamento temporaneo tra la prequalifica e l'offerta (cfr. Tar per il Lazio, Latina, sez. I, 30.07.2016, n. 514, secondo cui “Non rileva ai fini dell'applicazione del divieto di modificazioni soggettive del raggruppamento ex art. 37 comma 9, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 la circostanza che l'originaria mandataria in fase di prequalifica abbia poi assunto, in sede di presentazione dell'offerta, la veste di mandante dopo aver dichiarato di aver chiesto, in base agli articoli 161, comma 6, e 186-bis r.d. 16.03.1942 n. 267, l'ammissione al concordato preventivo «con continuità aziendale» (che non è ostativo alla partecipazione alle gare in veste di mandante); in tal caso, infatti, non trova applicazione l'orientamento giurisprudenziale che ammette le modifiche soggettive determinate da ragioni organizzative e non dall'esigenza di sottrarsi alla sanzione dell'esclusione poiché risulta applicata la normativa in materia di concordato con continuità aziendale che vieta l'assunzione della veste di capogruppo mandataria da parte del soggetto che abbia chiesto o sia stato ammesso a tal tipo di concordato”).
Cfr. altresì Consiglio di Stato, sez. V, 31.03.2014, n. 1548, secondo cui “nel caso di procedure ristrette o negoziate deve ritenersi ammessa, in difetto di espresso divieto del bando di gara, la partecipazione alla stessa, sotto forma di a.t.i., di imprese che si sono prequalificate separatamente, non ricorrendo in ciò una violazione dell'art. 37 comma 12, d.lgs. 12.04.2006 n. 163”; nonché Consiglio di Stato, sez. IV, 13.03.2014, n. 1243, secondo cui “nelle gare pubbliche d'appalto, la validità della costituzione di un'Associazione temporanea di impresa deve essere giudicata con esclusivo riferimento al momento della formulazione dell'offerta, dovendosi ritenere legittime le offerte congiuntamente presentate da imprese appositamente e tempestivamente raggruppate, singolarmente invitate, anche quando la loro costituzione in A.t.i. è intervenuta dopo la fase di prequalificazione”.
   III.- Per completezza si segnala quanto segue:
      a) Corte giustizia Unione europea, Grande sezione, 24.05.2016, C-396/14, MT Højgaard, richiamata dalla rimessione in commento (oggetto della News US in data 31.05.2016), secondo la quale: “il principio di parità di trattamento degli operatori economici, di cui all’art. 10 direttiva 2004/17/Ce del parlamento europeo e del consiglio, 31.03.2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, in combinato disposto con l’art. 51 della medesima, deve essere interpretato nel senso che un ente aggiudicatore non viola tale principio se autorizza uno dei due operatori economici che facevano parte di un raggruppamento di imprese invitato, in quanto tale, da siffatto ente a presentare un’offerta, a subentrare a tale raggruppamento in seguito allo scioglimento del medesimo e a partecipare, in nome proprio, a una procedura negoziata di aggiudicazione di un appalto pubblico, purché sia dimostrato, da un lato, che tale operatore economico soddisfa da solo i requisiti definiti dall’ente di cui trattasi e, dall’altro, che la continuazione della sua partecipazione a tale procedura non comporta un deterioramento della situazione degli altri offerenti sotto il profilo della concorrenza”;
      b) sul tema dei mutamenti soggettivi delle imprese in corso di gara, dei rapporti fra cessione di azienda e accertamento requisiti nel regime del vecchio codice dei contratti pubblici, cfr. Cons. Stato, Sez. III, 13.03.2017, n. 1152, in Diritto & Giustizia, 28.03.2017, con nota di BOMBI, nonché oggetto della News US in data 30.03.2017, che ha rimesso all'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le seguenti questioni: “a) se, ai sensi dell'art. 76, comma 11, d.P.R. 05.10.2010, n. 207, debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza dell'attivazione del procedimento ivi contemplato (nuova richiesta di attestazione SOA), la cessione del ramo d'azienda comporti sempre, in virtù dell'effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, contemplate dalla disposizione, solo a quelle che, in quanto suscettibili di dare vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cessionario se ne sia definitivamente spogliato, ed invece esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di "rami aziendali", si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente di ottenere la qualificazione; b) se l'accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l'organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l'avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l'attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità”;
      c) sulla natura del contratto di avvalimento, Cons. Stato, Ad. plen., 03.07.2017, n. 3, oggetto della News US in data 13.07.2017, secondo cui “in ipotesi di cessione di un ramo d'azienda, l'accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell'impresa cedente, comporta la conservazione dell'attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità”;
      d) per una casistica completa sui limiti di intervento della stazione appaltante in caso di modifiche soggettive (sia pure sotto l’egida dell’art. 51 del vecchio codice dei contratti), cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 08.02.2017, n. 549;
      e) in dottrina, in riferimento al nuovo codice dei contratti pubblici, sulla scrematura degli offerenti e sui limiti alla presentazione delle offerte nella procedura ristretta, sulla c.d. forcella, sulle vicende soggettive dell’esecutore, sulla incidenza delle vicende societarie (fusione, incorporazione, cessione e affitto azienda) nell’accertamento dei requisiti generali, sulle modifiche soggettive di a.t.i. e consorzi, si veda R. DE NICTOLIS, I nuovi appalti pubblici, Bologna, 2017, 1097 ss.; 1304 ss.; 1544 ss.; 783 ss.; 745 ss. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza non definitiva 30.11.2017 n. 5621 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Alla Corte di giustizia la questione della piena identità giuridica ed economica, fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte, nelle procedure ristrette.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Procedura ristretta - Identità giuridica ed economica fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte - Accordo concluso fra le holding che controllano due operatori prequalificati in un momento compreso fra la prequalifica e la presentazione delle offerte – Art. 28, par. 2, primo periodo Direttiva 2014/24/UE – Rimessione Corte di giustizia.
E’ rimessa alla Corte di giustizia la questione se l’art. 28, par. 2, primo periodo della Direttiva 2014/24/UE, debba essere interpretato nel senso di imporre una piena identità giuridica ed economica fra gli operatori prequalificati e quelli che presenteranno offerte nell’ambito della procedura ristretta e se, in particolare, tale disposizione debba essere interpretata nel senso di ostare a un accordo concluso fra le holding che controllano due operatori prequalificati in un momento compreso fra la prequalifica e la presentazione delle offerte, laddove:
   a) tale accordo abbia per oggetto e per effetto (inter alia) la realizzazione di una fusione per incorporazione di una delle imprese prequalificate in un’altra di esse (operazione, peraltro, autorizzata dalla Commissione europea);
   b) gli effetti dell’operazione di fusione si siano perfezionati dopo la presentazione dell’offerta da parte dell’impresa incorporante (ragione per cui al momento della presentazione dell’offerta, la sua composizione non risultava mutata rispetto a quella esistente al momento della prequalifica);
   c) l’impresa in seguito incorporata (la cui composizione non risultava modificata alla data ultima per la presentazione delle offerte) abbia comunque ritenuto di non partecipare alla procedura ristretta, verosimilmente in attuazione del programma contrattuale stabilito con l’accordo stipulato fra le holding (1).

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   (1) Ha chiarito la Sezione che, anche se l’art. 28, par. 2, della Direttiva 2014/24/UE fosse da intendere nel senso di fissare il principio di tendenziale immodificabilità soggettiva fra i soggetti prequalificati e quelli che formulano le offerte, il diritto dell’UE non vieterebbe comunque un’operazione di fusione per incorporazione quale quella realizzata nel caso in esame per effetto dell’Accordo Quadro del 10.10.2016 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza non definitiva 30.11.2017 n. 5621 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'iscrizione camerale dell'impresa partecipante alla gara.
Nell'impostazione del nuovo codice appalti, l'iscrizione camerale è assurta a requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma. Utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento pubblico. Da tale ratio -nell'ottica di una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto dell'oggetto e della funzione dell'affidamento (1363 1367 1369 c.c.)- si desume la necessità di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell'impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste.
Per attività 'conferente' rispetto a quella oggetto dell'appalto non può che essere intesa l'attività prevalente svolta dall'impresa, sia perché si tratta di quella qualificante ai fini dell'iscrizione alla CCIAA (restando invece sullo sfondo le indicazione sancite nell'oggetto sociale, che nulla dicono in ordine all'effettivo svolgimento delle attività medesime).
La corrispondenza contenutistica tra risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto non deve tradursi in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma va appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 30.11.2017 n. 1887 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Dicatio ad patriam.
Il TAR Milano richiama l’orientamento giurisprudenziale formatosi sull’istituto della “dicatio ad patriam”, secondo il quale detto istituto è un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, che consiste nel comportamento del proprietario di un bene, per lo più immobile, che, pur se non intenzionalmente diretto alla produzione dell'effetto di dar vita al diritto di uso pubblico, denoti in modo univoco la volontà di mettere la cosa a disposizione di una comunità indeterminata di cittadini, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, per soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives".
Ricorrendo gli indicati presupposti, la servitù di uso pubblico deve ritenersi perfezionata con l'inizio dell'uso stesso, senza che sia necessario il decorso di un congruo periodo di tempo o un atto negoziale o un procedimento di espropriazione (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
Anzitutto, occorre rimarcare che
la qualificazione degli impegni assunti, mediante la stipulazione della convenzione approvata l’11.02.1997, dagli originari proprietari delle aree comprese nel perimetro del piano di recupero dev’essere ricondotta al modello degli accordi sostitutivi del provvedimento di cui all’art. 11 della legge 241/1990 (cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 15.12.2000, n. 1262; id., 11.12.2001, n. 15641; id. 07.02.2002, n. 1763).
Da tale inquadramento discende:
   a) sul piano processuale, la competenza a conoscere dell’odierna vicenda del giudice amministrativo;
   b) sul piano sostanziale, l’applicazione dei principi del codice civile in materia di obbligazione e contratti, in quanto compatibili.
Ciò premesso,
le obbligazioni contenute nella citata convenzione –sia quelle riguardanti la cessione delle aree finalizzate all’esecuzione delle opere di urbanizzazione (artt. 5 e 6), sia quella concernente la manutenzione in perpetuo delle aree asservite all’uso pubblico (art. 11)– costituiscono espressione dell’avvenuta intesa tra l’Amministrazione comunale e i privati proprietari per la definizione di un preciso assetto delle aree incluse nel piano di recupero.
Si aggiunga, poi, che
tali obbligazioni sono connotate dal carattere della ambulatorietà, funzionale ad assicurare l’adempimento delle stesse anche a fronte di fenomeni di circolazione della proprietà dei fondi interessati (cfr. Corte di Cassazione, sez. II, 28.06.2013, n. 16401, secondo cui “l’assunzione, da parte del proprietario del fondo, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota degli oneri delle opere di urbanizzazione secondaria (…) costituisce un’obbligazione propter rem, dovendo dette opere essere eseguite da coloro che sono proprietari al momento del rilascio della concessione edilizia, i quali ben possono essere soggetti diversi da quelli che stipularono la convenzione, per avere da questi acquistato una parte del suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di) lotti)" e ritenuta pienamente applicabile anche alle convenzioni di lottizzazione ex art. 28 della legge 1150/1942, richiamate dai ricorrenti (cfr., sul punto, Corte di Cassazione civile, 20.12.1994, n. 10947).
Nella specie,
in esito al perfezionamento della vendita delle aree controverse dagli originari proprietari alla società Un. s.r.l., e da quest’ultima –in seconda battuta– ai soggetti che hanno costituito il condominio (i quali hanno conferito mandato irrevocabile alla medesima società per sottoscrivere la convenzione di cessione con il Comune: il che è avvenuto con atto del 26.01.2010), si è determinata a carico di questi ultimi la traslazione dell’obbligo manutentivo connotato da una stabilità nel tempo (“in perpetuo”) che trova ragione nel vincolo di asservimento delle aree in questione all’uso in favore di un complesso di soggetti indeterminati, ma considerati uti cives, secondo l’istituto giuridico della dicatio ad patriam (cfr. Corte di Cassazione civile, II, 21.05.2001, n. 6924), costituente un titolo di acquisto legittimo e quindi ben lontano dal poter essere ritenuto affetto da nullità, nei termini dedotti dai ricorrenti.
La previsione di cui all’art. 6 della convenzione, in combinato disposto con il successivo art. 11, si pone, dunque, in linea di continuità con il consolidato orientamento in forza del quale
la “dicatio ad patriam è un modo di costituzione di una servitù di uso pubblico, che consiste nel comportamento del proprietario di un bene, per lo più immobile, che, pur se non intenzionalmente diretto alla produzione dell'effetto di dar vita al diritto di uso pubblico, denoti in modo univoco la volontà di mettere la cosa a disposizione di una comunità indeterminata di cittadini, con carattere di continuità e non di mera precarietà e tolleranza, per soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives". Ricorrendo gli indicati presupposti, la servitù di uso pubblico deve ritenersi perfezionata con l'inizio dell'uso stesso, senza che sia necessario il decorso di un congruo periodo di tempo o un atto negoziale o un procedimento di espropriazione (da ultimo, Cass. 07.05.1992 n. 5262; Cass. sez. un. 03.02.1988 n. 1072)” (cfr. Corte di Cassazione, 10.12.1994, n. 10574) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2017 n. 2291 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Effetto espulsivo delle attività già insediate da parte di un nuovo strumento urbanistico.
In ordine agli effetti dell’approvazione di un nuovo strumento urbanistico sulle attività esistenti, il TAR Milano richiama l’orientamento della giurisprudenza in forza del quale si è statuita l’illegittimità di un effetto espulsivo delle attività già insediate sul presupposto che, se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati.
Gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità.
La programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore
 (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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MASSIMA
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto per le seguenti ragioni.
Con la sentenza n. 2592 del 27.10.2011 la IV Sezione di questo Tribunale, modificando l’ordine di esame dei riuniti ricorsi, ha così statuito:
   1) il ricorso proposto dall’Officina meccanica Ca. G. & C. s.n.c., iscritto al RG 29/2010, con cui è stato impugnato il provvedimento di annullamento del permesso di costruire in sanatoria (condono edilizio) n. 24/C rilasciato in data 19.12.2007, è stato respinto in ragione del fatto che “dall’esame del provvedimento impugnato, che ha annullato il permesso di costruire in sanatoria n. 24/C del 19.12.2007, emerge che, in seguito al raffronto tra gli allegati grafici acclusi alla richiesta di condono e quelli prodotti unitamente alla concessione edilizia originaria del fabbricato –n. 459 del 25.10.1994, quale variante alla concessione n. 207 del 22.04.1994–, gli uffici comunali hanno riscontrato delle differenti destinazioni d’uso all’interno della superficie del fabbricato che non sarebbero mai state oggetto di sanatoria. Pertanto, la richiesta di condono ha avuto ad oggetto degli interventi su un fabbricato già in origine avente destinazione abusiva, da cui è scaturita la determinazione dell’Amministrazione di annullare il condono rilasciato in precedenza”;
   2) il ricorso proposto dai signori Co. e Ru., iscritto al RG 1166/2009, è stato accolto nella parte in cui l’impugnazione è stata rivolta all’annullamento del condono n. 25/C, ossia alla realizzazione di una struttura fissa in ampliamento del fabbricato esistente (mentre è stato dichiarato improcedibile relativamente alle opere condonate con il permesso in sanatoria 24/C, oggetto del sopra citato giudizio), e ciò sul presupposto che “risulta illegittimo un condono richiesto in relazione ad interventi effettuati su un’opera già in origine (parzialmente) abusiva e a sua volta non condonata”;
   3) il ricorso proposto dai signori Co. e Ru. iscritto al RG 4566/2000, con cui è stata impugnata l’autorizzazione del responsabile dell’area tecnica mediante la quale si era assentita l’installazione di una copertura mobile scorrevole su ruote a protezione del personale addetto al carico e scarico degli automezzi, è stato accolto per difetto di motivazione.
Alla luce di quanto pronunciato e del passaggio in giudicato della sentenza per effetto della perenzione disposta dal Consiglio di Stato con decreto n. 1159/2017, il manufatto è, pertanto, da ritenere inoppugnabilmente abusivo.
L’Amministrazione, però, non è rimasta inerte, anzi ha prontamente adempiuto all’obbligo conformativo derivante dalla sentenza del giudice di prime cure emettendo le ordinanze nn. 2151 e 2152 del 14.07.2012.
Con la prima di queste si è ingiunto ai titolari della ditta Ca., ai sensi dell’art. 34 del DPR 380/2001, “la rimessione in pristino e la modifica della destinazione d'uso del fabbricato insistente sul mapp. n. 317, Foglio 4 Sezione Censuaria di Penzano, riportando il fabbricato come da Concessione Edilizia in sanatoria n. 459 in data 25.10.1995 a fronte dell'annullamento del condono n. 24/C (modifiche a fabbricato esistente con cambio destinazione d'uso di una porzione pari al 50%)”, risultando, da ultimo, che sarebbe in atto la demolizione d’ufficio, come ha prospettato la difesa comunale nella memoria di replica del 26.10.2017.
Con la seconda ordinanza si è, invece, ingiunto, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del DPR 380/2001, la “completa e integrale demolizione e/o rimozione della struttura ad ampliamento del fabbricato artigianale”: ordine che sarebbe stato spontaneamente ottemperato.
Ad avviso del Collegio è, pertanto, pienamente smentito l’assunto dei ricorrenti secondo cui sarebbe ravvisabile, a carico del Comune, una violazione o un’elusione della sentenza n. 2592/2011.
Tali vicende fanno da sfondo alle ulteriori questioni dibattute in giudizio, concernenti la legittimità della previsione del PGT che ha escluso alcune specifiche destinazioni d’uso (U 2, U 6.1, U 6.2, U 6.3, U 6.4, U 7, U 13, U 15), di contro confermando “le destinazioni d'uso, diverse dalla residenza, in atto alla data di adozione del PGT. In particolare, le attività esistenti alla data di adozione del PGT, compatibili con la classe di azzonamento acustico vigente, sono confermate, fino alla cessazione delle stesse, nel limite del 50% della SLP esistente e/o realizzabile” (art. 23 NTA del piano delle regole).
Richiamando tale disposizione, l’Amministrazione comunale ha puntualizzato, nella memoria del 13.10.2017 (pag. 4), che l’esercizio dell’officina meccanica da parte della società Ca., sussunta nella destinazione U 13, non sarebbe ammissibile (quindi procrastinabile).
Tale affermazione, rapportata alla piana disciplina urbanistica sopra illustrata, risponde al vero, essendo la destinazione U 13 espressamente annoverata tra quelle escluse nell’area oggetto del contendere.
Residua, invece, la questione se la medesima previsione sia legittima nella parte in cui ha consentito il mantenimento –ancorché alle condizioni più dettagliatamente enunciate– delle attività esistenti.
Neppure sotto tale profilo, però, il ricorso è fondato.
In primo luogo, occorre considerare che nel testo dell’osservazione n. 17 del 05.09.2012 i ricorrenti hanno fatto “rilevare che sono da tempo in contenzioso con la ditta Ca. proprietaria del lotto confinante con azione legale ben nota e conosciuta dalla A.C. avverso l’esercizio di (…) edificazione abusiva di manufatti oltre i limiti edilizi concessi dal P.R.G.; destinazione d'uso del manufatto non conforme sia per quantità (oltre il 20% del totale) sia per tipologia, in quanto nei locali di ragione Ca. viene esercitata attività artigianale produttiva di tipo pesante, non di servizio alla residenza e ammessa esclusivamente nella zona D - produttiva intensiva - del vigente P.R.G.”.
Hanno soggiunto che “le nuove previsioni di P.G.T. ammetterebbero, per contro: la sanabilità della maggior costruzione abusivamente edificata; la sanabilità della destinazione d'uso (abusivamente esercitata e non conforme sia al previgente P.R.G. che alla previsione di P.G.T. per quanto concerne i nuovi insediamenti) inquadrabile nella fattispecie U13 - artigianato produttivo manifatturiero di tipo laboratoriale”.
Fermo quanto si è in precedenza detto in ordine all’esclusione della destinazione U 13, viceversa erroneamente ritenuta dai ricorrenti come ammissibile,
il Collegio reputa che dirimenti considerazioni derivino dal richiamo alle statuizioni espresse dalla Corte costituzionale in materia di partecipazione al procedimento di formazione dei piani urbanistici.
Nella sentenza n. 23 del 20.03.1978, infatti, il Giudice delle Leggi ha osservato che “i soggetti privati non partecipano al procedimento formativo dei piani regolatori nella veste di vere e proprie parti, presentando osservazioni "a tutela del proprio interesse" (secondo il criterio enunciato da questa Corte, nella sentenza n. 13 del 1962) ma svolgono attività puramente collaborative, in vista di una più compiuta valutazione degli interessi pubblici in gioco.
Non a caso, si considerano irricevibili le osservazioni che non abbiano di mira la soddisfazione delle comuni esigenze cui tendono i piani regolatori, ma consistano in reclami rivolti a difendere particolari interessi privati. Parallelamente, si esclude che sussista l'obbligo di respingere le osservazioni stesse motivando in maniera specifica e puntuale, ma si suole affermare che basta una motivazione sintetica, nella quale si adducano le ragioni di pubblico interesse che stanno a fondamento della pianificazione progettata.
Ed anzi si ritiene sufficiente che l'amministrazione comunale abbia preso comunque in esame i rilievi così presentati; mentre non si configura neanche un dovere di esame, per quanto riguarda le denunce successivamente inviate alle autorità cui spetta l'approvazione del piano
”.
Nella specie, risulta evidente che l’interesse (dichiarato) dei ricorrenti alla legittimità della pianificazione coincide perfettamente con l’interesse (concreto, ma privato) ad ottenere il materiale smantellamento dell’insediamento della ditta Ca..
Il mantenimento di talune attività anche a seguito dell’approvazione di un nuovo strumento urbanistico è, però, questione sulla quale la giurisprudenza ha espresso posizioni chiare e consolidate.
Si è, in particolare, statuita l’illegittimità di un effetto espulsivo delle attività già insediate sul presupposto che “se è vero che la programmazione urbanistica è caratterizzata da un altissimo grado di discrezionalità nella prospettiva di un ordinato e funzionale assetto del territorio comunale, le scelte pianificatorie devono pur sempre garantire un'imparziale ponderazione degli interessi coinvolti, dovendo l'amministrazione valutare attentamente se l'astratto miglioramento della situazione urbanistica generale si ponga in contrasto con rilevanti sacrifici di interessi, anche privati. (…) Gli strumenti urbanistici sono essenzialmente rivolti a disciplinare la futura attività di trasformazione e di sviluppo del territorio sicché, salvo che non sia diversamente disposto, i limiti e le condizioni cui subordinano l'attività edilizia non incidono sulle opere già eseguite in conformità alla disciplina previgente -i quali conservano la loro precedente e legittima destinazione pur se difformi dalle nuove prescrizioni- mentre al contempo deve restare ferma anche la possibilità di effettuare gli interventi necessari per integrarne o mantenerne la funzionalità (Consiglio di Stato, sez. V - 19/02/1997 n. 176).
La programmazione urbanistica non può, in definitiva, introdurre misure espulsive degli insediamenti produttivi esistenti, neanche in via indiretta, in ossequio ai principi di corretta pianificazione che traspaiono dalla normativa di settore e che sono stati più volte evidenziati dalla giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione (sentenza 31/05/1986 n. 185)
” (cfr., da ultimo, TAR Lombardia–Brescia, 15.03.2017, n. 374).
La disciplina trasfusa nell’impugnato art. 23 delle norme tecniche del piano delle regole di Eupilio, sul punto, risulta improntata, secondo il Collegio, alla ragionevole verifica di compatibilità dell’attività da mantenere in essere con la classe di azzonamento acustico e con una significativa limitazione (50%) della SLP esistente e/o realizzabile, dunque con la tutela di interessi pubblici certamente prevalenti rispetto alle ragioni private dei ricorrenti.
In conclusione, il ricorso va respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 29.11.2017 n. 2289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Consulta ribadisce la competenza statale esclusiva in materia di tutela del paesaggio e delle aree protette.
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Edilizia e urbanistica – Regioni a statuto ordinario - Governo del territorio – Potestà legislativa – Disciplina della rilevanza paesaggistica delle costruzioni – Estensione – Incostituzionalità.
E’ illegittimo l’art. 1, comma 129, della legge regionale n. 4 del 2011, nella parte in cui, sostituendo l’art. 2, comma 1, della legge reg. Campania n. 13 del 1993, prevede che non costituiscono attività rilevanti ai fini paesaggistici le installazioni «quali tende ed altri mezzi autonomi di pernottamento, quali roulotte, maxi caravan e case mobili», anche se «collocate permanentemente entro il perimetro delle strutture ricettive regolarmente autorizzate» in un’area naturale protetta. (1)
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(1) I.- Con la sentenza in epigrafe la Consulta ha ritenuto fondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 129, della legge regionale della Campania n. 4 del 2011, nella parte in cui, sostituendo l’art. 2, comma 1, della legge regionale n. 13 del 1993, prevede che non costituiscono attività rilevanti ai fini paesaggistici le installazioni «quali tende ed altri mezzi autonomi di pernottamento, quali roulotte, maxi caravan e case mobili», anche se «collocate permanentemente entro il perimetro delle strutture ricettive regolarmente autorizzate».
II.- L’ordinanza di rimessione.
Con ordinanza 02.02.2015, n. 469 la VI sezione del Consiglio di Stato, adita nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto l’impugnazione dell’ordinanza di demolizione di trentuno case mobili, di quattro strutture in ferro e di sette roulotte allestite in un’area naturale protetta, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 129, della legge della Regione Campania 15.032011, n. 4, in riferimento agli artt. 3, 9, 32 e 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma della Costituzione, nella parte in cui, innovando la disciplina dei campeggi dettata dall’art. 2 della legge della Regione Campania 26.03.1993, n. 13, modifica il comma 1 del citato art. 2, consentendo che opere permanentemente infisse al suolo, e perciò destinate ad immutare con carattere stabile l’assetto edilizio, urbanistico e paesistico di un parco nazionale, siano realizzate in assenza di qualsivoglia previo scrutinio di compatibilità con gli interessi pubblici che insistono su tale territorio.
Secondo il giudice remittente:
   a) la legge regionale invaderebbe la competenza esclusiva statale in «materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., sottraendo la corrispondente porzione del paesaggio vincolato alla pubblica funzione di tutela riservata allo Stato ed esercitata attraverso la previsione generale dell’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, in tema di autorizzazione paesaggistica per gli interventi nelle zone vincolate, e dell’art. 13 della legge n. 394 del 1991, che richiede il previo nulla osta dell’Ente parco, per le opere stabilmente infisse nel suolo, realizzate nelle aree dei parchi nazionali e «destinate ad immutare con carattere stabile l’assetto edilizio, urbanistico e paesistico di un parco nazionale».
La sottrazione di tali opere al regime delle autorizzazioni paesaggistiche ed ambientali, di competenza statale, si porrebbe pertanto in contrasto non solo con l’art. 9, comma 2 Cost. ma anche con l’art. 32 stante il legame inscindibile tra la protezione dell’ambiente e la tutela del diritto fondamentale alla salute;
    b) sussisterebbe una violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza della previsione normativa in esame, che senza alcuna apprezzabile ragione, accorda un regime di favore per gli interventi di installazione di un campeggio rispetto ad altre opere, destinate a far fronte a diverse, più pregnanti esigenze, aventi il medesimo impatto sul territorio;
   c) vi sarebbe anche violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost, per contrasto con i principi fondamentali posti dalla legislazione statale in materia di governo del territorio, e segnatamente dall’allora vigente art. 3, comma 5, lett. e.5), d.P.R. n. 380 del 2001 (successivamente modificato dall’art. 41, comma 4, d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito con modifiche dalla l. 09.08.2013, n. 98 e quindi dall'art. 10-ter, comma 1, d.l. 28.03.2014, n. 47, convertito con modifiche dalla l. 23.05.2014, n. 80) che, tra gli "interventi di nuova costruzione", ricomprendeva, all’epoca, “l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
III.- La decisione della Consulta.
Con la sentenza di cui in epigrafe la Consulta, condividendo le argomentazioni del giudice a quo, ha dichiarato fondata la questione di costituzionalità in quanto:
   d) il potere di intervento delle Regioni in materia di “governo del territorio” non si estende alla disciplina della rilevanza paesaggistica degli allestimenti mobili, che incide sul regime autorizzatorio tratteggiato dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 ed è riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato in materia di ambiente;
e) spetta alla legislazione statale determinare presupposti e caratteristiche dell’autorizzazione paesaggistica, delle eventuali esenzioni e delle semplificazioni della procedura, in ragione della diversa incidenza delle opere sul valore intangibile dell’ambiente;
   f) l’autorizzazione paesaggistica, finalizzata alla protezione ambientale, è assoggettata a «una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale» (sentenze n. 189 del 2016, n. 235 del 2011, n. 101 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 232 del 2008, citate in motivazione), che rispecchia la natura unitaria del valore primario e assoluto dell’ambiente (sentenza n. 641 del 1987, punto 2.2. del Considerato in diritto);
g) la competenza esclusiva statale risponde a ineludibili esigenze di tutela e sarebbe vanificata dall’intervento di una normativa regionale che sancisse in via indiscriminata –come avviene nel caso di specie– l’irrilevanza paesaggistica di determinate opere, così sostituendosi all’apprezzamento che compete alla legislazione statale.
IV.- Si segnala per completezza:
    h) per l’affermazione di identico principio di cui alla massima, anche con riferimento alle Regioni a statuto speciale cfr. Corte cost., 14.06.2016, n. 189 in Giur. cost., 2016, 1384;
   i) in generale sul potere del legislatore statale, tramite l'emanazione delle disposizioni previste dal codice dei beni culturali e del paesaggio, qualificate norme di grande riforma economico-sociale, di vincolare la potestà legislativa primaria delle regioni a statuto speciale cfr. da ultimo Corte cost. 24.07.2013, n. 238 in Foro it., 2013, I, 3025; Riv. Giur. Ambiente 2014, 1, 39 con nota di TUMBIOLO (cui si rinvia per ogni approfondimento), secondo cui:
      I) “È incostituzionale l’art. 3 l.reg. Valle d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui prevede l’esenzione dall’obbligo del rilascio di autorizzazione paesaggistica per una serie di interventi che la normativa statale subordina invece a tale autorizzazione o ad autorizzazione paesaggistica semplificata”;
      II) È incostituzionale l’art. 9 l.reg. Valle d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui prevede che la commissione regionale per il paesaggio, e non la sola soprintendenza, possa esprimere parere vincolante in merito alle istanze relative a provvedimenti riguardanti l’applicazione di sanzioni demolitorie per abusi edilizi e per la conversione delle demolizioni in indennità o sanzioni pecuniarie;
      III) È incostituzionale l’art. 10 l.reg. Valle d’Aosta 01.08.2012 n. 27, nella parte in cui delega alla giunta regionale la possibilità di stabilire limiti qualitativi e quantitativi, ai fini della tutela del paesaggio, di ammissibilità dei progetti relativi agli interventi di cui all’art. 3 stessa l. reg.;
   j) in dottrina, sulla competenza esclusiva statale in materia di ambiente cfr. BOMBI, La tutela dell'ambiente è di competenza esclusiva dello Stato, in Dir. e giust. 2013, 1588; MASTRODONATO, La prevalenza statale e il ruolo regionale nella giurisprudenza sulla tutela dell'ambiente, in Foro amm. CDS2011, 1817; MAESTRONI, La Corte Costituzionale restituisce allo Stato la competenza piena ed esclusiva in materia di tutela dell'ambiente, in Riv. giur. amb. 2010, 326;
   k) Corte cost., 15.02.2017, n. 36 (in Foro it., 2017, I, 1140; Riv. dir. navigaz., 2017, 261, con nota di ROSATO cui si rinvia per ogni approfondimento sui rapporti di competenza fra lo Stato e le regioni in materia di ambiente, paesaggio e riserve naturali), che, con riferimento alle aree marine protette, ha ribadito il principio per cui «la disciplina delle aree protette rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di "tutela dell'ambiente" ex art. 117, secondo comma, lett. s), Cost., ed è contenuta nella legge n. 394 del 1991, che detta i principi fondamentali della materia, ai quali la legislazione regionale è chiamata ad adeguarsi»; in argomento si veda altresì Corte cost., 18.07.2014, n. 212 in Giur. Cost. 2014, 4, 3385 e Corte Cost., 06.07.2012, n. 171 in Riv. giur. edilizia 2012, 4, 887;
   l) sulla natura del t.u. edilizia, sull’eccesso di delega da cui sarebbe affetto, sui rapporti Stato e Regioni in materia di governo del territorio, nonché sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del t.u. ed., cfr.:
      I) Cons. Stato, Ad. plen., 07.04.2008, n. 2, in Urbanistica e appalti, 2008, 745, con nota di BASSANI, e Giust. amm., 2008, fasc. 2, 181 (m), con nota di ARDANESE;
      II) Corte cost., 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, n. STRAZZA e Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA;
      III) Corte cost., 15.07.2016, n. 178 (in Foro it., 2017, I, 2569, nonché oggetto della News US in data 18.07.2016 cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento), secondo cui “È incostituzionale l’art. 10, 1º comma, l.reg. Marche 13.04.2015 n. 16, nella parte in cui consente di derogare alla disciplina statale in materia di distanze tra gli edifici, limitatamente alla modifica dell’art. 35 l.reg. Marche 04.12.2014 n. 33, che ha sostituito all’espressione originaria «ovvero di ogni altra trasformazione», la diversa espressione «e di ogni trasformazione»;
      IV) A. RUSSO e S. AMOROSINO, in Testo unico dell’edilizia, a cura di M.A. SANDULLI, Giuffrè, Milano, 2015, 3 ss. e 25 ss. (Corte Costituzionale, sentenza 29.11.2017 n. 246 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi.
L'affidamento del servizio di tesoreria comunale deve essere qualificato in termini di rapporto concessorio.
Quando l'operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull'utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione, ragione per cui può affermarsi che è la modalità della remunerazione il tratto distintivo della concessione dall'appalto di servizi. Pertanto, si avrà concessione quando l'operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.
Deve essere qualificato in termini di rapporto concessorio l'affidamento del servizio di tesoreria comunale, il quale, se pure presenta un oggetto più ampio del rapporto in discussione, comunque al pari di questo appare caratterizzato dal conferimento di funzioni pubblicistiche, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell'art. 133 cpa (con esclusione di quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi): pertanto, anche nel caso di specie, riguardante un profilo di risoluzione del rapporto avente ad oggetto il servizio pubblico di accertamento e riscossione delle entrate tributarie di un ente locale, deve concludersi per la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'art. 133, co. 1, lett. c), cpa (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 28.11.2017 n. 5600 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Le domande (stragiudiziali) di accesso, se non compiute dai diretti interessati, debbono essere sorrette da specifica procura, affinché la domanda possa essere considerata rituale.
La giurisprudenza in proposito così si è orientata:
   - “La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo legale, ma -in tale caso- deve essere accompagnata, per asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte del soggetto interessato, da copia di apposito mandato od incarico professionale, ovvero dalla sottoscrizione congiunta dell'interessato stesso. In assenza di una sottoscrizione congiunta o di una procura speciale l'istanza di accesso è irrituale, e non fa sorgere in capo all'Amministrazione, ed ai soggetti alla stessa equiparati, un obbligo di provvedere";
   - “Ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. 27.06.1992 n. 352, un avvocato che intenda presentare istanza formale di accesso ai documenti, in luogo del soggetto interessato deve essere munito di apposita procura speciale".
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... per ottenere l’accesso agli atti di cui alla richiesta del 6-6-17.
...
Ad avviso del Collegio il ricorso è inammissibile (su tale questione sollevata d’ufficio le parti sono state avvisate ex art. 73, c. 3, CPA).
Invero risulta “per tabulas” che la domanda di accesso del 06.06.2017 è a sola firma del difensore avv. Sp..
Sul punto il Collegio rileva che le domande (stragiudiziali) di accesso, se non compiute dai diretti interessati, debbono essere sorrette da specifica procura, affinché la domanda possa essere considerata rituale.
Non così è avvenuto nel caso di specie, dove (solo) il difensore ha presentato la domanda.
La giurisprudenza in proposito così si è orientata.
La domanda di accesso deve essere avanzata dalla parte che vi ha interesse; può anche essere presentata da un suo legale, ma -in tale caso- deve essere accompagnata, per asseverare l'effettiva provenienza della richiesta da parte del soggetto interessato, da copia di apposito mandato od incarico professionale, ovvero dalla sottoscrizione congiunta dell'interessato stesso. In assenza di una sottoscrizione congiunta o di una procura speciale l'istanza di accesso è irrituale, e non fa sorgere in capo all'Amministrazione, ed ai soggetti alla stessa equiparati, un obbligo di provvedere" (TAR Lazio Roma, sez. III, 02.07.2008 , n. 6365).
Ai sensi dell’art. 4, comma 6, del d.P.R. 27.06.1992 n. 352, un avvocato che intenda presentare istanza formale di accesso ai documenti, in luogo del soggetto interessato deve essere munito di apposita procura speciale" (TAR Sicilia Palermo, sez. III, 25.09.2006, n. 1950).
Ne consegue che il ricorso è inammissibile (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 28.11.2017 n. 2765 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Posto che il terzo che intende contestare la conformità di una attività intrapresa con SCIA può unicamente sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm., nel caso di specie l’Amministrazione ha fornito il richiesto riscontro, pur se in senso negativo per la ricorrente, dal momento che con la nota ... ha rappresentato la conformità del manufatto per effetto della sopravvenuta concessione integrativa n. 20 del 2014.
Da qui l’inammissibilità dell’azione di accertamento, dal momento che ove -come nel caso di specie- il Comune riscontri in senso negativo l’istanza sollecitatoria del terzo non ritenendo sussistenti i presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori o di autotutela nei confronti della SCIA, quest’ultimo ha l’onere di proporre immediata impugnazione, trattandosi di provvedimento immediatamente e direttamente lesivo della pretesa azionata, risultando l’azione “contra silentium” inammissibile una volta che l’inerzia dell’Amministrazione sia venuta meno già al momento della stessa proposizione del ricorso.
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Come noto, sulla questione della tutela del terzo nei confronti della SCIA sussiste ancor oggi ampio contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il potere di sollecitazione in capo al terzo non sarebbe sottoposto ad alcun termine prevedendolo il vigente Codice del processo amministrativo (art. 31, comma 2, cod. proc. amm.) soltanto per la proposizione dell’azione “contra silentium”.
Secondo altra tesi, dopo la scadenza del termine di 60 o 30 giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio (art. 19, comma 3) il terzo potrebbe sollecitare sempre senza termine l’intervento dell’Amministrazione ma nei limiti sostanziali per l’esercizio del potere di autotutela di cui al comma 4 dell’art. 19.
Altra opzione esegetica, ancora, ritiene invece che il potere di sollecitazione del terzo pur nel silenzio della legge sia soggetto ad un termine che non può che coincidere con quello generale decadenziale per la tutela delle posizioni di interesse legittimo, decorrente dalla conoscenza della lesività dell’intervento, secondo i principi del tutto pacifici vigenti in materia edilizia.
Nel caso della s.c.i.a., infatti, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti sfavorevoli per il soggetto segnalante.
Recentemente è stata rimessa alla Corte Costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, par. 3, del Trattato UE, e 117, comma 2, lett. m), Cost., la questione di legittimità dell'art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui omette di prevedere il termine entro il cui il terzo può avanzare l'istanza di sollecitazione delle verifiche sulla S.C.I.A..
Ritiene il Collegio, nelle more della pendenza della questione di costituzionalità, che pur nel silenzio della legge sia ricavabile dal sistema il principio secondo cui il potere di sollecitazione del terzo non possa dirsi esercitabile senza termine, essendo esso invece individuabile nel generale termine decadenziale di sessanta giorni decorrente dalla lesività dell’intervento, e ciò per diverse ragioni.
Anzitutto il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del potere inibitorio sull’attività oggetto di SCIA, interesse che al pari di tutti gli altri deve essere esercitato entro il generale termine decadenziale oggi codificato dall’art. 41 comma 2, cod. proc. amm.; diversamente opinando vi sarebbe una evidente quanto ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla posizione del terzo che intende contrastare un intervento edilizio assentito con permesso di costruire, onerato di impugnare il titolo abilitativo nel termine di 60 giorni dalla “piena conoscenza” generalmente intesa come momento di fine lavori.
In secondo luogo vi sarebbe una manifesta lesione dell’affidamento del soggetto che presenta la SCIA in merito alla conformità alla legge della propria attività oltre che della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico, risultando egli esposto per un tempo del tutto indeterminato all’esercizio da parte del terzo del potere di sollecitazione, in netto contrasto con i principi informatori della novella legislativa di cui alla legge 124 del 2015 “Madia”.
Sarebbe inoltre del tutto irragionevole la positiva previsione nel testo dell’art. 19 della legge 241 del '90 di precisi termini perentori per l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo esercitabili d’ufficio, dovendosi il potere inibitorio di cui al comma terzo esercitare entro 30 o 60 giorni ed il potere di autotutela di cui al comma quarto entro 18 mesi (giusto il richiamo all’art. 21-nonies come riformato dalla legge 124 del 07.08.2015 n. 124) ove si opinasse nel senso di lasciare invece indeterminata l’iniziativa del terzo volta a sollecitare l’esercizio di tali poteri.
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6. - Va parimenti accolta l’eccezione di inammissibilità sollevata nei confronti della domanda di accertamento proposta ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 L. 241/1990 e dell’art. 31 cod. proc. amm. nei confronti della presunta inerzia del Comune di Perugia nell’esercizio del potere di autotutela/inibitorio in riferimento alle SCIA presentate dal controinteressato.
6.1. - Posto che il terzo che intende contestare la conformità di una attività intrapresa con SCIA può unicamente sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, cod. proc. amm. (ex multis TAR Lombardia Brescia sez. I, 09.01.2017, n. 28) nel caso di specie l’Amministrazione ha fornito il richiesto riscontro, pur se in senso negativo per la ricorrente, dal momento che con la nota prot. 197658 ha rappresentato la conformità del manufatto per effetto della sopravvenuta concessione integrativa n. 20 del 2014.
Da qui l’inammissibilità dell’azione di accertamento, dal momento che ove -come nel caso di specie- il Comune riscontri in senso negativo l’istanza sollecitatoria del terzo non ritenendo sussistenti i presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori o di autotutela nei confronti della SCIA, quest’ultimo ha l’onere di proporre immediata impugnazione, trattandosi di provvedimento immediatamente e direttamente lesivo della pretesa azionata, risultando l’azione “contra silentium” inammissibile una volta che l’inerzia dell’Amministrazione sia venuta meno già al momento della stessa proposizione del ricorso (TAR Basilicata, sez. I, 15.03.2016, n. 259).
7. - Tanto premesso, risultano manifestamente tardive le censure avverso la SCIA dell’08.11.2012, conosciuta dalla ricorrente quantomeno alla data della propria istanza di accesso del 31.01.2014.
7.1. - Come noto sulla questione della tutela del terzo nei confronti della SCIA sussiste ancor oggi ampio contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il potere di sollecitazione in capo al terzo non sarebbe sottoposto ad alcun termine prevedendolo il vigente Codice del processo amministrativo (art. 31, comma 2, cod. proc. amm.) soltanto per la proposizione dell’azione “contra silentium” (ex multis TAR Piemonte, sez. II, 01.07.2015, n. 1114).
Secondo altra tesi, dopo la scadenza del termine di 60 o 30 giorni previsto per l’esercizio del potere inibitorio (art. 19, comma 3) il terzo potrebbe sollecitare sempre senza termine l’intervento dell’Amministrazione ma nei limiti sostanziali per l’esercizio del potere di autotutela di cui al comma 4 dell’art. 19 (Consiglio di Stato, sez. VI, 03.11.2016, n. 4610; TAR Lombardia Milano sez. II, 15.04.2016 n. 735).
Altra opzione esegetica, ancora, ritiene invece che il potere di sollecitazione del terzo pur nel silenzio della legge sia soggetto ad un termine che non può che coincidere con quello generale decadenziale per la tutela delle posizioni di interesse legittimo, decorrente dalla conoscenza della lesività dell’intervento, secondo i principi del tutto pacifici vigenti in materia edilizia (Consiglio di Stato, sez. IV, 12.11.2015, n. 5161; TAR Toscana, sez. III, 03.10.2016, n. 1423).
Nel caso della s.c.i.a., infatti, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti sfavorevoli per il soggetto segnalante.
7.2. - Come evidenziato dalle stesse parti recentemente è stata rimessa alla Corte Costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, par. 3, del Trattato UE, e 117, comma 2, lett. m), Cost., la questione di legittimità dell'art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui omette di prevedere il termine entro il cui il terzo può avanzare l'istanza di sollecitazione delle verifiche sulla S.C.I.A. (TAR Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667).
7.3. - Ritiene il Collegio, nelle more della pendenza della questione di costituzionalità, che pur nel silenzio della legge sia ricavabile dal sistema il principio secondo cui il potere di sollecitazione del terzo non possa dirsi esercitabile senza termine, essendo esso invece individuabile nel generale termine decadenziale di sessanta giorni decorrente dalla lesività dell’intervento, e ciò per diverse ragioni.
Anzitutto il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del potere inibitorio sull’attività oggetto di SCIA, interesse che al pari di tutti gli altri deve essere esercitato entro il generale termine decadenziale oggi codificato dall’art. 41 comma 2, cod. proc. amm. (Consiglio di Stato sez. VI, 15.04.2010, n. 2139); diversamente opinando vi sarebbe una evidente quanto ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla posizione del terzo che intende contrastare un intervento edilizio assentito con permesso di costruire, onerato di impugnare il titolo abilitativo nel termine di 60 giorni dalla “piena conoscenza” generalmente intesa come momento di fine lavori (ex plurimis Consiglio di Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 626; id. sez. IV, 25.05.2017, n. 2453, id. sez. IV, 13.01.2017, n. 66; TAR Sicilia, Catania, sez. II, 22.08.2017, n. 2066).
In secondo luogo vi sarebbe una manifesta lesione dell’affidamento del soggetto che presenta la SCIA in merito alla conformità alla legge della propria attività oltre che della stessa certezza dei rapporti di diritto pubblico, risultando egli esposto per un tempo del tutto indeterminato all’esercizio da parte del terzo del potere di sollecitazione, in netto contrasto con i principi informatori della novella legislativa di cui alla legge 124 del 2015 “Madia”.
Sarebbe inoltre del tutto irragionevole la positiva previsione nel testo dell’art. 19 della legge 241 del '90 di precisi termini perentori per l’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo esercitabili d’ufficio, dovendosi il potere inibitorio di cui al comma terzo esercitare entro 30 o 60 giorni ed il potere di autotutela di cui al comma quarto entro 18 mesi (giusto il richiamo all’art. 21-nonies come riformato dalla legge 124 del 07.08.2015 n. 124) ove si opinasse nel senso di lasciare invece indeterminata l’iniziativa del terzo volta a sollecitare l’esercizio di tali poteri.
Ragion per cui l’azione di accertamento esercitata ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm. così come l’azione di annullamento della nota del 13.11.2015 è comunque in parte qua irricevibile (TAR Umbria, sentenza 28.11.2017 n. 724 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Danno da fermo cantiere.
Secondo il TAR Milano, per provare il danno per fermo cantiere causato da un’ordinanza di sospensione lavori occorre il deposito della documentazione comprovante gli avvenuti pagamenti delle prestazioni inutilizzate e non semplicemente una relazione peritale che si limita a prendere in considerazione, in maniera astratta, i costi della mano d’opera desumibili dal bollettino prezzi informativi delle opere edili.
Né si può ritenere che a tale carenza probatoria possa ovviarsi attraverso la determinazione in via equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., che può essere applicata solo quando la parte interessata abbia quantomeno fornito la prova dell’esistenza del danno subito e non sia in grado, per ragioni oggettive, di provarne l’ammontare
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
Il sig. Ba.Al., odierno ricorrente, è proprietario di un fabbricato situato sul territorio del Comune di Sesto San Giovanni, catastalmente identificato al foglio 35, mappali 267, 268, 269 e 270.
In data 04.08.2010, il sig. Ba. ha presentato al Comune di Sesto San Giovanni una denuncia di inizio attività, finalizzata all’esecuzione di un intervento di manutenzione straordinaria riguardante il predetto immobile.
Il Comune, con provvedimento del 18.10.2012, ha ordinato la sospensione dei lavori ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Con successiva nota del 10.12.2012, lo stesso Comune ha chiesto al ricorrente una serie di documenti funzionali alla valutazione di conformità dell’intervento oggetto della suindicata DIA. Secondo il medesimo ricorrente questa nota sarebbe confermativa dell’ordine di sospensione lavori in precedenza impartito.
Avverso tali atti è diretto il ricorso in esame. Oltre alla domanda di annullamento è stata proposta domanda risarcitoria.
Si è costituito in giudizio, per opporsi all’accoglimento delle domande avverse, il Comune di Sesto San Giovanni.
La Sezione, con ordinanza n. 125 del 25.01.2013, ha respinto l’istanza cautelare.
In prossimità dell’udienza di discussione del merito le parti hanno depositato memorie, insistendo nelle loro conclusioni.
Tenutasi la pubblica udienza in data 31.10.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
Il Collegio deve preliminarmente rilevare che, come ammesso dallo stesso ricorrente nella memoria depositata in data 29.09.2017,
la domanda di annullamento è divenuta improcedibile in quanto diretta contro atti ormai privi di efficacia.
Invero, come noto, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001, l’ordinanza di sospensione lavori ha un’efficacia temporale limitata (non superiore a quarantacinque giorni). Ne deriva che sia l’ordinanza di sospensione lavori del 18.10.2012 che la nota del 10.12.2012 (a dire del ricorrente confermativa della prima) non esplicano ormai alcun effetto, essendo all’evidenza abbondantemente scaduto il suindicato termine. Ne deriva ulteriormente che, ovviamente, allo stato, non sussiste più interesse ad ottenerne l’annullamento
(si veda in tal senso, fra le tante, TAR Lazio Roma, sez. II, 04.04.2017, n. 4225).
Va pertanto ribadita l’improcedibilità della relativa domanda.
Per quanto riguarda la domanda risarcitoria, ritiene il Collegio che la stessa sia infondata in quanto il ricorrente non ha fornito alcuna prova del danno subito.
Va invero osservato che, nell’atto introduttivo del giudizio, la parte si limita ad affermare di aver subito un danno per fermo cantiere per l’importo di euro mille giornaliere.
Successivamente, e precisamente in data 21.01.2013, la stessa parte ha depositato in giudizio una relazione peritale nella quale si osserva che
il fermo cantiere avrebbe determinato un danno ammontante ad euro 893,60 giornalieri per un totale di euro 57.190,40. La perizia tuttavia non fa riferimento alle somme effettivamente ed inutilmente sborsate dal ricorrente, ma si limita a prendere in considerazione, in maniera astratta, i costi della mano d’opera desumibili dal bollettino prezzi informativi delle opere edili della Provincia di Milano, relativo all’anno 2012.
Questa documentazione tuttavia non prova che il ricorrente, nel periodo di fermo cantiere, abbia davvero sostenuto questi costi.
Né si può ritenere che a tale carenza probatoria possa ovviarsi attraverso la determinazione in via equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. Invero, per pacifica opinione giurisprudenziale, questa norma può essere applicata solo quando la parte interessata abbia quantomeno fornito la prova dell’esistenza del danno subito e non sia in grado, per ragioni oggettive, di provarne l’ammontare
(cfr., fra le tante, Cassazione civile, sez. III 17.10.2016, n. 20889).
Nel caso di specie, come visto, parte ricorrente non ha neppure fornito la prova dell’esistenza del danno; e comunque si deve escludere che la stessa fosse impossibilitata a fornire la prova del suo ammontare essendo a tal fine sufficiente il deposito della documentazione comprovante gli avvenuti pagamenti delle prestazioni inutilizzate.
La domanda risarcitoria deve essere, pertanto, respinta.
In conclusione, per le ragioni illustrate, deve essere dichiarata l’improcedibilità della domanda di annullamento, mentre la domanda risarcitoria deve essere respinta (
TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.11.2017 n. 2272 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Poiché lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare intercapedini dannose, le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale e la relativa disciplina non trova pertanto applicazione “quando i fabbricati sono disposti ad angolo e non hanno fra loro pareti contrastanti perché ciò che rileva è la distanza fra opposte pareti”, che è quanto accade nel caso di specie in cui la proiezione della nuova parete chiusa progettata in ampliamento del deposito crollato non interseca il portico delle ricorrenti.
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Parimenti infondato è anche il quarto motivo, con il quale le ricorrenti lamentano il mancato rispetto della distanza di 10 m tra pareti finestrate.
Infatti come controdedotto dalla controinteressata, senza replica sul punto da parte delle ricorrenti, dalla documentazione versata in atti e, in particolare, dalla tavola 6 del progetto (cfr. doc. 9 allegato alle difese della controinteressata nell’elenco documenti depositato in giudizio l’11.11.2016), l’edificio in progetto in realtà rispetta la distanza di 10 m, perché la porzione del muro che secondo le ricorrenti viola le distanze, viene dalle stesse misurata in modo scorretto.
Infatti in giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale, poiché lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare intercapedini dannose, le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale (ex pluribus cfr. Cassazione civile, sez. II, 07.04.2005, n. 72859) e la relativa disciplina non trova pertanto applicazione “quando i fabbricati sono disposti ad angolo e non hanno fra loro pareti contrastanti perché ciò che rileva è la distanza fra opposte pareti” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 05.10.2005, n. 5348), che è quanto accade nel caso di specie in cui la proiezione della nuova parete chiusa progettata in ampliamento del deposito crollato non interseca il portico delle ricorrenti.
Il quarto motivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 27.11.2017 n. 1063 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazioni per pubblica utilità: l'avviso agli espropriandi deve indicare i nominativi e le particelle.
E' pacifico che in tema di espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art. 11 del d.P.R. n. 327/2001 debba contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, avendo lo scopo di essere idoneo a garantire l'effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o non per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva.
In sostanza, in forza di quanto previsto dagli artt. 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001, all’appellato andava inviato l'avviso di avvio del procedimento e del deposito degli atti volti a promuovere l'adozione dell'atto dichiarativo di pubblica utilità, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento.
Il mancato assolvimento del duplice obbligo di comunicazione ha quindi implicato l'illegittimità dell'atto dichiarativo della pubblica utilità e degli altri atti successivi, a nulla rilevando che l'interessato abbia avuto comunque conoscenza del procedimento. Peraltro, tale obbligo di comunicare l'avvio del procedimento non può considerarsi superfluo neanche se afferente ad una procedura di rinnovazione di precedente progetto di opera pubblica o di dichiarazione di pubblica utilità conosciuta da parte dei proprietari interessati.
La mancata comunicazione ex art. 11, d.P.R. n. 327/2001 lede infatti il diritto di quest’ultimi a partecipare in chiave difensiva al procedimento, determinando l'illegittimità del provvedimento così assunto, senza potersi invocare neppure la previsione del comma 2 dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, per prevenire la pronuncia caducatoria.
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11. L’appello non è fondato, a prescindere dall’eccezione di inammissibilità dello stesso formulata dall’appellato nella sua memoria di costituzione del 21.12.2016.
12. Innanzitutto, non può essere condivisa la tesi del comune di Cleto in ordine all’inammissibilità del ricorso di primo grado. Secondo parte appellante, la delibera impugnata, la n. 6 del 22.07.2016, non avrebbe avuto carattere lesivo essendo di mera riapprovazione del progetto definitivo dell’opera.
Il procedimento di esproprio, invece, era già stato completato e non impugnato con una serie di provvedimenti assunti nell’anno 2014 e pubblicati nell’albo pretorio dello stesso Comune (non essendo intervenuto all’epoca l’acquisto del bene da parte dell’appellato non sarebbe stata fatta la comunicazione diretta allo stesso).
Dagli atti di causa emerge però che i procedimenti espropriativi precedenti alla delibera impugnata sono stati attivati sull’erroneo presupposto della proprietà comunale del bene nel frattempo passata al signor Van Ho. con gli atti di compravendita richiamati in premessa (segnatamente i ruderi della ex chiesa del SS. Rosario venduta allo stesso dall’ente proprietario, cioè la Parrocchia Santa Maria Assunta di Cleto).
Tale cessione, in quanto relativa ad un bene vincolato, è stata poi autorizzata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali con provvedimento prot. 3672 del 25.06.2015, comunicato con atto prot. 9853 del 17.09.2015 al comune di Cleto che non ha esercitato il diritto di prelazione. In ogni caso, i provvedimenti del 2014 non sono mai stati comunicati all’appellato.
La delibera impugnata del 2016 non è stata dunque un atto meramente ricognitivo, giacché si è resa necessaria, come evidenzia lo stesso Comune, per le “varie esigenze contrapposte pervenendo alla conclusione della necessità dell’esproprio del bene”, con una nuova valutazione dei fatti.
Tale delibera, con cui in sostanza si è approvato il progetto, si è dichiarata la pubblica utilità, si è adottato il decreto di esproprio e stabilita l’immissione nel possesso, ha superato, incorporandola e sostituendola, la precedente delibera consiliare risalente all’anno 2014, è stata poi impugnata nei termini dall’appellato.
13. Quanto all’erronea conclusione del Tar sulla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di cui alla delibera impugnata (n. 6/2016), va rilevato che l’art. 21-octies della legge n. 241/1990, richiamato dalla parte appellante, non può trovare applicazione nella materia espropriativa nella quale è necessario dar modo agli interessati di partecipare al procedimento.
Per tale ragione, il giudice di primo grado ha ritenuto manifestamente fondato il mezzo d’impugnazione nel quale si lamentava la violazione degli artt. 11 e 16 del D.P.R. 327/2001, nonché dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, avendo il signor Ho. dimostrato come la comunicazione di avvio del procedimento gli fosse stata spedita tra il 20 ed il 21.07.2016, ossia contestualmente alla data (20-22.07.2016) di adozione della delibera impugnata, che, come sopra detto, ha recato la dichiarazione di pubblica utilità, la riapprovazione del progetto inerente i ruderi della chiesa del SS. Rosario di Cleto e l’assegnazione dei termini per lo svolgimento della procedura espropriativa.
14. D’altra parte, è pacifico che in tema di espropriazione per pubblica utilità l'avviso di cui all'art. 11 del d.P.R. n. 327/2001 debba contenere, per essere legittimo, l'indicazione delle particelle e dei nominativi, quali indefettibili elementi diretti ad individuare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo, avendo lo scopo di essere idoneo a garantire l'effettiva conoscenza, di guisa che il proprietario inciso sia posto in grado di optare o non per la partecipazione procedimentale in chiave difensiva (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 15.04.2013, n. 2070).
In sostanza, in forza di quanto previsto dagli artt. 11 e 16 del D.P.R. n. 327/2001, all’appellato andava inviato l'avviso di avvio del procedimento e del deposito degli atti volti a promuovere l'adozione dell'atto dichiarativo di pubblica utilità, con l'indicazione del nominativo del responsabile del procedimento.
Il mancato assolvimento del duplice obbligo di comunicazione ha quindi implicato l'illegittimità dell'atto dichiarativo della pubblica utilità e degli altri atti successivi, a nulla rilevando che l'interessato abbia avuto comunque conoscenza del procedimento. Peraltro, tale obbligo di comunicare l'avvio del procedimento non può considerarsi superfluo neanche se afferente ad una procedura di rinnovazione di precedente progetto di opera pubblica o di dichiarazione di pubblica utilità conosciuta da parte dei proprietari interessati (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 09.12.2010, n. 8688).
La mancata comunicazione ex art. 11, d.P.R. n. 327/2001 lede infatti il diritto di quest’ultimi a partecipare in chiave difensiva al procedimento, determinando l'illegittimità del provvedimento così assunto, senza potersi invocare neppure la previsione del comma 2 dell'art. 21-octies, della legge n. 241 del 1990, per prevenire la pronuncia caducatoria (cfr. Tar per il Friuli-Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 03.10.2016, n. 411).
15. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto va confermata la sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.11.2017 n. 5480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Lottizzazione abusiva materiale - Atto amministrativo illegittimo - Mancanza delle condizioni previste dalla legge - Realizzazione di opere edilizie con finalità commerciale in zona agricola - Falsa dichiarazione della preesistenza dell'immobile al 1/09/1967 - Artt. 30 e 44, d.P.R. n. 380/2001.
In materia di violazione dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia e alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia illecito, e cioè frutto di attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere, non vertendosi in tali casi in una disapplicazione dell'atto amministrativo (Cass., sez. 2, 26/06/2014, n. 31229; sez. 3, 28/09/2006, n. 40425).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Prassi contraria alla legge - Mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere - DIRITTO AGRARIO - Opere edilizie realizzate a fini commerciali in zone qualificate agricole - Lottizzazione abusiva materiale.
Si può configurare lottizzazione abusiva materiale, anche nel caso di opere edilizie realizzate a fini commerciali in zone qualificate agricole dagli strumenti di pianificazione.
Nella specie, la lottizzazione è stata attuata sia mediante una serie di opere, sulla base di titoli illegittimi, consistenti nell'originaria edificazione di un fabbricato residenziale in zona agricola, nel successivo ampliamento dello stesso con illegittimo mutamento di destinazione d'uso a fabbricato commerciale, nell'accorpamento ad esso di terreni agricoli su cui sono state edificate ulteriori opere (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.11.2017 n. 53388 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Residui da lavori di demolizione o di costruzione - Natura di rifiuto del fresato di asfalto - Artt. 183, 184, 184-bis, 256, 260 d. L.vo n.152/2006.
I materiali che residuano da lavori di demolizione o di costruzione, che hanno ad oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in esame, la nuova costruzione di una pista aeroportuale) devono farsi rientrare nel novero dei rifiuti, perché l'articolo 184, comma 1, lettera b), del T.U.A., definisce, ex positivo iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando la possibilità di gestire gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di cui all'articolo 184-bis TUA.
Ne consegue che il materiale derivante dalle attività incluse nella lista di cui alla lettera b) del terzo comma dell'articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto, confermata per quanto attiene l'attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del 05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi interpretare l'inciso "fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis", nel senso cioè che la regola è che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in via di eccezione) la possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività costituiscano, in presenza di tutte le condizioni previste dall'articolo 184-bis, sottoprodotti.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Sottoprodotti - Onere della prova.
In materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano).
RIFIUTI - Nozione di sottoprodotto - Fresato d'asfalto - Giurisprudenza amministrativa e giurisprudenza di legittimità - Interpretazioni e differenze - Codice Europeo dei Rifiuti (CER).
L'art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni: la sostanza o l'oggetto deve trarre origine da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto; deve esserne certa l'utilizzazione nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che il fresato d'asfalto, pur essendo contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER), può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito, precisando che resta comunque ferma la qualifica di "rifiuto" del fresato d'asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello smaltimento, esso è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti, mentre può essere qualificato sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale in un impianto che ne preveda l'impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell'ambito dello stesso impianto (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il c.d. "fresato d'asfalto" -che viene solitamente definito come il materiale solido di risulta dell'attività di scarifica (scarificazione) del manto stradale mediante fresatura, costituito da bitume ed inerti, qualificato come rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del 05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti- rientri nella nozione di rifiuto.
RIFIUTI - Nozione di "trattamento" - Normale pratica industriale - Interpretazione restrittiva.
La nozione di "trattamento" da considerare ai fini dell'individuazione della sussistenza dei requisiti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, diretta ad accertare quando detto trattamento possa ritenersi rientrante nella normale pratica industriale, implica il ricorso ad un'interpretazione meno estensiva dell'ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.
Ne consegue che, quando il riutilizzo non è integrale, inevitabilmente una parte della sostanza prodotta è rifiuto in quanto oggettivamente destinata all'abbandono e l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi, con l'ulteriore conseguenza che la giacenza del materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in una sede diversa dal luogo di produzione del rifiuto) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto.
RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti - Pluralità di condotte - Comportamenti non occasionali - Conseguimento di un ingiusto profitto - Nozione di "ingente quantitativo dei rifiuti" - Pluralità delle operazioni svolte - Criteri del profitto ingiusto - Giurisprudenza.
Il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) sanziona una pluralità di condotte che si risolvono in una qualunque delle operazioni tassativamente elencate dalla norma consistenti nella cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione e, in ogni caso, nella gestione abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel contesto di una struttura organizzata tendenzialmente destinata ad operare con continuità.
Trattasi di un reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao; Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta).
Sicché, l'ingente quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità (Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe; Sez. 3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006, Costa; Sez. 3, n. 40827 del 06/10/2005, Carretta).
Infine, per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (Sez. 3, n. 40828 del 06/10/2005, Fradella), potendo infatti essere costituito anche da vantaggi non patrimoniali o comunque da un complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, Costa) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.11.2017 n. 53136 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: La gestione del materiale derivante dalla scarifica del manto stradale come sottoprodotto integra il reato di cui all'art. 256 Tua.
Integra il reato previsto dall'art. 256, comma primo, lett. a), del D.L.vo. 03.04.2006, n. 152 il reimpiego di materiale inerte derivante dall'attività di scarifica del manto stradale nel processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis del citato D.L.vo. neppure all'esito della modifica introdotta dall'art. 12 del D.L.vo. 03.12.2010, n. 205 (massima tratta da www.tuttoambiente.it).
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MASSIMA
3. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, sicché insuscettibile di essere sottoposto al sindacato di legittimità, i Giudici del merito, con doppia conforme motivazione, hanno precisato che, a seguito del sopralluogo compiuto dai Carabinieri del N.O.E., venne accertato che durante il periodo compreso tra il 08.05.2008 e il 31.03.2009, in Capoterra, località "Marzaloi" era stata trasportata e conferita una ingente quantità di conglomerato bituminoso (altrimenti detto "fresato d'asfalto") derivante dalle attività di rifacimento della pista aerea dell'aeroporto di Elmas.
Il terreno suindicato risultò di proprietà della Sar.Co.Bit. S.r.l. e pertinenza di un impianto della società collegata Con.Mo.Ter. S.r.l. specializzata nella produzione di conglomerati bituminosi.
I Giudici del merito hanno ritenuto provata un'attività di trasporto continua e accuratamente pianificata di detto materiale, eseguita con mezzi pesanti che dall'aeroporto di Elmas giungevano poi all'impianto di Capoterra, desumendo ciò dal rinvenimento di numerosi "report" acquisiti dai Carabinieri tramite il curatore del fallimento della Con.Mo.Ter. S.r.l.
I report in questione vennero infatti annotati, in via del tutto informale, dai dipendenti impegnati nelle attività di trasporto al fine di assicurare una documentazione seppur minima dei conferimenti di conglomerato bituminoso operati dalla Sar.Co.Bit. S.r.l. verso la Con.Mo.Ter. S.r.l.
L'attività continuativa di trasporto e di conferimento delle miscele presso l'agro di Ma. venne comunque anche confermata dalle dichiarazioni rese dal teste Ca.Uc., dichiarazioni ulteriormente corroborate da quelle rese da altro testimone (Do. De An.).
Lo stesso imputato, It.Me., aveva confermato che vi fu un trasporto continuo di miscela bituminosa dall'aeroporto di Elmas verso l'impianto di Ma..
Sulla base di ciò e di ulteriori risultanze, i Giudici del merito hanno ritenuto che il conglomerato conferito presso l'impianto di Ma., nel periodo compreso tra l'08.05. e il 25.09.2008, avesse natura di rifiuto essendo destinato per contratto all'abbandono ed essendo stato, per la maggior parte, derelitto; hanno inoltre ritenuto che le attività di trasporto e di conferimento nella località suindicata incrementarono una discarica già esistente su quel sito, formata anche da batterie esauste e da pneumatici fuori uso, nonché da altre migliaia di metri cubi di sostanza analoga.
Sulla base degli elementi probatori raccolti, hanno dunque qualificato come abusive le attività di trasporto e di conferimento, in quanto svolte senza autorizzazione e senza redigere la documentazione espressamente richiesta dalla normativa di settore; hanno ritenuto che le stesse fossero state svolte con continuità e con organizzazione di uomini e mezzi: sempre con le medesime modalità e caratteristiche. In particolare, furono sempre identiche le società che organizzarono la movimentazione dei mezzi; identica era la natura del materiale trasportato e identici furono anche gli autisti preposti alla guida dei mezzi di trasporto.
Sempre secondo la ricostruzione dei fatti operata dai Giudici del merito, l'intera attività di trasporto e conferimento del materiale avvenne secondo operazioni pianificate accuratamente, condotte dalle due società di capitali nell'esercizio delle rispettive attività di impresa in esecuzione del contratto d'appalto e delle commesse ad esso pertinenti.
Tali circostanze comprovavano anche il perseguimento di un ingiusto profitto da parte delle società Sar.Co.Bit. e Con.Mo.Ter. avendo dette società organizzato il trasporto del conglomerato bituminoso, proveniente dal rifacimento della pista aerea dell'aeroporto di Elmas, avendone disposto il conferimento presso l'impianto di Ma., in vista di un successivo riutilizzo nel ciclo produttivo, ed ottenendo anche un notevole risparmio sui costi che avrebbero dovuto altrimenti sostenere qualora la gestione del materiale fosse avvenuta nel pieno rispetto della normativa di settore.
4. Ciò posto, la prima questione da esaminare è, nell'ordine logico, se il materiale trasportato nell'impianto di Ma. vada qualificato come sottoprodotto, secondo la tesi esposta dai ricorrenti, o come rifiuto, secondo il convergente approdo cui sono giunti i Giudici del merito.
4.1. Nel corso del primo giudizio, il Tribunale ha ritenuto di disattendere la tesi difensiva, secondo la quale il materiale bituminoso andava qualificato come sottoprodotto.
In particolare la difesa aveva sostenuto che il trasporto presso la località "Ma." avvenne al solo fine di assicurane il trattamento nell'impianto della Con.Mo.Ter. in vista di un successivo reimpiego nel ciclo di rifacimento della pista aerea di Elmas, secondo quanto disposto dal contratto d'appalto.
Il Tribunale ha invece ritenuto che tale tesi poteva ritenersi fondata solo per un periodo successivo all'arco temporale interessato dall'imputazione, atteso che la seconda variante al contratto d'appalto (del 17.12.2008) venne approvata solo dopo che le attività di trasporto, così come documentate nei report, erano state compiute da tempo ovvero quando la destinazione di rifiuto era già stata impressa in maniera definitiva e irreversibile.
A parere del Tribunale le miscele bituminose avrebbero potuto qualificarsi in termini di sottoprodotto solo laddove fosse stata certa sin dall'origine la destinazione al reimpiego.
Per contro, ha ritenuto certa sin dall'origine la sua destinazione in discarica, pervenendo alla conclusione di ritenere pienamente integrato il reato di cui all'articolo 260 d.lgs. n. 152/2006 sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
4.2. La Corte di appello ha condiviso il percorso argomentativo del Tribunale ed ha fornito adeguata risposta alle obiezioni difensive che, con i ricorsi per cassazione, sono state sostanzialmente riproposte negli stessi termini.
Per rendersene conto è opportuno riportare le rationes decidendi della Corte del merito, la quale ha esaminato la comune tesi difensiva fondata sul rilievo, ritenuto dirimente, che il fresato derivante dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale dovesse essere reimpiegato quale componente del manto di copertura della nuova pista.
La Corte distrettuale ha stimato l'assunto erroneo sia perché non ha ritenuto vero che il fresato dovesse essere per intero riutilizzato; sia perché l'accezione di sottoprodotto impiegata è stata ritenuta non corrispondente alla rigorosa definizione che la legge dà dei materiali qualificabili come sottoprodotti.
Dopo aver riportato la definizione normativa di sottoprodotto vigente al momento dei fatti e introdotta dall'articolo 2, comma 20, d.lgs. n. 4 del 2008, che sostituì per intero il testo dell'articolo 183 d.lgs. n. 152 del 2006 concernente le definizioni normative e dopo aver riportato anche la definizione di sottoprodotto data dal successivo d.lgs. n. 205 del 2010, che ha nuovamente riformulato il citato articolo 183 e, con specifico riferimento ai sottoprodotti, ha introdotto nel d.lgs. n. 152 del 2006 l'articolo 184-bis, la Corte del merito ha affermato come, con riferimento alla vicenda in esame, vi fosse una sostanziale continuità normativa tra la definizione dei sottoprodotti vigente all'epoca dei fatti e quella subentrata nel 2010.
La Corte di appello ha quindi chiarito come fosse certo che il fresato derivante dalla scarificazione dell'asfalto della vecchia pista aeroportuale derivasse da un processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione; anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella fase dello smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter realizzare la nuova pista.
Quanto poi al requisito della previsione certa del riutilizzo, la Corte del merito ha osservato come i difensori avessero sottolineato che sarebbe stato certo fin dall'inizio dei lavori il reimpiego del fresato derivante dalla scarificazione del vecchio strato d'asfalto.
A questo proposito, la Corte distrettuale ha posto in evidenza come, per stessa ammissione difensiva, il fresato non dovesse essere riutilizzato per intero perché, come stabilito nel primo capitolato d'appalto e comprovato dalle dichiarazioni dell'ing. Massimo Rodriguez, era previsto che il fresato derivante dalla scarificazione doveva essere riutilizzato per la nuova pista nella misura del 55%; pertanto, il restante 45% non sarebbe stato riutilizzato e perciò costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
Alla luce di ciò, è apparso irrilevante che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Ma. erano stati eseguiti), si era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova pista, l'impiego del restante fresato per la realizzazione delle "strips" (fasce laterali rispetto alla pista in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro materiale inerte: la variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell'ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso soltanto a fine 2008.
La Corte territoriale ha precisato come il concetto fosse stato espresso efficacemente anche dalla consulente, dr.ssa Si.Fa., la quale aveva chiarito che "colui che deve e vuole riutilizzare come sottoprodotto lo deve dichiarare immediatamente e deve poi fare che ci sia assoluta certezza, ma in fase iniziale, non a metà strada o a fine lavoro" (ud. 20.6.2013, pag. 29).
E' stato poi ritenuto che difettasse in radice un requisito essenziale del sottoprodotto, e cioè il fatto che potesse essere riutilizzato "tal quale", senza essere sottoposto a trattamenti preventivi o trasformazioni preliminari.
Secondo la Corte d'appello, è certo invece che, almeno per la quota da riutilizzare come componente della nuova pista, dovesse essere sottoposto a un trattamento che ne mutava in modo radicale le caratteristiche.
Al riguardo, è stato ritenuto decisivo che il fresato fosse trasferito proprio a Marzaloi, presso la Con.Mo.Ter., che gestiva un impianto di produzione di conglomerati bituminosi.
Ciò, di per sé, è stato considerato come indicativo della necessità di sottoporre il fresato da riutilizzare a un processo di trasformazione, rientrando in una nozione di comune esperienza il fatto che il materiale grezzo, polveroso e sassoso, proveniente dalla scarificazione del precedente asfalto, non viene reimmesso "tal quale" a integrare il nuovo fondo ma è impiegato per realizzare, mediante appositi macchinari, un diverso materiale -evidentemente non polveroso, né sassoso- con caratteristiche del tutto diverse di pastosità, elasticità e relativa morbidezza.
E, con specifico riferimento al caso in esame, la Corte di appello non ha mancato di sottolineare come il consulente, dr. Antonello Angius, avesse spiegato che il conglomerato bituminoso utilizzato per lo strato di base della pista principale —cioè proprio quello per il quale era previsto il reimpiego del fresato di cui si discute— era prodotto a caldo in un impianto esterno (ud. 20.06.2013, pag. 51).
Dal testo della sentenza impugnata, risulta che lo stesso concetto è stato espresso dal dr. An. nella sua relazione scritta, richiamata dall'appello Me. a pag. 2-3, trovando ciò specifica conferma nelle leali dichiarazioni dell'ing. Si.Po., consulente tecnico della difesa, la quale, pur avendo sostenuto —evidentemente al fine di corroborare la tesi difensiva— che il fresato sarebbe stato riutilizzato "tal quale", poco dopo, in palese contraddizione, ha precisato che per realizzare il conglomerato bituminoso "il reimpiego è stato fatto a caldo, quindi l'hanno portato nell'impianto di Capoterra, l'hanno miscelato con un conglomerato vergine e poi hanno riportato tutta la miscela in aeroporto" (ud. 05.11.2013, pag. 29).
Nello spiegare le tecniche di miscelazione per il reimpiego del fresato, l'ing. Po. ha anche sottolineato che, mentre la tecnica a freddo permette di riutilizzare il 100% del fresato, che viene reimpastato direttamente sul sito con una macchina apposita e mischiato con nuovo bitume, cemento e acqua polverizzata, la tecnica a caldo non permette di conoscere a priori la quantità utilizzabile perché dipende da quanto bitume è rimasto aggregato agli inerti dopo la fresatura e soprattutto non si conosce l'esatta pezzatura dell'inerte dopo che viene fresato. In questa prospettiva, occorre tener conto delle prestazioni meccaniche che si vogliono ottenere e proprio in ragione di ciò, dopo i test del Politecnico di Milano, fu deciso di abbassare la percentuale di fresato presente nel conglomerato bituminoso destinato alla nuova pista (ud. 05.11.2013, pag. 31- 33).
Da ciò la Corte di appello ha tratto la logica convinzione che, ai fini del suo riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato "tal quale" ma era sottoposto a una lavorazione a caldo che, attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il prodotto risultante potesse soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche richieste per l'asfalto della nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato "tal quale" non aveva, con la conseguenza che è stato escluso in modo certo, persino sulla base di acquisizioni probatorie indicate dalla stessa difesa negli atti d'impugnazione, che il fresato d'asfalto costituisse un sottoprodotto in senso stretto, mentre costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
5. Le conclusioni, cui sono giunti i Giudici del merito, sono corrette ed immuni dai rilievi giuridici sollevati dai ricorrenti perché, nella specie, il materiale raccolto non è qualificabile come sottoprodotto, né alla stregua delle versione originaria contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, né alla stregua della versione introdotta dal d.lgs. n. 4 del 2008, ratione temporis vigente, e neppure alla stregua della nuova definizione dei sottoprodotti recata dal d.lgs. 03.04.2006, n. 152, articolo 184-bis, inserito dal d.lgs. 03.12.2010, n. 205, art. 12, con la sottolineatura che gli approdi interpretativi devono ritenersi confermati anche a seguito dell'entrata in vigore (in data 02.03.2017) del decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 (G.U. 15.02.2017 n. 38 - Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti).
Quindi, l'affermazione contenuta nella sentenza di secondo grado, secondo la quale vi è piena continuità normativa tra le disposizioni che, nel definire la nozione di sottoprodotto, si sono succedute nel tempo, è senza dubbio corretta.
La nuova disposizione legislativa, introdotta dal d.lgs. n. 205 del 2010 che è invocata dai ricorrenti per supportare la tesi che non si trattasse di rifiuto, richiede perché si tratti di sottoprodotto, tra l'altro, da un lato, che la sostanza o l'oggetto potesse essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (comma 1, lett. c), e, da un altro lato, che la sostanza o l'oggetto fosse originato da un processo di produzione, di cui costituisse parte integrante, e il cui scopo primario non fosse la produzione di tale sostanza od oggetto (comma 1, lett. a).
Sul punto, questa Sezione ha affermato che
integra il reato previsto dall'art. 256, comma primo, lett. a), del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152 il reimpiego di materiale inerte derivante dall'attività di scarifica del manto stradale nel processo produttivo di conglomerato bituminoso, non potendo lo scarificato essere qualificato come sottoprodotto ai sensi dell'art. 184-bis del citato D.Lgs. neppure all'esito della modifica introdotta dall'art. 12 del D.Lgs. 03.12.2010, n. 205 (Sez. 3, n. 7374 del 19/01/2012, Aloisio, Rv. 252101).
Si è visto come sia stato accertato che il fresato derivante dalla scarificazione dell'asfalto della vecchia pista aeroportuale originasse da un processo lavorativo che non era funzionale alla sua produzione; anzi il processo produttivo era funzionale, almeno nella fase dello smantellamento della vecchia pista, a eliminare lo strato di asfalto esistente per poter realizzare la nuova pista.
In ogni caso, opportunamente, i Giudici del merito, come sarà più chiaro in seguito, hanno anche accertato che il fresato derivante dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale, oltre a difettare di altri necessari requisiti, richiedeva adeguate operazioni di recupero per poter essere riutilizzato e che erano necessarie ulteriori trasformazioni e trattamenti, tramite apposito impianto non collocato in loco e dove il fresato di asfalto doveva essere appositamente trasportato.
E' pacifico, tant'è che gli stessi ricorrenti se ne fanno carico, che una sostanza, per essere qualificata come sottoprodotto, deve soddisfare cumulativamente tutti i requisiti di cui all'articolo 184-bis TUA, con la conseguenza che, se anche uno solo dei requisiti non è soddisfatto, la sostanza non può rientrare nella nozione di sottoprodotto.
L'art. 184-bis, infatti, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell'art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni: la sostanza o l'oggetto deve trarre origine da un processo di produzione, di cui costituisca parte integrante, e il cui scopo primario non sia la produzione di tale sostanza od oggetto; deve esserne certa l'utilizzazione nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana.
Ciò posto, occorre partire dalla premessa, aderente al dato normativo, che
i materiali che residuano da lavori di demolizione o di costruzione, che hanno ad oggetto strade o opere simili (quale, come nel caso in esame, la nuova costruzione di una pista aeroportuale) devono farsi rientrare nel novero dei rifiuti, perché l'articolo 184, comma 1, lettera b), del T.U.A., definisce, ex positivo iure, rifiuti speciali quelli derivanti da attività di demolizione, costruzione, nonché quelli che derivano dalle attività di scavo, fermo restando la possibilità di gestire gli stessi come sottoprodotti, ricorrendo le condizioni di cui all'articolo 184-bis TUA.
Ne consegue che
il materiale derivante dalle attività incluse nella lista di cui alla lettera b) del terzo comma dell'articolo 184 TUA costituiscono rifiuti per presunzione ex lege iuris tantum (circostanza, del resto, confermata per quanto attiene l'attività di scarifica del manto stradale mediante fresatura a freddo qualificata al punto 7.6.1 come rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del 05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti), così dovendosi interpretare l'inciso "fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis", nel senso cioè che la regola è che si verte in tema di rifiuti, pur non essendo esclusa (in via di eccezione) la possibilità che dette sostanze derivanti da quelle attività costituiscano, in presenza di tutte le condizioni previste dall'articolo 184-bis, sottoprodotti.
In tale quadro, secondo il Collegio, vanno letti gli arresti cui è pervenuta, sul tema della natura dei residui da demolizione del manto stradale, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4978 del 06/10/2014; Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 21/05/2013), la quale si è espressa nel senso di ritenere astrattamente possibile qualificare il fresato d'asfalto come sottoprodotto, in presenza (appunto) di tutte le condizioni prescritte dall'articolo 184-bis, del T.U.A.
La giurisprudenza amministrativa ha osservato che
il fresato d'asfalto, pur essendo contemplato dal Codice Europeo dei Rifiuti (CER), può essere trattato alla stregua di un sottoprodotto quando venga inserito in un ciclo produttivo e venga utilizzato senza nessun trattamento in un impianto che ne preveda l'utilizzo nello stesso ciclo di produzione, senza operazioni di stoccaggio a tempo indefinito, precisando che resta comunque ferma la qualifica di "rifiuto" del fresato d'asfalto, con la conseguenza che, ai fini dello smaltimento, esso è soggetto a tutte le norme che valgono per la categoria dei rifiuti, mentre può essere qualificato sottoprodotto, anziché rifiuto, se lo stesso è inserito in un ciclo produttivo, ossia se viene utilizzato senza nessun trattamento diverso dalla normale pratica industriale in un impianto che ne preveda l'impiego nello stesso ciclo di produzione, e precisamente per il reimpiego del materiale come componente del prodotto finale trattato nell'ambito dello stesso impianto (Cons. Stato, Sez. IV, n. 4151 del 2013, cit.).
La giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che il c.d. "fresato d'asfalto" -che viene solitamente definito come il materiale solido di risulta dell'attività di scarifica (scarificazione) del manto stradale mediante fresatura, costituito da bitume ed inerti, qualificato come rifiuto dall'allegato 1 al D.M. del 05.02.1998 e dal Codice Europeo dei Rifiuti- rientri nella nozione di rifiuto.
In realtà, il nucleo che, in questa delicata materia del diritto ambientale, sorregge tale consolidato orientamento, dovendo per ovvie ragioni l'analisi essere limitata alle pronunce intervenute dopo la novella del 2010, è tutto nel senso che,
in taluni casi, la presunzione legale iuris tantum della qualifica di rifiuto non è vinta da chi eccepisce la natura di sottoprodotto della sostanza derivante dalle predette attività (da ultimo, Sez. 3, n. 37168 del 09/06/2016, Bindi, non mass.), laddove, trattandosi di invocare una condizione per l'applicabilità di un regime derogatorio a quello ordinario dei rifiuti, incombe sull'interessato l'onere di provare che tutti i requisiti, richiesti dall'articolo 184- bis per attribuire alla sostanza la qualifica di sottoprodotto, siano stati osservati (" ... fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis"), mentre al giudice compete la verifica se il materiale probatorio fornito dalla parte abbia assolto tale onere.
In questo senso è anche il decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 che, all'articolo 4, nel dettare le condizioni generali di applicabilità, esordisce affermando che, ai sensi dell'articolo 184-bis del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, i residui di produzione, cui all'articolo 2, comma 1, lettera b), ossia "ogni materiale o sostanza che non è deliberatamente prodotto in un processo di produzione e che può essere o non essere un rifiuto") sono sottoprodotti e non rifiuti quando il produttore dimostra che, non essendo stati prodotti volontariamente e come obiettivo primario del ciclo produttivo, sono destinati ad essere utilizzati nello stesso o in un successivo processo, dal produttore medesimo o da parte di terzi e, a tal fine, in ogni fase della gestione del residuo, è necessario fornire la dimostrazione che sono soddisfatte tutte le condizioni di cui alle lettere a), b), c) e d) dell'articolo 4 del decreto.
Nel caso in esame, non soltanto i ricorrenti non hanno affatto osservato l'onere sugli stessi incombente anzi, come sottolineato nella sentenza impugnata, sono emerse circostanze di segno opposto, confermative della natura di rifiuto del materiale derivante dall'attività di scarificazione del manto della pista aeroportuale, con specifico riferimento, al di là della "provenienza" del fresato e di cui si è già trattato, ai requisiti dell'utilizzo, della certezza dell'utilizzo e della compatibilità del trattamento con la nozione di sottoprodotto.
5.1. Quanto al requisito dell'utilizzo, è incontroverso che, nel periodo oggetto della contestazione, esso non sia stato integrale. Tuttavia, non è più previsto, con la novella del 2010, che il riutilizzo della sostanza (nel caso in esame, del fresato di asfalto) debba essere integrale e ciò si spiega col fatto che il produttore può decidere di disfarsi, in parte, del sottoprodotto che, a quel punto, diventa un rifiuto.
Ne consegue che,
quando il riutilizzo non è integrale, inevitabilmente una parte della sostanza prodotta è rifiuto in quanto oggettivamente destinata all'abbandono e l'eventuale recupero è condizionato a precisi adempimenti, in mancanza dei quali detti materiali vanno considerati, comunque, cose di cui il detentore ha l'intenzione di disfarsi, con l'ulteriore conseguenza che la giacenza del materiale (a maggior ragione se, come nella specie, in una sede diversa dal luogo di produzione del rifiuto) integra la fase dello stoccaggio e pone il problema della permanenza del rifiuto.
5.2. Quanto poi al requisito della certezza dell'utilizzo del sottoprodotto, si richiede che sia "certo che la sostanza o l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi".
Sebbene la norma del 2008 indicasse espressamente il momento della produzione come quello in cui deve sussistere la certezza del riutilizzo, richiedendo che fosse anche preventivamente individuato il processo di produzione o di utilizzazione in cui questo deve avvenire, la dottrina ha segnalato come tali condizioni, quantunque non replicate con la novella del 2010, siano da ritenersi implicite nel sistema.
E' stato infatti osservato che
solo la fase della produzione è quella in cui, a seconda del comportamento o delle intenzioni del produttore, si può stabilire se egli si disfi o abbia intenzione di disfarsi della sostanza, nel qual caso si è in presenza di un rifiuto ovvero intenda procedere ad un riutilizzo di essa all'interno del circuito produttivo, nel qual caso, ricorrendo tutte le altre condizioni, si è in presenza di un sottoprodotto e tale opzione deve emergere, senza soluzione di continuità, nel momento della produzione e non può subentrare dopo che la sostanza abbia assunto la natura di rifiuto, con la conseguenza che, dovendosi individuare nel momento della produzione quello in cui vanno verificate le condizioni perché possa parlarsi di sottoprodotto, è evidente che ciò non può che avvenire prima del suo utilizzo e che quest'ultimo deve essere preventivamente individuato e programmato, a prescindere dall'espressa previsione normativa.
La questione è strettamente collegata con quella della prova della certezza del riutilizzo e, per le ragioni in precedenza enunciate, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel ritenere che,
in materia di gestione dei rifiuti, ai fini della qualificazione come sottoprodotto di sostanze e materiali incombe sull'interessato l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza ed effettività, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo, trattandosi di disciplina avente natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Sez. 3, n. 3202 del 02/10/2014, dep. 2015, Giaccari, Rv. 262129; Sez. 3,n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241504).
Nel caso in esame, siccome è incontroverso che sin dall'inizio il fresato non dovesse essere utilizzato per intero, è invece certo che una parte cospicua di esso (pari al 45%) non sarebbe stata riutilizzata e perciò costituiva a tutti gli effetti un rifiuto.
Pertanto, non potendo la certezza dell'utilizzo subentrare dopo che la sostanza aveva già assunto la natura di rifiuto, è apparso, a ragione, irrilevante che, con la perizia di variante approvata soltanto il 17.12.2008 (cioè quando i lavori andavano avanti ormai da tempo e un gran numero di trasporti di fresato a Marzaloi erano stati eseguiti), si era stabilito, quale compensazione per la riduzione al 20% del fresato da riutilizzare nella nuova pista, l'impiego del restante fresato per la realizzazione delle "strips" (fasce laterali rispetto alla pista in senso stretto) mischiandolo e costipandolo con altro materiale inerte: la variante non poteva evidentemente mutare, a posteriori, le caratteristiche del materiale già abbandonato e costituente a tutti gli effetti rifiuto, anche nell'ipotesi che esso fosse stato poi effettivamente impiegato per il nuovo uso deciso successivamente.
5.3. A seguito del decreto legislativo n. 205 del 2010, la lettera c) del primo comma dell'articolo 184-bis prevede che "la sostanza o l'oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale".
Anche questa ulteriore e necessaria condizione è stata ritenuta mancante nel senso che il fresato non poteva essere riutilizzato "tal quale", dovendo invece essere sottoposto, almeno per la quota da riutilizzare come componente della nuova pista, a un trattamento diverso dalla normale pratica industriale che ne mutava in modo radicale le caratteristiche.
In altri termini, ai fini del suo riutilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso, il fresato non veniva impiegato "tal quale" ma era sottoposto, nel caso di specie, a una lavorazione a caldo che, attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale del tutto diverso da quello originario. E ciò avveniva affinché il prodotto derivato potesse soddisfare le specifiche caratteristiche merceologiche richieste per l'asfalto della nuova pista aeroportuale, caratteristiche che il fresato "tal quale" non aveva.
Quindi, non risulta dimostrato, anzi è emerso l'esatto contrario, che il fresato di asfalto fosse stato o potesse essere utilizzato direttamente, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla "normale pratica industriale".
Tale ultima nozione non può infatti ricomprendere, come ha chiarito la giurisprudenza di legittimità, quelle attività che comportano trasformazioni così radicali del materiale trattato tanto da stravolgerne l'originaria natura (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busé, in motiv.), al pari di quelle che si risolvono, come nel caso di specie, in una vera e propria attività di recupero di rifiuti.
Invero, dall'accertamento di merito contenuto nella sentenza impugnata, è risultato evidente che i materiali derivanti dalla scarificazione della vecchia pista aeroportuale non venivano utilizzati direttamente, poiché erano sottoposti ad una specifica procedura di "trattamento", la cui nozione è ricavabile dal d.lgs. n. 36 del 2003, art. 2, comma 1, lett. h) "Attuazione della direttiva 1999/31/CE relativa alle discariche di rifiuti" e si riferisce ai "processi fisici, termici, chimici o biologici, incluse le operazioni di cernita, che modificano le caratteristiche dei rifiuti, allo scopo di ridurne il volume o la natura pericolosa, di facilitarne il trasporto, di agevolare il recupero o di favorirne lo smaltimento in condizioni di sicurezza", con la conseguenza che tale attività comporta un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza trattata, sicché, se tale è il "trattamento", anche operazioni di minor impatto sul residuo, definite "mininnali", individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione, ne determinano una modificazione dell'originaria consistenza, rientrando in tale concetto (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in motiv.).
Essendo pertanto questa la nozione di "trattamento" da considerare ai fini dell'individuazione della sussistenza dei requisiti di cui al d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis, la giurisprudenza di legittimità ha osservato che
la verifica -diretta ad accertare quando detto trattamento possa ritenersi rientrante nella normale pratica industriale- implica il ricorso ad un'interpretazione meno estensiva dell'ambito di operatività della disposizione in esame e tale da escludere dal novero della normale pratica industriale tutti gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale esso viene utilizzato.
Tale lettura della norma, suggerita dalla dottrina e che considera conforme alla normale pratica industriale quelle operazioni che l'impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire, è sembrata maggiormente rispondente ai criteri generali di tutela dell'ambiente cui si ispira la disciplina in tema di rifiuti, rispetto ad altre pur autorevoli opinioni che, ampliando eccessivamente il concetto, rendono molto più incerta la delimitazione dell'ambito di operatività della disposizione e più alto il rischio di una pratica applicazione che ne snaturi, di fatto, le finalità, con la precisazione che tale soluzione interpretativa, in ogni caso, non può prescindere da un puntuale accertamento in fatto da parte del giudice del merito, il quale dovrà necessariamente analizzare tutti gli aspetti significativi della vicenda processuale che consentano di verificare la effettiva sussistenza dei presupposti di applicabilità della disciplina prevista per i sottoprodotti (Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, cit. in motiv.).
A tale delicato compito non si sono sottratti, nel caso di specie, il Giudici del merito che, in considerazione del trattamento subito dal fresato di asfalto, hanno desunto la mancanza di questo altro e fondamentale requisito richiesto dal d.lgs. n. 152 del 2006, articolo 184-bis per la configurazione del sottoprodotto.
Sotto quest'ultimo aspetto, va sottolineato come il precitato decreto ministeriale n. 264 del 2016 abbia fornito, all'articolo 6 (Utilizzo diretto senza trattamenti diversi dalla normale pratica industriale), indicazioni non contrastanti con l'interpretazione giurisprudenziale del concetto di normale pratica industriale, laddove ha precisato, al comma 1, che, ai fini e per gli effetti dell'articolo 4, comma 1, lettera c), non costituiscono normale pratica industriale i processi e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell'oggetto idonee a soddisfare, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e a non portare a impatti complessivi negativi sull'ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo, secondo quanto disposto al comma 2.
In base al quale, invece, rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo, anche se progettate e realizzate allo specifico fine di rendere le caratteristiche ambientali o sanitarie della sostanza o dell'oggetto idonee a consentire e favorire, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e a non portare ad impatti complessivi negativi sull'ambiente (articolo 6, comma 2, DM n. 264 del 2016).
Ciò posto, in disparte la questione della natura certamente non integrativa della norma penale di tale decreto,
appare chiaro come la definizione di normale pratica industriale appaia coerente con la tesi più restrittiva espressa in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, giacché si esclude che possano rientrare in quella nozione "i processi e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell'oggetto idonee a soddisfare, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti", comprese dunque le operazioni cd. minimali, salvo che non costituiscano parte integrante del ciclo di produzione del residuo in modo che sia garantito l'utilizzo del sottoprodotto "tal quale" (cioè nello stesso stato in cui è generato dal processo di produzione), circostanza che i giudici del merito, con logica ed adeguata motivazione, hanno correttamente escluso.
5.4. Conclusivamente, nel caso in questione, i ricorrenti, da una parte, non hanno assolto l'onere della prova, sugli stessi incombente, circa l'osservanza di tutte le condizioni richieste dall'articolo 184-bis d.lgs. n. 152 del 2006 per ritenere che il fresato di asfalto, ricavato dalle operazioni di scarificazione della vecchia pista aeroportuale, potesse rientrare nella categoria del sottoprodotto, fermo restando che costituisce una quaestio facti, demandata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità se giuridicamente corretta e se sorretta, come nella specie, da adeguata motivazione esente da vizi di manifesta illogicità, quella diretta a stabilire se una sostanza abbia o meno natura di sottoprodotto o di rifiuto.
6. Esclusa la natura di sottoprodotto del fresato di asfalto reiteratamente trasportato da Elmas a Capoterra nell'impianto di Marzolai, devono ritenersi manifestamente infondati anche gli altri due motivi di impugnazione articolati dal ricorrente Me..
A dimostrazione della loro manifesta infondatezza, va ricordato che
il delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) sanziona una pluralità di condotte che si risolvono in una qualunque delle operazioni tassativamente elencate dalla norma consistenti nella cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione e, in ogni caso, nella gestione abusiva dei rifiuti e che devono realizzarsi nel contesto di una struttura organizzata tendenzialmente destinata ad operare con continuità.
Trattasi di un reato abituale, che si perfeziona soltanto attraverso la realizzazione di più comportamenti non occasionali della stessa specie, finalizzati al conseguimento di un ingiusto profitto, con la necessaria predisposizione di una, pur rudimentale, organizzazione professionale di mezzi e capitali, che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo (Sez. 3, n. 52838 del 14/07/2016, Serrao, Rv. 268920; Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Bettelli, Rv. 265573; Sez. 3, n. 46705 del 03/11/2009, Caserta, Rv. 245605). La norma incriminatrice, poi, non si limita a punire l'illecita gestione organizzata, ma richiede in aggiunta che le condotte di gestione siano connotate dal requisito dell'abusività.
Dal testo della sentenza impugnata risulta e non è controverso che, per i trasporti e la gestione del fresato in questione, le imprese appaltatrici non avessero richiesto e tanto meno ottenuto alcuna autorizzazione.
Non è nemmeno contestabile che il fresato in questione, da qualificare come rifiuto, fosse oggetto di un traffico e che i quantitativi interessati siano stati ingenti.
La Corte di appello è pervenuta a tale conclusione, come già in precedenza anticipato, sulla base dei numerosi "report" dei camionisti attestanti il conferimento del fresato all'impianto di Marzaloi nonché sulla base delle dichiarazioni del teste De An. e dell'imputato Me., che hanno offerto un quadro sufficientemente preciso del traffico di fresato di asfalto tra il cantiere aeroportuale di Elmas e l'impianto di Marzaloi (pagina 14 e 15 della sentenza impugnata).
Il carattere ingente dei rifiuti trasportati abusivamente è stato desunto dagli stessi quantitativi indicati principalmente dai report degli autotrasportatori, essendo risultato che il fresato trasportato abusivamente era pari a ben 17.500 metri cubi.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso che
l'ingente quantitativo dei rifiuti, necessario a configurare il delitto di attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti deve riferirsi al quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità (Sez. 3, n. 46950 del 11/10/2016, Sepe, Rv. 268667; Sez. 3, n. 12433 del 15/11/2005, dep. 2006, Costa, Rv. 234009; Sez. 3, n. 40827 del 06/10/2005, Carretta, Rv. 232348).
E' stato poi ritenuto indiscutibile il carattere organizzato e sistematico di tale traffico, trattandosi di trasporti strumentali all'esecuzione di uno specifico e grosso appalto, che richiedeva la movimentazione seriale, coordinata e per un tempo non breve di un gran numero di uomini e di mezzi oltre che di quantitativi ingenti di materiali qualificabili come rifiuti.
La Corte del merito ha infine dato atto come l'elemento soggettivo del delitto in contestazione non sia stato posto in discussione, almeno in termini espressi, in alcuno dei due gravami e, quanto all'ingiusto, profitto, ha osservato come l'effettuazione dei trasporti in forma abusiva sgravasse le società appaltatrici dagli oneri, rilevanti sia sul piano finanziario che su quello amministrativo e burocratico, connessi alla regolarizzazione della movimentazione del fresato. Si trattò di un risparmio significativo anche in ragione dell'esigenza di portare a termine con celerità lavori così importanti e urgenti come quelli di riqualificazione dell'aeroporto internazionale di Cagliari-Elmas (pag. 15 e 16 della sentenza impugnata).
Tale conclusione è perfettamente in linea con l'indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale,
per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (Sez. 3, n. 40828 del 06/10/2005, Fradella, Rv. 232351), potendo infatti essere costituito anche da vantaggi non patrimoniali o comunque da un complessivo risparmio dei costi aziendali (Sez. 4, n. 28158 del 02/07/2007, Costa, Rv. 236907).
Al cospetto di ciò, le obiezioni del ricorrente si connotano, oltre che per la loro manifesta infondatezza, anche per la portata tipicamente fattuale, laddove il ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione, ha introdotto censure di merito che non possono rientrare nell'orizzonte cognitivo del giudice di legittimità, non potendosi devolvere alla Corte di cassazione doglianze con le quali, deducendosi apparentemente una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretende, invece, una rivisitazione del giudizio valutativo sul materiale probatorio, operazione non consentita nel giudizio di cassazione all'interno del quale non è possibile innestare censure che implicano la soluzione di questioni fattuali, adeguatamente e logicamente risolte, come nel caso in esame, dal giudice del merito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.11.2017 n. 53136).

APPALTI: Se le richieste di chiarimenti delle imprese sono tempestive e rilevanti, la proroga del termine di presentazione delle offerte è atto dovuto.
Quando le richieste di chiarimento sono tempestive ed impongono informazioni supplementari significative, la proroga del termine di presentazione delle offerte è atto doveroso, in quanto non necessitante di valutazioni comparative fra gli interessi pubblici e privati coinvolti.
E’ pur vero che il presupposto fattuale, ossia la significatività della questione oggetto di quesito, implica apprezzamenti soggettivi, ma ciò è comune a tutti i provvedimenti vincolati che abbiano a presupposto un fatto, al ricorrere del quale il legislatore riconnette il doveroso esercizio del potere.
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A mente dell’art. 79, comma 3, del dlgs 50/2016 “Le stazioni appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle offerte in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie alla preparazione delle offerte nei casi seguenti: a) se, per qualunque motivo, le informazioni supplementari significative ai fini della preparazione di offerte adeguate, seppur richieste in tempo utile dall'operatore economico, non sono fornite al più tardi sei giorni prima del termine stabilito per la ricezione delle offerte……”.
La disposizione si limita a fissare l’obbligo di proroga del termine in caso di mancata risposta dell’amministrazione ai quesiti (rilevanti e significativi) nel termine contestualmente dato. La mancata risposta è dunque l’evento omissivo che autorizza gli offerenti a confidare nella proroga, o comunque a considerarla plausibile.
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E’ pur verso che l’art. 74, comma 4, del D.Lgs. 50/2016 statuisce “Sempre che siano state richieste in tempo utile, le ulteriori informazioni sul capitolato d'oneri e sui documenti complementari sono comunicate dalle stazioni appaltanti a tutti gli offerenti che partecipano alla procedura d'appalto almeno sei giorni prima della scadenza del termine stabilito per la ricezione delle offerte”.
Tuttavia la norma dev’essere letta in uno con quella dettata dall’art. 79, comma 5, in forza della quale –deve ritenersi- anche quando le informazioni supplementari non sono state richieste in tempo utile le amministrazioni aggiudicatrici possono (questa volta) discrezionalmente valutare la proroga.
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1. Secondo l’appellante, l’art. 79, comma 3, del D.Lgs. n. 50/2016 consentirebbe di escludere che la proroga del termine di presentazione delle offerte sia un atto a contenuto vincolato, atteso che esso –contrariamente a quanto sostenuto dal TAR– riconosce all’Amministrazione il potere di non prorogare i termini di gara in caso di quesiti insignificanti. In ogni caso il difetto di motivazione, censurato con il ricorso introduttivo in primo grado, non rientrerebbe tra le “violazioni di norme sul procedimento” contemplate dall’art. 21-octies, comma 2, della legge 241/1990.
1.1. Il motivo non è fondato.
Come sottolineato dal primo giudice, quando le richieste di chiarimento sono tempestive ed impongono informazioni supplementari significative, la proroga del termine di presentazione delle offerte è atto doveroso, in quanto non necessitante di valutazioni comparative fra gli interessi pubblici e privati coinvolti. E’ pur vero che il presupposto fattuale, ossia la significatività della questione oggetto di quesito, implica apprezzamenti soggettivi, ma ciò è comune a tutti i provvedimenti vincolati che abbiano a presupposto un fatto, al ricorrere del quale il legislatore riconnette il doveroso esercizio del potere.
1.2. Non convincente è poi il tema di indagine –suggerito dall’appellante– circa la sussumibilità del vizio di motivazione nei cd. vizi formali di cui all’art. 21-octies. La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che per gli atti vincolati è sufficiente che in concreto sussistano i presupposti per provvedere richiesti dalla legge, essendo sempre possibile per l'amministrazione, anche alla luce della norma di cui all'art. 21-octies, comma 2, L. 07.08.1990, n. 241, dimostrarne, pure in giudizio, l'esistenza (da ultimo Cons. Stato Sez. V, 29.04.2016, n. 1645). Da qui l’irrilevanza del vizio se inteso in senso meramente formale.
2. Con ulteriore motivo l’appellante sostiene che, nell’affermare la legittimità del provvedimento impugnato, il Giudice di prime cure avrebbe altresì omesso di considerare che la proroga è stata disposta a ridosso della scadenza del termine di presentazione delle offerte, quando i concorrenti ormai confidavano legittimamente che l’Amministrazione non avesse intenzione di fornire alcun ulteriore chiarimento.
Nel delineato contesto, il TAR avrebbe omesso di considerare che la singolare tempistica prevista dall’art. 79, comma 3, lett. a), del nuovo codice appalti (sei giorni prima del termine di presentazione delle offerte) avrebbe dovuto radicare in capo all’Amministrazione un consistente obbligo motivazionale in ordine alle ragioni per cui le integrazioni informative dovessero considerarsi talmente significative per la presentazione di offerte adeguate, da rendere necessaria una tardiva risposta ai quesiti.
2.1. Anche questo motivo è infondato.
A mente dell’art. 79, comma 3, cit. “Le stazioni appaltanti prorogano i termini per la ricezione delle offerte in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie alla preparazione delle offerte nei casi seguenti: a) se, per qualunque motivo, le informazioni supplementari significative ai fini della preparazione di offerte adeguate, seppur richieste in tempo utile dall'operatore economico, non sono fornite al più tardi sei giorni prima del termine stabilito per la ricezione delle offerte……”.
La disposizione si limita a fissare l’obbligo di proroga del termine in caso di mancata risposta dell’amministrazione ai quesiti (rilevanti e significativi) nel termine contestualmente dato. La mancata risposta è dunque l’evento omissivo che autorizza gli offerenti a confidare nella proroga, o comunque a considerarla plausibile, ossia il contrario di quanto sostenuto dall’appellante.
3. Con un terzo motivo di gravame l’appellante deduce l’erroneità delle statuizioni rese dal Giudice di prime cure nella parte in cui, per dimostrare la legittimità delle determinazioni assunte dall’amministrazione, evidenziano la presenza di richieste di chiarimenti tardive, di contenuto rilevante ai fini della presentazione dell’offerta.
Sul punto l’appellante contesta in primis la tesi del TAR secondo la quale la sanzione dell’inammissibilità –prevista dalla lex specialis– andrebbe riferita alle modalità di formulazione delle richieste di chiarimenti (i.e., tramite pec) e non ai tempi. In ogni caso, anche a voler considerare in via eccezionale e derogatoria la richiesta tardiva ammissibile, la motivazione della proroga –questa volta discrezionale ai sensi del comma 5 dell’art. 79 cit.– avrebbe dovuto essere molto più corposa e rigorosa.
3.1. Anche questo motivo è infondato.
E’ pur verso che l’art. 74, comma 4, del D.Lgs. 50/2016 -espressamente richiamato dalle disposizioni del disciplinare riguardanti i “Chiarimenti”- statuisce in che “Sempre che siano state richieste in tempo utile, le ulteriori informazioni sul capitolato d'oneri e sui documenti complementari sono comunicate dalle stazioni appaltanti a tutti gli offerenti che partecipano alla procedura d'appalto almeno sei giorni prima della scadenza del termine stabilito per la ricezione delle offerte”. Tuttavia la norma dev’essere letta in uno con quella dettata dall’art. 79, comma 5, in forza della quale –deve ritenersi- anche quando le informazioni supplementari non sono state richieste in tempo utile le amministrazioni aggiudicatrici possono (questa volta) discrezionalmente valutare la proroga.
Alla luce di ciò appare non dirimente stabilire se la sanzione di cui al disciplinare di gara sia riferita alle modalità di inoltro della richiesta di chiarimenti, ovvero ai tempi della stessa, atteso che –come del resto già chiarito dal primo giudice– il disciplinare dev’essere comunque “interpretato sistematicamente rispetto alla possibilità ammessa dalla legge di dare evasione anche alle richieste di chiarimenti tardive”.
3.2. Quanto alla congruità e sufficienza della motivazione è lo stesso appellante a riconoscere che “In effetti, attraverso tali chiarimenti l’Amministrazione, a fronte di un importo complessivo pari a 11.000.000 annui (in parte costituito, per 3.000.000 annui, da prestazioni da rendere a pazienti extraregionali), ha ammesso che il ribasso dovesse applicarsi esclusivamente per la quota parte riferibile ai pazienti liguri (i.e., 800.000.000 annui)”. L’importanza del chiarimento era cioè così rilevante ed assorbente, da non ammettere, in concreto, ipotesi alternative.
4. Da ultimo l’appellante contesta le conclusioni rassegnate dai giudici di primo grado in punto di pubblicità della proroga, in quanto la modifica di elementi fondamentali della procedura di gara –quali il termine per la presentazione delle offerte e la definizione della base d’asta su cui dovevano essere applicati gli sconti– avrebbe dovuto essere disposta con modalità analoghe a quelle utilizzate per la pubblicazione del bando o comunque tramite comunicazione diretta a tutti i soggetti partecipanti, pena la grave violazione della par condicio dei concorrenti.
4.1. La censura non è in grado di incrinare le condivisibili argomentazioni adoperate dal primo giudice, dirette ad evidenziare l’obbligo, stabilito dal disciplinare a carico dei “concorrenti”, di impegnarsi a verificare durante tutto l’esperimento della procedura di gara il sito internet della stazione appaltante con specifico riferimento ai chiarimenti.
Del resto non trattavasi di provvedimenti individuali di carattere impeditivo o ablatorio, quanto di provvedimenti ampliativi delle possibilità partecipative, diretti a tutti i partecipanti (
Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 22.11.2017 n. 5424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di lottizzazione abusiva - Realizzazione di uno stabile insediamento abitativo - Campeggio - Attività autorizzata - Impatto negativo sull'assetto territoriale" - Artt. 3 e 30 d.P.R. n. 380/2001.
L'esistenza di un'attività, sia pure autorizzata, di campeggio e similare (come nel caso di specie) non è incompatibile con la figura del reato di lottizzazione abusiva, ove la stessa venga radicalmente mutata in uno stabile insediamento abitativo e di rilevante impatto negativo sull'assetto territoriale.
Pertanto, non è sufficiente limitarsi a prendere atto del dato meramente formale dell'esistenza delle autorizzazioni richieste per ritenere che l'area sia legittimamente destinata a "campeggio", competendo ai Giudici di merito accertare che non vi sia stato, attraverso la realizzazione di uno stabile insediamento abitativo, uno stravolgimento dell'assetto del territorio (Cass. sez. 4 n. 13496 del 15/02/2017).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Lottizzazione abusiva - Natura di reato progressivo - Atti di frazionamento o opere già eseguite - Configurabilità - Momento consumativo del reato - Giurisprudenza.
La contravvenzione di lottizzazione abusiva configura un reato progressivo nell'evento che sussiste anche quando l'attività posta in essere sia successiva agli atti di frazionamento o ad opere già eseguite, atteso che tali iniziali attività, pur integrando la configurazione del reato, non esauriscono il percorso criminoso che si protrae con gli interventi successivi, incidenti sull'assetto urbanistico. Ne consegue che il momento consumativo o perdura nel tempo fino a quando l'offesa tipica raggiunge, attraverso un passaggio graduale da uno stadio determinato ad un altro successivo, una sempre maggiore gravità (Cass. sez. 3 n. 24985 del 20/05/2015; sez. 3 n. 15289 del 25/02/2004).
Pertanto, il reato di lottizzazione abusiva non può rientrare, "né nella categoria del reato istantaneo con effetti permanenti, in quanto si ha una successione di varie condotte che si protraggono nel tempo e che sono strettamente collegate tra loro dal punto di vista finalistico e causale, né nella categoria del reato continuato poiché non si ha "a parte rei" una pluralità di illeciti penali unificati nel medesimo disegno criminoso, quanto piuttosto una pluralità di condotte realizzate da soggetti diversi o dal medesimo soggetto senza che, in tale ultimo caso, si realizzi un concorso di reati (di lottizzazione) quanto piuttosto ... uno spostamento in avanti del momento consumativo del reato stesso" (Cass. Sez. 3 n. 25182 del 07/03/2014) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.11.2017 n. 52827 - tratto da e link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: La gara telematica rispetto ad una tradizionale gara d'appalto offre il vantaggio di una maggiore sicurezza nella "conservazione" dell'integrità delle offerte.
La gestione telematica della gara offre il vantaggio di una maggiore sicurezza nella "conservazione" dell'integrità delle offerte in quanto permette automaticamente l'apertura delle buste in esito alla conclusione della fase precedente e garantisce l'immodificabilità delle stesse, nonché la tracciabilità di ogni operazione compiuta; inoltre, nessuno degli addetti alla gestione della gara potrà accedere ai documenti dei partecipanti, fino alla data e all'ora di seduta della gara, specificata in fase di creazione della procedura. Le stesse caratteristiche della gara telematica escludono in radice ed oggettivamente la possibilità di modifica delle offerte.
Infatti, le fasi di gara seguono una successione temporale che offre garanzia di corretta partecipazione, inviolabilità e segretezza delle offerte e i sistemi provvedono alla verifica della validità dei certificati e della data e ora di marcatura; l'affidabilità degli algoritmi di firma digitale e marca temporale garantiscono la sicurezza della fase di invio/ricezione delle offerte in busta chiusa. Nella gara telematica la conservazione dell'offerta è affidata allo stesso concorrente, garantendo che questa non venga, nelle more, modificata proprio attraverso l'imposizione dell'obbligo di firma e marcatura nel termine fissato per la presentazione delle offerte (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.11.2017 n. 5388 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Legislazione emergenziale e titoli abilitativi - Necessità di comunicazione/iscrizione - D.Lgs. 172/2008 - D.Lgs. 4/2008 - Art. 212, c. 8, d.Lgs.152/2006.
In tema di legislazione emergenziale sui rifiuti, la disgiuntiva "o" dell'art. 6, lett. d), d.Lgs. 172/2008 tra "iscrizione" o "comunicazione" non autorizza a ritenere che questa possa surrogare la prima, ma solo che vi siano dei casi in cui è possibile la sola comunicazione e dei casi in cui sia necessaria l'iscrizione, con la sanzione per la relativa assenza.
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Trasporto di rifiuti speciali in assenza della relativa iscrizione o autorizzazione - Iscrizione all'albo - Necessità - Art. 212, d.Lgs. 152/2006.
Per poter esercitare legittimamente le operazioni di raccolta e trasporto da parte degli appartenenti alla categoria prevista, è necessaria l'iscrizione all'albo, provvedimento rispetto a cui la comunicazione costituisce solo un presupposto necessario che però non produce effetti equipollenti.
Ed invero, l'art. 212, d.Lgs. 152/2006, prevede al comma 8 che "I produttori iniziali di rifiuti non pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti, nonché i produttori iniziali di rifiuti pericolosi che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti pericolosi in quantità non eccedenti trenta chilogrammi o trenta litri al giorno, non sono soggetti alle disposizioni di cui ai commi 5, 6, e 7 a condizione che tali operazioni costituiscano parte integrante ed accessoria dell'organizzazione dell'impresa dalla quale i rifiuti sono prodotti. Detti soggetti non sono tenuti alla prestazione delle garanzie finanziarie e sono iscritti in un'apposita sezione dell'albo in base alla presentazione di una comunicazione alla sezione regionale o provinciale dell'albo territorialmente competente che rilascia il relativo provvedimento entro i successivi trenta giorni".
Ciò significa che nel caso specifico è necessaria l'iscrizione che non può essere surrogata dalla mera comunicazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2017 n. 52632 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Le condanne devono essere dichiarate tutte, anche se vecchie e per fatti depenalizzati.
La segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, al fine dell'inserimento di un'annotazione nel casellario informatico delle imprese, si configura come atto prodromico ed endoprocedimentale e, come tale, non impugnabile, poiché esso non è dotato di autonoma lesività, potendo essere fatti valere eventuali suoi vizi, unicamente in via derivata, impugnando il provvedimento finale dell'Autorità di vigilanza, unico atto avente natura provvedimentale e carattere autoritativo, stante peraltro che l'impresa concorrente potrebbe ritenere non pregiudizievole dei propri interessi l'esclusione dalla specifica gara ma lesivi gli effetti connessi all'annotazione nel casellario informatico, non ricorrendone i presupposti di legge.
Peraltro, va altresì ricordato come la segnalazione del provvedimento di esclusione all'Autorità di vigilanza e la conseguente annotazione costituiscano atti dovuti.

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Nelle procedure di evidenza pubblica la incompletezza delle dichiarazioni lede di per sé il principio di buon andamento dell'amministrazione, inficiando ex ante la possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara.
Una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi tutelati, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no di partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio all'Amministrazione una valutazione ex ante in ordine alla gravità dei reati non dichiarati; si tratta pertanto di un comportamento tutt'altro che innocuo in quanto priva di certezza la decisione compiuta dalla stazione appaltante in ordine all'ammissione delle imprese che hanno omesso di dichiarare condanne.
Nelle gare pubbliche, nel caso di omessa dichiarazione di condanne penali riportate dal concorrente, è legittimo il provvedimento di esclusione non sussistendo in capo alla stazione appaltante l'ulteriore obbligo di vagliare la gravità del precedente penale di cui è stata omessa la dichiarazione, conseguendo il provvedimento espulsivo alla omissione della prescritta dichiarazione, che invece deve essere resa completa ai fini dell'attestazione del possesso dei requisiti di ordine generale con particolare riferimento alla lett. c) del comma 1 dell'art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e deve contenere tutte le sentenze di condanna subite, a prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione con il requisito della moralità professionale, la cui valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante.
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2. Passando all’analisi del merito dell’appello, lo stesso appare fondato nei termini già evidenziati in sede cautelare.
Entrambi gli elementi posti a fondamento della sentenza impugnata risultano correttamente censurati: sia sul punto della sopraggiunta depenalizzazione, in quanto è pacifico che il legale rappresentante dell’impresa odierna appellata abbia subito le numerose condanne di cui ai decreti penali contestati e che non le abbia dichiarate; sia sul punto della buona fede, attesa la piena consapevolezza in ordine al fatto di aver subito le condanne oggetto di contestazione.
Dal punto di vista del quadro normativo applicato ex dPR 207/2010, i presupposti dell’annotazione emergono nella specie alla luce dell’art. 8, comma 2, lett. s): “falsità nelle dichiarazioni rese in merito ai requisiti e alle condizioni rilevanti per la partecipazione alle procedure di gara e per l'affidamento dei subappalti”.
La medesima norma distingue l’operatività delle singole ipotesi di annotazione nel casellario informatico: mentre alcuni dati sono inseriti da parte delle SOA, secondo le modalità telematiche previste dall'Autorità; altri, fra cui quelli di cui alla lettera s), sono inseriti, a cura dell'Autorità, a seguito di segnalazioni da parte delle amministrazioni aggiudicatrici.
In materia la giurisprudenza (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 12/06/2012, n. 3428) ha evidenziato come la segnalazione all'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, al fine dell'inserimento di un'annotazione nel casellario informatico delle imprese, si configura come atto prodromico ed endoprocedimentale e, come tale, non impugnabile, poiché esso non è dotato di autonoma lesività, potendo essere fatti valere eventuali suoi vizi, unicamente in via derivata, impugnando il provvedimento finale dell'Autorità di vigilanza, unico atto avente natura provvedimentale e carattere autoritativo, stante peraltro che l'impresa concorrente potrebbe ritenere non pregiudizievole dei propri interessi l'esclusione dalla specifica gara ma lesivi gli effetti connessi all'annotazione nel casellario informatico, non ricorrendone i presupposti di legge. Peraltro, va altresì ricordato come la segnalazione del provvedimento di esclusione all'Autorità di vigilanza e la conseguente annotazione costituiscano atti dovuti (cfr. ex multis sez. VI, 23/05/2012, n. 3002).
Nella fattispecie in esame l’Autorità ha fatto buon governo del potere richiamato. Infatti, è pacifico che il legale rappresentante abbia reso una dichiarazione non veritiera, e quindi falsa nei termini rilevanti ai fini della norma richiamata, in quanto non attestante le diverse condanne subite. Altrettanto evidente è l’assenza dell’invocata buona fede, in specie in relazione alla piena consapevolezza del soggetto in ordine alla circostanza di aver subito tali condanne; al riguardo, l’aver prodotto un certificato che, per le proprie caratteristiche giuridicamente note agli operatori del settore, non poteva contenere il riferimento alle predette condanne, lungi dal dimostrare la buona fede può assumere rilievo nei termini opposti, quale tentativo di evitare il riferimento a condanne storicamente consolidate, seppur concernenti reati oggetto di successiva depenalizzazione legislativa.
In linea generale va ricordato che nelle procedure di evidenza pubblica la incompletezza delle dichiarazioni lede di per sé il principio di buon andamento dell'amministrazione, inficiando ex ante la possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in ordine all'ammissione dell'operatore economico alla gara; una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi tutelati, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti o no di partecipare alla procedura competitiva; peraltro l'omessa dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio all'Amministrazione una valutazione ex ante in ordine alla gravità dei reati non dichiarati; si tratta pertanto di un comportamento tutt'altro che innocuo in quanto priva di certezza la decisione compiuta dalla stazione appaltante in ordine all'ammissione delle imprese che hanno omesso di dichiarare condanne.
Nelle gare pubbliche, nel caso di omessa dichiarazione di condanne penali riportate dal concorrente, è legittimo il provvedimento di esclusione non sussistendo in capo alla stazione appaltante l'ulteriore obbligo di vagliare la gravità del precedente penale di cui è stata omessa la dichiarazione, conseguendo il provvedimento espulsivo alla omissione della prescritta dichiarazione, che invece deve essere resa completa ai fini dell'attestazione del possesso dei requisiti di ordine generale con particolare riferimento alla lett. c) del comma 1 dell'art. 38, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 e deve contenere tutte le sentenze di condanna subite, a prescindere dalla entità del reato e dalla sua connessione con il requisito della moralità professionale, la cui valutazione compete esclusivamente alla stazione appaltante (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. V, 28/09/2015, n. 4511).
Ciò non può che valere a maggior ragione in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’annotazione di competenza dell’autorità odierna appellante, in quanto concernente l’estensione dei predetti principi al settore degli appalti anche oltre la partecipazione alla singola gara in cui è stata resa la dichiarazione non veritiera.
3. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello è fondato e va accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata e rigetto del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.11.2017 n. 5331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Reato di falso ideologico nella valutazione tecnica - Limiti alla discrezionalità tecnica - Verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Pubblico ufficiale - Falso ideologico - Criteri di valutazione - Elementi per la configurabilità - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Attestato della compatibilità paesaggistica - Falsità dell'autorizzazione paesaggistica.
E' configurabile il reato di falso ideologico nella valutazione tecnica in un contesto implicante la valutazione e accettazione di parametri normativamente determinati (Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M. in proc. Pasteris e altri, non mass.; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro).
Se pure è vero che nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, come è nel caso di specie, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
In altri termini la discrezionalità tecnica è vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative con conseguente integrazione del reato di falso ideologico se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri normativi.
Nella specie, la valutazioni di compatibilità ambientale espressa nell'autorizzazione paesaggistica rilasciata era fondate su presupposti urbanistici contrastanti con i parametri normativi, giacché si rappresentava un intervento edilizio realizzato, previa cessione di cubatura in favore di un fondo agricolo su fascia costiera, senza destinazione agricola dell'intervento perché privo del requisito in capo al soggetto beneficiario, parametri che vengono anche in rilievo ai fini ambientali e sul giudizio di valorizzazione del sito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.11.2017 n. 52605 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianti di depurazione - INQUINAMENTO AMBIENTALE - Caratteristiche e configurabilità del delitto - Deterioramento significativo o compromissione ambientale altamente probabile - Art. 452-bis cod. pen. - Getto pericoloso di cose - Art. 674 cod. pen. - Art. 137, 256, d.lgs. n. 152/2006.
Il delitto di inquinamento ambientale, di cui all'art. 452-bis cod. pen., è reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento che, nel caso del "deterioramento", consiste in una riduzione della cosa che ne costituisce oggetto in uno stato tale da diminuirne in modo apprezzabile, il valore o da impedirne anche parzialmente l'uso, ovvero da rendere necessaria, per il ripristino, una attività non agevole, mentre, nel caso della "compromissione", consiste in uno squilibrio funzionale che attiene alla relazione del bene aggredito con l'uomo e ai bisogni o interessi che il bene medesimo deve soddisfare, e ai fini del sequestro preventivo (nel caso di depuratori) è sufficiente accertare il deterioramento significativo o la compromissione come altamente probabili, desunti dalla natura e dalla durata nel tempo degli scarichi abusivi.
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Configurabilità del reato di inquinamento ambientale - Art. 452-bis cod. pen. - Deterioramento ambientale significativo o altamente probabile - Reato di disastro ambientale di cui all'art. 452-quater c.p..
Ai fini della configurabilità del reato di inquinamento ambientale, di cui all'art. 452- bis cod. pen., non è richiesta una tendenziale irreversibilità del danno; ne consegue che le condotte poste in essere successivamente all'iniziale deterioramento o compromissione del bene non costituiscono un "post factum" non punibile, ma integrano invece singoli atti di un'unica azione lesiva che spostano in avanti la cessazione della consumazione, sino a quando la compromissione o il deterioramento diventano irreversibili, o comportano una delle conseguenze tipiche previste dal successivo reato di disastro ambientale di cui all'art. 452-quater dello stesso codice (Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017 - dep. 30/03/2017, Rizzo; conf. Sez. 3, n. 10515 del 27/10/2016 - dep. 03/03/2017, Sorvillo).
Sicché, il deterioramento significativo può ritenersi altamente probabile, in considerazione della natura degli scarichi (provenienti da depuratori che non depurano, anzi le acque in uscita sono peggiori delle acque in entrata, come motivatamente accertato dal provvedimento impugnato), della durata degli stessi e dalle misurazioni delle materie inquinanti «notevolmente superiori ai limiti di cui alla tabella 3, allegato 5, del d.lgs. 152/2006
».
INQUINAMENTO AMBIENTALE - DANNO AMBIENTALE - Condotta abusiva - Assenza di autorizzazione o autorizzazioni scadute o palesemente illegittime - Violazione di leggi statali o regionali ovvero di prescrizioni amministrative.
La condotta "abusiva" di inquinamento ambientale, idonea ad integrare il delitto di cui all'art. 452-bis cod. pen. (disposizione introdotta dalla legge 22.05.2015, n. 68), comprende non soltanto quella svolta in assenza delle prescritte autorizzazioni o sulla base di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime o comunque non commisurate alla tipologia di attività richiesta, ma anche quella posta in essere in violazione di leggi statali o regionali -ancorché non strettamente pertinenti al settore ambientale- ovvero di prescrizioni amministrative (fattispecie di inquinamento di acque marine, derivante da un'attività di bonifica di fondali effettuata in spregio delle relative prescrizioni progettuali) (Sez.3, n. 46170 del 21/09/2016 - dep. 03/11/2016, P.M. in proc. Simonelli; conf. Sez. 3, n. 15865 del 31/01/2017 - dep. 30/03/2017, Rizzo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.11.2017 n. 52436 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: SPESE PROCESSUALI/ Le più recenti pronunce della Corte di cassazione sul tema. Compenso unico per più parti. Se la posizione è identica e la difesa è dello stesso legale
In tema di liquidazione delle spese del giudizio in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dalla legge.

Così la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, con l'ordinanza 10.10.2017 n. 23729, che si inscrive nel novero di una serie di recenti pronunce in tema di spese processuali.
Vediamole.
PROCEDIMENTO PER DECRETO INGIUNTIVO E SPESE PROCESSUALI
Nel procedimento per decreto ingiuntivo, la fase che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto non costituisce un processo autonomo rispetto a quello che si apre con l'opposizione, ma dà luogo ad un unico giudizio, nel quale il regolamento delle spese processuali, che deve accompagnare la sentenza con cui è definito, va effettuato in base all'esito finale della lite, con instaurazione del contraddittorio che viene differita, per scelta proprio del creditore attore, al momento della notifica del decreto.
Ad affermarlo sono stati i giudici della VI Sez. civile - 2 della Corte di Cassazione con l'ordinanza 16.11.2017 n. 27234.
Tal momento segna, quindi, hanno aggiunto gli Ermellini, il prodursi, sotto il punto di vista sostanziale, della domanda giudiziale di adempimento, ed è al momento della notifica della domanda che il medesimo creditore deve valutare la permanenza del proprio interesse al processo, per essere tuttora fondata la sua pretesa, stante il mancato pagamento del debitore.
Nel caso in cui il debitore abbia provveduto all'integrale pagamento della sorte capitale anteriormente all'emissione del provvedimento monitorio, le spese processuali relative alla fase monitoria ben possono essere poste a carico dell'ingiungente, in quanto la fondatezza del decreto, ai fini del giudizio di soccombenza inerente alla liquidazione delle spese di lite, va comunque verificata non al momento del deposito del ricorso, ma a quello della notificazione del decreto.
Nella stessa pronuncia i giudici di piazza Cavour hanno, altresì, evidenziato che tale situazione risulta essere diversa, anche per un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza (si vedano: Cass. sez. 2, 10/01/1996, n. 164; Cass. sez. 1, 10/12/1984, n. 6485), dalla valutazione di soccombenza su cui poggia la regolamentazione delle spese processuali che si richiama alla riconducibilità causale, a fini risarcitori, alla mora debendi dell'intimato delle spese legali liquidate per un decreto ingiuntivo non notificato, a causa dell'intervenuto pagamento della somma capitale successivo alla richiesta di emissione.
SULLA COMPENSAZIONE DELLE SPESE DI LITE: LA NORMA È ELASTICA
Con altra ordinanza 26.09.2017 n. 22333 (Sez. III civile), poi, sempre i giudici della Suprema corte hanno ribadito che la norma di cui all'art. 92, comma 2 c.p.c., nella parte in cui consente al giudice di disporre la compensazione delle spese di lite allorché concorrano «gravi ed eccezionali ragioni», è norma elastica, che il legislatore ha previsto per adeguarla a un dato contesto storico-sociale o a speciali situazioni (non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche), cui anche l'oggettiva opinabilità delle questioni affrontate e l'oscillante soluzione ad esse data in giurisprudenza vanno invero ricondotte ove sintomo dell'atteggiamento soggettivo del soccombente, in quanto cioè ricollegabili alla considerazione delle ragioni che lo hanno indotto ad agire o a resistere in giudizio.
Il thema decidendum sottoposto all'attenzione della Cassazione, vedeva che con sentenza la Corte d'appello - quale giudice del rinvio disposto da Cassazione - ha respinto la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. dalla società Alfa srl (pure) spiegata nei confronti dei sigg. Tizio e Caio, per essersi costituiti nel giudizio di rinvio insistendo nelle eccezioni circa l'insussistenza nella specie dei diritti di prelazione e di riscatto dalla medesima vantati quale conduttrice di complesso immobiliare sito in (omissis), venduto all'asta pubblica nell'ambito di un giudizio di scioglimento della comunione tra i predetti sigg. Tizio e Caio -proprietari e locatori nonché acquirenti dello stesso- finalmente riconosciutile spettanti all'esito della cassazione come sopra disposta della precedente pronunzia di rigetto emessa dal giudice del gravame di merito.
Avverso la suindicata pronunzia del giudice del rinvio la società Alfa srl propone ricorso per Cassazione.
PIÙ PARTI IN CAUSA: QUANDO È DOVUTO UN UNICO COMPENSO
E infine, in tema di liquidazione delle spese del giudizio, i giudici della Corte di cassazione con l'ordinanza 10.10.2017 n. 23729 hanno sottolineato che in caso di difesa di più parti aventi identica posizione processuale e costituite con lo stesso avvocato, è dovuto un compenso unico secondo i criteri fissati dagli artt. 4 e 8 del dm n. 55 del 2014 (salva la possibilità di aumento nelle percentuali indicate dalla prima delle disposizioni citate), senza che rilevi la circostanza che il comune difensore abbia presentato distinti atti difensivi (art. 4 del dm cit.), né che le predette parti abbiano nominato, ognuna, anche altro (diverso) legale, in quanto la «ratio» della disposizione di cui all'art. 8, comma 1, del dm n. 55 del 2014, è quella di fare carico al soccombente solo delle spese nella misura della più concentrata attività difensiva quanto a numero di avvocati, in conformità con il principio della non debenza delle spese superflue, desumibile dall'art. 92, comma 1 c.p.c.
Nel caso di specie Tizio e Caio propongono ricorso per cassazione articolato in tre motivi avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione del tribunale, nei confronti di Sempronio, Tizietto e Beta srl, i quali resistono con distinti benché identici controricorsi.
Questa la vicenda: intrapresa una esecuzione immobiliare da Sempronio, quale legale rappresentante della Beta srl, nei confronti di Caietto e Sempronia e di Alfa, i debitori presentavano istanza di conversione del pignoramento; dopo il deposito di tale istanza, interveniva la Tiziolino per un cospicuo credito proprio; gli esecutati proponevano opposizione al provvedimento di conversione che teneva conto come tempestivo del credito della creditrice intervenuta nel determinare l'importo dovuto ai fini della conversione del pignoramento; il giudice dell'esecuzione, a definizione della fase sommaria, emetteva un provvedimento con il quale dichiarava inammissibile in quanto tardiva l'opposizione agli atti esecutivi, senza fissare un termine per l'inizio della fase di merito. Avverso questo provvedimento propongono ricorso per cassazione gli esecutati.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380-bis e 375 cod. proc. civ., su proposta del relatore, in quanto ritenuto inammissibile.
Il Collegio, all'esito della camera di consiglio, preso atto delle argomentazioni contenute nella memoria del ricorrente, ritiene di condividere la soluzione proposta dal relatore.
E pertanto, in applicazione di un principio di diritto ormai consolidato nella giurisprudenza, in tema di opposizione agli atti esecutivi, nel regime dell'art. 618, comma 2 c.p.c., l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione provvede a definire la fase sommaria, concedendo (o meno) i provvedimenti di cui al primo inciso del citato comma omettendo di fissare il termine perentorio per l'iscrizione a ruolo della causa di merito, non è impugnabile con il ricorso straordinario previsto dall'art. 111, comma 7, Cost., essendo priva del carattere della definitività.
Sottolineando che l'iscrizione della causa a ruolo ai fini della prosecuzione dell'opposizione ex art. 617 c.p.c. con la cognizione piena è ammissibile anche a prescindere dalla fissazione del predetto termine e, comunque, di esso può essere chiesta la fissazione al giudice dell'esecuzione, con istanza da proporsi ai sensi dell'art. 289 del codice di rito (si vedano: Cass. n. 25064 del 2015; in termini, Cass. n. 3082 del 2017) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.11.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il diniego di atti afferenti a un procedimento penale può riguardare esclusivamente quelli coperti da segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia Giudiziaria, su delega del P.M., atti per i quali, in assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa in radice l'ostensibilità.
Il diniego di ostensione presuppone, pertanto, una effettiva valutazione dell'atto di cui si chiede l'ostensione atteso che il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento e va comunque esplicitato nell’atto di diniego.
Infatti, non ogni denuncia di reato presentata dalla p.a. all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla p.a. nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la p.a. che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del 1990.

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5. Il ricorso è fondato.
Per giurisprudenza costante, il diniego di atti afferenti a un procedimento penale può riguardare esclusivamente quelli coperti da segreto istruttorio penale, perché formatisi in occasione di attività di indagine compiute dalla Polizia Giudiziaria, su delega del P.M., atti per i quali, in assenza di autorizzazione di quest'ultimo, è esclusa in radice l'ostensibilità.
Il diniego di ostensione presuppone, pertanto, una effettiva valutazione dell'atto di cui si chiede l'ostensione atteso che il segreto istruttorio penale viene in considerazione con riferimento agli atti compiuti dall'autorità amministrativa nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuitele dall'ordinamento (TAR Lazio, sez. II 01.02.2017 n. 1644) e va comunque esplicitato nell’atto di diniego (TAR Toscana sez. II 13.01.2017 n. 23).
Infatti, non ogni denuncia di reato presentata dalla p.a. all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla p.a. nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la p.a. che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del 1990 (Consiglio di Stato sez. VI 29.01.2013 n. 547).
5.1. Orbene, nel caso concreto il ricorrente ha chiesto accesso ad atti sicuramente antecedenti l’inizio di un eventuale procedimento penale, atti che lo riguardano direttamente e che sono necessari per la tutela, anche futura, dei suoi diritti.
La Polizia Municipale non ha riferito di operare quale organo di polizia giudiziaria, e ha differito l’accesso in modo del tutto immotivato e sbrigativo, con ciò contravvenendo a elementari regole di trasparenza e buon andamento.
Così facendo ha violato l’art. 22 l. 241/1990, perfettamente applicabile nel caso di specie.
6. Il ricorso va dunque accolto, ordinandosi alla parte resistente di provvedere all’ostensione degli atti richiesti con l’istanza del 03.03.2017, entro trenta giorni dalla comunicazione della presente decisione e avendo riguardo alla normativa vigente sul coinvolgimento dei controinteressati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 16.11.2017 n. 11353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Confisca non menzionato nell'originario provvedimento di sequestro e nel successivo provvedimento di confisca - Articolo 44 d.p.r. n. 380/2001.
E' legittima la confisca di un fabbricato costruito su un terreno sottoposto a sequestro e poi a confisca, ancorché non menzionato nell'originario provvedimento di sequestro e nel successivo provvedimento di confisca, in quanto, essendo vigente nel nostro ordinamento il principio di accessione, i beni costruiti sul fondo appartengono al relativo proprietario (articolo 934 del codice civile), con la conseguenza che l'edificazione di un nuovo fabbricato resta automaticamente esposta alla misura patrimoniale che colpisce il bene principale (Sez. 5, n. 44994 del 27/10/2011, Albanese).
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Misure cautelari reali - Confisca obbligatoria (cd. "urbanistica") - Limiti all'esecutività immediata dei provvedimenti restitutori dei beni sottoposti a sequestro preventivo.
In tema di misure cautelari reali, qualora ricorra, come nella specie, un'ipotesi di confisca obbligatoria (nel caso di specie, cd. "urbanistica"), deve escludersi l'esecutività immediata dei provvedimenti restitutori dei beni sottoposti a sequestro preventivo pur al cospetto di una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere ed anche nell'ipotesi in cui non ne sia stata disposta espressamente la confisca, potendo quest'ultima intervenire perfino in sede esecutiva.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - DIRITTO PROCESSUALE CIVILE - Sequestro preventivo di un edificio confiscabile - Differenza tra effetti civili e penali - Reato di lottizzazione abusiva - Principio di accessione.
La confisca urbanistica, prevista dal secondo comma dell'articolo 44 del d.p.r. n. 380 del 2001, ha un effetto estensivo ope legis, investendo l'intera area interessata dalla lottizzazione e, quindi, tanto i terreni quanto le opere abusivamente costruite su di essi. Ne consegue che nel reato di lottizzazione abusiva, il "principio di accessione" è normativamente declinato in quanto vanno confiscate, expressis verbis, oltre ai terreni abusivamente lottizzati, le opere abusivamente costruite sui terreni, in conformità alla ratio che sostiene il provvedimento ablativo, diretta a purgare, con la confisca e l'acquisizione di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune, tutta la zona interessata alla lottizzazione, salvi i diritti dei terzi in buona fede, con la conseguenza che, per opere abusivamente costruite, devono intendersi anche i manufatti o i corpi di fabbrica realizzati sui terreni lottizzati proprio perché la condotta lottizzatoria può essere integrata da opere edilizie o da opere di urbanizzazione che conferiscono alla zona stessa una articolazione apprezzabile in termini di trasformazione urbanistica, predisponendo i terreni ad accogliere insediamenti non consentiti o non programmati.
Su questi presupposti, infatti, la giurisprudenza di legittimità è pervenuta alla conclusione di ritenere configurabile il reato di lottizzazione abusiva non soltanto nel caso in cui oggetto della condotta illecita siano terreni illegittimamente frazionati, ma anche nel caso in cui si tratti di edifici già costruiti, in quanto l'alienazione frazionata dei singoli immobili, per il principio dell'accessione, è intimamente connessa al frazionamento in lotti del terreno su cui tali immobili sono stati edificati (Sez. 3, n. 39078 del 13/07/2009, Apponi).
Mentre, in sede di procedimento di prevenzione il principio civilistico dell'accessione riceve una applicazione di segno inverso, dovendosi dare rilievo al bene di maggior valore economico, essendo necessario colpire i beni prodotti in conseguenza dell'accaparramento di profitti illeciti ed in forza del reimpiego di detti profitti proprio nella realizzazione dei fabbricati (magari su terreni legittimamente appartenenti a terzi), il che impedisce, sul piano economico e funzionale, di scinderne l'unitaria valutazione, rendendoli insuscettibili di una separata utilizzazione, posto che, in siffatti casi, il terreno, quando il valore dei fabbricati è superiore, accresce di valore per effetto dell'edificazione, sebbene abusiva dei manufatti che su di esso insistono, con la conseguenza che una meccanica applicazione del principio di accessione determinerebbe l'aggiramento della disciplina penalistica diretta a colpire i patrimoni illeciti.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro preventivo di un edificio confiscabile - Confisca di un bene immobile realizzato con somme di denaro di illecita provenienza su terreno di provenienza lecita.
Il sequestro preventivo di un edificio confiscabile a norma dell'art. 12-sexies, commi primo e secondo, D.L. 08.06.1992 n. 306, convertito con modif. nella L. 08.08.1992 n. 356, si estende alle pertinenze dell'edificio e al suolo sul quale è stato realizzato, ancorché la provenienza del suolo sia legittima (Sez. U., n. 1152 del 25/09/2008, dep. 2009, Petito), precisando che può essere disposta la confisca di un bene immobile, realizzato con somme di denaro di illecita provenienza su terreno di provenienza lecita, in quanto i due beni, sul piano economico e funzionale devono essere valutati unitariamente, non potendo essere suscettibili di un'utilizzazione separata, dovendosi dare maggior rilievo, in ambito penalistico, al superiore valore economico del fabbricato -bene principale- del quale il terreno, indipendentemente dalla sua estensione, segue il regime giuridico, quale pertinenza, in conformità agli scopi della disciplina di prevenzione (ex multis, Sez. 6, n. 16151 del 04/02/2014, Cusimano; Sez. 6, n. 18807 del 30/10/2012, dep. 2013, Martino) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2017 n. 52056 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Abuso di ufficio - Difetto assoluto di attribuzione e carenza in astratto del potere - Art. 323, cod. pen. - Art. 10, 44, lett. b), d.P.R. n. 380/2001 - Art. 21-septies L. n. 241/1990.
Il difetto assoluto di attribuzione, quale causa di nullità del provvedimento amministrativo, comporta la cosiddetta "carenza di potere in astratto", vale a dire l'ipotesi in cui l'Amministrazione assume di esercitare un potere che in realtà nessuna norma le attribuisce.
Attraverso l'art. 21-septies della L. n. 241 del 1990 il legislatore, nell'introdurre in via generale la categoria normativa della nullità del provvedimento amministrativo, ha ricondotto a tale radicale patologia il solo difetto assoluto di attribuzione, che evoca la c.d. carenza in astratto del potere, cioè l'assenza in astratto di qualsivoglia norma giuridica attributiva del potere esercitato con il provvedimento amministrativo, con ciò facendo implicitamente rientrare nell'area della annullabilità i casi della c.d. "carenza di potere in concreto", ossia del potere pur astrattamente sussistente esercitato senza i presupposti di legge (Cons. St., Sez. 5, n. 45 del 10/01/2017; nello stesso senso, tra le più recenti, Cons. St., Sez. 4, n. 5228 del 17/11/2015; Cons. St., Sez. 4, n. 5671 del 18/11/2014; Cons. St., Sez. 5, n. 4323 del 30/08/2013).
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato di abuso d'ufficio - Condotta in violazione delle norme - Competenze e attribuzioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio - Art. 323, cod. pen..
Ai fini della sussistenza del reato di abuso d'ufficio di cui all'art. 323, cod. pen., la condotta deve essere posta in essere "nello svolgimento delle funzioni o del servizio".
Ciò non comporta l'espunzione dalla fattispecie delle condotte poste in essere in violazione delle norme che disciplinano le competenze e le attribuzioni del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio, ma solo di quelle viziate da difetto assoluto di attribuzione ai sensi dell'art. 21-septies, legge n. 241 del 1990 (che equipara, ai fini della nullità dell'atto, la carenza di potere al provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali).
In caso di difetto assoluto di attribuzione, l'ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o l'ingiusto danno arrecato ad altri, che costituiscono gli eventi alternativi del reato di abuso di ufficio, non sarebbero causalmente riconducibili all'ufficio o al servizio (ancorché patologicamente svolto), ma ad iniziative estemporaneamente poste in essere dall'autore del reato spendendo la sua qualità ed eventualmente rilevanti ai sensi di altre norme (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.11.2017 n. 52053 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ordine alla questione se la decadenza della concessione edilizia operi anche in assenza di un’apposita dichiarazione amministrativa, il Collegio intende aderire all'indirizzo, anche recentemente ribadito da questo Consiglio, secondo il quale l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita in ogni caso dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo, seppur avente efficacia dichiarativa di un effetto verificatosi ex se e direttamente.
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L’art. 15, comma 2, del T.U. 380/2001 esclude qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga.
Più precisamente, anche laddove si sia in presenza del c.d. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo è sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso.
Infatti, la conseguenza di prolungare la durata degli effetti favorevoli dell’originario titolo, ivi compresa la possibilità di realizzare le opere già autorizzate divenute contrastanti con la normativa urbanistica sopravvenuta, è in ultima analisi subordinata al riconoscimento, demandato alla P.A., di una incolpevole impossibilità di ultimazione dei lavori da parte del privato.
Ciò esclude qualunque automaticità di ogni effetto sospensivo, dovendosi adeguatamente ponderare le ragioni poste a fondamento della proroga del termine.
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Tuttavia, la particolarità della vicenda in esame porta a mitigare il detto principio, che in generale il Collegio condivide.
A tal fine, giova ricordare che nel caso in esame il decorso del termine per l’esecuzione delle opere autorizzate con permesso di costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in data 24.12.2009, è inutilmente decorso durante tutto il periodo in cui ha avuto efficacia il sequestro del cantiere disposto dall’Autorità Giudiziaria nonché il provvedimento sindacale di sospensione lavori, che hanno reso impossibile la prosecuzione delle opere per più di quattro anni.
Quest’ultimo provvedimento di sospensione non può dirsi causato dalla società ricorrente. Invero, lo stesso è riconducibile alla sola determinazione comunale di sospensione lavori, seguita al diniego di sanatoria emesso (oltretutto illegittimamente) dal Comune stesso.
Alla luce delle circostanze innanzi ricordate è pertanto pacifico che l’Amministrazione comunale era già a conoscenza del periodo in cui non è stato possibile procedere con i lavori, tanto è vero che lo stesso è derivato da un provvedimento di sospensione dalla stessa emesso.
Ne consegue che nel caso di specie non può assumere alcuna utilità un’istanza del privato volta a fare valere tale circostanza, la quale avrebbe poi dovuto essere oggetto di valutazione da parte del Comune. Un accertamento di tal genere appare, stante la peculiarità della fattispecie, del tutto superfluo, risolvendosi in un’inutile aggravio del procedimento.
Come anticipato la soluzione a cui il Collegio intende pervenire nel caso in esame non appare in contrasto con l’orientamento già espresso da questa Consiglio.
Invero, come già ricordato, la non automatica operatività dell’effetto sospensivo e la necessità di una apposita istanza di proroga da parte del privato trovano la loro giustificazione nell’esigenza che l’amministrazione possa oggettivamente apprezzare l’idoneità dell’evento impeditivo a giustificare la proroga dei termini.
Nel caso in esame tale valutazione è evidentemente ultronea, posto che l’evento impeditivo della esecuzione dei lavori è consistito in un fatto di cui l’Amministrazione stessa, deputata a vagliare la meritevolezza dell’istanza di proroga, è stata all’origine. Perciò, non può in tal caso ragionevolmente pretendersi una apposita richiesta del concessionario di proroga del termine per la ultimazione dei lavori.
Non solo, come già ricordato, nella specifica vicenda il provvedimento comunale di sospensione dei lavori ha avuto luogo a seguito del diniego della sanatoria del 24.02.2011. Tale provvedimento, oltre a quello di sospensione dei lavori e all’ingiunzione di demolizione, è stato annullato dalla sentenza n. 4628/2014 dell’11.09.2014 di questa Sezione, in riforma della sentenza del TAR Valle d’Aosta n. 72/2012. A seguito della citata pronuncia il Comune in data 30.09.2015, ripronunciandosi sull’istanza di sanatoria, concedeva il richiesto permesso di costruire in sanatoria parziale.
Alla luce di tale evenienza la proroga del termine per la conclusione dei lavori deve, quindi, ritenersi conseguenza logica dell’effetto conformativo della richiamata decisione del Consiglio di Stato, derivando la stessa direttamente dal giudicato formatosi sulla sentenza di annullamento.
In tal senso si è già espressa la giurisprudenza, chiarendo che “la proroga del termine di efficacia del titolo edilizio costituisce una doverosa forma di restitutio in integrum in favore del ricorrente, il quale va reintegrato nella stessa posizione sostanziale in cui si sarebbe trovato in assenza degli atti comunali illegittimi ed alla quale deve essere restituita l’utilità di cui è rimasta illegittimamente privata” .
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Il motivo è fondato per le ragioni di seguito indicate.
La questione pone il problema se la decadenza operi anche in assenza di un’apposita dichiarazione amministrativa, come sostenuto dal Comune con il conforto di una parte della giurisprudenza, soprattutto di primo grado (Cfr. Tar Sicilia Catania, Sez. I, 16.02.2015, n. 528; Tar Sicilia Palermo, Sez. II, 14.03.2014, n. 746; Tar Lazio Roma, Sez. II-bis, 28.06.2005, n. 5370), oppure necessiti di una dichiarazione, all’esito di un apposito procedimento (Cfr. Cons. St., Sez. V, 26.06.2000, n. 3612).
Il Collegio intende aderire a quest’ultimo indirizzo, anche recentemente ribadito da questo Consiglio, secondo il quale l’operatività della decadenza della concessione edilizia necessita in ogni caso dell’intermediazione di un formale provvedimento amministrativo, seppur avente efficacia dichiarativa di un effetto verificatosi ex se e direttamente (Cfr. Cons. St. 22.10.2015 n. 4823).
Quanto alla necessaria interlocuzione con il privato attraverso gli apposti strumenti partecipativi, rappresentati nel caso di specie dagli artt. 12 e 16 della Legge Regionale 06.08.2007 n. 19, deve parimenti ricordarsi che la giurisprudenza ha avuto di modo di precisare che la perdita di efficacia della concessione di costruzione per mancato inizio o ultimazione dei lavori nei termini prescritti deve essere accertata e dichiarata con formale provvedimento dell’Amministrazione anche ai fini del necessario contraddittorio col privato circa l’esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che possono legittimarne la determinazione (cfr. Cons. di Stato, Sez. V, sent. 12.05.2011, n. 2821; Cons. St., Sez. IV, sent. 29.01.2008, n. 249; Cons. St., Sez. VI, sent. 17.02.2006, n. 671).
Alla luce dei principi innanzi ricordati deve osservarsi che nel caso di specie la perdita di efficacia della concessione di costruzione è desumibile solo indirettamente dal provvedimento impugnato, emesso senza alcuna comunicazione di avvio del procedimento, né alcun preavviso di rigetto dell’istanza in violazione degli artt. 12 e 16 della Legge Regionale 06.08.2007 n. 19.
E’ dunque pacifico che l’amministrazione non ha mai emesso uno specifico provvedimento di decadenza, reso all’esito di un procedimento partecipato dalla parte privata. In particolare, è importante sottolineare l’assenza di ogni coinvolgimento della società ricorrente, la quale ben avrebbe potuto rappresentare idonee ragioni atte, nella peculiarità del caso in esame, a portare in ipotesi ad una valutazione diversa della fattispecie, così come si desume dalle deduzioni a conforto del secondo motivo di ricorso.
In altre parole, la mancata attivazione di un apposito procedimento e la conseguente mancata attivazione delle relative garanzie procedimentali non si risolve in un mero vizio formale, bensì in un effettivo pregiudizio alla posizione soggettiva dell’appellante.
Con il secondo motivo di ricorso la società Le Re. ha censurato il provvedimento comunale sotto i diversi profili della violazione e falsa applicazione dell’art. 60, comma 7, della Legge Regionale Valle d’Aosta 06.04.1998 n. 11: Difetto assoluto di istruttoria. Violazione del giusto procedimento. Errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto. Secondo l’appellante, contrariamente a quanto opinato dal Comune di Ayas, il termine per l’esecuzione dei lavori non era decorso, con conseguente insussistenza dell’onere per l’interessato di richiedere il rilascio di un nuovo titolo.
In base a tale prospettazione, il decorso del termine per l’esecuzione delle opere autorizzate con permesso di costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in data 24.12.2009, sarebbe rimasto automaticamente sospeso –quantomeno– per il periodo del sequestro del cantiere, che ha reso impossibile la prosecuzione dei lavori nel periodo di tempo tra il 14.04.2011 ed il 25.06.2015.
Il Tar ha disatteso tale prospettazione, ritenendo non “ipotizzabile nell’attuale sistema giuridico la sospensione automatica del titolo edilizio, essendo sempre necessaria, al fine di ottenere la sospensione, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve seguire un provvedimento da parte della stessa amministrazione che ha rilasciato il titolo edilizio e che accerti l’impossibilità del rispetto del termine ab origine fissato in relazione al factum principis o ad una causa di forza maggiore”.
L’appellante contesta tale statuizione, evidenziando come appare del tutto irragionevole subordinare la proroga del termine per la conclusione dei lavori all’istanza del privato anche ove l’impedimento alla realizzazione delle opere sia la diretta conseguenza degli atti adottati dalla medesima amministrazione.
Il motivo è fondato per le ragioni di seguito esposte.
Il Collegio non disconosce il principio ribadito anche recentemente da questa Sezione (sent. 03.08.2017 n. 3887), e che deve essere tenuto fermo, secondo il quale l’articolo 15, comma 2, del T.U. 380/2001 esclude qualsiasi sospensione automatica del termine di durata del permesso edilizio, e quindi a maggior ragione una sua automatica proroga. Più precisamente, anche laddove si sia in presenza del c.d. factum principis o di cause di forza maggiore, l’interessato che voglia impedire la decadenza del titolo è sempre onerato della proposizione di una richiesta di proroga dell’efficacia del titolo stesso.
Infatti, la conseguenza di prolungare la durata degli effetti favorevoli dell’originario titolo, ivi compresa la possibilità di realizzare le opere già autorizzate divenute contrastanti con la normativa urbanistica sopravvenuta, è in ultima analisi subordinata al riconoscimento, demandato alla P.A., di una incolpevole impossibilità di ultimazione dei lavori da parte del privato. Ciò esclude qualunque automaticità di ogni effetto sospensivo, dovendosi adeguatamente ponderare le ragioni poste a fondamento della proroga del termine.
Tuttavia, la particolarità della vicenda porta nel caso di specie a mitigare il detto principio, che in generale il Collegio condivide.
A tal fine, giova ricordare che nel caso in esame il decorso del termine per l’esecuzione delle opere autorizzate con permesso di costruire del 25.02.2002 n. 2609, rinnovato in data 24.12.2009, è inutilmente decorso durante tutto il periodo in cui ha avuto efficacia il sequestro del cantiere disposto dall’Autorità Giudiziaria nonché il provvedimento sindacale di sospensione lavori, che hanno reso impossibile la prosecuzione delle opere per più di quattro anni. Quest’ultimo provvedimento di sospensione, non può dirsi causato dalla società ricorrente, come sostenuto dal Comune nella propria memoria di costituzione. Invero, lo stesso è riconducibile alla sola determinazione comunale di sospensione lavori, seguita al diniego di sanatoria emesso (oltretutto illegittimamente) dal Comune stesso.
Alla luce delle circostanze innanzi ricordate è pertanto pacifico che l’Amministrazione comunale era già a conoscenza del periodo in cui non è stato possibile procedere con i lavori, tanto è vero che lo stesso è derivato da un provvedimento di sospensione dalla stessa emesso. Ne consegue che nel caso di specie non può assumere alcuna utilità un’istanza del privato volta a fare valere tale circostanza, la quale avrebbe poi dovuto essere oggetto di valutazione da parte del Comune. Un accertamento di tal genere appare, stante la peculiarità della fattispecie, del tutto superfluo, risolvendosi in un’inutile aggravio del procedimento.
Come anticipato la soluzione a cui il Collegio intende pervenire nel caso in esame non appare in contrasto con l’orientamento già espresso da questa Consiglio. Invero, come già ricordato, la non automatica operatività dell’effetto sospensivo e la necessità di una apposita istanza di proroga da parte del privato trovano la loro giustificazione nell’esigenza che l’amministrazione possa oggettivamente apprezzare l’idoneità dell’evento impeditivo a giustificare la proroga dei termini.
Nel caso in esame tale valutazione è evidentemente ultronea, posto che l’evento impeditivo della esecuzione dei lavori è consistito in un fatto di cui l’Amministrazione stessa, deputata a vagliare la meritevolezza dell’istanza di proroga, è stata all’origine. Perciò, non può in tal caso ragionevolmente pretendersi una apposita richiesta del concessionario di proroga del termine per la ultimazione dei lavori.
Non solo, come già ricordato, nella specifica vicenda all’attenzione del Collegio, il provvedimento comunale di sospensione dei lavori ha avuto luogo a seguito del diniego della sanatoria del 24.02.2011. Tale provvedimento, oltre a quello di sospensione dei lavori e all’ingiunzione di demolizione, è stato annullato dalla sentenza n. 4628/2014 dell’11.09.2014 di questa Sezione, in riforma della sentenza del TAR Valle d’Aosta n. 72/2012. A seguito della citata pronuncia il Comune in data 30.09.2015, ripronunciandosi sull’istanza di sanatoria, concedeva il richiesto permesso di costruire in sanatoria parziale.
Alla luce di tale evenienza la proroga del termine per la conclusione dei lavori deve, quindi, ritenersi conseguenza logica dell’effetto conformativo della richiamata decisione del Consiglio di Stato, derivando la stessa direttamente dal giudicato formatosi sulla sentenza di annullamento. In tal senso si è già espressa la giurisprudenza, chiarendo che “la proroga del termine di efficacia del titolo edilizio costituisce una doverosa forma di restitutio in integrum in favore del ricorrente, il quale va reintegrato nella stessa posizione sostanziale in cui si sarebbe trovato in assenza degli atti comunali illegittimi ed alla quale deve essere restituita l’utilità di cui è rimasta illegittimamente privata” (Cons. St. Sez. IV, sentenza 16.06.2016 n. 2666).
In definitiva, l’appello deve trovare accoglimento, dovendosi di conseguenza riformare la sentenza del Tar Valle D’Aosta n. 59/2016 ed accogliere il ricorso della società Le Re. S.a.s. (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.11.2017 n. 5285 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atto di transazione e poteri in autotutela della P.A..
Il Consiglio di Stato ritiene infondata la pretesa di una Amministrazione, che aveva stipulato un atto di transazione, di ripetere le somme corrisposte al privato in esecuzione della transazione sottoscritta, quale conseguenza dell’annullamento in autotutela degli atti prodromici alla stipulazione dello stesso contratto.
Nella fattispecie, gli atti in autotutela erano stati adottati, non in relazione a vizi di legittimità del procedimento amministrativo prodromico alla stipulazione di dette transazioni, bensì in relazione a pretesi vizi del sinallagma contrattuale, i quali, attraverso un espediente di natura formale, erano stati configurati dall'amministrazione quali vizi di legittimità degli atti presupposti al fine di esercitare inesistenti poteri esorbitanti nei confronti della controparte privata
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it)
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MASSIMA
2.– La pretesa dell’Amministrazione appellante di ripetere le somme corrisposte al ricorrente in esecuzione della transazione sottoscritta nell’anno 2003, quale conseguenza dell’annullamento in autotutela degli atti prodromici alla stipulazione dello stesso contratto, è infondata.
2.1.‒ Va rimarcato che, per porre fine al contenzioso instaurato con il ricorrente, l’Amministrazione appellante autorizzava la composizione transattiva della lite. Con scrittura privata, le parti, premessa l’esistenza del detto contenzioso, convenivano il riconoscimento di una somma da parte dell’Amministrazione in favore del ricorrente e la rinuncia da parte di quest’ultimo al giudizio precedentemente instaurato, oltre che agli interessi nel frattempo maturati sulle somme non versate.
L’atto in esame ricalca il tipo contrattuale di cui all’art. 1965 c.c., e segnatamente: ha per oggetto un rapporto giuridico avente, almeno nella opinione delle parti, carattere di incertezza e, nell’intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi a creare, i contraenti si fanno delle concessioni reciproche.
2.2.– Su queste basi, l’annullamento in autotutela delle ordinanze commissariali n. 1382, 1383, 1384 del 17.07.2003 che avevano autorizzato la transazione, non poteva avere come effetto quello di caducare il contratto precedentemente stipulato.
Pur qualificati dall’Amministrazione come espressione del potere di autotutela, gli atti di secondo grado esprimono, nella sostanza, nulla più che la volontà dall’amministrazione di sciogliersi unilateralmente da un vincolo contrattuale ritenuto invalido, e senza previamente ottenere, a tal fine, un intervento giurisdizionale del giudice competente.
Tale facoltà di recesso non era prevista (come invece è richiesto dall’art. 21-sexies, della legge n. 241 del 1990), né dalla legge –esistono, infatti, norme specifiche che attribuiscono all’amministrazione la facoltà di incidere unilateralmente sui contratti stipulati con i privati (artt. 108, 109, 176 del d.lgs. n. 50 del 2016), sugli accordi “accessivi” ai provvedimenti concessori (art. 21-quinquies, della legge n. 241 del 1990), sulle convenzioni pubblicistiche (art. 11, comma 4, della legge n. 241 del 1990)– né dal contratto.
Si verte, inoltre, al di fuori delle fattispecie tipiche in cui l’annullamento degli atti prodromici alla stipulazione di un contratto ad evidenza pubblica può incidere sull’efficacia di quest’ultimo (cfr. gli artt. 121 ss. del codice del processo amministrativo).
Gli atti di asserita autotutela, oggetto del presente giudizio, sono stati del resto adottati, non in relazione a vizi di legittimità del procedimento amministrativo prodromico alla stipulazione di dette transazioni, bensì in relazione a pretesi vizi del sinallagma contrattuale, i quali, attraverso un espediente di natura meramente formale, sono stati configurati dall’amministrazione quali “vizi di legittimità” degli atti presupposti al solo fine di esercitare inesistenti poteri “esorbitanti” nei confronti della controparte privata.
Tale espediente consentirebbe alla pubblica amministrazione –in aperta contraddizione con il principio di sistema, di cui all’art. 1, comma 1-bis, della legge n. 241 del 1990, secondo cui: «[l]a pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente»– di “disattivare” unilateralmente l’art. 1969 c.c., secondo cui è rilevante il solo errore di diritto sulla situazione costituente presupposto della “res controversa” e quindi su un antecedente logico della transazione, e non quello che cade su una questione che sia stata oggetto di controversia fra le parti (il cosiddetto “caput controversum”).
Nel caso di specie, l’errore di diritto –consistito nella inosservanza della norma che impedisce l’avanzamento «se non vi siano posti vacanti nei ruoli organici dei singoli gradi» (art. 89 del r.d. n. 484 del 1936)–, incidendo sulle reciproche concessioni, attiene direttamente all’oggetto della transazione e non già ad un suo presupposto.
2.3.‒ Deve aggiungersi che, diversamente opinando, avremmo che, paradossalmente, il ricorrente, oltre a dover restituire le somme erogate in forza della transazione stipulata, non potrebbe neppure più adire l’autorità giurisdizionale per il riconoscimento dei suoi diritti, avendo rinunciato all’azione proprio in attuazione della transazione.
3.– L’appello, dunque, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.11.2017 n. 5278 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).).

APPALTI: Gare con offerta economicamente più vantaggiosa: la mancata previsione di sub-pesi e sub-punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa dell'offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione.
La mancata previsione di sub-pesi e sub-punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa dell'offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione: ciò in quanto la possibilità di individuare sub-criteri è, infatti, meramente eventuale, com’è palese dall'espressione «ove necessario» dell'art. 83, comma 4, del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre la giurisprudenza ha chiarito come “la scelta operata dall'Amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali singoli elementi, specificamente indicati nella lex specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è espressione dell'ampia discrezionalità attribuitale dalla legge per meglio perseguire l’interesse pubblico; e come tale è sindacabile in sede di legittimità solo allorché sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale ed i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta”.

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Posto che l'offerta costituisce l'atto con cui un soggetto propone di obbligarsi ad effettuare determinate prestazioni, e che è fisiologicamente rivolta a provocare un'eventuale accettazione da parte del destinatario (accettazione a sua volta foriera, secondo lo schema logico del "sinallagma", di ulteriori reciproche obbligazioni), non appare revocabile in dubbio che essa debba essere connotata dalla massima precisione espressiva.
La precisione del contenuto della proposta costituisce, in altri termini, elemento essenziale di caratterizzazione della offerta.
Ne consegue che un'offerta formulata in modo impreciso (o vago, sommario, generico) non può che essere considerata inidonea -siccome affetta da un vizio che la rende inefficace (se non addirittura radicalmente invalida)- ad adempiere alla sua funzione. Ciò a maggior ragione allorquando l'offerta venga formulata nell'ambito (e nel contesto) di una procedura concorsuale (id est: di una gara), e sia dunque destinata a costituire oggetto di una valutazione comparativa volta alla stesura di una graduatoria di merito.
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L’incompletezza dell’offerta tecnica, carente di un elemento essenziale al fine della valutazione della sua idoneità da parte della Commissione giudicatrice, è tale da ingenerare un’incertezza assoluta del suo contenuto che ne rende doverosa l’esclusione dalla gara.
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Con il primo motivo di appello, l’A.T.I. Ci. censura sul punto la sentenza; ed evidenzia come, contrariamente a quanto ivi ritenuto, con tale motivo di ricorso, proposto in via gradata rispetto ai precedenti, essa avesse in realtà inteso dolersi di un’illegittimità propria degli atti impugnati idonea ad inficiare l’intera procedura di gara: il motivo era, infatti, rivolto ad evidenziare il vizio della motivazione dell’attività valutativa delle offerte tecniche da parte della Commissione in ragione della genericità dei criteri di valutazione fissati ab origine nella lex specialis, in assenza della previsione di sub-criteri e sotto-punteggi.
Il motivo di appello in esame è infondato.
Invero, il Collegio rileva in primo luogo come la sentenza, pur ritenendo che tale censura non avesse portata demolitoria dell’intera gara, non ha tuttavia pretermesso di esaminare sul punto il ricorso principale, concludendo così per l’infondatezza di tale motivo di ricorso anche nel merito.
Infatti, la sentenza appellata, da un lato, dà atto che il disciplinare di gara, contrariamente a quanti addotto dalla ricorrente, conteneva una regolamentazione alquanto analitica dei criteri di valutazione dell’offerta; sicché si doveva escludere che i concorrenti non fossero stati posti nelle condizioni di calibrarla adeguatamente; dall’altro richiama, conformandovisi, il consolidato orientamento giurisprudenziale per cui la mancata previsione di sub-criteri di valutazione non costituisce, di per sé, motivo di illegittimità della lex specialis di gara.
Tale prospettazione è condivisibile.
Infatti, in primo luogo, il Disciplinare di gara disciplinava, a pagina 27, i criteri motivazionali alla stregua dei quali la Commissione avrebbe dovuto valutare i criteri numero 1 ("cantierizzazione") e numero 2 ("varianti migliorative").
Nello specifico, era stabilito che il Seggio di gara, per la valutazione del criterio n. 1, avrebbe dovuto "considerare migliore soluzione quella offerta per la quale la relazione dimostri che la concezione organizzativa e la struttura tecnico-organizzativa offrono una elevata garanzia della qualità della attuazione della prestazione, con l'individuazione delle criticità e di soluzioni per la loro risoluzione. In particolare sarà preferita l'offerta che garantisce la maggiore previsione sulla gestione del cantiere, limita le interferenze e fornisce strumenti di gestione accurati, precisione nei dettagli (composizione delle squadre di lavoro, imprese esecutrici e mezzi impiegati)".
Per la valutazione del criterio n. 2, invece, si sarebbe dovuto "considerare migliore proposta quella che dimostri di garantire maggiore durabilità, funzionalità”.
Pertanto è insussistente l’addotta genericità sul punto della lex specialis, tale da comportare la carenza di motivazione delle valutazioni della Commissione di gara sulle offerte tecniche dei concorrenti; si deve, al contrario, ritenere che, nel caso di specie, siano stati piuttosto bene predefiniti da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice i criteri di valutazione, in modi sufficientemente precisi e dettagliati, sì da delimitare il giudizio della Commissione e consentire di ricostruire l’iter logico-giuridico seguito da questa nella valutazione delle offerte tecniche, controllandone logicità e congruità.
In secondo luogo, il Collegio condivide e intende dare continuità al consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale la mancata previsione di sub-pesi e sub-punteggi per ciascun criterio di valutazione qualitativa dell'offerta non è indice di indeterminatezza dei criteri di valutazione: ciò in quanto la possibilità di individuare sub-criteri è, infatti, meramente eventuale, com’è palese dall'espressione «ove necessario» dell'art. 83, comma 4, del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre la giurisprudenza ha chiarito come “la scelta operata dall'Amministrazione appaltante, in una procedura di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, relativamente ai criteri di valutazione delle offerte, ivi compreso il peso da attribuire a tali singoli elementi, specificamente indicati nella lex specialis, e ivi compresa anche la disaggregazione eventuale del singolo criterio valutativo in sub-criteri, è espressione dell'ampia discrezionalità attribuitale dalla legge per meglio perseguire l’interesse pubblico; e come tale è sindacabile in sede di legittimità solo allorché sia macroscopicamente illogica, irragionevole ed irrazionale ed i criteri non siano trasparenti ed intellegibili, non consentendo ai concorrenti di calibrare la propria offerta” (Cons. Stato, V, 18.06.2015, n. 3105; III, 02.05.2016, n. 1661; V, 08.04.2014 n. 1668).
L’evenienza va, tuttavia, per quanto detto in relazione all’analiticità dei criteri di valutazione come indicati dalla lex concorsualis, esclusa nel caso oggetto di giudizio.
Neppure può condividersi la tesi dell’appellante in merito alla possibilità per la stazione appaltante di ricorrere, nel caso di specie, all’istituto contemplato dall’art. 46, comma 1, d.lgs. n. 163 del 2006: rimedio che consente all’Amministrazione aggiudicatrice di chiedere ai concorrenti chiarimenti sulle proprie offerte, senza che ciò comporti richiesta o accettazione di alcuna modifica sul punto.
Ciò per l’ovvia ragione che nessun chiarimento utile l’Impresa Ci. avrebbe potuto fornire circa l’individuazione dell’area di allestimento del cantiere, non essendo rinvenibile in merito la formazione di una volontà certa e determinata dell’A.T.I. appellante, in quanto detto profilo risultava rimesso a una successiva determinazione mediante un’intesa con l’Autorità portuale di Venezia, ovvero stipulabile, nel caso di aree collocate all’esterno della laguna ed al di fuori della competenza della Committente, finanche con terzi soggetti.
Del resto, tale eventualità non era contemplata in via meramente alternativa ad una effettiva e concreta determinazione dell’area in esame già in fase di gara.
Si deve pertanto concludere per l’incompletezza del contenuto dell’offerta tecnica formulata dall’A.T.I. Ci., a causa della carenza di un elemento essenziale.
Ciò in conformità del consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale "posto che l'offerta costituisce l'atto con cui un soggetto propone di obbligarsi ad effettuare determinate prestazioni, e che è fisiologicamente rivolta a provocare un'eventuale accettazione da parte del destinatario (accettazione a sua volta foriera, secondo lo schema logico del "sinallagma", di ulteriori reciproche obbligazioni), non appare revocabile in dubbio che essa debba essere connotata dalla massima precisione espressiva. La precisione del contenuto della proposta costituisce, in altri termini, elemento essenziale di caratterizzazione della offerta. Ne consegue che un'offerta formulata in modo impreciso (o vago, sommario, generico) non può che essere considerata inidonea -siccome affetta da un vizio che la rende inefficace (se non addirittura radicalmente invalida)- ad adempiere alla sua funzione. Ciò a maggior ragione allorquando l'offerta venga formulata nell'ambito (e nel contesto) di una procedura concorsuale (id est: di una gara), e sia dunque destinata a costituire oggetto di una valutazione comparativa volta alla stesura di una graduatoria di merito" (Cons. giust. amm. Sic., 18.01.2017, n. 23).
Ne consegue che l’offerta formulata dall’A.T.I. appellante, non soddisfacendo i requisiti sopra rammentati, avrebbe dovuto ritenersi inammissibile e, pertanto, andava esclusa dalla gara.
Tale conclusione non viola il principio di tassatività delle cause di esclusione nelle gare pubbliche, già codificato nell’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, applicabile ratione temporis al caso di specie, posto che l’incompletezza dell’offerta tecnica, carente di un elemento essenziale al fine della valutazione della sua idoneità da parte della Commissione giudicatrice, è tale da ingenerare un’incertezza assoluta del suo contenuto che ne rende doverosa l’esclusione dalla gara.
In tal senso è del resto orientata la costante giurisprudenza amministrativa (si vedano ex multis Cons. Stato, V, 14.04.2016, n. 1494; V, 11.12.2015, n. 5655; V, 27.03.2015, n. 1601)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.11.2017 n. 5245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mancato ritiro del titolo edilizio non costituisce causa di decadenza del permesso di costruire.
Il TAR Milano, dopo aver precisato che il permesso di costruire diviene efficace già al momento del suo rilascio, non essendo a tal fine necessario che lo stesso venga comunicato o ritirato dal destinatario, esclude che il mancato ritiro del permesso di costruire costituisca causa di decadenza dello stesso; conseguentemente, l’intervento realizzato conformemente al titolo edilizio rilasciato, ma non ritirato, non può dirsi abusivo e non possono ad esso applicarsi le misure sanzionatorie rivolte alla repressione dell’attività edilizia abusiva (commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 4 del 24.05.2016, con cui il Comune di Merate ha ordinato alla Fi. s.r.l. -in liquidazione- “la demolizione integrale dell’edificio sopra descritto, identificato alla sez. Sabbioncello, Fg. 4, mappale 2309 sub. 2-3-4-703-704, entro il termine di 90 (novanta) giorni dalla data di notifica della presente ordinanza” ed ha altresì precisato che “decorso inutilmente il termine di cui sopra senza che sia stato ottemperato a quanto sopra ordinato, il bene e l’area di sedime, di superficie pari a mq. 460 circa, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive, di mq. 1.130 circa….saranno acquisti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune, ai sensi del terzo comma del D.P.R. 06.06.2001, n. 380” ;
...
1. Fi. s.r.l., odierna ricorrente, è proprietaria di due fabbricati situati nel territorio del Comune di Merate, censiti in catasto alla zona censuaria di Sabbioncello, Fg. 4, mappale 2309, sub. 2-3-4-703-704. I due fabbricati sono adiacenti sebbene collocati su due differenti livelli.
2. Il Comune di Merate, con ordinanza n. 4 del 24.05.2016, rilevato che sui predetti immobili sono stati eseguiti interventi ritenuti in totale difformità dai permessi di costruire che ne avevano assentito la realizzazione ed il recupero, ha ordinato la totale demolizione degli stessi.
3. Contro tale provvedimento è principalmente diretto il ricorso in esame. Oltre alla domanda di annullamento è stata proposta domanda risarcitoria.
4. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Merate.
5. La Sezione, con ordinanza n. 1215 del 20.09.2016, ha accolto l’istanza cautelare.
6. In prossimità dell’udienza di discussione del merito, le parti hanno depositato memorie insistendo nelle loro conclusioni.
7. Tenutasi la pubblica udienza in data 13.10.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
8. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato essendo meritevole di accoglimento il primo motivo avente carattere assorbente.
9. Con tale motivo la parte sostiene che, contrariamente da quanto ritenuto dal Comune, le opere realizzate sugli immobili di cui si discute non sarebbero abusive in quanto assentite dal permesso di costruire n. 11258 rilasciato in data 25.02.2014. Né, a dire della stessa parte, potrebbe ritenersi che tale permesso di costruire sia decaduto in ragione del suo mancato ritiro, giacché l’art. 15, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 sanziona con la decadenza solo il mancato inizio e la mancata fine dei lavori nei termini ivi previsti, e non anche il mancato ritiro del titolo.
10. Al riguardo il Collegio osserva innanzitutto che
il permesso di costruire diviene efficace già al momento del suo rilascio, non essendo a tal fine necessario che lo stesso venga comunicato o ritirato dal destinatario (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 21.12.2015, n. 5791; id., 22.08.2013, n. 4255).
11. Si deve poi ancora osservare che
l’art. 15, secondo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 –dopo aver stabilito che il termine di inizio lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo e che quello di ultimazione non può superare i tre anni dall’inizio lavori– dispone che la mancata osservanza di tali termini comporta la decadenza di diritto del permesso di costruire.
12.
La norma non sanziona invece con la decadenza né il mancato ritiro del titolo stesso, né il ritardato o mancato pagamento del contributo di costruzione; fattispecie quest’ultima specificamente contemplata dall’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001 la quale prevede come rimedio l’applicazione di una sanzione pecuniaria rapportata all’entità del contributo non pagato e al ritardo accumulato e, nei casi di più grave ritardo, la possibilità per i comuni di tutelarsi mediante la riscossione coattiva.
13.
Si deve dunque escludere che il mancato ritiro del permesso di costruire costituisca causa di decadenza dello stesso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 26.06.2000, n. 3612; TAR Marche, sez. I, 09.01.2015, n. 5).
14. Tanto premesso, va ora osservato che, nel provvedimento impugnato, il Comune di Merate:
   a) non contesta specificamente la violazione dei termini di inizio e fine lavori (tale contestazione è contenuta per la prima volta nelle memorie difensive, sicché non può in questa sede tenersene conto, salva la possibilità di muoverla in sede di riesercizio del potere);
   b) riconosce che l’intervento sanzionato è conforme, sia per sagoma che volumetria, al permesso di costruire n. 11258 del 25.02.2014 (né tale circostanza, allegata dal ricorrente nel ricorso, viene specificamente contestata dall’Amministrazione resistente).
Cionondimeno viene predicata l’abusività dell’intervento stesso, rilevandosi che il suddetto permesso di costruire sarebbe decaduto in ragione del suo mancato ritiro (si veda pag. 2 dell’ordinanza n. 4 del 24.05.2016 laddove si afferma espressamente che <<…tale permesso, però, come già rilevato in premessa risulta decaduto di validità in quanto mai ritirato>>).
15. Questa conclusione, per le ragioni sopra illustrate, non può essere però condivisa.
16. Si deve pertanto ritenere che, siccome l’intervento sanzionato è conforme al suddetto titolo edilizio, esso non può dirsi abusivo e, conseguentemente, non possono ad esso applicarsi le misure sanzionatorie rivolte alla repressione dell’attività edilizia abusiva (salva la possibilità per il Comune, ove ne ricorrano i presupposti, di disporre l’annullamento in autotutela del titolo qualora ritenga effettivamente che, come prospettato nelle memorie, lo stato di fatto non sia conforme a ciò che è stato in precedenza assentito).
17. Va dunque ribadita la fondatezza della censura e, in accoglimento di essa, va disposto l’annullamento dell’ordinanza n. 4 del 24.05.2016.
18. Non può essere invece accolta la domanda risarcitoria essendo essa del tutto generica: manca l’allegazione (e, a maggior ragione, la prova) degli specifici fatti costitutivi del danno (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.11.2017 n. 2173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, spoils system limitato. Niente incarichi fiduciari. Serve una comparazione. La Cassazione: i manager p.a. hanno un interesse legittimo al rispetto delle procedure.
Gli incarichi dirigenziali ai dirigenti di ruolo non possono avere natura fiduciaria e pertanto alle amministrazioni non è da riconoscere un potere discrezionale di assegnarli. Al contrario, costituisce una precisa obbligazione del datore di lavoro attribuire gli incarichi a seguito delle procedure comparative imposte dalla legge, in mancanza delle quali scatta la responsabilità per danno da risarcire.

L'ordinanza 10.11.2017 n. 26694 della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, chiarisce ancora una volta l'illegittimità del modo di intendere lo spoils system da parte di molte amministrazioni pubbliche, nonostante l'ormai consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale che a partire dalle sentenze 103 e 104 del 2007 ha chiarito come la fiduciarietà possa limitarsi solo alle poche decine di dirigenti delle amministrazioni statali, posti in posizione estremamente di contatto con gli organi di governo, tanto da contribuire con essi a definire l'indirizzo politico.
Nel caso di specie, l'ordinanza degli ermellini riguarda il comune di Roma ed una vertenza piuttosto risalente nel tempo, riferita ad incarichi dirigenziali attribuiti ad personam, senza nessuna comparazione tra i vari dirigenti potenzialmente interessati. La Cassazione, in linea con quanto avevano sancito i giudici della Corte d'appello contro la cui sentenza il Comune di Roma ha presentato ricorso, nega radicalmente la teoria del comune ricorrente, secondo la quale «non può essere negata la facoltà di scegliere, su base fiduciaria, fra tutti coloro che siano in possesso dei requisiti richiesti dall'incarico». Esattamente all'opposto, la Cassazione stabilisce che la sentenza impugnata «ha correttamente disatteso la tesi della non necessità della valutazione comparativa e della assoluta discrezionalità» della scelta del dirigente da incaricare.
Le amministrazioni, dunque, sono obbligate ad attivare la procedura comparativa regolata dall'articolo 19, comma 1, del dlgs 165/2001, rispettando i principi di correttezza e buona fede, applicabili nel caso di specie come strumenti per l'attuazione del principio di buon andamento fissato dall'articolo 97 della Costituzione. Di conseguenza, conclude la sentenza della Suprema corte, laddove «l'amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile».
La sentenza spiega che non esiste, in capo ai dirigenti, un diritto ad un certo incarico, ma l'interesse legittimo al rispetto delle procedure necessarie per selezionare i dirigenti. Il giudice, quindi, non può sostituirsi all'amministrazione e decidere a quale dirigente assegnare l'incarico, ma può e deve accertare la violazione dell'obbligazione a disporre le procedure comparative (articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).
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MASSIMA
CONSIDERATO
1. che il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. «violazione e/o falsa applicazione dell'art. 19 d.lgs. 165/2001, dell'art. 109 d.lgs. 267/2000, dell'art. 22, comma 2, C.C.N.L. Enti Locali - Dirigenza 1996 e delle deliberazioni della Giunta Comunale di Roma n. 3052/97 e 28/01» e sostiene che all'amministrazione non può essere negata la facoltà di scegliere, su base fiduciaria, fra tutti coloro che siano in possesso dei requisiti richiesti dall'incarico oggetto di conferimento, sicché le valutazioni comparative, richiamate da questa Corte nelle sentenze citate dal giudice di appello, non possono essere ritenute obbligatorie, né l'ente è obbligato ad indicare nel provvedimento le ragioni della scelta;
2. che la seconda censura lamenta la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1218 e 1226 cod. civ. nonché degli artt. 112, 113 e 132 n. 4 c.p.c.» perché non poteva essere riconosciuta, neppure a titolo di risarcimento del danno, la differenza fra la retribuzione, anche accessoria, prevista per l'incarico apicale e quella effettivamente corrisposta al Tempesta, in quanto non erano stati assunti il livello di responsabilità e l'obbligo di risultato;
3. che è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui «
in tema di impiego pubblico privatizzato, nell'ambito del quale anche gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali rivestono la natura di determinazioni negoziali assunte dall'amministrazione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, le norme contenute nell'art. 19, comma 1, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165 obbligano l'Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 cod. civ.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.. Tali norme.... obbligano la P.A. a valutazioni comparative, all'adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l'Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella selezione dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile» ( Cass. 12.10.2010 n. 21088);
3.1. che questa Corte ha anche precisato che
non vanno confusi il diritto soggettivo al conferimento dell'incarico e l'interesse legittimo di diritto privato correlato all'obbligo imposto alla pubblica amministrazione di agire nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede nonché dei principi di imparzialità, efficienza e buona andamento consacrati nell'art. 97 Cost., sicché il dirigente non può pretendere dal giudice un intervento sostitutivo e chiedere l'attribuzione dell'incarico, ma può agire per il risarcimento del danno, ove il pregiudizio si correli all'inadempimento degli obblighi gravanti sull'amministrazione (Cass. 23.09.2013 n. 21700; Cass. 14.04.2015 n. 7495; Cass. 24.09.2015 n. 18972);
4. che pertanto la sentenza impugnata ha correttamente disatteso la tesi, riproposta anche in questa sede dalla difesa di Roma Capitale, della non necessità della valutazione comparativa e della assoluta discrezionalità della scelta;
5. che quanto alla sussistenza ed alla liquidazione del danno la Corte territoriale ha condiviso le argomentazioni contenute nella sentenza del Tribunale, che, come si evince dalla trascrizione contenuta nel ricorso, aveva fatto ricorso alla liquidazione equitativa, considerando, da un lato, la vasta esperienza professionale del Te. ed il cospicuo numero di incarichi conferiti senza valutazione comparativa, dall'altro che il dirigente non poteva essere certo del conferimento anche in caso di corretto adempimento degli obblighi contrattuali per cui il grado di probabilità doveva essere quantificato nella misura del 60% ed allo stesso doveva essere commisurato il risarcimento;
5.1. che a fronte di domanda di risarcimento del danno da perdita di chance il giudice del merito è chiamato ad effettuare una valutazione che si svolge su due diversi piani in quanto occorre innanzitutto che, sulla base di elementi offerti dal lavoratore, venga ritenuta sussistente una concreta e non meramente ipotetica probabilità dell'esito positivo della selezione e solo qualora detto accertamento si concluda in termini positivi vi potrà essere spazio per la valutazione equitativa del danno, da effettuare in relazione al canone probabilistico riferito al risultato utile perseguito;
5.2. che in tal modo non viene risarcito un danno probabile in quanto «il danno è certo quanto all'an debeatur perché certo è l'inadempimento di un'obbligazione strumentale da parte del datore di lavoro (quella di effettuare la scelta secondo un determinato criterio e comunque secondo correttezza e buona fede), obbligazione che ha un contenuto patrimoniale. Il criterio probabilistico gioca solo sul piano della quantificazione del danno nel più generale ambito della liquidazione equitativa» (Cass. n. 5119 del 2010);
5.3. che a detti principi si è sostanzialmente attenuta, attraverso il rinvio per relationem alla sentenza di primo grado, la Corte territoriale la quale, inoltre, ha correttamente commisurato il risarcimento al trattamento retributivo che il dirigente avrebbe percepito in caso di attribuzione dell'incarico, posto che «la concreta ed effettiva occasione perduta di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto, ma un'entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione autonoma, che deve tenere conto della proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto» (Cass. 25.08.2014 n. 18227 e Cass. 15.05.2015 n. 10030);

APPALTIAppalti, niente fretta ai ricorrenti incidentali.
Appalti, niente fretta per il ricorrente incidentale.

Con la sentenza non definitiva 10.11.2017 n. 5182, il Consiglio di Stato -Sez. III- si pronuncia sul termine del ricorso incidentale nel rito superaccelerato in materia di pubblici appalti (art. 120, co. 2-bis, cpa).
Un concorrente presentava ricorso al Tar Campania lamentando illegittimità dell'ammissione alla procedura delle altre concorrenti. Una delle società, la cui ammissione in gara era stata contestata dalla ricorrente principale, proponeva a sua volta ricorso incidentale contestando l'ammissione della ricorrente principale.
Il Tar riteneva tardivo il ricorso incidentale perché proposto oltre 30 giorni, da computare a partire dalla conoscenza della ammissione della ricorrente principale mediante pubblicazione sul profilo del committente (art. 29, dlgs 50/2016). Il ricorso principale veniva rigettato. La società controinteressata, il cui ricorso incidentale era stato dichiarato tardivo, proponeva appello incidentale, contestando la dichiarazione di irricevibilità della impugnazione incidentale e chiedendo che il ricorso incidentale fosse accolto con conseguente improcedibilità dell'appello principale.
Il Consiglio di stato ha esaminato in via pregiudiziale l'appello incidentale, arrivando a conclusioni opposte rispetto al Tar. Il giudice d'appello ha ritenuto che il termine per la proposizione del ricorso incidentale contro l'ammissione alla gara del ricorrente principale decorra dalla notificazione del ricorso principale e non dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione sul profilo del committente. Tale decorrenza non si pone in contrasto con l'esigenza acceleratoria del rito ex art. 120, co. 2-bis cpa.
Inoltre, la decorrenza del termine per la proposizione del ricorso incidentale dalla notifica del ricorso principale non costituisce un aggravamento della durata del processo, posto che il ricorrente principale può proporre motivi aggiunti e lo stesso art. 120, co. 6-bis, cpa prevede il ricorso incidentale. Ma è dal punto di vista sistematico che l'interpretazione adottata dal giudice di primo grado non convince il giudice d'appello.
Facendo decorrere il termine per la contestazione della ammissione del ricorrente principale dalla pubblicazione del provvedimento di ammissione sul profilo del committente il ricorso incidentale verrebbe ad assumere la caratteristica di ricorso principale, con la conseguente necessità per il giudice di esaminarlo in ogni caso. Ogni partecipante alla gara sarebbe obbligato a proporre l'impugnazione della ammissione prima ancora di avere notizia di analoghe iniziative proposte nei suoi confronti dagli altri concorrenti, in contrasto l'interpretazione costituzionalmente corretta dell'articolo 24 della Costituzione.
Sulla base di tali argomenti l'appello principale avverso la dichiarazione di tardività del ricorso incidentale è stato accolto. Tuttavia il Cds ha ritenuto tale ricorso incidentale infondato nel merito (articolo ItaliaOggi Sette del 27.11.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: Partecipate. Il diritto di accesso agli atti non si può estendere troppo.
Il diritto di accesso previsto dall'art. 43, comma 2, del dlgs 267/2000 in favore dei consiglieri comunali non può estendersi anche agli atti delle società partecipate dal Comune in forma minoritaria.

Lo ha sancito il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 09.11.2017 n. 5176.
Secondo il Collegio non sussiste alcun diritto del consigliere regionale di accedere agli atti di una società partecipata in misura minoritaria dalla Regione e che comunque non svolge un servizio pubblico atteso che, in tal caso, la società stessa non può ritenersi «dipendente» dalla Regione, non possedendo quest'ultima una partecipazione maggioritaria e non svolgendo la società partecipata un servizio pubblico.
L'accesso richiesto, quindi, non può trovare giustificazione in relazione alla pretesa cura dell'interesse pubblico connesso al mandato conferito.
Nel caso in esame un consigliere regionale della Regione Lombardia aveva presentato alla Giunta regionale istanza di accesso agli atti, volta ad acquisire copia del verbale di una seduta del cda di Arexpo S.p.A., società a partecipazione mista. Più precisamente le quote di partecipazione, all'epoca dei fatti di causa, erano di proprietà della Regione Lombardia e del Comune di Milano nell'eguale misura pari al 34,67%, nonché dell'Ente autonomo Fiera Internazionale di Milano, in misura pari al 27,66% e, per il restante 3%, della Città Metropolitana di Milano e del Comune di Rho.
Tale società infatti era stata costituita dalla Regione Lombardia e da altri enti per gestire l'Expo
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: Il diritto di accesso agli atti dei consiglieri comunali (art. 43, comma 2, T.U. Enti locali) non può estendersi anche alle società partecipate (dal Comune) in forma minoritaria, tanto più quando tali società non svolgano attività di gestione di servizi pubblici.
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7. L’appello è fondato alla stregua delle osservazioni che seguono.
7,1. Deve innanzitutto rilevarsi che non è contestato il capo della sentenza che ha dichiarato tardiva l’impugnazione del diniego di accesso alla copia integrale del verbale della riunione del Consiglio di Amministrazione di Arexpo S.p.A. del 17.03.2016: su tale capo si è formato pertanto il giudicato.
7.2. Deve quindi esaminarsi la correttezza della sentenza nella parte in cui ha ritenuto illegittimo il diniego di Arexpo di fornire al consigliere regionale copia dell’ordine del giorno di quella riunione.
Non è in discussione il fondamento di tale richiesta che risiede nell’asserito pieno espletamento della funzione di consigliere regionale e quindi nel controllo che questi può esercitare sull’attività regionale e sugli enti che a quest’ultima si ricollegano, tanto che il giudice di primo grado ha richiamato a supporto della pretesa della ricorrente in primo grado l’art. 43, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000.
Sennonché la Sezione deve osservare che la giurisprudenza ha già rilevato che il diritto di accesso ivi contemplato non può estendersi anche alle società partecipate (dal Comune) in forma minoritaria, tanto più quando tali società non svolgano attività di gestione di servizi pubblici (Cons. Stato, sez. V, 17.01.2014, n. 200): del resto la norma in questione espressamente prevede il diritto di accesso in relazione alle attività delle aziende comunali e degli dipendenti, situazione che non è predicabile nel caso di specie giacché Arexpo non può ritenersi “dipendente” dalla Regione Lombardia, dal momento che quest’ultima non possiede una partecipazione maggioritaria e non svolge un servizio pubblico (circostanza di fatto che non è stata neppure contestata), così che in definitiva l’accesso richiesto non può trovare giustificazione in relazione alla pretesa cura dell’interesse pubblico connesso al mandato conferito e cioè ai fini del controllo del comportamento complessivo dell’ente (in funzione dell’interesse pubblico da perseguire) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.11.2017 n. 5176 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dall'articolo 3, comma 1, lett. e.5, del Testo Unico dell'Edilizia è possibile infatti trarre una nozione di opera precaria fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sul riscontro oggettivo delle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare.
La norma qualifica quindi come interventi di nuova costruzione (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee.
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9. L’appello non è fondato.
10. L’appellante, con i diversi motivi di censura sopra descritti, ha contestato la sentenza impugnata e le determinazioni assunte dal comune di Roma in ordine a taluni lavori abusivi realizzati su un terreno di proprietà del suo dante causa. In sostanza, la stessa ha ribadito quanto eccepito in primo grado circa il fatto che gli interventi sanzionati in realtà avessero riguardato un immobile già esistente (un capannone) e di conseguenza che non fosse necessaria una concessione edilizia, trattandosi al più di interventi di risanamento.
Ha inoltre lamentato che l’Amministrazione non avrebbe individuato con certezza il bene oggetto di demolizione e di acquisizione, non avrebbe tenuto conto che i lavori eseguiti erano stati comunicati dal suo dante causa allo stesso Comune e che, quanto ai prefabbricati, gli stessi avevano carattere provvisorio e che il provvedimento di acquisizione sarebbe stato adottato in modo generico e sproporzionato rispetto agli abusi contestati.
Il Tar avrebbe poi disatteso due motivi proposti con il ricorso di primo grado sulla non adottabilità del provvedimento di demolizione, per l’intervenuta scadenza del termine di 60 giorni decorrente dal provvedimento di sospensione dei lavori, e sull’interpretazione data ai lavori eseguiti, in particolare i cordoli, ritenuti opere edilizie di fondazione. Il Tribunale non avrebbe infine tenuto conto dell’intervenuta archiviazione del procedimento penale a carico del suo dante causa per le stesse opere abusive.
11. Ciò detto, va innanzitutto rilevato che risulta smentito per tabulas che le opere sanzionate fossero preesistenti (i lavori oggetto di causa sarebbero stati di semplice risanamento di un capannone esistente già dal 1942). Deve, infatti, essere condivisa la conclusione del giudice di primo grado sul punto e cioè che le diverse opere realizzate non possono affatto ritenersi limitate al rifacimento del predetto capannone, con invarianza della sua consistenza sagomale e volumetrica.
Come rilevato dal Tar nella sentenza impugnata, il lavori realizzati in assenza di titolo sono stati accertati dai vigili urbani come eseguiti in epoca recente (cfr. nota del XVIII Gruppo polizia municipale al comune di Roma del 20.11.1995) e comunque gli stessi per la loro caratteristica costruttiva (cfr. verbali della polizia municipale) sono tali da essere incoerenti con una costruzione degli anni ‘40 (presenza di materiali quali pannelli di plastica o tettoie in materiale similare).
12. D’altra parte, la stessa ricorrente riconosce che sono stati realizzati dei nuovi manufatti (in particolare, dei prefabbricati) per i quali comunque sarebbe stata necessaria una concessione edilizia, a prescindere dalle caratteristiche costruttive, vista la loro utilizzazione prolungata nel tempo.
Dall'articolo 3, comma 1, lett. e.5, del Testo Unico dell'Edilizia (in parte qua riproduttivo della disciplina normativa applicabile ratione temporis), è possibile infatti trarre una nozione di opera precaria fondata non sulle caratteristiche dei materiali utilizzati né sulle modalità di ancoraggio delle stesse al suolo quanto piuttosto sul riscontro oggettivo delle esigenze (di natura stabile o temporanea) che esse siano dirette a soddisfare. La norma qualifica quindi come interventi di nuova costruzione (come tali assoggettati al previo rilascio del titolo abilitativo), l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro oppure depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27.04.2016, n. 1619).
13. Pertanto, essendo necessaria una concessione edilizia il Comune ha inevitabilmente dovuto adottare un provvedimento demolitorio ai sensi dell’art. 9 della legge n. 47 del 1985 in ragione dell’abusività delle opere e della loro contrarietà agli strumenti edilizi, cui è conseguito, stante l’inottemperanza dello stesso, l’atto di acquisizione al patrimonio comunale.
14. Tale acquisizione, contrariamente a quanto affermato nel ricorso, risulta poi avere un oggetto determinato rappresentato dalle opere individuate nell’ordinanza di demolizione del 20.09.1995 (un manufatto in pali di legno e lamiere; la realizzazione, su un plateatico in conglomerato cementizio di mq. 150 di superficie, di un manufatto avente struttura portante in legno prelavorato tamponato con pannellature in plastica, coperto da un tetto a due falde; una tettoia in pali e legno, anche essa tamponata con materiali plastico, adibita a magazzino e deposito; un prefabbricato abitabile con porta di accesso e finestre di mq. 25 circa di superficie e 2,20 di altezza con impianto elettrico e telefonico ed adibito ad ufficio, e di altre strutture prefabbricate in lamiera).
15. Inoltre, sempre in ordine all’acquisizione, va rilevata l’omessa impugnativa del citato e presupposto provvedimento di demolizione del 20.09.1995 (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368; sez. IV, 08.11.2010, n. 2368; sez. V, 25.05.2003, n. 2859), circostanza quest’ultima che determina la limitazione dell’esame delle censure solo ai vizi propri dell’atto di acquisizione (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 08.05.2014, n. 2368) e la inammissibilità dell’impugnativa per invalidità derivata degli atti successivi all’ordine di demolizione.
16. Con esclusivo riferimento a questi ultimi, si deve in primo luogo ritenere infondato il rilievo sulla carenza di potere del Dirigente la 18^ Circoscrizione del comune di Roma ad emanarla. Secondo parte appellante, l’acquisizione doveva essere disposta dal Sindaco, ma tale affermazione non considera il generale principio di distinzione tra le competenze sindacali e quelle dei dirigenti comunali, competenti questi ultimi all’adozione di tutti gli atti di gestione ad essi riferiti, compresi quelli inerenti al settore urbanistico edilizio.
17. Non appaiono inoltre fondate le ulteriori e disomogenee doglianze in ordine allo stesso provvedimento di acquisizione, in particolare quella relativa alla lamentata sproporzione tra le opere individuate come abusive e i beni acquisiti. Questi ultimi sono stati, come detto, individuati in relazione all’ordinanza di demolizione del 20.09.1995 e considerati in termini di consistenza ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge n. 47 del 1985.
18. Né può ritenersi fondata la tesi dell’appellante secondo cui l’inottemperanza alla ingiunzione di demolizione sarebbe stata giustificata dalla legittimità degli interventi eseguiti dal suo dante causa. Secondo la stessa, i lavori sarebbe stati tacitamente autorizzati stante il silenzio serbato dall’Amministrazione sulle comunicazioni, varie volte rivolte al Comune dal suo dante causa (per ultimo il 01.01.1994).
Ma, come rileva correttamente il Tar, la determinazione dirigenziale n. 759 del 18.07.1995, impugnata con il primo ricorso, aveva accertato la esecuzione di cordoli di fondazione in cemento armato su una superficie di ben 120 mq., nonché la costruzione di muri in blocchetti di tufo e la elevazione di pilastri in ferro per altezze comprese da mt. 2,20 a mt. 3,50.
In sostanza, opere edilizie di fondazione palesemente preordinate alla realizzazione di strutture diverse da quelle necessarie per la semplice risanamento del preesistente capannone e per le quali era necessario il rilascio di una concessione e non una semplice denuncia di inizio di attività (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.11.2017 n. 5172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La scadenza dei termini di efficacia della sospensione cautelare dei lavori non priva l’Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione di demolizione.
Il provvedimento di sospensione dei lavori, in quanto volto a mantenere la res adhuc integra nelle more dell'emanazione dell'ordinanza di demolizione, ha infatti natura cautelare ed efficacia temporalmente circoscritta ma non rappresenta un antecedente procedimentale necessario del provvedimento di demolizione.
Con la conseguenza che il termine fissato nel provvedimento o dall’art. 4 della legge n. 47 del 1985 (ora dall'art. 27 comma 3, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) per adottare l'ordinanza di demolizione dopo l'emanazione di quella di sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di efficacia di tale ultimo ordine, e non già quale termine perentorio entro cui l'Amministrazione è tenuta ad emettere l'ordine di demolizione.
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9. L’appello non è fondato.
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19. Non è fondata anche la censura alla sentenza in ordine alle conclusioni dalla stessa raggiunte circa la inadottabilità dell’ordine di demolizione del 18.07.1995. Essendo scaduto il termine di 60 giorni decorrenti dalla notifica dell’ordine di sospensione, l’Amministrazione, secondo l’appellante, non avrebbe potuto provvedere.
La scadenza dei termini di efficacia della sospensione cautelare dei lavori, tuttavia, non priva l’Amministrazione del potere di adottare l’ingiunzione di demolizione. Il provvedimento di sospensione dei lavori, in quanto volto a mantenere la res adhuc integra nelle more dell'emanazione dell'ordinanza di demolizione, ha infatti natura cautelare ed efficacia temporalmente circoscritta ma non rappresenta un antecedente procedimentale necessario del provvedimento di demolizione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 02.02.2017, n. 445).
Con la conseguenza che il termine fissato nel provvedimento o dall’art. 4 della legge n. 47 del 1985 (ora dall'art. 27 comma 3, del d.P.R. 06.06.2001 n. 380) per adottare l'ordinanza di demolizione dopo l'emanazione di quella di sospensione dei lavori, deve intendersi quale termine di efficacia di tale ultimo ordine, e non già quale termine perentorio entro cui l'Amministrazione è tenuta ad emettere l'ordine di demolizione (cfr. Tar per l’Umbria, Perugia, sez. I, 23.10.2014, n. 516) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.11.2017 n. 5172 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ARIA - INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Impianto per la produzione di calcestruzzo - Emissioni in atmosfera non autorizzate - Natura del reato - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Autorizzazione - Necessità - Controllo preventivo degli organi di vigilanza - Pericolo per l'ambiente - Artt. 267, 269 e 279 d.lgs. n. 152/2006 - GIURISPRUDENZA.
Il reato di cui agli artt. 269, comma 1, e 279, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 è un reato permanente, formale e di pericolo, che non richiede neppure che l'attività inquinante abbia avuto effettivo inizio, essendo sufficiente la sola sottrazione della stessa al controllo preventivo degli organi di vigilanza (Sez. 3, n. 28764 del 09/06/2015, Amoruso; Sez. 3, n. 24334 del 13/05/2014, Boni; Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012, Randa).
Tale contravvenzione prescinde, dunque, dalla circostanza che le emissioni superino i valori limite stabiliti, in quanto non costituisce un reato di danno ma, per l'appunto, di mera condotta, la cui ratio si ravvisa nella necessità che la pubblica amministrazione possa esercitare un controllo preventivo su attività potenzialmente dannose per l'ambiente.
Ne consegue che per la sua configurabilità è sufficiente la produzione di emissioni in atmosfera in assenza della prescritta autorizzazione, essendo sanzionata la realizzazione della attività sottraendola ai controlli preventivi stabiliti dall'ordinamento a tutela dell'ambiente, a prescindere dalla effettiva produzione di emissioni nocive o superiori ai limiti fissati (per tutte, Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012, Rancio; Sez. 3, n. 48474 del 19/07/2011, Papa; Sez. 3, n. 35232 del 28/06/2007, Fongaro).
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni in atmosfera - Reato di cui agli artt. 269 e 279, c. 1, d.lgs. n. 152/2006 - Reato permanente, formale e di pericolo - Inizio attività inquinante - Ininfluenza - Sottrazione dell'attività al controllo preventivo degli organi di vigilanza - Conseguenze potenzialmente dannose per l'ambiente.
Per la configurabilità del reato di cui agli artt. 269 e 279, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006, trattandosi di reato permanente, formale e di pericolo, non si richiede neppure che l'attività inquinante abbia avuto inizio, essendo sufficiente la sola sottrazione della stessa al controllo preventivo degli organi di vigilanza sia il pericolo che la libera disponibilità dell'impianto, privo di autorizzazione, potesse, attraverso il suo utilizzo, provocare, mediante emissioni in atmosfera, conseguenze potenzialmente dannose per l'ambiente.
Inoltre, nella specie, è stata esclusa la rilevanza delle dichiarazioni e delle attestazioni del consulente chimico circa la conformità alla normativa dell'impianto, evidenziando la necessità di un accertamento al riguardo da parte degli organi ispettivi a ciò preposti.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Violazione di legge - Vizi della motivazione - Requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza - Art. 125 cod. proc. pen.
Nella violazione di legge sono ricompresi anche i vizi della motivazione così radicali da rendere l'apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o comunque privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza, come tale inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dal giudice, con conseguente violazione dell'art. 125 cod. proc. pen. (Cass., Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov; Sez. 5, Sentenza n. 43068 del 13/10/2009, Bosi; Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013, Gabriele; da ultimo, Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Napoli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.11.2017 n. 50632 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decadenza del titolo edilizio per mancato inizio dei lavori nel termine di legge.
La decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto si verifica per legge in modo automatico tanto che non residua all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale.
Da ciò deriva che il provvedimento di annullamento della proroga della concessione edilizia, motivato dalla intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la comunicazione di avvio del procedimento.

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La giurisprudenza ha individuato varie ipotesi nelle quali la mancanza di un serio intento costruttivo avrebbe potuto giustificare la declaratoria di decadenza del permesso di costruire:
   - parziale recinzione del fondo, accompagnata dallo sbancamento del terreno e dall’esecuzione dei lavori di scavo
;
   - presenza di un setto di muratura di laterizio o l’installazione di un contatore di energia elettrica e del cartello di cantiere, ovvero il taglio di alcuni alberi nella zona interessata alla costruzione dell’ampliamento
;
   -
semplice sbancamento del terreno;
   -
sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera;
   - modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione o la mera comunicazione dell’inizio dei lavori
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Al contrario, a titolo di esempio, basterebbe: aver impiantato il cantiere, aver eseguito demolizioni o scavi di entità significativa, aver picchettato il terreno, etc., vale a dire aver posto in essere le attività materiali che la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria reputano idonee a integrare un effettivo inizio dei lavori e, dunque, sostanziano un serio intento costruttivo.

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MASSIMA
Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la società ricorrente ha lamentato che l’impugnato provvedimento non sarebbe stato preceduto dalla trasmissione dell’avviso di avvio del procedimento, così ledendosi le prerogative di partecipazione procedimentale sancite dalla legge 241/1990.
Sul punto, ad avviso del Collegio è la successione degli atti e provvedimenti che hanno caratterizzato la vicenda controversa, nonché la loro stretta interrelazione, ad avallare l’esistenza di una mai interrotta interlocuzione amministrativa tra le parti.
Segnatamente:
   1) in data 18.12.2012 è stato emesso il permesso di costruire oggetto del contendere;
   2) con deliberazione di Consiglio comunale n. 74 del 20.12.2012 è stato adottato il nuovo PGT;
   3) in data 28.12.2012 la ricorrente ha ritirato il titolo edilizio ed ha, altresì, comunicato l’inizio dei lavori;
   4) in data 15.01.2013 il Comune di Como ha disposto la decadenza del permesso di costruire;
   5) la società ricorrente ha impugnato tale provvedimento innanzi al TAR Lombardia–Milano (giudizio R.G. 820/2013), sospeso in via cautelare con ordinanza n. 439 del 18.04.2013;
   6) in data 13.06.2013, pertanto, la ricorrente ha confermato, via PEC, di voler riprendere i lavori;
   7) con deliberazione di Consiglio comunale n. 32 il del 13.06.2013 PGT è stato approvato;
   8) a seguito di appello cautelare proposto dal Comune di Como, con ordinanza n. 2682 del 12.07.2013 è stata riformata l’ordinanza n. 439/2013 del TAR;
   9) in data 09.10.2013 la società ricorrente ha formulato una “domanda/comunicazione” per avvalersi della proroga biennale dei termini di inizio e fine lavori ex art. 30 del DL 69/2013;
   10) in data 12.11.2013 il Comune di Como ha comunicato che tale proroga non sarebbe stata concedibile in ragione del sopraggiunto contrasto del titolo edilizio con l’approvato strumento urbanistico: assunto sostanziato dal fatto che il provvedimento di decadenza, ancorché sub judice, fosse valido ed efficace;
   11) con sentenza n. 2 del 03.01.2014 la Sezione ha accolto il ricorso avverso l’impugnato provvedimento di decadenza;
   12) in data 24.12.2015 la società ricorrente ha comunicato la “ripresa” dei lavori;
   13) in data 21.01.2016 è stato effettuato dai tecnici comunali un sopralluogo in esito al quale è stato rilevato che “lo stato dei luoghi dell’area in questione (…) è rimasto pressoché invariato, ad eccezione della parziale rimozione della vegetazione spontanea (nel frattempo rinfoltitasi)”;
   14) in data 21.03.2016 è stato, quindi, emesso il provvedimento impugnato nel presente giudizio, nel quale si è fatto richiamo al sopra citato sopralluogo, concludendosi che nulla sarebbe mutato “rispetto alle precedenti verifiche effettuate il 10.01.2013 ed il 03.07.2013, stante l’assenza di operai, di deposito di materiali e di mezzi di cantiere”.
A quanto rilevato va, poi, aggiunto il consolidato orientamento della giurisprudenza, secondo cui “
la decadenza della concessione edilizia (ora permesso di costruire) per mancato inizio lavori nel termine previsto si verifica per legge in modo automatico tanto che non residua all’amministrazione alcun margine per valutazioni di ordine discrezionale; da ciò deriva che il provvedimento di annullamento della proroga della concessione edilizia, motivato dalla intervenuta decadenza della concessione edilizia per l’inutile scadenza anche del prorogato termine di inizio lavori, non richiede la previa adozione di un provvedimento dichiarativo della decadenza né tanto meno la comunicazione di avvio del procedimento” (cfr., tra le tante, TAR Lazio-Latina, 27.11.2015, n. 788).
...
Con il terzo motivo la ricorrente ha, poi, dedotto che sussisterebbe un serio intento costruttivo, comprovato dall’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis della legge fallimentare e dal conferimento dell’appalto dei lavori “alla società Pu.Gi. s.r.l. di Como, giusto contratto del 16.12.2015” (cfr. pag. 14).
Tale censura può essere esaminata congiuntamente al primo dei tre profili sviluppati con il quarto motivo, con cui si è sostenuto che la “ripresa” dei lavori, oggetto della comunicazione del 24.12.2015, sarebbe stata riconosciuta dallo stesso Comune resistente a dimostrazione della circostanza che l’attività edilizia sarebbe stata effettivamente iniziata il 28.12.2012 e successivamente interrotta a causa delle vicende contenziose (cfr. pag. 16).
La difesa dell’Amministrazione ha eccepito l’erroneità di tale assunto e che neppure la sentenza n. 2/2014 deporrebbe per la fondatezza della tesi della ricorrente.
Ciò precisato, un’obiettiva analisi della motivazione della sopra citata pronuncia evidenzia che:
   1) “il permesso di costruire è stato adottato il 18.12.2012 e rilasciato all’interessata in data 28.12.2012 (…), mentre la comunicazione di inizio lavori è stata protocollata lo stesso 28.12.2012”;
   2) “
il Comune di Como ha effettuato il sopralluogo assunto a presupposto della decadenza in data 11.01.2013”;
   3) “il permesso di costruire di cui trattasi è stato rilasciato alla Società nella giornata di venerdì, 28.12.2012, in pieno periodo feriale, per l’approssimarsi del Capodanno ed in una stagione con condizioni climatiche sfavorevoli (circostanze, queste, che costituiscono fatto notorio ai sensi dell’art. 115, comma 2°, del codice di procedura civile)”, da ciò conseguendo che sarebbe “irragionevole la pretesa del Comune, di far discendere la prova dell’intento costruttivo dalla realizzazione, nell’ultimo scorcio dell’anno 2012, in pieno periodo feriale ed in pieno inverno, delle lavorazioni necessarie all’inizio dell’opera (a nulla rilevando quanto successivamente accertato, ma non emergente dal provvedimento qui gravato)”.
Non essendosi statuito in ordine all’effettivo inizio dei lavori, deve ritenersi infondato sia l’assunto della ricorrente secondo cui sarebbe dirimente, a fini probatori, la comunicazione del 28.12.2012, sia l’assunto del Comune secondo cui sarebbe stata raggiunta la prova del mancato inizio dei medesimi lavori entro il 31.12.2012.
Ne deriva che, una volta pubblicata la sentenza n. 2 del 03.01.2014 (che ha fatto cessare gli effetti dell’ordinanza cautelare n. 2682/2013 del Consiglio di Stato), la società ricorrente avrebbe potuto/dovuto iniziare i lavori entro un anno ai sensi dell’art. 15, comma 2, del DPR 380/2001.
In tale contesto va incardinata la comunicazione, in teoria tempestiva, di “ripresa” del 24.12.2015, alla quale ha fatto, però, seguito una concreta verifica da parte dell’Amministrazione mediante un sopralluogo esperito in data 21.01.2016, in esito al quale –come più sopra si è detto– è stato rilevato che “lo stato dei luoghi dell’area in questione (…) è rimasto pressoché invariato, ad eccezione della parziale rimozione della vegetazione spontanea (nel frattempo rinfoltitasi)”.
Si tratta di una situazione che, dai documenti allegati in atti, non sarebbe sostanzialmente mutata sin dal rilascio all’Immobiliare Stradivari del titolo edilizio precedente a quello controverso (permesso di costruire n. 21951 del 21.01.2005), e che, anche rispetto alle vicende odiernamente controverse, la società ricorrente non ha in alcun modo contestato sul piano di fatto, e che, quindi, deve ritenersi pacifica ai sensi dell’art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo.
La giurisprudenza ha individuato –già al tempo del rilascio del primo titolo edilizio all’impresa St., ma l’orientamento pretorio e rimasto immutato– varie ipotesi nelle quali la mancanza di un serio intento costruttivo avrebbe potuto giustificare la declaratoria di decadenza del permesso di costruire: parziale recinzione del fondo, accompagnata dallo sbancamento del terreno e dall’esecuzione dei lavori di scavo (cfr. TAR Campania-Napoli, 25.09.2008, n. 10890); presenza di un setto di muratura di laterizio o l’installazione di un contatore di energia elettrica e del cartello di cantiere, ovvero il taglio di alcuni alberi nella zona interessata alla costruzione dell’ampliamento (cfr. TAR Veneto, 23.01.2008, n. 174); semplice sbancamento del terreno (cfr. TAR Lombardia-Milano, 08.03.2007, n. 372); sola esecuzione dei lavori di scavo di sbancamento senza che sia manifestamente messa a punto l'organizzazione del cantiere e vi siano altri indizi che dimostrino il reale proposito del titolare della concessione edilizia di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione ed al completamento dell'opera (cfr. TAR Campania–Napoli, 05.01.2006, n. 59; TAR Lazio–Roma, 28.06.2005, n. 5370; TAR Lazio–Latina, 23.02.2007, n. 133); modesti sbancamenti di terreno oramai ricoperti di acqua e vegetazione o la mera comunicazione dell’inizio dei lavori (cfr. sempre TAR Lazio–Roma, 28.06.2005, n. 5370).
Diverso sarebbe stato nel caso la ricorrente avesse provato –a titolo di esempio– di aver impiantato il cantiere, di aver eseguito demolizioni o scavi di entità significativa, di aver picchettato il terreno, etc., vale a dire di aver posto in essere le attività materiali che la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria reputano idonee a integrare un effettivo inizio dei lavori e, dunque, sostanziano un serio intento costruttivo.
Ne deriva che anche nell’ipotesi di mancato contrasto del titolo controverso con il sopravvenuto PGT (rilievo, questo, sulla base del quale è stata dedotta la violazione del principio ne bis in idem) difetterebbe, comunque, l’essenziale condizione prevista dall’art. 15, comma 4, del DPR 380/2001 (vale a dire l’effettivo inizio dei lavori).
Ragione per cui l’impugnato provvedimento di decadenza del permesso di costruire n. 51435/2012 è legittimo sia sul piano dei presupposti normativi sia dal punto di vista della retrostante istruttoria procedimentale.
In conseguenza dell’infondatezza del ricorso:
   - possono ritenersi assorbiti gli ulteriori profili di censura dedotti con il quarto motivo, riguardanti l’impugnazione di previsioni pianificatorie che avrebbero limitato lo jus aedificandi;
   - deve respingersi la domanda risarcitoria, peraltro proposta in modo del tutto generico.
Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono quantificate, ai sensi del DM 55/2014, in €. 1.500,00, oltre accessori, che la società Ca.Im. s.r.l. dovrà corrispondere al Comune di Como (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.11.2017 n. 2111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Obbligo di bonifica dei siti inquinati.
Il TAR Milano ribadisce che l’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sul responsabile dell’inquinamento e non sul mero proprietario dell’area.
Il TAR richiama l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale, ai sensi degli art. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla P.A. solo ai soggetti responsabili dell'inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione con un comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità.
Aggiunge il TAR che, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola qualità, dal quadro normativo emergono le seguenti regole:
   1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione;
   2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo 244, comma 2);
   3) se il responsabile non è individuabile o non provveda gli interventi necessari sono adottati dall'amministrazione competente (articolo 244, comma 4);
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2) (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, 05.10.2016, n. 4099, la quale rinvia alla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 04.03.2015 - sez. terza, nella causa C-534/13 - e l'ordinanza del medesimo organo del 06.10.2015 - sez. ottava, nella causa C-592/13; cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sezione IV, 13.10.2016, n. 1860)
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it).
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MASSIMA
3.2.1. Il primo motivo di ricorso è fondato.
3.2.2. Invero, non è revocabile in dubbio che,
secondo la condivisibile giurisprudenza, l’obbligo di bonifica dei siti inquinati grava sul responsabile dell’inquinamento (la locuzione “chi inquina paga”), e non sul proprietario dell’area per tale: “Ai sensi degli art. 242, comma 1, e 244, comma 2, d.lgs. n. 152 del 2006, una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pa solo ai soggetti responsabili dell'inquinamento, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione con un comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità. In proposito, non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile in ragione di tale sola qualità, dal quadro normativo emergono le seguenti regole:
   1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione;
   2) gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano solo sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (articolo 244, comma 2);
   3) se il responsabile non è individuabile o non provveda gli interventi necessari sono adottati dall'amministrazione competente (articolo 244, comma 4);
   4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito dopo l'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
   5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato da un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)
(così C.d.S., VI, 05.10.2016, n. 4099, la quale rinvia alla sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 04.03.2015 -sez. terza, nella causa C-534/13- e l'ordinanza del medesimo organo del 06.10.2015 -sez. ottava, nella causa C-592/13; cfr. anche TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 13.10.2016, n. 1860).
3.2.3. Invero, già all’epoca in cui era stato emesso il provvedimento impugnato, che la Al. non fosse responsabile, pur parzialmente, della contaminazione non veniva negato dalla stessa Amministrazione resistente, oltre che dalle Autorità di controllo (cfr. supra sub 2.2.1.).
3.2.4. I nuovi documenti prodotti dalla ricorrente, il cui contenuto è poi esposto nell’ultima sua memoria confermano l’estraneità di Al..
In particolare, nel report conclusivo del cd. Progetto Plumes, finanziato dalla Regione Lombardia, proprio con riferimento al trend di concentrazioni rilevate negli anni 2009-2014 nel piezometro PZ1 (quello di cui è stato richiesto lo spurgo ad Al.) e con l'obiettivo di localizzare la zona esterna al sito Al. di provenienza della contaminazione osservata nel medesimo piezometro, ARPA Lombardia ha confermato che "risulta plausibile l'ipotesi che la sorgente dell'inquinamento da Cr VI (cromo esavalente) sia situata entro una distanza di circa 300 m dal piezometro” suddetto (cfr. Progetto Plumes, Sintesi report conclusivo, febbraio 2015, doc. 13 di parte ricorrente, pagg. 97-99).
3.3.1. Escluso dunque che ad Al. potessero essere imposte prescrizioni diverse ed ulteriori da quelle che essa aveva già volontariamente deciso di osservare, quale responsabile della contaminazione, è altresì escluso che tali ulteriori prescrizioni le potessero essere imposte quale proprietaria.
3.3.2. Invero,
l’art. 245 del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, intitolato agli obblighi d’intervento e di notifica da parte dei soggetti non responsabili della potenziale contaminazione, al II comma stabilisce che “Fatti salvi gli obblighi del responsabile della potenziale contaminazione di cui all'articolo 242, il proprietario o il gestore dell'area che rilevi il superamento o il pericolo concreto e attuale del superamento della concentrazione soglia di contaminazione (CSC) deve darne comunicazione alla regione, alla provincia ed al comune territorialmente competenti e attuare le misure di prevenzione secondo la procedura di cui all'articolo 242”, con l’ulteriore precisazione che è “comunque riconosciuta al proprietario o ad altro soggetto interessato la facoltà di intervenire in qualunque momento volontariamente per la realizzazione degli interventi di bonifica necessari nell'ambito del sito in proprietà o disponibilità”.
3.4.1.
Tali misure di prevenzione –comunque distinte dagli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino, i quali gravano solo sul responsabile della contaminazione– sono definite dall’art. 240, I comma, lett. i), del d.lgs. cit., come “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”;
3.4.2. Ebbene, è evidente che le prescrizioni introdotte con il provvedimento gravato nei confronti di Al. (sopra sub 1.4. e 1.5.) non sono affatto destinate a impedire un imminente evento dannoso, nel contenuto intervallo di tempo tra quando il proprietario dell’area contaminata ha acquisito consapevolezza della minaccia, e l’Autorità competente è posta in grado di affrontare l’evento critico.
3.4.3. Al contrario, l’Autorità richiede qui ad Al. interventi di riparazione e di messa in sicurezza, non contingenti ma continuativi, e evidentemente non riferibili alla fase iniziale di una emergenza.
È insomma evidente come, in specie, l’Autorità cerchi di ampliare gli oneri gravanti sul proprietario rispetto a quelli stabiliti per legge, senza tener conto che le misure di prevenzione sono dirette a contrastare una minaccia ambientale imminente, che possa realizzarsi in un futuro prossimo, e non riguardano, dunque, né situazioni in cui l'inquinamento sia un fenomeno già ampiamente diffuso, né interventi che richiedano soluzioni tecniche incompatibili con la salvaguardia immediata del bene.
3.5. Il secondo motivo di ricorso può essere ritenuto assorbito dall’accoglimento del primo, da cui deriva in radice l’esclusione dell’obbligo di ulteriori adempimenti a carico della ricorrente, diversi da quelli già in precedenza accettati (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 06.11.2017 n. 2088 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARITutte le parole hanno un peso. Lede l'onore assimilare la persona a esseri ripugnanti. DIRITTO DI CRITICA/ Le recenti pronunce sul tema della Corte di Cassazione.
Il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando, però, che il fatto presupposto e oggetto della critica deve corrispondere a verità.

Così la Corte di Cassazione, Sez. III civile, con l'ordinanza 26.10.2017 n. 25420, che si inscrive nel novero di una serie di recenti pronunce in tema di diritto di critica.
Vediamole.
LE PAROLE HANNO UN PESO
Assume rilievo determinante la valenza sociale delle parole, al di là e al di fuori della specifica intenzione di chi le adopera, con la conseguenza che obiettivamente lesive dell'onore sono quelle espressioni con le quali si «disumanizza» la vittima, assimilandola a cose, animali o concetti comunemente ritenuti ripugnanti, osceni, disgustosi.
È quanto ribadito dai giudici della quinta sezione penale della Corte di Cassazione, Sez. V penale, con la sentenza 03.11.2017 n. 50187.
I giudici di piazza Cavour hanno altresì ribadito nella sentenza in commento che, in ossequio anche a un ormai consolidato orientamento dettato dalla giurisprudenza, il diritto di critica va a concretizzarsi in un giudizio valutativo che postula l'esistenza del fatto assunto a oggetto o spunto del discorso critico e una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture e iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all'opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi.
Ed è la stessa Cassazione (si veda: sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016, C, Rv. 267866) che in particolare, ha evidenziato come «il requisito della continenza postula una forma espositiva corretta della critica rivolta, ossia strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell'altrui reputazione».
Occorre, pertanto, una sorta di verifica della strumentalità dell'espressione nel bilanciamento tra la protezione della fondamentale libertà di espressione e l'esigenza di assicurare il rispetto dei diritti della persona, pur aspra, adoperata rispetto alle finalità di critica e coglie, nel superamento di tale fondamentale requisito funzionale, la gratuità della condotta.
E, come sottolineato dai giudici, tale momento valutativo è certo strettamente legato agli obiettivi comunicativi perseguiti e allo specifico contesto nel quale l'espressione è adoperata, ma è necessariamente correlato anche al contenuto di quest'ultima, in quanto la pur giustificata critica dell'operato altrui impone, comunque, il rispetto di quelli che sono e restano limiti invalicabili, posti dall'art. 2 Cost., a tutela della dignità umana, con la conseguenza che alcune modalità espressive sono oggettivamente (e dunque per l'intrinseca carica di disprezzo e dileggio che esse manifestano o per la riconoscibile volontà di umiliare il destinatario) da considerarsi offensive e, quindi, inaccettabili in qualsiasi contesto pronunciate, tranne che siano riconoscibilmente utilizzate ioci causa (sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015, Foti, Rv. 263711).
DIRITTO DI CRITICA: DA NON CONFONDERE COL DIRITTO DI CRONACA
Il diritto di critica non si concreta, come quello di cronaca, nella mera narrazione veritiera di fatti, ma si esprime in un giudizio che, come tale, non può che essere soggettivo rispetto ai fatti stessi, fermo restando, però, che il fatto presupposto e oggetto della critica deve corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze oggettive, così come accade per il diritto di cronaca.
Lo hanno sottolineato sempre i giudici della Corte di Cassazione (III Sez. civile) con l'ordinanza 26.10.2017 n. 25420.
Inoltre, sempre nell'ordinanza di cui sopra, si legge che in tema di diffamazione, «è necessario e sufficiente che ricorra il dolo generico, anche nelle forme del dolo eventuale, cioè la consapevolezza di offendere l'onore e la reputazione altrui, la quale si può desumere dalla intrinseca consistenza diffamatoria delle espressioni usate (Cass., 20.12.2007, n. 26964, che richiama la giurisprudenza penale di questa Corte in materia)».
Circa poi la sussistenza di un danno non patrimoniale, quale conseguenza pregiudizievole (ossia, una perdita ai sensi dell'art. 1223 cod. civ., quale norma richiamata dall'art. 2056 cod. civ.) di una lesione suscettibile di essere risarcita, gli Ermellini hanno ribadito che deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene a tale ultimo fine possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici, là dove, proprio in materia di danno causato da diffamazione a mezzo della stampa, idonei parametri di riferimento possono rinvenirsi, tra gli altri, dalla diffusione dello scritto, dalla rilevanza dell'offesa e dalla posizione sociale della vittima (Cass., 25.05.2017, n. 13153).
SI PUÒ CRITICARE L'OPERATO DEL FUNZIONARIO PUBBLICO
E, infine, circa le critiche mosse da un cittadino a un funzionario pubblico, i giudici della Corte di Cassazione (Sez. feriale penale, sentenza 21.09.2017 n. 43139) hanno ricordato il principio di diritto secondo il quale i cittadini hanno il diritto di segnalare liberamente alle autorità competenti i comportamenti dei funzionari pubblici che ritengano irregolari o illegali.
Tale principio si attaglia perfettamente al caso sottoposto all'attenzione della Suprema corte, dove il cittadino Tizio aveva denunciato agli organi preposti al controllo dell'azione del funzionario Caio la condotta che questi aveva tenuto, nel trattare una pratica di suo interesse, che appariva, nella fase in cui era stata sporta la denuncia, irregolare, come aveva ex post dimostrato la ritenuta responsabilità dell'ente pur sotto il solo profilo della responsabilità precontrattuale.
Tizio con una lettera inviata al sindaco e al magistrato della Corte dei conti, aveva inteso denunciare una condotta, che aveva ritenuto scorretta, tenuta da un funzionario del comune in una pratica di suo interesse.
Lo stesso aveva utilizzato un linguaggio contenuto, limitandosi a prefigurare che il funzionario non avesse rispettato il suo dovere di imparzialità. Del resto il funzionario pubblico si era prima interessato della pratica per poi dichiarare che intendeva astenersene.
Se è vero che, ex post, il tribunale amministrativo regionale aveva affermato che Tizio non aveva diritto a essere risarcito, lo stesso giudice aveva, nel contempo, affermato che l'ente era incorso in una responsabilità di tipo precontrattuale.
Ne discende che, ferma rimanendo la contenutezza del linguaggio utilizzato nella missiva (peraltro indirizzata proprio agli organi di controllo dell'operato del funzionario la cui condotta si era sottoposta a critica), nella stessa non si erano superati i limiti della pertinenza dell'argomentazione e della verità dei fatti esposti, almeno in relazione alla posizione soggettiva del ricorrente e all'andamento della pratica di suo interesse (articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, disciplinare pesante. Condanna in primo grado? Sospensione dall'attività. Sezioni unite della Corte di cassazione sugli effetti delle decisioni in campo penale.
In tema di disciplinare avvocati, la condanna penale in primo grado è di per sé sufficiente a far scattare la sospensione cautelare dall'esercizio della professione forense: lo hanno chiarito le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione nella sentenza 03.11.2017 n. 26148.
La vicenda trae origine dalla condanna in primo grado a tre anni e tre mesi di un legale il quale, in qualità di assessore ai lavori pubblici, era stato ritenuto responsabile di alcuni illeciti penali commessi durante il suo mandato; in considerazione della condanna e del fatto che l'accaduto era stato riportato su un articolo di giornale, il Consiglio distrettuale di disciplina aveva provveduto a comminargli la sospensione cautelare di sei mesi dall'esercizio della professione forense «rilevando che lo stesso aveva commesso reati oggettivamente gravi e soggettivamente legati alla sua qualità pubblica (assessore provinciale) oltre che di iscritto all'ordine forense, “e in quanto tale destinatario di ancora maggiori obblighi di carattere etico e comportamentale”».
Avverso tale delibera il libero professionista propone ricorso al Cnf che respinge ogni doglianza sul presupposto che la sospensione cautelare non è una sanzione disciplinare e che il legislatore, a seguito della riforma dell'ordinamento forense, ha provveduto a tipizzarne i presupposti applicativi così «escludendo l'esistenza di un potere discrezionale di applicazione da parte degli organi competenti al di fuori dei casi espressamente previsti».
Dello stesso parere è stato anche il Supremo consesso, il quale ha evidenziato come ratio della norma sia quella di prevedere l'applicazione di una misura cautelare con un «provvedimento amministrativo non giurisdizionale a carattere provvisorio ed urgente in ipotesi tipiche di accertata rilevante gravità».
Ove la norma in questione dovesse essere applicata solo all'esito di un accertamento definitivo ed irretrattabile di responsabilità penale la sospensione cautelare finirebbe con il diventare un'inutile duplicazione della sanzione disciplinare non assolvendo alla funzione di tutela dell'immagine della categoria professionale degli avvocati, proprio nel momento di maggior risonanza della notizia (articolo ItaliaOggi Sette del 13.11.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: House providing. Assunzioni, decide il giudice ordinario.
Spetta al giudice ordinario decidere le controversie relative alle procedure seguite dalle società in house providing per l'assunzione del personale dipendente.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 02.11.2017 n. 5074.
Muovendo dal ragionamento fatto precedentemente dalle Sezioni unite della Cassazione, secondo cui le società in house costituiscono in realtà mere articolazioni della pubblica amministrazione, i giudici di Palazzo Spada rilevano che però, per quanto attiene l'attività di reclutamento del proprio personale, non si ravvisa tale equiparazione, per cui deve essere mantenuta ferma la giurisdizione ordinaria, trattandosi di atti posti in essere da un soggetto di diritto privato nell'esercizio di poteri privatistici.
Tale principio di diritto troverebbe conferma anche nell'art. 19 del recente T.u. sulle società pubbliche 19.08.2016 n. 175, che ribadisce i principi della normativa del 2008 in ordine al reclutamento del personale da parte delle società a controllo pubblico. In particolare, il comma 4 dell'art. 19 prevede che: «Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale»
(articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).
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MASSIMA
4. Ritenuto che la società Sa.Pu. s.p.a. è una società ad intera partecipazione pubblica, che gestisce servizi pubblici locali in regime di in house providing per conto del Comune di Salerno;
5. Ricordato che
le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza 27.03.2017, n. 7759, hanno affermato che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario in materia di controversie relative alle procedure di assunzione di personale alle dipendenze di società c.d in house providing;
6. Osservato che il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite muove dalla considerazione che i principi affermati con la sentenza a Sezioni Unite del 25.11.2013, n. 26283, secondo cui
le società in house costituiscono in realtà mere articolazioni della pubblica amministrazione, devono essere intesi con riferimento alla sola materia del danno erariale e dunque devono ritenersi rilevanti unicamente ai fini di radicare la giurisdizione della Corte dei Conti.
In relazione alla attività di reclutamento del proprio personale, invece, per le Sezioni Unite non si ravvisa una tale equiparazione tra le società in house e le pubbliche amministrazioni, per cui deve essere mantenuta ferma la giurisdizione ordinaria, trattandosi di atti posti in essere da un soggetto di diritto privato nell’esercizio di poteri privatistici;

7. Rilevato ancora che secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite,
tale principio di diritto trova conferma nell’art. 19 del recente T.U. sulle società pubbliche 19.08.2016 n. 175, che ribadisce i principi della normativa del 2008 in ordine al reclutamento del personale da parte delle società a controllo pubblico. In particolare, il comma 4 dell’art. 19 prevede che: “Resta ferma la giurisdizione ordinaria sulla validità dei provvedimenti e delle procedure di reclutamento del personale.”
Alla luce di ciò, –ad avviso delle Sezioni Unite–
deve dedursi la perdurante giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie relative alle procedure seguite dalle società cosiddette in house providing per l’assunzione di personale dipendente.
8. Ritenuto che in adesione a tale orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, la sentenza appellata ha correttamente declinato la giurisdizione in favore del giudice ordinario, dinanzi al quale la presente controversia potrà essere riassunta secondo la disciplina della traslatio iudicii;

TRIBUTIIci/Imu, conta solo il catasto. Ai fini dell'esenzione è decisiva la classificazione D/10. Cambio di rotta della Cassazione: le precedenti pronunce sono orientamento minoritario.
Per l'esenzione Ici, ma la stessa regola vale per l'Imu, conta solo la categoria catastale.

La Corte di Cassazione, Sez. V civile, mette ordine e con l'ordinanza 31.10.2017 n. 25936 smentisce alcune pronunce emanate anche di recente sui fabbricati rurali strumentali, perché ritiene che si tratti di un orientamento minoritario, e afferma che è decisiva per l'esenzione dalle imposte locali solo la loro classificazione catastale nella categoria D/10.
Esclude, dunque, che per avere diritto all'esenzione sia sufficiente per questi immobili la loro destinazione all'esercizio dell'attività agricola. Per i giudici di piazza Cavour, «l'orientamento di legittimità così delineato non è scevro da alcuni precedenti di segno contrario (v. Cass. 16973/2015; 10355/2015; 14013/2012 e talune altre), secondo i quali l'esenzione dall'Ici dovrebbe venire riconosciuta in ragione del solo carattere di ruralità concretamente rivestito dall'immobile (nel senso, ricordato, di strumentalità all'esercizio dell'attività agricola), a prescindere dal suo classamento catastale. Si tratta però di voci, largamente minoritarie, che si ritiene in questa sede di dover disattendere».
In realtà, la Cassazione negli ultimi anni ha avuto un comportamento oscillante sull'esenzione per i fabbricati rurali strumentali. Con quest'ultima pronuncia smentisce quanto sostenuto con le sentenze sopra citate e afferma la validità del vecchio principio contenuto nella sentenza a sezioni unite 18565/2009, secondo cui l'agevolazione spetta per i fabbricati strumentali all'attività agricola solo se inquadrati catastalmente nella categoria D/10. Non è sufficiente che il contribuente utilizzi, di fatto, il fabbricato per lo svolgimento dell'attività agricola, a prescindere dall'inquadramento catastale.
Non sempre in linea con la Cassazione è stata la giurisprudenza di merito. Per esempio, la Commissione tributaria regionale di Cagliari (sent. 29/2016) ha ritenuto che per il riconoscimento dell'esenzione non conta la categoria catastale. L'immobile strumentale va considerato rurale se utilizzato per la manipolazione, trasformazione, conservazione, valorizzazione o commercializzazione dei prodotti agricoli dei soci. Per l'Agenzia del territorio (circ. 2/2012), non conta più la classificazione catastale per avere diritto al trattamento agevolato per i fabbricati rurali: possono mantenere le loro categorie originarie. È sufficiente l'annotazione catastale, tranne per fabbricati strumentali che siano per loro natura censibili nella categoria D/10.
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Il provvedimento non è retroattivo.
Il provvedimento che attribuisce la categoria D/10 a un fabbricato rurale ha natura costitutiva e non dichiarativa. Dunque, non può avere effetto retroattivo. Com'è noto hanno diritto all'esenzione Ici, ma lo stesso vale per l'Imu, i possessori di fabbricati strumentali censiti nella categoria D/10, perché solo l'inquadramento in questa categoria certifica la loro ruralità.
L'annotazione in catasto non serve per i fabbricati delle cooperative a certificare la loro ruralità e ad attribuire alla categoria la retroattività per gli anni precedenti alla presentazione dell'istanza, in quanto per i fabbricati aventi funzioni produttive connesse alle attività agricole è acclarato il requisito della ruralità solo se censiti nella categoria D/10. Per gli immobili strumentali non accatastati o non accatastabili nella suddetta categoria, invece, la ruralità va riconosciuta in presenza dell'annotazione ottenibile mediante domanda alle Entrate.
Lo prevedono le norme del decreto del Mef del 26/7/2012, che ha dato attuazione all'art. 13 del dl 201/2011, e le indicazioni che ha fornito l'Agenzia del territorio con la circ. n. 2/T del 07/08/2012. L'art. 1, comma 1, del decreto ministeriale prevede che «ai fabbricati rurali destinati ad abitazione e ai fabbricati strumentali all'esercizio dell'attività agricola è attribuito il classamento, in base alle regole ordinarie, in una delle categorie catastali previste nel quadro generale di qualificazione».
In base al comma 2 dello stesso articolo, ai fini dell'iscrizione negli atti del catasto della sussistenza del requisito di ruralità in capo ai fabbricati rurali, «diversi da quelli censibili nella categoria D/10, è apposta una specifica annotazione» (articolo ItaliaOggi Sette del 27.11.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, cui va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
Stante il carattere vincolato dell’attività, tale da rendere non necessaria neppure la comunicazione di avvio dell’iter, è da escludere la configurabilità stessa di un autovincolo da parte dell’Amministrazione, atteso che l’esito del procedimento non può che essere strettamente conseguente alle risultanze istruttorie.

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Nei procedimenti a iniziativa d’ufficio, l’Amministrazione non è tenuta a comunicare lo schema finale del provvedimento che intende adottare, non essendo previsto normativamente un istituto assimilabile alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, operante con riferimento ai procedimenti a istanza di parte, ai sensi dell’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990.
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Ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative.
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8. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono di seguito.
9. I ricorrenti allegano, anzitutto, con il primo e il secondo motivo di ricorso, che l’Amministrazione avrebbe disatteso il vincolo che si sarebbe imposta nel definire l’oggetto del procedimento, prima con la comunicazione di avvio del procedimento, e poi con il verbale di sopralluogo.
In questa prospettiva, essi evidenziano che l’ordinanza di demolizione afferma la totale difformità delle opere anche rispetto alla concessione edilizia del 1993, che non era stata richiamata nella comunicazione di avvio del procedimento, e che l’illecito edilizio ipotizzato nel verbale di sopralluogo consisteva in una mera difformità parziale, e non invece nella difformità totale rispetto ai titoli edilizi, indicata poi nel provvedimento finale.
9.1 Al riguardo, è sufficiente richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, per il quale l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario (Cons. Stato, Sez. VI, 14.03.2014, n. 1292; Id., 04.03.2013, n. 1268; Id., Sez. IV, 04.02.2013, n. 666), cui va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez. V, 07.06.2015, n. 3051).
Stante il carattere vincolato dell’attività, tale da rendere non necessaria neppure la comunicazione di avvio dell’iter, è da escludere la configurabilità stessa di un autovincolo da parte dell’Amministrazione, atteso che l’esito del procedimento non può che essere strettamente conseguente alle risultanze istruttorie.
9.2 D’altro canto, nel caso di specie le garanzie di partecipazione procedimentale dei ricorrenti risultano essere state ampiamente garantite.
Non solo, infatti, risulta la partecipazione della proprietà e del tecnico di parte al sopralluogo che ha consentito di accertare lo stato dei luoghi, ma gli interessati sono stati anche resi edotti, anteriormente allo svolgimento delle verifiche fattuali, dell’avvio del procedimento, e messi così pienamente in grado di interloquire con l’Amministrazione; facoltà di cui si sono effettivamente avvalsi.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla comunicazione di avvio del procedimento o a quanto ipotizzato nelle conclusioni espresse dai tecnici nel verbale di sopralluogo, non potrebbe in ogni caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di partecipazione procedimentale. E ciò non solo perché –come detto– il provvedimento adottato costituisce, per sua natura, l’esito vincolato dell’istruttoria procedimentale svolta, ma anche per l’ulteriore ragione che, nei procedimenti a iniziativa d’ufficio, l’Amministrazione non è tenuta a comunicare lo schema finale del provvedimento che intende adottare, non essendo previsto normativamente un istituto assimilabile alla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento della domanda, operante con riferimento ai procedimenti a istanza di parte, ai sensi dell’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990.
9.3 Le censure vanno quindi respinte.
10. I ricorrenti lamentano, poi, sempre nel primo motivo di impugnazione, la circostanza che –a loro avviso– l’Amministrazione avrebbe omesso di prendere in considerazione l’apporto procedimentale da essi reso mediante la produzione di una memoria.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n. 4928).
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato, Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez. II-ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, l’apporto procedimentale dei signori Ra. risulta essere stato preso in considerazione, atteso che la memoria da essi prodotta a seguito della comunicazione di avvio del procedimento è stata richiamata esplicitamente nel verbale di sopralluogo. Anzi –come ammesso dagli stessi interessati– le conclusioni espresse dai tecnici nel verbale di sopralluogo hanno persino fatto proprie alcune considerazioni espresse nella suddetta memoria, con riferimento alla questione attinente al diritto di uso pubblico sulla strada vicinale.
Quanto alle ulteriori argomentazioni esposte in sede procedimentale dagli odierni ricorrenti, queste erano dirette a illustrare le ragioni per le quali, secondo i signori Ra., il potere repressivo non avrebbe potuto essere esercitato. Tali ragioni, tuttavia, sono implicitamente confutate dal richiamo, contenuto nell’ordinanza di demolizione, alle norme di legge dalle quali l’esercizio di tale potere discende, quale esito vincolato; norme delle quali peraltro –come meglio si dirà nel prosieguo– l’Amministrazione risulta aver fatto buon governo.
10.3 Anche sotto questo profilo, le censure dei ricorrenti vanno quindi rigettate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza ha da tempo chiarito che “(...) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione; e non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l'interessato può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (idem)”.
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I ricorrenti invocano l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in alcuni casi determinati, deve darsi rilievo all’affidamento del proprietario al mantenimento dell’opera abusiva.
Occorre, tuttavia, osservare che tale orientamento –sottoposto con ordinanza della Sez. VI del Consiglio di Stato n. 1337 del 24.03.2017 al vaglio dell’Adunanza Plenaria– subordina comunque la rilevanza dell’interesse individuale ad evitare la sanzione edilizia al riscontro di ben precise e rigorose condizioni.
Non a caso, le ipotesi nelle quali viene riconosciuta rilevanza all’affidamento dei privati vengono qualificate da questo stesso indirizzo giurisprudenziale come autentici casi-limite, riscontrabili solo ove sia pacificamente accertato che:
   - l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto non sia responsabile dell’abuso;
   - l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi;
   - sia decorso un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la realizzazione dell’abuso il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi.

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11. Nel primo e nel terzo motivo di impugnazione si lamenta, poi, la mancata considerazione dell’affidamento dei ricorrenti e la violazione del principio di proporzionalità.
11.1 In proposito, deve tuttavia osservarsi che la giurisprudenza, anche della Sezione, ha da tempo chiarito che “(...) l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato e, quindi, non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (es. Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010); e non può ammettersi alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può avere legittimato, né l'interessato può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (idem)” (così, ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 14.03.2014, n. 1292; nello stesso senso: Cons. Stato, Sez. VI, 05.05.2016, n. 1774; Id., 23.10.2015, n. 4880; Id., 29.01.2015, n. 406; Id., 05.01.2015, n. 13; Id., 04.03.2013, n. 1268; Id., 28.01.2013, n. 498; Id., Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702; 04.05.2012 n. 2592; Id., 20.07.2011, n. 4403; Id., Sez. V, 11.07.2014, n. 4892; Id., 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37; Id., 04.08.2016, n. 1567; Id., 26.05.2016, n. 1096; Id., 27.08.2014, n. 2261).
11.2 I ricorrenti invocano l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in alcuni casi determinati, deve darsi rilievo all’affidamento del proprietario al mantenimento dell’opera abusiva (Cons. Stato, Sez. VI, 08.04.2016, n. 1393; Id., 14.08.2015 n. 3933; Id., 18.05.2015, n. 2512; Id., Sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; Id., Sez. V, 15.07.2013, n. 3847).
Occorre, tuttavia, osservare che tale orientamento –sottoposto con ordinanza della Sez. VI del Consiglio di Stato n. 1337 del 24.03.2017 al vaglio dell’Adunanza Plenaria– subordina comunque la rilevanza dell’interesse individuale ad evitare la sanzione edilizia al riscontro di ben precise e rigorose condizioni. Non a caso, le ipotesi nelle quali viene riconosciuta rilevanza all’affidamento dei privati vengono qualificate da questo stesso indirizzo giurisprudenziale come autentici casi-limite, riscontrabili solo ove sia pacificamente accertato che: l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto non sia responsabile dell’abuso; l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi; sia decorso un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la realizzazione dell’abuso il successivo acquisto, e più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi (in questo senso, v. ancora: Cons. Stato, Sez. VI, n. 3933 del 2015, cit.; Id., Sez. IV, n. 1016 del 2014, cit., nonché il quesito sottoposto all’Adunanza Plenaria dall’ordinanza n. 1337 del 2017).
11.3 Nel caso oggetto del presente giudizio, nessuna di tali condizioni risulta riscontrabile, atteso che, anzitutto, gli attuali proprietari ammettono di essere autori dell’illecito edilizio, per cui –già per questo profilo– deve escludersi qualsivoglia affidamento meritevole di tutela al mantenimento della situazione di fatto. D’altro canto, l’epoca di realizzazione dell’abuso è controversa tra le parti, e –in ogni caso– non risulta affatto che l’Amministrazione abbia lungamente tollerato l’illecito dopo esserne venuta a conoscenza.
Emerge, infatti, dagli atti che l’attuale stato dei luoghi sia stato accertato soltanto con il sopralluogo del gennaio 2016, mentre in precedenza al Comune risultava la realizzazione della recinzione con semplice rete metallica, senza opere murarie, secondo quanto previsto dalla licenza edilizia del 1972. Ciò si evince, in particolare, dalla circostanza che, nella nota del 1980, sopra richiamata, il Sindaco aveva rassicurato alcuni privati, autori di un esposto, sulle caratteristiche della recinzione. Inoltre, nell’istanza presentata dagli odierni ricorrenti nel 1992, al fine di ottenere la concessione edilizia per la realizzazione di un diverso tratto di recinzione, le opere oggetto del presente giudizio vengono indicate nell’elaborato progettuale come “recinzione esistente paline e rete” (v. doc. 7 del Comune).
11.4 La fattispecie oggetto del presente giudizio, pertanto, non risulta comunque riconducibile ai casi-limite considerati dalla suddetta giurisprudenza. Conseguentemente, deve confermarsi il carattere vincolato del provvedimento. Circostanza, questa, che esclude anche uno spazio di applicazione dell’invocato principio di proporzionalità.
Da ciò il rigetto delle censure (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo l’orientamento della giurisprudenza dominante, sono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria.
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In ogni caso, deve rilevarsi che, anche laddove si fosse trattato di opera soggetta a semplice segnalazione di inizio attività, ciò non determinerebbe, di per sé, l’illegittimità dell’ordine di demolizione.
Deve, infatti, tenersi presente che, ai sensi dell’articolo 27, comma 2, primo periodo del d.P.R. n. 380 del 2001, il dirigente o il responsabile deve provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi, tra l’altro, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici (...), nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (...)”; e ciò indipendentemente dal titolo necessario all’esecuzione dell’intervento.
Conseguentemente, laddove l’opera realizzata senza titolo, pur soggetta astrattamente a segnalazione certificata di inizio attività, non sia conforme alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, deve esserne disposta la demolizione.
Si tratta, del resto, di una previsione del tutto in linea con il tenore dell’articolo 37, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove l’applicazione della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi edilizi –realizzati in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività– di cui all’articolo 22, commi 1 e 2: disposizioni, queste, che richiamano espressamente la conformità urbanistica delle opere.
Anche sotto questo profilo, resta, perciò, confermato che soltanto in presenza del requisito della conformità urbanistica le opere realizzate senza titolo, ma astrattamente soggette a segnalazione certificata di inizio attività, vanno sottoposte alla sanzione pecuniaria, invece che alla demolizione. Quest’ultima sanzione non può, invece, essere evitata laddove non sia riscontrabile il predetto requisito di conformità.
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13. In considerazione di quanto sopra esposto, vanno pure rigettate le doglianze di difetto di motivazione, variamente articolate nel terzo e nel quarto motivo di ricorso, laddove si lamenta la mancata adeguata considerazione della situazione di fatto e di diritto e l’omessa illustrazione dei profili di totale difformità riscontrati dall’Amministrazione.
13.1 L’illustrazione della situazione dei luoghi, il richiamo dei precedenti titoli abilitativi e il riferimento alla fattispecie di illecito edilizio riscontrata dal Comune, con il rinvio all’articolo 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, costituiscono, infatti, motivazione sufficiente del provvedimento –vincolato– assunto dall’Amministrazione.
D’altro canto, come anticipato, la determinazione assunta risulta rispondente al paradigma normativo.
13.2 Deve anzitutto osservarsi che, secondo l’orientamento della giurisprudenza dominante, cui la Sezione ha già manifestato adesione, “sono esenti dal regime del permesso di costruire solo le recinzioni che non configurino un'opera edilizia permanente, bensì manufatti di precaria installazione e di immediata asportazione (quali, ad esempio, recinzioni in rete metalliche, sorrette da paletti in ferro o di legno e senza muretto di sostegno), in quanto entro tali limiti la posa in essere di una recinzione rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, che comprende lo "ius excludendi alios" o, comunque, la delimitazione delle singole proprietà.
Viceversa, è necessario il permesso di costruire quando la recinzione costituisca opera di carattere permanente, incidendo in modo durevole e non precario sull'assetto edilizio del territorio, come ad esempio se è costituita da un muretto di sostegno in calcestruzzo con sovrastante rete metallica o da opera muraria (cfr. fra le tante TAR Puglia, Bari, sez. III, 10/05/2013, n. 714
)” (così: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 20.05.2014, n. 1306; in termini: TAR Puglia, Bari, Sez. III, 15.09.2015, n. 1236; cfr. anche Cons. Stato, Sez. VI, 26.01.2015, n. 333; Id., Sez. V, 09.04.2013, n. 1922; TAR Umbria, 07.08.2013 n. 434; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 07.03.2011 n. 430).
Alla stregua di tale indirizzo, l’opera richiedeva, pertanto, il permesso di costruire.
13.3 In ogni caso, deve rilevarsi che, anche laddove si fosse trattato di opera soggetta a semplice segnalazione di inizio attività, ciò non determinerebbe, di per sé, l’illegittimità dell’ordine di demolizione.
13.3.1 Deve, infatti, tenersi presente che, ai sensi dell’articolo 27, comma 2, primo periodo del d.P.R. n. 380 del 2001, il dirigente o il responsabile deve provvedere alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi, tra l’altro, “quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici (...), nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici (...)”; e ciò indipendentemente dal titolo necessario all’esecuzione dell’intervento.
Conseguentemente, laddove l’opera realizzata senza titolo, pur soggetta astrattamente a segnalazione certificata di inizio attività, non sia conforme alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, deve esserne disposta la demolizione.
Si tratta, del resto, di una previsione del tutto in linea con il tenore dell’articolo 37, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove l’applicazione della sanzione pecuniaria è limitata ai soli interventi edilizi –realizzati in assenza della o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività– di cui all’articolo 22, commi 1 e 2: disposizioni, queste, che richiamano espressamente la conformità urbanistica delle opere.
Anche sotto questo profilo, resta, perciò, confermato che soltanto in presenza del requisito della conformità urbanistica le opere realizzate senza titolo, ma astrattamente soggette a segnalazione certificata di inizio attività, vanno sottoposte alla sanzione pecuniaria, invece che alla demolizione. Quest’ultima sanzione non può, invece, essere evitata laddove non sia riscontrabile il predetto requisito di conformità.
13.3.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il provvedimento impugnato –non censurato sul punto dai ricorrenti– afferma espressamente che “l’intervento in questione risulta in contrasto con la vigente normativa urbanistica e pertanto non può essere oggetto di sanatoria”.
Nel dettaglio, il verbale di sopralluogo ha evidenziato che il mappale 963 è destinato in parte ad “Ambiti per attività produttive – APCr Edifici e complessi produttivi in ambiti residenziali” e in parte ad “Aree MV mobilità e viabilità locale di progetto”, mentre il mappale 3017 (ex 97) è destinato in parte a “Sistema rurale-paesistico-ecologico: ARA – aree di rilevanza locale per l’attività agricola, APA – ambiti di valore ecologico e paesistico/ecologico, A3 – ambito pedecollinare del Pilastrello coincidente con la zona tampone di primo livello BZP definita dal vigente PTCP della Provincia di Como” e in parte ad “Aree MV mobilità e viabilità locale di progetto”.
E, al riguardo, la difesa comunale ha affermato che la recinzione ricade nella porzione del fondo destinata a mobilità e viabilità locale di progetto, e per questa ragione non è conforme al Piano di Governo del Territorio. La stessa difesa ha, inoltre, segnalato che le caratteristiche dell’opera sono comunque incompatibili anche con le previsioni dettate per la residua parte del mappale 3017, ove sono consentiti solo steccati tradizionali in legno.
Non è peraltro necessario approfondire ulteriormente, in questa sede, la destinazione dell’area nella quale ricade il manufatto, atteso che –come anticipato– l’insussistenza del requisito della conformità urbanistica è stata espressamente affermata dal provvedimento impugnato, il quale non è stato censurato nel ricorso per questa parte.
13.3.3 Deve quindi ribadirsi che, nel caso di specie, l’irrogazione della sanzione demolitoria era, in ogni caso, imposta dalle risultanze istruttorie, richiamate nell’ordinanza impugnata.
13.4 Quanto alla totale difformità delle opere rispetto alla licenza edilizia del 1972, questa emerge dalla circostanza che il manufatto allora assentito era un’opera del tutto precaria, e destinata a essere rimossa –secondo quanto riconosciuto dagli stessi ricorrenti– al manifestarsi dell’esigenza dell’allargamento della strada.
L’intervento concretamente realizzato, consistendo in un’opera stabile, per la presenza di un basamento murario, è perciò totalmente difforme rispetto al titolo edilizio. Né può assumere alcuna rilevanza, in senso contrario, la valutazione delle dimensioni del cordolo di sostegno della rete metallica, trattandosi di un dato che non influisce sul riscontro delle caratteristiche funzionali dell’opera concretamente realizzata, in contrasto con quanto indicato nel titolo edilizio.
14. In definitiva, per tutte le ragioni sin qui esposte, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2017 n. 2022 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTI: Comodato, Imu ko. Esente l'immobile concesso ad altri. Ctp Reggio Emilia sui benefici per gli enti non profit.
Esente dall'Imu l'immobile che un ente non commerciale non utilizza direttamente e che concede in comodato gratuito ad altro ente non profit per lo svolgimento di attività didattica. L'agevolazione fiscale non è condizionata dall'uso del bene da parte dell'ente possessore. Non si perde, tra l'altro, il diritto al trattamento agevolato se la concessione in uso gratuito del bene non crea alcun effetto discorsivo, considerata la ratio della norma di legge.

In questo senso si è espressa la commissione tributaria provinciale di Reggio nell'Emilia, Sez. II, con la sentenza 25.10.2017 n. 271.
Per i giudici tributari non c'è alcun motivo per disconoscere l'agevolazione qualora l'immobile venga utilizzato da un ente non commerciale diverso rispetto a quello che ne è titolare, in quanto il requisito del possesso non è imposto dalla norma di legge. Tra l'altro, l'uso in comodato del bene immobile non provoca effetti discorsivi.
In realtà, la presa di posizione della commissione provinciale è in linea con quanto sostenuto dal ministero dell'economia e delle finanze (risoluzione 4/2013), ma si pone in contrasto con l'interpretazione che ha fornito la Cassazione sulla questione de qua. Per i giudici di legittimità, se un ente concede in comodato un immobile a un altro ente, che vi svolge l'attività con modalità non commerciali, non ha diritto all'esenzione Imu e Tasi poiché non lo utilizza direttamente.
La Cassazione ha chiarito che l'esenzione esige l'identità soggettiva tra il possessore, ovvero il soggetto passivo delle imposte locali, e l'utilizzatore dell'immobile.
L'interpretazione del Mef non tiene conto delle pronunce sia della Corte costituzionale (ordinanze 429/2006 e 19/2007) che della Cassazione, secondo cui per fruire dell'esenzione l'ente non commerciale dovrebbe non solo possedere, ma anche utilizzare direttamente l'immobile. Quindi, è richiesta una duplice condizione: l'utilizzazione diretta degli immobili da parte dell'ente possessore e l'esclusiva loro destinazione a attività peculiari che non siano produttive di reddito.
Si ritiene che l'agevolazione non possa essere riconosciuta nel caso di utilizzazione indiretta, ancorché eventualmente assistita da finalità di pubblico interesse. Requisito essenziale per fruire dell'esenzione è il suo possesso qualificato da parte dell'ente. Per l'esonero dalle imposte locali, infatti, non è sufficiente il possesso di fatto. Altrimenti l'agevolazione si estenderebbe al soggetto titolare. L'uso indiretto da parte dell'ente che non ne sia possessore non consente al proprietario di fruire dell'esenzione.
L'esenzione totale o parziale. Va ricordato che in seguito alle modifiche normative che sono intervenute sulla materia, oltre all'esenzione totale, è stata riconosciuta anche l'esenzione parziale Imu e Tasi per gli enti non profit, valutate le condizioni d'uso in concreto dell'immobile. Il beneficio parziale, però, non può valere per l'Ici. Per quest'ultimo tributo, in effetti, era richiesta la destinazione esclusiva dell'immobile per finalità non commerciali.
L'evoluzione della norma che riconosce i benefici fiscali per una parte dell'immobile non può avere effetti retroattivi. Ancorché si tratti della stessa norma che disciplina l'agevolazione, non può essere riconosciuta l'esenzione parziale Ici, come avviene per Imu e Tasi, se parte dell'immobile è destinata a un'attività svolta con modalità commerciali, tra quelle elencate dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992.
Pertanto la disciplina Imu, che si applica anche alla Tasi, dà diritto all'esenzione anche qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista. L'agevolazione si applica solo sulla parte nella quale si svolge l'attività non commerciale, sempre che sia identificabile. La parte dell'immobile dotata di autonomia funzionale e reddituale permanente deve essere iscritta in catasto e la rendita produce effetti a partire dal 01.01.2013. Nel caso in cui non sia possibile accatastarla autonomamente, il beneficio fiscale spetta in proporzione all'utilizzazione non commerciale dell'immobile che deve risultare da apposita dichiarazione.
Le posizioni della Cassazione sulle esenzioni. È da tempo piuttosto controverso il trattamento fiscale che deve essere riservato a gli immobili posseduti dagli enti non profit, considerato che la loro destinazione non sempre può essere qualificata non commerciale. La Corte di cassazione, con l'ordinanza 23548/2011, ha stabilito che un fabbricato utilizzato per l'assistenza di pensionati che pagano delle rette mensili è soggetto al pagamento dell'Ici perché l'attività è svolta con finalità commerciali. Per i giudici di piazza Cavour, che hanno mantenuto nel tempo una certa coerenza su questo tema, il beneficio dell'esenzione dall'imposta non spetta per gli immobili degli enti ecclesiastici «aventi fine di religione e di culto», «che siano destinati allo svolgimento di attività oggettivamente commerciali».
Ancora più netta e rigida è stata la posizione assunta con la sentenza 4342/2015, secondo cui l'esenzione Ici prevista dall'articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 504/1992 «è limitata all'ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto» indicate nella legge 222/1985 e, dunque, non si applica ai fabbricati di proprietà di enti ecclesiastici nei quali si svolga attività sanitaria, non rilevando neppure la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi, che costituisce un momento successivo alla loro produzione e non fa venir meno il carattere commerciale dell'attività (articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).

CONDOMINIO: L'amministratore è buon padre. Ha l'obbligo di svolgere le sue funzioni con diligenza. La Cassazione ha indicato come valutare la condotta di recupero crediti in condominio.
L'amministratore condominiale è tenuto a svolgere la propria attività con diligenza. È questo il criterio per misurare il corretto adempimento delle sue obbligazioni e per valutare se una data condotta, in mancanza di una disposizione specifica, sia o meno dovuta. E così, ma soltanto per il periodo anteriore all'entrata in vigore della riforma del condominio, si può ritenere che l'amministratore non fosse tenuto ad attivarsi per ottenere un decreto ingiuntivo nei confronti dei condomini morosi, ma che per assolvere ai propri obblighi fosse sufficiente inviare agli stessi una semplice diffida di pagamento. Al contrario, oggigiorno, in forza dell'espressa previsione di cui al comma 9 dell'art. 1129 c.c., l'amministratore ha un preciso limite temporale entro il quale attivarsi giudizialmente per il recupero del credito.
Queste le riflessioni che sorgono alla lettura della recente ordinanza 20.10.2017 n. 24920 della VI Sez. civile della Corte di Cassazione.
Il caso concreto. Nella specie un condominio aveva citato in giudizio il precedente amministratore per essere tenuto indenne dai pregiudizi economici derivati dal tardivo pagamento del premio della polizza relativa all'assicurazione dell'edificio condominiale. Il tribunale, con sentenza del 2009, pur avendo accertato che la condotta tenuta dall'ex amministratore fosse risultata inadempiente agli obblighi contrattuali, aveva rigettato la domanda risarcitoria per i danni derivanti dalla mancanza di copertura assicurativa relativamente all'incendio del tetto e aveva condannato quest'ultimo a rimborsare al condominio soltanto la metà delle spese processuali.
Il provvedimento era stato appellato sia dal condominio, in via principale, che dal precedente amministratore, in via incidentale. I giudici di secondo grado, con sentenza dell'ottobre del 2013, proprio in accoglimento di quest'ultimo gravame, avevano però dichiarato l'assenza di responsabilità contrattuale del precedente amministratore, avendo accertato che la mancanza di liquidità sul conto corrente condominiale a causa della quale non era stato possibile provvedere al pagamento del premio era stata originata proprio dalla morosità di alcuni condomini.
La Corte aveva infatti ritenuto che i meri solleciti di pagamento inviati dal medesimo ai morosi fossero sufficienti ai fini dell'adempimento delle proprie obbligazioni, non essendo lo stesso tenuto né a procedere al recupero giudiziale delle spese condominiali non versate né tantomeno ad anticipare le somme occorrenti al pagamento della polizza assicurativa. Di qui il ricorso in Cassazione da parte del condominio.
La diligenza dell'amministratore condominiale. Il rapporto tra amministratore e condomini, come ritenuto dalla giurisprudenza e definitivamente chiarito dalla legge n. 220/2012, deve essere qualificato come un contratto di mandato con rappresentanza. I diritti e gli obblighi dell'amministratore sono quindi stabiliti dalla legge (in particolare dal codice civile, sia dagli artt. 1703 ss. che dagli artt. 1117 ss.), dal regolamento condominiale e dalle deliberazioni assembleari. Ebbene, l'art. 1710 c.c. impone al mandatario di svolgere il proprio compito con la diligenza del buon padre di famiglia, dunque con un livello di attenzione e di applicazione per così dire medio.
Ma, più in generale, è l'art. 1176 c.c. a individuare nella diligenza il criterio di valutazione dell'adempimento delle obbligazioni. Volta per volta, quindi, nel decidere se l'amministratore abbia o meno tenuto la condotta che era lecito aspettarsi in una data occasione, soprattutto in mancanza di una previsione espressa in tal senso, occorrerà fare riferimento al predetto criterio di diligenza. Senza dimenticare che i principali e più generali obblighi dell'amministratore, ex art. 1130 c.c., sono quelli di disciplinare l'uso delle cose comuni e la fruizione dei servizi, di riscuotere i contributi ed erogare le spese occorrenti per la gestione del condominio, nonché di compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio.
La decisione della Suprema corte. Nel caso di specie la sesta sezione civile, preso atto dell'accertamento in fatto nel corso dei giudizi di merito dell'attività svolta dall'amministratore convenuto per il sollecito scritto dei condomini morosi, ha ritenuto corretta la decisione assunta dalla Corte di appello in riforma della sentenza di primo grado sul punto della discrezionalità dell'amministratore nel fare ricorso, in casi del genere, allo strumento del decreto ingiuntivo (ossia della richiesta giudiziale, ex art. 63 disp. att. c.c., di emissione di un ordine di pagamento immediatamente esecutivo sulla base delle risultanze contabili del consuntivo e/o del preventivo approvato dall'assemblea).
Secondo la Cassazione, infatti, detta disposizione «non prevede un obbligo, ma solo una facoltà di agire in via monitoria contro i condomini morosi», visto che la norma riporta testualmente che l'amministratore «può ottenere decreto di ingiunzione...». In altri termini, secondo i giudici di legittimità, al fine di evitare di essere considerato inadempiente rispetto al proprio obbligo generale di riscuotere i contributi dai condomini, all'amministratore basta sollecitare questi ultimi per iscritto al pagamento, dunque metterli in mora.
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Dopo la riforma agire è obbligatorio.
I fatti dei quali la Suprema corte è stata chiamata a occuparsi nella decisione in questione (si veda articolo principale in pagina) risalgono ad alcuni anni prima dell'entrata in vigore della legge n. 220/2012 di riforma del condominio. Occorre quindi chiedersi se, alla luce delle numerose novità normative nel frattempo intervenute, possano considerarsi ancora valide le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici di legittimità.
È vero, infatti, che a seguito della riforma, pur se l'art. 63 disp. att. c.c., per la parte del suo primo comma richiamata in sentenza, sia rimasto inalterato, è stato introdotto uno specifico comma dell'art. 1129 c.c., il quale ora prevede espressamente che «salvo che sia stato dispensato dall'assemblea, l'amministratore è tenuto ad agire per la riscossione forzosa delle somme dovute dagli obbligati entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, anche ai sensi dell'art. 63, primo comma, disp. att. c.c.».
La disposizione in questione ha ribadito (lo prevedeva già il predetto art. 63 disp. att. c.c.) che non è necessaria l'autorizzazione dell'assemblea per procedere al recupero degli oneri condominiali (salvo che l'amministratore ne venga espressamente esonerato con delibera per una o più posizioni singole), ma ha altrettanto chiaramente evidenziato che l'amministratore ha l'obbligo di attivarsi per la riscossione di tali somme entro un termine prestabilito (ovvero entro sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso).
Anche in questo caso si è a lungo discusso se per adempiere a tale obbligo fosse sufficiente che l'amministratore mettesse in mora i condomini in arretrato nei pagamenti, sollecitandoli al versamento delle spese comuni. Tuttavia l'utilizzo dell'aggettivo «forzosa» per qualificare tale attività di riscossione ha convinto tutti gli interpreti che il riferimento legislativo fosse inteso all'avvio delle necessarie procedure giudiziarie. Per procedere alla riscossione forzata, infatti, serve ottenere preventivamente un titolo giudiziale di condanna del debitore al pagamento delle somme dovute, attraverso un procedimento ordinario di cognizione o «anche ai sensi dell'art. 63, primo comma, disp. att. c.c.», ovvero mediante richiesta di un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo (soluzione che, per via della maggiore brevità del relativo procedimento, rappresenta sicuramente la scelta preferibile).
Oggigiorno, in forza di quanto previsto dal predetto art. 1129, comma 9, c.c., l'amministratore, a fronte del mancato pagamento degli oneri condominiali, è quindi tenuto, in ragione dell'obbligo di cui al parimenti già citato art. 1130, comma 1, n. 3, c.c. e della diligenza con cui deve adempiervi, a sollecitare per iscritto i morosi a procedere al pagamento.
Tuttavia, entro il termine massimo di sei mesi dalla chiusura dell'esercizio nel quale il credito esigibile è compreso, lo stesso è altresì obbligato a fornire mandato a un legale per il recupero del credito in via giudiziaria, salvo eventuale dispensa da parte dell'assemblea. In caso contrario non si potrà più dire che l'amministratore abbia diligentemente svolto il proprio mandato nei confronti della compagine condominiale (articolo ItaliaOggi Sette del 06.11.2017).

VARIIlleciti via web puniti ovunque. Si risponde dove il danneggiato ha i propri interessi. La Corte di giustizia europea ha deciso sulla competenza giurisdizionale in materia.
Se si compiono atti illeciti tramite web, parliamo di diffamazione ma non solo, si può essere chiamati a rispondere non solo nel Paese di residenza del danneggiato ma anche nel luogo in cui tale persona fisica o giuridica ha il centro dei propri interessi.

Lo dice la sentenza 17.10.2017 causa C-194/16 della Grande sezione della Corte di giustizia, che ha deciso la causa che verteva proprio sulla competenza giurisdizionale dei giudici civili per il risarcimento del danno derivante da illeciti commessi per il tramite della rete.
La Corte dell'Ue ha stabilito infatti che l'interpretazione delle disposizioni comunitarie vigenti conduce all'identificazione della competenza del giudice dello Stato membro nel quale la persona fisica o giuridica ha il centro dei propri interessi sia per le domande di rettifica o di rimozione dei contenuti illeciti (diffamatori, nel caso di specie), che per quelle di risarcimento totale del danno.
La Corte è pervenuta alle suddette conclusioni a seguito del rinvio pregiudiziale operato dalla Suprema corte dell'Estonia in una controversia che vedeva opposti una società svedese e due soggetti estoni, diffamati su un blog dalla prima. L'autorità estone aveva interrogato la Corte Ue anzitutto per conoscere se la competenza per tali fatti diffamatori potesse radicarsi di fronte a qualsiasi Stato membro in cui tali contenuti fossero accessibili.
Inoltre, il tribunale estone aveva chiesto ai magistrati di Strasburgo se per i medesimi fatti commessi nei confronti di una persona giuridica (nella specie una società) la competenza a decidere dovesse o meno essere attribuita ai giudici dello Stato ove l'impresa ha il centro dei propri interessi, precisando altresì –per il caso affermativo– i criteri atti a stabilire ove risiedano detti interessi. La risposta della Corte di giustizia, nel contesto specifico di illeciti commessi via internet, ha offerto un'interpretazione peculiare dell'art. 7, punto 2, del Regolamento 1215/2012, il quale stabilisce che in caso di illeciti civili dolosi o colposi, una persona domiciliata nell'Ue, può essere convenuta dianzi il giudice del luogo in cui il fatto è avvenuto, asserendo che una persona lesa nei propri diritti della personalità deve essere in grado di «esperire un'azione di risarcimento per la totalità del danno cagionato di fronte ai giudici dello Stato membro in cui si trova il centro dei propri interessi».
L'incardinazione della causa risarcitoria nel luogo ove è sito il centro dei propri interessi, secondo la Corte di giustizia, rispecchia –nel caso di offese all'onore o alla reputazione– il luogo in cui il danno cagionato si concretizza. Lo stesso principio vale per le lesioni all'immagine della persona giuridica che, ove questa svolga la parte essenziale della propria attività economica in uno Stato diverso da quello in cui ha la sede legale, potrà fare riferimento al medesimo criterio di collegamento valevole per la persona fisica. La lettura di questa sentenza ci porta a rilevare che la sua valenza vincolante in tutta l'Unione europea, non si allinea appieno con i precedenti giurisprudenziali italiani.
Oltre alla storica decisione Dulberg (sent. 27.12.2000, sez. V) con cui la Corte di cassazione penale attribuì al giudice del luogo ove il soggetto diffamato aveva preso conoscenza dell'offesa all'onore e alla reputazione la competenza a giudicare il reo della diffamazione on-line, rileva –in un caso analogo a quello preso in esame dal tribunale di Strasburgo– la sentenza della Corte di cassazione civile a Sezioni unite del 13.10.2009, n. 21661, la quale, facendo riferimento alle fattispecie di offese comunicate a mezzo della televisione (come pure via internet), stabilì che la competenza civile in materia di risarcimento del danno derivante da tali illeciti dovesse ricercarsi nel luogo di residenza della persona offesa, anziché nel luogo di consumazione del reato, in quanto la persona offesa in tale sede «sarà in grado di attivarsi a difesa della propria reputazione con minore dispendio di tempo e di risorse economiche».
Appare pertanto non ulteriormente procrastinabile il superamento delle barriere che si frappongono al varo di regole valevoli a livello planetario, atte a disciplinare un fenomeno ultraterritoriale (articolo ItaliaOggi Sette del 20.11.2017).
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MASSIMA
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
  
1) L’articolo 7, punto 2, del regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, deve essere interpretato nel senso che una persona giuridica la quale lamenti che, con la pubblicazione su Internet di dati inesatti che la riguardano e l’omessa rimozione di commenti sul proprio conto, sono stati violati i suoi diritti della personalità, può proporre un ricorso diretto alla rettifica di tali dati, alla rimozione di detti commenti e al risarcimento della totalità del danno subito dinanzi ai giudici dello Stato membro nel quale si trova il centro dei propri interessi.
Quando la persona giuridica interessata esercita la maggior parte delle sue attività in uno Stato membro diverso da quello della sua sede statutaria, tale persona può citare l’autore presunto della violazione sulla base del luogo in cui il danno si è concretizzato in quest’altro Stato membro.
   2) L’articolo 7, punto 2, del regolamento n. 1215/2012 deve essere interpretato nel senso che una persona la quale lamenti che, con la pubblicazione su Internet di dati inesatti che la riguardano e l’omessa rimozione di commenti sul proprio conto, sono stati violati i suoi diritti della personalità, non può proporre un ricorso diretto alla rettifica di tali dati e alla rimozione di detti commenti dinanzi ai giudici di ciascuno Stato membro nel cui territorio siano o siano state accessibili le informazioni pubblicate su Internet.

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimazione a impugnare un permesso di costruire da parte del proprietario confinante è sufficiente la semplice “vicinitas”, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra il suolo del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in tal caso la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore.
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Più in generale, il rilievo del permesso di costruire non si esaurisce nell’ambito pubblicistico (ossia nel rapporto fra cittadino richiedente e p. a. concedente), ma si estende al rapporto privatistico fra proprietari confinanti.
La normativa edilizia, infatti, nella parte in cui impone standard costruttivi, agisce necessariamente anche sui rapporti interprivati, il che del resto è confermato dal fatto stesso che un soggetto che si ritenga leso dal permesso di costruire rilasciato al proprietario finitimo può, a sua scelta e anche cumulativamente, impugnare l’atto autorizzativo di fronte al g.a. e/o esperire di fronte all’a.g.o. le azioni a tutela della proprietà, in questo secondo caso chiedendo la disapplicazione del provvedimento autorizzativo illegittimo.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di “maggiore fruibilità dell’immobile”) sia alla tutela dell’interesse pubblico ad un corretto e “sano” sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici.
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Preliminarmente, va esaminata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, per carenza d’interesse ad agire, sollevata dalla difesa della società controinteressata Ri.Ca. s.r.l..
L’eccezione, per la cui articolazione si richiama quanto osservato in narrativa, è, nella misura in cui pretenderebbe di far discendere l’inammissibilità del gravame dalla dedotta assenza di un concreto pregiudizio per la proprietà del ricorrente, del quale è, peraltro, incontestata la qualifica di proprietario confinante, priva di pregio, conformemente all’orientamento prevalente della giurisprudenza, espresso, tra le altre, nella massima seguente: “Ai fini della legittimazione a impugnare un permesso di costruire da parte del proprietario confinante è sufficiente la semplice “vicinitas”, ossia la dimostrazione di uno stabile collegamento materiale fra il suolo del ricorrente e quello interessato dai lavori, escludendosi in tal caso la necessità di dare dimostrazione di un pregiudizio specifico e ulteriore” (Consiglio di Stato, sez. V, 23/10/2013, n. 5132).
Più in generale, è stato anche rilevato che: “Il rilievo del permesso di costruire non si esaurisce nell’ambito pubblicistico (ossia nel rapporto fra cittadino richiedente e p. a. concedente), ma si estende al rapporto privatistico fra proprietari confinanti.
La normativa edilizia, infatti, nella parte in cui impone standard costruttivi, agisce necessariamente anche sui rapporti interprivati, il che del resto è confermato dal fatto stesso che un soggetto che si ritenga leso dal permesso di costruire rilasciato al proprietario finitimo può, a sua scelta e anche cumulativamente, impugnare l’atto autorizzativo di fronte al g.a. e/o esperire di fronte all’a.g.o. le azioni a tutela della proprietà, in questo secondo caso chiedendo la disapplicazione del provvedimento autorizzativo illegittimo.
Le norme sui distacchi minimi fra edifici, in particolare, hanno natura ambivalente, essendo preordinate sia alla tutela di interessi dei proprietari finitimi (compendiabili nella nozione di “maggiore fruibilità dell’immobile”) sia alla tutela dell’interesse pubblico ad un corretto e “sano” sviluppo urbanistico della città, per cui il Comune, in sede di rilascio del permesso di costruire, è tenuto a verificare il rispetto delle norme sulle distanze minime fra edifici
” (TAR Sicilia, Catania, sez. I, 09/04/2015, n. 1050) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 13.10.2017 n. 1480 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATARIFIUTI - Deposito sul terreno di rifiuti speciali non pericolosi - Materiale edili, sfridi di marmo, rocce, terre di scavo - Discarica non autorizzata - Configurabilità - Artt. 255, 256, c. 3, d.lgs. n. 152/2006.
Configura realizzazione di un discarica non autorizzata, integrando il reato di cui all'art. 256, comma 3, d.lgs. 152/2006, il reiterato deposito sul terreno di rifiuti speciali non pericolosi costituiti da materiale edili, sfridi di marmo, rocce, terre di scavo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.10.2017 n. 46454 - link a www.ambietediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Deposito incontrollato di rifiuti - Natura di reato "permanente" e/o "istantanea con effetti eventualmente permanenti" - Accertamento della natura giuridica della condotta - Decorso del termine di prescrizione - Fattispecie: materiale proveniente da demolizioni - Artt. 183 e 256, d.lgs. n.152/2006.
Il reato di deposito incontrollato di rifiuti ha natura "permanente" se l'attività illecita è prodromica al successivo recupero o smaltimento, delle cose abbandonate, e, quindi, la condotta cessa soltanto con il compimento delle fasi ulteriori rispetto a quella del rilascio, o, invece, natura "istantanea con effetti eventualmente permanenti", se l'attività illecita si connota per una volontà esclusivamente dismissiva dei rifiuti, che, per la sua episodicità, esaurisce gli effetti della condotta fin dal momento dell'abbandono e non presuppone una successiva attività gestoria volta al recupero o allo smaltimento.
Ai fini dell'accertamento della natura giuridica della condotta e, conseguentemente, del "dies a quo" per il decorso del termine di prescrizione, costituiscono significativi indici rivelatori della permanenza la sistematica pluralità di azioni di identico o analogo contenuto ovvero la pertinenza del rifiuto al circuito produttivo dell'agente (Sez. 3, n. 30910 del 10/06/2014 - dep. 15/07/2014, Ottonello) (nella specie la quantità dei rifiuti, la eterogeneità degli stessi ed il luogo, depongono per la non episodicità della condotta. Nell'area risultava depositato, in modo sparso, materiale proveniente da attività edilizia e rocce da scavo; quindi in considerazione della natura disomogenea dei vari cumuli di rifiuti, il giudice di merito escludeva che gli stessi potessero essere oggetto di attività di recupero di rifiuti prodotti in loco) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.10.2017 n. 46355 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifica via posta, ricevuta essenziale.
Ai fini del perfezionamento della notifica di un atto tributario eseguita a mezzo posta, nonché della sua dimostrazione in sede di giudizio, l'avviso di ricevimento è prova essenziale e la dichiarazione di avvenuta consegna del plico, certificata dal direttore dell'ufficio postale, non può ritenersi documento equipollente al primo.

È quanto si legge nell'ordinanza 06.10.2017 n. 23470 della Corte di Cassazione, Sez. VI civile.
Il caso riguarda un eccepito difetto di notifica, in relazione a un'intimazione di pagamento avente come presupposto una cartella di natura erariale. I gradi di merito si concludevano in senso favorevole alla parte contribuente, innescando il ricorso per Cassazione proposto dall'agente della riscossione contro la sentenza emessa dalla Ctr di Bari.
In particolare, i giudici d'appello non avevano ritenuto valida l'attestazione di avvenuta consegna del plico contenente l'atto impugnato, redatta dal direttore dell'ufficio postale di recapito della raccomandata, in presenza dello smarrimento dell'originale dell'avviso di ricevimento, sottoscritto da destinatario.
La Corte di cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo non validamente provata la notifica dell'atto tributario, poiché la stessa, se eseguita a mezzo posta, può essere dimostrata soltanto attraverso l'esibizione dell'avviso di ricevimento o di un suo duplicato. All'uopo l'attestazione del direttore dell'ufficio postale non può ritenersi equipollente al duplicato di cui all'art. 8 del dpr n. 655/82, poiché non reca la sottoscrizione del ricevente, né dà conto delle circostanze della consegna. Il citato articolo 8, infatti, prevede che «in caso di smarrimento dell'avviso l'interessato non ha diritto ad alcuna indennità, ma può richiedere alla Amministrazione che gli venga rilasciato gratuitamente un duplicato dell'avviso stesso firmato dal destinatario o munito della dichiarazione di cui al primo comma».
In sostanza, la Cassazione ha indicato la via che l'agente della riscossione avrebbe dovuto seguire, per sopperire allo smarrimento dell'avviso di ricevimento: la citata norma consente di richiedere all'ufficio postale un duplicato dell'avviso di ricevimento, documento che si può utilizzare per comprovare l'avvenuta notifica. Qualunque altro mezzo, invece, risulta inefficace.
Al rigetto del ricorso, la Suprema corte ha fatto seguire una significativa condanna alle spese di giudizio, a carico del ricorrente agente della riscossione.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Con ricorso in Cassazione affidato a un motivo, nei cui confronti la parte contribuente ha resistito con controricorso, l'agente della riscossione impugnava la sentenza della Ctr della Puglia, relativa a un avviso d'intimazione per Irpef 2007, lamentando la violazione degli artt. 19 e 21 del dlgs n. 546/1992 e dell'art. 26 del dpr n. 602/1973, nonché dell'art. 8 del dpr n. 655/1982, in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in quanto, erroneamente i giudici d'appello non avrebbero ritenuta valida l'attestazione di avvenuta consegna del plico contenente l'atto impugnato, redatta dal direttore dell'ufficio postale di recapito della raccomandata, in presenza dello smarrimento dell'originale dell'avviso di ricevimento, sottoscritto da destinatario.
Il collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma semplificata In via preliminare, il ricorso è inammissibile, per difetto di autosufficienza, ex art. 366, primo comma, n. 6 c.p.c., in quanto, la parte ricorrente non ha riportato in ricorso, né indicato la collocazione topografica nell'ambito della documentazione afferente alle fasi di merito, della predetta attestazione rilasciata dal direttore dell'ufficio postale, così da mettere in condizione questa Corte di esaminare tale documento al fine del giudizio di equipollenza con l'originale smarrito.
Nel merito, il motivo sarebbe, comunque, infondato, in quanto è insegnamento di questa Corte quello secondo cui: «
La notifica a mezzo del servizio postale non si esaurisce con la spedizione dell'atto, ma si perfeziona con la consegna del relativo plico al destinatario e l'avviso di ricevimento prescritto dall'art. 149 cod. proc. civ. è il solo documento idoneo a provare sia l'intervenuta consegna, sia la data di essa, sia l'identità della persona a mani della quale è stata eseguita; ne consegue che, ove tale mezzo sia stato adottato per la notifica dell'avviso di accertamento, la mancata produzione dell'avviso di ricevimento comporta conseguentemente l'invalidità della notifica, e l'illegittimità della cartella di pagamento basata sull'avviso di accertamento, in quanto non preceduta dalla regolare notifica al contribuente dell'avviso predetto» (Cass. ordd. nn. 14861/2012, 2790/2016, 23213/2014).
Nel caso di specie, la decisione della Ctr si pone in evidente contrasto con il principio di diritto sopra enunciato, in quanto, l'attestazione del direttore dell'ufficio postale non è equipollente al duplicato di cui all'art. 8 del dpr n. 655/1982, in quanto non reca la sottoscrizione del ricevente, né dà conto delle circostanze della consegna. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo (articolo ItaliaOggi Sette del 06.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo giurisprudenza consolidata, il ricorso proposto nei confronti di un Comune per l’annullamento di una concessione edilizia ottenuta dal vicino in asserita violazione delle norme sulle distanze legali investe un rapporto pubblicistico con l’ente territoriale e tutela un interesse legittimo all’uso del potere urbanistico in modo conforme a legge, di talché la relativa controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, a differenza di quelle eventualmente instaurate tra privati proprietari per l’accertamento dei presupposti per far luogo alla riduzione in pristino o al risarcimento del danni, che spettano, invece, alla cognizione del giudice ordinario.
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Per giurisprudenza assolutamente consolidata, ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di una concessione edilizia da parte di terzi l'effetto lesivo si atteggia diversamente a seconda che si contesti l'illegittimità del permesso di costruire per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l'inedificabilità assoluta dell'area) ovvero che si contesti il contenuto specifico del progetto edilizio per presunta violazione delle distanze minime tra fabbricati.
In questo secondo caso, il mero inizio dei lavori non è sufficiente -da solo- a far decorrere il termine di impugnazione, in quanto esso non contiene informazioni sufficienti sul contenuto specifico del progetto edilizio assentito, atte a farne immediatamente percepire l'effetto concretamente lesivo per il soggetto terzo interessato.
Ne consegue che "la piena conoscenza” idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione di un permesso di costruire, in difetto della prova della reale conoscenza dei caratteri del progetto assentito, può ritenersi raggiunta solo con il completamento quando le opere abbiano oggettivamente raggiunto una consistenza tali da renderne chiara l'illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante.
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Va adesso esaminata l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla controinteressata secondo la quale, concernendo le censure di parte ricorrente le modalità di esecuzione dell'opera e, segnatamente, il mancato rispetto delle distanze tra edifici, la controversia spetterebbe alla cognizione del giudice ordinario.
L'eccezione è infondata e va disattesa atteso che, secondo giurisprudenza consolidata, il ricorso proposto nei confronti di un Comune per l’annullamento di una concessione edilizia ottenuta dal vicino in asserita violazione delle norme sulle distanze legali investe un rapporto pubblicistico con l’ente territoriale e tutela un interesse legittimo all’uso del potere urbanistico in modo conforme a legge, di talché la relativa controversia rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo, a differenza di quelle eventualmente instaurate tra privati proprietari per l’accertamento dei presupposti per far luogo alla riduzione in pristino o al risarcimento del danni, che spettano, invece, alla cognizione del giudice ordinario (cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 22.092016, n. 18571 e giurisprudenza ivi citata; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2011, n. 678).
E’ infondata anche l’eccezione di tardività formulata dall’amministrazione comunale e dalla controinteressata poiché per giurisprudenza assolutamente consolidata ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di una concessione edilizia da parte di terzi l'effetto lesivo si atteggia diversamente a seconda che si contesti l'illegittimità del permesso di costruire per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l'inedificabilità assoluta dell'area) ovvero che -come nel caso di specie- si contesti il contenuto specifico del progetto edilizio per presunta violazione delle distanze minime tra fabbricati; in questo secondo caso, il mero inizio dei lavori non è sufficiente -da solo- a far decorrere il termine di impugnazione, in quanto esso non contiene informazioni sufficienti sul contenuto specifico del progetto edilizio assentito, atte a farne immediatamente percepire l'effetto concretamente lesivo per il soggetto terzo interessato; ne consegue che "la piena conoscenza” idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione di un permesso di costruire, in difetto della prova della reale conoscenza dei caratteri del progetto assentito, può ritenersi raggiunta solo con il completamento quando le opere abbiano oggettivamente raggiunto una consistenza tali da renderne chiara l'illegittimità e la lesività per le posizioni soggettive del confinante (tra le tante, cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen. 29.07.2011, n. 15; Cons. Stato, sez. IV, 25.07.2016, n. 3319 e 31.07.2008, n. 3849; sez. VI, 16.09.2011, n. 5170) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 05.10.2017 n. 2303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le norme sulle distanze legali –la cui inderogabilità è strettamente connessa all’interesse pubblico presidiato dalla norma che è quello della salubrità dell'edificato e che non va confuso con l'interesse del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva- si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano.
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Il limite di distanza, di cui all’art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, si computa con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano e prescindendo dal fatto che essi siano o meno in posizione parallela.
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il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre fornire il ricorrente, in casi come quello in esame, la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad esempio, di concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente e, in tale direzione, non è dato comprendere quale sarebbe l'interesse concreto e attuale del ricorrente a dolersi della violazione delle distanze tra l’erigendo fabbricato e altre costruzioni di proprietà di terzi (cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2016, n. 265 sui principi della “giurisdizione soggettiva” ove si afferma che il ricorso non è mera "occasione" del sindacato giurisdizionale sull'azione amministrativa e che “la verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice”).
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Quanto all’eccezione d’inammissibilità del ricorso formulata dalle parti resistenti in relazione all’allocazione della erigenda opera rispetto all’immobile di proprietà del ricorrente (che secondo le parti resistenti non sarebbe “frontista”), sono necessarie alcune preliminari precisazioni tenuto conto in particolare che le norme sulle distanze legali –la cui inderogabilità è strettamente connessa all’interesse pubblico presidiato dalla norma che è quello della salubrità dell'edificato e che non va confuso con l'interesse del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva ( cfr. tra le tante, Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4374)- si applicano soltanto agli edifici che si fronteggiano (Corte di Cassazione, Sezione II, 04.03.2011, n. 5158).
Innanzitutto, in punto di fatto, va chiarito che il lato dell’erigendo edificio posizionato sulla via A. De Gasperi si colloca in posizione antistante a quello del ricorrente e fronteggia sul predetto lato, sebbene in modo parziale, l’immobile del ricorrente; ciò si evince chiaramente dagli elaborati prodotti dalle parti, e la pur parziale “sovrapposizione di circa cm. 50 con l'edifico del ricorrente” rilevata dal verificatore non incide sulla qualità di “frontista” del ricorrente, tenuto conto che il limite di distanza, di cui all’art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, si computa con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano e prescindendo dal fatto che essi siano o meno in posizione parallela (cfr, tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015 n. 2661); il ricorrente non è, invece, frontista rispetto agli altri 3 lati dell’erigendo edificio identificati come lato via Petrarca, lato Nord e lato Sud, nei confronti dei quali viene meno il requisito di partenza per l'applicazione dell'invocata normativa sulle distanze, che è -come detto- la natura frontistante delle pareti, con conseguente inammissibilità, in parte qua, del ricorso, per difetto di legittimazione attiva e per carenza d’interesse.
A tale riguardo, e tenuto conto delle specifiche censure riguardanti la violazione delle norme sulle distanze, va precisato che il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico non può ex se radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre fornire il ricorrente, in casi come quello in esame, la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad esempio, di concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente (Cons. Stato Sez. IV, 01.07.2013 n. 3543; 05.06.2012, n. 3300; 30.11.2010, n. 8364) e, in tale direzione, non è dato comprendere quale sarebbe l'interesse concreto e attuale del ricorrente a dolersi della violazione delle distanze tra l’erigendo fabbricato e altre costruzioni di proprietà di terzi (cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 27.01.2016, n. 265 sui principi della “giurisdizione soggettiva” ove si afferma che il ricorso non è mera "occasione" del sindacato giurisdizionale sull'azione amministrativa e che “la verifica della legittimità dei provvedimenti amministrativi impugnati non va compiuta nell'astratto interesse generale, ma è finalizzata all'accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale fatta valere, ritualmente, dalla parte attrice”).
Per la rimanente parte il ricorso è infondato.
Non sussiste alcuna violazione delle distanze tra le pareti dell’immobile del ricorrente e le pareti f.t. dell’erigendo edificio sulla via A. De Gasperi dato che la distanza tra le predette pareti è di metri 20,50 e rispetta quindi sia “la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”, ex art 9, comma 1° n. 2) del DM 1444/1968, sia la “distanze minima” di metri 19,50 (metri 12 di sede stradale + metri 7,50 per lato della sede stradale) ex art. 9, comma 1°, n. 3) del citato D.M..
Per ciò che riguarda, invece, il muro perimetrale del piano seminterrato, la distanza tra questo e l’edificio del ricorrente è di metri 18,60, quindi il progetto pur rispettando la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate, non rispetterebbe la maggiore distanza di metri 19,50 in presenza di strada pubblica interposta tra i due edifici; va tuttavia rilevato che il muro perimetrale del piano interrato con altezza variabile da metri 0,00 a metri 1,20 corrispondente alla pendenza del terreno dislivello del terreno non possa essere qualificato –in ragione delle oggettive caratteristiche costruttive rilevate dal verificatore– quale “costruzione” soggetta al rispetto delle distanze, atteso che la parte emergente di detto muro (metri 1,20 nella parte più alta ) “risulta funzionale al solo livellamento del terreno” che come sopra rilevato “in corrispondenza del tratto antistante la via Alcide de Gasperi presenta una pendenza di metri 1,20” ( v. pagg. 11-12 relazione di verificazione), mentre non c’è in atti alcuna prova oggettiva che il dislivello sia stato creato artificialmente.
Ne consegue l’infondatezza di tutti i rilievi concernenti la violazione delle distanza tra edifici e i distacchi dalla sede stradale calcolati dal muro perimetrale seminterrato e non dalla parete fuori terra del costruendo edificio
(TAR Sicilia-Catania, Sez. II, sentenza 05.10.2017 n. 2303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Impianto di autolavaggio - Smaltimento delle acque reflue - Autorizzazione - Necessità - Art. 137 dlgs n. 152/2006 - RIFIUTI - Trattamento dei fanghi - Contratto con una ditta specializzata - Ininfluenza.
In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, integra la fattispecie prevista dall'art. 137 del decreto Legislativo n. 152 del 2006 lo scarico, (nella specie: impianto di autolavaggio), delle acque reflue nella rete fognaria in assenza della prescritta autorizzazione, a prescindere dalla esistenza o meno di un contratto con una ditta specializzata per il trattamento dei fanghi derivanti dallo svolgimento dell'attività (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2017 n. 44439 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall'art. 7, comma 3, della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001) è un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi.
Dopo aver accertato l'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, il provvedimento di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime è quindi consequenziale e dunque non autonomamente impugnabile in mancanza di tempestiva impugnazione dell'ordine stesso.
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In materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, la posizione di quest'ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento.
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6. L’appello non è fondato.
7. Il Tar nella sentenza impugnata correttamente rileva l’inammissibilità del ricorso in ragione della mancata impugnativa degli atti presupposti al provvedimento con il quale il Comune ha poi disposto l’acquisizione delle opere abusive e dell’area di sedime al suo patrimonio.
8. In sostanza, la determinazione comunale di acquisizione del prefabbricato abusivo, avente dimensioni di mt. 15,60 per m. 7,20, e dell’area di sedime e di pertinenza dello stesso manufatto, per un’estensione catastale di mq 1047, è stata la diretta ed inevitabile conseguenza dei provvedimenti con i quali la stessa Amministrazione comunale ha respinto la sua domanda di sanatoria ed ha ingiunto la demolizione.
9. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive, prevista dall'art. 7, comma 3, della legge 28.02.1985 n. 47 (ora art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001) è infatti un atto dovuto senza alcun contenuto discrezionale, ed è subordinato unicamente all'accertamento dell'inottemperanza e al decorso del termine di legge (novanta giorni) fissato per la demolizione e il ripristino dello stato dei luoghi (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. V, 18.12.2002, n. 7030).
10. Dopo aver accertato l'inottemperanza all'ordine di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi il 25.09.2001 ed ancora il 27.04.2004, il provvedimento di acquisizione gratuita delle opere abusive e dell'area di sedime è stato quindi consequenziale e dunque non autonomamente impugnabile in mancanza di tempestiva impugnazione dell'ordine stesso (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24.03.2011, n. 1793).
12. Né rileva in senso contrario quanto dichiarato dall’appellante in ordine alla sua estraneità all’abuso commesso. Sul punto, infatti, va evidenziato che in materia di abusi edilizi commessi da persona diversa dal proprietario, la posizione di quest'ultimo può ritenersi neutra rispetto alle sanzioni previste dalla legge n. 47 del 1985 ed ora dal DP.R. n. 380 del 2001, anche con riferimento all'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene, a condizione che risulti, in modo inequivocabile, la sua estraneità rispetto al compimento dell'opera abusiva ovvero risulti che, essendone venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29.01.2016, n. 358).
11. Nel caso di specie tutto ciò non risulta avvenuto, anzi l’appellante ha proposto, insieme all’indicato responsabile dell’abuso, due domande di sanatoria per le opere realizzate in assenza di titolo, la prima l’11.06.2001 (respinta con il citato provvedimento del 25.06.2001) e la seconda il 24.09.2001.
12. Relativamente a quest’ultima istanza, cui l’appellante fa riferimento per invocare la sospensione dei procedimenti sanzionatori, va poi osservato che la stessa è stata comunque archiviata dal Comune, essendo meramente ripetitiva di quella in precedenza presentata (cfr. provvedimento n. 16482 del 01.10.2001).
13. Il provvedimento di acquisizione impugnato, peraltro, è stato adottato nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 7, comma 3, della legge n. 47 del 1985 per l’individuazione dell’area interessata (non superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita).
14. Non essendo pertanto utilmente censurata la sentenza appellata, il ricorso va respinto e per l’effetto la stessa va confermata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.09.2017 n. 4547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARI: Multe in salita.
Non valgono le multe in città per eccesso di velocità se la strada è carente di una corsia di emergenza. Ovvero di una banchina idonea alla sosta occasionale dei veicoli.

Lo ha chiarito il TRIBUNALE di Firenze, Sez. II civile, con la sentenza 26.09.2017 n. 3055.
Il controllo automatico dell'eccesso di velocità in centro abitato è ammesso solo sulle strade urbane di scorrimento. Ovvero sulle strade con caratteristiche simili alle superstrade.
Anche se il codice stradale non specifica nulla sulla dimensione della banchina a parere del tribunale l'assimilazione tra corsia di emergenza e la banchina deriva dalla classificazione dell'autostrada.
Dunque se anche la banchina deve esser dedicata alla sosta di emergenza una strada urbana di scorrimento senza una banchina larga perde questa classificazione. E l'autovelox non può sanzionare in automatico (articolo ItaliaOggi Sette del 06.11.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Senza verbale non c'è punizione. Tar Lazio sul locale notturno troppo chiassoso.
Non basta fare visita al locale notturno che continua imperterrito a somministrare alcol anche oltre alle due di notte per ottenere una adeguata misura punitiva. Se infatti la polizia municipale non redige nemmeno un verbale l'ordine di chiusura del locale resterà sulla carta.

Lo ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-ter, con la sentenza 25.09.2017 n. 9891.
Una pattuglia della polizia locale di Roma capitale ha pizzicato il gestore di locale notturno che somministrava alcol oltre al limite orario consentito dalla legge.
A seguito di questo accertamento gli agenti non hanno però redatto alcun verbale limitandosi a relazionare qualche mese dopo alla locale prefettura che ha poi disposto l'ordine di chiusura temporaneo dell'esercizio commerciale. Contro questa determinazione punitiva l'interessato ha proposto con successo ricorso al Tar.
Non basta accertare una violazione e relazionare all'ufficio territoriale del governo per formalizzare la violazione prevista dall'art. 6/2° della legge n. 160/2007. Il trasgressore non è stato infatti messo nella condizione di partecipare all'accertamento e per questo motivo l'ordine del prefetto deve essere annullato (articolo ItaliaOggi Sette del 06.11.2017).

ENTI LOCALI - VARISulle moto fuoristrada decide la regione.
Il divieto di circolazione in collina con i mezzi fuoristrada lo adotta la regione. Ma in questo caso non si applicano le regole stradali e quindi le multe sono salate e differenziate.

Lo ha evidenziato il TAR Piemonte, Sez. I, con la sentenza 09.08.2017 n. 965.
La regolazione dell'uso dei mezzi fuoristrada non è mai stata definitivamente chiarita dal legislatore. Da una parte c'è chi ritiene, come la Federazione motociclisti italiani, che anche sui sentieri e sulle strade sterrate valgano le regole del codice della strada che prevede una generale libertà di circolazione, salvo indicazioni contrarie adeguatamente segnalate.
A parere del collegio, invece, nel caso sottoposto all'esame del Tar trovano applicazione le disposizioni regionali circa l'uso del territorio e la protezione dell'habitat naturale. Dunque spetterà alla regione regolare la circolazione dei veicoli fuoristrada sulle strade sterrate adottando disposizioni ad hoc.
Come quelle della regione Piemonte che tra l'altro consentono ai singoli comuni di introdurre deroghe al generale divieto di circolazione ma solo su tracciati permanenti, previa adeguata valutazione dell'impatto ambientale (articolo ItaliaOggi del 08.12.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Nel provvedimento di annullamento della d.i.a., oltre a richiamarsi tutti gli atti allo stesso presupposti, si è evidenziato come la violazione delle distanze tra le costruzioni e la presenza di soggetti controinteressati fossero elementi sufficienti a determinare un tale esito, ciò anche sul presupposto dell’assenza di un affidamento meritevole di tutela, tenuto pure conto del contenzioso instaurato in sede civile.
Invero, la normativa in materia di autotutela e le garanzie contenute nella stessa hanno la finalità di tutelare i soggetti incolpevoli e in buona fede, ma certamente non può andare a vantaggio di coloro che hanno deliberatamente posto in essere dei comportamenti in violazione di precetti giuridici, soprattutto laddove tali prescrizioni siano finalizzata a tutelare interessi superindividuali, come quelli legati all’ordinato assetto del territorio e al corretto esercizio dell’attività edilizia.
In ogni caso vale rammentare che l’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato, non necessita di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato.
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Il mancato completamento delle pratiche edilizie ha impedito il consolidarsi del titolo edilizio e quindi nulla poteva precludere all’Amministrazione di intervenire in autotutela a dichiarare l’invalidità della d.i.a.
È pacifico, infatti, che i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta, sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori.
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Nemmeno è fondata l’eccepita sopravvenuta possibilità di realizzare l’intervento edilizio ai sensi dell’art. 30 del decreto legge n. 69 del 2013 –peraltro solo affermata, ma non dimostrata–, giacché, di regola, è richiesto il rispetto del requisito della doppia conformità laddove si intenda sanare un manufatto abusivo.
La domanda finalizzata al rilascio del permesso di costruire in sanatoria richiedeva, quindi, la previa verifica della sussistenza della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, quale requisito imprescindibile ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, certamente non sussistente nella fattispecie de qua.
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Laddove ci si trovi al cospetto di attività vincolata, come quella relativa alla procedura di sanatoria di cui al caso de quo, non è necessaria la comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, atteso che tale garanzia non è invocabile in relazione a provvedimenti di carattere vincolato, né risulta applicabile a procedimenti connotati, ex lege, da tratti di assoluta specialità, quale si configura, appunto, la procedura di condono edilizio.
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4. Con il complesso delle censure contenute nei due ricorsi –fatta eccezione per quella rubricata al n. 2 del ricorso R.G. n. 1226/2016, da scrutinare singolarmente– si assume l’illegittimità dei provvedimenti impugnati in quanto adottati in palese contrasto con le prescrizioni contenute nell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, ossia in violazione di un limite temporale ragionevole e in assenza della esplicitazione di un interesse pubblico concreto e attuale all’annullamento del titolo; oltretutto il permesso di costruire presentato nel 2007 sarebbe stato integrato in maniera adeguata in data 15.03.2010 dal dante causa dei ricorrenti e ciò avrebbe consentito di procedere alla ristrutturazione edilizia dell’immobile anche mediante demolizione integrale e ricostruzione nel rispetto della sagoma, non risultando pertinente le circostanze afferenti alla distanza con il fabbricato sito in Via Ampere n. 109 e al connesso contenzioso in sede civile.
4.1. Le doglianze sono infondate.
Come ammesso dal tecnico del dante causa dei ricorrenti con l’istanza del 15.03.2010 (all. 16 del Comune), le opere realizzate in esito alla presentazione della d.i.a. del 2002 sono “in contrasto con la normativa vigente”, ovvero sia con l’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 che con l’art. 27 del Regolamento edilizio, avuto riguardo al confinante edificio di Via Ampere n. 109; la corretta conformazione delle stesse avrebbe richiesto la demolizione e il contestuale arretramento di una parte della struttura e una modifica delle fondazioni, che la parte istante chiede di trasformare in sanzioni di tipo pecuniario.
Anche in data 18.02.2008, è stata redatta una relazione da parte del tecnico progettista che ha ammesso un aumento di volumetria e la violazione delle distanze con il fabbricato sito in Via Ampere n. 109 (all. 25 del Comune). Inoltre va richiamata la sentenza della Corte d’Appello di Milano, II, 28.08.2012, n. 2829, che ha condannato il dante causa dei ricorrenti alla parziale demolizione di alcuni manufatti proprio per la violazione delle distanze tra fabbricati (all. 23 del Comune).
Pertanto, all’accertata abusività delle opere edilizie consegue la legittimità sia dell’annullamento del titolo abilitativo che dell’ordine di demolizione delle stesse, senza che residui in capo all’Amministrazione alcun margine di discrezionalità; nel caso di specie poi, oltre alle espresse ammissioni di parte, si sono susseguiti tutti gli innumerevoli atti comunali, in precedenza richiamati, che in un rilevante lasso di tempo hanno cercato di indurre il dante causa dei ricorrenti a conformare l’intervento edilizio sia alla normativa sulle distanze che alle disposizioni scaturenti dalle pronunce dei giudici civili.
Nessuna posizione di buona fede, quindi, può ritenersi maturata in capo al dante causa dei ricorrenti, con il conseguente venir meno di qualsiasi ipotesi di legittimo e incolpevole affidamento, che invece presuppone l’accertamento di un comportamento improntato ai canoni della lealtà e della salvaguardia tipici della buona fede in capo al privato (Consiglio di Stato, IV, 17.05.2012, n. 2852; TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170; 14.04.2017, n. 879; in senso contrario, Consiglio di Stato, IV, ord. 19.04.2017, n. 1830).
Del resto, il Comune piuttosto che inibire in radice l’intervento edilizio ha cercato in più occasioni di indurre la parte privata a conformarlo alla normativa edilizia, ma tali tentativi non sono mai andati a buon fine (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 25.05.2017, n. 1170).
Nel provvedimento di annullamento della d.i.a., oltre a richiamarsi tutti gli atti allo stesso presupposti, si è evidenziato come la violazione delle distanze tra le costruzioni e la presenza di soggetti controinteressati fossero elementi sufficienti a determinare un tale esito, ciò anche sul presupposto dell’assenza di un affidamento meritevole di tutela, tenuto pure conto del contenzioso instaurato in sede civile: la normativa in materia di autotutela e le garanzie contenute nella stessa hanno la finalità di tutelare i soggetti incolpevoli e in buona fede, ma certamente non può andare a vantaggio di coloro che hanno deliberatamente posto in essere dei comportamenti in violazione di precetti giuridici, soprattutto laddove tali prescrizioni siano finalizzata a tutelare interessi superindividuali, come quelli legati all’ordinato assetto del territorio e al corretto esercizio dell’attività edilizia (Consiglio di Stato, IV, 31.08.2016, n. 3735).
In ogni caso vale rammentare che l’eliminazione d’ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell’interessato, non necessita di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato (TAR Campania, Napoli, IV, 13.12.2016, n. 5726).
4.2. Inoltre va sottolineato come il mancato completamento delle pratiche edilizie ha impedito il consolidarsi del titolo edilizio e quindi nulla poteva precludere all’Amministrazione di intervenire in autotutela a dichiarare l’invalidità della d.i.a. È pacifico, infatti, che i presupposti indefettibili perché una d.i.a. possa essere produttiva di effetti sono la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell’autocertificazione, per cui il decorso del termine di trenta giorni non legittima l’intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge, o comunque risulti inesatta o incompleta, sicché l’Amministrazione, in tale ipotesi, non decade dal potere di inibire l’attività o di sospendere i lavori (TAR Puglia, Bari, III, 30.05.2017, n. 560; TAR Campania, Napoli, III, 13.01.2016, n. 140).
4.3. Nemmeno è fondata l’eccepita sopravvenuta possibilità di realizzare l’intervento edilizio ai sensi dell’art. 30 del decreto legge n. 69 del 2013 –peraltro solo affermata, ma non dimostrata–, giacché, di regola, è richiesto il rispetto del requisito della doppia conformità laddove si intenda sanare un manufatto abusivo. La domanda finalizzata al rilascio del permesso di costruire in sanatoria (pratica 8995/2007: all. 4 al ricorso), richiedeva quindi la previa verifica della sussistenza della c.d. doppia conformità, ossia la garanzia del rispetto della disciplina urbanistica ed edilizia sia al momento delle realizzazione dell’intervento che al momento della sanatoria, quale requisito imprescindibile ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, certamente non sussistente nella fattispecie de qua (cfr. Consiglio di Stato, VI, 18.07.2016, n. 3194; TAR Lombardia, Milano, II, 30.05.2017, n. 1211).
4.4. Ciò determina il rigetto delle scrutinate doglianze, contenute in entrambi i ricorsi.
5. Con una ulteriore censura –rubricata al n. 2 del ricorso R.G. n. 1226/2016– si assume la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, giacché il preavviso di rigetto, con annessa richiesta di integrazione documentale, sarebbe stato inviato al dante causa dei ricorrenti in un momento in cui lo stesso era già defunto e il Comune non avrebbe poi rinnovato la comunicazione agli eredi.
5.1. La doglianza è infondata.
Laddove ci si trovi al cospetto di attività vincolata, come quella relativa alla procedura di sanatoria di cui al caso de quo, non è necessaria la comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, atteso che tale garanzia non è invocabile in relazione a provvedimenti di carattere vincolato, né risulta applicabile a procedimenti connotati, ex lege, da tratti di assoluta specialità, quale si configura, appunto, la procedura di condono edilizio (cfr. Consiglio di Stato, VI, 08.02.2016, n. 505; TAR Lombardia, Milano, II, 29.06.2016, n. 1312).
Oltretutto non risulta che al Comune sia stato comunicato il decesso del dante causa dei ricorrenti e che questi ultimi si siano premurati di intervenire spontaneamente nel procedimento di sanatoria attivato.
5.2. Pertanto la censura va respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.07.2017 n. 1706 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILegittimo modificare l'utile atteso dell'offerta. Se si riduce, l'impresa può intervenire.
Legittimo modificare l'utile atteso di una offerta per una gara d'appalto se si deve giustificare il ribasso eccessivo.

È quanto ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez. II, con la sentenza 21.07.2017 n. 1657 che affronta il tema del giudizio di congruità di una offerta economica e delle giustificazioni addotte dal concorrente.
I giudici premettono che se è vero che il concorrente sottoposto a valutazione non può fornire «giustificazioni tali da integrare un'operazione di finanza creativa, modificando, in aumento o in diminuzione, le voci di costo e mantenendo fermo l'importo finale», è però anche vero che ciò non esclude che l'offerta possa essere modificata rispetto all'utile atteso, che può essere ridotto.
In ogni caso, si legge nella sentenza, resta fermo il principio per cui in un appalto l'offerta, una volta presentata, non è suscettibile di modificazione, pena la violazione della par condicio tra i concorrenti, ma questo non toglie che, avendo la verifica di anomalia la finalità di stabilire se l'offerta sia, nel suo complesso e nel suo importo originario, affidabile o meno, «il giudizio di anomalia deve essere complessivo e deve tenere conto di tutti gli elementi, sia di quelli che militano a favore, sia di quelli che militano contro l'attendibilità dell'offerta nel suo insieme».
E' quindi legittimo che, a fronte di determinate voci di prezzo giudicate eccessivamente basse e dunque inattendibili, l'impresa possa dimostrare che, per converso, altre voci sono state inizialmente sopravvalutate e che in relazione alle stesse è in grado di conseguire un concreto, effettivo, documentato e credibile risparmio, che compensa il maggior costo di altre voci.
Anche in relazione a quanto affermato dalla giurisprudenza i giudici lombardi ritengono quindi legittimo un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento in sopravvenienze di fatto o normative, che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili; è anche pacificamente ammesso che l'impresa possa intervenire riducendo l'utile esposto, a condizione che tale voce non risulti del tutto azzerata (articolo ItaliaOggi del 28.07.2017).
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MASSIMA
- in relazione ai profili da ultimo esaminati, vale ricordare che, per consolidata giurisprudenza (cfr. di recente TAR Lombardia Milano, sez. IV, 12.01.2017, n. 63, che riprende un orientamento più volte ribadito dal Tribunale e condiviso dalla prevalente giurisprudenza):
   a)
in sede di apprezzamento dell’offerta anomala, così come in sede di giudizio di congruità dell’offerta in sé non eccedente la soglia di anomalia, il concorrente sottoposto a valutazione non può fornire giustificazioni tali da integrare un’operazione di “finanza creativa”, modificando, in aumento o in diminuzione, le voci di costo e mantenendo fermo l’importo finale; nondimeno, ciò non esclude che l’offerta possa essere modificata in taluni suoi elementi, compresi, in particolare, quelli relativi all’utile atteso, che può essere ridotto (cfr. tra le tante TAR Lazio Roma, sez. II, 26.09.2016, n. 9927; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 01.06.2015, n. 1287; Consiglio di Stato, sez. IV, 07.11.2014, n. 5497; Tar Lombardia Milano, sez. III, 03.12.2013, n. 2681; Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.02.2012, n. 636; Consiglio di Stato, Sez. VI, 21.05.2009, n. 3146);
   b) resta fermo il principio per cui
in un appalto l’offerta, una volta presentata, non è suscettibile di modificazione -pena la violazione della par condicio tra i concorrenti– ma ciò non toglie che, avendo la verifica di anomalia la finalità di stabilire se l’offerta sia, nel suo complesso e nel suo importo originario, affidabile o meno, il giudizio di anomalia deve essere complessivo e deve tenere conto di tutti gli elementi, sia di quelli che militano a favore, sia di quelli che militano contro l’attendibilità dell’offerta nel suo insieme;
   c) di conseguenza,
si ritiene ammissibile che, a fronte di determinate voci di prezzo giudicate eccessivamente basse e dunque inattendibili, l’impresa dimostri che, per converso, altre voci sono state inizialmente sopravvalutate e che in relazione alle stesse è in grado di conseguire un concreto, effettivo, documentato e credibile risparmio, che compensa il maggior costo di altre voci (cfr., al riguardo, Consiglio di Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3146);
   d)
la giurisprudenza ritiene coerenti con lo scopo del giudizio di anomalia e con il rispetto dei principi di parità di trattamento e divieto di discriminazione una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni eventualmente già fornite), lasciando, però, le voci di costo invariate, ovvero un aggiustamento di singole voci di costo, che trovi il suo fondamento in sopravvenienze di fatto o normative, che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili;
   e)
è anche pacificamente ammesso che l’impresa possa intervenire riducendo l’utile esposto, a condizione che tale voce non risulti del tutto azzerata, perché ciò che importa è che l’offerta rimanga nel complesso seria (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 07.02.2012, n. 636; id., 23.07.2012, n. 4206; Consiglio di Stato, sez. VI, 20.09.2013, n. 4676);
   f) resta fermo che
la valutazione di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell’offerta economica, mirando piuttosto ad accertare che l’offerta sia attendibile e affidabile nel suo complesso (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 09.02.2016, n. 520; Consiglio di Stato, sez. VI, 05.06.2015, n. 2770);
- nel caso di specie, le incongruenza tra offerta e giustificazioni fornite dall’aggiudicataria sono, da un lato, di valore tale da non inficiare l’offerta complessiva, tanto che la ricorrente neppure ha sviluppato il tema dell’effettiva incidenza di simili profili sul complesso dell’offerta, dall’altro, idonee ad essere assorbite dal valore dell’utile previsto, che, come ricordato, rientra tra le voci suscettibili di variazione in sede di giustificazione, secondo l’orientamento giurisprudenziale suindicato.

EDILIZIA PRIVATA: In linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come restauro, risanamento o ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza come i nuovi volumi assumano rilevanza a fini delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi in ampliamento dell'edificio originario sì dà vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima.
Sulla scorta di tali indicazioni di principio sono stati più volte compresi nei manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento.
Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentino quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine.

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Nel merito il ricorso è fondato in ordine a due dei profili dedotti, il primo ed il quinto.
Sul primo versante, in tema di distanze, ancora di recente la sezione (cfr. ad es. sent. 1231/2016) ha richiamato i principi più volte richiamati dalla giurisprudenza anche della sezione (cfr. sent. n. 1406/2013 confermata in appello). Pertanto, in linea di diritto, quale che sia la qualificazione regionale come restauro, risanamento o ristrutturazione, è pacifico nella giurisprudenza anche del Collegio come i nuovi volumi assumano rilevanza a fini delle distanze. In sostanza, qualora si realizzino nuovi volumi in ampliamento dell'edificio originario sì dà vita ad un nuovo edificio, che deve conseguentemente osservare la norma sulla distanza minima (cfr. ad es. sentenza 1621/2009).
Sulla scorta di tali indicazioni di principio sono stati più volte compresi nei manufatti rilevanti a fini di distanze, in quanto palesemente in grado di dar vita a intercapedini contrarie alla finalità della norma, i muri di contenimento (cfr. ex multis Cass. civ. 15391/2012 e 15972/2011 e Consiglio di Stato 7731/2010, oltre a Tar Liguria 1406 cit.). Va quindi ribadito che ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze dal confine, il terrapieno e il muro di contenimento, che producano un dislivello o aumentino quello già esistente per la natura dei luoghi, costituiscono nuove costruzioni idonee ad incidere sull'osservanza delle norme in tema di distanza dal confine (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 18.07.2017 n. 626).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Condizionatori, ballatoi vietati. Gli altri condomini devono poter installare impianti simili. Una ordinanza della Cassazione sul principio del pari utilizzo delle parti comuni.
Condizionatori vietati sul ballatoio se impediscono agli altri condomini di usarne a loro volta per l'installazione di un impianto simile.

Lo ha stabilito la II Sez. sezione civile della Corte di Cassazione con la recente ordinanza 13.07.2017 n. 17400.
L'apposizione dell'impianto di condizionamento sulle parti comuni, anche se ammessa in via generale, deve quindi avvenire nel rispetto di tutta una serie di adempimenti.
Vediamo meglio quali sono.
Il caso concreto. Nella specie l'amministratore di un condominio si era rivolto al giudice di pace per ottenere la rimozione dell'apparecchiatura esterna dell'impianto di condizionamento installata sul ballatoio da una coppia di condomini. La sentenza, che aveva ordinato la rimozione dell'impianto, era stata quindi impugnata da questi ultimi dinanzi al tribunale, che ne aveva a sua volta confermato il contenuto.
Di qui il ricorso per Cassazione, nel quale i condomini lamentavano la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1102 c.c.. A loro dire, infatti, entrambi i giudici di merito avevano errato nel ritenere che nel caso concreto la predetta disposizione del codice civile sarebbe stata rispettata soltanto ove lo spazio a disposizione sul ballatoio avesse consentito l'installazione di impianti simili per ognuno dei condomini proprietari delle unità immobiliari poste al medesimo piano.
La decisione della Suprema corte. La seconda sezione civile della Cassazione, nel ricordare il principio del pari utilizzo delle parti comuni di cui all'art. 1102 c.c., ha quindi evidenziato come l'esercizio di questo diritto sia sottoposto a due limiti fondamentali: il divieto di alterarne la destinazione e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso. Nella specie le risultanze acquisite nel corso dei giudizi di merito avevano evidenziato come l'impianto realizzato dai ricorrenti, occupando il 60% della superficie disponibile sul ballatoio, impedisse l'installazione di analoghi apparecchi da parte degli altri condomini del piano.
Così stando le cose, i giudici di legittimità hanno quindi ritenuto che, in mancanza del consenso di questi ultimi, l'installazione costituisse una lesione del loro diritto al pari utilizzo del ballatoio. La Suprema corte ha inoltre considerato non pertinente sul punto la giurisprudenza in materia di uso turnario dei beni comuni, poiché nella specie il carattere non transitorio dell'installazione avrebbe definitivamente alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento del ballatoio.
Le altre problematiche connesse all'installazione dei condizionatori in condominio: il rispetto del decoro architettonico. Una volta risolta positivamente la questione dell'utilizzo delle parti comuni, l'installazione del condizionatore non deve però ledere il decoro architettonico dell'edificio (art. 1120 c.c.). Con quest'ultimo concetto si intende l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture ornamentali che ne costituiscono la nota dominante e che imprimono alle varie parti dell'immobile, nonché al suo insieme, una determinata e armonica fisionomia.
La giurisprudenza ha ad esempio precisato che un voluminoso corpo estraneo sporgente, come un condizionatore di grandi dimensioni, altera certamente l'aspetto e il valore estetico della facciata di uno stabile e, quindi, l'impianto in casi del genere deve essere rimosso. Per i condizionatori di dimensioni più contenute è invece necessario valutare caso per caso. Solitamente il relativo accertamento viene condotto dal giudice di merito mediante l'ausilio di un perito tecnico.
Il rispetto del regolamento condominiale e di quello edilizio. Il regolamento di condominio può contenere clausole che vietino qualsiasi opera che, anche senza arrecare un pregiudizio all'edificio, sia tale da modificarne l'estetica. Tuttavia una simile clausola, che comprime l'esercizio connesso al diritto di proprietà esclusiva, è di natura contrattuale e, di conseguenza, perché sia valida, deve essere accettata da tutti i condomini, non essendo sufficiente la sola maggioranza.
Ma spesso i regolamenti prevedono anche l'obbligo di previa comunicazione all'amministratore della modifica che si intende apportare alle parti comuni oppure l'obbligo di subordinare i lavori alla preventiva accettazione da parte dell'assemblea. In casi del genere, valutando caso per caso la legittimità della clausola, la violazione del procedimento previsto dal regolamento legittima i condomini ad agire in giudizio per chiedere la rimozione del condizionatore, nonché il risarcimento dei danni.
Un ulteriore limite all'installazione del condizionatore sulle pareti perimetrali dell'edificio può derivare poi dal regolamento edilizio comunale. Infatti gli enti locali, nell'ambito della propria autonomia statutaria e normativa, sono tenuti a disciplinare l'attività edilizia che si svolge sul proprio territorio, includendo nel regolamento norme in materia di decoro architettonico che possono riguardare anche le facciate degli edifici e quindi l'installazione su di esse di impianti di climatizzazione. È allora consigliabile chiedere informazioni preventive anche all'ufficio tecnico comunale prima di impegnarsi in lavori del genere.
Il divieto di immissioni. Il motore del condizionatore, che deve essere collocato necessariamente all'esterno dell'edificio per il suo funzionamento, produce una serie di immissioni quali il rumore, lo stillicidio d'acqua dovuto alla condensa e un getto di vapore d'aria calda. Per questo motivo l'installazione dell'apparecchio deve avvenire nel rispetto delle norme previste dal codice civile a tutela della proprietà.
In casi del genere trova applicazione l'art. 844 c.c., che vieta le immissioni di fumo, calore, esalazioni, rumori, scuotimenti qualora superino la normale tollerabilità. Il limite oltre il quale le immissioni si ritengono non tollerabili è relativo e si deve valutare in relazione al caso concreto e al luogo in cui le immissioni si propagano (e non a quello da cui derivano). Per quanto riguarda il rumore, in particolare, la giurisprudenza ha adottato il c.d. criterio comparativo, in base al quale si presume tollerabile il suono che non superi i tre decibel rispetto al rumore di fondo della zona senza disturbi.
Ciò premesso, si può affermare che la normale tollerabilità si riferisca a immissioni di modesta entità, tenuto conto degli interessi opposti e dei rapporti di buon vicinato.
Inoltre è bene precisare che se l'impianto di climatizzazione è troppo rumoroso si rischia anche una condanna per disturbo alle occupazioni e al riposo delle persone. Infatti la Suprema Corte ha in proposito sottolineato che, per la sussistenza della contravvenzione prevista dal primo comma dell'art. 659 c.p., è sufficiente la dimostrazione che la condotta posta in essere dall'agente sia tale da poter disturbare il riposo e le occupazioni di un numero indeterminato di persone, anche se una sola di esse si sia in concreto lamentata.
Non si potrà quindi installare all'esterno un condizionatore troppo rumoroso ove questo arrechi disturbo ai vicini. Ma se il rumore emesso dall'impianto è percepito in misura inferiore ai tre decibel rientra nella normale tollerabilità e il vicino non potrà opporsi all'utilizzo dell'apparecchio (articolo ItaliaOggi Sette del 24.07.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Il silenzio non è impugnabile. Amministrazione non obbligata a rispondere alle istanze. Così si è espressa la Corte costituzionale in merito al diniego tacito di autotutela.
Nel nostro ordinamento giuridico non sussiste alcun obbligo dell'amministrazione di rispondere alle istanze di autotutela presentate dai contribuenti dopo l'emanazione di un atto divenuto definitivo. Dunque, non può essere impugnato innanzi al giudice tributario il diniego di autotutela dopo il silenzio-rifiuto dell'amministrazione pubblica. E questo non determina un vuoto di tutela per coloro che sono interessati a ottenere un provvedimento ad hoc in seguito alle domande rivolte al fisco.

In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza 13.07.2017 n. 181.
A giudizio della Consulta, la ratio della definitività dei provvedimenti amministrativi e della loro inoppugnabilità risiede nell'esigenza dell'ordinamento di dare certezza ai rapporti giuridici. Imporre all'amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di autotutela e ammettere l'azione giudiziale contro il silenzio, significherebbe aprire la porta «alla possibile messa in discussione dell'obbligo tributario consolidato a seguito dell'atto impositivo definitivo. L'autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata «seconda possibilità» di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo». E «per giunta azionabile sine die dall'interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo».
Per la Corte costituzionale, invece, è con la disciplina dell'annullamento d'ufficio da parte dell'amministrazione pubblica che il legislatore ha operato «un bilanciamento non irragionevole tra l'interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l'interesse alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico». Questa regola verrebbe sacrificata da una «scelta legislativa che imponesse all'amministrazione di pronunciarsi sull'istanza di autotutela del contribuente».
Pertanto, è escluso che vi sia un «vuoto di tutela». Contro il provvedimento amministrativo, infatti, il destinatario può far valere i suoi diritti e interessi legittimi innanzi al giudice competente a decidere.
Le regole sull'autotutela. Va ricordato che il provvedimento di autotutela può comportare l'annullamento totale o parziale dell'atto emanato, qualora vengano riscontrati vizi o errori nel procedimento di accertamento del tributo. Il provvedimento di rettifica parziale non può essere considerato un nuovo accertamento e quindi non può essere impugnato.
Tuttavia, per l'esercizio del potere di autotutela non è richiesta alcuna istanza del contribuente. Il potere non viene meno se la controversia pende innanzi al giudice, né se sia intervenuta una pronuncia né se l'atto sia divenuto definitivo per mancata impugnazione entro il termine di decadenza. Soltanto il giudicato sostanziale (vale a dire la sentenza non più impugnabile con i mezzi ordinari che non abbia pronunciato solo su questioni di rito) impedisce l'emanazione del provvedimento di riesame.
L'orientamento della giurisprudenza sugli atti non definitivi. Mentre la Consulta richiama il corretto orientamento della Cassazione (sentenze 7511/2016; 23765/2015; 24058/2014 e via dicendo), secondo il quale il potere esercitabile d'ufficio da parte del fisco, dopo che l'atto sia divenuto definitivo, dipende da valutazioni largamente discrezionali e non è comunque «uno strumento di protezione del contribuente», del tutto diversa è la posizione della giurisprudenza in ordine agli obblighi che incombono sull'amministrazione in presenza di atti non definitivi.
Al riguardo, sia i giudici di legittimità che di merito hanno fatto derivare delle conseguenze negative dalla mancata risposta dell'amministrazione. Per esempio, la commissione tributaria provinciale di Campobasso, prima sezione, con la sentenza 195/2014 ha sostenuto che il comportamento dell'amministrazione finanziaria deve essere sempre trasparente. Questo principio impone delle risposte precise se vengono contestati errori o omissioni commessi dal fisco nell'attività di accertamento.
È sempre necessario adottare un provvedimento di accoglimento o di rigetto dell'istanza di autotutela proposta dal contribuente, entro il termine per ricorrere innanzi al giudice tributario. In caso contrario l'amministrazione deve essere condannata a pagare un indennizzo per aver dato luogo a un giudizio che poteva essere evitato. Si tratta di un comportamento dettato da mala fede o colpa grave che dà luogo a una responsabilità aggravata. L'ente impositore ha un obbligo non solo morale, ma anche giuridico di emettere un provvedimento espresso conclusivo del procedimento amministrativo.
Per i giudici molisani, tenuto conto che il termine di legge per proporre ricorso contro un atto di accertamento non può essere superiore a 60 giorni, in presenza di un'istanza di autotutela del contribuente «l'ente impositore ha l'obbligo, non solo morale, ma giuridico di emettere il provvedimento conclusivo, positivo o negativo che sia, del predetto procedimento, prima della scadenza del termine». Altrimenti vengono lesi i diritti del contribuente e l'amministrazione finanziaria risponde per responsabilità aggravata. In base a quanto disposto dall'articolo 96 del codice di procedura civile anche il fisco può essere condannato a un «indennizzo/punizione da determinare equitativamente» da parte del giudice. Questa sanzione è posta a carico della «parte che, con il suo comportamento, anche preprocessuale, ha dato luogo a un giudizio che doveva essere evitato».
Anche la Cassazione (sentenza 698/2010) in passato ha stabilito che gli interessati possono rivolgersi al giudice ordinario per ottenere il risarcimento dei danni, materiali ed esistenziali, subiti in seguito al mancato o ritardato annullamento di un atto impositivo illegittimo.
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Stessa linea sull'annullamento parziale.
I provvedimenti di autotutela parziale non sono impugnabili innanzi alle commissioni tributarie.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. V civile, con la sentenza 15.04.2016 n. 7511, con la quale ha rettificato un proprio precedente orientamento che aveva ritenuto contestabile l'annullamento parziale.
I giudici di legittimità richiamano nella sentenza una propria pronuncia, dalla quale si discostano. Con la sentenza 14243/2015, infatti, si erano espressi in maniera difforme, ritenendo impugnabile l'annullamento parziale di un atto impositivo definitivo, trattandosi di un provvedimento che, pur se riduttivo dell'accertamento originario, non poteva privare «il contribuente della possibilità di difesa».
Con la sentenza 7511, invece, superano questo orientamento e affermano che, anche a fronte di un annullamento parziale o di un provvedimento di autotutela di portata riduttiva rispetto alla pretesa impositiva contenuta negli atti divenuti definitivi, il contribuente non è più legittimato a proporre ricorso al giudice tributario. Un'autonoma impugnabilità del nuovo atto può essere consentita solo «se di portata ampliativa rispetto all'originaria pretesa» (articolo ItaliaOggi Sette del 24.07.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Basta locali rumorosi, ledono i diritti umani.
Stop ai locali fracassoni; lo impone il diritto Ue.

La Corte di Cassazione, Sez. II Civile, con ordinanza 04.07.2017 n. 16408 ha respinto il ricorso del titolare del bar che si è visto dover risarcire con 30 mila euro la coppia che viveva nell'appartamento soprastante il locale.
Secondo il più recente orientamento della Corte, precisa la sentenza, il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente da un danno biologico «documentato», quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti.
La cui tutela, peraltro, è rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi. In sostanza, considerata la natura del pregiudizio, la relativa prova può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza.
Com'è avvenuto nel caso sottoposto all'attenzione del Collegio, per la coppia che per diversi anni, nella loro casa di abitazione e per di più prevalentemente nelle ore notturne, ha subito I rumori fonte di stress, facendo da ciò derivare una lesione della sfera personale e dell'integrità psico-fisica. E ciò anche se non è stato possibile per ambedue i coniugi, ma soltanto per la moglie, provare il danno biologico subito (articolo ItaliaOggi del 07.07.2017).
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MASSIMA
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c., censura la statuizione di condanna al risarcimento dei danni, liquidati in via equitativa, non sussistendo né la prova dell'esistenza di un danno risarcibile (e dell'impossibilità della sua quantificazione), né la prova della perdurante sussistenza di immissioni rumorose oltre la normale tollerabilità. Contesta altresì la sussistenza del presupposto per dar luogo ad una liquidazione equitativa del danno.
Il motivo è destituito di fondamento.
Secondo il più recente orientamento di questa Corte,
il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente da un danno biologico "documentato", quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 Conv. Eur. Dir. Uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi (Cass. Ss.Uu. 2611/2017; Cass. 20927/2015 e Cass. 26899/2014).
Ne consegue che,
considerata la natura del pregiudizio oggetto di tutela, la relativa prova può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza.
A tale orientamento, cui il Collegio ritiene di dare continuità, si è uniformata la Corte territoriale, la quale ha specificamente riconosciuto ai signori Fu. e Pe. il risarcimento del danno non patrimoniale, in conseguenza dell'accertata esposizione per diversi anni, nella loro casa di abitazione e per di più prevalentemente nelle ore notturne, ad immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, di per sé fonti di stress, facendo da ciò derivare una lesione della sfera personale e dell'integrità psico-fisica dei medesimi.
Ha dunque riconosciuto il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite al signor Fu., pur in assenza di prova di un danno biologico documentato, mentre con riferimento alla signora Pe. ha ritenuto provata, sulla base della ampia documentazione clinica acquisita, la sussistenza di una vera e propria patologia ansioso-depressiva, direttamente causata dalla situazione di inquinamento acustico cui era esposta, ritenendo dunque provata, nei confronti di quest'ultima, con accertamento di fatto adeguatamente motivato, la sussistenza di un vero e proprio danno biologico eziologicamente riconducibile alle immissioni illegittime, con esiti permanenti.

LAVORI PUBBLICI: Con cessione ramo azienda Soa in bilico. Sentenza cds.
La cessione del ramo d'azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione Soa (certificazione obbligatoria per gli appalti), occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell'atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell'oggetto del trasferimento.

Questo è il parere espresso in seduta plenaria dal Consiglio di stato con la
sentenza 03.07.2017 n. 3 sulla conservazione dell'attestazione sull'attestazione Soa in caso di cessione di ramo di azienda.
È possibile che la cessione di parti dell'azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell'impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione.
Se non sono trasferiti i requisiti di qualificazione, non possono esserlo le qualificazioni che ad essi si riferiscono. Pertanto occorre escludere in linea di principio a danno del cedente qualsiasi automatismo decadenziale conseguente alla cessione d'azienda (articolo ItaliaOggi del 06.07.2017).

APPALTISocietà con socio unico, i requisiti per le gare. Accertata moralità professionale di tutti.
Verifica dei requisiti di moralità professionali anche per i rappresentanti legali e i direttori tecnici di società con socio unico.

Lo ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 30.06.2017 n. 3178.
La vicenda riguardava la verifica della sussistenza dei requisiti morali in capo ai soggetti muniti di poteri di rappresentanza e direzione tecnica in seno a un concorrente di una gara di appalto, società di capitali con socio unico. I giudici si pronunciano sul tenore dell'articolo 38 del dlgs 163/2006 (norma oggi trasfusa con modifiche nell'articolo 80 del dlgs 50/2016) che ha esteso il novero dei soggetti delle società di capitali di cui occorre accertare la moralità professionale ai fini dell'ammissione alle gare pubbliche ricomprendendovi il «socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci».
Per il Consiglio di stato la disposizione deve innanzitutto essere interpretata nel senso che, in assenza di specificazioni circa la natura giuridica del socio, l'espressione testuale («socio di maggioranza») vale tanto per la persona fisica, quanto per la persona giuridica, in conformità ad un approccio sostanzialistico alla normativa. Per il collegio la legge attribuisce rilievo ai requisiti di moralità di tutti i soggetti che condizionano la volontà degli operatori che stipulano contratti con la pubblica amministrazione, a prescindere dalla circostanza che siano persone fisiche o giuridiche, in ossequio ai principi di lealtà, correttezza, trasparenza e buona amministrazione.
In secondo luogo, la sentenza chiarisce che la norma indica solamente una soglia minima di partecipazione azionaria: la dichiarazione è richiesta al socio, persona fisica o giuridica, che detenga almeno la maggioranza del pacchetto azionario. Ciò premesso, per i giudici l'onere dichiarativo grava anche sul socio unico dal momento che è titolare di un ruolo decisionale e gestionale sulla società di carattere esclusivo e perciò più penetrante rispetto a quello del socio di maggioranza.
Di conseguenza, la stazione appaltante è tenuta a verificare la sussistenza dei requisiti morali in capo ai soggetti muniti di poteri di rappresentanza e direzione tecnica in seno alla persona giuridica socio unico della società di capitali offerente (articolo ItaliaOggi del 07.07.2017).
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MASSIMA
Con la prima doglianza la Re.Co.St.So.Co. e la CO. deducono che la costituenda ATI fra la De. e la Gi.Pu. & Fi. avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara in quanto i legali rappresentanti della Suez It. s.p.a., e della So.Fin.–So.Fi.In. s.p.a., in liquidazione, uniche socie, rispettivamente, della De. e della Gi.Pu. & Fi., non avrebbero reso le dichiarazioni di cui all’art. 38, comma 1, lett. b) e c), del D.Lgs. 12/04/2016 n. 163.
La doglianza è fondata.
Con recente sentenza che il Collegio condivide, questa Sezione ha affermato che: <<
non è ragionevole ed anche priva di razionale giustificazioni la limitazione della verifica sui reati ex art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006 solo con riguardo al socio unico persona fisica o al socio di maggioranza persona fisica per le società con meno di quattro soci, atteso che la garanzia di moralità del concorrente che partecipa a un appalto pubblico non può limitarsi al socio persona fisica, ma deve interessare anche il socio persona giuridica per il quale il controllo ha più ragione di essere, trattandosi di società collegate in cui potrebbero annidarsi fenomeni di irregolarità elusive degli obiettivi di trasparenza perseguiti.
Se lo spirito del Codice dei contratti pubblici è improntato ad assicurare legalità e trasparenza nei procedimenti degli appalti pubblici, occorre garantire l'integrità morale del concorrente sia se persona fisica che persona giuridica.
In caso contrario, verrebbe violato il principio della par condicio dei concorrenti in quanto una società concorrente con socio unico o socio di maggioranza che sia persona fisica sarebbe soggetto alla dichiarazione e non invece un concorrente che sia persona giuridica
>> (Cons. Stato, Sez. V, 23/06/2016, n. 2813).
Pertanto,
il menzionato art. 38, laddove estende il novero dei soggetti delle società di capitali di cui occorre accertare la moralità professionale ai fini dell'ammissione alle gare pubbliche ricomprendendovi il “socio di maggioranza in caso di società con meno di quattro soci”, dev’essere interpretato in base alle seguenti direttrici ermeneutiche:
   a)
in assenza di specificazioni circa la natura giuridica del socio, l'espressione testuale vale tanto per la persona fisica, quanto per la persona giuridica, in conformità ad un approccio sostanzialistico alla normativa che attribuisce rilievo ai requisiti di moralità di tutti i soggetti che condizionano la volontà degli operatori che stipulano contratti con la pubblica amministrazione, a prescindere dalla circostanza che siano persone fisiche o giuridiche, in ossequio ai principi di lealtà, correttezza, trasparenza e buona amministrazione;
   b)
la medesima espressione indica solamente una soglia minima di partecipazione azionaria, nel senso che la dichiarazione è richiesta al socio, persona fisica o giuridica, che detenga almeno la maggioranza del pacchetto azionario. A fortiori, quindi, l’onere dichiarativo grava sul socio unico, rivestendo egli un ruolo decisionale e gestionale sulla società di carattere esclusivo e perciò più penetrante rispetto a quello del socio di maggioranza.
Da qui la necessità di verificare la sussistenza dei requisiti morali in capo ai soggetti muniti di poteri di rappresentanza e direzione tecnica in seno alla persona giuridica socio unico della società di capitali offerente.
Nel caso di specie, è incontroverso che rappresentanti legali e direttori tecnici della Su.It. s.p.a., e della So.Fin.–So.Fi.In. s.p.a., in liquidazione, non abbiano presentato la dichiarazione di cui all’art. 38, comma 1, lett. c), richiesta dal paragrafo 14.25, punto 3, del disciplinare di gara, ma, comunque, necessaria, per pacifica giurisprudenza, anche in caso di assenza di una specifica previsione in tal senso nella lex specialis della procedura, atteso che il comma 2 del medesimo articolo 38, introduce un vincolo dichiarativo ex lege che integra automaticamente eventuali carenze della disciplina di gara (Cons. Stato, A.P. 07/06/2012, n. 21; Sez. V, 12/10/2016, n. 4219).
Ne consegue che le appellanti principali avrebbero dovuto essere escluse dalla gara non essendo nemmeno possibile -diversamente da quanto dalle stesse affermato- sanare l’omessa dichiarazione mediante soccorso istruttorio.
Difatti, per consolidato orientamento giurisprudenziale,
nelle procedure ad evidenza pubblica, preordinate all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del soggetto tenutovi, di tutte le condanne penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati diversi da quelli contemplati nell'art. 38, comma 1, lett. c), D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, comporta l’esclusione dalla gara del concorrente a cui è riferibile la lacuna senza possibilità che questa possa essere sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente mancanti, ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 27/07/2016, n. 3402).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifica al soggetto che rappresenta l'ente.
Qualora l'amministrazione finanziaria ipotizzi l'esistenza di un amministratore di fatto, ritenuto responsabile effettivo delle violazioni tributarie commesse dalla società, le notifiche degli atti d'indagine e dell'avviso di accertamento devono essere effettuate anche nei confronti del soggetto che rappresenta formalmente l'ente giuridico, secondo i riferimenti che si trovano nei pubblici registri. Di contro, se le notifiche vengono rivolte esclusivamente agli amministratori di fatto, ciò si traduce nell'illegittimità dell'accertamento, poiché viene a mancare l'elemento della notificazione (almeno da tentarsi) nei confronti della persona giuridica, che è rappresentata dal soggetto che risulta dal registro imprese.

È l'interessante principio che si legge nella sentenza 30.06.2017 n. 548/01/17 della Ctp di Frosinone (presidente Francesco Galli, relatore Gina Antoniani).
La vertenza riguarda l'impugnazione di un avviso di accertamento notificato a un contribuente della provincia frusinate, ritenuto amministratore di fatto della società a responsabilità limitata che avrebbe, secondo la tesi delle Entrate, spesato dei costi relativi ad operazioni inesistenti.
Il ricorso introduttivo insisteva particolarmente sul fatto che l'avviso di accertamento e il presupposto verbale di constatazione non fossero stati regolarmente notificati al legale rappresentante della società, un cittadino greco, regolarmente nominato con atto notarile e risultante dal registro imprese. I verificatori, invece, ritenendo che tale rappresentanza fosse fittizia, avevano proceduto unicamente nei confronti del rappresentante di fatto.
La Ctp di Frosinone ha accolto tale doglianza, richiamando l'orientamento della Corte di cassazione secondo cui la notifica alla persona giuridica deve essere fatta mediante consegna alla persona che rappresenta l'ente (o agli altri legittimati indicati dalle norme), facendo riferimento a ciò che risulta nei pubblici registri: è irrilevante, in tal senso, la notifica all'amministratore di fatto, poiché egli non rappresenta la società, ancorché la gestisca nella sostanza.
Per ragioni di certezza, dunque, le notifiche rivolte alla società devono essere effettuate secondo i riferimenti del registro imprese; in difetto, l'accertamento notificato al solo amministratore di fatto è illegittimo.
In ragione della complessità delle questioni trattate, il collegio frusinate ha ritenuto opportuno compensare le spese di giudizio.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] L'art. 145 cod. proc. civ. e il dpr n. 600 del 1973, art. 60, prevedono che ( ).
La sede effettiva della società s'individua privilegiando il luogo dell'amministrazione principale della società, come determinabile sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi. Pertanto, qualora gli organi direttivi e di controllo di una società si trovino presso la sua sede statutaria e in quel luogo le decisioni di gestione di tale società siano assunte in maniera riconoscibile dai terzi, la presunzione introdotta dal regolamento comunitario n. 1346 del 2000 non è superabile.
Viceversa, laddove il luogo dell'amministrazione principale della società non si trovi presso la sua sede statutaria, la presenza di valori sociali nonché l'esistenza di attività di gestione degli stessi in uno stato membro diverso da quello della sede statuaria di tale società possono essere considerati elementi sufficienti a superare detta presunzione, a condizione che una valutazione globale di tutti gli elementi rilevanti consenta di stabilire che, sempre in maniera riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della società stessa, nonché della gestione dei suoi interessi, sia situato in tale altro stato membro.
Questo concetto è stato ribadito dalla Suprema corte di cassazione, sezioni unite civili, con sentenza n. 5419 del 18.03.2016 (Cfr. anche Ctr Campania sent, 18.11.2015, n. 10249).
Nel nostro caso né il p.v.c. né l'avviso di accertamento impugnato, sono stati notificati alla società nella sua sede sociale e/o al rappresentante legale della stessa.
Di ciò è puntuale conferma nel dpr n. 600 del 1973, art. 62, secondo cui «la rappresentanza dei soggetti diversi dalle persone fisiche, quando non sia determinabile secondo la legge civile, è attribuita ai fini tributari alle persone che ne hanno l'amministrazione anche di fatto».
Nel caso di specie non è contestato che ( ) srl disponesse di un proprio amministratore e legale rappresentante nominato secondo le procedure di legge.
Gli atti tributari sono atti recettivi, vale a dire producono effetti solo se e dal momento in cui sono portati a conoscenza del destinatario. Il mezzo attraverso il quale si perfeziona tale conoscenza è la notifica. Con il procedimento di notifica, l'atto entra nella sfera di conoscenza del destinatario.
Trattasi di una conoscenza «legale» che prescinde dall'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario.
In questo caso, poiché l'indirizzo estero del legale rappresentante era (ed è) noto all'amministrazione finanziaria, le notifiche potevano essere fatte sia per il tramite del servizio postale (raccomandata con ricevuta di ritorno), sia con la procedura convenzionale o consolare ex art. 142 c.p.c. (articolo ItaliaOggi Sette del 06.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Demolire l'abuso è atto dovuto. La rimozione parziale va valutata in corso d'opera. Tar Campania sull'incidenza dell'impossibilità di ripristino dello stato dei luoghi.
In presenza di un intervento edilizio realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo l'ordine di demolizione costituisce atto dovuto, mentre la possibilità di non procedere alla rimozione delle parti abusive quando ciò sia di pregiudizio alle parti legittime costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, subordinata alla circostanza dell'impossibilità del ripristino dello stato dei luoghi.
Lo hanno ribadito i giudici della IV Sez. del TAR Campania-Napoli con la sentenza 27.06.2017 n. 3504.
La questione sottoposta all'attenzione dei giudici amministrativi partenopei vedeva il ricorrente Tizio nella qualità di proprietario di una abitazione che impugnava con ricorso, l'ordine di demolizione ripristino dei luoghi con eliminazione dei pilastri e relativa tompagnatura realizzati in adiacenza all'abitazione.
A seguito di accertamenti da parte dei vigili urbani si era constatato che Tizio, senza alcun titolo edilizio, stava procedendo alla sopraelevazione dell'abitazione, mediante la posa in opera di tre pilastri e relativa tompagnatura.
Tizio deduceva violazione della normativa urbanistica ed edilizia e violazione delle norme sul giusto procedimento; si doleva, in ogni caso, dell'erroneità dei presupposti.
Censurava, infine, il vizio di motivazione e l'erroneità delle acquisizioni istruttorie. Evocava, inoltre, vizi del procedimento e sproporzione della sanzione demolitoria.
Il Comune si era costituito e concludeva per l'infondatezza del ricorso.
Nel caso di specie i giudici napoletani hanno respinto il motivo che si appellava a pretese carenze procedimentali. Esse, in realtà, non sussistono, in quanto i procedimenti iniziati ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento, così che non è stato violato l'articolo 7 della legge 241/1990.
Tali omissioni, non inficiano la legittimità di siffatti provvedimenti proprio per la loro assoluta vincolatezza.
Infatti, alla stregua del disposto dell'articolo 21-octies della legge 241 del 1990 non può essere utilmente lamentata la violazione delle diverse garanzie partecipative previste dalla medesima legge sul procedimento (sul punto, ex multis, Tribunale amministrativo regionale della Campania, IV Sezione, n. 4873/2012, nonché Tribunale amministrativo regionale della Campania, sez. VIII, 05.05.2011, n. 2497 e cfr. ancora, più di recente, Consiglio di stato, sez. IV, 06.07.2012, n. 3969).
I giudici hanno, infine, dichiarato infondato anche il profilo relativo all'asserita carenza motivazionale, essendo sufficiente, al fine dell'applicazione della connessa demolizione, evidenziare la mancanza del titolo edilizio e la sussistenza di un'opera che richiede il rilascio del permesso di costruire (articolo ItaliaOggi Sette del 31.07.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Motivi solo formali, esclusioni illegittime. TAR LOMBARDIA 1/ Decisione sui concorsi.
Deve ritenersi illegittima l'esclusione da un concorso basata su elementi non sostanziali, ma solo su circostanze formali imposte dal sistema informatico.

Questo è quanto ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 27.06.2017 n. 1449.
Nel caso in esame il Miur aveva emanato un bando di concorso per il reclutamento di personale docente. Tale bando aveva previsto che le domande di partecipazione potessero essere presentate tramite il portale del personale scuola.
Una docente, in possesso dei requisiti richiesti, aveva presentato tale domanda di partecipazione che veniva regolarmente inserita, registrata e riprodotta in formato pdf con un numero di protocollo. Al momento della pubblicazione dell'elenco dei docenti ammessi al concorso, però, il nome della docente non era comparso e il Miur aveva attribuito la cancellazione della domanda al malfunzionamento del sistema informatico e al fatto che le operazioni di accesso da parte della candidata avrebbero prima modificato e poi cancellato la domanda.
Pertanto, secondo il Miur, il mancato inoltro sarebbe stato imputabile alla docente che, invece, a sua volta aveva impugnato il provvedimento di esclusione da parte del ministero.
Il Tar accoglie il ricorso.
Secondo il Collegio, infatti, una volta che una domanda di partecipazione abbia acquisito un numero di protocollo, la circostanza che eventuali ulteriori accessi possano determinare la cancellazione della stessa costituisce un problema di funzionamento della piattaforma informatica. Pertanto, le conseguenze non possono in alcun modo ricadere sui partecipanti. Inoltre, la domanda di partecipazione presentata in via telematica deve considerarsi un vero e proprio documento informatico che dovrà essere protocollato e conservato.
Deve, quindi, essere ritenuta illegittima l'esclusione che non attiene ad elementi sostanziali quali la mancanza di requisiti di partecipazione, l'oggettiva tardività della domanda, l'uso di strumenti di redazione e trasmissione diversi da quelli prescritti dal bando, l'incertezza assoluta ed oggettiva sulla riferibilità dell'istanza ad un soggetto determinato, ecc. ma attiene solo a circostanze formali imposte dal Sistema informatico e non imputabili al richiedente (articolo ItaliaOggi Sette del 24.07.2017).
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MASSIMA
Ad avviso del Collegio la tesi dell’Amministrazione non può essere condivisa.
Una volta che la domanda di partecipazione abbia acquisito un numero di protocollo (su tale punto non vi è contestazione), la circostanza di fatto che eventuali ulteriori accessi possano determinare la cancellazione della domanda stessa costituisce un problema di funzionamento della piattaforma informatica, le cui conseguenze non possono ricadere sui partecipanti, dovendosi ritenere che l'utilizzo dello strumento informatico e dei mezzi di comunicazione telematica debbano essere considerati come serventi rispetto all'attività amministrativa (cfr. Tar Bari, sez. I, 27.06.2016, n. 806 e 807; 09.06.2016, n. 765).
Il bando prevedeva che le domande potessero essere presentate esclusivamente attraverso istanza telematica ai sensi del D.lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione digitale).
L’art. 2, comma 1 del predetto decreto legislativo, nel fissare i criteri di appropriatezza ed adeguatezza per l’organizzazione e la gestione della modalità digitale, li riferiscono “al soddisfacimento degli interessi degli utenti”.
Il successivo art. 9 stabilisce che l’uso delle nuove tecnologie deve promuovere una maggiore partecipazione di tutti i cittadini, residenti e non, al processo democratico, con l’espresso obiettivo di “facilitare l'esercizio dei diritti politici e civili” e migliorare la qualità degli atti normativi e amministrativi.
L’art. 12 prevede poi che “Le pubbliche amministrazioni nell'organizzare autonomamente la propria attività utilizzano le tecnologie dell'informazione e della comunicazione per la realizzazione degli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, nonché per l'effettivo riconoscimento dei diritti dei cittadini e delle imprese di cui al presente Codice”.
Richiamati tali principi, va osservato che
la domanda di partecipazione presentata per via telematica deve considerarsi un vero e proprio documento informatico e tali devono essere ritenute anche le eventuali domande di “cancellazione”, le cui informazioni devono essere debitamente protocollate e conservate (cfr. DPCM 03.12.2013 e 13.11.2014 recanti “Regole tecniche in materia di formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici nonché di formazione e conservazione dei documenti informatici delle pubbliche amministrazioni ai sensi degli articoli 20, 22, 23-bis, 23-ter, 40, comma 1, 41, e 71, comma 1, del Codice dell'amministrazione digitale di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005”).
Ora, nel caso di specie, a fronte di una domanda di partecipazione -da ritenersi esistente, stante la sua avvenuta protocollazione– non risulta essere stata “formata” alcuna domanda di cancellazione dell’istanza precedentemente inviata.
In una fattispecie analoga è stato condivisibilmente ritenuta “la manifesta irragionevolezza, ingiustizia ed irrazionalità di un sistema di presentazione delle domande di partecipazione ad un concorso che, a causa di meri malfunzionamenti tecnici, giunga ad esercitare impersonalmente un’attività amministrativa sostanziale, disponendo esclusioni de facto riconducibili a mere anomalie informatiche (cfr. Tar Lazio sez. III-bis 04.04.2017 n. 4195).
Deve ritenersi illegittima l’esclusione basata su elementi non sostanziali (quali la mancanza di requisiti di partecipazione, l'oggettiva tardività della domanda, l'uso di strumenti di redazione e trasmissione diversi da quelli prescritti dal bando, l'incertezza assoluta ed oggettiva sulla riferibilità dell'istanza ad un soggetto determinato, ecc.) ma solo su circostanze formali imposte dal Sistema informatico, non (esclusivamente) imputabili al richiedente.
Siffatta esclusione collide, infatti, con i principi di imparzialità, trasparenza, semplificazione, partecipazione, uguaglianza e non discriminazione, nonché con i più generali principi di ragionevolezza, proporzionalità, favor partecipationis che improntano di sé l'azione amministrativa nella particolare materia concorsuale, anche se gestita in modalità telematica (Tar Toscana sez. I 05.06.2017 n. 758).
Nella configurazione, organizzazione e gestione dei propri sistemi informatici le amministrazioni, ancor prima che i principi e i criteri specifici dettati da norme tecniche, debbono osservare e perseguire quelli più generali fissati per tutta l'azione amministrativa dalla L. n. 241 del 1990 ed in particolare:
   a) criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla legge stessa e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario;
   b) criterio di non aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria;
   c) obbligo di chiara, convincente e congrua motivazione;
   d) espressività e significatività dell'azione amministrativa;
   e) strumentalità dell'informatica ad accrescere l'efficienza degli apparati pubblici e ad agevolare il cittadino nell'accesso allo svolgimento delle pubbliche funzioni ed ai pubblici servizi, nell'esercizio dei propri diritti e nell'adempimento dei propri obblighi, doveri ed oneri.

Dunque
devono ritenersi non conformi a tali principi sistemi informatici che si risolvano in un aggravamento per il cittadino, costringendolo, ad esempio, a redigere di nuovo un intero modello informatico -spesso (come nella specie) lungo, complesso e di difficile comprensione intellettuale o visibilità materiale- per un banale errore, dimenticanza o svista.
Ove non rispondente alle finalità indicate dalla legge la tecnologia rischia di creare sistemi illegittimi (Tar Toscana cit.).
Nel caso di specie la sintetica relazione dell’Amministrazione dimostra come il sistema si presentasse farraginoso e non immediatamente comprensibile, individuando in una colonna, soltanto attraverso singole lettere (E, I, S, U, A, D), le diverse funzioni attivabili (accesso, inserimento, inoltro, aggiornamento, cancellazione), peraltro neppure corrispondenti all’iniziale della relativa parola italiana.
La stessa relazione conferma che le operazioni di modifica comportavano “l’annullamento dell’istanza precedentemente inviata e la necessità di ripetere l’inoltro”. E ciò a fronte dell’assenza di un documento informatico che desse conto della cancellazione della domanda, determinandosi così una sorta di “espropriazione” automatica da parte del sistema informatico di qualsiasi potere valutativo, motivazionale e decisorio (anche con riferimento a quello di soccorso istruttorio) spettante all'amministrazione.
L'informatizzazione dei procedimenti non può infatti portare all'obliterazione della verifica degli atti in possesso della P.A. (TAR Veneto Sez. I, 09.02.2017, n. 144).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sull'ecotassa parola al giudice tributario. TAR LOMBARDIA 2/ Ambiti giurisdizionali.
La giurisdizione in materia di «ecotassa» spetta al giudice tributario e non al tribunale amministrativo regionale.

Questo è quanto ha affermato il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 27.06.2017 n. 1453.
Nel caso in esame un'azienda che svolge attività di trattamento di rifiuti speciali non pericolosi aveva impugnato il provvedimento con cui la regione Lombardia aveva respinto la sua istanza di riduzione del tributo per conferimento di rifiuti in discarica (cosiddetta «ecotassa»).
La difesa regionale aveva subito eccepito il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
L'eccezione risulta fondata.
Infatti, le norme statali e regionali che istituiscono e disciplinano questo tributo speciale qualificano espressamente tale imposizione come tributo determinando la base imponibile, i criteri di determinazione dell'imposta, il soggetto passivo, ovvero tutti gli elementi essenziali dell'obbligazione tributaria.
L'obbligo di pagamento dell'ecotassa sorge da presupposti interamente regolati dalla legge, senza che siano riservati alla p.a. spazi di discrezionalità.
I giudici amministrativi rilevano, poi, come riguardo alla ecotassa ricorrano i criteri stabiliti dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributari alcuni prelievi, cioè la doverosità della prestazione, la mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti e il collegamento di tale prestazione alla spesa pubblica: tutto ciò porta ad affermare, senza ombra di dubbio, la giurisdizione del giudice tributario da intendersi come «imprescindibilmente collegata unicamente alla natura fiscale del rapporto».
In relazione, infine, all'applicazione dell'art. 133, comma 1, lett. p), c.p.a. in ordine alla giurisdizione esclusiva del g.a. sulle controversie relative al ciclo di rifiuti, si osserva che l'oggetto della controversia deve essere sempre collegato con l'esercizio del potere da parte della p.a.
Quando invece, come nel caso di specie, la questione sia meramente patrimoniale e risultino a essa estranee le modalità attraverso cui il potere viene esercitato, la controversia rimane fuori dalla giurisdizione amministrativa, sebbene in ambiti ricollegabili alla sua giurisdizione esclusiva (articolo ItaliaOggi Sette del 24.07.2017).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittimo l’ordine di ripristino nella fattispecie di opere (abusive) realizzabili mediante CILA, oggettivamente sanzionabili solo con pena pecuniaria.
Nella fattispecie non risulta mutuabile la richiamata (dal Comune resistente) giurisprudenza in tema di poteri di controllo dell’Amministrazione sulla c.d. “legittimazione all’intervento”, che postula, ai fini inibitori (e ripristinatori), che la stessa Amministrazione disponga effettivamente di detti poteri, il che non è, in ragione della dequotazione dell’intervento (soggetto solo a CILA a termini dell’art. 6-bis del DPR 380/2001) tra quelli sottoposti al regime dell’edilizia libera.
Invero, (cfr. Cons. di Stato, parere adunanza Commissione speciale 21.07.2016, in particolare punti 5.3 e 5.5.2):
   - "…il legislatore non ha previsto altri poteri sanzionatori oltre quello di comminare una sanzione pecuniaria…la differenza con la SCIA è sotto questo profilo assai netta, poiché in quel caso, ex art. 19, comma 3, della l. n. 241, l’amministrazione “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa”.
Ci si trova, quindi, di fronte a un confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di CILA), con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di “autotutela” (con la SCIA).
Ad avviso di questo Consiglio di Stato, tale differenza si spiega alla stregua dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le attività private non determinino un significativo impatto sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere chiamato di “semplificazione progressiva”, concludendo che, “in sostanza, l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere “soltanto” conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”.
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L’intervento de quo è soggetto solo, ricorrendo la mancata presentazione della CILA, al pagamento di una sanzione pecuniaria e non a ripristino, ferma l’inerenza di ulteriori questioni ad ambiti meramente civilistici.
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In sede di controllo dell’attività edilizia, non incombe all’Amministrazione l’indagine approfondita dell’assetto proprietario, con la conseguenza che, ove il richiedente alleghi il proprio diritto, e non risulti, con sufficiente chiarezza, altrimenti, il Comune non possa legittimamente denegare (in nessun caso) l’ammissibilità dell’intervento, fermi i diritti dei terzi e salva la proposizione delle relative questioni nelle competenti sedi; e men che meno, dunque, potrebbe precludere l’attività edilizia “libera.

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... per l'annullamento, previa sospensione:
   a - dell'ordinanza n. 6 prot. n. 1501 del 10.04.2017 a firma congiunta del Responsabile del Procedimento e del Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Corbara, notificata alla ricorrente in data 18.04.2017, recante "ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi per opere eseguite in assenza di CILA", relativamente alla realizzazione di due muretti al piano interrato dello stabile sito alla via ... n. 62;
   b - della nota a firma del Responsabile dell'Area Tecnica del Comune di Corbara prot. n. 1067 del 10.03.2017, notificata in data 18.04.2017, di riscontro alle osservazioni presentate dalla ricorrente alla comunicazione di avvio del procedimento;
   c - di tutti gli atti resi nel corso del procedimento e, in specie, della nota del Responsabile dell'Area Tecnica prot. n. 438 del 31.01.2017 e del verbale del 30.01.2017 relativo al sopralluogo effettuato il 25.01.2017;
...
   - Ritenuto che, con il ricorso all’esame, Lu. De St. ha contestato gli atti meglio in epigrafe individuati con i quali il Comune di Corbara ha inteso, all’esito del relativo procedimento, intimare il ripristino dello stato dei luoghi in relazione ad opere (realizzazione di due muretti in blocchi dello spessore di cm 8 e rivestiti in pietra locale, dell’altezza di circa mt 0,60 e per una lunghezza di mt 3,00, quello posto sul versante est, e di mt 2,55, per quello posto sul versante ovest, che la ricorrente ridefinisce “fioriere, poggiate a terra, costitute da una sottostante base in muretti privi di fondazione alti circa cm 50”, come da note tecniche depositate in atti, a firma dell’arch. Sa.Or.), qualificate richiedenti CILA ai sensi dell’art. 6-bis del DPR 380/2001, deducendo violazione di legge sotto diversi profili (erroneità della sanzione ripristinatoria a fronte della previsione legale di sola sanzione pecuniaria ex art. 6, comma 7, del DPR 380/2001; ulteriore violazione di legge atteso che le opere in questione risalirebbero al 2005, con conseguente decorso del termine ragionevole per l’esercizio dell’eventuale ius poenitendi; inerenza della questione, stante il peculiare regime edilizio cui le opere sono sottoposte, a interessi meramente privatistici; erronea valutazione dello stato di fatto stante la natura esclusiva e non condominiale del diritto di proprietà della ricorrente sull’area de qua; non ricorrenza di alcun interesse ambientale a tutelarsi);
   - Considerato che il Comune resistente ha giustificato i provvedimenti impugnati sul rilievo della natura condominiale dell’area di intervento e del mancato acquisito assenso da parte del Condominio, dal che faceva discendere la carente legittimazione da parte della ricorrente all’intervento de quo, come già fatto constare con comunicazione in data 10.03.2017 (n. prot. 1067), intervento, peraltro, che assumeva risalente non già al 2005 ma ai mesi di giugno/luglio 2016;
   - Ritenuto il ricorso manifestamente fondato e, dunque, suscettibile di decisione in forma semplificata, come rappresentato alle parti in sede di udienza camerale;
   - Ritenuto, nello specifico, fondato il primo, dirimente, motivo di ricorso con il quale la ricorrente ha denunciato l’illegittimità dell’ordine di ripristino trattandosi di opere, realizzabili mediante CILA, oggettivamente sanzionabili solo con pena pecuniaria;
   - Ritenuto che la eventuale carenza di legittimazione all’intervento (per essere l’area in questione di asserita proprietà condominiale e non esclusiva) non modifica la natura dell’intervento stesso e il connesso regime sanzionatorio;
   - Ritenuta, in proposito, non mutuabile la richiamata (dal Comune resistente) giurisprudenza in tema di poteri di controllo dell’Amministrazione sulla c.d. “legittimazione all’intervento”, che postula, ai fini inibitori (e ripristinatori), che la stessa Amministrazione disponga effettivamente di detti poteri, il che non è, in ragione della dequotazione dell’intervento (soggetto solo a CILA a termini dell’art. 6-bis del DPR 380/2001) tra quelli sottoposti al regime dell’edilizia libera (cfr. Cons. di Stato, parere adunanza Commissione speciale 21.07.2016, in particolare punti 5.3 e 5.5.2, testualmente riprodotti: “…il legislatore non ha previsto altri poteri sanzionatori oltre quello di comminare una sanzione pecuniaria…la differenza con la SCIA è sotto questo profilo assai netta, poiché in quel caso, ex art. 19, comma 3, della l. n. 241, l’amministrazione “adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa”. Ci si trova, quindi, di fronte a un confronto tra un potere meramente sanzionatorio (in caso di CILA), con un potere repressivo, inibitorio e conformativo, nonché di “autotutela” (con la SCIA). Ad avviso di questo Consiglio di Stato, tale differenza si spiega alla stregua dei principi di proporzionalità e di adeguatezza, tenuto conto che nella materia edilizia il legislatore ha costruito un sistema speciale, in cui il controllo dei poteri pubblici è meno invasivo qualora le attività private non determinino un significativo impatto sul territorio, secondo un modello che potrebbe essere chiamato di “semplificazione progressiva”, concludendo che, “in sostanza, l’attività assoggettata a CILA non solo è libera, come nei casi di SCIA, ma, a differenza di quest’ultima, non è sottoposta a un controllo sistematico, da espletare sulla base di procedimenti formali e di tempistiche perentorie, ma deve essere “soltanto” conosciuta dall’amministrazione, affinché essa possa verificare che, effettivamente, le opere progettate importino un impatto modesto sul territorio”);
   - Ritenuto, per quanto precede, che l’intervento de quo sia soggetto solo, ricorrendo la mancata presentazione della CILA, al pagamento di una sanzione pecuniaria e non a ripristino, ferma l’inerenza di ulteriori questioni ad ambiti meramente civilistici;
   - Ritenuto, ancora in conformità a consolidata giurisprudenza amministrativa (anche del Supremo Consesso), che, in sede di controllo dell’attività edilizia, non incombe all’Amministrazione l’indagine approfondita dell’assetto proprietario (per quanto è dato evincere dalla documentazione versata in causa, essendo in contestazione, e non affatto acclarata nel senso della natura condominiale, la proprietà dell’area di intervento), con la conseguenza che, ove il richiedente alleghi il proprio diritto, e non risulti, con sufficiente chiarezza, altrimenti, il Comune non possa legittimamente denegare (in nessun caso) l’ammissibilità dell’intervento (cfr. Cons. di Stato, nn. 4676/2012 e 4968/2011, ex pluris), fermi i diritti dei terzi e salva la proposizione delle relative questioni nelle competenti sedi; e men che meno, dunque, potrebbe precludere l’attività edilizia “libera”;
   - Ritenuto che l’intervento de quo neppure rilevi sotto il profilo paesaggistico, rilievo, invero, non espressamente formulato nel provvedimento impugnato (che contesta unicamente l’assenza di previa CILA, ma non il contrasto con vincoli di sorta ovvero la necessità di previa conformazione agli stessi), trattandosi di manufatti insistenti in area completamente interrata e sottostante il solaio di copertura del piano rialzato dell’intero compendio immobiliare; venendo in rilievo, dunque, nella fattispecie, il disposto di cui all’art. 149, comma 1, lett. a), del D.lgs. 42/2004 (cfr. note tecniche in atti, depositate da parte ricorrente);
   - Ritenuto, per le ragioni che precedono e assorbiti tutti gli altri motivi, il ricorso fondato, con conseguente necessità di annullamento degli atti impugnati come confluiti, nella loro estrinsecazione effettivamente lesiva per la ricorrente, e dunque apprezzabile nella presente sede, nell’atto sub a) dell’epigrafe;
   - Ritenuto che l’annullamento di cui sopra esclude la configurabilità, in capo alla ricorrente, di danni risarcibili, con conseguente reiezione della domanda risarcitoria proposta (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 26.06.2017 n. 1103 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTII totem informativi esenti da pubblicità.
Le immagini e le rappresentazioni riportate sui totem informativi, collocati all'interno del centro commerciale, non possono considerarsi dei mezzi pubblicitari, così da dover scontare la relativa imposizione, se svolgono la precipua funzione di identificazione del prodotto commercializzato (con le relative caratteristiche) e individuazione del luogo di esercizio dell'attività.

È quanto si legge nella sentenza n. 35/01/17 della Ctp di Lodi.
La vertenza nasce dall'impugnazione di un avviso di accertamento relativo all'imposta comunale sulla pubblicità, notificato a una società di capitali con sede di esercizio ubicata all'interno di un centro commerciale. In particolare, la concessionaria del comune richiedeva il pagamento dell'imposta per i messaggi pubblicitari esposti sui totem collocati nei corridoi della struttura commerciale.
Secondo la ricorrente, invece, le rappresentazioni non potevano considerarsi come dei mezzi pubblicitari, in quanto volte principalmente a individuare il tipo di prodotto commercializzato (riportandone addirittura la descrizione degli ingredienti) e perché posizionati all'interno del centro commerciale, per individuare il luogo di esercizio dell'attività.
La Ctp di Lodi ha accolto il ricorso, rivelandosi decisiva l'analisi della documentazione fotografica prodotta in atti, relativa ai presunti messaggi pubblicitari apposti sui totem. I giudici tributari hanno ritenuto che tali rappresentazioni, peraltro collocate nei luoghi di esercizio dell'attività, debbano considerarsi più come una «lista degli ingredienti» che come un mezzo pubblicitario. La funzione, infatti, è quella di individuare il tipo di prodotto commercializzato e di esporne le caratteristiche; oltre che, naturalmente, di indicare il luogo ove l'attività viene esercitata.
Per tali ragioni, il collegio ha ritenuto di annullare l'avviso di accertamento, pur compensando le spese di giudizio in ragione della peculiarità dell'argomento trattato.
Il principio è, per certi aspetti, assimilabile a quello applicato da numerose commissioni tributarie per le rappresentazioni sulle cabine automatiche per le fototessere. Le affissioni sulle cabine fotografiche, infatti, rappresentano l'insegna dell'azienda e hanno lo scopo di indicare il luogo (o i luoghi succursali) ove viene in concreto svolta l'attività: di conseguenza, se dette affissioni rispettano il limite dimensionale di 5 mq, per le stesse non è dovuta alcuna imposta comunale sulla pubblicità (sul tema, si può citare la sentenza n. 331/02/16 della Ctp di Brescia).
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
Con atto pervenuto presso questa commissione (Rgr n° 131/16), la ricorrente propose ricorso contro l'avviso di accertamento emesso da ( ) srl, soc. uni personale, concessionaria per l'imposta comunale sulla pubblicità per il comune di ( ), in relazione alla stessa imposta dovuta per l'anno 2016, in merito a mezzi pubblicitari (totem), ubicati all'interno di un centro commerciale. ( ). In pratica risulta che la soc. concessionaria abbia semplicemente rilevato dei mezzi pubblicitari esposti dalla ricorrente e per i quali la stessa soc. ricorrente ha omesso la dichiarazione di esposizione di tali mezzi e il pagamento della relativa imposta; quindi venne emesso l'avviso impugnato per il recupero di quanto dovuto.
Per quanto alle altre contestazioni/eccezioni e motivi di ricorso, sia di diritto che di merito, le parti si riportano agli atti depositati e ai rispettivi scritti difensivi.
La trattazione del ricorso avviene in pubblica udienza ed al termine della esposizione dei fatti da parte del Relatore e dell'audizione delle parti presenti, il collegio si ritira in camera di consiglio e decide come da separato dispositivo.
Motivi della decisione
Il collegio così riunito, esaminati gli atti e i documenti di causa, nonché le ragioni in fatto e in diritto addotte dalle parti, ritiene il ricorso fondato e quindi da accogliere per quanto di ragione.
Il collegio osserva che dalla documentazione fotografica versata in atti si evince chiaramente che i mezzi pubblicitari in contestazione sono ubicati all'interno e/o all'ingresso dell'esercizio commerciale cui si riferiscono e gli stessi identificano il tipo di prodotto che viene somministrato, con i relativi ingredienti di cui lo stesso è composto, essendo in tal modo, più simili ad una lista degli ingredienti che a un mezzo pubblicitario.
Quindi, in relazione a quanto sopra, nonché considerate le dimensioni dei totem in contestazione e tenuto conto di quanto disposto dall'art. 10 della l. n. 448/2001 e degli art. n. 14 e 17 del dlgs n. 446/1997, nel caso trattato non ricorrono i presupposti per l'assoggettamento a tassazione degli asseriti mezzi pubblicitari contestati. Ciò comporta l'accoglimento del ricorso, stante la sua fondatezza.
Pertanto, le considerazioni che precedono sono assorbenti e rendono irrilevante ogni altra eccezione sia di diritto che di merito, quindi, alla luce di quanto sopra esposto ed allo stato dei fatti, null'altro emergendo e nessun altro atto risultando, il Collegio ritiene di poter aderire alle ragioni addotte dal ricorrente, quindi accoglie il ricorso e annulla l'atto impugnato; la peculiarità dell'argomento trattato giustifica la compensazione fra le parti delle spese del giudizio, il tutto come risulta dal seguente dispositivo.
La Commissione tributaria provinciale di Lodi accoglie il ricorso. Spese compensate (articolo ItaliaOggi Sette del 26.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio in questione ricade su area con vincolo ambientale ex D.Lgs. n. 42 del 2004, sicché ai sensi dell’art. 20, comma 8, del DPR n. 380 del 2001 l’istituto del silenzio-assenso non può trovare applicazione.
Inoltre, ai fini della formazione del titolo autorizzativo tacito risulta comunque necessario che l’istanza di permesso di costruire sia corredata di tutta la documentazione prescritta per il rilascio del titolo compresa, quindi, la dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001 del progettista abilitato circa “la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme relative all'efficienza energetica”, nel caso in esame carente.
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La ricorrente ha impugnato l’atto indicato in epigrafe con il quale il Comune di Martina Franca ha comunicato il diniego definitivo sull’istanza di permesso di costruire, depositata in data 02.09.2013, per la realizzazione di opere di ristrutturazione su di un immobile di proprietà della società Sc.Im., già oggetto di condono edilizio ex art. 31 della Legge n. 47 del 1985.
La ricorrente ha esposto in fatto che sull’istanza in questione, oltre ai pareri favorevoli degli uffici competenti (Sportello Unico per l’Edilizia, Commissione Paesaggio e Soprintendenza), il Comune aveva rilasciato l’autorizzazione paesaggistica n. 98 del 2015, senza tuttavia poi concludere il procedimento mediante il rilascio del titolo autorizzativo; con atto depositato il 27.05.2016 la Sc.Im., ritenendo formato sulla domanda il silenzio-assenso ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, aveva quindi notiziato il Comune che in data 03.06.2016 avrebbe iniziato i lavori; a fronte di tale comunicazione, l’Ente civico aveva dapprima comunicato ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza e, successivamente, nonostante le osservazioni fatte pervenire dall’interessata, negato definitivamente il permesso di costruire.
Il Comune, alla base del diniego di permesso di costruire ha, da un lato, contestato l’applicabilità dell’istituto del silenzio assenso, ricadendo l’immobile in questione su area vincolata; dall’altro, ha articolato i seguenti motivi ostativi: il progetto risulta in contrasto con l’art. 4 delle NTA del PRG che espressamente prevede “gli edifici in contrasto con le destinazioni di zona ed i tipi previsti dal presente PRG non potranno essere trasformati né ampliati” e l’intervento previsto in progetto di “ristrutturazione edilizia” è qualificato, ex art. 3, comma 1, lettera d), del DPR n. 380 del 2001 quale “intervento rivolto a trasformare gli organismi edilizi”; l’istanza presentata è carente della dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001 del progettista abilitato, avendo il tecnico attestato la sola conformità del progetto alle norme igienico sanitarie e non anche “agli strumenti urbanistici approvati ed adottati”; la destinazione d’uso residenziale del fabbricato in progetto contrasta con la destinazione di zona a viabilità; l’intervento di ristrutturazione non rispetta la volumetria e la sagoma dell’edificio esistente.
La ricorrente ha censurato la decisione assunta dall’Ente innanzitutto perché, a suo dire, sull’istanza presentata in data 2 settembre 2013 si sarebbe formato il silenzio-assenso ex art. 20 del DPR n. 380 del 2001, avendo essa depositato il progetto conformemente a quanto ivi previsto (compresa l’asseverazione del progettista circa la conformità del progetto alla disciplina edilizia e urbanistica, contrariamente da quanto affermato dall’Ente nel diniego) ed ottenuto tutti i pareri necessari (tra cui l’autorizzazione paesaggistica), senza ottenere una risposta dall’Ente nei termini di legge.
La censura non può essere condivisa.
Invero, come correttamente evidenziato dal Comune di Martina Franca, l’intervento edilizio in questione ricade su area con vincolo ambientale ex D.Lgs. n. 42 del 2004, sicché ai sensi dell’art. 20, comma 8, del DPR n. 380 del 2001 l’istituto del silenzio-assenso non può trovare applicazione.
Inoltre, ai fini della formazione del titolo autorizzativo tacito risulta comunque necessario che l’istanza di permesso di costruire sia corredata di tutta la documentazione prescritta per il rilascio del titolo compresa, quindi, la dichiarazione ex art. 20, comma 1, del DPR n. 380 del 2001 del progettista abilitato circa “la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, alle norme relative all'efficienza energetica”, nel caso in esame carente, essendosi il tecnico della Sc.Im. limitato ad attestare la conformità del progetto alle norme vigenti in materia di barriere architettoniche e norme igienico sanitarie, senza invece confermare la conformità del progetto anche agli strumenti urbanistici approvati e adottati.
Sulla base di tali motivi, pertanto, le censure svolte in ricorso circa l’asserita formazione del titolo autorizzativo per silenzio vanno respinte, che conseguente infondatezza dei richiami ivi contenuti sulla necessità di intervenire mediante autotutela per paralizzare gli effetti dell’invocato assenso tacito (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 1025 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEEspropri, indennizzi dal giudice ordinario.
Le questioni attinenti alla determinazione ed alla corresponsione dell'indennità di espropriazione in conseguenza dell'adozione di atti di natura espropriativa o ablativa, esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo espressamente attribuite al giudice ordinario.

A ribadirlo sono stati i giudici della I Sez. del TAR Veneto con la sentenza 22.06.2017 n. 598.
Nella sentenza in commento i giudici amministrativi veneziani hanno poi sottolineato come, in ossequio anche a un ormai orientamento giurisprudenziale dettato dall'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 7 del 24.05.2007, spetterebbe un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio (introdotto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999) e non ha rilevanza per la verifica della legittimità dei provvedimenti di primo grado, che hanno disposto l'approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione del vincolo: i profili attinenti alla spettanza o meno dell'indennizzo e al suo pagamento non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione, devolute alla cognizione della giurisdizione civile (tra le altre si vedano: Cds., Sez. IV, n. 2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n. 1214; Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 02.03.2015, n. 595; Tar Sicilia, Catania, Sez. I, 09.10.2007, n. 1631).
Aggiungendo inoltre che il vincolo preordinato all'esproprio è parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con lo strumento di pianificazione territoriale. In ultimo i giudici veneti hanno richiamato un altro arresto dettato dalla giurisprudenza (Cds., Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; Tar Toscana, Sez. I, 27.01.2017, n. 147) secondo il quale la copertura finanziaria e la relativa attestazione non costituiscono requisito di validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone, semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta nell'atto, ma concerne il distinto profilo dell'esistenza di stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri finanziari da esso rivenienti (articolo ItaliaOggi Sette del 31.07.2017).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene in via preliminare di dover precisare l’ambito della propria indagine, sgombrando il campo da taluni equivoci insiti nella ricostruzione dei fatti e nella prospettazione delle doglianze offerte dalla parte ricorrente.
In primo luogo,
deve affermarsi –in accoglimento dell’apposita eccezione della difesa comunale– il difetto di giurisdizione di questo Tribunale a conoscere di tutte le censure riguardanti la misura dell’indennità di reiterazione del vincolo espropriativo, nonché la misura dell’indennità provvisoria di esproprio, trattandosi di doglianze di ordine patrimoniale, la cui cognizione è devoluta al giudice ordinario.
In particolare, per quanto concerne l’indennità per la reiterazione del vincolo espropriativo, la sig.ra Pa. contesta:
   a) nel ricorso originario, la misura simbolica di tale indennità, prevista nell’impugnata deliberazione consiliare n. 68/2000 nella misura di £. 15.000.000 (terzo motivo);
   b) nei primi motivi aggiunti, la riproposizione, da parte della P.A., a titolo di indennità, della stessa somma già offerta con la citata deliberazione n. 68/2000 (€ 8.000,00), senza alcuna considerazione del tempo trascorso (terzo motivo). La ricorrente reitera, altresì, la doglianza formulata con il terzo motivo del ricorso originario;
   c) nei secondi motivi aggiunti, la mancata previsione, negli atti ivi impugnati, compreso il decreto di esproprio, di una qualunque somma a titolo di indennità per la reiterazione del vincolo (secondo motivo aggiunto). La ricorrente reitera, altresì, le censure proposte con il terzo motivo del ricorso originario e del primo ricorso per motivi aggiunti.
Con riguardo, invece, all’indennità provvisoria di esproprio, la ricorrente lamenta, nel terzo motivo del primo ricorso e del secondo ricorso per motivi aggiunti, che per la determinazione della stessa la P.A. abbia considerato l’area di sua proprietà come avente destinazione agricola. Lamenta, inoltre, che detta indennità sia stata calcolata sulla base della superficie catastale dell’area in esame, mentre l’espropriazione avrebbe riguardato la superficie effettiva di siffatta area, che sarebbe maggiore, per mq. 178, di quella catastale (sesto motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti).
Orbene,
non è chi non veda come tutte le doglianze ora riportate attengano alla determinazione del quantum, rispettivamente, dell’indennità prevista dall’art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 327/2001 per la reiterazione del vincolo espropriativo e dell’indennità provvisoria di esproprio. Si tratta, quindi, di doglianze a contenuto patrimoniale circa la misura delle suddette indennità, la cui cognizione è attribuita al giudice ordinario dal comma 3 del medesimo art. 39 per la prima delle indennità sopra elencate (cfr. C.d.S., Sez. IV, 06.05.2010, n. 2627; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 20.12.2013, n. 3100) e dall’art. 53 del d.P.R. n. 327 cit., nonché dall’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. per l’indennità di esproprio (cfr. C.d.S., Sez. IV, 14.03.2016, n. 987).
Ed invero, come affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 7 del 24.05.2007,
il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio (introdotto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 179 del 20.05.1999) non ha rilevanza per la verifica della legittimità dei provvedimenti di primo grado, che hanno disposto l’approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione del vincolo: i profili attinenti alla spettanza o meno dell’indennizzo e al suo pagamento non attengono, infatti, alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione, devolute alla cognizione della giurisdizione civile (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, n. 2627/2010, cit.; id., 03.03.2009, n. 1214; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 02.03.2015, n. 595; TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 09.10.2007, n. 1631).
Dal canto loro,
le questioni attinenti alla determinazione ed alla corresponsione dell’indennità di espropriazione in conseguenza dell’adozione di atti di natura espropriativa o ablativa, esulano dalla giurisdizione del giudice amministrativo, essendo espressamente attribuite al giudice ordinario in base al disposto dell’art. 133, comma 1, lett. g), c.p.a. (cfr., tra le ultime, TAR Campania, Napoli, Sez. V, 04.11.2016, n. 5069).
Da quanto detto discende, in definitiva, che va dichiarato il difetto di giurisdizione di questo giudice amministrativo a conoscere delle censure poc’anzi elencate, contenute nel terzo motivo del ricorso originario, nel terzo motivo del primo ricorso per motivi aggiunti, nonché nel secondo, terzo e sesto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti.

LAVORI PUBBLICI: Non innovando rispetto al passato, anche l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano urbanistico generale.
L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che la medesima funzione urbanistica possa essere svolta anche dall’approvazione del progetto preliminare o definitivo, che, una volta deliberata dal Consiglio Comunale, costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico.
A ciò consegue che il vincolo preordinato all’esproprio è parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con lo strumento di pianificazione territoriale.
Quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19, comma 2, cit., l’adozione della variante allo strumento urbanistico può ben discendere dall’approvazione del progetto preliminare ad opera del Consiglio Comunale (e nello stesso senso deponeva pure l’art. 1, quinto comma della l. n. 1/1978, non a caso richiamato nella proposta di deliberazione approvata con la deliberazione consiliare).
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Da quanto appena esposto discende:
   - l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, attesa la tempestività del decreto di esproprio, emesso il 28.06.2006, quindi entro il termine di cinque anni dall’acquisto di efficacia della dichiarazione di p.u. dell’opera ex art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 327/2001, tenuto conto che, come appena visto, la citata dichiarazione di p.u. è intervenuta con la deliberazione della Giunta Comunale n. 32 del 19.01.2006;
   - l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario, poiché, secondo la giurisprudenza, all’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa fino al reperimento degli specifici fondi;
   - l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario, giacché la fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare, inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione implicita di pubblica utilità.

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Sempre in via preliminare, va, poi, rimosso l’equivoco in cui è incorsa la ricorrente con l’assumere che la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68 del 29.12.2000 –impugnata con il ricorso originario– recasse la dichiarazione di p.u. dell’opera per cui è causa (completamento degli impianti sportivi comunali), sebbene in tale sede fosse stato approvato il progetto preliminare dell’opera e non già quello definitivo.
Tale assunto è sviluppato nei dettagli dalla ricorrente nel quarto motivo del primo ricorso per motivi aggiunti e nel quinto motivo del secondo ricorso per motivi aggiunti, con i quali, rispettivamente, si deducono:
   a) l’illegittimità della deliberazione n. 32/2006, poiché la stessa recherebbe una proroga oltre i limiti di legge della dichiarazione di p.u., che –nella prospettiva della sig.ra Parise– sarebbe già stata emessa con la deliberazione n. 68/2000;
   b) la tardività del decreto di esproprio rispetto alla medesima deliberazione n. 68/2000, in base all’argomentazione per cui quest’ultima, contenendo l’adozione di una variante parziale al P.R.G., non potrebbe che configurarsi quale dichiarazione di p.u. dell’opera.
Il suddetto assunto è, peraltro, sotteso anche ad altre censure della ricorrente, ed in specie alle censure che non tengono conto della natura di semplice progetto preliminare del progetto approvato con la deliberazione n. 68 cit..
Ad avviso del Collegio, l’assunto in questione è del tutto privo di fondamento.
In particolare, la circostanza che la deliberazione n. 68/2000 cit. recasse l’adozione di una variante urbanistica non significa per nulla –come pretende la ricorrente– che la stessa contenesse, altresì, la dichiarazione di p.u. dell’opera, né tantomeno significa che il progetto ivi approvato avesse solo la denominazione –ma non il contenuto– di un progetto preliminare, come parimenti adombra la ricorrente.
Al riguardo si osserva che, non innovando rispetto al passato, anche l’art. 9 del d.P.R. n. 327/2001 configura la reiterazione del vincolo urbanistico come variante al piano urbanistico generale. L’art. 19, comma 2, del d.P.R. n. 327 cit. prevede, poi, che la medesima funzione urbanistica possa essere svolta anche dall’approvazione del progetto preliminare o definitivo, che, una volta deliberata dal Consiglio Comunale, costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico. A ciò consegue che il vincolo preordinato all’esproprio è parte essenziale del procedimento ablativo e possiede, allo stesso tempo, valore di previsione urbanistica, essendo intimamente connesso con lo strumento di pianificazione territoriale (TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 10.03.2015, n. 816).
Anzitutto, quindi, per esplicita indicazione dell’art. 19, comma 2, cit., l’adozione della variante allo strumento urbanistico può ben discendere dall’approvazione del progetto preliminare ad opera del Consiglio Comunale (e nello stesso senso deponeva pure l’art. 1, quinto comma della l. n. 1/1978, non a caso richiamato nella proposta di deliberazione approvata con la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 68/2000).
In secondo luogo, l’approvazione del progetto definitivo dell’opera de qua è testualmente avvenuta con la deliberazione della Giunta Comunale n. 32/2006, impugnata con il primo gruppo di motivi aggiunti, la quale, nel dispositivo, dà atto che l’approvazione del progetto definitivo stesso, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 327/2001, equivale a dichiarazione di p.u. dell’opera.
In terzo luogo, i documenti allegati alla deliberazione n. 68/2000, depositati dalla difesa comunale il 26.03.2001 (docc. 2 e 3: relazione tecnica e quadro economico di spesa), confermano che quello approvato con la deliberazione n. 68 cit. era solo il progetto preliminare dell’opera pubblica.
In altre parole, da tutti i documenti in atti si evince che la qualificazione formale del progetto approvato con la deliberazione de qua è quella di “progetto preliminare”; peraltro, anche sul piano dei contenuti è solo con la deliberazione n. 32/2006 che è stato approvato un progetto avente le caratteristiche del progetto definitivo, recando esso in allegato, tra l’altro, il piano particellare d’esproprio (cfr. TAR Lazio, Latina, 04.03.2004, n. 92).
Del resto, in nessuna parte della deliberazione n. 68 cit. si rinviene la dichiarazione di p.u.: donde, in ultima analisi, l’infondatezza delle argomentazioni della ricorrente.
Da quanto appena esposto discende:
   - l’infondatezza del quarto motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, in quanto la deliberazione n. 32/2006 reca per la prima volta la dichiarazione di p.u. dell’opera, e non la proroga di una pregressa dichiarazione che sarebbe stata contenuta nella deliberazione n. 68/2000;
   - l’infondatezza del quinto motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, attesa la tempestività del decreto di esproprio, emesso il 28.06.2006, quindi entro il termine di cinque anni dall’acquisto di efficacia della dichiarazione di p.u. dell’opera ex art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 327/2001, tenuto conto che, come appena visto, la citata dichiarazione di p.u. è intervenuta con la deliberazione della Giunta Comunale n. 32 del 19.01.2006;
   - l’infondatezza del quarto motivo del ricorso originario, poiché, secondo la giurisprudenza (TAR Puglia, Bari, Sez. II, 16.06.2005, n. 2919), all’approvazione del progetto preliminare di opera pubblica effettuata in difetto di un’attuale copertura di spesa non consegue l’illegittimità dell’atto, ma esclusivamente, ai sensi dell’art. 191 del d.lgs. n. 267/2000, l’impossibilità di effettuare la spesa fino al reperimento degli specifici fondi;
   - l’infondatezza del quinto motivo del ricorso originario, giacché la fissazione dei termini di inizio e compimento dei lavori e delle espropriazioni non occorre, ove sia stato approvato solo il progetto preliminare dell’opera da realizzare, inidoneo a comportare gli effetti di una dichiarazione implicita di pubblica utilità (C.d.S., Sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; id., 14.12.2002, n. 6917; TAR Calabria, Reggio Calabria, 03.10.2005, n. 1745) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria, lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura.
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che, proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata, pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale copertura finanziaria del progetto approvato.
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la relativa attestazione non costituiscono requisito di validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone, semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri finanziari da esso rivenienti.
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Ne discende l’infondatezza:
   - dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita carenza di mezzi finanziari non è sufficiente, di per sé, a provare lo sviamento di potere lamentato dalla ricorrente (secondo cui essa indicherebbe che il vero fine avuto di mira dalla P.A. fosse quello di “prenotare” l’area di sua proprietà attraverso il vincolo espropriativo).
In argomento si rammenta che, secondo la giurisprudenza, lo sviamento di potere –consistente nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica– deve essere supportato da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non bastando mere supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dalla P.A..

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Infine, va sgombrato il campo dall’ulteriore equivoco, per cui l’asserita assenza e/o insufficienza della copertura finanziaria per il progetto in esame avrebbero inciso sulla legittimità e, quindi, sulla validità dei provvedimenti di approvazione del progetto stesso.
Il punto richiede una precisazione.
Ad avviso del Collegio, la ricorrente è legittimata a sollevare la questione ora riportata, nella misura in cui lamenta come l’asserita carenza di mezzi finanziari precluderebbe al Comune di versarle le somme che le spettano a titolo indennitario; tuttavia, va escluso che la presenza di adeguati mezzi finanziari costituisca requisito di legittimità degli atti impugnati ed in specie delle deliberazioni nn. 68/2000 e 32/2006, nonché della determinazione n. 29/2006.
Ed invero, il testo dell’art. 151, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000 vigente all’epoca dei fatti recitava: “I provvedimenti dei responsabili dei servizi che comportano impegni di spesa sono trasmessi al responsabile del servizio finanziario e sono esecutivi con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura finanziaria”.
Su tale base normativa, la giurisprudenza ha affermato che l’atto amministrativo emanato senza copertura finanziaria, lungi dall’essere “nullo di diritto”, come previsto dalla previgente disciplina (cfr. l’art. 55, comma 5, della l. n. 142/1990), è valido, ma diviene esecutivo solo con l’apposizione del visto di regolarità contabile attestante la copertura (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. IV, 25.05.2005, n. 2718; TAR Campania, Napoli, Sez. V, 06.05.2015, n. 2503; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 02.12.2014, n. 3029).
Assai significativo, sul punto, è un recente arresto che, proprio con riguardo ad una vicenda in cui ci si doleva dell’approvazione di un progetto di opere pubbliche comportante l’espropriazione di aree di proprietà privata, pur essendosi prevista una copertura solo parziale delle opere, ha escluso che possano rilevare, quali vizi di legittimità dell’atto, eventuali difetti di integrale copertura finanziaria del progetto approvato (C.d.S., Sez. IV, 29.08.2013, n. 4315).
In definitiva, pertanto, la copertura finanziaria e la relativa attestazione non costituiscono requisito di validità del provvedimento amministrativo, rappresentandone, semmai, condizione di esecutività: ciò, in quanto la copertura finanziaria non attiene alla volizione contenuta nell’atto, ma concerne il distinto profilo dell’esistenza di stanziamenti di bilancio necessari a fare fronte agli oneri finanziari da esso rivenienti (cfr. C.d.S., Sez. V, 27.08.2014, n. 4380; TAR Toscana, Sez. I, 27.01.2017, n. 147).
Ne discende l’infondatezza:
   - del quarto motivo del ricorso introduttivo (di cui già si è sottolineata l’infondatezza sotto distinto e concorrente profilo);
   - dell’ottavo motivo di detto ricorso, poiché l’asserita carenza di mezzi finanziari non è sufficiente, di per sé, a provare lo sviamento di potere lamentato dalla ricorrente (secondo cui essa indicherebbe che il vero fine avuto di mira dalla P.A. fosse quello di “prenotare” l’area di sua proprietà attraverso il vincolo espropriativo). In argomento si rammenta che, secondo la giurisprudenza (C.d.S., Sez. IV, 08.01.2013, n. 32; TAR Lazio, Latina, Sez. I, 07.06.2013, n. 524), lo sviamento di potere –consistente nell’effettiva e comprovata divergenza fra l’atto e la sua funzione tipica– deve essere supportato da precisi e concordanti elementi di prova, idonei a dare conto delle divergenze dell’atto dalla sua tipica funzione istituzionale, non bastando mere supposizioni o indizi che non si traducano nella dimostrazione dell’illegittima finalità perseguita in concreto dalla P.A.;
   - del primo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti;
   - del secondo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, a mezzo del quale si censura il mancato inserimento dell’opera nell’elenco annuale degli interventi per l’anno 2006, tenuto conto che la deliberazione di approvazione del progetto definitivo (n. 32) è stata assunta dalla Giunta Comunale il 19.01.2006, cosicché a nulla varrebbe che l’opera sia inserita nel programma triennale per il 2005/2007 e nell’elenco annuale degli interventi per il 2005. Al riguardo, peraltro, si evidenzia che la deliberazione del Consiglio Comunale di Bonavigo n. 2 del 03.02.2006, di approvazione del bilancio di previsione per il 2006, ha impegnato la spese per la realizzazione dell’opera pubblica, e che l’opera è prevista alle pagg. 29 e 93 della relazione previsionale e programmatica del Comune, anch’essa approvata con la ricordata deliberazione n. 2/2006 (cfr. docc. 5 e 6 depositati dalla difesa comunale il 4 maggio 2006);
   - del terzo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti, nella parte in cui si lamenta con esso non già l’insufficienza dell’indennità per la reiterazione del vincolo (questione che, come detto, è devoluta al G.O.), ma l’illogicità della spesa prevista per la realizzazione dell’opera pubblica;
   - del terzo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti, anche qui nella parte in cui si sostiene che l’inadeguatezza della somma offerta a titolo di indennità provvisoria di esproprio –unitamente alla pretesa insufficienza dei mezzi finanziari complessivamente previsti– costituirebbero indizi dello sviamento di potere poc’anzi ricordato (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 598 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTITassa rifiuti con la prova. L'inutilizzabilità della casa da indicare.
In tema di rifiuti, per essere esclusi dalla tassazione di un immobile per inutilizzabilità dello stesso, non è sufficiente la situazione «di fatto» ma soltanto ove questa sia indicata dal contribuente nella denuncia originaria o di variazione.

Lo ha stabilito la V Sez. civile della Corte di Cassazione nell'ordinanza 16.06.2017 n. 15044.
La vertenza trae origine dall'impugnazione degli avvisi di accertamento per Tarsu relativa agli anni ricompresi tra il 2003 e il 2007. Il giudice regionale della Puglia aveva escluso la tassazione dell'immobile posseduto dal contribuente per l'inutilizzabilità dello stesso, malgrado questa inutilizzabilità non fosse mai stata denunciata dal contribuente, che anzi aveva ottenuto per la medesima unità la deduzione Ici «prima casa».
La Cassazione ha ribaltato la decisione di giudici regionali e rinviato la causa per un nuovo esame. «In base alla norma generale dell'articolo 62, comma 1, dlgs n. 507/1993», spiegano gli Ermellini, «la Tarsu è dovuta per il solo fatto della detenzione immobiliare, sicché le deroghe ammesse dall'articolo 62, comma 2, non operano per la mera situazione di fatto, ma soltanto ove questa sia indicata dal contribuente nella denuncia originaria o di variazione» (Cassazione 3772/2013).
Al di là di ogni disputa interpretativa quindi, l'articolo 62, comma 1, del dlgs. 507/1993 non lascia alcun dubbio: la tassa è dovuta in ragione dell'occupazione o del possesso del locale, indipendentemente da quella che in realtà sia la situazione di fatto per il diverso uso che se ne possa fare. Quindi il contribuente che voglia ottenere l'esclusione dal tributo, ne dovrà informare il comune con una variazione adeguata che gli possa consentire l'esonero in presenza di unità immobiliari che non producono rifiuti.
Secondo la Corte di cassazione, infatti, al contribuente non sarà consentito recuperare successivamente alla mancata variazione così come aveva, invece, stabilito il ministero nella cm 22.06.1994, n. 95/E/5/2806, paragrafo III. La parola passa adesso ai giudici di rinvio (articolo ItaliaOggi del 19.07.2017).

EDILIZIA PRIVATALimiti alla privacy. Prevalgono le norme sull'edilizia. Gli Ermellini sul bilanciamento col diritto di proprietà.
La privacy non batte le distanze legali tra edifici. Non si può costruire un manufatto in violazione delle disposizioni sulle distanze legali con il pretesto di tutelare la propria riservatezza.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 15.06.2017 n. 14916 della II Sez. civile, con la quale pone un limite alla privacy.
Il nodo del contendere nei rapporti di vicinato nel caso concreto è stato una tettoia in legno su un terrazzo che una signora aveva installato per garantire meglio la sua riservatezza.
Ma la tettoia non rispettava la normativa edilizia sulle distanze tra le costruzioni. Quale norma prevale? Quella della edilizia o quella sulla riservatezza?
Nel corso del giudizio la Corte di appello ha affermato che la mera violazione delle distanze legali non può, certamente, ritenersi prevalente rispetto al diritto alla privacy ed alla sicurezza delle persone fisiche.
La Corte di cassazione è di diverso parere e boccia l'affermazione della Corte di appello in maniera decisa.
Il rispetto delle distanze legali, si legge nelle sentenza, non fa un passo indietro in presenza di esigenze di riservatezza e di non meglio specificata sicurezza. La normativa del Codice civile, integrata dai regolamenti locali, si fonda sulla necessità di tutelare plurime esigenze, nel reciproco contemperamento, fra le quali non è estranea quella della riservatezza. L'esigenza di tutelare la privacy, mette in evidenza la pronuncia in commento, è quindi già tenuta in conto dal legislatore nello stabilire la disciplina.
E cioè non si può invocare maggiore spazio per la privacy rispetto a quella già considerata, anche implicitamente, nelle regole sulle distanze.
Così la Cassazione: la pretesa d'introdurre limitazioni e deroghe non legislativamente previste assumendone l'utilità al fine di assicurare la riservatezza costituisce un evidente errore.
La privacy non può essere una deroga esterna. D'altra parte anche nel regolamento europeo n. 2016/679 il diritto alla privacy non è assoluto, ma va bilanciato con altri diritti.
Nel caso specifico la Cassazione si è trovata a dover bilanciare il diritto alla riservatezza con il diritto alla proprietà: un bilanciamento che è stato trovato dalla Cassazione nella legislazione edilizia, anche se anteriore alla disciplina sulla riservatezza.
Questo principio potrà essere utilizzato anche in altri ambiti e la regola derivante è quella per cui la normativa sulla privacy non abroga direttamente la legislazione esistente, anche quando non assicura un grado soddisfacente di tutela della riservatezza individuale (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2017).

APPALTIIl fatturato può essere il triplo del bando. Il Tar Calabria sui requisiti minimi.
Legittima la previsione del bando di gara che richiede un fatturato triennale globale pari a tre volte l'importo dell'affidamento; ragionevole in quanto c'è trasferimento del rischio di domanda.

È quanto afferma il TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, con la sentenza 15.06.2017 n. 963 per un affidamento di una concessione di valore stimato pari a 65 mila euro per la quale era stato richiesto un fatturato pari a euro 195 mila nel triennio 2014/2014/2015 (peraltro un triennio errato dal momento che la gara è stata bandita nel 2017).
In primo luogo i giudici ritengono legittimo il ricorso in quanto afferente un elemento potenzialmente escludente la partecipazione alla gara: la previsione di requisiti di partecipazione, di natura economico-finanziaria «vale a perimetrare la platea dei potenziali partecipanti, e se tali requisiti sono manifestamente sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della gara, il bando di gara ha una immediata efficacia lesiva, incidendo sull'interesse attuale alla partecipazione» e quindi può essere impugnato.
Pertanto è esercitabile il sindacato giudiziale, attivato con l'impugnazione immediata del bando di gara, qualora tali requisiti siano manifestamente sproporzionati, discriminanti e abnormi, in relazione all'oggetto complessivo del contratto e delle sue peculiarità.» Nel merito la sentenza rileva che la quantificazione del requisito, ancorché non disciplinata nel codice (che non fissa dei range entro i quali definire il requisito minimo) va valutata in rapporto ai principi generali che si ritrovano nell'articolo 30 del decreto 50/2016, applicabile anche alle concessioni di servizi sotto soglia.
La norma stabilisce che «le stazioni appaltanti non possono limitare in alcun modo artificiosamente la concorrenza allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici o, nelle procedure di aggiudicazione delle concessioni, compresa la stima del valore, taluni lavori, forniture o servizi» (comma 2).
Nel caso di specie, però, per il Tar avete previsto un fatturato triennale te volte superiore all'importo stimato della concessione, soprattutto in relazione alla considerazione che nella concessione vi è un trasferimento del rischio della domanda, non appare irragionevole, sproporzionato, abnorme o discriminante. Quindi il bando è corretto (articolo ItaliaOggi del 30.06.2017).
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MASSIMA
6. Ai fini della disamina della questione di ammissibilità sollevata da parte resistente con riguardo a tutte le censure spiegate in ricorso, per esigenze di sinteticità, imposte anche dal rito speciale ex art. 120 c.p.a., si richiama ex art. 88, co. 2, lett. d), c.p.a. la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 10.08.2016, n. 3595, secondo cui “
nelle gare pubbliche, soggiacciono all'onere della immediata impugnazione le sole clausole che impediscano la partecipazione o impongano oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati ovvero che rendano impossibile la stessa formulazione dell'offerta, mentre per le altre previsioni, comprese quelle concernenti i criteri di valutazione e attribuzione dei punteggi, l'interesse al ricorso nasce con gli atti che ne facciano applicazione, quali l'esclusione o l'aggiudicazione definitiva a terzi, in quanto effettivamente lesivi della situazione giuridica tutelata”.
La previsione di requisiti di partecipazione, di natura economico-finanziaria nel caso di specie, vale a perimetrare la platea dei potenziali partecipanti, e se tali requisiti sono manifestamente sproporzionati “per eccesso” rispetto ai contenuti della gara, il bando di gara ha una immediata efficacia lesiva, incidendo sull’interesse attuale alla partecipazione (cfr. Cons. St., Ad Plen. 29.01.2003, n. 1; Cons. St., sez. IV, 13.03.2014, n. 1243).
Va ancora premesso che
i principi generali in materia di procedure ad evidenza pubblica si rinvengono oggi nell'art. 30 del decreto legislativo n. 50/2016, applicabile anche alle concessioni di servizi sottosoglia, come quella oggetto della gara in controversia, il quale prevede, da un lato, che l'affidamento e l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni "garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza" (co. 1); dall’altro, che "le stazioni appaltanti non possono limitare in alcun modo artificiosamente la concorrenza allo scopo di favorire o svantaggiare indebitamente taluni operatori economici o, nelle procedure di aggiudicazione delle concessioni, compresa la stima del valore, taluni lavori, forniture o servizi” (co. 2).
Cosicché,
fermo restando il potere dell’amministrazione di prevedere requisiti di capacità anche particolarmente rigorosi o superiori a quelli previsti dalla legge, è invece esercitabile il sindacato giudiziale, attivato con l’impugnazione immediata del bando di gara, qualora tali requisiti siano manifestamente sproporzionati, discriminanti e abnormi, in relazione all’oggetto complessivo del contratto e delle sue peculiarità.
7. Alla luce di tali premesse, la doglianza concernente la presunta irragionevolezza del requisito del fatturato triennale, quale dimostrazione della potenziale capacità economico-finanziaria dell’operatore non è fondata.
Nel caso di specie, la valutazione di manifesta sproporzionalità deve tener conto di due fattori: il valore complessivo del servizio messo a gara, pari a 65.000 euro, e la circostanza che, trattandosi di una concessione di servizi e non di un appalto, tale valore è solo “stimato”, ovvero “calcolato ai sensi degli artt. 35 e 167 del D.lgs. 50/2016 (…) sulla base di una stima presunta (desunta dai dati storici) del numero annuo di interventi da effettuare, al netto degli interventi senza individuazione del veicolo responsabile, sulle strade di competenza dell’ente” (non essendo peraltro vincolante l’art. 167 D.Lgs. 50/2016, trattandosi di una concessione sotto soglia).
La previsione di un fatturato tre volte maggiore del valore stimato non risulta manifestamente irragionevole, considerato che il fulcro della concessione è il trasferimento in capo al concessionario del rischio operativo e che, sotto questo profilo, il fatturato globale ottenuto in un triennio di svolgimento di servizi analoghi a quelli messi a gara contribuisce a garantire l’affidabilità del contraente, ai fini del raggiungimento dell’equilibrio economico-finanziario nell’intero periodo di efficacia del servizio.
Non ha invece alcuna efficacia lesiva, in questa sede, la clausola del bando di gara che riferisce il fatturato al triennio 2014/2014/2015 e di cui si contesta l’erroneità: l’impresa non ha spiegato le ragioni per cui l’indicazione di un determinato arco temporale, piuttosto che di un altro, avrebbe l’effetto di impedire o rendere eccessivamente gravosa la partecipazione alla gara.

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nullità testuale della vendita per mancata effettuazione delle menzioni urbanistiche. Sanabilità: natura eccezionale delle stessa.
La nullità prevista dal legislatore in caso di omessa indicazione (o allegazione) nel contratto di compravendita di beni immobili dei titoli edilizi legittimanti il bene compravenduto è una nullità di tipo formale che può essere sanata solo nei modi tipici previsti dal legislatore medesimo, anche perché la sanatoria di un atto nullo è ipotesi del tutto eccezionale nel sistema delle nullità del codice civile e, pertanto, non è possibile alcuna interpretazione analogica o estensiva delle norme che la regolano.
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3.- Il terzo motivo di ricorso attiene alla violazione è falsa applicazione del combinato disposto dell'articolo 40, comma 3, della legge n. 47 del 1985 e dell'articolo 2, comma 57, della legge n. 662 del 1996, in relazione all'articolo 360, n. 3, cod. proc. civ., nonché all'art. 360, numeri 4 e 5, cod. proc. civ.
L'appellante al fine di provare la concessione in sanatoria dell'immobile compravenduto ai sensi dell'articolo 35, comma 12, della legge n. 47 del 1985 depositava in sede di appello copia conforme della domanda di concessione in sanatoria relativa all'immobile in oggetto con il bollettino di pagamento dell'oblazione in unica soluzione.
Pertanto, a mente del combinato disposto ex articolo 40, comma 3, della legge n. 47 del 85 e dell'articolo 2, comma 57, della legge n. 662 del 1996, non vi era alcuna ragione giuridica per non accogliere la domanda di produzione documentale del promissario acquirente.
Così facendo, pertanto, la Corte avrebbe omesso di esaminare completamente i fatti allegati, trattandosi tra l'altro di un fatto decisivo per il giudizio. Inoltre in relazione alla motivazione del rigetto dell'ammissione della prova non sarebbe intellegibile l'iter logico seguito con violazione del diritto di difesa. Anzi la motivazione sarebbe in contrasto con quanto affermato dalle Sezioni Unite con la citata sentenza n. 23825 del 2009.
Nel caso di specie, l'atto di compravendita, essendo successivo all'entrata in vigore della legge n. 662 del 1996 dovrebbe essere assoggettato a tale disciplina che introduce un'ipotesi di sanatoria ancora più un rilevante di quella della legge del 1985, sanando gli atti tra vivi la cui nullità non sia stata ancora dichiarata mediante la concessione in sanatoria. Secondo il ricorrente dunque la concessione in sanatoria produrrebbe l'effetto di validare ope legis l'atto dichiarato nullo, e dunque, la stessa poteva essere prodotta in sede di appello.
4.- I motivi, che per la loro evidente connessione possono essere trattati unitariamente, sono infondati.
La decisione della Corte d'Appello circa l'inammissibilità della produzione documentale della domanda in sanatoria è conforme alla giurisprudenza di questa Corte quanto al dispositivo, ma deve essere corretta nella motivazione.
La prova documentale prodotta in appello dal ricorrente è inammissibile, non perché si tratti di una prova nuova che non può essere ammessa nel giudizio di appello, ai sensi dell'art. 345 cod. proc. civ., quanto piuttosto perché tale produzione documentale è irrilevante.
4.1- Va premesso che il contratto intercorso tra Lucchese e Basile è stato qualificato, sin dal primo grado, come contratto definitivo di vendita del terreno e non come contratto preliminare. Su questo punto si è formato il giudicato, non essendo stata specificamente impugnata la relativa statuizione né come motivo di appello, né tantomeno come motivo di ricorso per cassazione.
Dunque, trattandosi di un contratto definitivo, traslativo del diritto, trova applicazione la giurisprudenza secondo la quale «
La nullità prevista dagli artt. 17 e 40 della legge n. 47 del 1985 (omessa dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell'immobile oggetto di compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria) riveste carattere formale (e non meramente virtuale) riconducibile, per l'effetto, nel sistema generale delle invalidità, all'ultimo comma dell'art. 1418 cod. civ., attesane la funzione di tutela dell'affidamento dell'acquirente, con la conseguenza che, ai fini della sua legittima predicabilità, è sufficiente che si riscontri la mancata indicazione nell'atto degli estremi della concessione, senza che occorra interrogarsi sulla reale esistenza di essa, e con la conseguenza, ancora, che la eventuale "conferma", pur prevista dalla citata legge 47 del 1985, deve risolversi in un nuovo e distinto atto, mediante il quale si provveda alla comunicazione dei dati mancanti o all'allegazione dei documenti, avente i medesimi requisiti formali del precedente, ed in forme che non ammettono equipollenti» (Sez. 2, Sentenza n. 8147 del 2000).
Nella motivazione della sentenza citata si afferma che
la legge n. 47 del 1985 eleva a requisito formale del contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni o allegazioni ed è la loro assenza che di per sé comporta la nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto. Ciò in coerenza con il duplice obiettivo perseguito dalla legge di soddisfare l'esigenza di tutela dell'affidamento dell'acquirente e l'esigenza di prevenzione degli abusi.
La sanzione della nullità formale tutela, infatti, l'affidamento dell'acquirente alla regolarità del bene oggetto del contratto, perché egli attraverso la dichiarazione del venditore è adeguatamente informato circa la sua situazione giuridica. La funzione informativa assolta dalla prescrizione di forma presenta inoltre il vantaggio di ridurre le indagini e i costi necessari per accertare la reale conformità del bene alle norme urbanistiche.
Ai fini della nullità è invero sufficiente che si riscontri la mancata indicazione nell'atto degli estremi della concessione, senza che occorra interrogarsi sulla reale esistenza di essa. La sanzione della nullità formale, inoltre, persegue contemporaneamente l'obiettivo di disincentivare l'abusivismo. L'indicazione degli estremi della concessione sarebbe infatti preclusa nel caso in cui tale concessione manchi: per tale via, l'irregolarità dell'immobile finisce per riflettersi sulla validità del negozio giuridico che lo riguarda.

Gli atti nulli per la mancata indicazione di quanto richiesto possono essere confermati anche da una sola delle parti con atto successivo, qualora la mancata indicazione non sia dipesa dall'insussistenza della concessione al momento in cui gli atti erano stati stipulati.
La conferma ex artt. 17 e 40 legge 28.02.1985, n. 47, ha, secondo alcuni autori, un vero e proprio effetto sanante nel senso di far riacquistare validità all'atto originariamente nullo: con questa conferma, si rimuove la causa di nullità del negozio originario. Si configura una situazione indubbiamente singolare e in contrasto col principio dell'insanabilità del negozio nullo.
Comunque si voglia vedere questa singolare conferma prevista nella legge n. 47 del 1985, e cioè come vera e propria sanatoria idonea a far riacquistare validità all'atto originariamente nullo, oppure, secondo quanto sostenuto da altri autori, come dichiarazione di scienza con funzione integrativa dell'atto originario, come ipotesi equiparata agli artt. 590 e 799 cod. civ., come tipico esempio di accertamento negoziale, come, infine, conferma di un atto solo apparentemente nullo, è, pero, ben certo che deve trattarsi di nuovo e distinto atto avente la stessa forma del precedente, mediante il quale si provveda alla comunicazione dei dati mancanti o all'allegazione dei documenti.
La legge prescrive, dunque, un atto di conferma o di convalida dell'atto nullo da redigere in forme che non ammettono equipollenti.
4.2- Il collegio ritiene di dare continuità al citato orientamento interpretativo ribadendo che
la nullità prevista dal legislatore in caso di omessa indicazione (o allegazione) nel contratto di compravendita di beni immobili dei titoli edilizi legittimanti il bene compravenduto è una nullità di tipo formale che può essere sanata solo nei modi tipici previsti dal legislatore medesimo, anche perché la sanatoria di un atto nullo è ipotesi del tutto eccezionale nel sistema delle nullità del codice civile e, pertanto, non è possibile alcuna interpretazione analogica o estensiva delle norme che la regolano.
In conclusione deve essere corretta la motivazione della Corte d'Appello perché l'inammissibilità della produzione documentale della domanda di concessione in sanatoria effettuata dal ricorrente nel giudizio di appello deriva dalla sua irrilevanza ai fini della declaratoria di nullità del contratto di compravendita e non dal suo carattere di novità, ai sensi dell'art. 345 cod. proc. civ.
La correzione della motivazione nei termini anzidetti, esclude la cassazione della sentenza, essendo il dispositivo conforme al diritto (art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ.) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 14.06.2017 n. 14804).

APPALTI SERVIZIFatturato e canone danno il valore della concessione. Stima a carico dell'amministrazione.
La stima di una concessione va fatta in relazione al fatturato generato dalla concessione e non solo in base al canone della concessione; tale determinazione spetta all'amministrazione.

Lo precisa il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 14.06.2017 n. 2926 relativa a un bando di gara che aveva stimato il valore della concessione soltanto in base al canone della concessione.
I giudici, innanzitutto, richiamano quanto l'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici aveva affermato nel 2002 precisando che il valore di una concessione non può essere computato con riferimento al cosiddetto «ristorno» e cioè al costo o canone della concessione, ma deve essere calcolato sulla base del fatturato generato dal consumo dei prodotti da parte degli utenti del servizio.
La sentenza censura che il bando abbia fatto riferimento al solo canone di concessione dal momento che anche le norme delle direttive europee (direttiva 2014/23) richiedono che la stima di una concessione comprende il «fatturato totale del concessionario generato per tutta la durata del contratto, al netto dell'Iva, stimato dall'amministrazione aggiudicatrice o dall'ente aggiudicatore, quale corrispettivo dei lavori e dei servizi».
Si tratta di principi trasfusi nell'art. 167 del codice dei contratti pubblici una norma che, se non è applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, risulta comunque idonea a orientare un'interpretazione delle norme previgenti conforme al diritto europeo, consentendo di escludere anche nell'assetto anteriore che il valore della concessione potesse essere riconnesso sic et simpliciter all'importo del canone concessorio (donde la superfluità della questione pregiudiziale che parte appellante ha chiesto fosse sollevata).
Infine la determinazione del soggetto gravato da tale onere (determinazione del fatturato) non può essere demandata al concorrente e quindi spetta all'amministrazione.
Quindi la stazione appaltante, in quanto soggetto «interno», lo farà attingendo «a informazioni diverse e ulteriori che certamente rientrano nella sua sfera di controllo, cosi da agevolmente desumere il dato da indicare quale valore della concessione, non potendo questo ridursi al solo fatturato del precedente gestore» (articolo ItaliaOggi del 23.06.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAInquinamento, responsabilità senza dubbi.
Il responsabile dell'inquinamento deve essere puntualmente e precisamente individuato da parte dell'autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento, anche in caso di vicende societarie complesse.

Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con sentenza 13.06.2017 n. 1326.
La questione concerne l'area conosciuta come «ex polveriera Montedison», oggetto di attività produttive cessate da poco meno di un cinquantennio. Con nota del 04.07.2015 il Comune di Taino aveva comunicato alla società Edison spa «in quanto responsabile e consapevole dell'inquinamento», l'avvio del procedimento per la bonifica dei terreni contaminati ordinando di presentare un progetto operativo di bonifica. Tale comunicazione veniva impugnata dal momento che la società si dichiarava esonerata da qualsiasi responsabilità.
Il Tar accoglie il ricorso. Il Comune, infatti, si era rivolto ad Edison spa, sulla base di una visura camerale relativa a Montedison srl da cui risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d'azienda, le fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti numerose società, senza procedere ad un rigoroso e dettagliato accertamento.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari del più articolato «Gruppo Montedison» l'individuazione di Edison spa quale successore «a titolo universale», appare affermazione indimostrata priva di alcuna evidenza documentale. Il Comune si era limitato a una sommaria descrizione delle presunte successioni societarie di un gruppo che nel corso di oltre un cinquantennio risulta essere stato oggetto di modificazioni complesse e articolate.
Inoltre, la Direttiva 2004/35/Ce all'art. 2 definisce come «operatore», cui si connette la responsabilità per danno ambientale «qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale».
I giudici rilevano che, pur volendo far riferimento ad una nozione ampia di operatore economico, nel caso di specie «sono del tutto assenti un'analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla società ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto “responsabile” della condotta inquinante», tenuto conto della complessa articolazione del Gruppo (articolo ItaliaOggi Sette del 10.07.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIAChi ha inquinato va puntualmente individuato
Il responsabile dell'inquinamento deve essere puntualmente e precisamente individuato da parte dell' autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento, anche in caso di vicende societarie complesse.

Lo ha sancito il TAR Lombardia-Milano, Sez. III, con la sentenza 13.06.2017 n. 1326.
La questione oggetto del presente giudizio concerne l'area conosciuta come «ex polveriera Montedison», oggetto di attività produttive cessate da poco meno di un cinquantennio. Con nota del 04.07. 2015 il comune di Taino aveva comunicato alla società Edison spa «in quanto responsabile e consapevole dell'inquinamento», l'avvio del procedimento per la bonifica dei terreni contaminati ordinando di presentare un progetto operativo di bonifica. Tale comunicazione veniva impugnata dal momento che la società si dichiarava esonerata da qualsiasi responsabilità.
Il Tar accoglie il ricorso.
Il Comune, infatti, si era rivolto a Edison spa, sulla base di una visura camerale relativa a Montedison srl da cui risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d'azienda, le fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti numerose società, senza procedere ad un rigoroso e dettagliato accertamento.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari del più articolato «Gruppo Montedison» l'individuazione di Edison spa quale successore «a titolo universale», appare affermazione indimostrata priva di alcuna evidenza documentale. Il Comune si era limitato a una sommaria descrizione delle presunte successioni societarie di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni complesse e articolate, composto da molteplici società svolgenti attività tra loro differenti.
Inoltre, la Direttiva 2004/35/Ce all'art. 2 definisce come «operatore», cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18° Considerando), «qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale».
I giudici rilevano che, pur volendo far riferimento a una nozione ampia di operatore economico, nel caso di specie sono del tutto assenti un'analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla società ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto «responsabile» della condotta inquinante, tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison (articolo ItaliaOggi Sette del 26.06.2017).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti, l'anzianità non basta. Oltre ai 5 anni di esperienza serve la specializzazione. Il tribunale di Pavia fissa i paletti per il conferimento di incarichi a contratto.
Non basta la sola esperienza lavorativa di cinque anni in posizioni utili per l'accesso alla dirigenza per assegnare incarichi dirigenziali «a contratto».

La sentenza 09.06.2017 n. 169 del TRIBUNALE di Pavia, nelle vesti di giudice del lavoro, annullando un incarico dirigenziale a contratto per carenza di requisiti del destinatario, fornisce una visione molto chiara e innovativa in giurisprudenza delle regole derivanti dagli articoli 110, comma 1, del dlgs 267/2000 e 19, comma 6, del dlgs 165/2001.
Il giudice del lavoro ha riconosciuto la propria giurisdizione sulla procedura di assegnazione di un incarico a contratto, sulla base della giurisprudenza della Cassazione per la quale procedure non caratterizzate dalla presenza di una commissione che con poteri decisori e vincolanti stili una graduatoria fuoriescono dalla giurisdizione amministrativa e vanno verso quella ordinaria: nel caso di specie, la selezione per l'incarico a contratto era connotata da assenza di graduatoria e discrezionalità della scelta finale.
Tuttavia, i canoni interpretativi ai quali si è attenuto il giudice ordinario non risultano molto diversi da quelli ai quali farebbe riferimento il Tar. Per quanto la giurisdizione del giudice del lavoro sia attenta ai rapporti civilistici e, quindi, al rispetto dei principi di «buona fede e correttezza», in ripetuti passaggi la sentenza richiama puntualmente le norme di legge e anche il principio di «buona amministrazione», come elementi fondamentali della legittimità dell'azione pubblica.
La sentenza considera necessario che le amministrazioni locali subordinino gli incarichi a contratto alle tre tipologie di professionalità che i dirigenti «esterni» debbono possedere, ai sensi dell'articolo 19, comma 6, del dlgs 165/2001: «a) esperienza maturata per almeno cinque anni in posizioni dirigenziali, b) particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio nelle pubbliche amministrazioni, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza; c) provenienza da settori della ricerca universitaria e scientifica e della docenza universitaria».
Nel caso di specie, il candidato il cui incarico è stato annullato dal giudice non possedeva né la prima né la terza tipologia di competenze, ma solo la seconda.
La sentenza evidenzia che la norma contiene la «e» che abbina inscindibilmente la particolare specializzazione professionale all'esperienza di lavoro almeno quinquennale. Dunque, ai fini del legittimo conferimento degli incarichi a contratto, non è sufficiente la mera anzianità di 5 anni in posizioni che potenzialmente consentano di accedere alla dirigenza mediante concorsi: infatti, in questo caso, la specializzazione professionale non sarebbe «particolare», ma ordinaria, posseduta da chiunque abbia un'anzianità di servizio di cinque anni.
Il giudice, però, non ha annullato l'incarico per questo motivo: infatti, la difesa del ricorrente non ha opposto (come avrebbe potuto) l'illegittimità del regolamento comunale che in contrasto con la legge considera l'anzianità di 5 anni come alternativa alla particolare esperienza professionale.
L'assunzione a contratto è stata annullata per altre due ragioni. In primo luogo, il comune mediante il bando si era vincolato a sentire a colloqui i 22 candidati che avevano presentato domanda. Invece, il sindaco ha ritenuto di non tenere alcuno colloquio con i candidati interni (perché già conosciuti) e solo alcuni con i candidati esterni; il ricorrente, quindi, non ha avuto modo di essere sentito in fase selettiva. In secondo luogo, il soggetto prescelto non dispone dei requisiti di particolare specializzazione professionale: infatti, ha una specializzazione professionale esclusivamente in materia urbanistica e non di lavori pubblici, oggetto dell'incarico; inoltre, al momento della selezione il servizio prestato in posizione per l'accesso alla dirigenza era perfino inferiore ai 5 anni.
Il Tribunale, quindi, conclude che l'incaricato non possiede nemmeno i titoli per accedere alla selezione, non solo per ricevere l'incarico e per questa ragione lo annulla. Gli effetti, dunque, delle decisioni del giudice del lavoro finiscono per essere identici a quelle del Tar (articolo ItaliaOggi del 16.06.2017).

APPALTI: Turbativa d'asta, ampliata la sanzionabilità. Sentenza della suprema corte.
Importante e recentissima precisazione della Cassazione che amplia i comportamenti sanzionabili tramite l'ipotesi delittuosa della turbativa d'asta.
Secondo la Suprema corte si ha che tutte le condotte tipiche che si inseriscono nell'ambito della procedura di incanto, anche se intervenute successivamente alla chiusura dell'asta integrano il reato di turbata libertà degli incanti (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 08.06.2017 n. 28388).
In altri termini la Corte ritiene che il legislatore abbia voluto sanzionare tutti gli eventuali interventi turbativi che si inseriscono nell'intera procedura di assegnazione e non soltanto quelli relativi al momento dell'asta. La volontà del legislatore di rendere perseguibili tutte le condotte illecite che si inseriscono nella procedura di incanto emerge chiaramente dalla scelta di usare il termine «gara» e non piuttosto quello di «asta».
La sentenza stabilisce che «trattandosi di una fattispecie a formazione progressiva che si sviluppa attraverso la creazione di un vincolo di indisponibilità, e procede, mediante l'indizione della gara, con l'aggiudicazione provvisoria del bene a seguito della formulazione delle offerte e la successiva vendita, che sostanzia e perfeziona la vicenda traslativa, è proprio alla vendita definitiva che deve aversi riguardo per determinare il confine giuridico della “gara” tipizzata dalla norma».
Tale tesi trova riscontro nella circostanza che le opposizioni all'aggiudicazione di un bene oggetto di una procedura esecutiva immobiliare possono essere fatte valere sino alla vendita del medesimo bene.
La sentenza, in relazione all'ambito applicativo della disposizione che prevede il reato di turbata libertà degli incanti, ha ritenuto che la sua circoscrizione «al solo momento dell'asta significherebbe vanificare le finalità di tutela perseguite dal legislatore, che non possono ricondursi esclusivamente alla protezione del momento in cui vengono effettuate le offerte, ma pervadono l'intera procedura di vendita e assegnazione, ove è prevalente l'interesse di carattere pubblicistico volto alla soddisfazione dei crediti nell'ottica del rispetto della par condicio creditorum, alla tutela della certezza del diritto e ad assicurare l'utilità sociale» (articolo ItaliaOggi Sette del 03.07.2017).
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MASSIMA
5.2. Infondato è il secondo motivo di ricorso con cui si contesta la configurabilità del reato di cui all'art. 353 cod. pen. essendo le condotte contestate intervenute successivamente alla chiusura dell'asta e dovendosi, pertanto, ritenere le stesse un post factum non punibile.
Al riguardo,
correttamente la Corte territoriale ha osservato come l'utilizzo del termine "gara" in luogo di "asta" nella disposizione di cui all'art. 353 cod. pen. sia chiaramente indicativo dell'intenzione del legislatore di sanzionare non solo le turbative materiali allo svolgimento delle procedure di incanto, ma tutte le condotte tipiche che si inseriscono nell'ambito della procedura, falsandone l'esito.
Trattandosi, invero, di una fattispecie a formazione progressiva che si sviluppa attraverso la creazione di un vincolo di indisponibilità, e procede, mediante l'indizione della gara, con l'aggiudicazione provvisoria del bene a seguito della formulazione delle offerte (e il successivo ed eventuale incanto) e la successiva vendita, che sostanzia e perfeziona la vicenda traslativa, è proprio alla vendita definitiva che deve aversi riguardo per determinare il confine giuridico della "gara" tipizzata dalla norma.

Ciò, del resto, è confermato dalle stesse disposizioni del codice di procedura civile, che riconducono sotto un unico alveo le disposizioni relative all'incanto, all'aggiudicazione provvisoria, nonché alla successiva assegnazione definitiva (condizionata a diversi adempimenti), separandone, invece, solo la fase relativa alle operazioni di vendita.
Ulteriore conferma deriva anche dal fatto che le eventuali opposizioni all'aggiudicazione di un bene oggetto di una procedura esecutiva immobiliare possono essere fatte valere, salvo la prova della collusione del debitore con l'aggiudicatario, sino al perfezionamento della vicenda traslativa, vale a dire sino alla vendita del bene, momento giuridico-temporale successivo all'aggiudicazione provvisoria che si conclama nell'emissione da parte del giudice dell'esecuzione del decreto di trasferimento dell'immobile dal debitore esecutato all'aggiudicatario definitivo.
Del resto,
ridurre l'ambito applicativo della disposizione in esame al solo momento dell'asta significherebbe vanificare le finalità di tutela perseguite dal legislatore, che non possono ricondursi esclusivamente alla protezione del momento in cui vengono effettuate le offerte, ma pervadono l'intera procedura di vendita e assegnazione, ove è prevalente l'interesse di carattere pubblicistico volto alla soddisfazione dei crediti nell'ottica del rispetto della par condicio creditorum (al fine di realizzare compiutamente ed autoritativamente la responsabilità patrimoniale del debitore di cui all'art. 2740 cod. civ.), alla tutela della certezza del diritto e ad assicurare l'utilità sociale.

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Procedimento amministrativo, l’affidamento del privato è tutelabile solo se ragionevole.
A fronte dell’attività di pianificazione urbanistica, non si può sostenere in linea generale che il privato vanti un interesse pretensivo in senso stretto ad una più favorevole qualificazione di aree di sua proprietà.
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Ritiene il collegio, in astratto, che sia configurabile nei rapporti tra amministrazione e cittadino un affidamento tutelabile nell’ambito del procedimento amministrativo, quale che sia il non semplice inquadramento dogmatico della posizione giuridica soggettiva lesa.
L’affidamento è ascrivibile alle categorie generali del diritto e non costituisce autonoma posizione giuridica soggettiva; esso tuttavia pacificamente può qualificare la posizione del privato nel rapporto procedimentale, nel caso di specie, nella fase tra l’adozione della variante favorevole ed il suo annullamento.
In sostanza è teoricamente possibile che, ferma la acclarata non spettanza di alcun bene della vita, la condotta dell’amministrazione nella fase strettamente procedimentale di esercizio del potere abbia ingenerato un legittimo affidamento tutelabile in capo al privato, di cui si reclama in questa sede tutela.
D’altro canto si legge in Cass. SU 8057/2016 che: “l'azione amministrativa illegittima -composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi- non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare. E' l'agire provvedimentale nel suo complesso che è messo in discussione, mentre l'affidamento –nella legittimità di tali atti- non è altro che un profilo riflesso senza alcuna incidenza ai fini dell'affermazione della giurisdizione”.
In definitiva, quindi, l’affidamento ingenerato dall’azione amministrativa è un riflesso tutelabile di detta azione, non idoneo ad incidere sul riparto di giurisdizione là dove l’attività contestata, come nel caso di specie, costituisca indubbiamente un esercizio di potere.
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La domanda di parte ricorrente viene vagliata al fine di verificare se l’agire procedimentale dell’amministrazione abbia effettivamente ingenerato un legittimo affidamento in capo alla ricorrente.
Il principio dell’affidamento, di derivazione germanica, si qualifica nell’ordinamento comunitario come principio comune alle tradizioni degli stati membri; in ambito privatistico è stato codificato all’art. 1.8. dei principi UNIDROIT che afferma il principio del “nemo venire contra facutm proprium” e considera tutelabile l’affidamento “ragionevole”.
Esso trova anche spazio nel diritto pubblico ed è principio oggi accettato quello secondo cui il procedimento amministrativo possa anche essere valutato alla luce dell’affidamento che ingenera o consolida nei destinatari dell’azione amministrativa.
Tuttavia, mentre risulta più semplice configurare un affidamento là dove l’amministrazione eventualmente muti le proprie scelte per ragioni di opportunità o superiore interesse pubblico -magari tenendo condotte astrattamente incoerenti, pur nell’ambito di più possibili scelte legittime– e così “travolgendo” eventuali posizioni consolidate dei privati, più complesso è configurare un affidamento tutelabile a fronte di attività amministrativa illegittima.
La casistica annovera l’apparenza legittima o la presenza di ulteriori condotte dell’amministrazione che, al di là dell’attività illegittima, abbiano ingenerato nel privato un legittimo affidamento; ancora la stessa legge n. 241/1990 individua il decorso di un significativo lasso di tempo quale presupposto per ingenerare un “ragionevole” affidamento.
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... per l'accertamento del diritto della società ricorrente ad essere risarcita per i danni in ragione del comportamento gravemente colposo dell' Amministrazione comunale intimata, consistito nel conferimento di una nuova disciplina urbanistica ad area di proprietà per mezzo di una procedura amministrativa annullata dalla Regione Piemonte in quanto illegittima e confermata tale dal Giudice amministrativo;
e per la condanna dell'Amministrazione resistente a risarcire il danno subito con interessi e rivalutazione monetaria sino alla data di effettivo pagamento.
...
Ritiene il collegio necessaria una breve premessa per individuare la posizione giuridica soggettiva lesa di cui parte ricorrente chiede tutela risarcitoria.
L’amministrazione ha adottato una variante favorevole a parte ricorrente annullata dalla Regione in autotutela; l’annullamento, impugnato sia dal Comune che dalla società, è stato confermato in sede giurisdizionale. Parte ricorrente pertanto non può vantare un interesse oppositivo rispetto al provvedimento di autotutela, in quanto trattasi di provvedimento legittimo.
La società non pare al collegio neppure vantare un interesse pretensivo. Ciò in quanto, da un lato, la pianificazione urbanistica è attività altamente discrezionale, rispetto alla quale i privati possono al più vantare aspettative di mero fatto ad una più favorevole qualificazione delle aree di proprietà (è infatti indubbio che, nonostante la non linearissima esposizione di cui al ricorso, l’area di via Cartman -di interesse di parte ricorrente- non era né edificabile né suscettibile di “atterraggio” di diritti edificatori maturati altrove sino alla adozione della variante poi annullata), dall’altro la variante è anche risultata illegittima.
Non è condivisibile l’impostazione di parte ricorrente là dove ascrive la illegittimità della variante -per la quale è stata impropriamente seguita la procedura della variante parziale anziché quella della variante strutturale-  ad un vizio di mera forma o procedura, quasi sussistesse comunque un interesse pretensivo fondato nel merito.
L’alternativa tra variante parziale e variante strutturale infatti non è ascrivile a questione di mera forma o procedura, visto che diversi sono i poteri decisori spettanti ai più attori pubblici coinvolti in un atto complesso nelle due tipologie di varianti e che la variante parziale illegittimamente ha emarginato la Regione la quale –legittimamente– è intervenuta in autotutela.
A ciò si aggiunga, come già evidenziato, che, a fronte dell’attività di pianificazione urbanistica, non si può sostenere in linea generale che il privato vanti un interesse pretensivo in senso stretto ad una più favorevole qualificazione di aree di sua proprietà.
In definitiva non sembra che la posizione giuridica soggettiva spesa dalla ricorrente possa ascriversi all’(insussistente) interesse pretensivo ad una variante strutturale a sé favorevole.
La posizione giuridica soggettiva, come detto, neppure è facilmente qualificabile interesse oppositivo; vero è, infatti, che con l’adozione della variante la parte ha consolidato una posizione di vantaggio, sennonché il legittimo annullamento del provvedimento favorevole non può che far concludere che quella posizione di vantaggio non era legittima, e quindi non sarebbe tutelabile in sé.
Parte ricorrente pare piuttosto dolersi di una sorta di violazione del proprio affidamento ingenerato in sede procedimentale.
Ritiene il collegio, in astratto, che sia configurabile nei rapporti tra amministrazione e cittadino un affidamento tutelabile nell’ambito del procedimento amministrativo, quale che sia il non semplice inquadramento dogmatico della posizione giuridica soggettiva lesa.
L’affidamento è ascrivibile alle categorie generali del diritto e non costituisce autonoma posizione giuridica soggettiva; esso tuttavia pacificamente può qualificare la posizione del privato nel rapporto procedimentale, nel caso di specie, nella fase tra l’adozione della variante favorevole ed il suo annullamento.
In sostanza è teoricamente possibile che, ferma la acclarata non spettanza di alcun bene della vita, la condotta dell’amministrazione nella fase strettamente procedimentale di esercizio del potere abbia ingenerato un legittimo affidamento tutelabile in capo al privato, di cui si reclama in questa sede tutela. D’altro canto si legge in Cass. SU 8057/2016 che: “l'azione amministrativa illegittima -composta da una sequela di atti intrinsecamente connessi- non può essere scissa in differenti posizioni da tutelare. E' l'agire provvedimentale nel suo complesso che è messo in discussione, mentre l'affidamento –nella legittimità di tali atti- non è altro che un profilo riflesso senza alcuna incidenza ai fini dell'affermazione della giurisdizione”.
In definitiva, quindi, l’affidamento ingenerato dall’azione amministrativa è un riflesso tutelabile di detta azione, non idoneo ad incidere sul riparto di giurisdizione là dove l’attività contestata, come nel caso di specie, costituisca indubbiamente un esercizio di potere.
La domanda di parte ricorrente viene dunque vagliata al fine di verificare se l’agire procedimentale dell’amministrazione abbia effettivamente ingenerato un legittimo affidamento in capo alla ricorrente.
Il principio dell’affidamento, di derivazione germanica, si qualifica nell’ordinamento comunitario come principio comune alle tradizioni degli stati membri; in ambito privatistico è stato codificato all’art. 1.8. dei principi UNIDROIT che afferma il principio del “nemo venire contra facutm proprium” e considera tutelabile l’affidamento “ragionevole”.
Esso trova anche spazio nel diritto pubblico ed è principio oggi accettato quello secondo cui il procedimento amministrativo possa anche essere valutato alla luce dell’affidamento che ingenera o consolida nei destinatari dell’azione amministrativa.
Tuttavia, mentre risulta più semplice configurare un affidamento là dove l’amministrazione eventualmente muti le proprie scelte per ragioni di opportunità o superiore interesse pubblico -magari tenendo condotte astrattamente incoerenti, pur nell’ambito di più possibili scelte legittime– e così “travolgendo” eventuali posizioni consolidate dei privati, più complesso è configurare un affidamento tutelabile a fronte di attività amministrativa illegittima.
La casistica annovera l’apparenza legittima o la presenza di ulteriori condotte dell’amministrazione che, al di là dell’attività illegittima, abbiano ingenerato nel privato un legittimo affidamento; ancora la stessa legge n. 241/1990 individua il decorso di un significativo lasso di tempo quale presupposto per ingenerare un “ragionevole” affidamento.
Nel caso di specie non può non rilevarsi che l’attività amministrativa da cui la ricorrente aveva tratto vantaggio era, pacificamente, illegittima. La variante, approvata a dicembre 2008, già ad aprile 2009 veniva annullata in autotutela sicché certamente manca qualsivoglia presupposto di lungo decorso del tempo che, al limite, potrebbe giustificare il maturare di un affidamento.
E’ pur vero che il provvedimento in autotutela è stato oggetto di impugnativa ma l’amministrazione ha legittimamente scelto di difendere il proprio operato, sicché la pendenza di un contenzioso non qualifica certo in termini di acquiescenza l’atteggiamento dell’amministrazione che difende il proprio atto.
In sostanza nella vicenda mancano i presupposti di fatto perché potesse configurarsi un legittimo e ragionevole affidamento tutelabile.
D’altro canto, come correttamente osservato dall’amministrazione, la ricorrente ha acquisito terreni collinari ben prima della variante, sicché la scelta non può certo essere stata condizionata da un atto rispetto al quale, al più, poteva vantare una aspettativa di fatto; inoltre la società non ha perso i diritti edificatori che le derivano dalla disciplina di piano regolatore delle aree collinari. Per contro non vi può essere alcuna legittima pretesa (o affidamento) della società a che detti diritti edificatori possano atterrare in aree già di sua proprietà o in specifiche aree non in tal senso deputate dal piano regolatore.
La modifica di piano ha avuto brevissima durata ed è stata posta in discussione da una delle autorità preposte al potere pianificatorio sicché, nella complessiva azione amministrativa, non vi erano certo i presupposti per un tutelabile “ragionevole” affidamento o, peggio, per una apparente legittimità dell’azione amministrativa.
La ricorrente, nella memoria depositata per l’udienza di merito, ricostruisce l’intera vicenda a partire dalla propria originaria scelta di acquisire aree “collinari” per “guadagnare” capacità edificatoria da far “atterrare” altrove: la ricostruzione non pare al collegio poter essere presa in considerazione. La domanda risarcitoria si focalizza in ricorso sul danno presuntivamente derivante dall’annullamento della variante, quindi su un singolo episodio della pianificazione urbanistica; la restante e pregressa vicenda è frutto di scelte libere della ricorrente che, liberamente, ha percorso soluzioni dall’esito non garantito così assumendosi il rischio di non riuscire a portare a termine una vantaggiosissima speculazione edilizia, ove la pianificazione fosse evoluta nella direzione auspicata.
La domanda risarcitoria non può quindi trovare accoglimento (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 08.06.2017 n. 713 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPermessi 104, maturano le ferie.
Beneficiare dei permessi ex art. 33, legge 104/1992 per l’assistenza al parente portatore di handicap, non incide sull’ammontare delle ferie regolarmente spettanti.

A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con ordinanza 07.06.2017 n. 14187.
La Corte d’appello riformava la sentenza del Tribunale e dichiarava illegittima la decurtazione di due giorni di ferie annuali in conseguenza del godimento dei permessi concessi ex art. 33 della legge n. 104 del 1992 e per l’effetto condannava la società datrice ad accreditare all’appellante quattro giorni di ferie relative agli anni 2004 e 2005. Avverso tale pronuncia ricorreva la società.
Ciò di cui si discute –ha esordito il Collegio- è la limitazione della computabilità, ai fini delle ferie, dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104.
La stessa Corte, nel decidere una analoga controversia relativa alla computabilità di detti permessi ai fini della tredicesima mensilità, riteneva che la limitazione della computabilità dei permessi di cui all’art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, opera soltanto nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario - che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un’indennità inferiore alla retribuzione normale (diversamente dall’indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992 commisurata all’intera retribuzione), risultando detta interpretazione idonea ad evitare che l’incidenza sulla retribuzione possa essere di aggravio della situazione dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l’utilizzazione del permesso.
Nel caso in specie, il giudice di appello con argomentazioni conformi a quanto affermato dalla Suprema corte ha ritenuto che nel caso specifico i permessi, accordati per l’assistenza al genitore portatore di handicap, concorressero nella determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato.
Infatti, il diritto alle ferie assicurato dall’art. 36, u.c. garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta, e che tale ristoro si rende nei fatti necessario anche a fronte dell’assistenza a un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di risorse fisiche e psichiche. Inoltre, determinante è la considerazione che i permessi per l’assistenza ai portatori di handicap poggiano sulla tutela dei disabili predisposta dalla normativa interna -e in primis dagli artt. 2, 3, 38 Cost.- e internazionale quali sono la Direttiva 2000/78/Ce del Consiglio del 27.11.2000 e la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 03.03.2009, n. 18.
Significativamente, la Convenzione Onu prevede il sostegno e la protezione da parte della società e degli Stati non solo per i disabili, ma anche per le loro famiglie, ritenute strumento indispensabile per contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità. Ragioni di coerenza con la funzione dei permessi e con i principi indicati impongono quindi l’interpretazione della disposizione maggiormente idonea ad evitare che l’incidenza sull’ammontare della retribuzione possa fungere da aggravio della situazione economica dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l’utilizzazione del permesso stesso. In forza delle suesposte considerazioni, il ricorso è stato rigettato (articolo ItaliaOggi del 29.09.2017).
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MASSIMA
   - Che ciò di cui si discute è la limitazione della computabilità, ai fini delle ferie, dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104.
   - Che questa Corte nel decidere una analoga controversia relativa alla computabilità di detti permessi ai fini della tredicesima mensilità, rispetto alla quale analogamente che per le ferie e con rinvio all'art. 7 della legge 1204 del 1971 poi trasfusa nel d.lgs. n. 151 del 2001, ha ritenuto che "
la limitazione della computabilità (....) dei permessi di cui all'art. 33, comma 3, della legge 05.02.1992, n. 104, in forza del richiamo operato dal successivo comma 4 all'ultimo comma dell'art. 7 della legge 30.12.1971, n. 1204 (abrogato dal d.lgs. 26.03.2001, n. 151, che ne ha tuttavia recepito il contenuto negli artt. 34 e 51), opera soltanto nei casi in cui essi debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario -che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa- e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un'indennità inferiore alla retribuzione normale (diversamente dall'indennità per i permessi ex lege n. 104 del 1992 commisurata all'intera retribuzione), risultando detta interpretazione idonea ad evitare che l'incidenza sulla retribuzione possa essere di aggravio della situazione dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso" (cfr. Cass. 07/07/2014 n. 15345).
   - Che il giudice di appello con argomentazioni conformi a quanto affermato da questa Corte nella richiamata sentenza ha ritenuto che nel caso specifico i permessi, accordati per l'assistenza al genitore portatore di handicap, concorressero nella determinazione dei giorni di ferie maturati dal lavoratore che ne ha beneficiato.
   - Che infatti,
il diritto alle ferie assicurato dall'art. 36, u.c. garantisce il ristoro delle energie a fronte della prestazione lavorativa svolta, e che tale ristoro si rende nei fatti necessario anche a fronte dell'assistenza ad un invalido, che comporta un aggravio in termini di dispendio di risorse fisiche e psichiche.
   - Che inoltre sotto il profilo sistematico, determinante è la considerazione che
i permessi per l'assistenza ai portatori di handicap poggiano sulla tutela dei disabili predisposta dalla normativa interna -ed in primis dagli artt. 2, 3, 38 Cost.- ed internazionale -quali sono la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27.11.2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 03.03.2009, n. 18. Significativamente, la Convenzione ONU prevede il sostegno e la protezione da parte della società e degli Stati non solo per i disabili, ma anche per le loro famiglie, ritenute strumento indispensabile per contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità (v. in particolare il punto x del preambolo e l'art. 19, punto b, art. 23, comma 3, art. 28, comma 1 e comma 2, lett. c).
   - Che
ragioni di coerenza con la funzione dei permessi e con i principi indicati impongono quindi l'interpretazione della disposizione maggiormente idonea ad evitare che l'incidenza sull'ammontare della retribuzione possa fungere da aggravio della situazione economica dei congiunti del portatore di handicap e disincentivare l'utilizzazione del permesso stesso (soluzione che trova conforto nel parere n. 3389 del 09/11/2005 del Consiglio di Stato, richiamato dalla Corte d'appello).

TRIBUTIAree pertinenziali, è dirimente l'accatastamento col fabbricato.
Un terreno edificabile iscritto in catasto unitamente a un fabbricato industriale veniva sottoposto ad accertamento da parte del Comune per la porzione non occupata dal fabbricato. Ribatteva, con ricorso per Cassazione, la proprietà, sostenendo l'unitarietà dei due beni conclamata dall'accatastamento nell'unico mappale.

La Corte di Cassazione, Sez. V civile, con l'ordinanza 07.06.2017 n. 14117, accoglie il ricorso del contribuente. Andiamo ad esaminare in dettaglio i termini della questione, particolarmente spinosa ai fini dell'imposizione.
I Giudici rilevano che la definizione di fabbricato discende dall'art. 2 del Dlgs. n. 504/1992 ed è tale l'unità immobiliare iscritta o iscrivibile al catasto edilizio urbano; ciò fa sorgere, in capo al soggetto passivo, l'obbligo di corrispondere l'Ici afferente. Il successivo art. 5 stabilisce che la base imponibile dei fabbricati è data dalla rendita risultante in catasto, vigente al 1° gennaio dell'anno d'imposta, moltiplicata per i rispettivi coefficienti.
Esiste, perciò, una stretta e imprescindibile relazione, ai fini della determinazione della base imponibile, tra l'iscrizione o iscrivibilità catastale dell'unità immobiliare (così come definita dalle norme catastali) e la sua rendita. Da tale correlazione discende che il dato catastale (unità immobiliare e rendita) costituisce un fatto oggettivo, non contestabile da nessuna delle parti (Comune e contribuente), del rapporto obbligatorio concernente l'imposta.
Contribuente e Comune possono contestare l'atto di accatastamento o di attribuzione della rendita e, in particolare, il Comune, con la richiesta di modifica del classamento, motiverà le ragioni per le quali ad un terreno, raffigurato in un unico mappale, facente parte di un unico complesso comprendente anche il fabbricato, debba essere attribuito un diverso valore sulla base dell'astratta edificabilità.
Secondo la Corte il Comune, con una autonoma iniziativa, si è discostato dalle risultanze catastali, che conferivano al complesso immobiliare una condizione di unitarietà, dando erroneamente rilevanza al carattere di edificabilità dell'area rispetto a quello della sua accessorietà, aspetto che la stessa Corte ha più volte cassato.
Pertanto, laddove vi sia l'unicità catastale di un complesso immobiliare comprendente il fabbricato e il terreno, occorre sempre dare risalto alla definizione di fabbricato ai sensi del citato art. 2 in quanto in essa si fissa il rapporto di accessorietà tra i due cespiti, e, quindi, il Comune non può ascrivere autonomamente al terreno un diverso valore in forza della sua edificabilità.
La Corte suggerisce, però, al Comune la strada per rendere tale attività conforme alla normativa: la contestazione del classamento unitario.
Se, effettivamente, sussistono ragioni fondate in base alle quali si possa ritenere non corretta l'unitarietà catastale tra fabbricato e terreno, mancando la richiesta funzionalità diretta e accessorietà, allora l'Ente potrà, utilizzando le procedure previste dall'art. 1, commi 336-337, L. n. 311/2004, richiedere lo stralcio dell'area dal fabbricato con la costituzione di un autonomo cespite tassabile, attraverso tale operazione, si avrebbe una rideterminazione dell'ammontare della rendita del fabbricato originario non più comprensiva del terreno frazionato. Spetterà, pertanto, all'Ente vagliare l'effettiva sussistenza dei presupposti per intraprendere tale percorso (articolo ItaliaOggi del 07.07.2017).

ENTI LOCALI - VARIMulte stradali, spazio ai ricorsi. Associazione di consumatori può agire contro i comuni. Una sentenza del Tribunale amministrativo della Lombardia coinvolge Altroconsumo.
L'associazione Altroconsumo può agire legittimamente anche contro l'inefficienza dei Comuni, ai sensi dell'art. 1, dlgs 198/2009, in materia di notifiche dei verbali del Codice della strada.

Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, sez. III, con la sentenza 07.06.2017 n. 1267.
Altroconsumo aveva proposto ricorso nei confronti del Comune di Milano lamentando l'inefficienza dell'ente, ai sensi dell'art. 1, dlgs 198/2009, in materia di notifiche dei verbali del Codice della strada.
Aveva rilevato, infatti, una prassi del Comune di notificare tali verbali oltre i termini di legge e questo coincideva con l'avvio delle rilevazioni di sette nuovi autovelox comunali. L'associazione aveva, quindi, chiesto al Tar di adottare i provvedimenti necessari per ripristinare la legalità del servizio di rilevazione e notifica dei verbali di infrazione.
A fronte del ricorso il comune aveva eccepito, a sua volta, la mancanza di connessione diretta dell'associazione ricorrente con gli interessi di consumatori che l'amministrazione, con i nuovi presidi sulla sicurezza stradale, intendeva invece tutelare. Il Tar ritiene l'eccezione infondata.
Per quanto riguarda la qualificazione dei trasgressori del Codice della strada quali utenti di una delle attività soggette all'azione di efficientamento collettivo, occorre rilevare che dalla lettura dell'art. 1, dlgs 198/2009 si evince che, nell'ambito delle svolgimento della funzione pubblica soggetta ad azione correttiva rientra, nell'interpretazione comune, anche la funzione sanzionatoria.
Deve quindi ritenersi che anche gli utenti dell'attività sanzionatoria possano essere tutelati con questa azione da comportamenti delle pubbliche amministrazioni che, per la loro ripetitività, incidono in modo collettivo sulle loro posizioni giuridiche, sebbene questi abbiano di regola carattere individuale.
Per quanto riguarda, poi, la legittimazione dell'Associazione Altroconsumo occorre rammentare che, secondo l'art. 1, dlgs 198/2009, comma 4 «Ricorrendo i presupposti di cui al comma 1, il ricorso può essere proposto anche da associazioni o comitati a tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti alla pluralità di utenti e consumatori di cui al comma 1» (articolo ItaliaOggi Sette del 10.07.2017).

TRIBUTIAccesso pure senza preavviso. Tassa rifiuti.
Non è illegittimo l'accesso presso l'immobile del contribuente per verificare la superficie soggetta alla tassa rifiuti senza un preavviso e una preventiva autorizzazione. Né sussiste un obbligo dell'amministrazione comunale di instaurare un contraddittorio preventivo con il contribuente o di richiedere informazioni e documenti prima di disporre l'ispezione dell'immobile.

È quanto ha stabilito la Ctr di Milano, Sez. XXXII, con la sentenza 607/2017.
Per i giudici d'appello, non è illegittimo l'accesso presso l'immobile occupato dal contribuente per il controllo della superficie imponibile, finalizzato all'accertamento della Tarsu, ma lo stesso vale per la Tari, senza un preventiva autorizzazione e in mancanza di un preavviso che precede l'ispezione. E non sussiste un obbligo normativo che impone un contraddittorio preventivo o la richiesta di documenti prima dell'accesso.
In realtà, però, le norme di legge prevedono la comunicazione di un preavviso prima dell'accesso, debitamente autorizzato dal sindaco per la Tarsu e del funzionario responsabile per la Tari. Tuttavia la Cassazione, con la sentenza 15438/2010, ha chiarito che il preavviso di accesso agli immobili per l'accertamento della tassa rifiuti risponde a ragioni di mera opportunità e cortesia. Quindi, la sua mancanza non determina l'invalidità della procedura di verifica della superficie imponibile e, per l'effetto, dell'avviso di accertamento notificato al contribuente.
Sempre la Cassazione (sentenza 22764/2004) ha stabilito che la misurazione della superficie non è condizionata da una preliminare istruttoria. Il comune può accedere presso l'immobile, anche nel caso in cui non richieda preventivamente al contribuente atti e documenti. Sono attribuiti determinati poteri all'ente al fine di controllare i dati contenuti nelle denunce o da acquisire in sede di accertamento d'ufficio, tramite la rilevazione della misura e la destinazione delle superfici.
Inoltre, è sempre in facoltà dell'amministrazione utilizzare i dati acquisiti ai fini di altro tributo ovvero richiedere a uffici o enti pubblici, anche economici, dati e notizie rilevanti per l'accertamento. Anche al soggetto che occupa l'immobile possono essere richiesti atti e documenti o risposte ai questionari (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

TRIBUTI: Aree edificabili, rettifica ad hoc. Per variare il valore ai fini Ici, Imu, Tasi.
Dichiarazione ad hoc per rettificare il valore delle aree edificabili. Il contribuente, infatti, non ha diritto al rimborso di Ici, Imu e Tasi se paga su un valore di mercato delle aree edificabili dichiarato che è più elevato rispetto a quello deliberato dalla giunta municipale. I valori stimati dalla giunta sono meramente indicativi e non impongono all'amministrazione comunale di restituire il tributo versato in misura superiore al dovuto. Il titolare dell'area in questi casi ha l'obbligo di presentare una dichiarazione di variazione e di rettificare il valore denunciato.

Lo ha stabilito la Commissione tributaria provinciale di Roma, con la sentenza 18.05.2017 n. 12192/38/2017.
Per i giudici tributari, il comune di Fiumicino «ha operato legittimamente nel non dar corso al rimborso, in quanto la ricorrente ha effettuato i versamenti in base a quanto dichiarato, e non ha presentato una dichiarazione rettificativa che potesse dare origine al rimborso di somme non dovute».
Dunque, se il possessore di un'area dichiara un determinato valore al metro quadro è tenuto a pagare l'Ici in base a quanto denunciato, anche se l'immobile ha subito una riduzione di valore negli anni successivi. La riduzione della base imponibile può dipendere da eventuali variazioni urbanistiche. La stessa regola vale per Imu e Tasi.
Va ricordato che la dichiarazione per le imposte locali produce effetti anche per gli anni successivi a quello in cui è stata presentata, se l'interessato non denuncia al comune che sono intervenute modifiche. La denuncia è ultrattiva ed esplica effetti giuridici anche per gli anni d'imposta successivi, se non vengono segnalate le variazioni.
Il valore dell'area si determina prendendo a base il valore di mercato, facendo riferimento a: zona territoriale di ubicazione, indice di edificabilità, destinazione d'uso consentita, oneri per eventuali lavori di adattamento del terreno necessari per la costruzione e, infine, ai prezzi medi rilevati sul mercato di aree aventi le stesse caratteristiche.
I valori possono essere deliberati anche dalla giunta comunale, sulla base di una perizia redatta dall'ufficio tecnico (articolo ItaliaOggi del 14.06.2017).

TRIBUTINiente Ici su fabbricati accatastati F3.
Il classamento catastale di un fabbricato in corso di costruzione nella categoria F/3, essenziale ai negozi civilistici su cosa futura, non è valido presupposto per l'assoggettamento dello stesso all'imposta comunale sugli immobili. Tale classamento, infatti, non segnala una capacità contributiva autonoma rispetto a quella evidenziata dalla proprietà dell'area edificabile.

È quanto si legge nella sentenza 11.05.2017 n. 11694 della Corte di Cassazione, Sez. V civile.
La vertenza si origina con la notifica di un avviso di accertamento Ici, imposta pretesa dal comune di Foggia in relazione a dei fabbricati in corso di costruzione, accatastati nella categoria F/3 «unita in corso di costruzione». Secondo l'ente impositore, l'iscrizione catastale del fabbricato era presupposto sufficiente per il suo assoggettamento all'imposta, in base all'articolo 2, comma 1, lett. a), del dlgs 504/1992 secondo cui «per fabbricato si intende l'unità immobiliare iscritta o che deve essere iscritta nel catasto edilizio urbano».
Il secondo periodo di detta norma, poi, detta un criterio alternativo (ultimazione dei lavori o anteriore utilizzazione) che acquista rilievo solo quando il fabbricato non sia ancora iscritto al catasto; l'ultimazione dei lavori o l'utilizzazione antecedente, infatti, può dar luogo a tassazione in difetto di accatastamento, solo perché rivela che il fabbricato doveva essere iscritto in catasto (per cui l'iscrizione o l'obbligo di iscrizione rimane presupposto sufficiente e preponderante).
Tuttavia, precisa la Cassazione, ai fini impositivi è significativo unicamente l'accatastamento reale e non quello c.d. «fittizio», istituzionalmente privo di rendita, di cui alla categoria F/3. L'accatastamento in questa categoria, infatti, che risulta essenziale per compiere atti negoziali aventi a oggetto una cosa futura, non integra il presupposto impositivo descritto dall'articolo 5 del dlgs 504/1992. Con la conseguenza che, in presenza di una tale situazione, resta soggetta all'imposta soltanto l'area edificabile e non anche, in via autonoma, il fabbricato in corso di costruzione. Ciò, precisa la Cassazione, fermo restando l'aspetto relativo alla verifica della pertinenza di tale classamento.
Alla luce dell'oggettiva incertezza della fattispecie, esplicitamente affermata dalla Corte nella sentenza in commento, le spese del giudizio sono state interamente compensate.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
( ) Si è quindi affermato che l'iscrizione in catasto o la sussistenza delle condizioni di iscrizione è presupposto sufficiente perché l'unità immobiliare sia considerata «fabbricato» e sia quindi assoggettata a imposta (Cass. 10.10.2008, n. 24924, Rv. 605153). Si è aggiunto che il criterio alternativo descritto nel secondo periodo (ultimazione dei lavori o anteriore utilizzazione) acquista rilievo solo quando il fabbricato non sia ancora iscritto al catasto, giacché l'iscrizione realizza di per sé il presupposto principale dell'assoggettamento all'imposta (Cass. 23.06.2010, n. 15177, Rv. 613895).
Si è altresì precisato che l'ultimazione dei lavori o l'utilizzazione antecedente può dar luogo a tassazione in difetto di accatastamento, solo perché rivela che il fabbricato doveva essere iscritto in catasto, fermo che l'iscrizione o l'obbligo di iscrizione è presupposto sufficiente (Cass. 30.04.2015, n. 8781, Rv. 635335).
Questi princìpi vanno condivisi, in quanto la struttura normativa collega la qualifica di «fabbricato» come bene tassabile all'iscrizione catastale o all'obbligo di iscrizione, ponendo l'ultimazione dei lavori o l'utilizzazione antecedente nel ruolo di indici sussidiari, valevoli per l'ipotesi che sia stato omesso il dovuto accatastamento. Occorre chiarire che a questi fini è significativo unicamente l'accatastamento reale, perché l'accatastamento c.d. fittizio, istituzionalmente privo di rendita, non fornisce la base imponibile ex art. 5, dlgs 504/1992, né evidenzia una fattispecie autonoma per capacità contributiva.
Il classamento nella categoria fittizia F/3 («unità in corso di costruzione»), pur essenziale ai negozi civilistici su cosa futura, non segnala una capacità contributiva autonoma rispetto a quella evidenziata dalla proprietà del suolo edificabile. In presenza di un tale classamento, quindi, e fermi i controlli pubblici sulla relativa appropriatezza, l'imposta può attingere solo l'area edificatoria, con la base imponibile fissata dall'art. 5, comma 6, dlgs 504/1992 (valore dell'area tolto il valore del fabbricato in corso d'opera). ( )
3. Vale il seguente principio di diritto: «in tema di imposta comunale sugli immobili, l'accatastamento di un nuovo fabbricato nella categoria fittizia delle unità in corso di costruzione non è presupposto sufficiente per l'assoggettamento a imposta del fabbricato stesso, salva la tassazione dell'area edificatoria e la verifica sulla pertinenza del classamento».
4. Il ricorso deve essere respinto, poiché il giudice d'appello non si è discostato dal principio enunciato al § 3; tuttavia, l'oggettiva incertezza della fattispecie impone di compensare le spese di questo giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 03.07.2017).

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444, recante “limiti di distanza tra i fabbricati”, prevede, tra l’altro, che le distanze minime tra i fabbricati: “nelle altre zone, con riferimento a “nuovi edifici”… “in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
Le stesse disposizioni, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esse successivi, si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti.
La finalità del DM n. 1444 del 1968 di prescrivere precise distanze tra fabbricati è infatti quella di garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili.
Le distanze previste dall’art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.
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L’intervento assentito consiste nella soprelevazione di un primo e secondo piano su un fabbricato preesistente posto sul confine. Tali opere sono da considerarsi pertanto come una “nuova costruzione” ai fini del rispetto della distanza di 10 metri imposta dal DM n. 1444/1968, dall’art. 5 del Regolamento edilizio e dall’art. 57 delle NTA al PRG.
In particolare, il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, da computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano, presuppone la presenza di due “pareti” che si fronteggiano, delle quali almeno una finestrata.
Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato che il limite predetto presuppone “pareti munite di finestre qualificabili come vedute”.
Di talché, sussiste la tassatività delle disposizioni dello stesso decreto e la loro operatività al momento del rilascio del titolo edilizio con riferimento alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici.
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... per la riforma della sentenza 19.03.2014 n. 790 del Tar per la Puglia, Sede staccata di Lecce, Sez. III, resa tra le parti, concernente la realizzazione di una sopraelevazione sull’immobile di proprietà dei signori An.Sc. e Ma.Bu..
...
10. L’appello è fondato.
11. Non possono infatti essere condivise le conclusioni del Tar di Lecce il quale ha considerato infondate le censure formulate nel ricorso introduttivo del giudizio (violazione della prescrizione inderogabile dettata dall’art. 9, comma 2, del DM 02.04.1968 n. 1444 e degli artt. 873 e 907 codice civile).
11.1. Il giudice di primo grado ha ritenuto, in particolare, che l’abitazione con la parete finestrata ad una distanza dal confine inferiore a cinque metri e ad una distanza inferiore a tre metri dalla preesistente casa di abitazione a piano terra, abilitasse i vicini, in virtù dell’originaria prevenzione della loro costruzione sul confine, alla sopraelevazione.
12. In realtà, la controversia andava esaminata con riferimento all’applicabilità o meno della disciplina di cui all’art. 9 del DM n. 1444/1968 alla sopraelevazione realizzata dai coniugi Sc. e Bu., tenendo conto della distanza dell’intervento edilizio dalla parete finestrata dell’appellante.
12.1. In particolare, l’art. 9 del DM 02.04.1968 n. 1444, recante “limiti di distanza tra i fabbricati”, prevede, tra l’altro, che le distanze minime tra i fabbricati: “nelle altre zone, con riferimento a “nuovi edifici”… “in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti”.
12.2. Le stesse disposizioni, dettate con riferimento agli strumenti urbanistici ad esse successivi, si impongono inderogabilmente, al punto da sostituire per inserzione automatica eventuali disposizioni contrastanti (cfr. Cass. civ., sez. II, 12.02.2016 n. 2848; Cons. Stato, sez. IV, 16.04.2015 n. 1951).
12.3. La finalità del DM n. 1444 del 1968 di prescrivere precise distanze tra fabbricati è infatti quella di garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili (Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016 n. 856).
12.4. Le distanze previste dall’art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile (cfr. Cons. stato, sez. IV, 03.08.2016, n. 3510).
12.5. Ciò premesso, va dunque verificato se il provvedimento impugnato risulti adottato in violazione della norma di diritto pubblico in tema di distanze, nel senso che il nuovo manufatto si ponga in contrasto con le finalità di tutela dell’interesse pubblico al quale la norma è teleologicamente orientata.
12.6. L’intervento assentito con permesso di costruire n. 120 del 02.04.2013 consiste nella soprelevazione di un primo e secondo piano su un fabbricato preesistente posto sul confine. Tali opere sono da considerarsi pertanto come una “nuova costruzione” ai fini del rispetto della distanza di 10 metri imposta dal DM n. 1444/1968, dall’art. 5 del Regolamento edilizio e dall’art. 57 delle NTA al PRG (cfr. Cass. civ. sez. II, 27.03.2014, n. 7291).
12.7. In particolare, il limite di 10 m. di distanza, di cui al già citato art. 9, primo comma, n. 2, D.M. n. 1444/1968, da computarsi con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non anche alle sole parti che si fronteggiano (Cons. Stato, sez. IV, 11.06.2015 n. 2661), presuppone la presenza di due “pareti” che si fronteggiano, delle quali almeno una finestrata (Cons. stato, sez. IV, 26.11.2015 n. 5365; id., 19.06.2006 n. 3614). Più precisamente, la giurisprudenza ha affermato che il limite predetto presuppone “pareti munite di finestre qualificabili come vedute”.
12.8. Orbene, nel caso di specie ricorre l’ipotesi di due pareti di edifici, delle quali almeno una finestrata da cui si può vedere direttamente la proprietà dei signori Sc. e Bu., e dunque proprio il caso testualmente disciplinato dall’art. 9 del DM 1444/1968.
12.9. In sostanza, può dunque essere condivisa la prospettazione di parte appellante che nel primo motivo di appello ha rilevato la tassatività delle disposizioni dello stesso decreto e la loro operatività al momento del rilascio del titolo edilizio con riferimento alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (cfr. Cass. civ., sez. II, 30.03.2006, n. 7563).
13. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va accolto e, per l’effetto, va totalmente riformata la sentenza impugnata con conseguente accoglimento del ricorso proposto in primo grado e l’annullamento del permesso di costruire oggetto del presente giudizio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.05.2017 n. 2086 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTIRifiuti speciali, esenzioni senza dichiarazioni.
In caso di effettiva e provata produzione di rifiuti speciali, con smaltimento a carico del contribuente, l'esenzione dalla tassa rifiuti comunale spetta anche nel caso in cui non sia stata prodotta l'apposita dichiarazione. La spettanza del diritto, infatti, non può essere consumata dalla sola omissione dichiarativa, quando si sia in presenza di circostanze effettivamente e adeguatamente provate.

Sono le conclusioni a cui giunge la Ctp di Bergamo nella sentenza 18.04.2017 n. 255/04/2017.
Il collegio tributario ha annullato un avviso di accertamento emesso dal comune di Credaro (Bg), relativo alla Tarsu per l'anno 2009. In particolare, l'Ufficio tributi contestava la mancata presentazione della dichiarazione ai fini della Tarsu, onere che incombeva sulla società contribuente, specialmente in virtù dell'asserita produzione di rifiuti speciali, fatto che avrebbe determinato l'esenzione dalla tassa (limitatamente alle aree di produzione di tali rifiuti).
Nel corso del giudizio, la società depositava la documentazione che provava lo smaltimento autonomo dei rifiuti speciali, ritenendo quindi di dover corrispondere la Tarsu soltanto per le aree destinate a uffici. La Ctp ha accolto le doglianze, rimproverando, tra le righe, il comune per non aver attivato un contraddittorio endoprocedimentale, nel corso del quale si sarebbero potuti appurare i fatti concreti.
La produzione di rifiuti speciali, smaltiti in maniera indipendente dal servizio pubblico, consente di non corrispondere la tassa comunale. Tuttavia, sosteneva il comune, l'esenzione non spetta perché la società avrebbe dovuto proporre la dichiarazione ai fini Tarsu, denunciando le aree in cui venivano prodotti rifiuti speciali. I giudici tributari, tuttavia, hanno dato maggior peso alla sostanza, ritenendo che l'omissione dichiarativa non potesse pregiudicare l'esenzione.
Nelle motivazioni, la Ctp svolge anche un breve richiamo all'obbligo del contraddittorio, menzionando l'articolo 12 della legge n. 212/2000 e aggiungendo che l'attuazione di detto confronto avrebbe consentito quantomeno di ascoltare le ragioni del contribuente.
In definitiva, la Commissione ha annullato l'avviso di accertamento emesso dal comune, ma ha ritenuto di dover compensare le spese di giudizio, proprio in ragione dell'omessa presentazione della dichiarazione da parte della società.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
La società ricorrente impugna l'avviso d'accertamento con il quale il comune di ( ) le imputa l'omessa dichiarazione/denuncia di variazione dell'occupazione delle aree site alla via ( ), per cui chiede il pagamento di 5.045,00 per dovuta tassa, sanzioni, interessi, addizionali e tributo provinciale per 1o smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Tarsu), relativamente all' anno 2009.
Premesso che la società ricorrente riconosce d'aver omesso la presentazione della dichiarazione Tarsu per il sito di ( ), precisa, tuttavia, che tutta la superficie occupata è destinata alla produzione di rifiuti speciali, circostanza questa non potuta dimostrare stante il mancato contraddittorio preventivo con l'ufficio comunale. ( )
Diversamente la ( ) fa presente, in primo luogo, che il comune di ( ) ha commesso I'errore di non aver assoggettato a tassazione soltanto gli spazi occupati da uffici, corridoi e locali di servizio, dal momento che le aree produttive sono escluse da tassazione giacché produttive di rifiuti speciali, il cui smaltimento è opera e a costo della stessa società produttrice, che si avvale di una impresa di autotrasporti di una impresa di servizi ecologici, come provato dalle fatture di costo ricevute.
Infine, la ricorrente eccepisce la decadenza parziale dell'ufficio comunale dal pretendere quanto richiesto, giacché i presunti versamenti non effettuati possono essere richiesti entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui la dichiarazione o il versamento sono stati o avrebbero dovuto essere effettuati.
Si deve riconoscere che la ( ),esercitando l'attività di lavorazione di elastomeri e termoplastici, produce, come principali rifiuti, scarti di gomme, che devono considerarsi i frutti speciali, la cui eliminazione, come dimostrato dalle fatture di costo, regolarmente pagate, è avvenuta senza l'ausilio dell'ente comunale nel cui territorio opera.
I1 comune di ( ) commette, perciò, un errore nella valutazione delle caratteristiche oggettive, strutturali e produttive degli immobili da assoggettare a Tarsu, i cui spazi oggetto della tassazione sono solamente le aree, di complessivi metri quadrati 425, destinate a uffici, a corridoi e a locali di servizio.
Per questo motivo, devesi annullare l'avviso d'accertamento impugnato, anche perché non si è instaurato un contraddittorio preventivo fra le parti, come previsto dall'art. 12 della legge 212/2000, che avrebbe in qualche modo consentito di riconoscere le ragioni del contribuente.
L'avvenuta omissione, da parte della società ricorrente, della dichiarazione Tarsu per il sito di ( ), non producendo alcun disconoscimento del diritto di cui si discute, consente di compensare tra le parti le spese di giudizio.
PQM la Commissione accoglie il ricorso e annulla l'avviso d'accertamento ( ), emesso in data 27.11.2015 dal comune di ( ). Compensa le spese (articolo ItaliaOggi Sette del 19.06.2017).

TRIBUTITerreni a uso pubblico con esenzione Imu.
I terreni edificabili che abbiano ricevuto un «piano integrato d'intervento» con l'istituzione di una servitù perpetua di uso pubblico e l'asservimento, sempre a uso pubblico, sia dei parcheggi interrati che del sovrastante porticato, sono esenti da Imu; il vincolo urbanistico, infatti, preclude quelle forme di trasformazione del suolo che siano riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.

Lo ha stabilito la sezione prima della Commissione tributaria provinciale di Bergamo nella sentenza 14.04.2017 n. 252/1/2017.
Quanto affermato dalla Commissione provinciale lombarda risolve a favore del contribuente l'aspetto controverso dei terreni, sia pure inseriti in una zona edificabile che, tuttavia, abbiano perso definitivamente la possibilità di edificazione, in maniera incontrovertibile.
La vertenza trae origine dall'impugnazione da parte di una società di capitali di un accertamento Imu con cui il comune di Calusco d'Adda (Bg) assoggettava a imposta una area destinata a parcheggio pubblico. L'Ufficio tributi del comune riteneva che l'area assoggettata a uso pubblico fosse, comunque, inserita nel piano regolatore generale, e in base alle previsioni degli strumenti urbanistici fosse tassabile.
La Commissione provinciale, forte anche dell'insegnamento recente della Cassazione, ha accolto il ricorso annullando l'atto impositivo. «Insegna la Suprema Corte di cassazione nella sentenza n. 5992/2015», osservano i giudici provinciali, che il presupposto di imposta per le aree urbane è limitato dagli articoli 1 e 2 del dlgs n. 504/1992 ai «terreni edificabili», intendendosi per tali quelli destinati alla edificazione per espressa previsione degli strumenti urbanistici.
In verità, sembra ormai superato quell'orientamento della Cassazione che riteneva che un terreno inserito nel Piano regolatore generale avesse insita una certa vocazione edificatoria, chiarendo, invece, che l'utilizzo pubblicistico dell'area, ne annulli ogni potenzialità edificatoria.
I giudici provinciali aggiungono che nel caso in cui l'area sia stata vincolata concretamente con un utilizzo pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, parcheggio pubblico ecc.) la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, rendendo inapplicabile il tributo.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] Con atto in data 02.03.2011 è stato poi convenuto, tra le stesse parti, con specifico riguardo alle porzioni dell'area messa a disposizione dal privato (sub. 9 e sub.2), rispettivamente, l'asservimento a uso pubblico di parcheggi interrati e assoggettamento a uso pubblico di porticato.
In relazione a tale situazione di fatto, mentre la società ricorrente rivendica l'esenzione Imu in base alla «servitù di uso pubblico» e alla conseguente in configurabilità della pertinenza, il comune fa valere l'assoggettabilità all'imposta delle stesse aree richiamando quella giurisprudenza di merito che, escludendo la configurabilità di un diritto reale nel caso di servitù di uso pubblico, qualifica l'area assoggettata alla stessa servitù come «area edificabile» in base alle previsioni degli strumenti urbanistici (art. 2, lett. b, dlgs n. 504/1992) e perciò identifica nel proprietario dell'immobile il oggetto passivo dell'imposta (art. 3 dlgs cit.).
La questione controversa è se il vincolo di destinazione urbanistica, generale o specifica e convenzionale, sottragga l'area al regine fiscale dei suoli edificabili, ai fini dell'Ici e dell'Imu.
Va premesso che un'area destinata a uso pubblico è sottoposta a un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle trasformazioni del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione.
Un'area con tali caratteristiche non può essere qualificata come fabbricabile, ai sensi del dlgs n. 504 del 1992, art. 1, comma 2, e, quindi, il possesso della stessa non può essere considerato presupposto dell'imposta comunale in discussione (Cass. Sez. V 25/03/2015, n. 5992; 21/04/2011 n. 9196; 24/10/2008 n. 25672).
Insegna la Suprema Corte che il presupposto di imposta per le aree urbane è limitato dagli artt. 1-2 dlgs n. 504/1992 ai «terreni fabbricabili», intendendosi per tali quelli destinati alla edificazione per espressa previsione degli strumenti urbanistici ovvero, quale criterio meramente suppletivo, in base alle effettive possibilità di edificazione.
Nel caso in cui la zona o l'area sia stata concretamente vincolata a un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, parcheggio pubblico ecc.), la classificazione apporta un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione (in argomento: Cass. 14/06/2007 n. 13917, 20/11/2006 n. 24585)
In conclusione, il ricorso va accolto. ( ) (articolo ItaliaOggi Sette del 12.06.2017).

CONDOMINIOCondominio, corsi obbligatori. Nulla la nomina dell'amministratore senza aggiornamento. Pronuncia del tribunale di Padova: adempimento da rispettare entro il 9/10 di ogni anno.
È nulla la delibera di nomina dell'amministratore condominiale che non abbia provveduto a frequentare un valido corso di formazione annuale. Né è possibile recuperare l'anno successivo le ore di aggiornamento periodico previste per l'annualità precedente e che devono essere acquisite entro il 9 ottobre di ogni anno.

Lo ha stabilito il TRIBUNALE di Padova nella sentenza 24.03.2017 n. 818.
I requisiti dell'amministratore condominiale. Con l'art. 71-bis delle disposizioni di attuazione del codice civile introdotto ex novo dalla legge n. 220/2012 sono stati per la prima volta individuati i requisiti minimi che ogni amministratore deve possedere per aspirare a tale incarico e per mantenerlo validamente nel tempo (si veda la tabella in pagina).
In particolare, agli amministratori è stato richiesto di frequentare annualmente un corso di aggiornamento periodico in materia di amministrazione condominiale.
Soltanto con il decreto del ministero della giustizia n. 140/2014 sono stati però indicati il monte ore minimo annuale (pari a 15), le modalità per l'organizzazione dei corsi e l'elenco delle materie da trattare. Il suddetto decreto è entrato in vigore il 09.10.2014 e, poiché nel regolamento ministeriale non si parla di anno solare, si è inteso comunemente che l'arco temporale annuale entro il quale adempiere al nuovo obbligo decorra dal 9 ottobre di ogni anno. È importante evidenziare come anche la citata sentenza del tribunale di Padova abbia espressamente avallato tale interpretazione.
Le conseguenze del mancato rispetto dell'art. 71-bis disp. att. c.c. Ma quali sono le conseguenze della mancanza, iniziale o sopravvenuta, dei requisiti di cui sopra in capo all'amministratore condominiale? E, più nello specifico, che cosa accade se quest'ultimo non frequenta i corsi di aggiornamento annuale?
La domanda non appare di facile soluzione, ferma restando l'illegittimità di tale condotta. L'art. 71-bis disp. att. c.c., infatti, non chiarisce questo aspetto. Poiché, come è noto, la contrarietà a legge delle delibere assembleari può comportare tanto l'annullabilità quanto la nullità delle stesse, con conseguenze molto diverse in tema di termini di impugnazione, natura ed effetti della sentenza, si è aperto fin da subito un interessante dibattito sul punto.
Vi è anche da considerare il fatto che le ipotesi di nullità delle deliberazioni condominiali, all'indomani della storica sentenza delle sezioni unite della Cassazione n. 4806/2005, sono state ricondotte dalla giurisprudenza ai casi più gravi e, per così dire, eccezionali.
La recente sentenza del tribunale di Padova, per quanto sostanzialmente non motivata sul punto, rappresenta comunque un primo indubbio punto di riferimento su un terreno alquanto scivoloso e rende consigliabile, se non addirittura doverosa, la verifica in sede assembleare del possesso dei requisiti di legge dell'amministratore al momento della nomina e del rinnovo dell'incarico. Le conseguenze della nullità di siffatta delibera, così come accade nell'altro noto caso, previsto però espressamente dall'art. 1129 c.c., della mancata presentazione del preventivo (si veda ItaliaOggi Sette del 23/05/2016), sono infatti molto gravi e possono avere un impatto rilevante sulla vita del condominio.
Proprio perché la dichiarazione della nullità retroagisce alla data dell'assemblea, la nomina dell'amministratore è da considerarsi come mai avvenuta, rimanendo la deliberazione assembleare del tutto priva di effetti. Questo vuol dire che i condomini dovranno in tutta fretta procedere alla nomina di un nuovo amministratore e dovranno anche interrogarsi sulla sorte degli atti medio tempore posti in essere dal soggetto che di fatto ha gestito il condominio pur senza essere stato validamente incaricato.
Quest'ultimo, poi, dovrebbe anche essere tenuto a restituire al condominio il compenso già eventualmente incassato, potendo tutto al più richiedere un indennizzo per le attività effettivamente espletate in favore dei condomini. Vi è da osservare che questa situazione di incertezza potrebbe protrarsi anche per molto tempo, mettendo a dura prova la gestione condominiale. E questo non solo a causa del tempo necessario ad accertare in sede giudiziale il vizio da cui è affetta la delibera di nomina ma per il peculiare regime giuridico dei vizi di nullità, che possono essere sollevati dal soggetto interessato senza limiti di tempo, quindi anche ben al di là dei rigidi termini di decadenza che viceversa caratterizzano le impugnazioni delle delibere assembleari.
In altri termini, la deliberazione di nomina dell'amministratore potrebbe essere contestata dai condomini (ma anche da soggetti terzi interessati) ben oltre i 30 giorni di cui all'art. 1137 c.c., quindi anche a distanza di mesi o, addirittura, di anni (articolo ItaliaOggi Sette del 26.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Nella nozione di nuova costruzione di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 rientrano non solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, anche in ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato rendono l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente.
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Con il quarto motivo di ricorso il ricorrente si duole che il permesso di costruire sarebbe stato rilasciato senza che fosse rispettata la prescrizione di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942. La norma in questione prescrive che per le “nuove costruzioni” debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi.
E’ pur vero che, come dedotto in ricorso, la giurisprudenza ha talvolta esteso il concetto di “nuova costruzione” anche ad interventi di ristrutturazione; tuttavia, analizzando la casistica, si evince che siffatta estensione è stata ammessa, sulla base della ratio normativa, in ipotesi di intervenenti radicali che hanno ad esempio comportato mutamento di destinazione d’uso dell’immobile ovvero moltiplicazione delle unità abitative. L’interpretazione estensiva, in sostanza, si giustifica in ragione dell’importanza dell’intervento.
Si legge ad esempio in Cons. St., sez. V, 04.11.2014, n. 5444 che “nella nozione di nuova costruzione di cui all’art. 41-sexies della l. n. 1150/1942 rientrano non solo l’edificazione di un manufatto su un’area libera, ma anche gli interventi di ristrutturazione che, anche in ragione dell’entità delle modifiche apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato rendono l’opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente”.
Nel caso di specie è stato realizzato un recupero a fini abitativi di un sottotetto, senza creazione di nuove unità abitative. Non si ritiene quindi che l’opera sia oggettivamente diversa dalla preesistente sì da giustificare l’obbligo di creazione di parcheggio ad uso privato.
La censura è quindi infondata (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 17.03.2017 n. 391 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La nozione di naturale vocazione edificatoria può essere appropriatamente impiegata soltanto nel contesto delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di un’edificabilità di fatto– contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione.
E tali scelte, per costante giurisprudenza, costituiscono espressione di ampia discrezionalità, e non sono perciò sindacabili dal giudice amministrativo, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono in concreto soddisfare
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Nel caso di specie, l’Amministrazione ha chiaramente inteso –in continuità rispetto alle previsioni del previgente PRG– preservare i profili di pregio architettonico e paesaggistico degli antichi complessi rurali, sottoponendoli a una disciplina apposita, calibrata in relazione alle diverse situazioni (“cascine prevalentemente destinate all’attività agricola”, “cascine dismesse dall’uso agricolo già rifunzionalizzate” e “cascine da rifunzionalizzare”).
Tale disciplina è inoltre applicata in modo generalizzato alle cascine censite sul territorio comunale, ed è evidentemente diretta a operare una tutela in via urbanistica di profili di interesse lato sensu culturale.
La scelta operata è perciò sorretta dalla funzionalizzazione alla tutela di interessi costituzionali primari, contemplati dall’articolo 9 della Costituzione, in adesione a un concetto di urbanistica quale funzione strumentale all’ordinato sviluppo del territorio, in relazione alle concrete vocazioni dei luoghi, ai valori paesaggistici e ambientali e alle esigenze economico-sociali del territorio.
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Per costante giurisprudenza, le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in funzione di interessi generali e non individuali, per cui l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove contrastino con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico.
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13.2 Non può poi accogliersi la prospettazione di parte ricorrente, secondo la quale l’irragionevolezza delle scelte pianificatorie deriverebbe dall’obliterazione della vocazione edificatoria dell’area.
La nozione di naturale vocazione edificatoria può essere infatti appropriatamente impiegata soltanto nel contesto delle vicende espropriative, mentre non si attaglia al diverso ambito della disciplina d’uso dei suoli, poiché –postulando la preesistenza di un’edificabilità di fatto– contraddice la sottoposizione di ogni attività edilizia alle scelte pianificatorie dell’amministrazione (Cons. Stato, Sez. IV, 21.12.2012, n. 6656).
E tali scelte, per costante giurisprudenza, costituiscono espressione di ampia discrezionalità, e non sono perciò sindacabili dal giudice amministrativo, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono in concreto soddisfare (cfr.,
ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2014, n. 2649; Id., 25.11.2013, n. 5589; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 15.05.2014, n. 1281).
Nel caso di specie, l’Amministrazione ha chiaramente inteso –in continuità rispetto alle previsioni del previgente PRG– preservare i profili di pregio architettonico e paesaggistico degli antichi complessi rurali, sottoponendoli a una disciplina apposita, calibrata in relazione alle diverse situazioni (“cascine prevalentemente destinate all’attività agricola”, “cascine dismesse dall’uso agricolo già rifunzionalizzate” e “cascine da rifunzionalizzare”: v. artt. 18, 19 e 20 delle NTA del Piano delle Regole – doc. 9 del Comune).
Tale disciplina è inoltre applicata in modo generalizzato alle cascine censite sul territorio comunale, ed è evidentemente diretta a operare una tutela in via urbanistica di profili di interesse lato sensu culturale. La scelta operata è perciò sorretta dalla funzionalizzazione alla tutela di interessi costituzionali primari, contemplati dall’articolo 9 della Costituzione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 27.04.2016, n. 813; Id., 05.06.2014, n. 1465), in adesione a un concetto di urbanistica quale funzione strumentale all’ordinato sviluppo del territorio, in relazione alle concrete vocazioni dei luoghi, ai valori paesaggistici e ambientali e alle esigenze economico-sociali del territorio (Cons. Stato, Sez. IV, 08.01.2016, n. 35; Id., 10.05.2012, n. 2710).
Né, in tale prospettiva, può assumere rilievo la destinazione a infrastrutture di un comparto confinante, posto che l’eventuale preordinazione di tali dotazioni all’urbanizzazione di ambiti limitrofi non rende di per sé irragionevoli le prescrizioni volte a dettare una diversa disciplina per gli antichi complessi rurali, fatti oggetto di specifica considerazione, come detto, da parte dello strumento urbanistico.
13.3 Le considerazioni sopra svolte escludono, in definitiva, la possibilità di riscontrare, nel caso di specie, l’illogicità e l’irragionevolezza delle scelte operate dall’Amministrazione, essendo, viceversa, del tutto coerente con l’impostazione assunta dal piano la determinazione di vietare “...gli interventi che alterino l’unitarietà dell’impianto storicamente consolidato o frazionino gli spazi liberi comuni, con riferimento all’Abaco delle tipologie rurali del Parco del Ticino” (v. articolo 20, comma 2, delle NTA del Piano delle Regole – doc. 9 del Comune).
14. Va poi respinto anche il secondo gruppo di censure avanzate contro il PGT.
14.1 Non sussiste, anzitutto, alcun errore nei presupposti, poiché –contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti– l’Amministrazione ha correttamente affermato che la disciplina dettata dal PGT si pone in continuità rispetto a quella del PRG, in base al quale era già esclusa la possibilità di configurare lotti liberi all’interno del complesso rurale (v. controdeduzione all’osservazione dei ricorrenti – doc. 4 del Comune). E ciò per le ragioni che si sono esposte sopra, e alle quali si rinvia.
14.2 D’altro canto, non risulta neppure che l’Amministrazione abbia omesso di prendere in considerazione la portata sostanziale dell’osservazione dei ricorrenti.
Per costante giurisprudenza, le osservazioni successive all’adozione costituiscono meri apporti collaborativi, in funzione di interessi generali e non individuali, per cui l’Amministrazione può semplicemente rigettarle laddove contrastino con gli interessi e le considerazioni generali sottese allo strumento urbanistico (cfr. ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2014, n. 3294).
Nel caso di specie, l’osservazione –tendente a ottenere la “edificabilità dei lotti liberi”– risulta essere stata debitamente vagliata dall’Amministrazione, che ha evidenziato l’inconfigurabilità di tali lotti, già nel precedente strumento urbanistico, trattandosi di aree in realtà ricomprese nel compendio della cascina. Si tratta di considerazioni corrette, come sopra detto, e anche esaustive, in quanto chiaramente rimandano ai criteri di impostazione del piano e alla scelta operata in via generale dall’Amministrazione di tutelare i tratti identitari del paesaggio agrario locale mediante la conservazione dell’impianto tipologico degli antichi complessi rurali.
Va, pertanto, ribadito il rigetto anche di questa censura.
15. In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, la domanda di annullamento introdotta con il ricorso per motivi aggiunti deve essere integralmente respinta (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.03.2017 n. 644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARILa perdita di Fido va risarcita. Diritto inviolabile la tutela dell'animale d'affezione. Sentenza del tribunale di Vicenza si discosta dall'indirizzo della Corte di cassazione.
L'animale d'affezione è membro della famiglia e la sua tutela è un diritto inviolabile.

Lo ha affermato il TRIBUNALE di Vicenza con la sentenza 03.01.2017 n. 24.
La vicenda da cui scaturisce questa pronuncia vede protagonista una coppia che ha perso il proprio cane che, non adeguatamente custodito dalla clinica veterinaria presso la quale lo stesso era ricoverato per intervento chirurgico, è scappato dall'istituto e non si è mai più ritrovato.
I padroni del cane hanno chiesto al giudice di liquidare a loro favore il risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita dell'animale d'affezione. Il giudice vicentino si è discostato dall'indirizzo giurisprudenziale della Corte di cassazione che, con la sentenza n. 26972/2008, ha teso ad escludere un danno morale risarcibile ex art. 2059 cc per la morte dell'animale d'affezione.
La risarcibilità del danno morale per tale perdita, infatti, va qualificata e inquadrata, a parere del giudice, nei diritti inviolabili della persona di cui all'art 2 della Costituzione: tali diritti devono essere interpretati e adattati alla realtà sociale e ai processi evolutivi, tanto da consentire di rinvenire nel complessivo sistema costituzionale nuovi interessi emersi nella realtà sociale che attengano a posizioni inviolabili della persona umana.
Per questo il giudice vicentino sottolinea che il rapporto con gli animali domestici va trattato alla stregua di una relazione con esseri viventi, spesso considerati dai loro padroni come «membri della famiglia».
Ne consegue che nell'attuale contesto sociale in molti casi il rapporto affettivo che si instaura tra padrone e animale si inserisce nelle attività realizzatrici della persona che l'art. 2 della Costituzione promuove e tutela.
D'altra parte il legislatore, con la legge n. 281/1991 e la giurisprudenza di merito con alcune pronunce, hanno avuto modo di sottolineare e dare rilievo al legame che si crea tra animale ed il suo padrone, rinvenendo la tutela anche nell'art 42 della Costituzione che, ricordiamo, garantisce la proprietà privata.
Sulla base di dette considerazioni, il giudice vicentino ha ritenuto di aderire a quell'orientamento favorevole al risarcimento del danno non patrimoniale per la perdita dell'animale d'affezione, anche al di fuori dei casi di danno conseguente a reato.
Oltre al danno patrimoniale subìto dagli attori ricorrenti, consistente nelle spese da questi sostenuti per gli annunci pubblicitari relativi allo smarrimento del cane come debitamente documentati in causa, i padroni sono stati ritenuti meritevoli di un risarcimento del danno non patrimoniale consistente nella perdita affettiva di un bene.
Per tali motivi il tribunale ha ritenuto di accogliere la richiesta degli attori di vedersi risarcito il pregiudizio patito in conseguenza della mancata vigilanza da parte della clinica veterinaria presso il quale il cane era ricoverato ed a causa della quale l'animale è scappato dalla incustodita porta di ingresso/uscita della struttura. Il giudice vicentino, applicando il criterio equitativo, ha ritenuto che tale danno potesse essere valutato nella somma di 3.500 euro (articolo ItaliaOggi Sette del 27.11.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Anche nell’ipotesi di abuso risalente nel tempo, per orientamento pacifico -applicabile anche al caso di specie ove l’origine del provvedimento risiede in un’attività edilizia illegittima- il provvedimento con cui si sanzionano opere realizzate senza regolare titolo costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è infatti soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’Amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito.
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2.2 Con il secondo motivo si lamenta la lesione dell’affidamento del ricorrente nella regolarità delle opere in ragione del tempo trascorso dall’esecuzione dell’opera.
Il motivo deve essere rigettato.
Si premette, in punto di fatto, che il ricorrente non dà alcuna dimostrazione che le opere realizzate siano risalenti ad un’epoca remota.
In ogni caso anche nell’ipotesi di abuso risalente nel tempo, per orientamento pacifico -applicabile anche al caso di specie ove l’origine del provvedimento risiede in un’attività edilizia illegittima- il provvedimento con cui si sanzionano opere realizzate senza regolare titolo costituisce atto dovuto non potendo il semplice trascorrere del tempo giustificare il legittimo affidamento del contravventore.
Il potere di ripristino dello status quo non è infatti soggetto a termine di prescrizione né è tacitamente rinunciabile, poiché il semplice trascorrere del tempo non può legittimare una situazione di illegalità, né imporre all’Amministrazione la necessità di una comparazione dell’interesse del privato alla conservazione dell’abuso con l’interesse pubblico alla repressione dell’illecito (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’eccessiva durata del procedimento non incide sulla legittimità del procedimento finale posto che pacificamente la scadenza del termine conclusivo del procedimento non spoglia l’amministrazione del potere-dovere di provvedere.
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2.5 Con il quinto motivo si lamenta l’eccessiva durata del procedimento, iniziato nel 2006 e concluso con provvedimento del 2008.
Il motivo non ha rilievo.
L’eccessiva durata del procedimento non incide sulla legittimità del procedimento finale posto che pacificamente la scadenza del termine conclusivo del procedimento non spoglia l’amministrazione del potere-dovere di provvedere; la doglianza non ha quindi rilievo ai fini dell’accoglimento della domanda impugnatoria proposta (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.04.2015 n. 2050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il  “concetto di disponibilità dell’area”, ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la conseguenza che “la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono sulla possibilità di edificazione del suolo”.
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, è evidente che la pur riscontrata pendenza di una domanda di accertamento di un diritto di servitù di passaggio su di un’area destinata dal suo proprietario all’apposizione di una recinzione non può, di per sé, costituire un idoneo presupposto affinché l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va obliterata la circostanza che il rilascio del titolo edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).

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5.1. Tutto ciò premesso, il ricorso va respinto.
5.2. Il Collegio non può che concordare con il principio, puntualmente enunciato dalla stessa difesa della parte ricorrente (cfr. pagg. 2 e 3 della memoria defensionale dd. 08.06.2004), secondo cui “il concetto di disponibilità dell’area”, ai fini del rilascio del titolo edilizio, “non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile”, con la conseguenza che “la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono sulla possibilità di edificazione del suolo” (così Cons. Stato, Sez. V, 22.06.2000 n. 3525).
Tuttavia, poiché la legittimità del provvedimento amministrativo va essenzialmente valutata con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 30.09.2002 n. 4994), è evidente che la pur riscontrata pendenza di una domanda di accertamento di un diritto di servitù di passaggio su di un’area destinata dal suo proprietario all’apposizione di una recinzione non può, di per sé, costituire un idoneo presupposto affinché l’Amministrazione Comunale neghi il rilascio del relativo titolo edilizio.
La mera pendenza di una lite giudiziaria, infatti, non configura un definitivo assetto dei diritti e degli obblighi delle parti assoggettate all’azione amministrativa; né va obliterata la circostanza che il rilascio del titolo edilizio avviene sempre con la salvezza dei diritti dei terzi (cfr., per l’epoca dei fatti di causa l’art. 4, sesto comma, della L. 28.01.1977 n. 10 e, ora, l’art. 11, comma 3, del T.U. approvato con D.P.R. 06.06.2001 n. 380).
Deve dunque concludersi nel senso che il soddisfacimento dell’interesse qui fatto valere dalla ricorrente potrà avvenire, se del caso, innanzi alla giurisdizione ordinaria e mediante i mezzi di tutela ivi esperibili.
Tali notazioni di fondo consentono, allo stesso tempo, di escludere che il contributo della parte qui ricorrente apportato nell'ambito del procedimento di rilascio del titolo edilizio in questione potesse, a quel momento, ragionevolmente comportare una determinazione contraria alla richiesta di Va.: e ciò, pertanto, consente pure di respingere le censure di violazione dell’art. 10 della L. 241 del 1990 e di eccesso di potere per difetto di motivazione formulate dalla ricorrente.
Neppure sussiste la violazione della su riportata disciplina di piano.
Il Collegio concorda sulla notazione della parte ricorrente circa la sua “non perspicua formulazione letterale” (cfr. pag. 5 dell’atto introduttivo del giudizio), ma reputa che l’interpretazione del disposto in esame non possa, comunque, avvenire contra legem, ossia –nella specie– ablando la facoltà del proprietario di chiudere in qualunque tempo il fondo (art. 841 cod. civ.), posto che la recinzione comunque rientra tra le manifestazioni del diritto di proprietà, comprendente pure lo jus excludendi alios, e che -fermo restando l’esercizio della facoltà medesima- soltanto la natura delle opere in concreto realizzate consente di acclarare se ciò comporti, o meno, una trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 15.06.2000 n. 3320 e la sentenza 14.01.2002 n. 62 di questa stessa Sezione) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 20.10.2004 n. 3752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 4, comma secondo, della L. n. 10/1977 statuisce espressamente che la concessione edilizia è rilasciata “al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”.
E’ noto al Collegio che per costante giurisprudenza, soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è, non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la concessione.
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la giurisprudenza riconosce anche al promittente compratore la legittimazione a richiedere la concessione edilizia, dall’altro non può essere esclusa la necessità che, in ragione degli effetti propri del preliminare di compravendita, siano assicurate le dovute garanzie in ordine all’effettiva disponibilità dell’immobile da parte del promettente acquirente.

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Il ricorso è infondato.
L’art. 4, comma secondo, della L. n. 10/1977 statuisce espressamente che la concessione edilizia è rilasciata “al proprietario dell’area o a chi abbia titolo per richiederla”.
E’ noto al Collegio che per costante giurisprudenza, soggetto legittimato a richiedere la concessione edilizia è, non solo, il titolare del diritto di proprietà sul fondo ma anche chi, pur essendo titolare di altro diritto, reale o di obbligazione, abbia, per effetto di questo obbligo, la facoltà di eseguire i lavori per i quali chiede la concessione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. IV,11.06.2002 n. 3253; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 1227 del 04.11.1997; Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 965 del 28.09.1993).
Tuttavia, va rilevato che se da un lato la giurisprudenza riconosce anche al promittente compratore la legittimazione a richiedere la concessione edilizia, dall’altro non può essere esclusa la necessità che, in ragione degli effetti propri del preliminare di compravendita, siano assicurate le dovute garanzie in ordine all’effettiva disponibilità dell’immobile da parte del promettente acquirente.
Nella fattispecie in esame, viceversa, è possibile riscontrare vari elementi che fanno dubitare della sussistenza in capo al richiedente la concessione edilizia dell’effettiva disponibilità del bene in questione.
Innanzitutto, va rilevato che nonostante il notevole lasso di tempo trascorso dall’avvio della pratica edilizia non risulta che sia stato mai stipulato il contratto definitivo di compravendita dell’area de qua. In secondo luogo, dubbi ed incertezze permangono in ordine all’effettiva titolarità del diritto di proprietà in capo al promittente alienante sig. Zu. e alla reale sussistenza di qualsivoglia diritto reale o di possesso sull’area in questione nella quale, peraltro, è presente una fontanina posseduta da oltre vent’anni dall’ente Acquedotto Pugliese.
Ne consegue, che la descritta situazione di incertezza consente di ritenere legittimo l’impugnato diniego, attesa l’assenza, nel caso di specie, di un titolo idoneo a supportare la richiesta di concessione edilizia.
Per le esposte considerazioni, il ricorso va, pertanto, respinto (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 11.10.2004 n. 7165 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' legittima la concessione edilizia rilasciata al soggetto che risulta essere promissario acquirente dei fondi.
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7. La prima censura contesta il rilascio della concessione alla società S.E.M. in quanto non titolare del diritto di proprietà sulle aree sopra le quali dovrà realizzarsi l'immobile.
Il mezzo è inammissibile e infondato.
Inammissibile perché, a fronte della duplice motivazione del TAR, si è contestata in questo grado solo la pronuncia di infondatezza, per altro con profili nuovi.
Infondato perché esattamente il TAR ha dichiarato inammissibile il motivo in quanto i ricorrenti non sono interessati a rivendicare la proprietà o altro diritto reale sui fondi in contestazione.
Il motivo è inoltre infondato in fatto, perché la concessione è stata rilasciata anche in favore della società FI.LA.N. proprietaria dell'area mentre la società S.E.M. risulta essere promissorio acquirente dei fondi (sulla facoltà del soggetto titolare di diritti obbligatori o promissario acquirente, effettivo possessore del fondo, di richiedere la concessione edilizia, cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.06.1996, n. 1173; sez. V, 04.11.1997, n. 1227) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.06.2002 n. 3253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esecuzione di opere di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio, astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati.
Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto fra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di protezione del diritto soggettivo. Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia.
In particolare, non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio della concessione edilizia l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria dell’amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata dall’amministrazione non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che impongono all’istante di fornire la prova del titolo di godimento dei locali destinati all’esercizio.
Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del procedimento di rilascio della concessione edilizia. Non solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo ancora più stringente, un adeguato esame sulla corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti fattuali che la giustificano, anche in relazione alla titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si può negare all’amministrazione comunale il compito di assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati relativi all’area interessata dall’intervento. Assentire la realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi del necessario titolo di godimento sull’immobile significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.

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Circa il fatto di
stabilire l’ampiezza e la profondità dei poteri istruttori spettanti all’amministrazione in sede di verifica del titolo di proprietà sull’immobile, si deve premettere che l’affermazione del potere di verifica del titolo di proprietà non significa affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Anzi, il principio generale del divieto di aggravamento del procedimento consente all’amministrazione di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza di servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti sull’immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare, anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei confronti della amministrazione. Al contrario, in mancanza di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel corso del procedimento, la concessione edilizia è legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di esame delle relative domande di concessione, a ricercare d'ufficio, né ad opporre al richiedente la pattuizioni limitative della proprietà che costui o il suo dante causa abbiano concluso con i terzi, tant'e' che la concessione stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza dei diritti di questi ultimi.
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi, l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento.

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Laddove sia
in contestazione la legittimità non già di una concessione edilizia rilasciata, bensì del suo diniego, basato su precisi dati documentali e probatori emersi nel corso dell’istruttoria, l’accertata carenza degli elementi che dimostrino l’esistenza di un collegamento qualificato tra il richiedente ed il bene immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia determina la legittimità del provvedimento di diniego.
Del resto ai sensi dell'art. 4 l. 28.01.1977 n. 10 la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio della concessione.

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I
l concetto di disponibilità dell’area ai fini del rilascio della concessione edilizia, non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile.
Pertanto, la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono proprio sulla possibilità di edificazione del suolo.
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2. Con un primo motivo di gravame, gli appellanti sostengono che non compete all’amministrazione comunale il potere di respingere una richiesta di concessione edilizia, pretendendo la cancellazione di una servitù gravante sull’immobile oggetto dell’intervento, in quanto il controllo dell’attività urbanistica riservato all’amministrazione va effettuato esclusivamente alla stregua di norme pubblicistiche, senza attribuire rilievo alla disciplina civilistica della proprietà.
La censura è infondata.
3. L’esecuzione di opere di trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio è sottoposta ad una disciplina complessa, che riguarda, rispettivamente, la definizione degli assetti della proprietà immobiliare ed il controllo pubblicistico sulla conformità alle regole ed ai piani di derivazione pubblicistica. Gli ambiti delle due discipline, finalizzate alla tutela di interessi di consistenza disomogenea, non sono pienamente sovrapponibili.
È quindi possibile che un determinato intervento edilizio, astrattamente conforme alle prescrizioni urbanistiche, si ponga in contrasto con la normativa di derivazione civilistica, costituendo la violazione di diritti reali di godimento o di altre facoltà dei soggetti interessati.
4. Tuttavia, la necessaria distinzione tra gli aspetti civilistici e quelli pubblicistici dell’attività edificatoria non impedisce di rilevare la presenza di significativi punti di contatto fra i due diversi profili. Da una parte, la normativa edilizia di carattere regolamentare è idonea a fondare pretese sostanziali nei rapporti interprivati, che assumono la consistenza ed il grado di protezione del diritto soggettivo. Dall’altra parte, alcuni elementi di origine civilistica assumono una rilevanza qualificata nel procedimento di rilascio della concessione edilizia.
5. In particolare, non è seriamente contestabile che nel procedimento di rilascio della concessione edilizia l’amministrazione ha il potere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica. Si tratta di un’attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
In termini generali, la funzione autorizzatoria dell’amministrazione richiede un livello minimo di istruttoria, che comprende, comunque, l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
E, d’altra parte, l’esame del titolo di godimento operata dall’amministrazione non costituisce una sorta di eccezionale intrusione in un ambito privatistico, ma rappresenta la coerente applicazione del principio secondo cui l’autorità pubblica deve sempre verificare la legittimazione del soggetto che propone un’istanza. In questa prospettiva si spiegano le numerose norme di settore in materia di licenze e di autorizzazioni commerciali, che impongono all’istante di fornire la prova del titolo di godimento dei locali destinati all’esercizio.
6. Questa elementare esigenza di verifica sull’ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio risulta presente anche nell’ambito del procedimento di rilascio della concessione edilizia. Non solo, ma la notevole incidenza della concessione edilizia sugli interessi pubblici e privati coinvolti impone, in modo ancora più stringente, un adeguato esame sulla corrispondenza sostanziale tra la richiesta ed i presupposti fattuali che la giustificano, anche in relazione alla titolarità della necessaria posizione legittimante.
È vero che la valutazione delle richieste di concessione edilizia mira, essenzialmente, ad assicurare la conformità con gli strumenti di pianificazione urbanistica. Ma non si può negare all’amministrazione comunale il compito di assicurare, comunque, un ordinato svolgimento dell’attività urbanistica, conforme all’assetto dei rapporti interprivati relativi all’area interessata dall’intervento. Assentire la realizzazione di opere edilizie a soggetti certamente privi del necessario titolo di godimento sull’immobile significherebbe alimentare il contenzioso tra le parti, con grave danno anche per l’interesse pubblico all’armonico sviluppo dell’attività di trasformazione urbanistica.
7. Ciò chiarito, si tratta di stabilire l’ampiezza e la profondità dei poteri istruttori spettanti all’amministrazione in sede di verifica del titolo di proprietà sull’immobile.
Al riguardo, si deve premettere che l’affermazione del potere di verifica del titolo di proprietà non significa affatto che l’amministrazione abbia l’obbligo incondizionato di effettuare complessi e laboriosi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti l’immobile considerato. Anzi, il principio generale del divieto di aggravamento del procedimento consente all’amministrazione di semplificare ed accelerare tutte le attività di verifica sul titolo, valorizzando gli elementi documentali forniti dalla parte interessata.
In ogni caso, non può gravare sull’amministrazione l’onere probatorio di appurare l’inesistenza di servitù o di altri vincoli reali che incidono, limitandola, sull’attitudine edificatoria dell’immobile, trattandosi di attività istruttoria eccessivamente difficile e lunga.
8. Peraltro, qualora sia acquisita la prova della esistenza di servitù di non edificare (totale o parziale), gravanti sull’immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia, l’amministrazione ha l’obbligo di valutare tale elemento ai fini del diniego del provvedimento.
Infatti, la servitù costituisce un peso imposto al fondo che conforma, limitandolo, il diritto di proprietà del titolare, anche in relazione alla pretesa edificatoria vantata nei confronti della amministrazione. Al contrario, in mancanza di adeguati elementi istruttori, ritualmente acquisiti nel corso del procedimento, la concessione edilizia è legittimamente rilasciata, ancorché sia accertata, successivamente, l’esistenza di vincoli gravanti sulla proprietà del concessionario.
In questo ambito si inserisce l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale l'eventuale mancato rispetto di una servitù pattizia preesistente non è di per sé motivo d'illegittimità della concessione edilizia rilasciata per costruire sul fondo servente, in quanto il comune non è tenuto, in sede di esame delle relative domande di concessione, a ricercare d'ufficio, né ad opporre al richiedente la pattuizioni limitative della proprietà che costui o il suo dante causa abbiano concluso con i terzi, tant'e' che la concessione stessa viene rilasciata sempre con la clausola di salvezza dei diritti di questi ultimi (Consiglio Stato sez. V, 08.04.1997, n. 329).
In tal modo, la Sezione ha esaminato una vicenda in certo modo speculare e simmetrica a quella oggetto del presente contenzioso, stabilendo che, in mancanza di elementi, l'amministrazione non ha l'obbligo di verificare l’inesistenza di diritti di servitù che limitino l’ampiezza del titolo di proprietà del richiedente. Pertanto, la concessione edilizia rilasciata in contrasto con i diritti dei terzi, non è di per sé illegittima, a meno che non sia accertato il contrasto con elementi istruttori acquisiti nel corso del procedimento.
9. Nel presente giudizio, invece, è in contestazione la legittimità non già di una concessione edilizia rilasciata, bensì del suo diniego, basato su precisi dati documentali e probatori emersi nel corso dell’istruttoria.
In tali ipotesi, l’accertata carenza degli elementi che dimostrino l’esistenza di un collegamento qualificato tra il richiedente ed il bene immobile oggetto della richiesta di concessione edilizia determina la legittimità del provvedimento di diniego.
Del resto, la Sezione ha chiarito che, ai sensi dell'art. 4 l. 28.01.1977 n. 10 e 3 l.prov. Bolzano 03.01.1978 n. 1 la concessione edilizia può essere rilasciata soltanto al proprietario dell'area o a chi abbia altrimenti titolo per richiederla; di conseguenza, pur se il rilascio della concessione avviene salvi i diritti dei terzi, il comune è tenuto a verificare l'esistenza del titolo e -in mancanza di prova di quest'ultimo- legittimamente nega il rilascio della concessione (Consiglio Stato, Sez. V, 03.09.1985 n. 279).
10. È appena il caso di osservare che la legittimità del diniego, correlato dall’accertamento di limitazioni del titolo di proprietà, emerge con particolare evidenza nell’ambito della Provincia e del comune di Bolzano, per due concorrenti ragioni:
   a) il sistema della intavolazione di diritti reali consente una rapida ed efficace verifica dell’assetto dei diritti reali insistenti sugli immobili oggetto del richiesto intervento edilizio. L’amministrazione, senza particolari appesantimenti dell’iter procedimentale, è in grado di verificare l’esistenza di limitazioni alla pretesa edificatoria dell’interessato, tenendo conto dell’efficacia costitutiva dell’iscrizione tavolare e della relativa cancellazione;
   b) il procedimento per il rilascio della concessione edilizia previsto dalla legislazione provinciale e dal regolamento comunale di Bolzano prevede una partecipazione qualificata dei “confinanti”, i quali sono in grado di indicare tempestivamente tutte le ragioni ostative al rilascio della richiesta concessione edilizia, comprese quelle relative all’ inidoneità del titolo di proprietà, limitato da diritti di servitù che incidono sulla attitudine edificatoria del suolo.
Ed è significativo che, nella concreta vicenda all’origine del presente giudizio, la determinazione negativa del comune di Bolzano non è dipesa da una autonoma decisione dell’amministrazione, ma dalla iniziativa assunta da alcuni dei proprietari confinanti con la proprietà del richiedente la concessione.
11. Contrariamente a quanto ritenuto dagli appellanti, il concetto di disponibilità dell’area ai fini del rilascio della concessione edilizia, non è circoscritto alla dimostrazione della proprietà dell’immobile, ma indica l’esistenza di una situazione giuridica che abilita il titolare a sfruttare pienamente la potenzialità edificatoria dell’immobile. Pertanto, la disponibilità manca non solo quando il richiedente non è proprietario del terreno, ma anche nei casi in cui la proprietà è limitata da diritti reali di godimento che incidono proprio sulla possibilità di edificazione del suolo.
12. Sotto altro profilo, gli appellanti deducono che il progetto non segna alcun contrasto con la servitù altius non tollendi, in quanto non prevede alcuna elevazione dell’originario fabbricato, ma solo una sistemazione degli esistenti volumi tecnici.
La censura è infondata. Infatti, dalla documentazione allegata alla richiesta, risulta che il progetto comporta un apprezzabile mutamento della volumetria complessiva del fabbricato, realizzato attraverso l’ampliamento della sagoma esterna dell’edificio, ancorché senza alterazione dell’originaria altezza (che pure già superava i limiti stabiliti dalla servitù.
In tal modo, si mira a realizzare un risultato comunque contrastante con il diritto di servitù degli interessati (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2000 n. 3525 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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