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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2019

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aggiornamento al 23.04.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 23.04.2019

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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza amministrativa ha stabilito alcune condizioni in presenza della quali si ritiene legittima la cessione di cubatura. Le suddette condizioni in sintesi attengono a:
   - ubicazione degli immobili nella stessa zona omogenea;
   - contiguità degli immobili per gli effetti urbanistici cioè ubicati della medesima zona e aventi la medesima destinazione residenziale;
   - identità delle opere di urbanizzazione, realizzate per l’intera zona, poste al servizio del fondo cedente e del fondo beneficiario della cubatura;
   - non alterazione del carico urbanistico della zona, e immutata densità territoriale complessiva, a seguito della ridistribuzione della volumetria tra i due fondi.
La contiguità viene intesa come una effettiva e significativa vicinanza, che tuttavia non implica necessariamente che gli immobili siano confinanti. La contiguità va intesa in senso giuridico piuttosto che fisico.
Nel concorso di tutte le altre sopra dette condizioni, non è di per sé causa ostativa della cessione di cubatura la sola mancanza di contiguità fisica dei fondi e la circostanza che tra essi si frappongano altri lotti (nel caso deciso dalla citata sentenza Cons. St. n. 1398/2016, i fondi sono stati ritenuti contigui per gli effetti urbanistici, sebbene posti ad distanza di 140 metri tra di loro con frapposti altri quattro lotti).
A tale giurisprudenza il Collegio ritiene di aderire, ritenendo non convincente l’opposta tesi che valuta solo l’assenza di contiguità svincolata dagli altri elementi suddetti (così Cons. St., VI, 14.04.2016 n. 1515, riferita peraltro a un caso in cui vi era una distanza di 300 metri tra i due fondi), o che ritiene ostativa l’assenza di contiguità quando una specifica norma del regolamento edilizio richieda che i fondi siano confinanti al fine dell’asservimento.

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... per la riforma della sentenza 26.03.2015 n. 885 del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia sezione staccata di Catania (Sezione Prima), resa tra le parti.
...
5. Con il primo motivo dell’appello si critica la sentenza gravata perché avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti i presupposti che considerano i due fondi contigui al fine della cessione di cubatura.
5.1. Il mezzo è infondato.
La giurisprudenza amministrativa ha stabilito alcune condizioni in presenza della quali si ritiene legittima la cessione di cubatura. Le suddette condizioni in sintesi attengono a:
   - ubicazione degli immobili nella stessa zona omogenea;
   - contiguità degli immobili per gli effetti urbanistici cioè ubicati della medesima zona e aventi la medesima destinazione residenziale;
   - identità delle opere di urbanizzazione, realizzate per l’intera zona, poste al servizio del fondo cedente e del fondo beneficiario della cubatura;
   - non alterazione del carico urbanistico della zona, e immutata densità territoriale complessiva, a seguito della ridistribuzione della volumetria tra i due fondi (Cons. St., VI, 08.04.2016 n. 1398; v. inoltre Cons. St., VI, 21.11.2016 n. 4861).
La contiguità viene intesa come una effettiva e significativa vicinanza (Cons. St., V, 23.03.2004 n. 1525), che tuttavia non implica necessariamente che gli immobili siano confinanti. La contiguità va intesa in senso giuridico piuttosto che fisico.
Nel concorso di tutte le altre sopra dette condizioni, non è di per sé causa ostativa della cessione di cubatura la sola mancanza di contiguità fisica dei fondi e la circostanza che tra essi si frappongano altri lotti (nel caso deciso dalla citata sentenza Cons. St. n. 1398/2016, i fondi sono stati ritenuti contigui per gli effetti urbanistici, sebbene posti ad distanza di 140 metri tra di loro con frapposti altri quattro lotti).
A tale giurisprudenza il Collegio ritiene di aderire, ritenendo non convincente l’opposta tesi che valuta solo l’assenza di contiguità svincolata dagli altri elementi suddetti (così Cons. St., VI, 14.04.2016 n. 1515, riferita peraltro a un caso in cui vi era una distanza di 300 metri tra i due fondi), o che ritiene ostativa l’assenza di contiguità quando una specifica norma del regolamento edilizio richieda che i fondi siano confinanti al fine dell’asservimento (così Cons. St., V, 20.08.2013 n. 4195).
5.2. Nel caso di specie il Tar ha accertato la sussistenza delle condizioni sopra richiamate e si è collocato, con la sua decisione, sulla scia della sopra citata e qui condivisa giurisprudenza del Consiglio di Stato con l’ulteriore sottolineatura che i fondi in qui in esame distano l’uno dall’altro 128 mt.
Il primo motivo della appello è quindi infondato (CGARS, sentenza non definitiva 08.04.2019 n. 314 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Sezione, conformemente ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha già avuto occasione di affermare come il concetto di contiguità non debba intendersi nel senso della adiacenza, ossia della mera continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate, bensì come effettiva e significativa vicinanza e prossimità tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura desiderata, secondo una nozione di tale requisito che, in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, guarda non alla mera condizione fisica bensì giuridica dei fondi e, dunque, al loro inserimento in uno stesso contesto territoriale, rappresentato nel caso di specie da tutte le aree ricomprese nel medesimo foglio 4 del N.C.E.U. in cui figurano le particelle interessate, con conseguente irrilevanza del solo dato numerico della distanza lineare tra i fondi medesimi, su cui, invece, sostanzialmente si concentrano le argomentazioni di parte ricorrente.
Ugualmente non appare determinante la circostanza che tra i terreni considerati vi siano strade e diversi lotti, alcuni dei quali edificati, dovendosi guardare alle caratteristiche dell’intero e più ampio ambito territoriale in cui l’area cedente e l’area ricevente sono inserite.
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Con ricorso notificato il 21.03.2013 e depositato il 29 dello stesso mese, le ricorrenti –proprietarie, ciascuna per i propri diritti, di un immobile sito nel Comune di Giardini di Naxos, via ... n. 67, consistente in un terreno distinto nel N.C.E.U. al foglio 4, particella 1622, su cui insiste un fabbricato per civile abitazione ove le stesse risiedono– impugnavano la concessione edilizia in epigrafe con cui il Comune resistente aveva autorizzato Vi. e Ca.Pa. a realizzare sul fabbricato già costruito a più riprese sul terreno di proprietà di quest’ultimi, distinto nel N.C.E.U. al foglio 4, particelle 1979, 1977 e 1975, confinante e fronteggiante quello delle ricorrenti, un ulteriore intervento volto all’esecuzione di “lavori di ampliamento in sopraelevazione”.
Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di impugnazione:
   1. Illegittimità della cessione/trasferimento di volumetria per violazione del principio di contiguità/vicinanza dei fondi; Eccesso di potere per errore dei presupposti; Violazione delle prescrizioni del P.R.G. del Comune di Giardini di Naxos in tema di densità edilizia fondiaria;
...
3. Passando, quindi, all’esame del merito della causa, il ricorso è infondato e non può, dunque, essere accolto.
Con il primo motivo di doglianza sostiene parte ricorrente che la distanza tra i due punti più vicini dell’area asservita e di quella asservente sarebbe pari a ben 128 metri lineari (in tal senso la relazione tecnica giurata a firma dell’ing. Fa., allegata al ricorso) e le aree medesime sarebbero separate da più strade e diversi lotti, alcuni liberi ed alcuni edificati, come da stralcio catastale (anch’esso in atti), con conseguente illegittimità della concessione impugnata, per mancata contiguità dei fondi interessati dalla cessione di cubatura.
Osserva al riguardo il Collegio come risulti dalla documentazione versata in atti non solo un’omogeneità urbanistica dell’area cedente e di quella ricevente, entrambe ricomprese nella medesima zona territoriale “B2” di cui al vigente P.R.G. del Comune di Giardini di Naxos (circostanza non contestata dalla ricorrente e, viepiù, avvalorata dallo stralcio di tale P.R.G. versato in atti), bensì un’uniformità in senso sostanziale dell’area territoriale nel cui ambito tali terreni si trovano, tale da far ritenere sussistente il requisito della contiguità dei fondi, di cui, invece, le ricorrenti lamentano il difetto.
La Sezione, conformemente ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha già avuto occasione di affermare come il concetto di contiguità non debba intendersi nel senso della adiacenza, ossia della mera continuità fisica tra tutte le particelle catastali interessate (in tal senso, sentenza n. 4113/2010), bensì come effettiva e significativa vicinanza e prossimità tra i fondi asserviti per raggiungere la cubatura desiderata, secondo una nozione di tale requisito che, in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, guarda non alla mera condizione fisica bensì giuridica dei fondi e, dunque, al loro inserimento in uno stesso contesto territoriale, rappresentato nel caso di specie da tutte le aree ricomprese nel medesimo foglio 4 del N.C.E.U. in cui figurano le particelle interessate, con conseguente irrilevanza del solo dato numerico della distanza lineare tra i fondi medesimi, su cui, invece, sostanzialmente si concentrano le argomentazioni di parte ricorrente.
Ugualmente non appare determinante la circostanza che tra i terreni considerati vi siano strade e diversi lotti, alcuni dei quali edificati, dovendosi guardare alle caratteristiche dell’intero e più ampio ambito territoriale in cui l’area cedente e l’area ricevente sono inserite.
Il Collegio -nel ritenere, dunque, che la legittimità della cessione di cubatura debba essere valutata caso per caso, in relazione alla realtà effettuale dei luoghi ed al carico di edificazione di detto ambito territoriale- è dell’avviso che nel caso di specie l’asservimento della potenzialità edificatoria delle particelle 1979, 1977 e 1975 alla particella 666 non alteri l’ordinato ed armonioso assetto dell’abitato, non risultando superato nei limiti massimi l’indice di densità territoriale da rapportarsi sia all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 26.03.2015 n. 885 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Soggetto tenuto al pagamento del contributo straordinario per concessioni edilizie in deroga in caso di procedimento SUAP.
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Edilizia - Concessioni in deroga – Contributo straordinario – Soggetto obbligato - Procedimento SUAP – Individuazione.
Il contributo straordinario pari almeno al 50% del maggior valore acquistato dal suolo nel caso di permesso di costruire rilasciato in deroga al p.r.g. (art. 16 comma 4, lett. d) ter, T.U. edilizia) va corrisposto anche in caso di varianti in deroga per attività produttive, nonostante le norme sul c.d procedimento SUAP non lo richiamino espressamente (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che: la previsione dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 16, comma 4, lett. d-ter, d.P.R. n. 380 del 2001, sebbene –come visto– di carattere straordinario, presenta nella materia edilizia un’applicazione generalizzata; del resto, nella disciplina dell’art. 8, d.P.R. n. 160 del 2010 risulta assente una espressa previsione in ordine all’esclusione dell’applicabilità al procedimento Suap del prelievo contributivo, necessaria al fine di ritenere integrato il criterio di specialità; così come, la medesima disciplina, piuttosto che introdurre una normativa derogatoria in materia di obbligo contributivo, non fa che limitarsi a disciplinare una modalità particolare per la presentazione della domanda e per l’espletamento del relativo procedimento di rilascio del titolo edilizio, con previsioni agevolative ai fini dell’implementazione e dello sviluppo delle attività produttive; ad ogni modo, non risulta neppure ipotizzabile una previsione di esonero totale dal contributo straordinario, atteso che la riserva di cui al comma 4-bis dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001 (“fatte salve le diverse disposizioni”), facendo riferimento solo a “quanto previsto al secondo periodo della lett. d-ter del comma 4”, riconosce alle legislazioni regionali ed agli strumenti urbanistici generali comunali un ambito di operatività limitato ai contenuti indicati in tale disposizione, individuabili esclusivamente nella percentuale di ripartizione, nelle modalità di versamento del contributo perequativo e nelle finalità di utilizzo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.04.2019 n. 2382 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. Con ricorso dinanzi al Tar Veneto (R.G. n. 1330/2017), la società Ga. s.p.a., impugnava, chiedendone l’annullamento, il provvedimento del Comune di Mirano del 31.07.2017 con il quale il dirigente del Servizio edilizia privata convenzionata dell’Area 2 comunicava che il rilascio del permesso di costruire per l’ampliamento di un fabbricato industriale in viale ... 27 era subordinato al pagamento di un contributo ai sensi dell’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 di euro 346.828,40.
Chiedeva inoltre disporsi l’accertamento della non debenza di tale contributo, nonché la condanna al risarcimento del danno derivato dal ritardo nel rilascio di detto permesso di costruire.
2. Il Tar Veneto, Sezione II, dopo aver invitato il Comune -con ordinanza del 16.02.2018- a depositare in giudizio la perizia di stima del 31.07.2017 con la quale era stato determinato il maggior valore dell’area ai fini della applicazione dell’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001, ha respinto –con sentenza 11.04.2018 n. 382- il ricorso ritenendo che la richiesta del contributo in tal modo calcolato sarebbe stata giustificata dal fatto che l’intervento edilizio richiesto comportava una variante urbanistica.
Secondo il Tribunale, in particolare, l’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001 fa riferimento ad ogni ipotesi di variante urbanistica, quindi anche a quelle approvate con la procedura dello sportello unico.
6. L’appello è infondato e deve pertanto essere respinto.
7. Con l’unico motivo di appello viene sostanzialmente riproposta la censura avanzata dalla società nel primo grado di giudizio, con cui si sostiene che l’intervento edilizio richiesto ed assentito dal Comune non dovrebbe essere assoggettato al contributo straordinario perequativo di cui all’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001 in quanto il titolo che lo assisteva era stato rilasciato ai sensi del dell’art. 7 d.P.R. 07.09.2010, n. 160, norma speciale che non prevede la possibilità di procedere alla richiesta in questione.
In particolare, ad avviso dell’appellante, l’intervento richiesto sfuggirebbe all’applicazione del d.P.R. n. 380/2001, in quanto il decreto n. 160/2010, avendo un ambito di applicazione più ristretto rispetto a quello del decreto n. 380/2001 che disciplina l’attività edilizia in generale, costituirebbe normativa speciale (e sopravvenuta). Pertanto, nel caso di specie l’intervento non sarebbe assoggettabile al pagamento del contributo richiesto, in quanto, il d.P.R. n. 160/2010, unica normativa applicabile, non prevede alcuna corresponsione di contributo in sede di rilascio del titolo abilitante la realizzazione dell’intervento produttivo, nemmeno ove esso si ponga in variante allo strumento urbanistico vigente.
7.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
7.2. Premettendo una breve ricostruzione dei fatti posti alla base del provvedimento impugnato, si rammenta che:
   i) in data 28.11.2012 la società Ga. s.p.a. presentava al Comune di Mirano domanda per l’avvio della procedura SUAP (Sportello Unico per le Attività Produttive), ai sensi degli artt. 7 e segg. d.P.R. 07.09.2010 n. 160, al fine di ottenere il provvedimento conclusivo del procedimento unico in variante allo strumento urbanistico per la realizzazione di un ampliamento del fabbricato industriale sito in viale Venezia n. 27 adibito all’attività produttiva svolta dalla stessa;
   ii) nella conferenza di servizi decisoria, tenutasi il 27.06.2013 e conclusasi l’11.07.2013, veniva rilasciato il parere favorevole alla approvazione del progetto comportante la variante urbanistica allo strumento urbanistico con annessa convenzione; variante che, con deliberazione n. 53 del 18.07.2013, veniva approvata dal Consiglio Comunale;
   iii) con nota del 30.05.2016 l’Amministrazione comunicava l’avvio del procedimento di decadenza della variante urbanistica approvata con la predetta deliberazione del Consiglio Comunale;
   iv) con nota inviata il 21.12.2016 il Comune faceva presente di ritenere che il rilascio del provvedimento conclusivo del procedimento unico dovesse essere accompagnato dalla corresponsione di un contributo straordinario ai sensi dell’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 commisurato all’aumento del valore del terreno;
   v) con provvedimento del 31.07.2017 il dirigente del Servizio edilizia privata convenzionata dell’Area 2 del Comune di Mirano subordinava il rilascio del permesso di costruire al pagamento di detto contributo, per un importo che, in base al maggior valore dell’immobile conseguito dalla variante urbanistica, ammonta ad euro 346.828,40, nonché alla sottoscrizione di convenzione urbanistica.
7.3. Ciò considerato, il Collegio rammenta che,
ai sensi dell’art. 16 (“Contributo per il rilascio del permesso di costruire”), del d.P.R. n. 380/2001, “Salvo quanto disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta la corresponsione di un contributo commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione”.
È pertanto previsto, ai fini del rilascio del titolo, il pagamento obbligatorio di un contributo, comunemente ritenuto un corrispettivo di natura non tributaria a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme di benefici che la nuova costruzione consegue ovvero una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione
(cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 30.08.2018, n. 12; Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2018, n. 1187).
Va dato atto, peraltro, che secondo la previsione del quarto comma del medesimo articolo: “l'incidenza degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle parametriche che la regione definisce per classi di comuni in relazione: … d-ter) alla valutazione del maggior valore generato da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso. Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da quest'ultima al comune stesso sotto forma di contributo straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in versamento finanziario, vincolato a specifico centro di costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche”.
Viene in tal modo previsto, più che un criterio di calcolo degli oneri di urbanizzazione “ordinari”, un ulteriore onere rapportato all’aumento di valore che le aree e gli immobili hanno conseguito per effetto di varianti urbanistiche, deroghe o mutamenti di destinazione d’uso. Si tratta, pertanto, di un “contributo straordinario” diverso ed aggiuntivo rispetto agli oneri di urbanizzazione, che va ad aggiungersi nei casi in cui a monte dell’intervento vi sia stata una determinata scelta pianificatoria di natura eccezionale.
Peraltro, con riferimento a quanto previsto dal secondo periodo della citata lettera d-ter, il comma 4-bis prevede altresì che “sono fatte salve le diverse disposizioni delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici generali comunali”.
Ai sensi del quinto comma, infine, “Nel caso di mancata definizione delle tabelle parametriche da parte della regione e fino alla definizione delle tabelle stesse, i comuni provvedono, in via provvisoria, con deliberazione del consiglio comunale, secondo i parametri di cui al comma 4, fermo restando quanto previsto dal comma 4-bis”.
7.3.1. Parallelamente, occorre considerare che, ai sensi dell'articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133, è stato adottato il d.P.R. 07.09.2010, n. 160 “regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive” che, all’art. 8 (rubricato “Raccordi procedimentali con strumenti urbanistici”), prevede la possibilità per l'interessato, nei comuni in cui lo strumento urbanistico non individua aree destinate all'insediamento di impianti produttivi o individua aree insufficienti (fatta salva l'applicazione della relativa disciplina regionale), di richiedere al responsabile del SUAP la convocazione di apposita conferenza di servizi.
Si prevede altresì che, nel caso in cui l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ed ove sussista l'assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale viene sottoposto alla votazione del Consiglio comunale per l’approvazione.
7.4. Alla luce di tale compendio normativo, risulta al Collegio che il Comune di Mirano abbia fatto corretta applicazione della richiamata disciplina,
dovendo escludersi che l’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 costituisca norma speciale derogatoria e pertanto che, essendo quest’ultima priva di una previsione in merito alla esistenza dell’obbligo contributivo, sia intenzionalmente diretta ad impedirne la vigenza. Invero:
   a)
la previsione dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 16, comma 4, lett. d-ter, d.P.R. n. 380/01, sebbene –come visto– di carattere straordinario, presenta nella materia edilizia un’applicazione generalizzata;
   b) del resto,
nella disciplina dell’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010, invocata dall’appellante, risulta assente una espressa previsione in ordine all’esclusione dell’applicabilità al procedimento Suap del prelievo contributivo, necessaria al fine di ritenere integrato il criterio di specialità;
   c) così come,
la medesima disciplina, piuttosto che introdurre una normativa derogatoria in materia di obbligo contributivo, non fa che limitarsi a disciplinare una modalità particolare per la presentazione della domanda e per l’espletamento del relativo procedimento di rilascio del titolo edilizio, con previsioni agevolative ai fini dell’implementazione e dello sviluppo delle attività produttive;
   d) ad ogni modo,
non risulta neppure ipotizzabile una previsione di esonero totale dal contributo straordinario, atteso che la riserva di cui al comma 4-bis dell’art. 16 d.PR. n. 380/2001 (“fatte salve le diverse disposizioni”), facendo riferimento solo a “quanto previsto al secondo periodo della lett. d-ter del comma 4”, riconosce alle legislazioni regionali ed agli strumenti urbanistici generali comunali un ambito di operatività limitato ai contenuti indicati in tale disposizione, individuabili esclusivamente nella percentuale di ripartizione, nelle modalità di versamento del contributo perequativo e nelle finalità di utilizzo.
7.5. Deve pertanto concludersi che
al rilascio del permesso di costruire, intervenuto in seguito all’approvazione della variante urbanistica SUAP, trova applicazione, anche nella Regione Veneto, l’obbligo di pagamento del contributo straordinario generato dal maggior valore dell’area. L’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001, invero, trova applicazione indistintamente per tutti i procedimenti che comportano un maggior valore generato dall’area da interventi su aree o immobili in variante urbanistica, non facendo eccezione quello tenuto mediante attivazione del procedimento SUAP.
7.5.1. Del resto, in questo senso depone anche il tenore della circolare regionale Veneto n. 1 del 20.01.2015 (“procedure urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività produttive e disposizioni in materia urbanistica, di edilizia residenziale pubblica”, in B.U.R. n. 13 del 03.02.2015), esplicativa della l.r. Veneto n. 55/2012 in materia di SUAP, secondo cui anche in ipotesi di permesso a costruire rilasciato dal SUAP in variante al PRG su area da trasformarsi da agricola in destinazione produttiva, occorre condizionare il rilascio alla sottoscrizione della convenzione e dell’ottemperanza a tutte le condizioni e prescrizioni nella stessa fissate, “nonché della corretta corresponsione del pagamento del contributo di costruzione ex art. 16 del DPR 380/2001 secondo gli importi e le modalità fissati dal Comune”.
8. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Il comma 4, lett. d-ter), dell'art. 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 fa riferimento ad ogni ipotesi di variante urbanistica ossia anche alle varianti approvate con la procedura dello sportello unico (suap).
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... per l'annullamento:
   1) del provvedimento 31.07.2017 con il quale il Dirigente del Servizio Edilizia Privata Convenzionata dell'Area 2 del Comune di Mirano ha comunicato che il rilascio del permesso di costruire per l'ampliamento di un fabbricato industriale in viale ... 27 era subordinato al pagamento di un contributo ai sensi dell'art. 16, comma 4, lett. d)-ter, DPR 06.06.2001 n. 380 di Euro 346.828,40;
   2) accertamento della non debenza del contributo di cui sub. 1) per il rilascio del permesso di costruire;
   3) risarcimento del danno derivato dal ritardo nel rilascio del permesso di costruire di cui sub. 1).
...
Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento che subordina il rilascio del permesso di costruire al pagamento dell’importo del contributo di costruzione determinato in base al maggior valore dell'immobile derivante dalla variante urbanistica ai sensi dell'art. 16, comma 4, lett. d-ter), DPR 06.06.2001 n. 380 di Euro 346.828,40.
Il ricorso è infondato, essendo il contributo richiesto in relazione ad intervento in variante urbanistica. Il comune di Mirano ha fatto corretta applicazione del quarto comma, lettera d-ter, dell'art. 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 che fa riferimento ad ogni ipotesi di variante urbanistica ossia anche alle varianti approvate con la procedura dello sportello unico, come nel caso di specie. È stato correttamente richiesto un contributo straordinario nella misura del 50 per cento dell'aumento di valore dell'area.
Ne consegue anche l'infondatezza della domanda risarcitoria (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 11.04.2018 n. 382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

APPALTI: Sulla censura circa il mancato utilizzo di una centrale di committenza o di un’aggregazione ex art. 37, comma 3, del Dlgs. 50/2016 sul presupposto che, in relazione al valore della gara, il Comune dovrebbe essere considerato una stazione appaltante priva dei requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del Dlgs. 50/2016.
Per quanto riguarda i requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del Dlgs. 50/2016, finché non sarà approvata la disciplina attuativa di tale norma non vi sono i presupposti per formulare un giudizio di inadeguatezza della stazione appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale, previa iscrizione nell’anagrafe unica dell’ANAC, può bandire e gestire come autonoma stazione appaltante tutte le procedure di gara a cui sia interessato, senza che questo possa mettere a rischio l’aggiudicazione.
Occorre infatti sottolineare che la violazione del principio di aggregazione e centralizzazione delle committenze, anche nei casi previsti dall’art. 37, comma 4, del Dlgs. 50/2016, non è sanzionabile con l’annullamento dell’intera procedura di gara in mancanza di parametri precostituiti che consentano di misurare la sproporzione tra la complessità della procedura e le competenze tecniche della stazione appaltante.
Questi parametri potranno essere forniti solo dal decreto che individuerà i requisiti tecnico-organizzativi di cui all’art. 38, comma 2, del Dlgs. 50/2016 per l’iscrizione nell’elenco delle stazioni appaltanti qualificate.
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1. Il Comune di Remedello ha pubblicato all’albo pretorio on-line dal 27.04.2018 al 15.06.2018 un avviso esplorativo per sollecitare manifestazioni di interesse alla partecipazione a una procedura negoziata ex art. 36, comma 2-b, del Dlgs. 18.04.2016 n. 50 per la concessione trentennale della gestione della farmacia comunale.
2. Nel suddetto avviso, il valore annuo della concessione è stato indicato in € 154.000 (IVA esclusa). È stato inoltre precisato che il Comune intende incamerare una parte di questo valore mediante un triplice prelievo: (a) sotto forma di contributo una tantum al momento dell’aggiudicazione (€ 40.000); (b) con un canone annuo indicizzato (€ 2.000); (c) con un canone annuo di gestione in percentuale sul volume di affari annuo della farmacia, nella misura indicata nell’offerta e comunque non inferiore allo 0,5% (oltre all’IVA) che costituisce la base di gara.
3. Come puntualmente ricordato nell’avviso esplorativo, la società titolare dell’unica farmacia privata esistente nel territorio comunale aveva impugnato l’istituzione della farmacia comunale davanti al TAR Brescia, il quale con sentenza n. 313 del 06.03.2017 ha respinto il ricorso. È pendente l’appello in Consiglio di Stato (RG 4305/2017), ma senza sospensione della sentenza di primo grado.
4. In esito alla gara, condotta con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, il Comune, con determinazione del responsabile dell’Area Finanziaria n. 148 del 29.08.2018, ha disposto l’aggiudicazione della concessione a favore della controinteressata Mo.Fa. srl, unico soggetto a rispondere alla lettera di invito su tre che avevano manifestato interesse.
5. Contro l’aggiudicazione, e contro tutti gli atti di gara, ha proposto impugnazione ancora una volta la società titolare dell’unica farmacia privata esistente nel territorio comunale. Oltre all’annullamento degli atti impugnati è stato chiesto il risarcimento del danno.
6. Le censure sono sintetizzabili come segue:
...
   (ii) mancato utilizzo di una centrale di committenza o di un’aggregazione ex art. 37, comma 3, del Dlgs. 50/2016, sul presupposto che, in relazione al valore della gara, il Comune dovrebbe essere considerato una stazione appaltante priva dei requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del Dlgs. 50/2016;
...
Sulla qualificazione della stazione appaltante
22. Per quanto riguarda i requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del Dlgs. 50/2016, finché non sarà approvata la disciplina attuativa di tale norma non vi sono i presupposti per formulare un giudizio di inadeguatezza della stazione appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale, previa iscrizione nell’anagrafe unica dell’ANAC, può bandire e gestire come autonoma stazione appaltante tutte le procedure di gara a cui sia interessato, senza che questo possa mettere a rischio l’aggiudicazione.
23. Occorre infatti sottolineare che la violazione del principio di aggregazione e centralizzazione delle committenze, anche nei casi previsti dall’art. 37, comma 4, del Dlgs. 50/2016, non è sanzionabile con l’annullamento dell’intera procedura di gara in mancanza di parametri precostituiti che consentano di misurare la sproporzione tra la complessità della procedura e le competenze tecniche della stazione appaltante.
Questi parametri potranno essere forniti solo dal decreto che individuerà i requisiti tecnico-organizzativi di cui all’art. 38, comma 2, del Dlgs. 50/2016 per l’iscrizione nell’elenco delle stazioni appaltanti qualificate (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.03.2019 n. 266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio rileva come nelle controversie attinenti alla determinazione e alla liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione l'azione volta alla declaratoria del diritto dell'interessato alla restituzione delle somme indebitamente versate può essere proposta a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario sottratto ai termini di decadenza previsti per l’impugnazione del provvedimento amministrativo.
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Il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria.
Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante.
Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente.
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... per l'annullamento dell'ingiunzione di pagamento prot. 13731 del 13.05.2015 con la quale il Comune di Campobasso ha intimato alla ricorrente di pagare la somma integrativa di euro 141.968,10 a titolo di rate di oneri di urbanizzazione, monetizzazione degli standard, sanzioni per ritardato pagamento e interessi legali, preavvertendo che in caso di mancata percezione della suddetta somma procederà alla riscossione coattiva della stessa, di ogni atto presupposto, connesso e/o conseguente nonché per la condanna del Comune di Campobasso alla restituzione delle somme corrisposte dalla ricorrente in eccedenza rispetto a quanto dovuto a titolo di oneri di urbanizzazione costo di costruzione e monetizzazione degli standard afferenti l'intervento edilizio approvato con il permesso di costruire n. 61 del 07.06.2010, poi modificato con plurime varianti.
...
La Ed.Ed.Im. srl otteneva, in data 07.06.2010, il permesso di costruire n. 61/2010 per la realizzazione di un fabbricato destinato ad attività ricettiva–residence in Campobasso alla via ....
Successivamente con permesso di costruire n. 32 del 02.02.2011, SCIA prot. n. 17267 del 10.08.2012, SCIA prot. 24551 del 10.9.2014 e permesso di costruire n. 100 del 18.09.2014 venivano autorizzate una serie di varianti al fine di procedere al cambio di destinazione d’uso dell’intero edificio in residenziale, ad eccezione di parte del primo piano che manteneva la destinazione turistica; si procedeva, poi, alla modifica della sistemazione esterna del fabbricato e di alcuni impianti ed elementi interni.
Da ultimo, con permesso di costruire n. 100 del 18.09.2014 il Comune accordava la modifica del sottotetto ed il suo recupero a fini residenziali.
A questo punto, con il provvedimento n. 22416 del 26.10.2012, il Comune disponeva che per il cambio di destinazione d’uso assentito con la predetta SCIA la ricorrente doveva corrispondere una quota integrativa degli oneri di urbanizzazione pari ad euro 35.776,92 ed una quota di costo di costruzione pari ad euro 587,57.
Successivamente, con il provvedimento prot. n. 13731 del 13.05.2015 il Comune ingiungeva alla ricorrente il pagamento della somma di euro 141.968,10 a titolo di ratei per oneri di urbanizzazione e monetizzazione standard non pagati, oltre a sanzioni ed interessi.
...
Il ricorso è fondato per le considerazioni che seguono.
Come già sopra rilevato, la presente controversia si incentra sull’assunto della società ricorrente secondo cui gli oneri già corrisposti per la destinazione ricettivo-alberghiera dell’immobile sarebbero superiori a quelli dovuti per la nuova destinazione residenziale ottenuta grazie alle previsioni del c.d. piano casa sicché non vi sarebbe alcuna somma ulteriore da versare quanto piuttosto un credito restitutorio per la differenza versata in eccedenza.
Più nel dettaglio, a seguito del cambio di destinazione d’uso del fabbricato da ricettivo-alberghiero a residenziale, il Comune aveva erroneamente rideterminato in eccesso sia il costo di costruzione che gli oneri di urbanizzazione dovuti; anche la monetizzazione degli standard era stata determinata in maniera errata in quanto il Comune non aveva considerato né le aree già vincolate dalla ricorrente né gli standard già previsti dal PRG per la zona di intervento; non le era stato, infine, consentito di cedere, ove occorrenti, le ulteriori aree nella sua disponibilità.
Il Comune, all’opposto, riteneva dovuti gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione per il cambio di destinazione d’uso, senza possibilità di compensazioni con quanto precedentemente corrisposto, a motivo della natura speciale e derogatoria del c.d. piano casa.
Più nel dettaglio, per il cambio di destinazione d’uso del fabbricato sarebbe stato correttamente applicato il coefficiente relativo al mutamento di destinazione d’uso (euro 21,22 mq) in luogo di quello relativo a nove costruzioni per una superficie da calcolarsi correttamente in 1,686 mq. Anche l’importo richiesto per la monetizzazione degli standard sarebbe corretto atteso che l’edificio di cui è causa ricade in zona modificata da verde pubblico a zona a servizi generali cittadini che, una volta utilizzata per la costruzione di abitazioni private, cesserebbe la funzione di supporto al PRG; inoltre, a fronte della nuova destinazione residenziale –abitativa dovrebbero necessariamente essere reperite e cedute le aree a standard alla collettività ai sensi dell’art 3 del D.M. n. 1444/1968.
Ciò premesso, il Collegio, nel ribadire quanto già rilevato con propria sentenza non definitiva circa l’infondatezza delle eccezioni preliminari sollevate dal Comune, rileva come nelle controversie attinenti alla determinazione e alla liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione l'azione volta alla declaratoria del diritto dell'interessato alla restituzione delle somme indebitamente versate può essere proposta a prescindere dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario sottratto ai termini di decadenza previsti per l’impugnazione del provvedimento amministrativo (TAR L’Aquila, sez. I, 29.12.2017 n. 610).
Nel merito, giova, invece, rammentare che, ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 e salvo quanto disposto all'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di costruire comporta normalmente la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le modalità indicate nel suddetto articolo.
La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione va, inoltre, corrisposta al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può essere rateizzata.
La legge regionale Molise 11.12.2009 n. 30, infine, prevede all’art. 9, co. 3, che è dovuto per intero il contributo per gli oneri di urbanizzazione per gli interventi di mutamento di destinazione d'uso di cui all'articolo 2, commi 9 e 10, ed all'articolo 3, comma 6.
Da tale disposizione l’amministrazione resistente parrebbe trarre la conclusione che quanto già versato per gli oneri di urbanizzazione non debba essere computato e debba, invece, essere calcolato per intero il costo di costruzione e gli oneri di urbanizzazione delle varianti, senza tener conto di quanto già pagato per il progetto originario; parte ricorrente ritiene invece che l’importo da versare non possa prescindere dal conguaglio con quanto già versato, con conseguente diritto alla ripetizione in caso di conguaglio positivo.
Tra le due impostazioni il Tribunale ritiene che quest’ultima sia quella corretta.
Il Collegio aderisce infatti all’impostazione giurisprudenziale preferibile secondo cui <<il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di costruzione per le opere oggetto di una concessione in variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due titoli edilizi assentiti (concessione originaria e variante), scomputando quanto già pagato al momento del rilascio del titolo originario. Per la concessione in variante, però, la quota percentuale della parte del contributo commisurato al costo di costruzione delle opere ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e quantificate) al momento del rilascio della concessione originaria. Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente>> (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780).
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che per effetto delle varianti richieste ed ottenute a norma del Piano casa, la ricorrente avrebbe dovuto pagare nuovamente e per intero tutti gli oneri di urbanizzazione senza computare quelli già corrisposti, significherebbe riconoscere alla previsione della legge regionale una portata sanzionatoria che essa invece obiettivamente non presenta, come confermato dall’art. 1 della legge della Regione Molise 11.12.2009, n. 30 a mente del quale: <<La Regione promuove misure straordinarie per il sostegno del settore edilizio, attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostruire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, promuovere l'edilizia economica per le giovani coppie e le categorie svantaggiate e meno abbienti e l'edilizia scolastica nonché per migliorare le caratteristiche architettoniche, energetiche, tecnologiche e di sicurezza dei fabbricati>>.
Le disposizioni premiali di cui alla citata normativa hanno carattere straordinario e rispondono alla dichiarata finalità di riqualificare il patrimonio edilizio e contrastare la grave crisi economica e di tutelare i livelli occupazionali attraverso il rilancio delle attività edilizie, da attuare sui singoli edifici, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, in relazione ad un arco di tempo limitato, con casi di esclusione ben determinati (cfr. TAR Campania, sez. II, n. 1502/2013).
Stando così le cose una previsione che imponesse a chi intenda giovarsi della premialità prevista dalla legge di pagare nella sostanza due volte i medesimi oneri di urbanizzazione, si porrebbe in aperto contrasto con la finalità agevolativa e non sanzionatoria sottesa all’intervento normativo in considerazione.
Ne consegue che, in accoglimento di quanto prospettato da parte ricorrente, gli oneri di urbanizzazione e il costo di costruzione corrisposti al Comune devono essere computati nel calcolo dei corrispondenti oneri dovuti per il cambio di destinazione d’uso e, ove eccedenti rispetto a quanto dovuto per la destinazione d’uso residenziale abitativa, devono in parte qua essere restituiti alla ricorrente. In merito, la ricorrente ritiene correttamente dovuti oneri di urbanizzazione per un importo complessivo di euro 104.018,68 a fronte della somma di euro 136.703,69 indebitamente pagata all’Amministrazione invocando, quindi, il diritto alla restituzione di quanto pagato in eccesso per euro 32.688,01.
La ricorrente chiede, infine, la restituzione delle sanzioni e degli interessi pretesi indebitamente dal Comune in relazione ad una somma che il Comune avrebbe dovuto restituire per l’eccedenza anziché indebitamente pretendere.
Sul punto, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dalle risultante della relazione di verificazione all’uopo depositata dalla quale è emerso che la somma complessivamente dovuta dalla ricorrente, tenendo conto delle varianti introdotte al progetto originario, con particolare riferimento al parziale cambio di destinazione d’uso da ricettivo-alberghiero in residenziale-abitativo disposto con SCIA prot. 17267/2012, ammonta ad euro 146,453,82 (di cui euro 105.912,21 per oneri di urbanizzazione primaria e secondaria ed euro 40.541,61 per costo di costruzione): dal che deriva che, essendo stati già versati euro 194.853, 42, comprensivi di euro 4.924,26 per oneri di urbanizzazione ex SCIA n. 17267/2012, la somma in eccesso corrisposta dalla Ed.Ed. ammonta ad euro 48.399,60.
Pertanto in questi termini il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, deve dichiararsi il diritto di parte ricorrente a vedersi restituita la somma versata in eccesso sia a titolo di oneri di urbanizzazione che a titolo costo di costruzione; il Comune di Campobasso deve, quindi, essere condannato alla restituzione, in favore di parte ricorrente, della somma di euro 48.399,60 corrispondente a quanto versato a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di costruzione non dovuti cui andranno aggiunte le ulteriori rate che nelle more del giudizio la ricorrente abbia versato ove debitamente comprovate e documentate.
Parimenti, il Comune dovrà restituire quanto indebitamente corrisposto dalla ricorrente a titolo di sanzioni ed interessi legali non essendo questi più dovuti in presenza di una somma dalla stessa versata in eccedenza. Il tutto dovrà, infine, essere maggiorato degli interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del versamento sino al soddisfo (TAR Molise, sentenza 14.03.2019 n. 107 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Trasferimento coattivo di opere di urbanizzazione.
Il TAR Brescia, accertato il diritto del Comune al trasferimento della proprietà di opere di urbanizzazione che una convenzione urbanistica prevedeva che fossero realizzate dal soggetto lottizzante, a scomputo degli oneri di costruzione, e preso atto dell’inadempimento della lottizzante all’assolvimento delle obbligazioni dedotte in Convenzione, accoglie la domanda proposta ex art. 2932 c.c. determinando il trasferimento coattivo delle aree in questione e ordina al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle trascrizione stessa, nei confronti di quale che sia il soggetto risultante come proprietario e, quindi, anche degli attuali proprietari dei fondi che ne abbiano medio tempore acquisito la proprietà, trattandosi di un’obbligazione reale (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 07.03.2019 n. 227 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso, così proposto, merita accoglimento.
Preliminarmente, però, il Collegio ritiene di dover affermare la propria giurisdizione. Da tempo, ormai, la giurisprudenza ha chiarito, infatti, come “
Le convezioni o gli atti d’obbligo stipulati fra Comune e privati destinatari di concessioni edilizie non hanno specifica autonomia come fonte negoziale di regolamento dei contrapposti interessi, con la conseguenza che le controversie ad esse relative, rientrando nel campo urbanistico, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art. 16 della legge n. 10/1977 (cfr. Cass. SS.UU. Civili 20/4/2007 n. 9360)”.
Ancora più chiaramente, il giudice amministrativo d’appello ha affermato il principio secondo cui “
Qualora si discuta in ordine a inadempimenti di obblighi convenzionali di natura edilizio- urbanistica assunti in esecuzione di obblighi che per legge hanno finalità di pubblico interesse, è indubbio che dette convenzioni si inseriscano in un modulo procedimentale di diritto pubblico, tale per cui le controversie che intervengono in subiecta materia appartengono necessariamente alla giurisdizione amministrativa (cfr. Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214; Cons. Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711 e, da ultimo, Cons. Stato, 1069/2019)”.
Deve, dunque, ritenersi che rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo sia la domanda di accertamento del diritto del Comune di Valbrembo alla cessione gratuita delle aree per urbanizzazioni, nonché quella di pronuncia di una sentenza ex art. 2932 c.c., traslativa della proprietà, in quanto trattasi di domande connesse all’adempimento di obblighi collegati a una convenzione strettamente inerente all’esercizio delle funzioni autoritative avutosi con il precedente rilascio delle concessioni edilizie.
Quanto alla legittimazione passiva del soggetto intimato, si deve dare conto di come la società Pa. sia subentrata negli obblighi sottoscritti dai primi soggetti lottizzanti (la società SI. In.Im. s.r.l. e il sig. Fu.Vi.) assumendosi l’obbligo di eseguire gli impegni derivanti dalla convenzione di lottizzazione.
A tale proposito,
la giurisprudenza ha chiarito come la natura reale dell'obbligazione in esame riguardi sia i soggetti che stipulano la convenzione, che quelli che richiedono la concessione e quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (da ultimo Cass. civile, Sez. II, 27.08.2002, n. 12571).
Ne consegue che, accertato il diritto del Comune al trasferimento della proprietà delle opere di urbanizzazione che la convenzione urbanistica prevedeva che fossero realizzate dal soggetto lottizzante, a scomputo degli oneri di costruzione e preso atto dell’inadempimento dell’intimata Società all’assolvimento delle obbligazioni dedotte in Convenzione, deve accogliersi anche la domanda proposta ex art. 2932 c.c (ammissibile in ipotesi di inadempimento agli obblighi assunti in virtù di una convenzione urbanistica - ex multis TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I, 24.10.2016, n. 873) determinando il trasferimento coattivo delle aree in questione come identificate nella planimetria catastale rappresentante il documento n. 13 del Comune ricorrente, previa redazione del tipo di frazionamento, se necessario per poter, in concreto, procedere alla trascrizione.
Va quindi ordinato al competente Conservatore dei registri immobiliari di procedere alle trascrizione stessa, nei confronti di quale che sia il soggetto risultante come proprietario e, quindi, anche degli attuali proprietari dei fondi che ne abbiano acquisito la proprietà a seguito della cancellazione della società intimata dichiarata all’udienza pubblica, con esonero da ogni sua responsabilità al riguardo.
La sentenza produrrà, quindi, effetti nei confronti della società intimata, se ancora risultante quale proprietaria degli immobili, ovvero di chiunque altro sia subentrato nella proprietà stessa, trattandosi di un’obbligazione reale, che non può estinguersi con l’eventuale estinzione del soggetto proprietario.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATACertificato edilizio errato, il Comune paga per l'errore del funzionario.
Il rilascio, da parte dell'ufficio tecnico comunale, di un certificato attestante una situazione urbanistica non rispondente al Piano regolatore generale, è un fatto illecito imputabile a colpa del funzionario incaricato, e quindi riconducibile all'ente locale. L'errata attestazione determina una violazione dell'affidamento ingenerato nel privato nella correttezza dell'atto amministrativo e comporta il risarcimento del danno in favore del privato.

Questo è quanto affermato dal TRIBUNALE di Frosinone nella sentenza n. 803/2018.
La vicenda - La controversia prende le mosse da un errore commesso da un funzionario del Comune di Frosinone il quale, su richiesta dei futuri acquirenti di un terreno, rilasciava il certificato di destinazione urbanistica dell'area confondendo la zona F (servizi collettivi) con la zona CE (agricola).
In seguito, i richiedenti acquistavano tale terreno al fine di costruirvi un'abitazione compatibile con la presunta destinazione urbanistica. Tuttavia, al momento della richiesta dell'autorizzazione sismica, un diverso funzionario del Comune riteneva improcedibile l'istanza di concessione edilizia, in quanto l'area interessata incideva su una zona dedicata all'ampliamento dell'eliporto adiacente.
Gli acquirenti citavano così in giudizio l'ente locale chiedendo il risarcimento dei danni da essi subiti proprio a causa dell'errato certificato, comprensivi delle spese inutilmente sostenute correlate alla non edificabilità dell'area. Dal canto suo, il Comune si difendeva sostenendo che l'errore del suo funzionario non poteva essere considerato causalmente determinante, in quanto gli stessi acquirenti avrebbero dovuto tenere un comportamento più diligente nell'acquisto dei terreni.
La decisione - Il Tribunale accoglie la domanda degli acquirenti riconoscendo il fatto illecito del Comune, ovvero il rilascio di un certificato attestante erroneamente la vocazione edificatoria dei terreni, circostanza che ha determinato gli acquirenti a comprare il terreno e a dare luogo a tutti gli adempimenti necessari per edificare su di esso. Tale atto è senz'altro imputabile a colpa del funzionario, e quindi alla stessa Amministrazione, con conseguente «violazione dell'affidamento ingenerato nel privato dell'atto amministrativo».
Circa la quantificazione del danno poi, precisa il giudice, questo va calcolato, anche equitativamente, avuto riguardo ai costi affrontati dagli acquirenti per l'edificazione, quali spese per notaio e architetto, eziologicamente riconducibili all'errata trasposizione nei certificati di una «connotazione non rispondente alla realtà» (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: La non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia illecito e, cioè, frutto di attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere.
E' dunque evidente che, nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di legge per la sua emissione.
A maggior ragione, tale situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha conseguito.
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4. Anche il secondo motivo di ricorso risulta infondato.
Va, a tale proposito, ribadito quanto già ricordato in precedenza e, cioè, che la non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia illecito e, cioè, frutto di attività criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 37847 del 14/05/2013, Sonni, Rv. 25697101, cit.; Sez. 3, n. 40425 del 28/09/2006, Consiglio, Rv. 23703801, cit.).
E' dunque evidente che, nel caso in cui il provvedimento amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di legge per la sua emissione. A maggior ragione, tale situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha conseguito.
Appare dunque corretta la contestazione dell'art. 44, lett. b), d.RR. 380/2001, risultando invece non applicabile la residuale ipotesi di cui alla lettera a) del medesimo articolo, cui fanno riferimento i ricorrenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Con riferimento al contenuto dell'art. 6 dell'ormai abrogata legge 47/1985, riprodotto nell'art. 29 del d.P.R. 380/2001, vi è un dovere, per chi si appresta ad eseguire un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dal titolo abilitativo, ma anche quanto stabilito dalla normativa urbanistica e di piano e che detta norma ha posto delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto.
Da ciò consegue che il titolare del permesso di costruire, il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a conferire al comportamento incriminato significato "lesivo" del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di scardinare il principio di tassatività.

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La sola veste di progettista non consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto.
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5.1 È dunque sulla base di tale situazione di fatto che la Corte territoriale ha ritenuto la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, richiamando opportunamente la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha avuto modo di affermare, riferendosi al contenuto dell'art. 6 dell'ormai abrogata legge 47/1985, riprodotto nell'art. 29 del d.P.R. 380/2001, che vi è un dovere, per chi si appresta ad eseguire un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dal titolo abilitativo, ma anche quanto stabilito dalla normativa urbanistica e di piano e che detta norma ha posto delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato anche il contenuto.
Da ciò consegue, secondo detta giurisprudenza, che il titolare del permesso di costruire, il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a conferire al comportamento incriminato significato "lesivo" del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di scardinare il principio di tassatività (Sez. 3, n. 27261 del 08/06/2010, P.M. in proc. Caleprico e altri, Rv. 24807001. Conf. Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv. 26629101).
Si tratta, anche in questo caso, di principi che il Collegio condivide e che evidenziano, alla luce dei dati fattuali valorizzati dai giudici del merito, la infondatezza del motivo di ricorso.
...
13.1 Nell'unico motivo di ricorso il ricorrente osserva, sostanzialmente, che la sua posizione di mero progettista avrebbe dovuto indurre la Corte di appello ad escludere ogni responsabilità per i reati contestati, essendosi egli limitato alla redazione di un elaborato progettuale contenente una valutazione sulla fattibilità dell'opera, rispetto alla quale l'ultima decisione è rimessa alla competente amministrazione comunale.
Va rilevato, a tale proposito, come questa Corte abbia già avuto modo di osservare che la sola veste di progettista non consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione del progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002, Ridolfi, Rv. 224166. Conf. Sez. 3, n. 47271 del 22/09/2016, Ayma, non massimata).
Si tratta, ad avviso del Collegio, di un principio pienamente condivisibile, rispetto al quale le conclusioni della Corte di appello non si pongono in contrasto, avendo i giudici del gravame chiaramente specificato che il ricorrente, oltre alla mera redazione del progetto, aveva interloquito con il tecnico comunale, aveva elaborato i calcoli relativi agli indici fondiari, effettuato la valutazione relativa all'impatto paesistico e quella riguardante il patrimonio edilizio esistente, riconoscendo in ciò un decisivo contributo causale al rilascio del titolo edilizio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282).

EDILIZIA PRIVATA: L'articolo 31 d.RR. 380/2001 prevede, al nono comma, che il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordini la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita. Si tratta della medesima disposizione già contenuta nell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, rispetto alla quale va riconosciuta piena continuità normativa.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso.
All'omissione può direttamente porsi rimedio in questa sede di legittimità, emettendo direttamente il provvedimento dovuto in quanto obbligatorio ex lege ed estraneo alla discrezionalità del giudice di merito.

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18. Ricorso del Procuratore generale presso la Corte di appello
Il ricorso è fondato.
18.1 La Corte territoriale, pur subordinando la sospensione condizionale della pena nei confronti di Fe.ME. alla demolizione dell'intervento abusivo, ha comunque omesso di ordinare la demolizione delle opere medesime come stabilito dalla legge.
L'articolo 31 d.RR. 380/2001 prevede, al nono comma, che il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordini la demolizione delle opere se ancora non sia stata altrimenti eseguita. Si tratta della medesima disposizione già contenuta nell'art. 7 della legge n. 47 del 1985, rispetto alla quale va riconosciuta piena continuità normativa.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso (così, Sez. 3, n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232172).
18.2 All'omissione può direttamente porsi rimedio in questa sede di legittimità, emettendo direttamente il provvedimento dovuto in quanto obbligatorio ex lege ed estraneo alla discrezionalità del giudice di merito (v., ex pl., Sez. 3, n. 35386 del 24/05/2007, Sannino, Rv. 237536; Sez. 3, Sentenza n. 3467 del 08/11/1999, Santori, Rv. 216378; Sez. 3, Sentenza n. 768 del 24/02/1999, Scognamiglio, Rv. 213669).
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio sul punto con riferimento all'omesso ordine di demolizione delle opere abusive, impartendo l'ordine medesimo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31282).

UTILITA'

SICUREZZA LAVOROD.lgs. 09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 - TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (aprile 2019 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 18.04.2019 n. 95 "Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali, di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici" (D.L. 18.04.2019 n. 32) (segui i lavori parlamentari di conversione in legge: Atto Senato n. 1248).
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Di particolare interesse, si leggano:
  
● Art. 1. Modifiche al codice dei contratti pubblici
   ● Art. 2. Disposizioni sulle procedure di affidamento in caso di crisi di impresa
   ● Art. 3. Disposizioni in materia di semplificazione della disciplina degli interventi strutturali in zone sismiche
   ● Art. 5. Norme in materia di rigenerazione urbana

VARI: G.U. 18.04.2019 n. 95 "Disposizioni in materia di azione di classe" (Legge 12.04.2019 n. 31).

LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO: G.U. 13.04.2019 n. 88 "Approvazione del Piano nazionale per la mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della risorsa ambientale" (D.P.C.M. 20.02.2019).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 13.04.2019 n. 88 "Istituzione della Cabina di regia Strategia Italia" (D.P.C.M. 15.02.2019).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'11.04.2019, "Assegnazione dei contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1) relativi all’annualità 2019 – Definizione dei criteri e delle modalità per la liquidazione dei contributi e assunzione degli impegni di spesa per un importo pari ad € 599.500,00" (decreto D.U.O. 08.04.2019 n. 4863).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 09.04.2019 n. 84, suppl. ord. n. 16, "Ripubblicazione del testo del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, coordinato con la legge di conversione 28.03.2019, n. 26, recante: «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»".

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'08.04.2019, "Determinazione dei criteri di gestione obbligatori e delle buone condizioni agronomiche ed ambientali, ai sensi del regolamento (UE) n. 1306/2013. modifiche e integrazioni alla d.g.r. X/3351 del 01.04.2015 e smi. Regime di condizionalità per l’anno 2019" (deliberazione G.R. 01.04.2019 n. 1462).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 05.04.2019 n. 81 "Attività antincendio boschivo per il 2019. Raccomandazioni operative per un più efficace contrasto agli incendi boschivi, di interfaccia ed ai rischi conseguenti" (P.C.M., nota 01.04.2019).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 14 del 02.04.2019, "Disciplina e regimi amministrativi degli scarichi di acque reflue domestiche e di acque reflue urbane, disciplina dei controlli degli scarichi e delle modalità di approvazione dei progetti degli impianti di trattamento delle acque reflue urbane, in attuazione dell’articolo 52, commi 1, lettere a) e f-bis), e 3, nonché dell’articolo 55, comma 20, della legge regionale 12.12.2003, n. 26 (Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di risorse idriche)" (regolamento regionale 29.03.2019 n. 6).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 dell'01.04.2019, "Secondo aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 27.03.2019 n. 4179).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 29.03.2019 n. 75 "Testo del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, coordinato con la legge di conversione 28.03.2019, n. 26, recante: «Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»".

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2019, "Contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1), relativi all’annualità 2019" (deliberazione G.R. 25.03.2019 n. 1441).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2019, "Linee di indirizzo per il soccorso, recupero, trasporto e smaltimento della fauna selvatica omeoterma sul territorio regionale" (deliberazione G.R. 18.03.2019 n. 1389).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 26.03.2019, "Regolamento regionale concernente i criteri organizzativi generali, le caratteristiche dei veicoli, delle uniformi, degli strumenti di autotutela, dei simboli distintivi di grado e delle tessere personali di riconoscimento in dotazione ai corpi e ai servizi della polizia locale in attuazione dell’articolo 24, comma 1, della legge regionale 01.04.2015, n. 6 «Disciplina regionale dei servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza urbana»" (regolamento regionale 22.03.2019 n. 5).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 20.03.2019 n. 67 "Modifiche ed integrazioni al decreto 24.05.2002, recante: «Norme di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio degli impianti di distribuzione stradale di gas naturale per autotrazione»" (Ministero dell'Interno, decreto 12.03.2019).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 19.03.2019, "Approvazione della modulistica per la concessione/affitto delle alpi/malghe di proprietà pubblica" (decreto D.S. 13.03.2019 n. 3341).

ENTI LOCALI  - PUBBLICO IMPIEGO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 15.03.2019, "Modifiche agli articoli 2, 5, 11, 18 e 22, nonché all’allegato B del regolamento regionale 27.07.2009, n. 2 «Contributi alle unioni di comuni lombarde, in attuazione dell’articolo 20 della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombarde e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali)»" (regolamento regionale 13.03.2019 n. 4).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 15.03.2019, "Aggiornamento dei criteri approvati con decreto n. 53 dell’08.01.2018 per l’accertamento delle infrazioni e l’irrogazione delle sanzioni, di cui all’art. 27 della legge regionale n. 24/2006 e s.m.i., conseguenti alla trasgressione delle disposizioni per la redazione degli attestati di prestazione energetica degli edifici, in attuazione della d.g.r. 5900 del 28.11.2016" (decreto D.U.O. 12.03.2019 n. 3254).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 15.03.2019, "Registro delle Unioni di comuni lombarde. 1° aggiornamento 2019 (in attuazione della d.g.r. 27.03.2015, n. 3304)" (decreto D.S. 07.03.2019 n. 3017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Radon - Rilevazione 2019 - Adozione nei Regolamenti Edilizi Comunali del DDG n. 12678 del 12.12.2011 "Linee guida per la prevenzione delle esposizioni al gas RADON in ambienti indoor" (Regione Lombardia, nota 15.04.2019 n. 14725 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Dichiarazione “O.R.SO.” per gli impianti di trattamento rifiuti. Rifiuti gestiti nell’anno 2019 (ANCE di Bergamo, circolare 12.04.2019 n. 95).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOggetto: Pagamento del diritto annuale di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali e per le imprese che recuperano rifiuti in procedura semplificata (ANCE di Bergamo, circolare 12.04.2019 n. 94).

APPALTI: Oggetto: Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – D.Lgs. 14/2019 (ANCE di Bergamo, circolare 22.03.2019 n. 85).

SICUREZZA LAVORO: Oggetto: Dispositivi di Protezione Individuale – Adeguamento al Regolamento UE (ANCE di Bergamo, circolare 22.03.2019 n. 80).

APPALTI: Oggetto: Norme Tecniche per le Costruzioni, pubblicata la Circolare ministeriale n. 7 del 21/01/2019 (ANCE di Bergamo, circolare 22.03.2019 n. 79).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del consumo di suolo – Approvata l’integrazione del Piano Territoriale Regionale (ANCE di Bergamo, circolare 22.03.2019 n. 78).

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: passaggio in giudicato della sentenza n. 361/2013 emessa dal TAR Lombardia, sez. Brescia (Collegio Provinciale Geometri e Geometri Laureati di Bergamo, circolare 25.02.2019 n. 4/2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOggetto: Integrazione del PTR ai sensi della LR 31/2014 – approvata dal Consiglio Regionale il 19/12/2018 (Consulta Regionale Geometri e Geometri Laureati della Lombardia, nota 07.02.2019).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI: A. Zama e L. Pispero, Legittima la clausola di gradimento nei contratti di appalto (01.04.2019 - link a www.filodiritto.com).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORegolamento sugli incarichi di posizione organizzativa - Aggiornamento al CCNL 21/05/2018 - Criteri generali di conferimento e Sistema di graduazione della retribuzione di posizione - Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica (ANCI, aprile 2019).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: F. Donegani, Abusi edilizi e nullità degli atti: il punto delle Sezioni Unite (29.03.2019 - link a www.dirittopa.it).
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Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 8230 del 22.03.2019
Componendo il contrasto emerso sulla natura da attribuire alla nullità degli atti giuridici tra vivi aventi ad oggetto immobili abusivi, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione precisano che -a fronte della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo- il contratto è valido a prescindere dalla conformità o difformità della costruzione rispetto al titolo menzionato. (...continua).

APPALTI: V. Salamone, Il sistema della documentazione antimafia normativa e giurisprudenza (27.03.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). 
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Sommario:
  
Capitolo 1 - La tipologia della documentazione antimafia.
1.1 Le Fonti; 1.2 Finalità; 1.3 La dualità della documentazione antimafia; 1.4 La comunicazione; 1.5 L’informazione; 1.6 L’istituto della white list; 1.7 La banca dati nazionale unica della documentazione antimafia; 1.8 La competenza prefettizia; 1.9 Il c.d. sistema pattizio delle misure antimafia: i protocolli di legalità.
  
Capitolo 2 - Il contenuto delle informative ed il ruolo della giurisprudenza.
2.1 La funzione svolta nel sistema dalle informative antimafia; 2.2 Il principio civilistico del “più probabile che non”; 2.3 Le figure sintomatiche di infiltrazioni e condizionamenti; 2.4 Il quadro indiziario dell’infiltrazione mafiosa; 2.5 Le situazioni rilevanti; 2.6 La casistica; 2.7 I provvedimenti del giudice penale; 2.8 Gli atti relativi all’applicazione delle misure di prevenzione; 2.9 I rapporti parentali; 2.10 I contatti ed i rapporti di frequentazione; 2.11 Le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa; 2.12 La condivisione del sistema di illegalità; 2.13 La valutazione non atomistica delle circostanze; 2.14 Orientamenti (in parte) divergenti.
  
Capitolo 3 - Procedimento e contenzioso.
3.1 Documentazione antimafia e procedimento amministrativo: peculiarità; 3.2 Il contenuto motivazionale dell’informativa; 3.3 L’efficacia temporale; 3.4 Disciplina processuale; 3.5 Risarcimento danni per adozione di informativa antimafia annullata in sede giurisdizionale.
  
Capitolo 4 - Gli effetti della documentazione antimafia.
4.1 Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui rapporti in corso nel codice antimafia; 4.2 La disciplina degli effetti nei due codici dei contratti; 4.3 Interdittive antimafia e raggruppamenti temporanei di imprese; 4.4 L’estensione di efficacia delle interdittive ad opera dell’art. 89-bis del codice antimafia: le attività private soggette a potestà autorizzatoria; 4.5 Incapacità ad intrattenere rapporti con la P.A..
  
Capitolo 5 - La disciplina in tema di commissariamento delle imprese.
5.1 L'articolo 32 del decreto legge 24.06.2014 n. 90; 5.2 I presupposti per le misure straordinarie; 5.3 Competenza territoriale del Prefetto e procedimento; 5.4 La tipologia dei provvedimenti adottabili; 5.5 La cessazione degli effetti delle misure straordinarie; 5.6 I rapporti con la disciplina del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231; 5.7 La casistica giurisprudenziale.
  
Capitolo 6 - L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e 34-bis codice antimafia).
6.1. Le ragioni della disciplina innovativa della legge del 17.10.2017, n. 161; 6.2 L’amministrazione giudiziaria; 6.3 Il controllo giudiziario; 6.4 La prima giurisprudenza applicativa; 6.5 Il rapporto tra il controllo giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia.
  
Capitolo 7 - La compatibilità del sistema con i principi costituzionali e dei trattati che tutelano i diritti fondamentali.
7.1 La compatibilità con i principi costituzionali e con la disciplina dei trattati internazionali che tutelano i diritti fondamentali; 7.2 La giurisprudenza CEDU attinente; 7.3 Quadro riassuntivo.

EDILIZIA PRIVATAM. Tarantino, Anche i balconi sono rilevanti nella distanza tra gli edifici condominiali (19.03.2019 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Manufatti interrati e sanatoria paesaggistica (15.03.2019 - link a www.dirittopa.it).
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TAR Umbria, sentenza 08.01.2019 n. 15
Per il TAR Umbria un volume interrato non è ammesso all'accertamento di compatibilità paesaggistica in quanto l'articolo 167, comma 4 del Codice dei beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in sanatoria quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: G. D. Nuzzo, La nullità per l'immobile privo di titolo edilizio non si applica al preliminare di vendita La nullità per violazione dell'art. 40, L. n. 47/1985 è riferita agli atti di trasferimento ad efficacia reale (15.03.2019 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA - VARIIl decalogo del Notariato sulle nuove tutele per gli acquirenti di immobili in costruzione (14.03.2019 - link a www.notariato.it).

EDILIZIA PRIVATA: G. D. Nuzzo, Le distanze previste per i muri con vedute si applicano anche in presenza di balconi aggettanti. Anche la presenza di balconi legittima l'applicazione del DM n. 1444/1968 (26.02.2019 - link a www.condominioweb.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Iaselli, Danno erariale (21.02.2019 - link a www.altalex.com).

APPALTI - ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO PUBBLICO IMPIEGOPrincipi di vigilanza e controllo dell’Organo di revisione degli Enti locali (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, febbraio 2019).
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Indice
  
Documento n. 1 - Organo di revisione: composizione, funzionamento, programmazione e organizzazione dell’attività di revisione
1.1. COMPOSIZIONE
1.2. ACCETTAZIONE
1.3. COMPENSO
1.4. NOMINA
1.5. DURATA
1.6. INCOMPATIBILITÀ E INELEGGIBILITÀ
1.7. INSEDIAMENTO E AVVIO DELL’ATTIVITA’ DI REVISIONE
1.8. COMPORTAMENTO ETICO-PROFESSIONALE
1.9. FUNZIONAMENTO
   1.9.1. Collegialità e monocraticità
   1.9.2. Funzionamento
   1.9.3. Carte di lavoro
   1.9.4. Accesso e informativa del responsabile del servizio finanziario
   1.9.5. Votazione
   1.9.6. Assenza
   1.9.7. Conclusione dell’incarico
   1.9.8. Partecipazione
1.10. FUNZIONI
1.11. FASI DELLA REVISIONE
1.12. PROCEDURE DI REVISIONE
   1.12.1. Il campionamento di revisione
   1.12.2. Le regole di campionamento
   1.12.3. Il rischio di campionamento
   1.12.4. La determinazione dei livelli di significatività
      1.12.4.1. Metodo di campionamento
      1.12.4.2. Il campionamento per attributi nei test di conformità
      1.12.4.3. Il campionamento monetario nei test di dettaglio
   1.12.5. La proiezione degli errori
  
Documento n. 2 - Funzioni dell’Organo di revisione: attività di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza
2.1. ATTIVITÀ DI COLLABORAZIONE
2.2. PARERI OBBLIGATORI
   2.2.1. Strumenti di programmazione economico-finanziaria
2.3. PROPOSTE DI RICONOSCIMENTO DI DEBITI FUORI BILANCIO E TRANSAZIONI
2.4. TRANSAZIONI
2.5. PARERE SULLE VARIAZIONI DI BILANCIO
2.6. PARERE SULLA SALVAGUARDIA DEGLI EQUILIBRI
2.7. MODALITÀ DI GESTIONE DEI SERVIZI E PROPOSTE DI COSTITUZIONE O DI PARTECIPAZIONE AD ORGANISMI ESTERNI
2.8. PROPOSTE DI REGOLAMENTO DI CONTABILITÀ, ECONOMATO-PROVVEDITORATO, PATRIMONIO E DI APPLICAZIONE DEI TRIBUTI LOCALI
2.9. ULTERIORI PARERI OBBLIGATORI
   2.9.1. Parere su riaccertamento ordinario dei residui
- Regole da rispettare per il riaccertamento
- Eccezioni per i residui passivi
- Riclassificazione dei residui
- Analisi dei residui mantenuti
- Presupposti per il mantenimento dei residui
- Eliminazione di un residuo passivo finanziato con entrata a destinazione vincolata
- Le variazioni sul bilancio dell’esercizio precedente
- Impegni di spesa non esigibili nell’esercizio
- Le variazioni sul bilancio dell’esercizio in corso
   2.9.2. Parere sul DUP e aggiornamento al DUP
   2.9.3. Parere sul piano di rientro del disavanzo di amministrazione
   2.9.4. Parere sul piano di riequilibrio finanziario
      2.9.4.1. Il piano di riequilibrio: contenuto ed effetti
      2.9.4.2. Check list per il raggiungimento dell’obiettivo di riequilibrio pluriennale
      2.9.4.3. I controlli dell’organo di revisione
   2.9.5. Parere su variazioni bilancio in esercizio provvisorio per utilizzo avanzo vincolato
   2.9.6. Parere sulla proposta di miglioramento su beni di terzi
2.10. FUNZIONE DI VIGILANZA
   2.10.1. Certificazione bilancio di previsione e rendiconto
   2.10.2. Spese di rappresentanza
   2.10.3. Attestazione sulla relazione di fine mandato
   2.10.4. Ulteriori vincoli di finanza pubblica in materia di contenimento della spesa
      2.10.4.1. Piano triennale di contenimento della spesa di funzionamento (art. 2, commi 594–598, della legge 244/2007)
      2.10.4.2. Riduzioni costi degli apparati amministrativi (art. 6 del D.L. n. 78/2010)
      2.10.4.3. Riduzione spese per incarichi di studio e consulenza (art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010, art. 5, comma 9, del D.L. 95/2012)
      2.10.4.4. Riduzione spese per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza (art. 6, comma 8, del D.L. 78/2010)
      2.10.4.5. Divieto di effettuare spese per sponsorizzazioni (art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010)
      2.10.4.6. Riduzione spese per missioni (art. 6, comma 12, del D.L. 78/2010)
      2.10.4.7. Riduzione spese per formazione (art. 6, comma 13, del D.L. 78/2010)
      2.10.4.8. Riduzione spese per acquisto e gestione autovetture (art. 6, comma 14, del D.L. 78/2010; art. 5, comma 2, del D.L. 95/2012)
      2.10.4.9. Limiti acquisto beni immobili (art. 12 del D.L. 98/2011)
      2.10.4.10. Limiti spesa informatica (art. 1, commi da 512 a 516, Legge n. 208/2015)
      2.10.4.11. Gli incentivi per funzioni tecniche
  
Documento n. 3 - Controlli sugli atti di programmazione e sul bilancio di previsione
3.1 INTRODUZIONE
3.2. LA PROGRAMMAZIONE E IL DOCUMENTO UNICO DI PROGRAMMAZIONE
   3.2.1. I controlli sul documento unico di programmazione
3.3. I CONTROLLI GENERALI SUL BILANCIO DI PREVISIONE
3.4. I CONTROLLI SPECIFICI SUL BILANCIO DI PREVISIONE
   3.4.1. Equilibri di bilancio, anche con riferimento agli esercizi precedenti
   3.4.2. Verifica della coerenza interna, esterna e della veridicità
   3.4.3. Valutazione della manovra sulle entrate e sulle spese
   3.4.4. Ulteriori verifiche
3.5. OBBLIGHI SUCCESSIVI
  
Documento n. 4 - Controlli di regolarità amministrativo-contabile sulle entrate e sulle spese
4.1. CRITERI APPLICATIVI
4.2. LA VIGILANZA SULLA REGOLARITÀ CONTABILE, FINANZIARIA ED ECONOMICA DELLA GESTIONE
4.3. LE VERIFICHE SULLA GESTIONE DELLE ENTRATE
4.4. LE VERIFICHE SULLA GESTIONE DELLE SPESE
   4.4.1. Le verifiche sugli atti
   4.4.2. Le verifiche specifiche sui pagamenti
4.5. LE VERIFICHE SULLA TEMPESTIVITÀ DEI PAGAMENTI
4.6. I CONTROLLI SULL’UTILIZZO DEI BENI DI PROPRIETÀ DELL’ENTE LOCALE
4.7. LE IPOTESI DI IRREGOLARITÀ
  
Documento n. 5 - Controlli sul rendiconto
5.1. INTRODUZIONE
5.2. COMPLETEZZA DELLA DOCUMENTAZIONE
5.3. I CONTROLLI SUL RENDICONTO
   5.3.1. I controlli di corrispondenza e di rispetto di regole e principi contabili
   5.3.2. I controlli per attestare la corrispondenza dei risultati
   5.3.3. I controlli sul fondo cassa
   5.3.4. I controlli sull’anticipazione di tesoreria e sull’utilizzo delle entrate vincolate
   5.3.5. I controlli sul risultato di amministrazione
   5.3.6. I controlli sugli accantonamenti
   5.3.7. I controlli per gli enti in disavanzo
   5.3.8. La relazione sulla gestione
   5.3.9. I parametri di deficitarietà strutturale
5.4. IL RENDICONTO CONSOLIDATO
5.5. CONTROLLI SU EFFICIENZA ED ECONOMICITÀ DELLA GESTIONE
5.6. OBBLIGHI SUCCESSIVI
  
Documento n. 6 - Controlli sui vincoli di assunzione e sulle spese di personale
6.1. INTRODUZIONE
6.2. VERIFICHE DEI VINCOLI DELLA SPESA DI PERSONALE
6.3. VERIFICHE DELLE SPESE PER RAPPORTI DI LAVORO FLESSIBILE
6.4. VERIFICHE DELLE RISORSE DESTINATE AL TRATTAMENTO ECONOMICO ACCESSORIO
6.5. VERIFICHE IN MATERIA DI TURN OVER
6.6. CONFORMITÀ NORMATIVA ED ECONOMICO-FINANZIARIA FONDI CONTRATTAZIONE DECENTRATA
6.7. ALTRE VERIFICHE SULLE SPESE DI PERSONALE
  
Documento n. 7 - Controlli sull’indebitamento
7.1. PROPOSTE DI RICORSO ALL’INDEBITAMENTO
7.2. LIMITI ALLA FACOLTÀ DI INDEBITAMENTO
7.3. SPESE DI INVESTIMENTO
   7.3.1. Ripiano delle perdite
   7.3.2. Violazione del dettato costituzionale
7.4. LE OPERAZIONI DI INDEBITAMENTO E QUELLE CHE NON COSTITUISCONO INDEBITAMENTO
   7.4.1. Durata
   7.4.2. Rinegoziazione e conversione dei mutui
   7.4.3. Tempi di utilizzo dei finanziamenti
   7.4.4. Utilizzo economie da mutui
   7.4.5. Leasing
      7.4.5.1. Leasing in costruendo
   7.4.6. Contratto di disponibilità
7.5. MONITORAGGIO SULL’INDEBITAMENTO
7.6. LETTERA DI PATRONAGE
7.7. AUMENTO LIMITE ANTICIPAZIONE DI TESORERIA E ANTICIPAZIONE DI LIQUIDITA’ 2019
7.8. PROPOSTE SULL’UTILIZZO DI STRUMENTI DI FINANZA INNOVATIVA
   7.8.1. Partenariato pubblico-privato
   7.8.2. Contratti relativi a strumenti finanziari derivati
  
Documento n. 8 - Controlli sugli agenti contabili e verifiche di cassa
8.1. DEFINIZIONE E CONFIGURAZIONE DEGLI AGENTI CONTABILI
8.2. OBBLIGHI E ADEMPIMENTI DEGLI AGENTI CONTABILI
8.3. VERIFICHE DELL’ORGANO DI REVISIONE
8.4. CONTROLLI GENERALI
   8.4.1. Il quadro di riferimento
   8.4.2. La disciplina regolamentare
   8.4.3. L’anagrafe degli agenti contabili
   8.4.4. La rendicontazione giurisdizionale
8.5. CONTROLLI SPECIFICI
   8.5.1. La gestione del tesoriere
   8.5.2. La gestione economale (e degli altri agenti del pagamento)
   8.5.3. La gestione degli agenti dell’entrata
   8.5.4. La gestione dei consegnatari dei beni
  
Documento n. 9 - Controlli sulla gestione economico-patrimoniale, conto economico e stato patrimoniale
9.1. INTRODUZIONE
9.2. SCHEMA DI CONTO ECONOMICO
9.3. IL MODELLO DI STATO PATRIMONIALE
   9.3.1. L’inventario
9.4. CONTROLLI GENERALI
9.5. CONTROLLI SPECIFICI
   9.5.1. Controlli specifici sul Conto Economico
   9.5.2. Controlli specifici sullo Stato patrimoniale
9.6. SCRITTURE DI ASSESTAMENTO
9.7. CONTI D’ORDINE
  
Documento n. 10 - Controlli sugli organismi partecipati
10.1. L’ORGANO DI REVISIONE NEGLI ENTI LOCALI PARTECIPANTI: INQUADRAMENTO GENERALE
10.2. GLI ORGANISMI PARTECIPATI
10.3. ACQUISIZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE, VERIFICHE PRELIMINARI E VERIFICHE PERIODICHE CHE COINVOLGONO GLI EQUILIBRI DI BILANCIO DELL’ENTE LOCALE
   10.3.1. Verifiche preliminari
   10.3.2. Controlli sul modello di governance
   10.3.3. Verifiche periodiche sugli equilibri finanziari dell’ente
   10.3.4. Verifica saldi reciproci tra ente e Organismi partecipati
10.4. FLUSSI INFORMATIVI TRA L’ORGANO DI REVISIONE E GLI ORGANI DI CONTROLLO DEGLI ORGANISMI PARTECIPATI
10.5. ACQUISTO DI PARTECIPAZIONI E COSTITUZIONE DI ORGANISMI PARTECIPATI
   10.5.1. Gestione dei servizi da parte dell’ente locale
   10.5.2. Acquisto di partecipazioni e costituzione di organismi partecipati: inquadramento generale
   10.5.3. Acquisizione di partecipazioni e costituzione di aziende speciali e istituzioni
   10.5.4. Acquisizione di partecipazioni e costituzione di società a partecipazione pubblica
   10.5.5. Le attività realizzabili e le finalità perseguibili mediante le società a partecipazione pubblica
10.6. ALIENAZIONE DI UNA PARTECIPAZIONE IN UNA SOCIETÀ PUBBLICA
10.7. VERIFICHE PRELIMINARI E PERIODICHE SPECIFICHE SULLE AZIENDE SPECIALI E LE ISTITUZIONI
10.8. VERIFICHE PRELIMINARI SPECIFICHE SULLE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA
   10.8.1. La revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche
   10.8.2. Gli statuti delle società a controllo pubblico
   10.8.3. La gestione del personale
10.9. VERIFICHE PERIODICHE SPECIFICHE SULLE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE PUBBLICA
   10.9.1. La razionalizzazione periodica delle partecipazioni societarie pubbliche
   10.9.2. Le società in house
   10.9.3. Le società a partecipazione mista pubblico-privata
   10.9.4. Controlli in caso di crisi d’impresa
   10.9.5. Verifiche sull’organo amministrativo e di controllo delle società a controllo pubblico
10.10. CONTROLLI IN MATERIA DI TRASPARENZA E ANTICORRUZIONE
   10.10.1. Controlli sugli adempimenti comunicativi dell’ente locale
   10.10.2. Controlli sugli adempimenti degli Organismi partecipati
  
Documento n. 11 - Controlli sugli adempimenti fiscali
11.1. INTRODUZIONE
11.2. CONTROLLI DI CARATTERE GENERALE
11.3. VERIFICHE DEGLI ADEMPIMENTI DEL SOSTITUTO D’IMPOSTA
11.4. VERIFICHE DEGLI ADEMPIMENTI AI FINI IVA
   11.4.1. La soggettività passiva dell’ente locale: inquadramento generale
   11.4.2. Le verifiche IVA preliminari
   11.4.3. Le verifiche IVA periodiche
   11.4.4. Le verifiche IVA di corrispondenza
   11.4.5. Le altre verifiche IVA complementari
11.5. VERIFICA DEGLI ADEMPIMENTI AI FINI IRAP
   11.5.1. Le verifiche IRAP preliminari
   11.5.2. Le verifiche IRAP periodiche
11.6. FACOLTÀ DEL RILASCIO DEL VISTO DI CONFORMITÀ
11.7. OBBLIGO DELLA SOTTOSCRIZIONE DELLA DICHIARAZIONE IVA/IRAP E DEL MODELLO 770
  
Documento n. 12 - Controlli sul bilancio consolidato
12.1. INQUADRAMENTO GENERALE
12.2. LA PROCEDURA
   12.2.1. Il Gruppo Amministrazione Pubblica (GAP) e l’area di consolidamento
12.3. LE DIRETTIVE DELL’ENTE CAPOGRUPPO
12.4. L’ELIMINAZIONE DELLE OPERAZIONI INFRAGRUPPO
12.5. I CONTROLLI DA SVOLGERE SUL BILANCIO CONSOLIDATO
12.6. LA RELAZIONE SULLA GESTIONE CONSOLIDATA
12.7. LA RELAZIONE DELL’ORGANO DI REVISIONE
12.8. MANCATA REDAZIONE DEL BILANCIO CONSOLIDATO E TRASMISSIONE ALLA BDAP

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: A. Moscatelli, Il proprietario di un locale a piano terra del fabbricato condominiale può realizzare una canna fumaria che si appoggi alle parti comuni? L'uso paritario della cosa comune deve essere compatibile con la previsione della utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa cosa (30.01.2019 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: F. Donegani, Preavviso di diniego: necessario per il rigetto dell'istanza di sanatoria (28.01.2019 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.01.2019 n. 484
Il Consiglio di Stato evidenzia che la mancata comunicazione di motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria, ai sensi dell'art. 10-bis L. n. 241/1990, integra una violazione procedimentale che invalida il provvedimento finale di diniego al rilascio della sanatoria, non potendosi fare ricorso alla "sanatoria processuale" di cui all'art. 21-octies, co. 2, L. n. 241/1990. (...continua).

VARI: M. E Bagnato, Cellulari e danni alla salute: i Ministeri dovranno informare sull’uso corretto - TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 18/01/2019 n. 500 (22.01.2019 - link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: L. Spallino, Ricorso giurisdizionale: è valida la notifica a pec iscritta nell'elenco Indice PA (09.01.2019 - link a www.dirittopa.it).
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Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.12.2018 n. 7026
Il Consiglio di Stato ribalta il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, in difetto di iscrizione dell'indirizzo pec al registro PP.AA. formato dal Ministero della Giustizia, la notifica del ricorso giurisdizionale deve essere eseguita solo con le modalità cartacee a nulla rilevando l'iscrizione nell'Elenco Indice PA. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: L. Spallino, Finanziaria 2019: auto elettriche e ibride in aree pedonali e zone a traffico limitato? (06.01.2019 - link a www.dirittopa.it).
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Legge 30.12.2018, n. 145, articolo 1, comma 103
La Manovra finanziaria 2019 (legge n. 145 del 2018, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale serie generale n. 302 del 31.12.2018 S.O. n. 62) contiene una serie di misure per il settore dei trasporti, a partire dal bonus/malus ecologico per l’acquisto di nuovi veicoli. (...continua).

APPALTI: A. Narcisi, Autotutela doverosa e art. 21-nonies della l. n. 241/1990: il parere motivato dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e l’obbligo di conformazione della stazione appaltante (De Iustitia n. 4/2018- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La discrezionalità nell’annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990. 3. Annullamento d’ufficio doveroso: abusi edilizi, risparmi finanziari, violazione del diritto comunitario. L’Adunanza Plenaria n. 8/2017 sull’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi in sanatoria. 4. Dalle raccomandazioni vincolanti alla legittimazione processuale dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. 5. Il parere motivato dell’A.N.A.C. e l’attività successiva della stazione appaltante: una nuova ipotesi di autotutela doverosa? 6. Corollari: oggetto della valutazione della stazione appaltante, estensione della cognizione del giudice amministrativo e tutela dei terzi. 7. Considerazioni conclusive: l’annullamento d’ufficio della stazione appaltante come forma di “autotutela speciale”.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Pedone, G.D.P.R.: il nuovo Regolamento Privacy 2018 (De Iustitia n. 3/2018- tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Evoluzione storica del diritto alla protezione dei dati personali. 3. Il regolamento europeo 679/2016: prime criticità. 3.1. Le novità apportate dal GDPR. 3.2. Profili di continuità con il codice della privacy: abrogazione o no. 4. Uno sguardo al contenuto. 4.1. IL DPO. 5. conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Boccia, Il nuovo Codice dell’Amministrazione digitale e l’apporto del Consiglio di Stato - C. Contessa, Il Codice dell’Amministrazione digitale: la modernizzazione della P.A. e gli impulsi degli Ordinamenti sovranazionali (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Ratto Trabucco, I dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi: esperienze applicative nell’epoca della trasparenza (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).
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Sommario: 1. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi fra dinieghi grossolani e pretestuosi - 2. L’epoca della trasparenza fra informazioni al consumatore, diritto di accesso documentale e civico nonché mancata responsabilità del pubblico dipendente per diniego abnorme.

ATTI AMMINISTRATIVI: E. De Giovanni,  Il Codice dell’Amministrazione digitale: genesi, evoluzione, principi costituzionali e linee generali (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).

ATTI AMMINISTRATIVI: G. Natale, Sistemi integrati di composizione delle liti delle Pubbliche amministrazioni (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Gerardo, Il rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L. 25.03.1997 n. 67 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).
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Sommario: 1. aspetti generali - 2. Disciplina normativa - 3. ratio dell’art. 18 del d.l. 02.03.1997, n. 67 - 4. Natura giuridica della pretesa al rimborso delle spese e termini della sua azionabilità - 5. Giurisdizione sulla pretesa al rimborso delle spese di lite - 6. Natura giuridica ed ambito del giudizio di congruità del parere espresso dall'avvocatura dello Stato - 7. Contesto nel quale germina la spesa che dà diritto al rimborso - 8. Condizioni del diritto al rimborso: a) giudizio promosso nei confronti del (e non dal) dipendente pubblico, nel quale non è parte l’amministrazione di appartenenza - 9. (Segue) B) il titolare della pretesa deve avere la qualifica di dipendente di amministrazione statale - 10. (Segue) C) connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con l'assolvimento di obblighi istituzionali - 11. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità - 12. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: i) all’esito di giudizio di responsabilità civile verso terzi - 13. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: ii) all’esito di giudizio di responsabilità penale - 14. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: iii) all’esito di giudizio di responsabilità amministrativa - 15. (Segue) assenza di conflitto di interesse? - 16. anticipazione del rimborso - 17. modalità di liquidazione.

APPALTI: C. Colelli, La Corte di Giustizia UE si pronuncia sulla legittimazione all’impugnazione del bando da parte di operatori economici che non hanno partecipato alla gara - Corte di Giustizia dell’unione europea, Sez. III, sentenza 28.11.2018, C-328/17 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: F. Muccio, Procedura semplificata di autorizzazione di impianti di produzione di energie rinnovabili -c.d. “minieolico”- e tutela indiretta delle aree c.d. contermini a beni paesaggistici vincolati - Nota a Consiglio di stato, Sez. IV, sentenza 04.09.2018 n. 5181 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).

QUESITI & PARERI

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGORegolamento incentivi sponsorizzazioni.
Domanda
Chi approva il Regolamento per la disciplina delle sponsorizzazioni, in cui si prevede anche un incentivo per i dipendenti, così come previsto dall’art. 67, comma 3, lettera a) del CCNL 21/05/2018?
Risposta
Il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con il decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, fa risalire la competenza esclusiva del Consiglio comunale nell’approvazione dei regolamenti comunali, così come previsto all’art. 42, comma 2, lettera a). Il potere regolamentare dei comuni risulta disciplinato anche nell’art. 7 del medesimo TUEL.
Gli unici regolamenti che sono di competenza della Giunta sono i Regolamenti per l’Organizzazione Uffici e Servizi (ROUS), così come espressamente previsto dall’art. 48, comma 3, del TUEL.
Anche in questo caso, tra l’altro, la Giunta deve disciplinare l’organizzazione degli uffici e servizi, sulla base di criteri generali, propedeuticamente emanati dal Consiglio (ancora art. 48, co. 3, TUEL). Le materie che si possono disciplinare all’interno del ROUS sono analiticamente indicate nell’art. 89, comma 2, del TUEL e, con tutta evidenza, non vi è prevista la disciplina delle sponsorizzazioni, la cui fonte normativa va rinvenuta nell’art. 19 del Codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50); nell’articolo 119 del TUEL e, prima ancora, nell’articolo 43, della legge 27.12.1997, n. 449.
All’interno di tali regolamenti, gli enti, possono anche prevedere la possibilità di riconoscere delle incentivazioni di carattere economico nei confronti del proprio personale dipendente (dirigenti e non dirigenti), come previsto nei vari contratti nazionali del comparto.
Il parere dell’ANCI, citato nel quesito, si riferisce ad un comune che, nell’anno 2007, aveva disciplinato l’“Approvazione dei criteri per la disciplina e la gestione delle sponsorizzazioni”, con deliberazione di Giunta.
L’escamatoge
[1] di chiamarli “criteri”, anziché regolamento, a nostro modesto parere, rientra tra le varie e multiformi “tecniche elusive”, applicate negli enti per sottrarre alla competenza del Consiglio (massimo organo di indirizzo e controllo politico-amministrativo), la possibilità di poter esaminare e votare un regolamento di carattere generale, nel quale sono previste anche delle ricadute economiche per il personale.
A completamento informativo, si fa presente che gli ispettori del MEF-RGS, nello loro verifiche amministrative-contabili presso i comuni, verificano sempre che le somme previste nella parte variabile del fondo, relative ai proventi delle sponsorizzazioni, siano precedute dall’approvazione di un regolamento in Consiglio comunale.
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[1] Trovata ingegnosa, trucco, sotterfugio messo in atto con abilità e astuzia, spesso al limite della disonestà, per risolvere una situazione compromessa o uscire da una posizione difficile (17.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTILa costituzione del seggio di gara.
Domanda
Abbiamo avviato una serie di appalti (alcuni da aggiudicare con il criterio del minor prezzo altri con il sistema dell’offerta economicamente più vantaggiosa) e vorremmo sperimentare –circostanza nuova per la nostra stazione appaltante– l’istituzione di un seggio di gara per l’apertura (pur telematica) dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e delle offerte.
Ci sono regole particolari per la costituzione del seggio o la stazione appaltante è costretta a darsi uno specifico regolamento?
Risposta
La costituzione di uno specifico seggio di gara, effettivamente, diventerà momento di rilievo con le cc.dd. commissioni (esclusivamente) tecniche ovvero le commissioni scelte dall’albo dei commissari a gestione ANAC (in vigore dal 16 aprile salvo ulteriori posposizioni).
Le commissioni scelte in questo modo –ed ad onor del vero già oggi– hanno la funzione c.d. aggiudicatrice ovvero quella di valutare le offerte e “proporre” l’assegnazione dell’appalto (con rinvio degli atti al RUP per la predisposizione della proposta di aggiudicazione ed i controlli di rito). Questo, evidentemente, nel caso di appalto da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nell’appalto da aggiudicarsi con il criterio del minor prezzo, come noto, l’intero procedimento potrebbe essere condotto da un seggio di gara presieduto dal RUP.
In relazione alle “regole” per la costituzione di un seggio di gara –nel primo caso– destinato ad una verifica formale della documentazione (ed evidentemente alla sola apertura delle offerte), cos’ì come nel secondo caso dell’affidamento al minor prezzo, non risultano dal codice regole particolari.
Ciò impone al RUP ovviamente una previa verifica di eventuali regolamenti interni (che magari dispongano indicazione specifiche) e/o in leggi della regione di appartenza (ad esempio, per la regione Sardegna, la nuova legge 8/2019, l’articolo 37, comma 5, puntualizza che la commissione di gara possa svolgere anche le funzioni di verifica formale sulla documentazione ai fini dell’ammissione/esclusione dalla gara).
Disposizioni potrebbero essere fornite al RUP anche nell’ordine di servizio di nomina (ed attribuzione delle funzioni).
In difetto si ritiene che il responsabile unico del procedimento non possa esimersi dalla scelta di personale adeguato nell’individuazione del seggio.
A titolo esemplificativo, potrebbe procedere direttamente con due testimoni (due dipendenti).
Sulla nomina, nella prassi, vi sono diverse modalità operative. In certe situazioni il responsabile del servizio (che potrebbe “attribuire” tale prerogativa al RUP) procede con la formalizzazione dell’atto di nomina. Ciò, a ben vedere, può essere (o meglio dovrebbe essere) già chiarito nel bando di gara o l’atto omologo.
Sulla competenza/esperienza, è chiaro che deve trattarsi di soggetti in grado di comprendere eventuali problematiche ed essere di ausilio reale per il RUP che potrebbe essere obbligato ad attivare le forme di soccorso istruttorio (specificativo e integrativo).
Tale aspetto, come si diceva, potrebbe essere semplicemente sintentizzato nel bando con riferimento che le verifiche in parola verranno effettuate attraverso apposito seggio di gara (magari specificando le competenze) (16.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGli obblighi di trasparenza nei piccoli comuni.
Domanda
Il nostro comune è un piccolo ente, con pochi dipendenti che a stento riescono a garantire i servizi essenziali. Il decreto trasparenza consta di oltre 270 adempimenti. Ci sono delle agevolazioni in considerazione di difficoltà oggettive? Possiamo fare a meno di pubblicare qualcosa?
Risposta
Il decreto Trasparenza (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), entrato in vigore nell’aprile del 2013, sfortunatamente non gradua gli obblighi in funzione della dimensione e delle caratteristiche dell’ente, imponendo gli stessi obblighi sia a metropoli come Roma capitale che al comune di Moncenisio (29 abitanti), collocato in Piemonte.
Anche su sollecitazione di varie parti politiche, il decreto ha avuto un’importante semplificazione con il d.lgs. 97/2016 che ha visto la riduzione di molti obblighi e l’abrogazione di alcuni articoli.
Forte era l’aspettativa dei piccoli enti in seguito dell’introduzione dell’art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. 33/2013, da parte d.lgs. 97/2016, secondo cui l’Autorità Nazionale Anticorruzione può, con il Piano Nazionale Anticorruzione, prevedere misure di semplificazione per i comuni con popolazione inferiore a 15.000 abitanti.
Forte è stata anche la delusione nel leggere nell’ Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione (Delibera Anac n. 1074 del 21.11.2018 ) che la semplificazione si riduceva a:
   • possibilità di adottare un unico Piano Anticorruzione per tutti i comuni appartenenti ad un’Unione;
   • possibilità di nomina di un unico Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) per i predetti enti;
   • possibilità di assolvere l’obbligo di pubblicazione dei documenti anche mediante un link ad altro sito istituzionale ove i dati e le informazioni siano già pubblicati;
   • esenzione per gli amministratori di enti con popolazione fino a 15 mila abitanti dalla pubblicazione delle dichiarazioni reddituali e patrimoniali (art. 14, comma 1, lettera f), d.lgs 33).
Su questo solco si muove l’Autorità nazionale nella delibera 124 del 13.02.2019, in cui obbliga un piccolo comune italiano alla pubblicazione di tutti i dati, pena la segnalazione all’ufficio per i procedimenti disciplinari, all’organismo indipendente di valutazione, alla Corte dei Conti e l’irrogazione delle sanzioni previste dall’articolo 47, del decreto trasparenza.
A nulla valgono infatti le giustificazioni addotte dal sindaco del comune interessato, con riferimento alla scarsa dotazione di personale (“privo di segretario comunale titolare, con cinque dipendenti, di cui due part-time, due operai e tre impiegati negli uffici”) e di risorse finanziarie (“la situazione economica vicina al disavanzo, ha costretto a scelte di bilancio dolorose, dunque a rimandare l’attivazione del sito fino al reperimento di risorse di bilancio”) .
La “clemenza” dell’ANAC si manifesta nel tempo atteso prima di emettere il provvedimento d’ordine (un anno dal primo invito “bonario”), non potendo sottrarsi agli obblighi di vigilanza ed irrogazione delle sanzioni che la legge gli impone (16.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATAOrdinanza sindacale di rimozione manto di copertura in lastre tipo eternit di fabbricati industriali.
Ai sensi della L. n. 257/1992 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto), qualora sugli edifici si renda necessaria la rimozione dell’amianto, al ricorrere delle circostanze ivi previste, “il costo delle operazioni di rimozione dell’amianto è a carico dei proprietari degli immobili” (art. 12, c. 3).
La L.R. n. 45/2017 ha previsto che “L’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere contributi per la realizzazione degli interventi sostitutivi di rimozione dell’amianto da edifici o manufatti di proprietà privata, nel caso di inottemperanza all’ordinanza contingibile e urgente emessa dal Sindaco nei confronti dei proprietari degli edifici e dei manufatti interessati”. In attuazione di tale disposizione è stato emanato il DPReg. n. 45/2019.

Il Comune riferisce di voler avviare il procedimento per la rimozione del manto di copertura in lastre tipo eternit di due fabbricati ad uso industriale, a seguito delle risultanze del sopralluogo effettuato dall’AAS competente per territorio per la verifica dello stato di conservazione di detta copertura.
Il Comune precisa che i privati proprietari dei fabbricati hanno concesso nel 2014, con atto pubblico, un diritto di superficie sulla “porzione immobiliare ad uso lastrico solare, costituente il piano copertura” ad una Società, che, in forza del contratto, avrebbe dovuto rimuovere le lastre tipo eternit ivi presenti e costruirvi e mantenervi quattro impianti fotovoltaici e quant’altro necessario per lo svolgimento dell’attività di produzione di energia elettrica.
Nel 2016 la Società è stata dichiarata fallita dal Tribunale competente ed il diritto di superficie è entrato nella procedura fallimentare
[1].
In tale contesto, il Comune chiede a chi vada notificata l’ordinanza di rimozione del manto di copertura con lastre tipo eternit dei fabbricati industriali di cui si tratta.
Si premette che l’attività di consulenza svolta da questo Servizio consta nel fornire elementi giuridici in generale sulle questioni poste, che possano essere di ausilio agli enti locali per la soluzione, in autonomia, dei casi concreti, senza alcuna ingerenza nella valutazione degli atti inerenti alle singole fattispecie.
Per cui, preso atto dell’intenzione dell’Ente di far rimuover le coperture in eternit degli immobili di cui si tratta, a seguito della verifica compiuta dall’AAS competente, con riferimento al quesito posto circa i soggetti cui notificare l’ordinanza di rimozione, si formulano alcune riflessioni, che l’Ente potrà utilizzare per addivenire alla soluzione più opportuna del caso di interesse.
Secondo la normativa di settore, di cui alla L. 27.03.1992, n. 257, “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, qualora sugli edifici si renda necessaria la rimozione dell’amianto al ricorrere delle circostanze ivi previste
[2], “il costo delle operazioni di rimozione dell’amianto è a carico dei proprietari degli immobili” (art. 12, c. 3).
La normativa richiamata, da prendere a riferimento da parte del Comune per il procedimento di rimozione dell’amianto, individua espressamente nei proprietari i soggetti tenuti a sostenerne i costi, a prescindere dai rapporti di natura contrattuale che questi possano aver instaurato con altri privati in relazione agli immobili e da cui siano sorti altri diritti sugli stessi.
Non vi è, invero, nell’art. 12 della L. n. 257/1992, alcun riferimento, per quanto concerne l’imputazione dei costi della rimozione dell’amianto, a soggetti titolari –sugli immobili di cui si tratta– di altri diritti diversi dal diritto di proprietà.
Sembra dunque potersi ritenere –venendo al caso di specie– che l’ordinanza sindacale di rimozione del manto di copertura in lastre eternit dei fabbricati industriali vada notificata –ai sensi della normativa di settore richiamata– ai proprietari di detti immobili, a prescindere dalle vicende giuridiche che li hanno interessati, in particolare dai rapporti inter partes tra i proprietari e la ditta concessionaria del diritto di superficie sul lastrico solare, che potranno essere da questi risolti nelle opportune sedi.
Con riferimento alla posizione del Comune –cui l’attività di consulenza di questo Servizio è rivolta– si informa che la L.R. 28.12.2017, n. 45 (Legge di stabilità 2018), ha previsto, all’art. 4, comma 27, che “L’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere contributi ai Comuni per la realizzazione degli interventi sostitutivi di rimozione dell’amianto da edifici o manufatti di proprietà privata, nel caso di inottemperanza all’ordinanza contingibile e urgente emessa dal Sindaco nei confronti dei proprietari degli edifici e dei manufatti interessati”
[3].
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[1] Peraltro, il curatore fallimentare ha comunicato di essere stato autorizzato dal comitato dei creditori e con il visto del Giudice Delegato alla rinuncia alla liquidazione del diritto di superficie del manto di copertura di cui è questione, ai sensi dell’art. 104-ter, della legge fallimentare (R.D. n. 267/1942).
Viene altresì detto nel quesito che il diritto di superficie di cui si tratta è stato fatto oggetto nel 2015 di espropriazione immobiliare. In proposito, il Comune ha riferito che la procedura esecutiva nei confronti della Società è ancora in corso, ma il legale della ditta esecutrice ha fatto sapere che la sua assistita rinuncerà all’espropriazione immobiliare del diritto di superficie.
[2] Come osserva la Corte di Cassazione, la L. n. 257/1992 –posta a tutela dell’ambiente e della salut –ha vietato per il futuro la commercializzazione e l’utilizzazione di materiali costruttivi in fibrocemento, ma non ha imposto la rimozione generalizzata di tali materiali nelle costruzioni già esistenti al momento della sua entrata in vigore, prevedendo rispetto a tali costruzioni l’obbligo dei proprietari degli immobili di comunicare agli organi sanitari locali la presenza di amianto fioccato o friabile negli edifici (art. 12).
[3] In attuazione di tale disposizione, è stato emanato il DPReg. 28.03.2019, n. 54, recante: “Regolamento per la concessione dei contributi di cui all’articolo 4, comma 27 della legge regionale 28.12.2017, n. 45 (Legge di stabilità 2018) per la realizzazione da parte dei Comuni, di interventi sostitutivi di rimozione dell’amianto da edifici o manufatti di proprietà privata, nel caso di inottemperanza di ordinanze contingibili e urgenti”. Il Regolamento è pubblicato nel BUR Friuli Venezia Giulia n. 15 del 10.04.2019
 (15.04.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Risposta ai quesiti espressi in merito all’applicazione del contributo straordinario (ex art. 16 DPR 380/2001) ai sensi della D.A.L. 20.12.2018 n. 186 (Regione Emilia Romagna, nota 12.04.2019 n. 371904 di prot.).
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Al riguardo, si leggano anche:
  
deliberazione Assemblea Legislativa 20.12.2018 n. 186 recante «Disciplina del contributo di costruzione ai sensi del titolo III della legge regionale 30.07.2013, n. 15 in attuazione degli articoli 16 e 19 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380. “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”»;
   ● le slide di approfondimento;
   ● Contributo di costruzione, cosa cambia.

CONSIGLIERI COMUNALIIncompatibilità di un amministratore locale.
Non integra la causa di incompatibilità di cui all’art. 63, co. 1, num. 2), TUEL la stipulazione da parte di un amministratore comunale di un contratto di locazione con l’Ente presso cui svolge il proprio mandato elettivo, qualora le obbligazioni nascenti dal contratto concluso siano stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed escludano da parte del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di incompatibilità per un amministratore locale, titolare di un’impresa individuale, che, in quanto risultante migliore offerente nella gara indetta dall’Ente avente ad oggetto “la locazione dell’immobile, da adibire a punto di ristoro […] e delle aree adiacenti attrezzate ad uso pic-nic”, dovrebbe stipulare con l’Ente il relativo contratto.
Con riferimento alla questione posta si ritiene debba essere preso in considerazione l’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL ai sensi del quale non può ricoprire la carica di consigliere comunale “colui che, come […] titolare […] ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
In via preliminare si ricorda come un esame delle eventuali cause di incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione, rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Dal tenore letterale della disposizione sopra citata segue che la sussistenza dell’incompatibilità in riferimento richiede, quanto al requisito oggettivo, lo svolgimento di un servizio nell’interesse del comune.
Nel termine servizi si comprende “qualsiasi rapporto intercorrente con l’ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi. […] Contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza elaborazione della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione prolungata, continuativa o periodica
[1].
La Cassazione
[2] ha osservato come «la circostanza che il legislatore abbia utilizzato il termine “servizi” al plurale e senza ulteriori specificazioni e/o qualificazioni, se non quella che deve trattarsi di “servizi nell’interesse del comune”, legittima l’interprete a comprendere in esso qualsiasi tipo di “servizio” svolto nell’interesse del comune». E, ancora «l'espressione "servizi" non allude soltanto ai "servizi pubblici" locali, ivi compresi i c.d. "servizi sociali", come sono tradizionalmente intesi -gestiti in proprio dall'ente locale o affidati alla gestione di altri soggetti, pubblici o privati, ad es., mediante concessione o convenzione; relativamente ai quali ultimi, pertanto, non v'è dubbio che il soggetto concessionario o affidatario dei servizi medesimi possa versare, sussistendone le condizioni di legge, nella situazione di incompatibilità di interessi de qua- ma comprende, appunto, qualsiasi tipo di servizio svolto nell'interesse del comune».
Si è, altresì, affermato che «la formulazione assai ampia della disposizione in esame (“servizi nell’interesse del comune”) è giustificata dalla sua ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa –nel modo più ampio possibile, appunto– tutte le ipotesi, in cui la “partecipazione”, nel senso dianzi precisato, in servizi imputabili al comune –e, per ciò stesso, di interesse generale– possa dar luogo, nell’esercizio della carica del “partecipante”, eletto amministratore locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e quello generale dell’ente locale
».
Da ultimo, l’indicata sentenza afferma, anche, che «la “partecipazione” soggettivamente qualificata ivi prevista, in tanto è rilevante, in quanto dia luogo ad un conflitto di interessi, anche potenziale, che sia in concreto ravvisabile, caso per caso, alla luce della disciplina particolare che regola il servizio e la partecipazione ad esso».
Preme, al riguardo, sottolineare che la norma è, in generale, finalizzata ad evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di interessi.
La giurisprudenza, sottolineando che la ratio dell’incompatibilità risiede nell’esigenza di evitare che il medesimo soggetto venga coinvolto in due sfere di interessi potenzialmente in contrasto, ha evidenziato come tale esigenza ricorra in tutte le ipotesi in cui, per effetto di tale rapporto e dell’assunzione della carica elettiva, il soggetto venga a trovarsi, contemporaneamente, nella posizione di controllore e in quella di controllato.
[3]
Con riferimento alla fattispecie in essere risulta pertanto determinante valutare se, analizzando le clausole contenute nel bando di gara, l’effettiva consistenza dei beni dedotti in contratto ed ogni altra circostanza del caso concreto anche in base alle intenzioni delle parti, possa ritenersi integrata, anche solo potenzialmente, quella posizione di conflitto di interessi in capo all’amministratore interessato che giustificherebbe l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
[4].
Indipendentemente dal nomen iuris utilizzato per qualificare il contratto, qualora lo stesso avesse natura sostanziale di affitto di azienda[5] più facilmente potrebbe essere ricondotto alla nozione di “servizio svolto nell’interesse del comune”; quanto alla locazione essa di regola non integra la causa di incompatibilità in riferimento in quanto, come affermato dalla giurisprudenza, “le relative obbligazioni [sono] stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto, [ed] escludono da parte del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni
[6].
Nel ricordare che compete al consiglio comunale la valutazione dell’eventuale sussistenza della causa di incompatibilità del componente l’organo elettivo
[7], segue che lo stesso dovrà operare un’attenta lettura delle clausole contrattuali e delle ulteriori condizioni caratterizzanti il contratto al fine di accertare se ricorrano o meno i presupposti per l’applicabilità della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL.
Ciò -si ribadisce- a prescindere dal nomen iuris utilizzato per identificare la tipologia contrattuale oggetto di futura stipulazione e tenuto conto altresì del fatto che nemmeno la natura di locazione (anziché di affitto di azienda) del contratto può risultare di per se stessa decisiva per la soluzione della questione che ci occupa. Infatti, anche qualora si potesse ritenere di configurare la fattispecie come locazione commerciale
[8], ciò che sarebbe determinante ai fini dell’esclusione della causa di incompatibilità è, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale succitato, che le relative obbligazioni siano prestabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed escludano il controllo e la valutazione delle prestazioni da parte del Comune nonché potenziali conflitti [9].
In ultimo si rileva che, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’indicata causa di incompatibilità, è compito del Comune interrogarsi altresì circa lo scopo che intende perseguire con la conclusione del contratto in riferimento: in particolare valutando se vi sia sottesa la realizzazione di un interesse generale dell’Amministrazione comunale quale la valorizzazione turistica dell’area.
Al riguardo si segnala la norma di cui all’articolo 2 del bando di gara nella parte in cui dispone che “il locatario dovrà destinare l’immobile esclusivamente per una attività di somministrazione di alimenti e bevande ed i terreni (area pic-nic) per attività finalizzate alla fruizione turistica dell’area delle Grotte di […]” nonché l’articolo 11 dello stesso nella parte in cui individua una serie di criteri qualitativi di valutazione delle offerte tra i quali si citano i seguenti: “C) impegno a svolgere attività correlate all’offerta turistica (quali ad esempio: Organizzazione di eventi, manifestazioni, ecc.) […]; E) Migliore esperienza in attività turistiche […]”.
L’eventuale riconoscimento di tale finalità potrebbe infatti sottendere che l’affittuario/locatario “ha parte […] in servizi […] nell’interesse del comune”; da ciò conseguirebbe una situazione di potenziale conflitto di interesse con l’amministrazione comunale.
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[1] E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, Giuffrè editore, 1999, pag. 146.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Corte d’Appello di Napoli, sentenza del 07.02.2003, n. 477.
[4] Non risultano, invece, vincolanti le espressioni terminologiche utilizzate (locazione piuttosto che affitto) le quali recedono rispetto all’effettiva consistenza delle prescrizioni contenute nel bando di gara e degli altri elementi indicati.
[5] In generale, si parla di affitto quando il contratto ha per oggetto il godimento di una cosa produttiva (art. 1615, cod. civ.), mentre la locazione è il contratto col quale una parte (locatore) si obbliga a far godere all’altra (conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un determinato corrispettivo (art. 1571, cod. civ.).
Secondo consolidata giurisprudenza (fra le altre, Cassazione civile, sentenza dell’11.06.2007, n. 13683; più di recente, sempre nello stesso senso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza del 16.10.2017, n. 24276), “costituisce affitto di azienda e non locazione di immobile con pertinenze un contratto in cui i beni ceduti siano considerati, non nella loro individualità, ma nel loro complesso, in un rapporto, quindi, di interdipendenza e complementarietà con gli altri elementi, in ragione del fine economico perseguito dall'imprenditore. La differenza tra locazione di immobile (eventualmente con pertinenze) e affitto di azienda, infatti, consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l'immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nella economia del contratto, come l'oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi i quali, siano essi legati materialmente o meno all'immobile, assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all'immobile funzionalmente. Diversamente, nell'affitto di azienda, l'immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso dei beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e di complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l'oggetto del contratto è costituito dall'anzidetto complesso unitario”.
[6] Corte d’appello Reggio Calabria, 23.01.1958. Si cita anche la sentenza della Cassazione civile, sez. I, dell’11.08.1972, n. 2674 che ha ritenuto non concretare l’insorgenza della causa di incompatibilità la stipulazione di un “contratto di concessione di affitto di una cava comunale, poiché le obbligazioni nascenti dal contratto ed in esso prestabilite escludono potenziali conflitti”. Entrambe le massime sono tratte da E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, pag. 151, citato in nota 3.
[7] È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art. 41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano ritenuti necessari.
[8] Si rileva che la prescrizione di cui all’articolo 5 del bando di gara (rubricato “Durata dell’affidamento ed importo a base di gara”) fissa la durata del contratto da stipularsi in tre anni, eventualmente rinnovabili per un ulteriore triennio. Al riguardo, si segnala in via collaborativa che un tale arco temporale risulta in contrasto con la norma di cui all’articolo 27 della legge 27.07.1978, n. 392 (“Disciplina delle locazioni di immobili urbani”) la quale, al comma 1, recita: “La durata delle locazioni e sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali, commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri organismi di promozione turistica e simili”.
[9] Particolare attenzione si ritiene debba essere posta all’articolo 11 del bando di gara nella parte in cui dispone che: “L’aggiudicatario si impegna: […] a presentare annualmente al Comune un prospetto con l’indicazione delle giornate di apertura, dichiarandosi consapevole che il Comune effettuerà dei controlli e che dall’esito dei medesimi verrà valutato il rispetto delle condizioni offerte. Qualora tali condizioni non risultassero garantite potrà essere avviata la procedura per la risoluzione del contratto”. Il precedente articolo 7 del bando, infatti, prevede che l’aggiudicazione avvenga a favore dell’offerta complessiva finale più vantaggiosa sulla base di una serie di elementi di cui alcuni aventi natura qualitativa, il rispetto dei quali è rimesso al controllo dell’ente locale
 (11.04.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGORisoluzione unilaterale.
Domanda
È obbligatorio procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro al compimento dei 65 anni di età del dipendente, limite ordinamentale per gli enti pubblici ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d), della Legge 70/1975?
Risposta
Al compimento dei 65 anni di età occorre appurare l’anzianità contributiva del dipendente anche tenendo conto delle contribuzioni presenti in altre casse pensionistiche ed eventualmente non ricongiunte.
Il primo controllo da effettuare è verificare se il dipendente al 31.12.2011 aveva raggiunto requisito a pensione di cui alla Legge 247/2007 (Pre-Fornero):
   – anzianità contributiva pari a 40 anni (39 anni, 11 mesi e 16 giorni);
   – quota 96 (60 anni e 6 mesi di età con 35 anni e 6 mesi di contributi).
In caso positivo occorre collocare a riposo d’ufficio il dipendente.
Se il dipendente non ha raggiunto nessuno dei requisiti sopra esposti alla data del 31.12.2011, l’Amministrazione lo accompagna al primo traguardo utile che dovrà verificarsi al raggiungimento del diritto a pensione anticipata oppure pensione di vecchiaia (11.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIContributo ANAC e soccorso istruttorio.
Domanda
In sede di apertura della documentazione amministrativa relativa ad una procedura aperta sopra soglia comunitaria per l’affidamento di servizi, il seggio di gara rileva che l’operatore non ha allegato prova dell’avvenuto pagamento del contributo ANAC, è possibile attivare il soccorso istruttorio?
Risposta
La questione del mancato pagamento del contributo ANAC presenta profili di incertezza, in particolare per le differenti posizioni assunte dalla giurisprudenza sull’argomento, alcune anche poco condivisibili in ragione della rigidità dell’applicazione e interpretazione della previsione legislativa, soprattutto a seguito del nuovo contesto normativo in materia di contratti pubblici, avente ad oggetto ogni forma di approvvigionamento (lavori, forniture e servizi), nonché alla natura stessa dell’Autorità Nazionale Anticorruzione.
Ci si riferisce in particolare alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, n. 3950/2018, dove il Supremo Consesso ha ritenuto in primo luogo e principalmente che la l. 23.12.2005 n. 266 pone tra l’altro al comma 67 “l’obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell’offerta nell’ambito delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche” e che detta previsione legislativa appare comune una tipica espressione del brocardo “in claris non fit interpretatio” con la conseguenza che il versamento di tale contributo è caratteristica delle gare in materia di aggiudicazione della realizzazione di opere pubbliche, mentre nel caso si trattava dell’affidamento del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta comunale sulle pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni. Consentendo di fatto il soccorso istruttorio, analogamente ad altre pronunce, in quanto nella lex specialis non era stato espressamente indicato l’obbligo di versamento del contributo ANAC, a pena di esclusione.
Diverso il caso in cui la stazione appaltante si sia vincolata riportando la disciplina del bando tipo n. 1 ANAC, che al punto 12 prevede il pagamento del contributo a pena di esclusione, ai sensi dell’art. 1, comma 67, della l. 266/2005, con possibilità di attivare il soccorso istruttorio a norma dell’art. 83, comma 9, del Codice, a condizione che il pagamento sia stato già effettuato prima della scadenza del termine di presentazione dell’offerta, in quanto considerato dall’Autorità come condizione di ammissibilità dell’offerta stessa.
Nel caso riportato nel quesito ci si riferisce ad una gara sopra soglia comunitaria, rispetto alla quale si ipotizza (salvo esclusioni di legge) che la Stazione appaltante abbia utilizzato il disciplinare di gara di cui al bando tipo n. 1, con possibilità quindi di attivare il soccorso istruttorio al solo fine di consentire l’allegazione tardiva dell’attestazione di pagamento effettuata entro i termini di scadenza per la presentazione delle offerte (TAR Puglia, sez. I, n. 106/2018).

Considerato l’impatto che una tale disciplina comporta sulle procedure di gara appare opportuno cercare di regolamentare con chiarezza, anche sotto soglia il versamento del contributo ANAC, e ciò al fine di evitare problemi applicativi e consentire trattamenti unovici (10.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALIElenco dei contributi erogati nell’anno precedente.
Domanda
Ci è stato detto che è stato abrogato l’obbligo di pubblicare l’Albo dei beneficiari di provvidenze di natura economica, previsto dall’articolo 1, del d.P.R. 118/2000. Quali altri obblighi abbiamo in materia di contributi?
Risposta
Si conferma che l’obbligo previsto dall’articolo 1, del decreto Presidente della Repubblica 07.04.2000, n. 118, è stato effettivamente abrogato dall’art. 43, comma 2, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97.
Come avviene di sovente, però, nella legislazione italiana, ciò che scompare da una parte, risorge  magari sotto altro nome– in un altro provvedimento.
Nel caso di specie, per scovare la resurrezione normativa, occorre fare riferimento all’articolo 27, comma 2, del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 (cd: decreto Trasparenza), il quale testualmente prevede:
2. Le informazioni di cui al comma 1 sono riportate, nell’ambito della sezione «Amministrazione trasparente» e secondo modalità di facile consultazione, in formato tabellare aperto che ne consente l’esportazione, il trattamento e il riutilizzo ai sensi dell’art. 7, e devono essere organizzate annualmente in unico elenco per singola amministrazione.
Con una operazione meramente terminologica, il legislatore nazionale ha abrogato l’Albo, sostituendolo con l’Elenco, prevedendo, comunque, in capo alle amministrazioni di essere massimamente trasparenti –non solo pubblicando ogni singolo atto di concessione, approvato durante l’anno– ma riassumendo il totale delle loro attività erogatorie in un elenco (in formato tabella aperto) dei soggetti beneficiari degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e di attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati di importo superiore a mille euro, in ogni anno solare.
Di norma, la tempistica di compilazione e pubblicazione dell’elenco dei beneficiari, viene prevista nel regolamento comunale (obbligatorio), adottato ai sensi dell’articolo 12, della legge 07.08.1990, n. 241.
L’obbligo viene, poi, assolto pubblicando l’elenco nella sezione Amministrazione trasparente > Sovvenzioni, contributi, sussidi vantaggi economici > Atti di concessione, per la durata di anni cinque, contati dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione.
A completamento informativo, si fa presente che non pochi comuni, nella sezione Trasparenza del loro Piano Anticorruzione, hanno previsto di pubblicare, non solo i contributi superiori a 1.000 euro (come previsto dalla legge), ma anche quelli di importo inferiore, mentre altri, sempre in applicazione al concetto di accessibilità totale (articolo 1, d.lgs. 33/2013), hanno stabilito di comporre l’elenco, distinguendo i contributi in base ai vari campi di intervento.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, le materie potrebbero essere le seguenti:
   • contributi a enti ed associazioni;
  • contributi in ambito culturale, turistico e pubblica istruzione;
   • contributi in ambito sportivo;
   • contributi per eventi e manifestazioni;
   • contributi per situazioni di salute e disagio economico-sociale.
Per tale ultima categoria (contributi per salute e povertà), occorre prestare la massima attenzione alle disposizioni contenute nell’articolo 26, comma 4, del decreto Trasparenza, laddove si specifica, testualmente, che:
4. È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati.
Per garantire efficacemente la tutela dei dati personali di tali categorie di beneficiari, il Garante Privacy italiano ha più volte specificato che occorre sostituire i dati identificativi (cognome e nome, ad esempio) con dei codici sostitutivi del tipo: Utente Codice 001/2019. La stessa precauzione di tutela, ovviamente, dovrà essere preservata nella compilazione dell’elenco dei beneficiari, che si effettua annualmente (09.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGONon autorizzazione stipula CCDI.
Domanda
Può l’organo di governo non condividere l’ipotesi di Contratto integrativo e, quindi, non autorizzare il presidente della delegazione trattante di parte pubblica alla sottoscrizione del contratto definitivo?
Risposta
Il CCNL prevede una precisa procedura per la stipulazione del contratto decentrato integrativo, che si articola nelle fasi sotto riportate:
   • Nomina delegazione di parte pubblica
   • Direttive dell’organo politico: spetta al competente organo di direzione politica (giunta o altro analogo organo, in relazione alla tipologia degli enti del comparto), necessariamente ed in via preventiva, la formulazione delle direttive alla delegazione trattante, per definirne gli obiettivi strategici ed i vincoli anche di ordine finanziario.
   • Prima convocazione per l’avvio del negoziato
   • Svolgimento delle trattative
   • Firma dell’Ipotesi di contratto decentrato integrativo
   • Verifica della compatibilità degli oneri finanziari: tale controllo, di competenza dell’organo di revisione, è finalizzato non solo alla verifica della compatibilità degli oneri delle clausole del contratto decentrato con i vincoli posti dal contratto nazionale e dal bilancio dell’ente, ma anche del rispetto delle disposizioni inderogabili di norme di legge che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori.
   • Esame dell’organo di direzione politica: Il presidente della delegazione di parte pubblica trasmette l’Ipotesi di accordo e le relative relazioni (illustrativa e tecnico-finanziaria), corredate del parere positivo dell’organo di controllo, all’organo di direzione politica per la necessaria verifica, sulla base di una propria e autonoma valutazione di merito, di alcuni specifici contenuti dell’ipotesi di contratto integrativo:
a) corrispondenza alle indicazioni delle direttive, con particolare riferimento al raggiungimento dei risultati ed obiettivi ivi espressamente indicati;
b) conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai programmi generali dell’ente;
c) convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite dall’ente;
d) utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili;
e) adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi organizzativi e funzionali dell’ente;
f) coerenza dei costi del contratto integrativo con le indicazioni di carattere finanziario contenute nelle direttive e compatibilità degli stessi con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di quantificazione delle risorse;
g) rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti accessori;
   • Sottoscrizione definitiva del contratto decentrato integrativo
   • Adempimenti successivi alla sottoscrizione definitiva: invio del contratto decentrato sottoscritto definitivamente all’ARAN e al CNEL.
Quindi, di fatto, poiché l’ipotesi prima di diventare “definitiva” torna all’organo di governo, sarà sempre possibile, da parte di quest’ultimo indicare di non procedere alla stipula. Ovviamente, dovranno essere individuate precise motivazioni nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, più volt invocati dal CCNL 21.05.2018 (04.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIL’articolazione di un ufficio di supporto per il RUP.
Domanda
Il Comune intende costituire uno specifico ufficio di supporto al RUP al fine di creare dipendenti specializzati nei procedimenti di gara. Vorremmo avere un chiarimento sulla corretta articolazione di questa struttura e capire se nel caso –come il nostro– in cui il RUP non coincida con il responsabile del servizio possa effettivamente coordinare un gruppo lavoro e nominare, se del caso, anche specifici responsabili di procedimento.
Risposta
La possibilità di costituire uno specifico ufficio/servizio di supporto al RUP è una delle ipotesi effettivamente declinate nell’art. 31 al comma 9 in cui (testualmente) si dispone che “La stazione appaltante, allo scopo di migliorare la qualità della progettazione e della programmazione complessiva, può, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e nel rispetto dei limiti previsti dalla vigente normativa, istituire una struttura stabile a supporto dei RUP, anche alle dirette dipendenze del vertice della pubblica amministrazione di riferimento. Con la medesima finalità, nell’ambito della formazione obbligatoria, organizza attività formativa specifica per tutti i dipendenti che hanno i requisiti di inquadramento idonei al conferimento dell’incarico di RUP, anche in materia di metodi e strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione per l’edilizia e le infrastrutture”.
E’ evidente che anche al di là della disposizione normativa, la stazione appaltante può strutturare articolazioni come meglio ritiene opportuno (il riferimento ai vincoli normativi deve essere inteso alle limitazioni assunzionali, ovviamente, visto che non si può pensare che una disposizione simile abiliti ad assunzioni senza rispetto dei limiti fissati dal legislatore).
Dalla norma, però, emerge in modo abbastanza chiaro che tale struttura non può essere posta alle “dipendenze” del RUP, soprattutto nel caso in cui, come quello descritto, il responsabile unico del procedimento non coincida con il dirigente/responsabile del servizio dotato di poteri gestionali.
Pertanto, la struttura può essere articolata come ufficio “servente” e di collaborazione rispetto ai compiti del RUP e questi ha limitati margini (per le finalità della procedura di affidamento) di coordinamento.
A titolo esemplificativo, si può ritenere che nell’ambito dell’organico assegnato con l’ufficio possa costituire il seggio di gara, possa far predisporre atti istruttori di cui rimane, però, il responsabile finale (si pensi all’adozione dei provvedimenti di ammissione ed esclusione).
Funzioni, appunto di supporto, fermo restando che l’ufficio risulta alle dipendenze del vertice amministrativo a cui fa l’area organizzativa in cui lo stesso si trova incardinato.
Altra questione molto importante, restando in tema, è che se il RUP è un funzionario non può attribuire la nomina di responsabili di procedimento a sua volta considerato che tali prerogative appartengono al soggetto posto a capo dell’unità organizzativa (servizio, settore, area etc.) che, come detto, dispone di poteri dirigenziali/gestionali.
Ciò emerge sia dalla legge 241/1990 (art. 5) ed in certi casi anche dalla legislazione regionale (si pensi alla legge 8/2018 della regione Sardegna, art. 35, comma 6) in cui si chiarisce espressamente che la competenza sulla nomina dei responsabili di procedimento è del dirigente (03.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIPubblicazione di atti e documenti per interventi straordinari di emergenza.
Domanda
Il nostro comune ha subito i danni del terremoto ed è inserito nella lista dei 140 comuni del “cratere”, colpiti e danneggiati dal sisma del Centro Italia. Essendo soggetti a interventi straordinari di emergenza, cosa occorre pubblicare e per quanto?
Risposta
Nel Decreto Trasparenza (d.lgs. 14.03.2013, n. 33), la materia viene trattata all’interno dell’articolo 42, rubricato “Obblighi di pubblicazione concernenti gli interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente”.
In particolare, gli obblighi di pubblicità e trasparenza (comma 1) riguardano:
   a) i provvedimenti adottati, con la indicazione espressa delle norme di legge eventualmente derogate e dei motivi della deroga, nonché l’indicazione di eventuali atti amministrativi o giurisdizionali intervenuti;
   b) i termini temporali eventualmente fissati per l’esercizio dei poteri di adozione dei provvedimenti straordinari;
   c) il costo previsto degli interventi e il costo effettivo sostenuto dall’amministrazione.
Il successivo comma 1-bis, aggiunto dall’art. 10, comma 3, del d.l. 14.08.2013, n. 93, convertito in legge 15.10.2013, n. 119, prevede che i Commissari delegati, di cui all’art. 5, della legge 225/1992
[1], svolgono direttamente le funzioni di responsabili per la prevenzione della corruzione e trasparenza (RPCT).
Chiarito il quadro normativo, per la definizione degli atti, documenti e informazioni da pubblicare nel sito web del comune, nella sezione Amministrazione trasparente, occorre rifarsi al cosiddetto Albero della Trasparenza, previsto nell’Allegato 1, della delibera ANAC n. 1310, del 28.12.2016.
Per tale sottosezione di Livello 1, gli obblighi sono quelli analiticamente indicati nel comma 1, dell’art. 42, sopra citato, prevedendo di assolvere agli obblighi mediante il ricorso al formato tabellare aperto.
L’aggiornamento dei dati pubblicati deve avvenire “tempestivamente” e la durata di pubblicazione è prevista in cinque anni, contati dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti (ex art. 8, d.lgs. 33/2013).
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[1] Legge 24.02.1992, n. 225, recante “Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile”; articolo 5 – Stato di emergenza e potere di ordinanza (02.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALILe variazioni di bilancio adottate in via d’urgenza dalla giunta e l’acquisizione del parere dell’organo di revisione.
Domanda
Il nuovo revisore, da poco in carica presso il mio Ente, sostiene che sulle variazioni di bilancio adottate in via d’urgenza dalla giunta comunale sia necessaria la preventiva espressione del suo parere. In passato lo abbiamo sempre acquisito sulla sola proposta di ratifica consiliare. Qual è il comportamento corretto?
Risposta
Le variazioni oggetto del quesito sono quelle previste dall’art. 175, comma 4, del TUEL che possono essere adottate dall’organo esecutivo in via d’urgenza opportunamente motivata, salvo ratifica, a pena di decadenza, da parte dell’organo consiliare entro i sessanta giorni seguenti e comunque entro il 31 dicembre dell’anno in corso, qualora a tale data non sia scaduto il predetto termine. Il successivo comma 5 dispone che in caso di mancata o parziale ratifica del provvedimento di variazione adottato dalla giunta, il consiglio è tenuto ad adottare nei successivi trenta giorni, e comunque sempre entro il 31 dicembre dell’esercizio in corso, i provvedimenti ritenuti necessari nei riguardi dei rapporti eventualmente sorti sulla base della deliberazione non ratificata, o ratificata solo parzialmente.
Sul tema del parere dell’organo di revisione è di recente intervenuto il Cndcec (Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili) con un proprio documento del febbraio scorso. Esso giunge alla conclusione per cui il parere dell’organo di revisione deve essere espresso sulla proposta di variazione al bilancio da adottarsi da parte della giunta per motivi d’urgenza.
Non è corretta la prassi, anche se in uso presso molti enti, di acquisire il parere sulla sola proposta di deliberazione consiliare di ratifica, spesso con la giustificazione che l’urgenza di deliberare (da parte della giunta) non ha consentito di acquisire in via preventiva il parere dell’organo di revisione. Questo modus operandi è altresì suffragato da una vecchia risoluzione del Ministero dell’Interno risalente addirittura al 1995.
Tuttavia si ritiene pienamente condivisibile l’orientamento del Cndcec, anche alla luce delle conseguenze che si verrebbero a creare qualora, acquisendo il parere solo in sede di ratifica consiliare, questo fosse negativo. E’ pur vero che siamo in presenza di un parere non vincolante, sebbene obbligatorio; tuttavia l’adozione di una delibera di variazione in presenza di un parere contrario dell’organo di revisione, pur adeguatamente motivata nelle ragioni che ne determinano comunque l’adozione, è una scelta da evitare accuratamente.
Va infine evidenziato che altro comportamento diffuso è quella di adottare variazioni di giunta in via d’urgenza quando quest’ultima in realtà non sussiste o non è adeguatamente motivata nell’atto stesso o, infine, riguarda anche la variazione di poste che non nulla hanno di urgente. L’organo di revisione è chiamato a verificare la reale sussistenza delle ragioni dell’urgenza per ogni variazione coinvolta, prendendone atto nel formulare il proprio parere. E ciò proprio al fine di evitare il consolidarsi della prassi per cui la loro adozione da parte della giunta non rappresenta più un’eccezione, bensì una regola.
Comportamento, quest’ultimo, che di fatto esautorerebbe il consiglio comunale di una sua competenza, così come individuata dall’art. 42, comma 2, lett. b), del TUEL. Il Cndcec precisa inoltre che nel caso di mancata definizione dei rapporti sorti sulla base della variazione di giunta non ratificata dal consiglio comunale, i relativi oneri non possono essere inseriti nel rendiconto della gestione e dovrà pertanto essere attivata la procedura amministrativa di riconoscimento e finanziamento del debito fuori bilancio che ne deriva.
Quindi in conclusione: si acquisisca il parere del revisore sulla proposta di variazione di giunta, per la quale le ragioni d’urgenza devono sussistere realmente e per ogni posta coinvolta, inoltre le motivazioni di ognuna devono essere puntualmente riportate nella premessa dell’atto deliberativo stesso (01.04.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOComma 557 e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Il cosiddetto “scavalco di eccedenza” di cui all’art. 1, comma 557, della legge 311/2004 è da ricomprendere tra le limitazioni sul lavoro flessibile?
Risposta
Occorre evidenziare che già la Sezione delle Autonomie con la citata deliberazione n. 23/2016/QMIG ha chiarito che «se l’Ente decide di utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art. 9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo».
Quindi l’assunzione de qua, al di fuori dell’ordinario orario di lavoro del dipendente utilizzato, soggiace al limite di spesa del lavoro flessibile che ha dei parametri temporali di riferimento ben definiti. Il riferimento è la spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009 o, per le amministrazioni che nel 2009 non abbiano sostenuto spese per lavoro flessibile, il limite è computato con riferimento alla media sostenuta per la stessa finalità nel triennio 2007–2009.
Il limite di cui al predetto comma 28, dell’art. 9, D.L. n. 78/2010, conv. Legge n. 122/2010, è stato più volte confermato dal legislatore (vedasi ad esempio modifiche art. 11, comma 4-bis, D.L. n. 90/2014) con il precipuo fine di ridurre il fenomeno del precariato.
Occorre dunque distinguere tale limite, riferito all’utilizzo di forme di lavoro flessibile con l’imputazione al fondo delle risorse decentrate del salario accessorio in godimento al soggetto utilizzato parzialmente.
L’Aran, in un parere piuttosto risalente, n. 104-33C1, in risposta alla domanda rivolta da un ente per sapere se anche la quota dell’indennità di comparto del personale a tempo determinato debba essere a carico delle risorse decentrate stabili, o se potesse essere posta a carico del bilancio, ha chiarito che il personale a tempo determinato è destinatario delle stesse regole del CCNL previste per il personale a tempo indeterminato. Pertanto anche in caso di personale utilizzato ai sensi della Legge n. 311/2004 vale il criterio dell’imputazione del salario accessorio al fondo delle risorse decentrate (28.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIIl contenuto del provvedimento di esclusione.
Domanda
In relazione all’adozione di alcuni atti di esclusione, come RUP mi sono posto il problema del contenuto dei provvedimenti da pubblicare per eventuali lesioni e/o contrasti con privacy e riservatezza. Ma, in tema, in relazione a quanto precisato dall’articolo 29 quali cautele occorre adottare? E’ possibile procedere con la pubblicazione del solo verbale di gara?
Risposta
La questione posta dal RUP, e quindi dal soggetto direttamente interessato circa l’adozione dei provvedimenti di esclusione (per ANAC e giurisprudenza, come noto, il soggetto competente all’adozione dei provvedimenti in parola, così come per le ammissioni, è il responsabile unico del procedimento a prescindere dalla circostanza che coincida o meno con la figura del dirigente/responsabile del servizio), afferisce ad eventuali limiti/vincoli da rispettare in relazione al contenuto del provvedimento da pubblicare (anche) nella sezione trasparenza della stazione appaltante ai sensi e per gli effetti dell’articolo 29 del codice dei contratti.
È bene rammentare che l’obbligo in parola (appunto contenuto nell’articolo 29 del codice) dispone l’obbligo per il RUP di pubblicare “nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”.
Lo scopo, come noto, è quello di contingentare il termine di impugnazione (di trenta giorni dalla pubblicazione sempre che questa risulti esaustiva) – esaustività che, a sommesso parere, può anche essere meglio realizzata con la comunicazione ex art. 76 da fare via PEC al diretto interessato (sempre fatto salvo che non si dimostri una piena conoscenza del contenuto avvenuta in altro modo).
Pertanto, la disposizione nulla precisa circa il contenuto riferendosi, addirittura, ad una sorta di provvedimento “complessivo” sulle esclusioni (quindi avvenute durante la procedura). È prassi, ad esempio, di molte stazioni appaltanti di pubblicare i verbali di gara che contengono i riferimenti in argomento.
La norma, però, parla di provvedimento ed è tale solamente quello adottato dal RUP (e magari dal responsabile del servizio se ciò risulti chiaramente esplicitato nel bando di gara ma sempre con il coinvolgimento del responsabile unico del procedimento).
In sostanza, oggetto di comunicazione è il provvedimento vero e proprio che poi viene inviato ai sensi dell’articolo 76 del codice dei contratti.
L’operatore che partecipa alla gara è ben consapevole che i propri “dati” e/o situazione e/o dichiarazioni sono tranquillamente e normalmente accessibili.
Non solo la circostanza per cui il provvedimento di esclusione deve obbligatoriamente essere pubblicato (a pena di penalizzare la stazione appaltante circa la prerogativa del termine breve) rende lo stesso provvedimento oggetto di possibile accesso civico senza alcuna formalità se non il rispetto su eventuali scorretti trattamenti.
Per effetto di ciò, il provvedimento deve limitarsi a riportare il contenuto chiaro ed indispensabile con la specificazione della circostanza che determina l’esclusione (con contestuale comunicazione via PEC ai sensi dell’articolo 76 del codice dei contratti). Come detto, per far decorrere con successo il termine breve, dovrà essere esaustivo e rendere immediatamente comprensibili le ragioni dell’estromissione dal procedimento (27.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALILa presenza del RPCT nel Nucleo di valutazione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 15.000 abitanti e dobbiamo rinnovare la composizione del Nucleo di Valutazione, attraverso una modifica al Regolamento di Organizzazione degli Uffici e Servizi.
A un corso ci è stato detto che sarebbe bene non prevedere la presenza Segretario comunale, che è anche RPCT, in tale organismo. Sapete dirci qualcosa a riguardo?
Risposta
Con le modifiche apportate alla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), dall’art. 41, comma 1, lettera h), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sono state meglio precisate le funzioni e i compiti dell’Organismo di Valutazione (OIV) o altra struttura analoga presente negli enti locali (il Nucleo di valutazione), nell’ambito del più vasto quadro di interventi di prevenzione della corruzione.
Con le nuove disposizioni compete all’OIV o NdV:
   • validare la relazione sulle performance (art. 10, d.lgs. 150/2009), dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli programmati e alle risorse, anche per gli obiettivi sulla prevenzione della corruzione e trasparenza;
   • verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli indicati nel Piano della performance;
   • attestare l’assolvimento, da parte degli enti, degli obblighi di trasparenza (griglie annuali);
   • verificare che i PTPCT siano coerenti con gli obiettivi di programmazione strategico-gestionale;
   • esaminare la Relazione annuale del RPCT, recante i risultati dell’attività svolta in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza. Per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e documenti aggiuntivi;
   • l’ANAC, nell’ambito della propria attività di vigilanza può coinvolgere l’OIV, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasparenza.
Come si può notare, sono molte le occasioni, durante l’anno, in cui il Nucleo di valutazione, deve valutare gli atti e i documenti prodotti dal Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT), tenendo conto che, negli enti locali, di norma, il ruolo di RPCT coincide con quello di segretario comunale
[1].
Proprio per evitare possibili situazioni di conflitto d’interesse è certamente buona cosa evitare, quanto più possibile, che il segretario comunale, se è anche RPCT, faccia parte del Nucleo di Valutazione.
Tale precauzione è stata, da ultimo, ribadita dall’ANAC nell’Aggiornamento 2018, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con delibera n. 1074 del 21.11.2018 (in vigore dal 05.01.2019).
Nella Parte IV della citata delibera, rubricata “Semplificazioni per i piccoli comuni”, Paragrafo 4 – Le nuove proposte di semplificazione
[2], viene ribadito il principio che l’ANAC “ritiene non compatibile prevedere nella composizione del Nucleo di Valutazione, la figura del RPCT, in quanto verrebbe meno l’indefettibile separazione di ruoli in ambito di prevenzione del rischio corruzione che la norma riconosce a soggetti distinti ed autonomi, ognuno con responsabilità e funzioni diverse Il Responsabile si troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità di componente del Nucleo di valutazione è tenuto ad attestare l’assolvimento degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di Responsabile anche per la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte dell’amministrazione.”
Nello stesso documento l’ANAC, introduce una sorta di deroga per i piccoli comuni (quelli sotto 5.000 abitanti), prevedendo testualmente: “Tenuto conto delle difficoltà applicative che i piccoli comuni, in particolare, possono incontrare nel tenere distinte le funzioni di RPCT e di componente del nucleo di valutazione, l’Autorità auspica, comunque, che anche i piccoli comuni, laddove possibile, trovino soluzioni compatibili con l’esigenza di mantenere separati i due ruoli. Laddove non sia possibile mantenere distinti i due ruoli, circostanza da evidenziare con apposita motivazione, il ricorso all’astensione è possibile solo laddove il Nucleo di valutazione abbia carattere collegiale e il RPCT non ricopra il ruolo di Presidente”.
Premesso quanto sopra e rispondendo allo specifico quesito, alla luce delle normative sopra meglio richiamate e degli orientamenti dell’Autorità Anticorruzione, si consiglia di non prevedere la figura del segretario comunale all’interno del Nucleo di valutazione, considerando valida e logica, tale indicazione, anche nei piccoli comuni con popolazione sotto i 5.000 abitanti.
---------------
[1] Articolo 1, comma 7, legge 190/2012, come modificato dall’art. 41, comma 1, lett. f), d.lgs. 97/2016.
[2] Pagina 154
(26.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI: Concessione di contributi a favore di associazioni e di società sportive.
Posto che l’art. 12 della L. 241/1990 si limita a dettare i princìpi generali in materia di contributi, ponendo in capo alle pubbliche amministrazioni il compito di stabilire, con atto di valenza generale, i criteri e le modalità da osservare per l’adozione dei provvedimenti di concessione dei benefici, spetta al singolo ente determinarsi in proposito, tenendo conto delle indicazioni fornite dalla Corte dei conti la quale rileva, in particolare, che la facoltà degli enti territoriali di attribuire benefici patrimoniali a soggetti privati rimane comunque subordinata ai limiti imposti da disposizioni di legge dirette al contenimento della spesa pubblica ed alle prescrizioni richieste dai princìpi contabili per garantire la corretta gestione delle risorse pubbliche.
Il Comune chiede chiarimenti in merito all’erogazione di contributi economici a favore di associazioni non lucrative e di società sportive
[1] presenti sul relativo territorio.
In particolare, l’Ente locale chiede di conoscere:
   1) se, per normativa generale, al fine di erogare i contributi concessi
[2], sia necessario acquisire i bilanci delle associazioni e delle società sportive, onde verificare che i consuntivi chiudano con un disavanzo di gestione, oppure se sia possibile contribuire alle attività poste in essere da detti soggetti indipendentemente dai loro risultati economici;
   2) se vi sia autonomia regolamentare del Comune di disciplinare la materia prevedendo la liquidazione a rendiconto di contributi a soggetti giuridici per attività svolte a favore del territorio quand’anche i rendiconti gestionali di tali soggetti presentino un avanzo di amministrazione (in relazione a tutta l’attività istituzionale oppure alla singola iniziativa patrocinata e sostenuta dal Comune).
Sentito il Servizio finanza locale si esprimono le seguenti considerazioni.
La materia oggetto di trattazione trova la propria disciplina generale nell’art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, il quale sancisce che «La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi.» (comma 1), prescrivendo poi che «L’effettiva osservanza» di tali criteri e modalità «deve risultare dai singoli provvedimenti» di concessione dei benefici (comma 2)
[3].
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa rileva che:
   - la norma riveste carattere di principio generale dell’ordinamento giuridico ed in particolare della materia che governa tutti i contributi pubblici, la cui attribuzione deve essere almeno regolata da norme programmatorie che definiscano un livello minimo delle attività da finanziare
[4];
   - ai fini dell’adozione di provvedimenti volti a concedere sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le pubbliche amministrazioni si devono attenere ai criteri e alle modalità stabiliti con proprio regolamento, poiché sia la predeterminazione di detti criteri, sia la dimostrazione del loro rispetto in sede di concessione dei benefici mirano ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa
[5] e si atteggiano a principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della pubblica amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi oggettivi [6];
   - la predeterminazione dei criteri concernenti la destinazione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici, oltre a costituire corollario del principio generale di trasparenza, rappresenta la declinazione in via amministrativa delle finalità (politico-sociali o politico-economiche) che l’intervento pubblico intende perseguire
[7].
Ciò posto, si ritiene utile rammentare il consolidato orientamento della Corte dei conti secondo il quale, in base alle norme ed ai princìpi della contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali. Se, infatti, l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, anche se apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo
[8].
Va, al contempo, evidenziato che la Corte dei conti, pur esprimendosi su fattispecie diverse da quella in esame, che ha comunque ricondotto alla più ampia problematica dei limiti dei finanziamenti comunali a soggetti privati, sancisce che:
   - i Comuni, sulla base della loro autonoma discrezionalità e «secondo i principi della sana e corretta amministrazione», possono deliberare contributi a favore di enti che, pur non essendo affidatari di servizi, svolgono un’attività che viene ritenuta utile per i propri cittadini
[9];
   - in ogni caso, l’attribuzione di benefici pubblici deve risultare «conforme al principio di congruità della spesa», presupponente una valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale
[10];
   - la facoltà degli enti territoriali di attribuire benefici patrimoniali a soggetti privati, in ragione dell’interesse pubblico indirettamente perseguito, ammessa in via generale
[11], rimane tuttavia «subordinata ai limiti imposti da disposizioni di legge dirette al contenimento della spesa pubblica ed alle prescrizioni richieste dai princìpi contabili per garantire la corretta gestione delle risorse pubbliche» [12].
Un tanto premesso in via generale, occorre dar atto che non si sono rinvenute indicazioni giurisprudenziali né interpretative circa le specifiche questioni poste da codesto Comune.
Ciò nonostante, si ritiene utile segnalare le considerazioni svolte dalla Corte dei conti che, pur esprimendosi in relazione ad alcune particolari fattispecie, enuncia princìpi di carattere generale.
Riscontrando il quesito volto a stabilire se sia sufficiente che l’erogazione del contributo comunale a sostegno di iniziative concretanti forme di esercizio della c.d. “sussidiarietà orizzontale” venga preceduta da una verifica contabile relativa alla sola iniziativa oggetto di finanziamento o se, viceversa, l’ente locale debba acquisire il bilancio relativo all’intera attività del soggetto interessato, contenente l’insieme delle entrate e delle spese realizzate dallo stesso per il complesso della propria attività, la Corte
[13] chiarisce, anzitutto, che «nell’impianto motivazionale delle determinazioni che conducono l’ente pubblico ad accordare specifiche forme di contribuzione ad iniziative “sussidiarie” deve risultare sia “il fine pubblico perseguito” sia “la rispondenza delle modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale”».
La Corte afferma che «Tale valutazione non può che passare tramite un’analisi, oltre che della specifica iniziativa, anche della complessiva attività dell’ente privato –nel senso dell’attitudine del medesimo soggetto a svolgere un’attività intrinsecamente idonea al raggiungimento della finalità sociale in concreto perseguita–, ente che peraltro […] viene comunque a giovarsi nella sua totalità di una compartecipazione pubblica, dato che questa inevitabilmente esplica effetti anche sulle modalità di mantenimento della struttura organizzativa interna dell’ente, necessariamente “strumentale”, in quest’ottica, all’espletamento della specifica attività resa in sussidiarietà orizzontale».
Da ciò, secondo il Collegio contabile, discende «l’opportunità di una disamina dei complessivi bilanci dell’ente sussidiato […] salvo che –per la specificità del caso concreto ovvero per la peculiare commisurazione nella fattispecie del contributo pubblico (ad esempio limitato alle sole cc.dd. “spese vive” sostenute e rendicontate da enti ictu oculi idonei allo svolgimento in sussidiarietà di pubbliche funzioni)– un tale controllo si palesi inutile».
In altra circostanza, concernente la concessione di un contributo comunale straordinario ad un’associazione sportiva dilettantistica, giudicata fonte di danno erariale, la Corte dei conti
[14] fa riferimento alla necessità di osservare le «elementari regole di buona amministrazione e di ragionevolezza dell’agire da parte dei pubblici poteri» e afferma espressamente che «l’interesse pubblico è soddisfatto quando le risorse della collettività sono impiegate razionalmente, mentre non ritiene ragionevole che le scarse risorse disponibili siano affidate alla gestione di un soggetto che tiene una contabilità non trasparente […]».
Va poi dato atto che, nella prassi degli enti locali di questo territorio regionale, largamente diffuse sono le previsioni regolamentari che, con riferimento alla concessione tanto di contributi annuali per attività di carattere continuativo, quanto di contributi ad hoc per specifiche iniziative, prevedono l’accertamento delle eventuali ulteriori entrate percepite dai soggetti interessati, al fine di stabilire l’entità dei benefici concedibili (entro il limite delle somme effettivamente rimaste a carico del richiedente il contributo) e degli importi da recuperare, qualora essi siano stati liquidati in eccesso.
[15]
In conclusione, si ritiene di poter affermare che, posto che l’art. 12 della L. 241/1990 si limita a dettare i princìpi generali in materia di contributi, ponendo in capo alle pubbliche amministrazioni il compito di stabilire, con atto di valenza generale, i criteri e le modalità da osservare per l’adozione dei provvedimenti di concessione dei benefici, spetta al singolo ente determinarsi in proposito, tenendo conto delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza contabile sopra riportate.
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[1] Trattasi di società e associazioni sportive dilettantistiche senza scopo di lucro.
[2] A seguito di procedura regolamentata.
[3] Per un’accurata analisi dell’istituto vedasi L. De Rentiis L’erogazione di contributi, sussidi e/o provvidenze da parte degli Enti Locali in favore di soggetti terzi, in Azienditalia n. 6/2017, pag. 557 e ss.
[4] Consiglio di Stato – Sez. V, sentenze 17.03.2015, n. 1373 e 23.03.2015, n. 1552.
[5] La finalità viene perseguita anche dall’art. 26 del decreto legislativo 14.03.2013, n. 33 e dall’art. 1, commi 125-129, della legge 04.08.2017, n. 124.
L’art. 26 del D.Lgs. 33/2013 dopo aver prescritto che le pubbliche amministrazioni sono tenute a pubblicare sia gli atti con i quali sono determinati i criteri e le modalità cui esse devono attenersi per la concessione dei benefici di cui all’art. 12 della L. 241/1990, sia gli atti di concessione dei benefici medesimi di importo superiore a mille euro, sancisce che la pubblicazione costituisce condizione legale di efficacia dei provvedimenti di concessione e dispone che la mancata, incompleta o ritardata pubblicazione rilevata d’ufficio dagli organi di controllo è rilevabile anche dal destinatario della prevista concessione o attribuzione e da chiunque altro abbia interesse, anche ai fini del risarcimento del danno da ritardo da parte dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 30 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
L’art. 1 della L. 124/2017 stabilisce che (oltre ad altri soggetti) le associazioni, le Onlus e le fondazioni che intrattengono rapporti economici con le pubbliche amministrazioni, nonché con società controllate di diritto o di fatto direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni, sono tenute a pubblicare entro il 28 febbraio di ogni anno, nei propri siti o portali digitali, le informazioni relative a sovvenzioni, contributi, incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere ricevuti dai predetti soggetti nell’anno precedente (comma 125), tranne qualora l’importo del beneficio sia inferiore a 10.000 euro (comma 127).
[6] TAR Puglia–Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n. 1842.
[7] TAR Lombardia–Milano, Sez. III, sentenza 05.05.2014, n. 1142.
[8] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n. 26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014, n. 248/2014, n. 262/2014, n. 79/2015, n. 121/2015 e n. 362/2017.
[9] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 226/2013.
[10] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 248/2014, cit. e n. 79/2015, cit.
[11] È invece preclusa, all’ente locale, la possibilità di concedere contributi per ripianare le passività di una fondazione (Corte dei conti – Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 979/2010; Sez. reg. contr. Piemonte, parere n. 201/2017).
[12] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 121/2015, cit.
[13] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 333/2014.
[14] Sez. giurisd. Regione Lombardia, sentenza 15.03.2011, n. 145.
[15] Si segnalano, in particolare, i regolamenti adottati dai Comuni di Trieste (v. artt. 16 e 17), Udine (v. artt. 12 e 17), Gorizia (v. art. 18), Pordenone (v. art. 20), Sacile (v. art. 18), Tolmezzo (v. art. 13)
(25.03.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI: Intervento sostitutivo della stazione appaltante per inadempienza contibutiva e retributiva dell'impresa affidataria del contratto di appalto - art. 30, D.Lgs. n. 50/2016.
Il D.Lgs. n. 50/2016 disciplina l’istituto dell’intervento sostitutivo della stazione appaltante in termini di obbligo sia in caso di inadempienza contributiva dell’appaltatore certificata dal DURC in relazione al personale impiegato nell’esecuzione del contratto –come già stabiliva il previgente D.P.R. n. 207/2010– sia nell’ipotesi di inadempienza retributiva dell’appaltatore stesso e con riferimento al medesimo personale, in quest’ultimo caso innovando rispetto alla previgente disciplina che invece attribuiva alla stazione appaltante la facoltà di procedere al pagamento in via sostitutiva delle retribuzioni.
Allo stato della vigente normativa, qualora venga accertata l’irregolarità contributiva dell’impresa affidataria ed altresì il ritardo nel pagamento delle retribuzioni, appare ragionevole ritenere che la stazione appaltante provveda ai versamenti in via sostitutiva agli enti previdenziali e assicurativi ed ai lavoratori attraverso una ripartizione pro quota delle somme dovute all’esecutore del contratto.

L’Ente riferisce che la Società affidataria di un appalto di servizi stipulato nel 2017 non risulta in regola con il versamento dei contributi previdenziali –come attestato dal documento unico di regolarità contributiva (DURC) da ultimo acquisito nel dicembre 2018– ed inoltre da qualche tempo non paga regolarmente la retribuzione ai propri dipendenti che esercitano l’attività lavorativa per l’esecuzione del contratto di appalto in questione.
L’Ente ha chiesto alla Società appaltatrice e agli Enti previdenziali di conoscere l’entità delle retribuzioni non corrisposte ai lavoratori impiegati nell’appalto di cui si tratta, nonché delle somme dovute agli enti previdenziali sempre relativamente ai lavoratori impiegati nell’esecuzione di detto contratto.
La Società appaltatrice ha riscontrato la richiesta fornendo i cedolini paga dei dipendenti interessati e chiedendo di procedere nei loro confronti all’intervento sostitutivo ai sensi dell’art. 30, D.Lgs. n. 50/2016, mentre l’INPS ha precisato che i dati richiesti sono di esclusiva competenza della Società e che l’“Istituto può solo comunicare l’entità dei debiti certificati da durc negativo”.
L’Ente chiede dunque come procedere secondo legge, ed in particolare se possano essere pagati in via sostitutiva, utilizzando le somme dovute all’appaltatore, in via prioritaria gli stipendi dovuti ai dipendenti interessati impiegati nell’appalto di cui si tratta e in via residuale i contributi previdenziali, per le somme rimanenti.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale, si esprime quanto segue.
L’intervento sostitutivo della stazione appaltante a fronte dell’inadempienza contributiva e retributiva dell’esecutore del contratto pubblico è disciplinato dall’art. 30, commi 5 e 6, D.Lgs. n. 50/2016, norme statali
[1] in ordine alle quali questo Servizio può esprimere solo in via collaborativa alcune considerazioni, che possano essere di supporto all’Ente per l’individuazione in autonomia della soluzione da adottare nel caso concreto.
L’articolo 30, comma 5, D.Lgs. n. 50/2016 prevede che, in caso di inadempienza contributiva risultante dal DURC relativo a personale dipendente dell’affidatario o del subappaltatore o dei soggetti titolari di subappalti e cottimi, impiegato nell’esecuzione del contratto, la stazione appaltante trattiene l’importo corrispondente all’inadempienza per il successivo versamento diretto ai competenti enti previdenziali e assicurativi.
Il successivo comma 6 del medesimo articolo 30 dispone che in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale di cui al comma 5 –per quanto qui rileva, dipendente dell’affidatario dell’appalto, impiegato nell’esecuzione del contratto– il responsabile unico del procedimento invita per iscritto l’impresa inadempiente a provvedervi entro i successivi quindici giorni. Ove non sia stata contestata formalmente e motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine assegnato, la stazione appaltante paga anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute all’affidatario del contratto.
Al riguardo si rileva che l’obbligo dell’intervento sostitutivo, in presenza di DURC irregolare, era stato già introdotto dal previgente art. 4, comma 2, D.P.R. n. 207/2010.
Per quanto concerne, invece, l’istituto dell’intervento sostitutivo in caso di inadempienza retributiva, si osserva che lo stesso è fissato come obbligo dall’art. 30, c. 6, D.Lgs. n. 50/2016, mentre era facoltativo nella previgente disciplina di cui all’art. 5, D.P.R. n. 207/2010
[2].
Venendo al quesito dell’Ente sulla possibilità di pagare prioritariamente in via sostitutiva le retribuzioni dei dipendenti e di versare l’importo residuo agli enti previdenziali e assicurativi, si osserva che il nuovo codice degli appalti, nel rendere obbligatorio anche l’intervento sostitutivo per l’inadempienza retributiva, oltre a quello relativo all’inadempienza contributiva, non specifica le modalità di attuazione del meccanismo sostitutivo, nell’ipotesi in cui siano riscontrate contemporaneamente entrambe le tipologie di inadempimento.
Sotto l’egida del previgente D.P.R. n. 207/2010 veniva naturale ritenere la priorità del pagamento in via sostitutiva dei contributi agli enti previdenziali e assicurativi, proprio sulla base della disciplina dell’istituto dell’intervento sostitutivo, recata dal d.p.r. in parola, in termini di obbligo in caso di inadempienza contributiva (art. 4, D.P.R. n. 207/2010) e di facoltà nell’ipotesi dell’inadempienza retributiva (art. 5, D.P.R. n. 207/2010)
[3].
Allo stato della vigente normativa, invece, esprimendosi le disposizioni di cui all’art. 30, commi 5 e 6, in termini di obbligatorietà degli interventi sostitutivi ivi previsti –senza indicare alcuna priorità in relazione all’una o all’altra tipologia di crediti (contributivi e retributivi) in questione, rispettivamente vantati dagli istituti previdenziali e assicurativi e dal personale dipendente– qualora venga accertata l’irregolarità contributiva dell’impresa affidataria ed altresì il ritardo nel pagamento delle retribuzioni, appare ragionevole ritenere che la stazione appaltante provveda ai versamenti in via sostitutiva agli enti previdenziali e assicurativi ed ai lavoratori attraverso una ripartizione pro quota delle somme dovute all’esecutore del contratto.
A quest’ultimo riguardo, si precisa che i contributi e le retribuzioni sono quelli riferiti ai lavoratori impiegati nell’esecuzione del contratto di appalto tra la stazione appaltante e la Società affidataria, in capo alla quale è stata riscontrata l’irregolarità contributiva e retributiva, come si evince dalla formulazione testuale dei commi 5 e 6 dell’art. 30 del Codice dei contratti pubblici, che espressamente riferiscono l’intervento sostitutivo al “personale dipendente dell’affidatario o del subappaltatore … impiegato nell’esecuzione del contratto
[4].
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[1] La cui interpretazione spetta esclusivamente agli uffici statali competenti.
[2] Cfr., in dottrina, Antonio Pazzaglia, Le verifiche preliminari della P.A. con particolare riferimento al d.lgs. 18.04.2016 n. 50 (nuovo codice dei contratti pubblici) e alla disciplina di semplificazione sul DURC dettata dal D.M. 30.01.2015, su ITALIAPPALTI.IT, 09.12.2016. L’autore osserva, altresì, che mentre la verifica della regolarità contributiva e fiscale è obbligatoria, la verifica della regolarità retributiva è meramente eventuale dipendendo da un fatto (la conoscenza del ritardo) accessibile non già attraverso l’interrogazione di banche dati predeterminate, quanto invece attraverso l’acquisizione di informazioni altrimenti reperite, ad esempio su segnalazione dei dipendenti (o anche dei sindacati, n.d.r.).
[3] Cfr. il parere prot. n. 23035/2014 di questo Servizio
V. anche Confederazione delle province e dei comuni del nord (Co.Nord), risposta al quesito 24.03.2014 su "Intervento sostitutivo contratti pubblici"
[4] In tal senso, osserva, infatti, la dottrina, secondo cui l’art. 30 del D.lgs. n. 50/2016 “delimita il campo di operatività del meccanismo sostitutivo descritto alle sole ipotesi di inadempienza relative al personale dipendente dell’affidatario o del sub-affidatario impiegato nell’esecuzione del contratto”
(Cfr. Antonio Pazzaglia, articolo cit.) (22.03.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTITerna dei subappaltatori e mancato possesso dei requisiti.
Domanda
In una gara di servizi sopra soglia comunitaria il mancato possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del codice, ad eccezione di quelli previsti dal comma 4 del medesimo articolo, in capo ai subappaltatori indicati nella terna comporta l’esclusione del concorrente alla gara?
Risposta
La terna dei subappaltatori, una delle questioni rientranti nella procedura di infrazione della Commissione Europea per mancanza di conformità di alcuni istituti giuridici italiani rispetto alle direttive comunitarie in materia di contratti pubblici, ha da sempre creato problemi applicativi evidenti in sede di procedura di gara. L’art. 105, co. 6, del codice testualmente recita “è obbligatoria l’indicazione della terna di subappaltatori in sede di offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35, o indipendentemente dall’importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa, come individuate dal comma 53 dell’articolo 1 della legge n. 190/2012
[1]».
L’indicazione nominativa della terna in sede di gara comporta il possesso, e la successiva verifica, dei requisiti di qualificazione e di moralità di cui all’art. 80 in capo ai subappaltatori, già nella fase di selezione del contraente, tanto che il concorrente deve anticipare anche per i soggetti della terna il rispettivo DGUE/dichiarazioni integrative, con possibile esclusione dello stesso ai sensi dell’art. 80, cc. 1 e 5, del codice, per difetto dei requisiti del subappaltatore (senza possibilità di sostituzione a differenza delle disposizioni comunitarie).
L’Autorità nel bando tipo n. 1, quale schema di disciplinare di gara standardizzato e vincolante per le gare sopra soglia con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, rivedendo la posizione dedicata al subappalto, ha previsto che l’omessa dichiarazione della terna o l’indicazione di un numero di subappaltatori inferiore non costituisce motivo di esclusione, ma comporta il divieto di subappaltare (sembrerebbe non sanabile con il soccorso istruttorio). Prosegue stabilendo che il mancato possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del Codice, ad eccezione di quelli previsti nel comma 4 del medesimo articolo, in capo ad uno dei subappaltatori indicati nella terna comporta l’esclusione del concorrente dalla gara.
Per dare una corretta lettura a quest’ultimo passaggio viene in aiuto la giurisprudenza, Tar Sicilia, Palermo, sentenza n. 1096 del 17.05.2018, dove in presenza di una terna con un solo subappaltore qualificato, condividendo il parere del Consiglio di Stato n. 2286 del 03.11.2016, fatto proprio anche dall’ANAC nella delibera n. 487 del 3.05.2017, ha precisato che occorre dare un’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 80, commi 1 e 5, del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016, avente ad oggetto le cause di esclusione dalle gare di appalto.
Ciò posto, ha affermato che “quando è fornita una terna di possibili subappaltatori, è sufficiente ad evitare l’esclusione del concorrente che almeno uno dei subappaltatori abbia i requisiti e sia qualificato per eseguire la prestazione da subappaltare, ovvero che il concorrente dichiari di rinunciare al subappalto, avendo in proprio i requisiti per eseguire le prestazioni”.
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[1] Le attività definite maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa sono: a) trasporto di materiali a discarica per conto di terzi; b) trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di terzi; c) estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; d) confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; e) noli a freddo di macchinari; f) fornitura di ferro lavorato; g) noli a caldo; h) autotrasporti per conto di terzi; i) guardiania dei cantieri (20.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOLa rotazione straordinaria, tra obbligo normativo e scelta di opportunità.
Domanda
Un dipendente del Comune, responsabile di procedimento nel Settore appalti e gare, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato nell’ambito di un procedimento penale per corruzione in atti di gara.
Pur non essendo ancora intervenuto il rinvio a giudizio, è obbligatorio per l’ Amministrazione rimuovere il dipendente dall’incarico svolto, o resta una scelta di mera opportunità?
Risposta
Il 07.02.2019 è stata pubblicata sul sito dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, per la fase di consultazione e ricezione di osservazioni, la “bozza di delibera in materia di applicazione della misura della rotazione straordinaria di cui all’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del d.lgs. n. 165 del 2001”. Le disposizioni ivi contenute, ancorché non ancora efficaci, offrono interessanti spunti per rispondere al quesito, il cui tema giuridico sotteso, oltre ad essere disciplinato dal Testo unico per il pubblico impiego, trova oggi ampia trattazione –come chiaramente descritto da ANAC– all’interno del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 e dei successivi aggiornamenti 2016, 2017 e 2018.
Ai sensi del predetto articolo, i dirigenti di uffici dirigenziali generali, comunque denominati, “provvedono al monitoraggio delle attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o disciplinari per condotte di natura corruttiva.”
E’ previsto, pertanto, l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il personale sospettato di “condotte di natura corruttiva” che abbiano o meno rilevanza penale, ad altro servizio. Nella logica del sistema anticorruzione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), si tratta di una misura di natura non sanzionatoria dal carattere cautelare e preventivo, finalizzata a garantire che, negli ambiti dove si sono verificati i fatti oggetto del procedimento penale o disciplinare, siano attivate idonee misure di prevenzione del rischio corruttivo, al fine di tutelare l’immagine di imparzialità dell’amministrazione.
La rotazione straordinaria della fase di avvio del procedimento penale, è da tenere ben distinta dall’istituto del “trasferimento ad altro ufficio” di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27.03.2001, n. 97 recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”; la disposizione prevede, infatti, che quando nei confronti di un dipendente “è disposto il giudizio per alcuni dei delitti previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del codice penale e dall’articolo 3 della legge 09.12.1941, n. 1383, l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di carriera, a quelle svolte in precedenza”.
Pertanto, in caso di formale rinvio a giudizio i dipendenti accusati di una serie specifica di reati, devono essere trasferiti ad ufficio diverso da quelli in cui prestavano servizio.
A livello normativo emergono, quindi, due sostanziali differenza tra i suddetti istituti:
   1. la “rotazione straordinaria” è strumento utilizzabile in prima battuta già al momento della conoscenza dell’iscrizione nel registro degli indagati, di cui all’art. 335 c.p.p., mentre il “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio” segue, per l’appunto, il formale atto del giudice per le indagini preliminari;
   2. nel caso del “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio”, diversamente da quanto accade per la “rotazione straordinaria” –dove vi è un generico rinvio a “condotte di tipo corruttivo”– il legislatore individua, quale presupposto per l’applicazione della misura, specifiche fattispecie di reato, sebbene in numero ridotto rispetto all’intera gamma di reati previsti dal Titolo II Capo I del Libro secondo del Codice Penale.
A ciò aggiungasi, tuttavia, in relazione all’ambito oggettivo di applicazione della “rotazione straordinaria”, che ANAC nel documento in consultazione –rivedendo una posizione precedentemente assunta (PNA 2016 e Aggiornamento 2018 al PNA)– ha stabilito che “l’elencazione dei reati (delitti rilevanti previsti dagli articoli 317, 338, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale), di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2015, per “fatti di corruzione” possa essere adottata anche ai fini della individuazione delle “condotte di natura corruttiva” che impongono la misura della rotazione straordinaria”.
Ne discende che:
   a) per i reati previsti dai richiamati articoli del codice penale (tra gli altri concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere utilità), è da ritenersi obbligatoria l’adozione di un provvedimento motivato, con il quale viene valutata la condotta “corruttiva” del dipendente ed eventualmente disposta la rotazione straordinaria;
   b) per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, di cui al Capo I, Titolo II, Libro secondo del Codice Penale (delitti rilevanti nel d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in materia di incompatibilità e inconferibilità e d.lgs. 31.12.2012, n. 235 in materia di incandidabilità), la rotazione è solo facoltativa, restando in capo all’amministrazione la valutazione circa la gravità del delitto.
Alla luce del sopra descritto quadro normativo è possibile fornire risposta al quesito indicando i passaggi che dovranno essere posti in essere dall’Amministrazione, tenendo anche conto che a breve diverranno efficaci le direttive ANAC, ora in consultazione:
   1. verificare nello specifico se “la condotta corruttiva” per cui è stato iscritto nel registro degli indagati il dipendente integri, in astratto, una delle fattispecie di cui agli artt. 317, 338, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale;
   2. in caso di esito positivo –come pare dedursi nel caso di specie, avendo il responsabile del procedimento in astratto commesso il reato, ex art. 319 c.p. “corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio”– predisporre obbligatoriamente il provvedimento di rotazione straordinaria, adeguatamente motivato (deve essere stabilito che la condotta corruttiva imputata può pregiudicare l’immagine di imparzialità dell’amminsitrazione), con il quale viene individuato il diverso ufficio al quale il dipendente viene trasferito.
   3. trattandosi di provvedimento temporaneo, fissare il termine di efficacia in massimo cinque anni (come suggerito da ANAC tramite rinvio alla legge 97/2001) e comunque nell’eventuale rinvio a giudizio del dipendente; momento in cui l’amministrazione potrà nuovamente disporre il trasferimento, o limitarsi a confermare quello già disposto (19.03.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Obblighi di pubblicazione nella sezione "Amministrazione trasparente".
   1) Per quanto concerne gli obblighi di pubblicazione degli atti di concessione di benefici economici, l’art. 26, D.Lgs. n. 33/2013, esclude espressamente la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie, qualora gli atti oggetto di pubblicazione possano rivelare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati. In tal caso, tale divieto non vale ad escludere la pubblicazione del relativo provvedimento, ma si traduce in un obbligo di oscuramento dei suddetti dati personali.
   2) Per quanto riguarda l’obbligo di pubblicazione dei dati relativi ai pagamenti, di cui all’art. 4-bis, D.Lgs. n. 33/2013, l’ANAC (delibera 28.12.2016, n. 1310), nel rilevare l’esigenza che il legislatore intervenga per chiarire il contenuto effettivo dei dati sui pagamenti, ha ritenuto opportuno limitare la pubblicazione, in una prima fase, alle tipologie di spesa a più alta necessità di monitoraggio, in quanto attinenti alle aree di rischio a rilevanza esterna: incarichi di consulenza, enti controllati, contratti pubblici di acquisizione di beni e servizi.

Il Comune pone la questione della corretta applicazione delle norme in tema di obblighi di pubblicazione ai fini di trasparenza, con particolare riferimento ad una serie di atti di concessione di vantaggi economici a persone fisiche e ai dati relativi ai propri pagamenti, di cui agli articoli, rispettivamente 26, 27 e 4-bis del D.Lgs. n. 33/2013.
Un tanto, avuto riguardo al divieto di pubblicare dati indentificativi delle persone fisiche
[1] destinatarie dei provvedimenti di attribuzione di vantaggi economici, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati, stabilito dall’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013.
Il Comune chiede inoltre un parere su come si concilino gli obblighi di pubblicazione di cui al D.Lgs. n. 33/2013 con la normativa relativa alla protezione dei dati personali di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
Si precisa che il servizio di consulenza svolto da questo Servizio consiste nel fornire elementi giuridici generali sulle questioni poste dagli enti, che siano di supporto all’individuazione, in autonomia, delle soluzioni da applicare ai casi concreti.
Pertanto, in questa sede si esprimeranno delle considerazioni generali sugli obblighi di pubblicazione previsti dal decreto trasparenza, specificamente di quelli riferiti agli atti di concessione di vantaggi economici e ai dati relativi ai pagamenti, avuto riguardo alle norme per la protezione dei dati personali. Considerazioni che l’Ente potrà utilizzare per assumere la decisione più opportuna in merito alla pubblicazione dei singoli atti, al cui riguardo si formuleranno alcune riflessioni in via collaborativa.
L’art. 26, c. 2, D.Lgs. n. 33/2013, stabilisce l’obbligo di pubblicazione degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici erogati in favore di soggetti pubblici o privati di importo superiore a mille euro.
Il successivo art. 27 stabilisce le informazioni che devono essere pubblicate, tra cui: il nome del soggetto beneficiario, l’importo del vantaggio, il titolo giuridico dell’attribuzione, la modalità seguita per l’individuazione del beneficiario (comma 1). Dette informazioni sono riportate nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (comma 2).
Peraltro, l’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, esclude espressamente la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti di concessione dei benefici economici, qualora gli atti e i documenti da pubblicarsi siano idonei a disvelare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati
[2].
Per quanto concerne lo stato di salute, si evidenzia che l’operatività di detto limite è già sancita nel Capo I, Principi generali, del decreto trasparenza: l’art. 4 “Limiti alla trasparenza” del decreto medesimo prevede infatti che “Restano fermi i limiti …relativi alla diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” (comma 6)
[3].
Si sottolinea che i dati idonei a rivelare lo stato di salute sono dati sensibili, oggi denominati “categorie particolari di dati personali” dall’art. 9 del Regolamento (UE) n. 679/2016
[4]. In proposito, il Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in una nota del 27.11.2018 (doc web 9065601) ha affermato che l’art. 9 in argomento prevede un generale divieto di trattamento dei dati sensibili e successivamente una deroga per il trattamento degli stessi necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione e degli Stati membri e secondo i parametri ivi previsti.
Con specifico riferimento ai limiti alla diffusione di notizie concernenti lo stato di salute, il Garante per la protezione dei dati personali ha chiarito che è vietata la diffusione di qualsiasi dato o informazione da cui si possa desumere lo stato di malattia o l’esistenza di patologie dei soggetti interessati, compreso qualsiasi riferimento alle condizioni di invalidità, disabilità o handicap fisici
[5].
Analogamente, è vietato riportare dati o informazioni da cui si può desumere la condizione di indigenza o di disagio sociale in cui versano gli interessati.
Il Garante osserva che spetta agli enti interessati valutare, caso per caso, quando le informazioni contenute nei provvedimenti rivelino l’esistenza di una situazione di disagio economico o sociale in cui versa il destinatario del beneficio e non procedere, di conseguenza, alla pubblicazione dei dati identificativi del beneficiario o delle altre informazioni che possano consentirne l’identificazione.
Inoltre, per gli obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali della p.a. previsti dalla normativa vigente per finalità di trasparenza vale il principio per cui la pubblicazione deve avvenire nel rispetto dei limiti alla trasparenza posti dalle norme sulla protezione dei dati personali
[6].
In questi termini si pone la questione posta dall’Ente circa la conciliazione degli obblighi di cui al D.Lgs. n. 33/2013 con la normativa relativa alla protezione dei dati personali di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
L’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di trasparenza, anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto normativo, deve avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali, oggi contenuti nell’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei dati»), di cui all’art. 5, par. 1, lett. c), e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati (art. 5, par. 1, lett. d).
Sul piano dell’ordinamento interno, viene in considerazione l’art. 4, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, secondo cui «Nei casi in cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione»
[7].
A tal proposito, il Garante ha affermato che non risulta giustificato diffondere, tra l’altro, dati quali, ad esempio, l’indirizzo di abitazione o la residenza, il codice fiscale di persone fisiche, le coordinate bancarie dove sono accreditati i contributi o i benefici economici (codici IBAN), la ripartizione degli assegnatari secondo le fasce dell’indicatore della situazione economica equivalente-Isee, l’indicazione di analitiche situazioni reddituali, di condizioni di bisogno o di peculiari situazioni abitative
[8].
Un tanto esposto in generale, in via del tutto collaborativa si esprimono alcune considerazioni con riferimento alle tipologie di provvedimenti elencate dall’Ente.
Per quanto concerne gli atti di concessione di vantaggi economici, si fa osservare innanzitutto che il tenore testuale dell’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, vale ad escludere la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie di benefici economici da cui è possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute e alla situazione di disagio economico-sociale, non anche quella del relativo provvedimento; pertanto, la fattispecie –osserva la dottrina– “si traduce in definitiva in un obbligo di mascheramento” di detti dati
[9].
E dunque detti atti andranno pubblicati adottando tutti gli accorgimenti necessari al fine di rispettare il divieto di cui all’art. 26, c. 4, richiamato
[10].
Inoltre, al fine di meglio comprendere l’operatività dell’obbligo di pubblicazione di cui agli artt. 26 e 27, si fa osservare che il Garante ha affermato che detta normativa prevede la pubblicazione obbligatoria dei soli nominativi
[11] dei soggetti destinatari di un contributo di natura economica superiore ai mille euro, con esclusione della diffusione di dati identificativi delle persone destinatarie dei contributi da cui è possibile ricavare informazioni relative alla situazione di disagio economico (e allo stato di salute n.d.r.) [12].
E in virtù di questo principio, il Garante –a seguito di segnalazione per la pubblicazione di graduatorie relative alla concessione di contributi per interventi di risparmio energetico su unità abitative private– ha ribadito il contenuto degli obblighi di trasparenza di cui agli artt. 26 e 27 nel senso di prevedere la pubblicazione sul sito web istituzionale di dati personali dei soggetti destinatari degli atti di sovvenzioni economiche superiori a mille euro.
Ha ritenuto, invece, illegittima la pubblicazione delle graduatorie nella parte in cui rendono pubblici dati personali diversi da quelli indicati agli artt. 26 e 27 richiamati, e precisamente dei soggetti collocati nelle predette graduatorie che non risultano destinatari del contributo economico perché la relativa istanza è stata respinta o è ancora in fase istruttoria, nonché dei soggetti la cui collocazione in graduatoria –formata in base all’ISEE dei partecipanti, dando priorità ai soggetti che si trovano in condizioni di disagio economico– potrebbe essere idonea a rivelare una situazione di disagio economico
[13].
Venendo alle tipologie di provvedimenti esemplificate dall’Ente, le considerazioni del Garante sui limiti alla diffusione delle informazioni sullo stato di salute portano a ritenere che gli atti di concessione di contributi aventi natura assistenziale, a sostegno del reddito e delle condizioni di invalidità, disabilità o handicap fisici e/o psichici
[14], andranno pubblicati oscurando i nominativi (e naturalmente gli altri dati identificativi) dei destinatari, proprio in considerazione della loro destinazione, che appare idonea a rivelare informazioni relative allo stato di salute e alla situazione di disagio economico-sociale [15].
Lo stesso si può dire per i contributi per ridurre la spesa dei canoni di locazione (art. 11, L. n. 431/1998; art. 6, L.R. n. 6/2003) espressamente previsti per i “soggetti non abbienti”, che andranno pubblicati oscurando i dati personali dei destinatari, in quanto trattasi di atti che in relazione al contenuto del titolo giuridico legittimante sono idonei a disvelare situazioni di disagio economico degli interessati.
Per quanto concerne gli atti di concessione di contributi a sostegno della natalità e della famiglia, cui il Comune riferisce l’accesso sulla base di determinati requisiti, quali ad es. l’indicatore ISEE, si osserva che, secondo le indicazioni del Garante, “restano fermi gli obblighi di trasparenza previsti dagli artt. 26 e 27 del d.lgs. n. 33/2013 che prevedono la pubblicazione nel sito web istituzionale di dati personali dei soggetti destinatari” di contributi economici
[16].
Mentre, sempre avuto riguardo alle indicazioni del Garante, qualora siano state formate graduatorie di ordine di priorità degli aventi diritto sulla base del reddito –l’Ente non specifica un tanto– andranno oscurati dagli elenchi pubblicati i dati personali dei soggetti la cui collocazione (nei primi posti) potrebbe rivelare situazioni di disagio economico.
A questo riguardo, solo l’Ente può fare valutazioni concrete nei singoli casi.
Si esprimono infine delle considerazioni sull’obbligo di pubblicazione dei dati relativi ai pagamenti, previsto dall’art. 4-bis, D.Lgs. n. 33/2013, di cui l’Ente chiede chiarimenti avuto riguardo alla protezione dei dati personali. L’art. 4-bis è stato inserito dall’art. 5 del D.Lgs. n. 97/2016, al fine di potenziare la trasparenza sulla spesa pubblica, e pone l’obbligo in capo a ciascuna amministrazione di pubblicare sul proprio sito istituzionale, in una parte chiaramente identificabile della sezione “Amministrazione trasparente”, i dati sui propri pagamenti, in modo da permetterne la consultazione in relazione alla tipologia di spesa sostenuta, all’ambito temporale di riferimento, ai beneficiari.
Con riferimento a detto nuovo obbligo di pubblicazione, si riportano le indicazioni fornite dall’ANAC nella delibera 28.12.2016, n. 1310
[17], ove l’Autorità ha peraltro rilevato l’esigenza che il legislatore intervenga per chiarire il contenuto effettivo dei dati sui pagamenti in parola.
In particolare, l’ANAC, in considerazione dell’esigenza di semplificare la pubblicazione dei dati dei pagamenti, ha ritenuto opportuno in quella sede di limitarla, in una prima fase, alle tipologie di spesa a più alta necessità di monitoraggio, in quanto attinenti alle aree di rischio a rilevanza esterna: incarichi di consulenza, enti controllati, contratti pubblici di acquisizione di beni e servizi.
Rimane fermo che per tutti gli obblighi di pubblicazione per finalità di trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa valgono, come detto sopra, i principi di minimizzazione dei dati personali di cui all’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016 e all’art. 4, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, come chiarito dall’ANAC
[18], che in generale sulle cautele da adottare per la protezione dei dati personali rinvia alle Linee guida del Garante n. 243/2014 [19].
---------------
[1] Per quanto concerne i dati identificativi delle persone fisiche, si riporta il contenuto dell’art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento (UE) 27.04.2016, n. 679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, applicabile dal 25.05.2018 in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, secondo cui per “dato personale” si intende “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.
[2] V. Benedetto Ponti, La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14.03.2013, Maggioli, 2013, p. 89.
[3] Cfr. in proposito, Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, parte I, par. 2; parte II, par. 1.
[4] Ai sensi dell’art. 9, par. 1, del Regolamento (UE) n. 679/2016, i dati sensibili, oggi “categorie particolari di dati personali”, sono i dati che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, i dati genetici, i dati biometrici, i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona”.
[5] A titolo esemplificativo delle informazioni di cui è vietata la diffusione, il Garante cita l’indicazione:
   - della disposizione sulla base della quale ha avuto luogo l’erogazione del beneficio economico se da essa è possibile ricavare informazioni sullo stato di salute di una persona (come l’indicazione “erogazione ai sensi della legge 104/1992 che è la “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”);
   - dei titoli dell’erogazione dei benefici (es. attribuzione di borse di studio a “soggetto portatore di handicap”, o riconoscimento di buono sociale a favore di “anziano non autosufficiente” o con l’indicazione, insieme, al dato anagrafico, delle specifiche patologie sofferte dal beneficiario);
   - delle modalità e dei criteri di attribuzione del beneficio economico (es. punteggi attribuiti con l’indicazione degli “indici di autosufficienza nelle attività della vita quotidiana”);
   - della destinazione dei contributi erogati (es. contributo per “ricovero in struttura sanitaria” o per “assistenza sanitaria”).
Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n. 243/2014 cit., parte I, par. 9.e.
[6] Cfr. Linee guida n. 243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
Detti principi valgono anche per gli obblighi di pubblicazione per altre finalità di pubblicità dell’azione amministrativa (Cfr. Linee guida citate: Introduzione; parte I, par. 2; parte I, par. 9. e.; parte II, par. 1).
[7] Cfr. ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione (approvato con delibera 21.11.2018, n. 1074), Parte generale, par. 7. L’ANAC, in generale sulle cautele da adottare per la protezione dei dati personali, rinvia alle Linee guida del Garante n. 243/2014, secondo cui è consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione in atti e documenti da pubblicare sia realmente necessaria e proporzionata alla finalità di trasparenza perseguita nel caso concreto. Di conseguenza, i dati personali che esulano da tale finalità non devono essere inseriti negli atti e nei documenti oggetto di pubblicazione on line. In caso contrario, occorre provvedere, comunque, all’oscuramento delle informazioni che risultino eccedenti o non pertinenti (Linee guida, parte I, par. 2).
[8] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n. 243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
[9] Cfr. Benedetto Ponti, La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14.03.2013, cit., p. 89.
[10] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs.n. 33/2013, 13.6.
[11] Sui dati identificativi eccedenti che non è giustificato diffondere e che vanno dunque oscurati, si richiama quanto detto sopra (v. nota 8).
[12] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 18.05.2016, n. 228.
[13] Cfr. provvedimento del Garante n. 228/2016 cit.
Nello stesso senso: provvedimento del Garante 12.04.2018, n. 2013, ove il Garante –a seguito di segnalazione relativa alla pubblicazione della graduatoria di soggetti aventi diritto a esenzioni o riduzioni della tassa sui rifiuti (Tari)– ha ritenuto illegittima la pubblicazione di dette graduatorie, che identificano i soggetti aventi diritto all’esenzione o alla riduzione della Tari, perché si trovano, rispettivamente, in una condizione di disagio economico-sociale o in uno stato di invalidità civile.
[14] L’Ente a titolo di esempio cita i contributi socio assistenziali, di assistenza al reddito, di abbattimento delle barriere architettoniche, i contributi ANMIL.
[15] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n. 243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
[16] Provvedimento del Garante n. 228/2016 cit.
[17] Delibera 28.12.2016, n. 1310, recante: “Prime linee guida recanti indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni contenute nel D.Lgs. n. 33/2013 come modificato dal D.Lgs. n. 97/2016”, par. 6.1.
[18] ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione cit.
[19] In relazione alla riflessione posta dall’Ente se l’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 4-bis in argomento vada conciliato con il divieto di pubblicare i dati identificativi delle persone fisiche di cui all’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013 –previsto espressamente per gli atti di concessione di benefici economici e connesso alla diffusione di informazioni relative allo stato di salute o a situazioni di disagio economico-sociale– la stessa potrà essere valutata nel momento in cui verrà chiarito quale sia il contenuto dei dati sui pagamenti. Nelle more di tali chiarimenti, in via meramente collaborativa si è dell’avviso che l’obbligo previsto dall’art. 4-bis non possa comportare la pubblicazione di dati idonei a rivelare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati
(28.02.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Omessa denuncia degli abusi edilizi, il dirigente comunale non ha responsabilità oggettiva.
Non risponde automaticamente del reato di omessa denuncia, disciplinato dall'articolo 361 del codice penale -nel caso di un abuso edilizio- il responsabile dell'ufficio tecnico del comune che a seguito della presentazione di un permesso di costruire in sanatoria, non abbia trasmesso la notizia all'autorità giudiziaria.
È infatti necessario dimostrare anche la «sussistenza dell'elemento soggettivo» del reato –vale a dire l'effettiva conoscenza della notitia criminis- «non potendosi ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione amministrativa esercitata all'interno della struttura burocratica comunale
».
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RITENUTO IN FATTO
1. Salvatore Caudullo, per mezzo del difensore, propone ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania che, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Catania, per quel che in questa sede rileva, ha rideterminato la pena in euro 340 di multa in ordine al reato di cui all'ad 361 cod. pen. (capo G), in quanto, quale Capo dell'Ufficio Tecnico del Comune di Bronte, essendo venuto a conoscenza della commissione di abusi edilizi da parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi. (stesse persone con cui era stato chiamato, a titolo di omissione ex art. 40, comma secondo, cod. pen., a rispondere del concorso nella realizzazione dei reati di cui ai capi da A) a F) relativi a contravvenzioni in materia edilizia, urbanistica, sismica ed ambientale), i quali avevano presentato una istanza di permesso di costruire in sanatoria per poter realizzare un immobile, ometteva di darne comunicazione all'autorità giudiziaria, fatto commesso in Bronte in data antecedente al 08.06.2011.
2. Il ricorrente deduce difetto di motivazione, travisamento della prova e violazione degli artt. 36, 42, 43 e 361 cod. pen.
La Corte territoriale non avrebbe adeguatamente apprezzato il dato normativo, le risultanze processuali, per come ricostruite dall'esame dei testi e dell'imputato, oltre che la documentazione acquisita e fornita dalla difesa.
Sa.Ca. -si osserva- era coordinatore di ben otto servizi, tra i quali quello di Urbanistica e Repressione Abusivismo Edilizio, settori a loro volta retti da altri (Sa. e Gr.) cui competeva l'istruttoria delle pratiche assegnate.
La prassi prevedeva che tutte le pratiche di richiesta di sanatoria ex artt. 12 e 13 L. 47/1985 (art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380) non fossero inoltrate all'Autorità Giudiziaria, obbligo di comunicazione che incombeva sul solo personale di Polizia Giudiziaria,
Il ricorrente evidenzia l'assoluta buona fede del Ca. che, quale capo dell'Ufficio Tecnico, si era limitato a coordinare i vari servizi demandando ai singoli responsabili le relative decisioni, circostanza che impone di ritenere insussistente l'elemento soggettivo quantomeno ex art. 533 cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato, così imponendosi l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.
2. L'accusa mossa a Sa.Ca., quale dirigente dell'Ufficio tecnico comunale (originariamente in concorso con il responsabile del servizio di polizia giudiziaria ed amministrativa, tenente Gi.Sa.), è quella di aver omesso di trasmettere all'autorità giudiziaria la denuncia in ordine alla commissione di reati edilizi ed ambientali da parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi., a cagione della presentazione, da parte di costoro, dell'istanza di permesso di costruire in sanatoria per la realizzazione di un immobile.
In particolare, è stato ritenuto che la pratica relativa all'immobile in questione, affidata al geometra An.Sa., era stata istruita dall'ufficio tecnico di cui il ricorrente era responsabile ed inserita esclusivamente nella comunicazione quindicinale inviata all'Assessorato Territorio ed Ambiente della Regione.
Da tanto è stato desunta la sussistenza del dolo generico in capo al ricorrente che aveva giustificato la condotta dell'Ufficio, di cui evidenziava la articolata consistenza, sulla base della prassi all'epoca vigente a mente della quale la comunicazione in ordine a tutte le istanze in sanatoria non venivano inviate immediatamente all'autorità giudiziaria, ma ciò avveniva solo al momento della richiesta di agibilità o abitabilità degli immobili ovvero all'esito della conclusa istruttoria.
3. Deve premettersi che
l'elemento soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella consapevolezza e volontarietà dell'omissione allorché risulti sussistente il presupposto da cui deriva il dovere di trasmettere la notizia di reato all'autorità giudiziaria, ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo di omissione il motivo che porta il soggetto, su cui grava l'obbligo di informazione, ad astenersi dal trasmettere la notizia di reato; sicché è irrilevante che il pubblico ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa medesima sia stata da questi già fornita. Infatti, l'errore in cui l'obbligato può incorrere, al riguardo, non esclude la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile (Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014).
Risulta, inoltre, pacifico il principio a mente del quale si realizza l'omessa denuncia penalmente rilevante ex art. 361 cod. pen., quando il pubblico ufficiale è in grado di individuare gli elementi ed acquisire ogni altro dato utile per la formazione della denuncia stessa (Sez. 6, n. 49833 del 03/07/2018, Pesci, Rv. 274310).
4. Tanto premesso deve rilevarsi che, nonostante specifica censura anche proposta in sede di gravame, nessuna emergenza consente di ritenere che, a prescindere dalla (certamente irrilevante) invocata prassi da parte del ricorrente, lo stesso fosse consapevole dell'esistenza di una "notitia criminis". tenuto conto delle innumerevoli istanze di sanatoria pervenute presso l'ufficio dal medesimo diretto e trasmesse per l'istruttoria al funzionario responsabile di altro settore.
Il ricorrente, infatti, aveva fatto presente la complessa articolazione degli uffici che gli erano stati affidati, con particolare riferimento alle tre posizioni organizzative di cui era responsabile, rimarcando come il servizio urbanistico, interno all'area tecnica, era da Ca. coordinato, così da limitarsi a sottoscrivere i provvedimenti finali all'esito dell'esame della pratica svolta dal pubblico ufficiale incaricato (penultima pagina sentenza del Tribunale). Circostanza anche ribadita nei motivi di appello, ove, oltre ad ipotizzare in capo ad altri soggetti l'obbligo di denuncia, emergenza non pertinente in quanto non idonea a far venir meno la responsabilità in capo al pubblico funzionario (in tal senso v. Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, dep. 1999, Pirari F, Rv. 212551), si era rappresentato che il fascicolo in questione era stato assegnato agli uffici competenti per la relativa istruttoria.
Nonostante, quindi, plurimi siano stati i rilievi tesi ad evidenziare una assenza di conoscenza della pratica relativa all'immobile oggetto di sanatoria ed in ordine al quale il ricorrente aveva fornito risposte esclusivamente circa i compiti assegnati al proprio ufficio, i Giudici di merito hanno ritenuto Sa.Ca. responsabile sulla base della sola posizione apicale ricoperta all'interno della struttura burocratica comunale e senza individuare alcun effettivo elemento idoneo a far ritenere che fosse consapevole della consistenza, anche solo generica, della specifica istanza.
Questa Corte ha da tempo avuto modo di evidenziare che
non risponde di omessa denuncia di reato, ai sensi dell'art. 361, comma primo cod. pen., il sindaco che ometta di portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria il contenuto delle domande di sanatoria per abusi edilizi pervenute all'amministrazione comunale, o ne ritardi la trasmissione informale, richiesta dall'A.G., prescindendo dal loro vaglio, anche ai fini specifici dell'accertamento di fatti costituenti reato (Sez. 6, n. 5499 del 09/05/1985, Di Giovanna, Rv. 169537), principio tranquillamente esportabile in capo al Dirigente dell'Ufficio tecnico cui oggi compete l'accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001, n. 380.
Tanto non implica che il dirigente di tale servizio non possa rendersi astrattamente responsabile del delitto di omessa denuncia di un fatto di reato di cui sia venuto a conoscenza in ragione dell'espletamento della funzione, e ciò a maggior ragione quando vengono coinvolti interessi connessi alla salvaguardia del territorio alla cui tutela il pubblico ufficiale è preposto.
Ma non è possibile che tale obbligo/dovere di denuncia si estenda sino a ricomprendere le molteplici evenienze che involgono il campo d'azione dell'esercizio della funzione amministrativa e senza in concreto accertare se la notizia di reato sia stata realmente apprezzata dal soggetto agente al fine di valutarne il necessario elemento soggettivo del dolo omissivo richiesto dalla fattispecie di cui all'art. 361 cod. pen.

Né può ritenersi che nel caso sottoposto a scrutinio si tratti di valutare la sussistenza di un eventuale errore in ordine alla sola consistenza della notizia di reato di cui l'agente sia venuto a conoscenza, errore chiaramente inescusabile in quanto non idoneo ad escludere la volontarietà dell'omissione (v. Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014, cui sopra è cenno), quanto, piuttosto, la mancata conoscenza della concreta notizia di reato e, conseguentemente, l'ambito su cui va a ricadere l'elemento soggettivo dell'agente che necessita di specifico accertamento, nel concreto omesso.
Questa Corte, seppure con rifermento all'esame del solo elemento oggettivo, ha avuto modo di precisare che
non integra il reato di cui all'art. 361 cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all'interno del proprio ufficio, al fine di verificare l'effettiva sussistenza di una "notitia criminis", e non di elementi di mero sospetto (Sez. 6, n. 12021 del 06/02/2014, Kutufà, Rv. 258339).
Principio di diritto che impone, a maggior ragione, di ritenere logicamente necessario il previo accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo sull'esistenza della notitia criminís, non potendosi ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale responsabile in base alla sola funzione amministrativa esercitata all'interno della struttura burocratica comunale.
5. Da quanto sopra consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 16.04.2019 n. 16577).

APPALTI: Accertamento della natura di “consorzio stabile” di un concorrente ad una gara pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Consorzi stabili – Individuazione - Espresse indicazioni nominalistiche della natura nell’atto costitutivo – Irrilevanza ex se.
La natura di “consorzio stabile” di un concorrente ad una gara pubblica deve essere accertata sulla scorta di una ricostruzione sostanzialistica dei suoi tratti identificativi, così come delineati dall’art. 45, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, con la conseguenza che è irrilevante l’assenza nell’atto costitutivo di espresse indicazioni nominalistiche della sua natura così come di formali manifestazioni di volontà delle imprese consorziate dirette alla costituzione di un consorzio stabile (1).
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   (1) Ha chiarito Cons. St., sez. V, 06.12.2016, n. 5152 che “quanto all’essenza dell’istituzione di una comune struttura d’impresa va ricordato che per pacifico orientamento della giurisprudenza tale aspetto non comporta, l’uso del verbo ‘istituire’ in luogo di ‘costituire’ ne è la significativa riprova, "un’autonoma struttura d’impresa né che la decisione delle imprese di operare in modo congiunto debba essere formalizzata in un apposito atto" (Cons. St., sez. V, 15.10.2010, n. 7524). Quel che conta invero, è la possibilità di individuare l’avvenuta creazione di un complesso strutturale ed organizzativo compatibile con il modello giuridico-formale di riferimento".
Sulla base di tale presupposto e con riferimento al caso di specie la Sezione ha concluso nel senso che analizzando il contenuto dell’atto costitutivo del concorrente, esso rechi la definizione di un modello organizzativo del tutto coerente con lo schema normativo di riferimento, ricorrendo di quest’ultimo: 1) il requisito numerico (“formati da non meno di tre consorziati”); 2) temporale (“per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni”), essendo stabilita dall’atto costitutivo la durata di 25 anni; 3) teleologico (“abbiano stabilito di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture”); e 4) strutturale (“istituendo a tal fine una comune struttura di impresa”).
Ha ancora ricordato la Sezione che “elemento essenziale per attribuire al consorzio la qualifica di consorzio stabile il c.d. elemento teleologico, ossia l’astratta idoneità del consorzio, esplicitamente consacrata nello statuto consortile, di operare con un’autonoma struttura di impresa, capace di eseguire, anche in proprio, ovvero senza l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle consorziate, le prestazioni previste nel contratto” (Cons. St., sez. V, 23.08.2018, n. 5036, nonché, più recentemente e di questa stessa Sezione, 04.02.2019, n. 865).
Deve infatti osservarsi che, anche alla luce della giurisprudenza citata, rilievo discriminante, ai fini della riconoscibilità di un “consorzio stabile”, deve attribuirsi alla sussistenza di un “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, secondo la nozione civilistica di “azienda”.
Ebbene, è un dato acquisito, sul piano interpretativo, che ciò che connota l’impresa non è la disponibilità materiale dei mezzi e delle attrezzature necessarie allo svolgimento dell’attività produttiva, quanto piuttosto la disponibilità giuridica degli stessi, intesa come un complesso di rapporti giuridici che consentono all’imprenditore di disporre dei mezzi necessari all’esercizio dell’impresa, nonché la capacità dell’imprenditore medesimo di organizzarli in modo da asservirli ad una nuova funzione produttiva, diversa da quella delle imprese da cui quei mezzi siano eventualmente “prestati”: capacità che viene meno –a leggere attentamente la citata giurisprudenza– quando il consorzio operi avvalendosi della struttura imprenditoriale tout court delle imprese consorziate, replicandone la funzione produttiva, ma non quando esso attinga al patrimonio di queste ultime ai fini della costituzione di un nuovo assetto produttivo, di cui esso abbia la diretta responsabilità organizzativa (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 16.04.2019, n. 2493 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impugnabilità del verbale d’inottemperanza all’ordine di demolizione.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Inadempimento ingiunzione – Verbale accertamento – Non è impugnabile
  
Giurisdizione – Edilizia – Abusi - Verbale di dissequestro – Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.
  
Il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione non è autonomamente impugnabile posta la sua natura di atto meramente ricognitivo privo di valore provvedimentale e di efficacia lesiva.
  
Il verbale con cui la Polizia municipale dà atto della restituzione del bene dissequestrato al Sindaco del Comune, in esecuzione della sentenza penale di condanna, è privo di valore provvedimentale, non essendo collegabile ad un potere amministrativo la cui cognizione è devoluta al giudice G.A. in base all’art. 7 c.p.a., cosicché nei confronti dell’attività ad esso sottesa la tutela dell’interessato è esperibile davanti al Giudice ordinario (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che dalla regola secondo cui l’acquisizione opera di diritto alla scadenza del termine per demolire (art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001) discende che il trasferimento della proprietà –in cui si concreta l’acquisizione– è un effetto diretto ed automatico della legge in quanto l'effetto ablatorio si verifica ope legis alla inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire.
Pertanto il verbale della Polizia Municipale, con il quale viene accertata l'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha contenuto dispositivo, limitandosi alla mera rilevazione in via ricognitiva e vincolata di una situazione di fatto, con valore endoprocedimentale strumentale alle successive determinazioni di competenza degli organi di amministrazione attiva dell'ente locale, fermo restando che la notifica di un atto dichiarativo dell’accertamento dell’inottemperanza è necessario ai fini dell’immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari (art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001; cfr. Cons. St., sez. VI, 08.05.2014, n. 2368; Cass. pen. sez. III, 28.11.2007, n. 4962; Cons. St., sez. IV, 15.12.2017, n. 5914).
Detto principio è stato riaffermato dalla giurisprudenza, affermando che “il verbale di accertamento di inottemperanza redatto dalla Polizia Municipale non è atto suscettibile di autonoma impugnazione, poiché, limitandosi a rappresentare l'attuale stato dei luoghi rispetto all'ingiunzione precedentemente spedita, costituisce un atto endoprocedimentale avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto produttivo degli effetti previsti dall'art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. St., sez. IV, 26.06.2018, n. 4248).
Ne consegue che ogni doglianza avverso l’oggetto stesso dell’acquisizione –comprendendovi la sua materiale possibilità– ed i confini dell’acquisto della proprietà in capo all’Ente pubblico debbono essere fatti valere nei confronti del successivo atto dell’Autorità che, facendo proprio l’esito dell’accertamento, ne fa discendere gli effetti di legge (cfr. la sentenza appena citata: “eventuali doglianze relative all’oggetto e alla consistenza della successiva misura acquisitiva non possono che essere proposte in sede di impugnazione di quest’ultimo provvedimento che, come detto, non risulta essere stato adottato”).
Giova soggiungere che tale atto è comunque impugnabile unicamente per vizi propri, ferma restando l’inammissibilità e la tardività di contestazioni riferibili all’ordinanza di demolizione (
TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.04.2019 n. 2083 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Come ripetutamente affermato nella giurisprudenza, anche di questa Sezione, al verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere riconnesso valore provvedimentale ed efficacia lesiva, cosicché lo stesso non è autonomamente impugnabile (cfr., per tutte, la sentenza dell’08/11/2018 n. 6493: “il verbale ha natura meramente ricognitiva del decorso del tempo e della mancata spontanea esecuzione del provvedimento, senza che quindi allo stesso possano riconnettersi contenuto dispositivo ed autonoma portata lesiva" (orientamento pacifico; cfr., per tutte, la sentenza della Sezione del 06/02/2017 n. 749: “il verbale di accertamento di infrazione redatto dal Corpo di Polizia Municipale non è direttamente impugnabile, trattandosi di atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l’effetto dell’emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione (TAR Trentino Aldo Adige, Trento, 10.12.2007, n. 183; anche TAR Campania, sez. III, 15.01.2013, n. 28)”; conf., 02/01/2018 n. 5, cit.; cfr., altresì, la sentenza della Sezione del 14/09/2017 n. 4375: “Il verbale, in altri termini, non costituisce un provvedimento amministrativo che possa mutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo soltanto lo scopo di rappresentare con fede privilegiata -qualora, com’è nel caso di specie, sia compilato da pubblici funzionari- la realtà come esistente in un certo momento storico ed in un determinato luogo (cfr. ex multis, TAR Napoli, sez. VI, 02.12.2016, n. 5566)”; conf., da ultimo, 07/06/2018 n. 3763)”; cfr. altresì, di recente, 01/03/2019 n. 1160).
Neppure ha valore di provvedimento amministrativo il susseguente verbale con cui la Polizia municipale ha ordinato la restituzione del bene dissequestrato al Sindaco del Comune, in esecuzione della sentenza penale di condanna.
Peraltro, esso non è collegabile a un potere amministrativo la cui cognizione è devoluta al G.A. in base all’art. 7 c.p.a., cosicché nei confronti dell’attività ad esso sottesa la tutela dell’interessato è esperibile innanzi al Giudice ordinario [cfr. la sentenza di questa Sezione del 04/04/2018 n. 2161, in tema di atti connessi alla procedura di attuazione della sentenza penale di condanna: “Deve, dunque, confermarsi che gli atti e i provvedimenti inscindibilmente ascrivibili alla fase di esecuzione di un ordine di demolizione impartito con la sentenza recante condanna penale per i reati di violazione della normativa urbanistico-edilizia, sub specie di sanzione accessoria a contenuto amministrativo, sono devoluti alla cognizione del giudice ordinario in veste di giudice dell'esecuzione penale (cfr. anche TAR Napoli, sez. VI, 03.08.2016, n. 4018 in materia di ordinanza di sgombero)”].
Le suesposte conclusioni non mutano con riferimento a quanto illustrato dal ricorrente nella memoria finale, con cui è stato ribadito, sulla scorta della giurisprudenza invocata, che l’effetto acquisitivo non si sarebbe prodotto nella specie (non essendo decorso il termine per ottemperare alla demolizione, in pendenza di sequestro penale).
Dalla regola secondo cui l’acquisizione opera di diritto alla scadenza del termine per demolire (art. 31, terzo comma, del D.P.R. n. 380 del 2001) discende che il trasferimento della proprietà –in cui si concreta l’acquisizione– è un effetto diretto ed automatico della legge in quanto l'effetto ablatorio si verifica ope legis alla inutile scadenza del termine fissato per ottemperare all'ingiunzione di demolire.
Pertanto il verbale della Polizia Municipale con il quale viene accertata l'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha contenuto dispositivo, limitandosi alla mera rilevazione in via ricognitiva e vincolata di una situazione di fatto, con valore endoprocedimentale strumentale alle successive determinazioni di competenza degli organi di amministrazione attiva dell'ente locale, fermo restando che la notifica di un atto dichiarativo dell’accertamento dell’inottemperanza è necessario ai fini dell’immissione in possesso e della trascrizione nei registri immobiliari (art. 31 cit., quarto comma; cfr. Cons. St., sez. VI, 08/05/2014, n. 2368; Cass. pen. sez. III, 28/11/2007, n. 4962; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n. 5914).
Detto principio è stato riaffermato nella giurisprudenza di questa Sezione, con cui è stato precisato che “il verbale di accertamento di inottemperanza redatto dalla Polizia Municipale non è atto suscettibile di autonoma impugnazione, poiché, limitandosi a rappresentare l'attuale stato dei luoghi rispetto all'ingiunzione precedentemente spedita, costituisce un atto endoprocedimentale avente contenuto di accertamento ed esplicante una funzione meramente preparatoria e strumentale, occorrendo che la competente autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un formale atto produttivo degli effetti previsti dall'art. 31, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001” (sentenza del 26/06/2018 n. 4248).
Ne consegue che ogni doglianza avverso l’oggetto stesso dell’acquisizione –comprendendovi la sua materiale possibilità– ed i confini dell’acquisto della proprietà in capo all’Ente pubblico debbono essere fatti valere nei confronti del successivo atto dell’Autorità che, facendo proprio l’esito dell’accertamento, ne fa discendere gli effetti di legge (cfr. la sentenza appena citata: “eventuali doglianze relative all’oggetto e alla consistenza della successiva misura acquisitiva non possono che essere proposte in sede di impugnazione di quest’ultimo provvedimento che, come detto, non risulta essere stato adottato”).
Giova soggiungere che tale atto è comunque impugnabile unicamente per vizi propri, ferma restando l’inammissibilità e la tardività di contestazioni riferibili all’ordinanza di demolizione.
Quanto al verbale, occorre infine precisare che la qualificazione dell’atto va operata dal Giudice e sono indifferenti le espressioni in esso adoperate e, in particolare (come nella specie), l’indicazione della sua idoneità a costituire titolo per la trascrizione (cfr. la sentenza della Sezione del 10/04/2018 n. 2309: “Né la natura del verbale impugnato può mutare per effetto dell’avviso ivi contenuto in ordine all’impugnabilità dell’atto ed agli effetti relativi alla trascrizione ed all’immissione nel possesso. Infatti –come chiarito da questa Sezione con la sentenza 30.01.2018, n. 661- l’atto ed i suoi effetti vanno qualificati ed individuati dal giudice in base alla legge e non possono dipendere da un’impropria ed erronea iniziativa dello stesso verbalizzante tendente ad assegnare al proprio atto una funzione diversa da quella meramente preparatoria e strumentale del formale accertamento da parte dell’organo di amministrazione attiva”).
In altri termini, il verbale non ha valore di provvedimento e non produce l’effetto acquisitivo, determinato ope legis e i cui effetti discendono dall’emanazione di un formale atto dichiarativo, avverso il quale è esperibile la tutela dell’interessato.
Per le considerazioni che precedono, il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi e Ordine di demolizione: aerofotogrammetrie valide solo se inequivocabili.
Come è ormai noto, l'utilizzo delle aerofotogrammetrie storiche costituisce prova documentale pienamente utilizzabile anche in sede penale. Concetto valido, però, solo se i fotogrammi forniscono con esattezza le informazioni necessarie ai fini della decisione.
Lo ha chiarito la VI Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 10.04.2019 n. 2363 con la quale ha accolto il ricorso presentato per l'annullamento di una sentenza di primo grado concernente la sospensione dei lavori di montaggio di una veranda, il diniego di condono e l'ordine di demolizione.
I fatti
L'appello ai giudici di Palazzo Spada riguarda una precedente sentenza di primo grado che aveva rigettato il ricorso presentato per l’annullamento di una determinazione dirigenziale che aveva disposto l’immediata sospensione della realizzazione di una veranda di 20 metri quadri circa sul terrazzo al livello, con muratura, infissi in alluminio, vetri con copertura in pannelli coibentati e tegole, nell’abitazione del ricorrente.
Con nota del 26.07.2005 la ricorrente aveva asserito che le opere contestate sarebbero state eseguite molto tempo prima ed oggetto di specifica istanza di condono edilizio del 10.12.2004 presentata ai sensi della legge 24.11.2003, n. 326. Era tuttavia seguito un ordine di demolizione, peraltro impugnato con motivi aggiunti, nei quali l’appellante aveva altresì denunciato l’illegittimità della determinazione dirigenziale di rigetto dell’istanza di condono del 10.12.2004, presentata in ordine all’avvenuta realizzazione della veranda. Con ulteriori motivi aggiunti la ricorrente lamentava l’illegittimità della determinazione dirigenziale del 18.07.2013 di ingiunzione della demolizione della veranda.
L’appellante lamentava che la reiezione della domanda di condono sarebbe stata disposta per la mancata realizzazione delle opere abusive entro il 31.03.2003, sul rilievo che dall’esame delle aerofotogrammetrie (scattate nel mese di luglio 2003 e del 13.06.2004) le opere edilizie ancora non risultavano eseguite e che l’amministrazione si sarebbe limitata a ricavare tale elemento di fatto da una sentenza del Tribunale penale del 29.11.2007, non passata in giudicato.
Con la sentenza appellata, il ricorso era stato rigettato, assumendosi che dalle risultanze aerofotografiche sarebbe emerso che “gli abusi per i quali era stata inoltrata istanza di condono … non erano ancora presenti a luglio 2003 … Né parte ricorrente, su un piano squisitamente probatorio, ha comprovato la realizzazione della veranda su cui è stato espresso il diniego sulla relativa domanda di condono edilizio prima della scadenza del predetto termine del 31.03.2003”.
La sentenza del Consiglio di Stato
All'appello in secondo grado seguiva un'ordinanza del Consiglio di Stato che disponeva una CTU per verificare se dalle aerofotogrammetrie utilizzate e richiamate in sentenza -ma la cui “lettura” era stata fatta oggetto di espressa e specifica contestazione ad opera dell’appellante- potesse trarsi il convincimento dell’inesistenza del manufatto alla data di dichiarata realizzazione delle stesse.
Il CTU depositava la propria relazione nella quale, tra le altre cose, affermava che "è impossibile esprimersi con scientifica certezza sulla esistenza o meno di una veranda di così esigua consistenza (mq 20,7) attraverso la semplice osservazione monoscopica di una fotografia aerea: per rendere leggibile un manufatto di tali ridotte dimensioni andrebbero effettuati generosi ingrandimenti che però sgranano l’immagine rendendola dunque di cattiva definizione, di difficile lettura e di scarsa attendibilità”.
Secondo Palazzo Spada, se lo stesso CTU riconosce l’impossibilità di stabilire con esattezza la data di ultimazione del manufatto in questione, deve attribuirsi preferibilmente rilevanza all’autodichiarazione che la ricorrente aveva rilasciato nella domanda di condono, contenente l’attestazione che la veranda sarebbe stata realizzata entro il 31.03.2003. Conclusione avvalorata dalla circostanza che vi è un minimo scarto, di appena quattro mesi, tra la data dichiarata dall’interessata sotto la propria penale responsabilità, e quella individuata approssimativamente dal CTU, oltretutto con un significativo beneficio del dubbio dovuto ad intuibili ragioni tecniche, peraltro riconosciute e fatte proprie dallo stesso perito.
Con queste motivazioni il Consiglio di Stato ha accolto l'appello e, in riforma della sentenza appellata, accolto anche il ricorso di primo grado (commento tratto da www.lavoripubblici.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2019 n. 2363 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sopravvenienza di fatti favorevoli all’imprenditore destinatario di interdittiva antimafia.
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Informativa antimafia – Aggiornamenti - Sopravvenienza di fatti favorevoli – Valutazione – Limiti.
Il “venir meno delle circostanze rilevanti” di cui all’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011 non dipende dal mero trascorrere del tempo, in sé, ma dal sopraggiungere di obiettivi elementi diversi o contrari che ne facciano venir meno la portata sintomatica o perché ne controbilanciano, smentiscono e in ogni caso superano la valenza sintomatica, o perché rendono remoto, e certamente non più attuale, il pericolo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar sul piano letterale, la clausola rebus sic stantibus prevista dall’art. 86, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 comporta che in caso di sopravvenienza di fatti favorevoli all’imprenditore (ad es. in relazione ai casi di modificazioni degli assetti societari e gestionali dell’impresa, in ipotesi capaci di modificare la valutazione alla base dell’informativa) l’Amministrazione verifichi nuovamente se persistano ragioni di sicurezza e di ordine pubblico tali da prevalere sull’iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso.
Va tuttavia sottolineato che, in caso di ripetute e strumentali reiterazioni di domande dirette ad ottenere un provvedimento di ritiro o di revoca di un’interdittiva in corso di validità, collegate alla affermata rilevanza di sopravvenienze e fatti nuovi asseriti come favorevoli al soggetto inciso, la Prefettura può limitarsi:
   - a verificare se la domanda sia accompagnata da un fatto realmente nuovo, perché sopravvenuto ovvero non conosciuto, che possa essere ritenuto effettivamente incidente sulla fattispecie (es. effettiva cessione dell’impresa a soggetto del tutto estraneo al rischio di condizionamento o infiltrazione da parte della delinquenza organizzata);
   - a valutare quindi se possano ritenersi venute meno quelle ragioni di sicurezza e di ordine pubblico in precedenza ritenute prevalenti sull’iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso.
In caso di esito negativo di detta verifica, la Prefettura può semplicemente limitarsi a prendere atto della inesistenza di profili nuovi e, di conseguenza, adottare un atto di natura meramente confermativa; ciò a maggior ragione in presenza di sentenze di conferma della legittimità dei precedenti provvedimenti (Consiglio di Stato Sez. III, sentenza 09.04.2019 n. 2324 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui “l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria.
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1. È materia del contendere la legittimità del diniego emesso dal Comune di Deruta del 10.11.2011, prot. 14379, sulla domanda di accertamento di conformità proposta dagli odierni ricorrenti per il mutamento della destinazione d’uso di alcuni locali ubicati al piano terra dell’immobile principale e del fabbricato adiacente, utilizzati ad uso artigianale, nonché per la realizzazione di alcune tettoie e di due piccoli manufatti, l’uno destinato a magazzino e ricovero animali domestici e l’altro a collegare il corpo di fabbrica principale ed il manufatto di pertinenza.
2. Con il primo motivo di ricorso si sostiene che “contrariamente a quanto affermato dal Comune, il manufatto in muratura adibito a ricovero animali effettivamente è stato costruito in data anteriore al 7.7.1967 e, pertanto, non necessitava di alcun titolo abilitativo”.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. È pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui “l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso l’abuso. Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria” (Cons. St., sez. VI, 10.09.2018, n. 5301).
2.3. Nel caso di specie il rilievo aerofotogrammetrico datato maggio 1972 e la documentazione catastale datata 02.01.1976, non consentono di accertare che l’immobile in questione si stato effettivamente costruito anteriormente al 07.07.1967. Ne consegue la piena legittimità del diniego opposto dall’Amministrazione comunale, il quale è stato emanato previa verifica istruttoria ed accertamenti d’ufficio circa l’asserita edificazione del manufatto in data anteriore al 1967.
2.4. Né a diverse conclusioni può condurre la perizia di parte ricorrente, anch’essa insuscettibile di attestare con precisione la data di costruzione dell’immobile (TAR Umbria, sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto concerne la distanza tra i fabbricati, è sufficiente rilevarne l’inderogabilità a prescindere dall’assenso tra i proprietari dei fabbricati stessi, coerentemente al principio secondo cui “la disposizione contenuta nell’articolo 9 del Dm n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile”.
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1. È materia del contendere la legittimità del diniego emesso dal Comune di Deruta del 10.11.2011, prot. 14379, sulla domanda di accertamento di conformità proposta dagli odierni ricorrenti per il mutamento della destinazione d’uso di alcuni locali ubicati al piano terra dell’immobile principale e del fabbricato adiacente, utilizzati ad uso artigianale, nonché per la realizzazione di alcune tettoie e di due piccoli manufatti, l’uno destinato a magazzino e ricovero animali domestici e l’altro a collegare il corpo di fabbrica principale ed il manufatto di pertinenza.
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3. Con il secondo motivo si lamenta che il preavviso di rigetto invocherebbe indifferentemente per ogni manufatto tanto l’art. 23 del Regolamento regionale 03.11.2008 n. 9, quanto il successivo art. 24 (disciplinanti, rispettivamente, le distanze tra edifici e le distanze rispetto ai confini) con conseguente impossibilità di ricostruire l’iter logico-argomentativo seguito dal Comune per negare la sanatoria.
3.1. La doglianza non coglie nel segno e va disattesa.
3.2. Osserva infatti il Collegio che per quanto riguarda la distanza dai confini non risulta l’autorizzazione scritta dei proprietari vicini a derogare alle distanze, a nulla rilevando l’affermazione in senso contrario di parte ricorrente, su cui ricade invero l’obbligo, “nel corso del procedimento, produrre l’assenso dei vicini alla deroga alla distanza stessa” (cfr., ex multis, TAR Veneto, sez. II, 09.03.2007, n. 715).
3.3. Per quanto concerne, invece, la distanza tra i fabbricati, è sufficiente rilevarne l’inderogabilità a prescindere dall’assenso tra i proprietari dei fabbricati stessi, coerentemente al principio secondo cui “la disposizione contenuta nell’articolo 9 del Dm n. 1444 del 1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile” (cfr., Cons. St., sez. IV, 14.09.2017, n. 4337) (Cons. St., sez. VI, 13.03.2017, n. 1155) (TAR Umbria, sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
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3.4. Destituito di fondamento è anche l’assunto secondo cui la tettoia a sbalzo non potrebbe considerarsi quale edificio assoggettato al rispetto dell’art. 23 del Regolamento regionale in tema di distanze tra edifici, avendo la giurisprudenza chiarito che “ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma” (Cons. St., sez. VI, 13.03.2017, n. 1155) (TAR Umbria, sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione con i motivi aggiunti della mancata esclusione del concorrente aggiudicatario.
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Processo amministrativo - Rito appalti - Esclusione concorrente aggiudicatario - Dedotta con motivi aggiunti da concorrente che ha impugnato la propria esclusione giudicata legittima - Possibilità
Sussiste la legittimazione e l’interesse in capo al ricorrente, originariamente escluso, e la cui esclusione sia stata ritenuta dal giudice immune dalle censure dedotte, a far valere con motivi aggiunti la mancata esclusione della ditta aggiudicataria, al fine di ottenere la riedizione della gara (1).
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   (1) Con la sentenza in epigrafe, il Tar, ponendosi consapevolmente in controtendenza rispetto ad una consolidata giurisprudenza amministrativa (Tar Lazio, sez. III, 24.07.2018, n. 8370. v. inoltre ex multis Cons. St., n. 1461 del 2018; Tar Lazio, sez. I-bis, 15.05.2017, n. 5775), ha ritenuto sussistente la legittimazione ad agire di una impresa che, con il ricorso originario, aveva impugnato la propria esclusione dalla gara, ad impugnare con motivi aggiunti la mancata esclusione della aggiudicataria, al fine di ottenere la rinnovazione della gara, nonostante il ricorso avverso l’esclusione fosse stato ritenuto infondato.
La questione è stata decisa tenendo conto dell’evoluzione giurisprudenziale formatasi sulla base dei noti pronunciamenti della Corte di giustizia UE in materia di rapporti tra ricorso incidentale escludente e ricorso principale, ritenendola speculare ma sostanzialmente identica a quella esaminata nelle note sentenze della Corte di giustizia Fastweb (Corte di giustizia UE, Sez. X, 04.07.2013, C-100/12) e Puligenica (Corte di giustizia UE, Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13).
Si è fatto inoltre riferimento alla sentenza della Corte di giustizia UE, sez. VIII, resa il 10.05.2017 nella causa C-131/16 (Archus) in cui è stato affermato che la direttiva 92/13 deve essere interpretata nel senso che, nel caso in cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico abbia dato luogo alla presentazione di due offerte e all'adozione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice, di due determinazioni che contemporaneamente rigettano l'offerta di uno degli offerenti ed aggiudicano l'appalto all'altro, l'offerente escluso, che ha presentato un ricorso avverso le due determinazioni, deve poter chiedere l'esclusione dell'offerta dell'aggiudicatario, in modo che la nozione di "un determinato appalto", ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 3, della Direttiva 92/13 possa ricomprendere l'eventuale avvio di una nuova procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
La soluzione adottata dal collegio si è posta inoltre in continuità con quanto affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione civile sez. un., 29/12/2017, n. 31226, resa in una fattispecie totalmente sovrapponibile a quella in esame, in cui la Corte ha affermato “che contrasta con il diritto dell'Unione una norma nazionale che, con riferimento a ricorsi simmetricamente escludenti (secondo la definizione risultante dalla già richiamata sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2014) relativi a una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti, consenta al giudice di non esaminare nel merito le censure rivolte da un concorrente avverso l'ammissione del (e la conseguente aggiudicazione al) secondo concorrente quale effetto dell'accoglimento del ricorso di quest'ultimo avverso l'ammissione del primo.
L'unica condizione è che le contestazioni incrociate siano mosse nell'ambito di un unico processo e che l'esclusione del concorrente non sia già divenuta definitiva, anche a seguito di rigetto della relativa impugnazione con decisione passata in giudicato, prima della proposizione del ricorso
.”
Secondo la Corte infatti non è rilevante la questione che si tratti di due ricorsi incrociati o di un unico ricorso, corredato da motivi aggiunti, in quanto il punto nodale della questione riguarda “il carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara”.
In questo quadro, il Tar Lazio ha ritenuto che, conformemente a quanto affermato dalla Corte di Cassazione, nonostante non si ravvisino nel caso in esame due ricorsi incrociati, si verta comunque in un caso di “carattere simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara”, trattandosi di una fattispecie speculare ma sostanzialmente identica a quella relativa al ricorso incidentale escludente.
Pertanto, il Tar ha riconosciuto sussistenti, nel caso di specie, tanto l’interesse che la legittimazione ad agire in relazione all’interesse strumentale alla ripetizione della gara, interesse riconosciuto nella sentenza Archus come idoneo “a radicare l'interesse del ricorrente a contestare l'aggiudicazione.” (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 08.04.2019 n. 4517 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' fondata la censura con la quale si deduce la violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, T.U.A. e del disposto dell’art. 7 l. 241/1990, norma generale applicabile a qualsivoglia tipo di procedimento amministrativo, con la sola eccezione di quelli espressamente indicati nell’art. 13 l. 241/1990 (secondo cui “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione. 2. Dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano parimenti ferme le particolari norme che li regolano, nonché ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15.01.1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.03.1991, n. 82, e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29.03.1993, n. 119, e successive modificazioni”) e con la possibilità di omettere la comunicazione di avvio del procedimento solo ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, ovvero, secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza, ove ricorra un’urgenza qualificata che va debitamente esternata dalla P.A..
Infatti l’urgenza qualificata che, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990, consente all'amministrazione di derogare all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, non può che attenere al singolo procedimento e trovare giustificazione nelle esigenze proprie e peculiari dello stesso.
Pertanto l'amministrazione, se ritenga esistenti i presupposti di celerità che legittimano l'omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza che consente di bypassare la comunicazione di avvio del procedimento.
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Per contro alcuna motivazione vi è nell’ordinanza gravata -peraltro in alcun modo qualificabile quale ordinanza contingibile ed urgente in assenza di qualsivoglia riferimento normativo e del richiamo sostanziale relativo alla ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza- in ordine alle ragioni di omissione della comunicazione di avvio del procedimento, che non poteva in alcun modo essere bypassata atteso che nella materia ambientale il contradditorio procedimentale si impone con ancora maggiore rigore, stante il disposto dell’art. 192 comma 3 T.U.A. che richiede il previo accertamento in contradditorio dei profili di responsabilità.
Detta norma deve invero ritenersi applicabile pure allorquando, come nella specie, l’ordinanza venga adottata anche ai sensi dell’art. 14 del codice della strada.
In merito è stato affermato che "La sanzione consistente nell'ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito, ex art. dell'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non può essere direttamente (melius, in modo automatico, secondo il parametro della responsabilità oggettiva) irrogata all'A.N.A.S. senza un previo accertamento ed una coerente affermazione del titolo di responsabilità. E' vero che la previsione dell'art. 14 del codice della strada, incentrando nel gestore del servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale, con le annesse pertinenze, potrebbe costituire il parametro normativo per l'individuazione del profilo della colpa ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, ma ciò non può avvenire al di fuori di un accertamento in contraddittorio, non essendo ravvisabile una responsabilità da posizione del proprietario, ovvero, nella specie, del concessionario”.
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Come noto l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 non è norma sostanziale che legittima l’amministrazione a bypassare la dovuta comunicazione di avvio del procedimento, ma norma processuale, applicabile dal giudice che consente di non annullare il provvedimento viziato per la violazione dell’art. 7 l. 241/1990, solo allorquando ritenga all’esito del giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Invero, “L'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 è una norma di carattere processuale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15/2005, in quanto, sancendo la non annullabilità del provvedimento, il legislatore ha inteso escludere la possibilità che esso (comunque illegittimo) e i suoi effetti vengano eliminati dal giudice amministrativo, senza spingersi ad affermare che l'atto non sarebbe più qualificabile, sul piano sostanziale, come annullabile”.
Ciò senza tralasciare di considerare che nella specifica materia ambientale, stante il rigore procedimentale richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A. ai fini dell’accertamento della responsabilità, il disposto dell’art. 21-octies comma 2 l. 241/1990 presenta carattere recessivo.
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1. Con atto notificato via PEC in data 09.07.2018 e depositato il successivo 10 luglio l’Agenzia del Demanio - Direzione Regionale Campania ha impugnato l’ordinanza n. 20 del 17.05.2018 emessa dal Sindaco del Comune di Frignano, ex art. 192 T.U.A. e 14 C.d.S. (d.lgs. 285/1992) notificata in data 17.05.2018, con cui si ordinava al legale rappresentante del Consorzio Generale di Bonifica Inferiore del Volturno e al legale rappresentante dell’Agenzia del Demanio della Regione Campania “di provvedere a loro cure e spese, entro 15 giorni dalla notifica della presente, alla rimozione e smaltimento, previa selezione, dei rifiuti abbandonati nell’area pertinenziale ricadente sul territorio di Frignano, nei modi di legge e precisamente ricadenti al N.C.T. al foglio 1, particelle 144, 112, 118, 98 e 121” nonché “al ripristino dello stato dei luoghi ed al ripristino della sbarra posta all’inizio della strada, al fine di prevenire l’abbandono incontrollato dei rifiuti e l’incendio degli stessi” e “di esercitare una funzione di protezione e custodia delle aree di loro proprietà, finalizzata ad evitare che la stessa possa essere adibita a discarica abusiva dei rifiuti per la salvaguardia dell’ambiente”.
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5. Ed invero il ricorso è manifestamente fondato, quanto meno in riferimento alla censura articolata nel secondo motivo, con il quale si deduce la violazione del disposto dell’art. 192, comma 3, T.U.A. e del disposto dell’art. 7 l. 241/1990, norma generale applicabile a qualsivoglia tipo di procedimento amministrativo, con la sola eccezione di quelli espressamente indicati nell’art. 13 l. 241/1990 (secondo cui “Le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione. 2. Dette disposizioni non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i quali restano parimenti ferme le particolari norme che li regolano, nonché ai procedimenti previsti dal decreto-legge 15.01.1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15.03.1991, n. 82, e successive modificazioni, e dal decreto legislativo 29.03.1993, n. 119, e successive modificazioni”) e con la possibilità di omettere la comunicazione di avvio del procedimento solo ove sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento, ovvero, secondo quanto ritenuto dalla giurisprudenza, ove ricorra un’urgenza qualificata che va debitamente esternata dalla P.A..
Infatti l’urgenza qualificata che, ai sensi dell'art. 7 della L. n. 241 del 1990, consente all'amministrazione di derogare all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento, non può che attenere al singolo procedimento e trovare giustificazione nelle esigenze proprie e peculiari dello stesso. Pertanto l'amministrazione, se ritenga esistenti i presupposti di celerità che legittimano l'omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza che consente di bypassare la comunicazione di avvio del procedimento (ex multis TAR Lazio-Latina, Sez. I, 19/04/2018, n. 221).
Per contro alcuna motivazione vi è nell’ordinanza gravata -peraltro in alcun modo qualificabile quale ordinanza contingibile ed urgente in assenza di qualsivoglia riferimento normativo e del richiamo sostanziale relativo alla ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed urgenza- in ordine alle ragioni di omissione della comunicazione di avvio del procedimento, che non poteva in alcun modo essere bypassata atteso che nella materia ambientale il contradditorio procedimentale si impone con ancora maggiore rigore, stante il disposto dell’art. 192, comma 3, T.U.A. che richiede il previo accertamento in contradditorio dei profili di responsabilità; detta norma deve invero ritenersi applicabile pure allorquando, come nella specie, l’ordinanza venga adottata anche ai sensi dell’art. 14 del codice della strada (ex multis la recentissima sentenza Cons. Stato Sez. V, 14/03/2019, n. 1684- Riforma TAR Puglia-Lecce, Sez. I n. 2975/2009 secondo cui “La sanzione consistente nell'ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento igienico del sito, ex art. dell'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non può essere direttamente (melius, in modo automatico, secondo il parametro della responsabilità oggettiva) irrogata all'A.N.A.S. senza un previo accertamento ed una coerente affermazione del titolo di responsabilità. E' vero che la previsione dell'art. 14 del codice della strada, incentrando nel gestore del servizio stradale tutte le competenze relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale, con le annesse pertinenze, potrebbe costituire il parametro normativo per l'individuazione del profilo della colpa ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, ma ciò non può avvenire al di fuori di un accertamento in contraddittorio, non essendo ravvisabile una responsabilità da posizione del proprietario, ovvero, nella specie, del concessionario”).
5.1. Né nell’ipotesi di specie, non essendosi tra l’altro l’Amministrazione costituita e non avendo pertanto provveduto come suo onere a dimostrare che il contenuto del provvedimento avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, può farsi applicazione del disposto sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 seconda parte.
Ed invero come noto l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 non è norma sostanziale che legittima l’amministrazione a bypassare la dovuta comunicazione di avvio del procedimento, ma norma processuale, applicabile dal giudice che consente di non annullare il provvedimento viziato per la violazione dell’art. 7 l. 241/1990, solo allorquando ritenga all’esito del giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (ex multis Cons. Stato Sez. VI Sent., 17/01/2011, n. 256 secondo cui “L'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 è una norma di carattere processuale applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15/2005, in quanto, sancendo la non annullabilità del provvedimento, il legislatore ha inteso escludere la possibilità che esso (comunque illegittimo) e i suoi effetti vengano eliminati dal giudice amministrativo, senza spingersi ad affermare che l'atto non sarebbe più qualificabile, sul piano sostanziale, come annullabile”).
Ciò senza tralasciare di considerare che nella specifica materia ambientale, stante il rigore procedimentale richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A. ai fini dell’accertamento della responsabilità, il disposto dell’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 presenta carattere recessivo (ex multis in tal senso TAR Salerno, sez. I, 02.03.2016, n. 488).
6. Detto vizio presenta carattere assorbente in ragione della circostanza che lo stesso determina necessariamente, in sede di eventuale riesercizio del potere, la regressione procedimentale stante la necessità di assicurare il rispetto del disposto dell’art. 7 l. 241/1990 e del quid pluris richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A., con la conseguenza che l’Amministrazione non potrà riesercitare il potere se non previo accertamento in contradditorio degli eventuali profili di responsabilità.
7. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente annullamento dell’atto gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 05.04.2019 n. 1914 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chi presenta istanza di autorizzazione "ad aedificandum" ha l'onere di accludere dati, documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque tali da fornire una errata rappresentazione dello stato dei luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato.
Pertanto, in materia di affidamento d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
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Se è vero che la legittimazione a chiedere il permesso di costruire spetta non solo al proprietario ma anche al titolare di un diritto reale su cosa altrui o di un diritto personale di godimento, è altrettanto vero che quest’ultimo soggetto dev’essere stato autorizzato dal proprietario a realizzare le opere oggetto del permesso di costruire.
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La prima censura risulta infondata anche secondo il profilo della tardività: come correttamente eccepito dal Comune, nel caso di specie l’operato dell’amministrazione è stato fuorviato dall’erronea o falsa rappresentazione dello stato di fatto posta in essere dal privato al momento della richiesta del titolo edilizio. Come è stato accertato, infatti, la stradina non era cieca e poteva essere ben utilizzata anche da soggetti diversi dai proprietari del Condominio Ma.Va..
Pertanto, è da escludere l’esistenza di un affidamento meritevole di tutela: come stabilito in giurisprudenza, “Chi presenta istanza di autorizzazione "ad aedificandum" ha l'onere di accludere dati, documenti e misurazioni idonei a dare esatta contezza della situazione dei luoghi con la conseguenza che, ove invece fornisca dati incompleti, non rispondenti alla superficie e al volume impegnati dalla progettata edificazione e comunque tali da fornire una errata rappresentazione dello stato dei luoghi, l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato. Pertanto, in materia di affidamento d'ufficio dei titoli edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica” (TAR Campania Salerno Sez. II, 04/02/2019, n. 217).
Deve ritenersi infondata anche la seconda censura.
Come eccepito dal Comune, se è vero che la legittimazione a chiedere il permesso di costruire spetta non solo al proprietario ma anche al titolare di un diritto reale su cosa altrui o di un diritto personale di godimento, è altrettanto vero che quest’ultimo soggetto dev’essere stato autorizzato dal proprietario a realizzare le opere oggetto del permesso di costruire (tra le tante, TAR Campania Napoli Sez. IV, 10.11.2017, n. 5329).
E, nel caso di specie, la stradina appartiene alla Regione, che non risulta aver mai autorizzato l’istallazione della sbarra di chiusura. Pertanto, la parte ricorrente era priva di legittimazione a chiedere il permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 05.04.2019 n. 1912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E' illegittima la deliberazione consiliare di diniego della presentata istanza di approvazione di un piano di lottizzazione laddove:
   1) è mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla doverosa fase partecipativa;
   2) dalla preterizione di una fase partecipativa del procedimento è derivato il difetto di istruttoria del provvedimento impugnato;
   3) il rilievo di una necessità di apportare correzioni e modifiche allo schema di convenzione avrebbe dovuto indurre il Comune a proporre le correzioni e le modifiche, non già a decidere di non approvare la lottizzazione;
   4) vi è contraddizione tra il premesso accertamento della conformità dell’intervento al P.R.G. e la conclusione di non approvarlo;
   5) è comunque mancato il soccorso istruttorio da parte del responsabile del procedimento, ex art. 6 legge n. 241/1990;
   6) viene posto a carico dei ricorrenti un presunto onere di spostare la condotta del gas cittadino, benché tale onere faccia carico al Comune stesso o alla ditta che gestisce il servizio della distribuzione del gas, non certo ai lottizzanti.
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In effetti, è mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla doverosa fase partecipativa. Tale vizio formale, in quanto non ovviabile, inficia il procedimento. Trattandosi di provvedimento non vincolato bensì altamente discrezionale, non si può invocare, nel caso di specie, l’applicazione dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, poiché il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato, in effetti, avrebbe potuto essere diverso e l'Amministrazione resistente non ha provato l’impossibilità che l'eventuale apporto infra-procedimentale dei ricorrenti potesse fornire contributi utili, né che in concreto il contenuto del provvedimento fosse del tutto e irrimediabilmente necessitato.
L’omissione della fase partecipativa del procedimento ha, in effetti, determinato un difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento impugnato, peraltro confermato dalla palese contraddizione tra il premesso accertamento della conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica e la conclusione dispositiva di non approvare l’intervento stesso.
È condivisibile il rilievo che sulla questione sarebbe stato opportuno un confronto coi lottizzanti al fine di permettere loro di proporre soluzioni diverse e meno costose. Al contrario, tale opportunità non è stata offerta e ciò comporta l’illegittimità del procedimento e del provvedimento.
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Com’è noto, il piano di lottizzazione è uno strumento urbanistico a iniziativa prevalentemente privata, frutto di scelte concordate tra l'autorità urbanistica, i proprietari e gli imprenditori interessati.
Il Consiglio di Stato ha più volte chiarito come sulla base del modello urbanistico prefigurato dall'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, la pretesa in argomento sia, a tutti gli effetti, ascrivibile a un rapporto di diritto pubblico. Del resto, in materia di lottizzazioni, l’iter conduce alla stipula della convenzione di lottizzazione, ossia di un atto qualificato tra gli accordi procedimentali di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990.
In particolare, la detta normativa contiene un istituto di carattere particolare, che permette all’Amministrazione procedente di concludere accordi con il soggetto interessato, che andranno a integrare o a sostituire alcune disposizioni contenute nel provvedimento finale. Tale disciplina, contenuta nell’articolo 11, dispone che “l’Amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”.
Al fine di favorire gli accordi e di evitare ulteriori pregiudizi nei confronti dei terzi, il responsabile del procedimento deve disporre un calendario di incontri ai quali invitare i soggetti destinatari del provvedimento e gli eventuali controinteressati. Conseguentemente, “Ciò che si realizza nel caso di specie, come si è già affermato, è solo la partecipazione attiva dell'interessato alla fase decisionale, in modo che, attraverso la diretta rappresentazione (anche in questa fase) della propria posizione di interesse legittimo, quest'ultimo riesca ad ottenere una tutela maggiore ed una migliore "parametrazione" della discrezionalità, derivante proprio dal confronto rispetto ad una valutazione e scelta unilateralmente assunti”.
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Peraltro, l'atto di approvazione del piano di lottizzazione, provvedimento amministrativo discrezionale in materia urbanistica (avente a oggetto un piano proposto da privati e, dunque, parzialmente sostitutivo di procedimento) si configura contestualmente quale atto di approvazione dello schema di convenzione di lottizzazione.
Come noto, il potere comunale di pianificazione è connotato da ampia discrezionalità, ma il suo esercizio è subordinato all'obbligo di effettuare un’adeguata, preventiva attività istruttoria in relazione alla portata degli interessi pubblici e privati coinvolti, in sostanza le scelte urbanistiche, ancorché caratterizzate da discrezionalità, devono rivelarsi, alla stregua del sindacato giurisdizionale sulle stesse esercitabile, esenti da vizi di illogicità e irrazionalità e le stesse devono essere supportate, sia pure con riferimento alle linee-guida che accompagnano la redazione degli strumenti urbanistici, da idonea motivazione.
Per comprendere l’applicabilità alla fattispecie di siffatti principi, è sufficiente analizzare il dato normativo, ossia l’ultimo comma dell’art. 28 della legge n. 1150/1942, il quale recita: “Il progetto di lottizzazione approvato con le modificazioni che l'Autorità comunale abbia ritenuto di apportare è notificato per mezzo del messo comunale ai proprietari della aree fabbricabili con invito a dichiarare, entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino”.
Dunque, l’Amministrazione avrebbe dovuto comunicare eventuali modifiche al piano di lottizzazione prima di negarne in toto l’approvazione. Tale impostazione condivisa dal Consiglio di Stato corrisponde allo schema generale dell'attività convenzionale della pubblica Amministrazione, come desumibile dall'art. 11 citato, nonché agli obblighi derivanti dall’art. 6 della medesima legge.
Facendo concreta applicazione di tali principi al caso di specie, è evidente come il fine di pubblico interesse, rappresentato dall'ordinato sviluppo del territorio, avrebbe potuto coniugarsi con l’interesse dei privati, valorizzando l’esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione nel modo più adeguato al caso concreto.
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Va affrontato, ora, il tema dell’incompatibilità del piano di lottizzazione proposto con la presenza di un’infrastruttura preesistente su quell’area (la condotta del gas cittadino).
La deliberazione gravata ha deciso di non approvare il piano di lottizzazione dei ricorrenti, principalmente per la carenza in esso del tracciamento della condotta ad alta pressione del gas che attraversa l’intera area da lottizzare. Sul punto, il verificatore tecnico, all’uopo incaricato da questo Tar, ha così concluso: “il progetto di lottizzazione, così come proposto all’approvazione, non può essere realizzato in quanto non tiene conto che i luoghi sono interessati anche dalla condotta del gas e si pone in contrasto con la normativa di cui al citato D.M. 17.04.2008”.
Ha aggiunto, tuttavia, che “l’area è comunque utilizzabile con alcuni condizionamenti dovuti alla presenza della condotta”, sì da consentire lo sfruttamento dell’intera potenzialità edificatoria o almeno di buona parte di essa. Il verificatore ha, dunque, dato seguito ai quesiti posti, concludendo per la possibilità di sfruttare la potenzialità edificatoria prevista dallo strumento urbanistico vigente, affermando l’utilizzabilità dell’area.
Il diniego recisamente opposto dall’Amministrazione –in luogo di una più congrua e ragionevole proposta modificativa del piano- non trova, pertanto, alcun fondamento fattuale e giuridico. L’istruttoria espletata ha confermato la possibilità di approvare il piano di lottizzazione, previe le necessarie modifiche relative alle distanze, dovute alla presenza della condotta del gas.
Invero, il potere di soccorso istruttorio, ex art. 6, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990, che riconosce al responsabile del procedimento amministrativo la facoltà di chiedere la rettifica di istanze erronee o incomplete, costituisce un istituto generale che soddisfa l’esigenza di consentire la massima partecipazione e orienta l'azione amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti posseduti, attenuando la rigidità delle forme.
Pertanto, il Comune avrebbe potuto e dovuto sollevare per tempo il problema delle distanze di sicurezza dalla condotta del gas, interloquendo coi ricorrenti, nel rispetto della legge n. 241/1990. Viceversa, nel caso di specie, nel corso dell’iter procedimentale, l'Amministrazione non ha sollevato il problema delle distanze dalla condotta del gas e lo ha fatto soltanto con il provvedimento conclusivo del procedimento.
Se la questione fosse stata tempestivamente posta, sarebbe stato possibile per i proponenti il piano di lottizzazione, eventualmente anche in contraddittorio col gestore del servizio, prospettare soluzioni diverse e meno onerose rispetto al proposto spostamento dell’impianto che, per molte ragioni, non può porsi a carico dei ricorrenti. Come emerso dalla verificazione, la presenza della condotta non costituisce totale e irresolubile impedimento all’attuazione del progetto. Sarebbe stato sufficiente apportare alcune variazioni progettuali per attuare il rispetto delle distanze.
Dal tenore della motivazione del provvedimento impugnato emerge, invero, anche un profilo di sviamento di potere.
Il Comune, con il tentativo di imporre ai lottizzanti lo spostamento della condotta del gas, prova a gravare i medesimi di un onere che avrebbe dovuto far carico all’Amministrazione stessa. Si intravvede sullo sfondo di tale tentativo comunale la pregressa vicenda relativa allo spostamento della cabina del gas, quale descritta nella narrativa in fatto dell’impugnata delibera, vicenda che risale al 2005: lo spostamento della cabina incombeva alla ditta realizzatrice dell’impianto ma il Comune non ebbe a pretenderlo né fece nulla per ottenerlo, sicché ha poi ritenuto di farne carico ai lottizzanti. È evidente lo sconfinamento dai limiti oggettivo causali della fattispecie.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, lo sviamento, come figura sintomatica dell’eccesso di potere, ricorre quando il pubblico potere viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla legge, con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico.
Una volta dimostrato che il fine di una determinata azione amministrativa non è quello di legge, ma altro e diverso, evidentemente il potere discrezionale, come potere in principio vincolato nel fine, si appalesa illegittimo. Ricorre lo sviamento di potere quando il pubblico potere viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico.
Pertanto la delibera n. 4/2011 è illegittima anche perché affetta da sviamento di potere, atteso che non fornisce la intellegibile contezza delle ragioni per cui la prevista realizzazione di un insediamento residenziale debba onerare i privati della delocalizzazione parziale di una rete infrastrutturale pubblica.
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I - I ricorrenti, comproprietari di un terreno sito in agro del Comune di Petacciato, indicato in catasto al foglio 19, particelle 436, 569 e 571, ubicato in area P.e.e.p., chiedevano in data 12.11.2008 l'approvazione di un piano di lottizzazione a iniziativa privata da localizzarsi sulle aree di proprietà.
Benché tale proposta riportasse unanimi pareri favorevoli e fosse redatta in conformità al vigente P.R.G. (come riconosciuto dallo stesso Comune nella delibera impugnata), il Comune adottava, dopo molti solleciti, la delibera consiliare n. 4/2011.
Con detto provvedimento il Consiglio comunale di Petacciato stabiliva di non approvare la lottizzazione per i seguenti motivi:
   a) si rende necessario apportare correzioni e modifiche allo schema di convenzione;
   b) nelle premesse si rilevano errori di superfici e relative destinazioni;
   c) all'art. 5, il termine di sette anni per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria risulta eccessivo;
   d) manca un riferimento al Codice degli appalti;
   e) nell'elenco delle opere di urbanizzazione manca la rete del gas;
   f) gli articoli 5-bis , 6, 7 e 7-bis non trovano attinenza e riscontro nella convenzione stessa;
   g) all'art. 13 manca la dicitura "e agli oneri di urbanizzazione secondaria";
   h) l'art. 15 va sostituito come segue: “ogni controversia relativa alla presente convenzione sarà rimessa alla competenza del foro territorialmente competente rinunciando espressamente sin d'ora al ricorso all'arbitrato”;
   i) negli elaborati grafici, nella relazione tecnica e nello schema di convenzione proposto non viene riportato lo spostamento della condotta esistente del gas ad alta pressione che attraversa l'intera area che si intende lottizzare;
   l) in ogni caso l'approvazione del piano di lottizzazione è subordinato alla formale assunzione di impegno da parte della ditta lottizzante allo spostamento della condotta esistente del gas ad alta pressione che attraversa l'intera area lottizzata.
...
II – Il ricorso è ammissibile e fondato.
III – Il Comune eccepisce l’inammissibilità del gravame sul presupposto che l’atto impugnato abbia carattere meramente endoprocedimentale e non definitivo, quindi non sia autonomamente lesivo degli interessi dei ricorrenti. Ciò è contraddetto dal dato testuale del provvedimento, atteso che il dispositivo dell’impugnata delibera di C.C. n. 4/2011 afferma che il Consiglio comunale “delibera di non approvare, per le motivazioni di cui in narrativa, il piano di lottizzazione…”.
Si tratta, dunque, di un vero e proprio diniego. Inoltre, va rilevato che, dal 2011 ad oggi, nessun ulteriore provvedimento è stato adottato dal Comune in ordine alla proposta lottizzazione, la qual cosa dà conferma del fatto che il provvedimento impugnato non sia un mero atto interno, bensì un diniego definitivo di lottizzazione, ovvero un atto dotato di autonoma lesività.
Per quel che riguarda l’eccepita mancata impugnazione del Piano di edilizia economica e popolare (P.e.e.p.) e dei permessi di costruire rilasciati alla società Co.la.co, la quale ha realizzato lottizzazioni nella stessa zona, va rilevato che sia il Piano sia i detti permessi edilizi, in via di principio, non dovrebbero interferire con l’interesse dei ricorrenti a realizzare sulle aree di loro proprietà l’intervento proposto per la lottizzazione, se solo si considera che lo stesso Comune riconosce la conformità dell’intervento proposto dai ricorrenti alla vigente pianificazione urbanistica che -a quanto consta– non ha subito variazioni significative dal 2011 ad oggi.
Se poi, di fatto, gli interventi edilizi realizzati dalla ditta Co.la.co hanno ridotto al di sotto degli standard minimi, in quel comparto, le aree da destinare a servizi e urbanizzazioni, ciò può essere avvenuto in ragione o di una errata pianificazione comunale oppure di un’anomala esuberanza delle realizzazioni edilizie della ditta Co.la.co, delle cui conseguenze il Comune non può oggi far carico ai ricorrenti.
Da ciò consegue l’ammissibilità del ricorso, sotto il profilo dell’interesse.
IV – I ricorrenti formulano le seguenti censure:
   1) è mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla doverosa fase partecipativa;
   2) dalla preterizione di una fase partecipativa del procedimento è derivato il difetto di istruttoria del provvedimento impugnato;
   3) il rilievo di una necessità di apportare correzioni e modifiche allo schema di convenzione avrebbe dovuto indurre il Comune a proporre le correzioni e le modifiche, non già a decidere di non approvare la lottizzazione;
   4) vi è contraddizione tra il premesso accertamento della conformità dell’intervento al P.R.G. e la conclusione di non approvarlo;
   5) è comunque mancato il soccorso istruttorio da parte del responsabile del procedimento, ex art. 6 legge n. 241/1990;
   6) viene posto a carico dei ricorrenti un presunto onere di spostare la condotta del gas cittadino, benché tale onere faccia carico al Comune stesso o alla ditta che gestisce il servizio della distribuzione del gas, non certo ai lottizzanti.
V – I motivi del ricorso, anche alla luce delle risultanze della disposta verificazione istruttoria, sono tutti attendibili.
VI – In effetti, è mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla doverosa fase partecipativa. Tale vizio formale, in quanto non ovviabile, inficia il procedimento. Trattandosi di provvedimento non vincolato bensì altamente discrezionale, non si può invocare, nel caso di specie, l’applicazione dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990, poiché il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato, in effetti, avrebbe potuto essere diverso e l'Amministrazione resistente non ha provato l’impossibilità che l'eventuale apporto infra-procedimentale dei ricorrenti potesse fornire contributi utili, né che in concreto il contenuto del provvedimento fosse del tutto e irrimediabilmente necessitato (cfr.: Cons. Stato VI, 01.02.2019, n. 811).
L’omissione della fase partecipativa del procedimento ha, in effetti, determinato un difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento impugnato, peraltro confermato dalla palese contraddizione tra il premesso accertamento della conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica e la conclusione dispositiva di non approvare l’intervento stesso.
È condivisibile il rilievo che sulla questione sarebbe stato opportuno un confronto coi lottizzanti al fine di permettere loro di proporre soluzioni diverse e meno costose. Al contrario, tale opportunità non è stata offerta e ciò comporta l’illegittimità del procedimento e del provvedimento (cfr.: Tar Lazio-Latina I, 26.04.2018, n. 226).
Com’è noto, il piano di lottizzazione è uno strumento urbanistico a iniziativa prevalentemente privata, frutto di scelte concordate tra l'autorità urbanistica, i proprietari e gli imprenditori interessati.
Il Consiglio di Stato ha più volte chiarito come sulla base del modello urbanistico prefigurato dall'art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150, la pretesa in argomento sia, a tutti gli effetti, ascrivibile a un rapporto di diritto pubblico. Del resto, in materia di lottizzazioni, l’iter conduce alla stipula della convenzione di lottizzazione, ossia di un atto qualificato tra gli accordi procedimentali di cui all’art. 11 della legge n. 241/1990.
In particolare, la detta normativa contiene un istituto di carattere particolare, che permette all’Amministrazione procedente di concludere accordi con il soggetto interessato, che andranno a integrare o a sostituire alcune disposizioni contenute nel provvedimento finale. Tale disciplina, contenuta nell’articolo 11, dispone che “l’Amministrazione procedente può concludere, senza pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli interessati al fine di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale ovvero in sostituzione di questo”.
Al fine di favorire gli accordi e di evitare ulteriori pregiudizi nei confronti dei terzi, il responsabile del procedimento deve disporre un calendario di incontri ai quali invitare i soggetti destinatari del provvedimento e gli eventuali controinteressati. Conseguentemente, “Ciò che si realizza nel caso di specie, come si è già affermato, è solo la partecipazione attiva dell'interessato alla fase decisionale, in modo che, attraverso la diretta rappresentazione (anche in questa fase) della propria posizione di interesse legittimo, quest'ultimo riesca ad ottenere una tutela maggiore ed una migliore "parametrazione" della discrezionalità, derivante proprio dal confronto rispetto ad una valutazione e scelta unilateralmente assunti” (cfr.: Cons. Stato IV, 15.05.2017, n. 2256).
Peraltro, l'atto di approvazione del piano di lottizzazione, provvedimento amministrativo discrezionale in materia urbanistica (avente a oggetto un piano proposto da privati e, dunque, parzialmente sostitutivo di procedimento) si configura contestualmente quale atto di approvazione dello schema di convenzione di lottizzazione. Come noto, il potere comunale di pianificazione è connotato da ampia discrezionalità, ma il suo esercizio è subordinato all'obbligo di effettuare un’adeguata, preventiva attività istruttoria in relazione alla portata degli interessi pubblici e privati coinvolti, in sostanza le scelte urbanistiche, ancorché caratterizzate da discrezionalità, devono rivelarsi, alla stregua del sindacato giurisdizionale sulle stesse esercitabile, esenti da vizi di illogicità e irrazionalità e le stesse devono essere supportate, sia pure con riferimento alle linee-guida che accompagnano la redazione degli strumenti urbanistici, da idonea motivazione (cfr.: Cons. Stato IV, 18.04.2014, n. 1989; Tar Abruzzo-L'Aquila I, 28.10.2014 n. 735).
Per comprendere l’applicabilità alla fattispecie di siffatti principi, è sufficiente analizzare il dato normativo, ossia l’ultimo comma dell’art. 28 della legge n. 1150/1942, il quale recita: “Il progetto di lottizzazione approvato con le modificazioni che l'Autorità comunale abbia ritenuto di apportare è notificato per mezzo del messo comunale ai proprietari della aree fabbricabili con invito a dichiarare, entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino”.
Dunque, l’Amministrazione avrebbe dovuto comunicare eventuali modifiche al piano di lottizzazione prima di negarne in toto l’approvazione. Tale impostazione condivisa dal Consiglio di Stato corrisponde allo schema generale dell'attività convenzionale della pubblica Amministrazione, come desumibile dall'art. 11 citato (cfr.: Cons. Stato IV, 15.05.2017, n. 2256), nonché agli obblighi derivanti dall’art. 6 della medesima legge. Facendo concreta applicazione di tali principi al caso di specie, è evidente come il fine di pubblico interesse, rappresentato dall'ordinato sviluppo del territorio, avrebbe potuto coniugarsi con l’interesse dei privati, valorizzando l’esercizio del potere discrezionale dell’Amministrazione nel modo più adeguato al caso concreto.
VII – Ciò premesso, va affrontato il tema dell’incompatibilità del piano di lottizzazione proposto con la presenza di un’infrastruttura preesistente su quell’area (la condotta del gas cittadino).
La deliberazione gravata ha deciso di non approvare il piano di lottizzazione dei ricorrenti, principalmente per la carenza in esso del tracciamento della condotta ad alta pressione del gas che attraversa l’intera area da lottizzare. Sul punto, il verificatore tecnico, all’uopo incaricato da questo Tar, ha così concluso: “il progetto di lottizzazione, così come proposto all’approvazione, non può essere realizzato in quanto non tiene conto che i luoghi sono interessati anche dalla condotta del gas e si pone in contrasto con la normativa di cui al citato D.M. 17.04.2008”.
Ha aggiunto, tuttavia, che “l’area è comunque utilizzabile con alcuni condizionamenti dovuti alla presenza della condotta”, sì da consentire lo sfruttamento dell’intera potenzialità edificatoria o almeno di buona parte di essa. Il verificatore ha, dunque, dato seguito ai quesiti posti, concludendo per la possibilità di sfruttare la potenzialità edificatoria prevista dallo strumento urbanistico vigente, affermando l’utilizzabilità dell’area.
Il diniego recisamente opposto dall’Amministrazione –in luogo di una più congrua e ragionevole proposta modificativa del piano- non trova, pertanto, alcun fondamento fattuale e giuridico. L’istruttoria espletata ha confermato la possibilità di approvare il piano di lottizzazione, previe le necessarie modifiche relative alle distanze, dovute alla presenza della condotta del gas.
Invero, il potere di soccorso istruttorio, ex art. 6, comma 1, lett. b), della legge n. 241/1990, che riconosce al responsabile del procedimento amministrativo la facoltà di chiedere la rettifica di istanze erronee o incomplete, costituisce un istituto generale che soddisfa l’esigenza di consentire la massima partecipazione e orienta l'azione amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti posseduti, attenuando la rigidità delle forme (cfr. Cons. Stato IV, 12.01.2017 n. 50).
Pertanto, il Comune avrebbe potuto e dovuto sollevare per tempo il problema delle distanze di sicurezza dalla condotta del gas, interloquendo coi ricorrenti, nel rispetto della legge n. 241/1990. Viceversa, nel caso di specie, nel corso dell’iter procedimentale, l'Amministrazione non ha sollevato il problema delle distanze dalla condotta del gas e lo ha fatto soltanto con il provvedimento conclusivo del procedimento.
Se la questione fosse stata tempestivamente posta, sarebbe stato possibile per i proponenti il piano di lottizzazione, eventualmente anche in contraddittorio col gestore del servizio, prospettare soluzioni diverse e meno onerose rispetto al proposto spostamento dell’impianto che, per molte ragioni, non può porsi a carico dei ricorrenti. Come emerso dalla verificazione, la presenza della condotta non costituisce totale e irresolubile impedimento all’attuazione del progetto. Sarebbe stato sufficiente apportare alcune variazioni progettuali per attuare il rispetto delle distanze.
Dal tenore della motivazione del provvedimento impugnato emerge, invero, anche un profilo di sviamento di potere.
Il Comune, con il tentativo di imporre ai lottizzanti lo spostamento della condotta del gas, prova a gravare i medesimi di un onere che avrebbe dovuto far carico all’Amministrazione stessa. Si intravvede sullo sfondo di tale tentativo comunale la pregressa vicenda relativa allo spostamento della cabina del gas, quale descritta nella narrativa in fatto dell’impugnata delibera, vicenda che risale al 2005: lo spostamento della cabina incombeva alla ditta realizzatrice dell’impianto ma il Comune non ebbe a pretenderlo né fece nulla per ottenerlo, sicché ha poi ritenuto di farne carico ai lottizzanti. È evidente lo sconfinamento dai limiti oggettivo causali della fattispecie.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, IV, 08.01.2013 n. 32), lo sviamento, come figura sintomatica dell’eccesso di potere, ricorre quando il pubblico potere viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla legge, con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr.: Cons. Stato V, 05.06.2018 n. 3401).
Una volta dimostrato che il fine di una determinata azione amministrativa non è quello di legge, ma altro e diverso, evidentemente il potere discrezionale, come potere in principio vincolato nel fine, si appalesa illegittimo. Ricorre lo sviamento di potere quando il pubblico potere viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dal legislatore con la norma attributiva dello stesso, ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato da un interesse diverso da quello pubblico (cfr.: Cons. Stato V 05.06.2018, n. 3401; Tar Friuli-Trieste I 03.08.2018 n. 272).
Pertanto la delibera n. 4/2011 è illegittima anche perché affetta da sviamento di potere, atteso che non fornisce la intellegibile contezza delle ragioni per cui la prevista realizzazione di un insediamento residenziale debba onerare i privati della delocalizzazione parziale di una rete infrastrutturale pubblica.
VIII – In conclusione, il ricorso deve essere accolto. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo (TAR Molise, sentenza 05.04.2019 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Campeggio - Lottizzazione abusiva - Allestimenti e servizi finalizzati ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo - Artt. 30, 44, 64, 65, 71, 72, 83, 93 e 95 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La struttura di natura "campeggistica" presuppone allestimenti e servizi finalizzati ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo in quanto previsto dalla legge in funzione di turisti in prevalenza provvisti di propri mezzi mobili di pernottamento, con la conseguenza che laddove l'area destinata ad essa venga radicalmente mutata per la presenza di opere stabili, strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le caratteristiche originarie, deve ritenersi integrato il reato di lottizzazione abusiva (Cass., Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e altro; Sez. fer., n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli).
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Reati urbanistici - Confisca dei terreni e delle opere abusivamente lottizzati - Conferimento di un diverso assetto del territorio.
L'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede la confisca tanto "dei terreni abusivamente lottizzati" quanto "delle opere abusivamente costruite", cosicché la misura appare contemplata indipendentemente dalla edificazione, essendo terreni lottizzati anche quelli oggetto di lottizzazione meramente negoziale e non consistendo necessariamente le opere in edifici propriamente detti ben potendo rientrare in tale concetto, ad esempio, gli interventi di urbanizzazione primaria (come fognature, rete idrica, elettrica, strade di collegamento etc.), e potendo l'intervento lottizzatorio, pur in presenza di edifici, non essere limitato all'area di sedime degli stessi, ma comprendere anche altre aree che, essendo in qualche modo asservite, direttamente o indirettamente, agli edifici stessi, rientrino nel complesso di attività univocamente finalizzate al conferimento di un diverso assetto del territorio.
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Lottizzazione abusiva - Operazione di frazionamento - Sanzione - Proporzionalità della confisca - Terzi in buona fede.
In materia urbanistica, i "terreni lottizzati" ovvero "rientranti nel generale progetto lottizzatorio" vanno identificati in quelli che risultano oggetto di un'operazione di frazionamento preordinata ad agevolarne l'utilizzazione a scopo edilizio. Ove esista, pertanto, un preventivo frazionamento, va confiscata tutta l'area interessata da tale frazionamento, nonché dalla previsione delle relative infrastrutture ed opere di urbanizzazione, indipendentemente dall'attività di edificazione posta concretamente in essere.
Nell'ipotesi, invece, in cui non sia stato predisposto un frazionamento fondiario e tuttavia si sia conferito, di fatto, un diverso assetto ad una porzione di territorio comunale, la confisca va limitata a quella porzione territoriale effettivamente interessata dalla vendita di lotti separati, dalla edificazione e dalla realizzazione di infrastrutture.
Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, vanno considerate: la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l'annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione, ha espressamente affermato che l'applicazione automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva prevista —salvo che per i terzi in buona fede— dalla legge italiana sarebbe in contrasto con detto principio di proporzionalità, in quanto non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione.
Dunque, si potrà parlare di confisca legittima ove limitata ai beni immobili direttamente interessati dall'attività lottizzatoria e ad essa funzionali mentre dovrà concludersi in senso opposto, e dunque di misura non rispettosa dei criteri di proporzionalità, se applicata a terreni non direttamente interessati dall'attività lottizzatoria
(Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini e altri)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2019 n. 14743 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La mancanza del permesso di costruire per l'aumento delle unità immobiliari non è più penalmente sanzionata.
In virtù dell'art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133 (recante, Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), conv., con modiff., in l. 11.11.2014 n. 164,
il solo aumento delle unità immobiliari -che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l'organismo che subisca un tale intervento sia "in tutto o in parte diverso dal precedente"- non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti.
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Deve affermarsi il principio secondo cui, la modifica dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto.
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1. Con riguardo ai dedotti profili di violazione di legge e/o illogicità della motivazione da tutti i ricorrenti dedotti in relazione alla sussistenza dell'elemento oggettivo e/o dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata al capo a), i ricorsi sono fondati.
Pur tenendo conto del rinvio disposto su richiesta di uno dei difensori nel giudizio di secondo grado dal 24.11.2017 al 30.01.2018 -che ha determinato la sospensione del corso della prescrizione per 67 giorni- il reato, contestato come commesso il 18.03.2013, è tuttavia certamente prescritto per decorso del termine massimo quinquennale.
In conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale, la sentenza impugnata deve pertanto essere sul punto annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione, con conseguente assorbimento di tutti restanti motivi proposti dai ricorrenti Ca., Bo. e Ma. e di quelli proposti dal ricorrente Ga. relativi al medesimo reato di cui al capo a).
1.1. Ed invero, la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente tale contravvenzione, che addebita agli imputati, nelle diverse qualità indicate, di aver eseguito in assenza di permesso di costruire lavori di ristrutturazione di un immobile «comportanti la suddivisione in quattro unità immobiliari, la demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla realizzazione di nuovi volumi abitabili nel vano sottotetto, lavori non rientranti in un intervento di risanamento conservativo, in relazione al quale era stata presentata la S.C.I.A.».
Senza considerare il profilo dell'esecuzione di nuovi volumi abitabili -ritenuto dal giudice di primo grado e contestato con specifici motivi d'appello da taluno degli imputati (in particolare da Massimo Caroti)- la sentenza impugnata si limita a rilevare come la s.c.i.a. presentata per l'esecuzione dei lavori non fosse sufficiente sul rilievo che la trasformazione del bene da una a quattro unità immobiliari non possa essere ricondotta alla riduttiva nozione del risanamento conservativo ma costituisca ristrutturazione edilizia, con conseguente necessità di richiedere il permesso di costruire.
La conclusione, rileva il Collegio, è certamente errata in diritto, poiché, pur potendosi convenire sulla qualificazione giuridica dell'intervento in termini di ristrutturazione edilizia piuttosto che di risanamento conservativo -tenendo conto che si è trattato di un insieme sistematico di opere che ha indubbiamente portato ad un organismo edilizio diverso dal precedente, sia per la trasformazione di un appartamento in quattro distinte unità abitative, sia per la modifica di elementi costitutivi (quali il ribassamento dei solai) e l'inserimento di nuovi impianti (funzionali al godimento delle plurime unità realizzate)- non per ciò solo sarebbe stato necessario il permesso di costruire.
La Corte territoriale, di fatti, ha trascurato di considerare che non tutti gli interventi di ristrutturazione edilizia sono soggetti al previo rilascio del menzionato titolo, sì che l'esecuzione dei lavori in assenza del medesimo integra il reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001.
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data dall'art. 3, comma 1, lett. d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1, lett. c), nel testo oggi vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire -salve le ipotesi, che nella specie non ricorrono, della modifica della destinazione d'uso nei centri storici o delle modificazioni della sagoma di immobili vincolati- soltanto quegli interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti».
Si tratta degli interventi definiti di ristrutturazione edilizia c.d. "pesante" che, a differenza delle residuali ipotesi rientranti nella categoria -per la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza della residuale previsione di cui all'art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001- sono assoggettati al previo rilascio del permesso di costruire con conseguente realizzazione della fattispecie penale contestata nel caso di assenza del titolo. Se, per contro, si tratti di ristrutturazione edilizia "leggera" per cui è sufficiente la s.c.i.a., quand'anche non fosse stata corretta la qualificazione dei lavori in termini di risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non integrerebbe gli estremi del reato contestato.
1.2. La Corte territoriale è probabilmente incorsa in errore per aver fatto applicazione dell'originario testo dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, che, tra l'altro, qualificava come ristrutturazioni edilizie pesanti anche gli interventi sopra descritti che comportino «aumento delle unità immobiliari», sicché la motivazione della sentenza impugnata si è limitata a tale rilievo per ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente valutare se vi fosse stato aumento di volumetria, come invece aveva fatto il giudice di primo grado, pur con giudizio fatto oggetto di specifiche censure che il giudice d'appello non ha esaminato.
In quella parte, la disposizione è stata tuttavia modificata dall'art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133 (recante, Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), conv., con modiff., in l. 11.11.2014, n. 164, che, interpolando la norma definitoria della ristrutturazione edilizia c.d. "pesante", ha eliminato il citato riferimento allo "aumento delle unità immobiliari" (oltre a quello, parimenti contenuto nell'originaria disposizione, "delle superfici utili").
Il solo aumento delle unità immobiliari -che, peraltro, di regola già rileva per far ritenere che l'organismo che subisca un tale intervento sia "in tutto o in parte diverso dal precedente"- non determina più, dunque, la necessità di munirsi del previo permesso di costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle richiamate ipotesi di lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi sia una modifica della volumetria complessiva o dei prospetti. Questo accertamento è tuttavia mancato da parte del giudice d'appello.
1.3. Occorre, ancora, rilevare, come la citata "novella" che ha modificato l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 -pur intervenuta successivamente alla consumazione del reato- sia retroattivamente applicabile ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen.
Nel sanzionare penalmente l'esecuzione di lavori in assenza del permesso di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l'art. 10, comma 1, del testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di costruire), che vale dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale struttura, individuando le opere che necessitano di tale titolo abilitativo.
Va pertanto applicato il principio secondo cui, in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale (Sez. U, n. 2451 del 27/09/2007, dep. 2008, Magera, Rv. 238197; Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011, Guttà e a., Rv. 250119; Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv. 270335).
Nel caso di specie, di fatti, non v'è dubbio che il citato art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo art. 44, comma 1, lett. b), incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, sì che il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall'art. 2, comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche (cfr. Sez. 5, n. 11905 del 16/11/2015, dep. 2016, Branchi e aa., Rv. 266474; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011, De Masi e aa., Rv. 252194).
1.4. In conclusione, deve affermarsi il principio secondo cui, la modifica dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001, operata con art. 17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di ristrutturazione edilizia subordinati a permesso di costruire quelli che comportino aumento di unità immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di tali ipotesi al reato di costruzione sine titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 e deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice del precetto
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.04.2019 n. 14725).

EDILIZIA PRIVATA: Le dichiarazioni di terzi non costituiscono evidenze idonee a ritenere assolto l’onere della prova sui presupposti del condono, gravante sul proprietario.
Sul punto, va evidenziato che, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa, “nessun rilievo, ai fini amministrativi e processuali, possono avere le dichiarazioni sostitutive rese da soggetti terzi, in quanto il requisito dell’anteriorità della data di realizzazione degli abusi rispetto al termine fissato dalla legge va dimostrato con adeguata documentazione e non può essere supplito con dichiarazioni non suscettibili in alcun modo di essere verificate”.
Pertanto, aderendo a tale orientamento alcun rilievo possono assumere le dichiarazioni dei terzi.
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La conclusione non muta ove si aderisca al diverso orientamento che ammette la possibilità di ricorrente alle dichiarazioni dei terzi, pur precisando come sia da escludere che “una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possa rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato”.
Secondo tale orientamento, “di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali, resta integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria”.
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6. Il primo motivo di ricorso è infondato.
6.1. La censura si incentra sull’invalidità dei provvedimenti per derivazione dalla ritenuta illegittimità del diniego di condono. Provvedimento impugnato dinanzi a questo Tribunale (R.G. 903 del 2010) e definito con sentenza sfavorevole alla parte ricorrente della quarta sezione (27.09.2018, n. 2162).
Tale pronuncia ritiene il diniego integrativo della motivazione del precedente atto già oggetto del giudizio deciso dalla sentenza del TAR per la Lombardia, sede di Milano, sez. II, n. 2060 del 01.04. 2009, che respinge il ricorso. Pronuncia transitata in rem iudicatam dopo la declaratoria di improcedibilità dell’appello per sopravvenuta carenza di interesse da parte del Consiglio di Stato (sez. IV, 27.04.2012, n. 2464).
6.2. La sentenza n. 2162 del 2018 di questo Tribunale ritiene, inoltre, che il ricorso sia infondato ritenendo le dichiarazioni prodotte inattendibili. Giudizio formulato in considerazione di quanto esposto nella motivazione dell’atto e, in particolare, nella parte relativa alla discrasia delle dimensioni della struttura prefabbricata tra il dato realmente accertato e la dichiarazione resa sul punto. Inoltre, il Tribunale osserva che l’accertamento comunale ha natura oggettiva e non viene inficiato da “dichiarazioni di terzi riferite a fatti verificatisi almeno 6 anni prima”.
6.3. Osserva il Collegio come l’accertamento eseguito dal Comune risulta suffragato da dati oggettivi e, pertanto, non sussiste quello stato di incertezza rispetto alla difformità tra situazione rappresentata nella domanda di condono e situazione realmente esistente. Lo afferma la sentenza n. 2060 del 2009 di questo Tribunale, transitata in rem iudicatam e, come tale, idonea a fondare un accertamento vincolante.
6.4. Tale accertamento è contestato dai ricorrenti in forza di dichiarazioni di terzi che, tuttavia, non costituiscono evidenze idonee a ritenere assolto l’onere della prova sui presupposti del condono, gravante sul proprietario (cfr., ex multis, TAR per la Lombardia, sez. II, 26.09.2018, n. 2137).
Sul punto, va evidenziato che, secondo un orientamento della giurisprudenza amministrativa, “nessun rilievo, ai fini amministrativi e processuali, possono avere le dichiarazioni sostitutive rese da soggetti terzi, in quanto il requisito dell’anteriorità della data di realizzazione degli abusi rispetto al termine fissato dalla legge va dimostrato con adeguata documentazione e non può essere supplito con dichiarazioni non suscettibili in alcun modo di essere verificate” (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.03.2019, n. 1476). Pertanto, aderendo a tale orientamento alcun rilievo possono assumere le dichiarazioni dei terzi.
6.5. La conclusione non muta ove si aderisca al diverso orientamento che ammette la possibilità di ricorrente alle dichiarazioni dei terzi, pur precisando come sia da escludere che “una mera dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà possa rappresentare una prova esaustiva della data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità amministrativa il compito di fornire la dimostrazione dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella dichiarata dall'interessato” (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 30.03.2018, n. 2020).
Secondo tale orientamento, “di fronte a circostanze che, pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione del manufatto, in difetto dei quali, resta integro il potere dell'amministrazione di negare la sanatoria” (TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. II, 27.11.2018, n. 6869).
Nel caso di specie, si tratta di tre dichiarazioni predeterminate e sottoscritte da tre cittadini che non contengono, tuttavia, riscontri che consentano di ritenere attendibili le testimonianze e a smentire l’accertamento effettuato dal Comune. I dichiaranti omettono di indicare le ragioni per cui sarebbero a conoscenza della circostanza e quali siano gli elementi che rendano certa la loro dichiarazione. Aspetti che assumono particolare rilievo anche in considerazione del tempo trascorso tra le dichiarazioni (tutte rese nel maggio del 2009) e i fatti oggetto delle stesse (relativi a tre anni prima)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 746  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il provvedimento che dispone l’acquisizione al patrimonio in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione è di competenza del Dirigente comunale o, comunque, del responsabile dell’ufficio preposto e non del Consiglio comunale.
Il provvedimento che dispone l’acquisizione al patrimonio in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione è, in primo luogo, atto di natura sanzionatoria.
Lo conferma la costante giurisprudenza amministrativa prendendo le mosse dalla sentenza n. 345 del 1991 della Corte Costituzionale che chiarisce come l'acquisizione gratuita dell'area non sia una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisca una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione. La natura sanzionatoria del provvedimento impone, pertanto, di ricondurre lo stesso nell’alveo dei provvedimenti sanzionatori di competenza del Dirigente comunale ex articolo 107, comma 3, lettera g), d.lgs. 276/2000.
Va poi considerato che risulta dirimente la previsione di cui all’articolo 31, comma 2, del D.P.R. 380 del 2001 che assegna “al dirigente o [a]l responsabile del competente ufficio comunale”, l’obbligo di accertare l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, e di ingiungere al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3.
La disposizione contenuta in tale comma disciplina l’acquisizione al patrimonio comunale stabilendo che tale sanzione sia consequenziale all’inottemperanza all’ordine di demolizione e al mancato ripristino dello stato dei luoghi intimato dal Dirigente o dal responsabile dell’ufficio. Pertanto, la consequenzialità tra ordinanza di demolizione e sanzione dell’acquisizione conduce a ritenere che la competenza all’adozione di tali provvedimenti debba essere radicata in capo al medesimo soggetto.
Consegue, a quanto esposto al precedente punto, l’illegittimità del provvedimento impugnato trattandosi di accertamento di competenza del Dirigente comunale o, comunque, del responsabile dell’ufficio preposto e non del Consiglio comunale.

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7. Con il secondo motivo la società deduce il difetto di competenza del Consiglio comunale a determinare l’area oggetto di acquisizione in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
7.1. Il motivo è fondato.
7.2. Diversamente da quanto dedotto dal Comune resistente (che riconduce il provvedimento nell’alveo dell’articolo 42, comma 2, lettera l), del d.lgs. 267/2000), il provvedimento che dispone l’acquisizione al patrimonio in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione è, in primo luogo, atto di natura sanzionatoria.
Lo conferma la costante giurisprudenza amministrativa prendendo le mosse dalla sentenza n. 345 del 1991 della Corte Costituzionale che chiarisce come l'acquisizione gratuita dell'area non sia una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una sanzione accessoria di questa, ma costituisca una sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione (cfr., ex multis, TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 26.09.2019, n. 1084). La natura sanzionatoria del provvedimento impone, pertanto, di ricondurre lo stesso nell’alveo dei provvedimenti sanzionatori di competenza del Dirigente comunale ex articolo 107, comma 3, lettera g), d.lgs. 276/2000.
Va poi considerato che risulta dirimente la previsione di cui all’articolo 31, comma 2, del D.P.R. 380 del 2001 che assegna “al dirigente o [a]l responsabile del competente ufficio comunale”, l’obbligo di accertare l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32, e di ingiungere al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3.
La disposizione contenuta in tale comma disciplina l’acquisizione al patrimonio comunale stabilendo che tale sanzione sia consequenziale all’inottemperanza all’ordine di demolizione e al mancato ripristino dello stato dei luoghi intimato dal Dirigente o dal responsabile dell’ufficio. Pertanto, la consequenzialità tra ordinanza di demolizione e sanzione dell’acquisizione conduce a ritenere che la competenza all’adozione di tali provvedimenti debba essere radicata in capo al medesimo soggetto.
7.3. Consegue a quanto esposto al precedente punto l’illegittimità del provvedimento impugnato trattandosi di accertamento di competenza del Dirigente comunale o, comunque, del responsabile dell’ufficio preposto e non del Consiglio comunale.
7.4. Dall’accoglimento del motivo inerente il difetto di competenza all’adozione dell’atto discende l’assorbimento obbligato degli ulteriori due motivi articolati dalla parte e relativi anch’essi al provvedimento di acquisizione (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 27.04.2015, n. 5)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.04.2019 n. 746  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La revoca dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, postula una sopravvenuta incompatibilità con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività, fermo restando il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità del provvedimento sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio.
Né l'acquisizione dell'immobile al patrimonio del Comune è ostativa all'esecuzione della demolizione, posto che, sino a quando non sia intervenuta una delibera dell'ente locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, è sempre possibile per il condannato chiedere al Comune stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a propria cura e spese e, per il pubblico ministero, procedere a spese del condannato.
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L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria
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Per altro verso,
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso.
Essa non è neppure soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
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6.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo, posto che la revoca dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui all'art. 31 d.P.R. n. 380/2001, postula una sopravvenuta incompatibilità con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività, fermo restando il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità del provvedimento sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (Sez. 3, sent. n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e a., Rv. 260972; Sez. 3, n. 3456/2013 del 21/11/2012, dep. 2013, Oliva, Rv. 254426).
Né l'acquisizione dell'immobile al patrimonio del Comune è ostativa all'esecuzione della demolizione, posto che, sino a quando non sia intervenuta una delibera dell'ente locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, è sempre possibile per il condannato chiedere al Comune stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a propria cura e spese (Sez. 3, n. 39471 del 18/07/2017, Pellerito, Rv. 272502; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep. 2008, Mancini e aa., Rv. 238803) e, per il pubblico ministero, procedere a spese del condannato (Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, Marche, Rv. 265495).
6.3. Quanto all'ultimo motivo, del pari manifestamente infondato, va osservato che nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio -di cui il giudice di merito ha fatto corretta applicazione- giusta il quale l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa accessoria (Sez. 3, n. 30406 del 08/04/2016, Federico, Rv. 267333; Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e aa., Rv. 249317).
Per altro verso, l'ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore dell'abuso (Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540).
Essa non è neppure soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv. 265540; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio e a., Rv. 250336).
La conclusione, del resto, non comporta conseguenze irragionevoli o altrimenti foriere di insinuare dubbi di legittimità costituzionale anche in relazione alla disciplina convenzionale invocata in ricorso.
Si è infatti affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. n. 380/2001 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa -che, come si è già precisato, assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso, configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso- non consentono di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.04.2019 n. 14602).

EDILIZIA PRIVATA: Lotto urbanisticamente unitario oggetto di uno o più interventi edilizi – Volumetria residua – Decurtamento di quella in precedenza realizzata – Successivi frazionamenti catastali – Irrilevanza – Edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all’adozione del primo PRG di un Comune – Asservimento cd. pertinenziale – Limiti di volumetria imposti dalla normativa urbanistica – Vincolo ope legis – Vincolo di asservimento di fonte negoziale.
   - un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore (nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera e il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa, dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti: pertanto, quando un’area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area permane invariata, sicché, qualora siano già state realizzate sul lotto originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito;
   - in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo;
   - l’istituto dell’asservimento in senso tecnico si è configurato in seguito all’entrata in vigore del d.m. n. 1444/1968, con il quale sono stati introdotti nell’ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall’art. 17 l. n. 765/1967 (introduttivo dell’art. 41-quinquies l. n. 1150/1942), limiti inderogabili di densità edilizia;
   - in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all’adozione del primo piano regolatore generale di un comune, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia –territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e fondiaria (riferito al singolo lotto)–, in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato, in termini di complementarietà funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e delle relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante;
   - qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull’area discende ope legis, senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d’obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservino unitariamente alla realizzazione di un unico progetto;
   - dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto, determinandone la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende ope legis dall’intervenuta utilizzazione del lotto medesimo.
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6.1.2.4. Il sopra riportato quadro normativo recepisce, sostanzialmente, i principi di diritto urbanistico-edilizio di origine giurisprudenziale, secondo cui:
   - un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore (nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera e il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa, dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti: pertanto, quando un’area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area permane invariata, sicché, qualora siano già state realizzate sul lotto originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito (v. Cons. Stato, Sez. IV, 01.07.2015, n. 3251, con ulteriori richiami giurisprudenziali);
   - in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (v. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941);
   - l’istituto dell’asservimento in senso tecnico si è configurato in seguito all’entrata in vigore del d.m. n. 1444/1968, con il quale sono stati introdotti nell’ordinamento, in attuazione dei precetti recati dall’art. 17 l. n. 765/1967 (introduttivo dell’art. 41-quinquies l. n. 1150/1942), limiti inderogabili di densità edilizia (v. Cons. Stato, Ad. plen. 23.04.2009, n. 3);
   - in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all’adozione del primo piano regolatore generale di un comune, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia –territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e fondiaria (riferito al singolo lotto)–, in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato, in termini di complementarietà funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e delle relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante (v. Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3; Cons. Stato, Sez. VI, 23.02.2016, n. 732; Cons. Stato, Sez. IV, 13.11.2018, n. 6397);
   - qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il relativo vincolo sull’area discende ope legis, senza necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d’obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che devono invece sussistere quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservino unitariamente alla realizzazione di un unico progetto (v. Cons. Stato., Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766);
   - dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto, determinandone la cubatura assentibile in relazione ai limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo di asservimento per cui, una volta esaurite le predette potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad un regime di inedificabilità che discende ope legis dall’intervenuta utilizzazione del lotto medesimo (v. Cons. Stato, Ad. Plen., 23.04.2009, n. 3) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2019 n. 2215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Interdittiva antimafia per vicinanza a personale collegata alla criminalità organizzata.
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Informativa antimafia – Presupposti – Vicinanza a soggetto collegato alla criminalità organizzata – condanna successiva all’incontro – Irrilevanza ex se.
  
Informativa antimafia – Presupposti – Società ritenuta vicino alla criminalità organizzata – Società che non ha mai vinto gare di appalto – Irrilevanza ex se.
  
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva antimafia non rileva che all’epoca degli accertati “incontri” tra il destinatario della misura preventiva e soggetto vicino alla criminalità organizzata quest’ultimo ancora non avessero subito condanne, e ciò in quanto la data della pronuncia di condanna non cristallizza il momento in cui la persona si è avvicinata al sodalizio di stampo mafioso.
  
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva antimafia non rileva che la società colpita dalla misura preventiva non abbia mai vinto una gara pubblica atteso che proprio la regolarità dell’operatività ordinaria potrebbe costituire un ulteriore schermo volto ad evitare le attenzioni delle forze di contrasto al fenomeno criminale, garantendosi al contempo una fonte di reddito ‘pulito’ in quanto pienamente giustificato” (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la criminalità organizzata ormai si insinua nell’economia con plurime strategie per controllare il settore degli appalti pubblici; non può quindi escludersi l’utilizzo di una società “pulita” per spalleggiare in sede di gara altra impresa, anch’essa infiltrata dalla malavita organizzata (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.04.2019 n. 2211 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004, una volta depurata delle sue parti incidentali, si esprime così: “1. Sono beni culturali le cose immobili (…) appartenenti (…) compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.”.
Nel contesto della proposizione, le parole “che presentano” possono all’evidenza logicamente corrispondere alle seguenti: “a condizione che presentino” ovvero “sempre che presentino”.
In sintesi, sulla base della norma richiamata i beni immobili non sono di per se stessi ‘beni culturali’ per il solo motivo di appartenere a ‘enti ecclesiastici civilmente riconosciuti’.
Per divenire detti beni giuridicamente tali (ossia beni culturali) occorre qualcosa di più.
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Nel congegno del codice dei beni culturali e del paesaggio, l’appartenenza di un immobile ad un novero qualificato di soggetti ne può far sì presumere (ma soltanto presumere) ope legis un particolare interesse (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) di rilievo pubblico.
Ma poi, perché detto interesse possa dirsi effettivamente sussistente (ossia ‘accertato’, giacché appositamente ‘verificato’ dall’Autorità competente), occorre ancora che:
   - per un verso, la ‘esecuzione’ dell’immobile (per stare al caso di specie) risalga ‘ad oltre settanta anni’;
   - per altro verso, che, appunto, venga concretamente effettuata la ‘verifica’ da parte dei ‘competenti organi del Ministero’ di settore.
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7. Segue –per esigenze logiche– la necessità di osservare che l’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004 recita così: “1. Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.”.
Per quanto qui maggiormente interessa, la disposizione richiamata, una volta depurata delle sue parti incidentali, si esprime così: “1. Sono beni culturali le cose immobili (…) appartenenti (…) compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico.”.
Nel contesto della proposizione, le parole “che presentano” possono all’evidenza logicamente corrispondere alle seguenti: “a condizione che presentino” ovvero “sempre che presentino”.
In sintesi, sulla base della norma richiamata i beni immobili non sono di per se stessi ‘beni culturali’ per il solo motivo di appartenere a ‘enti ecclesiastici civilmente riconosciuti’.
Per divenire detti beni giuridicamente tali (ossia beni culturali) occorre qualcosa di più.
7.1. Se ne ha conferma leggendo l’art. 12 del d.lgs. n. 42/2004 (non a caso rubricato “Verifica dell’interesse culturale” e collocato nella Parte seconda del testo legislativo, dedicato ai “beni culturali”).
Il suo co. 1 dispone che: “Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2.”
Va subito incidentalmente ricordato che i settanta anni menzionati in questa disposizione erano, invece, cinquanta nella versione originale e ante novelle del codice dei beni culturali e del paesaggio (analogamente, peraltro, nell’art. 10, co. 5, del testo legislativo).
Poi, il co. 2 del citato art. 12 prevede che: “I competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione.”.
Orbene, è sufficientemente evidente che, nel congegno del codice in questione, l’appartenenza di un immobile ad un novero qualificato di soggetti ne può far sì presumere (ma soltanto presumere) ope legis un particolare interesse (artistico, storico, archeologico o etnoantropologico) di rilievo pubblico.
Ma poi, perché detto interesse possa dirsi effettivamente sussistente (ossia ‘accertato’, giacché appositamente ‘verificato’ dall’Autorità competente), occorre ancora che:
   - per un verso, la ‘esecuzione’ dell’immobile (per stare al caso di specie) risalga ‘ad oltre settanta anni’ (ma solo cinquanta all’epoca dei fatti per cui è causa);
   - per altro verso, che, appunto, venga concretamente effettuata la ‘verifica’ da parte dei ‘competenti organi del Ministero’ di settore.
7.2. Vale inoltre sottolineare subito che è soltanto l’art. 164 del codice in questione, rubricato “Violazioni in atti giuridici”, a stabilire che: “1. Le alienazioni, le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I della Parte seconda, o senza l'osservanza delle condizioni e modalità da esse prescritte, sono nulli.
2. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la prelazione ai sensi dell'articolo 61, comma 2
.”.
Questa norma, all’interno del codice, è però collocata al di fuori della sua Parte seconda e pertanto essa non rientra nel perimetro applicativo della disposizione di cui all’art. 12, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004, lì dove essa recita che “Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, (…) sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica (…)” di cui sopra s’è detto.
In altri termini, la sanzione della nullità delle alienazioni dei beni in discorso non scatta –pur sussistendo il presupposto dato dalla ricordata ‘appartenenza’ di un immobile ad un soggetto qualificato ai sensi del codice– fino al momento nel quale il Ministero non abbia effettuato, positivamente, la verifica di cui sopra s’è parlato.
Va poi aggiunto, per completezza, che l’eventualità prevista dall’art. 164, co. 2, del codice non rileva nella presente fattispecie in ragione del fatto –non controverso tra le parti– che nessun ente pubblico è risultato interessato ad esercitare prelazione nei riguardi dell’immobile per cui è causa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 03.04.2019 n. 2205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Concordato con continuità aziendale e partecipazione a gara di appalto in RTI.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Concordato con continuità aziendale - Non è causa di esclusione.
Ai sensi dell'art. 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici. non rientra tra le cause di esclusione dalla gara la procedura di concordato con continuità aziendale cui è sottoposta la società concorrente (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che secondo una recente interpretazione l’omologazione del concordato chiude la procedura concordataria a norma dell’art. 181, r.d. n. 267 del 1942; a seguito di tale provvedimento l’imprenditore ritorna in bonis e, pertanto, non vi è ragione di limitarne l’attività. L'art. 181 prevede genericamente che "la procedura di concordato preventivo si chiude... con l'omologazione" senza operare alcuna distinzione, pertanto, intervenuto il decreto di omologazione del Tribunale l'impresa non è più "in stato" di concordato né sarebbe più "in corso" la relativa procedura. Ne segue che non operano i divieti di legge con riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare e neppure sussistono gli obblighi documentali che sarebbero esigibili limitatamente alle imprese che siano "in stato" o "in corso" di concordato (Cons. St., sez. V, 29.05.2018, n. 3225).
In senso contrario, è stato stabilito che la chiusura del concordato la quale, ai sensi dell'art. 181 della legge fallimentare, fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall'art. 167 non comporta (salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio.
Questo infatti resta vincolato all'attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il Commissario Giudiziale è tenuto a sorvegliare l'adempimento secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione. Ne segue che la fase di esecuzione, nella quale si estrinseca l'adempimento del concordato, non può ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase procedimentale che l'ha preceduta (Cass., sez. I, ord., 10.01.2018, n. 380) e non vi sarebbe quindi ragione per non ritenere operanti anche in tale fase i divieti di legge con riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare.
Ciò chiarito, ha aggiunto il Tar che la questione deve essere risolta non indagando gli aspetti civilistici che regolamentano l’impresa ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale, bensì a partire dal dato testuale normativo.
Le cause di esclusione dalle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici, sotto il profilo (della mancanza) dei necessari requisiti soggettivi, sono stabilite dall’art. 80 del Codice dei contratti pubblici. Per quanto rileva nella presente sede, la disposizione di cui al comma 5, lett. b) del medesimo statuisce che devono essere escluse dalla partecipazione alle gare d’appalto, tra le altre, le imprese che si trovino in stato di concordato preventivo “salvo il caso di concordato con continuità aziendale” e “fermo restando quanto previsto dall’articolo 110” del medesimo Codice. La norma quindi esclude dal proprio ambito di applicazione e, con ciò, dal novero delle circostanze espulsive la procedura di concordato con continuità aziendale.
Si manifesta quindi un contrasto tra questa disposizione e quella contenuta nella legge fallimentare, secondo cui alle imprese ammesse al concordato con continuità aziendale è interdetto partecipare alle gare d’appalto quali mandatarie di un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il conflitto tra le norme può essere risolto secondo il criterio cronologico.
La disposizione della legge fallimentare, come sopra citato, è venuta alla luce con il d.l. 23.06.2012, n. 83, convertito nella l. 07.08.2012, n. 134.
La norma di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici è invece venuta alla luce con il d.lgs. n. 50 del 2016 e, quindi, successivamente alla prima. Questa pertanto, in base al criterio cronologico di soluzione dei conflitti tra norme, deve ritenersi implicitamente abrogata.
La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016 ha innovato rispetto a quanto prevedeva il previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che all’art. 38, comma 1, lett. a), comminava l’esclusione alle imprese che si trovassero in stato di concordato preventivo, senza effettuare alcuna distinzione.
La differenza tra il precedente e l’attuale Codice dei contratti pubblici va interpretato quale indice della volontà legislativa di ammettere alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici le imprese che si trovino in concordato preventivo con continuità aziendale, salva restando la necessità di autorizzazione del giudice delegato (elemento che non è in discussione nella presente controversia): in tali termini può essere interpretato il rimando effettuato dal citato articolo 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici al proprio art. 110 il quale, al comma 3, prevede che “il curatore del fallimento, autorizzato all'esercizio provvisorio, ovvero l'impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato… possono: a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale” (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 03.04.2019 n. 491 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
4. Venendo alla trattazione della censura nel merito, il Collegio è consapevole dell’esistenza di diversi orientamenti sulla questione proposte dalla ricorrente. Essa lamenta la mancata applicazione, da parte della stazione appaltante, della norma di cui all’articolo 186-bis, comma sesto, R.d. n. 267/1942 secondo cui l’impresa in concordato con continuità aziendale può concorrere nelle gare per pubblici appalti purché non rivesta la qualità di mandataria, come la controinteressata nel caso di specie. L’articolo 186-bis, e con esso l’istituto del concordato con continuità aziendale, è stato inserito nella legge fallimentare dall’articolo 33, comma 1, lett. h), del decreto legge 23.06.2012, n. 83 convertito nella legge 07.08.2012, n. 134.
Secondo una recente interpretazione l’omologazione del concordato, che è avvenuta nel caso di specie con decreto del Tribunale di Genova 24.11.2014, chiude la procedura concordataria a norma dell’art. 181 R.d. n. 267/1942; a seguito di tale provvedimento l’imprenditore ritorna in bonis e, pertanto, non vi è ragione di limitarne l’attività. L'art. 181 prevede genericamente che "la procedura di concordato preventivo si chiude... con l'omologazione" senza operare alcuna distinzione, pertanto, intervenuto il decreto di omologazione del Tribunale l'impresa non è più "in stato" di concordato né sarebbe più "in corso" la relativa procedura. Ne segue che non operano i divieti di legge con riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare e neppure sussistono gli obblighi documentali che sarebbero esigibili limitatamente alle imprese che siano "in stato" o "in corso" di concordato (C.d.S. V, 29.05.2018 n. 3225).
In senso contrario, è stato stabilito che la chiusura del concordato la quale, ai sensi dell'art. 181 della legge fallimentare, fa seguito alla definitività del decreto o della sentenza di omologazione, pur determinando la cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto, durante il corso della procedura, dall'art. 167 non comporta (salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio.
Questo infatti resta vincolato all'attuazione degli obblighi da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il Commissario Giudiziale è tenuto a sorvegliare l'adempimento secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto) di omologazione. Ne segue che la fase di esecuzione, nella quale si estrinseca l'adempimento del concordato, non può ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase procedimentale che l'ha preceduta (Cass. I, ord.za 10.01.2018 n. 380) e non vi sarebbe quindi ragione per non ritenere operanti anche in tale fase i divieti di legge con riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare.
Ritiene il Collegio che la questione debba essere risolta non indagando gli aspetti civilistici che regolamentano l’impresa ammessa al concordato preventivo con continuità aziendale, bensì a partire dal dato testuale normativo.
Le cause di esclusione dalle procedure per l’affidamento dei contratti pubblici, sotto il profilo (della mancanza) dei necessari requisiti soggettivi, sono stabilite dall’articolo 80 del Codice dei contratti pubblici. Per quanto rileva nella presente sede, la disposizione di cui al comma 5, lett. b), del medesimo statuisce che devono essere escluse dalla partecipazione alle gare d’appalto, tra le altre, le imprese che si trovino in stato di concordato preventivo “salvo il caso di concordato con continuità aziendale” e “fermo restando quanto previsto dall’articolo 110” del medesimo Codice. La norma quindi esclude dal proprio ambito di applicazione e, con ciò, dal novero delle circostanze espulsive la procedura di concordato con continuità aziendale.
Si manifesta quindi un contrasto tra questa disposizione e quella contenuta nella legge fallimentare, secondo cui alle imprese ammesse al concordato con continuità aziendale è interdetto partecipare alle gare d’appalto quali mandatarie di un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il conflitto tra le norme può essere risolto secondo il criterio cronologico.
La disposizione della legge fallimentare, come sopra citato, è venuta alla luce con il decreto legge 23.06.2012, n. 83 convertito nella legge 07.08.2012, n. 134.
La norma di cui all’articolo 80, comma 5, lett. b), del Codice dei contratti pubblici è invece venuta alla luce con il d.lgs. n. 50/2016 e, quindi, successivamente alla prima. Questa pertanto, in base al criterio cronologico di soluzione dei conflitti tra norme, deve ritenersi implicitamente abrogata.
La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. b) d.lgs. n. 50/2016 ha innovato rispetto a quanto prevedeva il previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che all’articolo 38, comma 1, lett. a), comminava l’esclusione alle imprese che si trovassero in stato di concordato preventivo, senza effettuare alcuna distinzione. La differenza tra il precedente e l’attuale Codice dei contratti pubblici va interpretato quale indice della volontà legislativa di ammettere alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici le imprese che si trovino in concordato preventivo con continuità aziendale, salva restando la necessità di autorizzazione del giudice delegato (elemento che non è in discussione nella presente controversia): in tali termini può essere interpretato il rimando effettuato dal citato articolo 80, comma 5, lett. b) del Codice dei contratti pubblici al proprio articolo 110 il quale, al comma 3, prevede che “il curatore del fallimento, autorizzato all'esercizio provvisorio, ovvero l'impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del giudice delegato… possono:
   a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di subappalto;
   b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità aziendale
”.
La sentenza del Consiglio di Stato 03.01.2019, n. 69, citata dal procuratore della ricorrente in udienza a sostegno delle proprie ragioni, è inconferente rispetto al caso di specie poiché afferma la necessità, per l’impresa ammessa al concordato preventivo, di ottenere una preventiva autorizzazione giudiziaria a partecipare alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici (che può essere anche contenuta nel decreto di omologazione): questo elemento non è in discussione nel caso di specie.
Sono poi irrilevanti eventuali inadempimenti della controinteressata al piano concordatario, finché non sia stata giudiziariamente dichiarata la risoluzione del concordato. Le ragioni del piano di riparto presentato dalla controinteressata il 28.12.2018 non possono essere oggetto di cognizione nella presente sede e devono essere valutate in sede concordataria, come essa correttamente pretende; diversamente opinando si verificherebbe una sovrapposizione tra il Giudice Amministrativo e il Giudice Fallimentare con uno straripamento di potere giurisdizionale a danno di quest’ultimo.
Per tali ragioni, il primo motivo di gravame deve essere respinto.

APPALTI: Esclusione dalla gara conseguente ad accertamento della non spettanza di una agevolazione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Accertamento della non spettanza di una agevolazione - Avvisi di accertamento – Conseguenza.
Gli atti comunque denominati con cui si accerti, da parte dell’amministrazione tributaria, la non spettanza di una agevolazione rientrano nella categoria giuridica degli “avvisi di accertamento”, dovendo, però, al contempo rilevarsi che tali particolari atti, ove esauriscano il proprio contenuto ricostruttivo nella sola negazione del credito dichiarato dal contribuente, tradiscono una dimensione giuridica non autosufficiente ai fini dell’esclusione da una gara pubblica, per potere esprimere appieno una compiuta pretesa impositiva, di ulteriori passaggi valutativi che, nel modello legale di riferimento, vengono affidati ad ulteriori e successivi provvedimenti secondo lo schema della fattispecie a formazione progressiva (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’effetto di accertamento che si riconnette alla revoca del credito di imposta non può dirsi completo in quanto non è ancora espressione di una pretesa tributaria compiutamente e definitivamente stabilita, occorrendo in vista del relativo recupero accertare l’entità del dovuto in ragione anche delle modalità e dei tempi di concreto utilizzo del credito.
Tanto è evincibile già dalla piana lettura dell’art. 8, d.m. 311 del 03.08.1998 che, a valle della revoca parziale o totale del credito d’imposta operata dal Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara (comma 1), fa seguire un distinto e successivo snodo procedimentale avente ad oggetto il recupero delle somme versate in meno o del maggior credito riportato, nonché l'applicazione delle sanzioni connesse alle singole violazioni, affidandone il relativo incombente all’ufficio delle entrate competente in ragione del domicilio fiscale dell'impresa.
E’ pur vero che, in siffatte evenienze, la pretesa tributaria confluita nell’atto di recupero non integra una pretesa completamente nuova rispetto a quella originaria (Cass. civ., sez. V, 12.02.2013, n. 3343) e, pertanto, l’atto di recupero può essere impugnato solo per vizi propri, però è di tutta evidenza che solo a tale ulteriore manifestazione provvedimentale si correla –per effetto della definizione degli elementi costitutivi di siffatta pretesa– la liquidazione dell’importo dovuto e la indicazione dell’ammontare dei relativi accessori (interessi e sanzioni), con conseguente emersione solo in questa fase di un’obbligazione tributaria contenutisticamente determinata.
Ed, invero, sebbene gli avvisi di recupero non costituiscano accertamenti di imponibili o maggiori imponibili, tuttavia essi contribuiscono a definire, attraverso il disconoscimento del credito di imposta, l'entità della somma concretamente dovuta dal contribuente, cosicché anche tali avvisi implicano accertamenti della debenza del tributo (Cass. civ., sez. V, 07.07.2017, n. 16761).
Ed è nella suddetta ottica che il legislatore, all’art. 1, comma 421, l. n. 311 del 30.12.2004 ha previsto che “…per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 09.07.1997, n. 241, e successive modificazioni, nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi l'Agenzia delle entrate può emanare apposito atto di recupero motivato da notificare al contribuente con le modalità previste dall'articolo 60 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973”.
Ciò a conferma della valenza provvedimentale dell’atto di recupero che si ascrive alla stessa logica e riflette la stessa natura degli avvisi di accertamento in quanto ad esso si riconnette, come già sopra anticipato, la condivisione dei tratti tipici caratterizzanti l’esercizio della funzione impositiva che implica l’accertamento del credito da recuperare e dei relativi accessori.
Tale atto è, dunque, un provvedimento equiparabile nella sua natura impositiva all’avviso di accertamento e non ha natura di mera esecuzione, costituendo anzi il titolo per procedere ad attività di riscossione che, a norma del comma 422 dell’art. 1, l. n. 311 del 2004, resta possibile solo “in caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme dovute entro il termine assegnato dall'ufficio, comunque non inferiore a sessanta giorni”.
Manca, in definitiva, una pretesa tributaria “compiutamente” e definitivamente stabilita (importo da recuperare, interessi e sanzioni) e, come tale, divenuta esigibile.
Quanto fin qui evidenziato impedisce, in apice, di configurare una violazione grave e definitivamente accertata ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50 del 2016: ed, invero, per concretare la detta fattispecie occorre, anzitutto, che sia partecipata al contribuente una pretesa creditoria di natura tributaria recante un credito certo e definito nel suo ammontare ed il conseguente inadempimento del contribuente. Secondo l’orientamento espresso da questo Consiglio di Stato (Cons. St. n. 59 del 2018 e n. 856 del 2018) “costituiscono violazioni definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed esigibili”.
Si è ancora di recente precisato che, in sede di gara pubblica, ai fini del possesso dei requisiti previsti dall'art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, la definitività dell'accertamento tributario decorre non dalla notifica della cartella esattoriale -in sé, semplice atto con cui l'agente della riscossione chiede il pagamento di una somma di denaro per conto di un ente creditore, dopo aver informato il debitore che il detto ente ha provveduto all'iscrizione a ruolo di quanto indicato in un precedente avviso di accertamento- bensì dalla comunicazione di quest'ultimo; la cartella di pagamento (che infatti non è atto del titolare della pretesa tributaria, ma del soggetto incaricato della riscossione) costituisce solo uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale, cioè non possiede alcuna autonomia che consenta di impugnarla prescindendo dagli atti in cui l'obbligazione è stata enunciata, laddove è l'avviso di accertamento l'atto mediante il quale l'ente impositore notifica formalmente la pretesa tributaria al contribuente, a seguito di un'attività di controllo sostanziale (Cons. St., sez. V, 12.02.2018, n. 856; id. 14.12.2018, n. 7058; id. 03.04.2018, n. 2049).
Tanto, però, è a dirsi quando l’accertamento rifletta con compiutezza i contenuti dell’obbligazione tributaria, indicando il debito di imposta (recte il credito da recuperare) ed i relativi accessori, evenienza qui non in rilievo, non essendo nemmeno noto –prima dell’emissione dell’atto di recupero- l’ammontare delle somme concretamente dovute, evenienza questa da cui non è possibile invece prescindere come fatto palese anche dalla piana lettura dell’ultimo periodo di cui all’articolo 80, comma IV, a mente del quale Il presente comma non si applica quando l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l'impegno siano stati formalizzati prima della scadenza del termine per la presentazione delle domande.
E’, in definitiva, di tutta evidenza, alla stregua di una lettura sistemica delle disposizioni compendiate nel comma 4 dell’art. 80, che, per potere operare la clausola espulsiva connessa ad infrazioni di natura tributaria, è necessario, da un lato, che il relativo credito sia già definito quanto a sorta principale ed “eventuali interessi o multe” e che, ciò nondimeno, la parte sia, comunque, rimasta colpevolmente inadempiente (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.04.2019 n. 2183 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Risarcimento danni per illegittima esclusione da gara pubblica.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Illegittima esclusione dalla gara – Quantificazione – Criterio.
Il danno risarcibile connesso ad una procedura di gara dalla quale la concorrente stata esclusa non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo, id est l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che mentre i danni da mancata aggiudicazione sono parametrati al c.d. interesse positivo e consistono nell'utile netto ritraibile dal contratto, oltre che nei pregiudizi di tipo curriculare e all'immagine commerciale della società, ingiustamente privata di una commessa pubblica, nel caso di responsabilità precontrattuale i danni sono limitati al solo interesse negativo, ravvisabile nel caso delle procedure ad evidenza pubblica nelle spese inutilmente sopportate per parteciparvi e nella perdita di occasioni di guadagno alternative (Cons. St., sez. V, 03.01.2019, n. 69; id. 27.03.2017, n. 1364; id., sez. IV, 20.02.2014, n. 790; id., V, 06.03.2013, n. 1357).
La Sezione ritiene che correttamente è stato, dunque, escluso, in primo grado, il danno curriculare dal novero delle voci risarcibili.
Del pari, condivisibile e meritevole di conferma deve ritenersi l’approdo decisorio cui è giunto il giudice di prime cure nella parte in cui ha rilevato la mancanza di conferenti elementi di prova a sostegno della lamentata perdita di chances.
Era, invero, onere della parte deducente comprovare, quantomeno con un principio di prova, le possibili, alternative occasioni di guadagno cui l'operatore leso avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso dell'amministrazione, indicandole e comprovandone la concreta praticabilità, essendo di tutta evidenza come siffatte evenienze, ricadendo comunque nella sfera di signoria dell’interessato, avrebbero dovuto essere allegate e circostanziate onde renderne obiettiva evidenza in vista del conseguimento del rivendicato ristoro sostitutivo (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 02.04.2019 n. 2181 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Con riguardo alla legittimazione a presentare la domanda di sanatoria, la giurisprudenza precisa che “In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull'immobile, potendosi ritenere d'altra parte legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l'esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari”.
Va anche detto che “potenziale responsabile dell'abuso edilizio e, quindi, legittimato (ex art. 36 DPR 380/2001) a presentare istanza di sanatoria può essere non solo il proprietario o altro soggetto che vanti, sull'area, un diritto reale o obbligatorio, ma anche soggetti che, in relazione al loro rapporto privilegiato o comunque qualificato con il bene, possano avere avuto la possibilità di realizzare l'abuso”.
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Con ricorso notificato a mezzo servizio postale il 16/18.01.2018 e depositato il successivo giorno 31, la società GE.CO.P. a r.l., titolare del supermercato (media struttura di vendita al dettaglio di prodotti alimentari) sito nel Comune di Piedimonte San Germano, ha impugnato il provvedimento descritto in epigrafe, con cui il Comune di Piedimonte San Germano ha respinto la SCIA presentata dalla ricorrente in data 01.08.2017 per la sanatoria delle opere indicate nei verbali di accertamento prot. 9060 del 24.09.2015 e prot. 10359 del 30.10.2015, e annullato in autotutela l’eventuale atto di assenso formatosi.
2) In particolare, l’Amministrazione contesta il posizionamento sull’area pertinenziale al fabbricato a destinazione commerciale delle seguenti opere:
  - struttura metallica coperta con lastre di plexiglas ad uso ricovero carrelli avente dimensioni in pianta di ml 2,28 x 4,35;
  - soppalco in ferro avente dimensioni in pianta di ml. 5,10 x 1,08 x alt. 1,63;
  - ventola di raffreddamento impianti, avente le dimensioni di ml. 5,10 x 0,55 x alt. 2,22;
  - posizionamento a terra di n. 2 motori aventi le dimensioni in pianta di ml. 1,38 x 0,75 x alt. 1,32.
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6) Il ricorso è fondato.
7) Il Comune di Piedimonte San Germano ha respinto la SCIA in sanatoria presentata in data 01.08.2017 per una tettoietta per ricovero carrelli di circa 10 mq su pianta, un soppalco in ferro di circa 5 mq x alt. 1,63, una ventola di raffreddamento impianti, di circa mq 2,50 x alt. 2,22 e n. 2 motori aventi le dimensioni in pianta di circa mq 1,03 x alt. 1,32, ritenendo che tali opere non sarebbero configurabili come volumi tecnici ai sensi dell’art. 5, lett. f), delle NTA del PRG e non sarebbero assentibile in ragione della esistenza sull’area di vincolo paesaggistico e della opposizione di alcuni comproprietari.
Tuttavia, le motivazioni addotte dall’Amministrazione per giustificare il diniego sono tutte destituite di fondamento.
8) Con riguardo alla legittimazione a presentare la domanda di sanatoria, la giurisprudenza precisa che “In caso di pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in sanatoria di interventi già realizzati- dovrà necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti vantanti un diritto di proprietà sull'immobile, potendosi ritenere d'altra parte legittimato alla presentazione della domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene consenta di supporre l'esistenza di una sorta di cd. pactum fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari” (Consiglio di Stato sez. IV, 07/09/2016, n. 3823).
Nel caso di specie, è noto al Collegio (cfr. ric. Rg. 739/17 deciso nella medesima camera di consiglio) che la ricorrente aveva stipulato contratto di locazione in data 15.01.1996 che le conferiva l’uso esclusivo del supermarket e dell’area pertinenziale esterna, nonché l’autorizzava a eseguire ogni intervento edile (anche esterno al fabbricato) funzionale all’attività commerciale (cfr. art. 6). Pertanto, è evidente che la GE.CO.P., era implicitamente legittimata dagli altri comproprietari del compendio a presentare richiesta dei titoli edilizi necessari per la realizzazione delle opere, come quelle in argomento, funzionali all’attività commerciale.
Inoltre, va detto che con sentenza n. 860/13 del 23.10.2013, immediatamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c., il Tribunale di Cassino aveva assegnato in via esclusiva ai soci della società ricorrente la proprietà dell’area sulla quale è collocata la passerella.
La sentenza, peraltro, nelle more del giudizio è diventata definitiva a seguito della pronuncia della Corte di Appello di Roma n. 5144 del 24.07.2018 che ha dichiarato l’estinzione del giudizio.
In ogni caso, va anche detto che “potenziale responsabile dell'abuso edilizio e, quindi, legittimato (ex art. 36 DPR 380/2001 e art. 49 l.reg. n. 16 del 2008) a presentare istanza di sanatoria può essere non solo il proprietario o altro soggetto che vanti, sull'area, un diritto reale o obbligatorio, ma anche soggetti che, in relazione al loro rapporto privilegiato o comunque qualificato con il bene, possano avere avuto la possibilità di realizzare l'abuso” (TAR Genova, sez. I , 26/02/2015, n. 235) (TAR Lazio-Latina, sentenza 02.04.2019 n. 218 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti.
Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree.
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1. Con il ricorso in esame è contestata la legittimità dell’ordinanza sindacale n. 3 dell’08.01.2018, recante l’ordine rivolto al sig. Fr.Bo., ai sensi e per gli effetti dell’art. 192, commi 1 e 3, del Decreto Legislativo n. 152 del 03.04.2006, di provvedere entro trenta giorni alla messa in sicurezza, rimozione e smaltimento di rifiuti sversati nella stradina interpoderale di accesso al proprio fondo, sito in Gricignano di Aversa.
2. A fondamento del gravame viene dedotto un unico articolato motivo con cui ci si duole della violazione e falsa applicazione di legge -segnatamente dell'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 e dell’artt. 3 e ss. della legge n. 241/1990- nonché dell’eccesso di potere per carenza di istruttoria, difetto di motivazione ed errore sui presupposti.
In tesi del ricorrente -questo in estrema sintesi il contenuto delle doglianze- il provvedimento impugnato sarebbe palesemente illegittimo per non aver l’Amministrazione procedente dato conto in motivazione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste alla base della decisione, essendogli stato imputato l’onere della rimozione dei rifiuti sversati da terzi, prescindendo da ogni tipo di accertamento di responsabilità a titolo di dolo o colpa a suo carico, peraltro in assenza della necessaria partecipazione dei proprietari allo svolgimento del sopralluogo, contrariamente a quanto disposto dall'art. 192, comma 3, che sancisce che gli accertamenti siano effettuati "in contraddittorio con i soggetti interessati".
...
5. Il ricorso è fondato.
6. Deve anzitutto osservarsi che l’ordinanza gravata è riconducibile, conformemente al contenuto ed al fine cui è diretta, all’ordinario potere d’intervento attribuito al Sindaco dall’art. 192 del Codice dell’Ambiente, in caso di accertato abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
6.1 In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti. Per accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli organi preposti al controllo svolgano approfonditi accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati, di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a carico dei proprietari delle aree (ex multis, C.d.S. sez. V, 17.07.2014, n. 3786; TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.10.2018, n. 5783; TAR Puglia, Bari, sez. I, 24.03.2017, n. 287 e 30.08.2016, n. 1089).
6.2 Così qualificata l’ordinanza de qua ed individuati i presupposti per la sua adozione, va rimarcato che, nel caso di specie, la stessa non è stata preceduta da adeguata istruttoria, di talché non può dirsi accertato l’elemento soggettivo della responsabilità.
Invero, è mancato lo svolgimento di specifici accertamenti in contraddittorio con l’interessato da parte dei soggetti preposti al controllo prima di imporre l’obbligo di rimozione, smaltimento o avvio al recupero dei rifiuti, che, in subiecta materia, si aggiunge all’onere di comunicazione di avvio del procedimento, ponendosi quale specifico dovere dell'Amministrazione e presupposto per l’adozione della relativa ordinanza, in funzione dell’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o quantomeno della colpa, che, come visto, deve sorreggere la condotta omissiva secondo l’interpretazione fornita dalla richiamata giurisprudenza.
6.3 Peraltro, nemmeno risulta adeguatamente valutata dall’amministrazione la circostanza che sia stata apposta una sbarra per impedire l’accesso alla proprietà del ricorrente dalla stradina interpoderale; circostanza che invece attesta l’adozione di misure volte all'adempimento dell’obbligo di diligenza nella custodia del bene, risultando affatto plausibile che la stessa sia stata spostata ed oltrepassata furtivamente al momento dello sversamento.
7. In conclusione il ricorso è accolto nei termini di cui in motivazione, con conseguente annullamento dell’ordinanza sindacale gravata, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Autorità amministrativa (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 01.04.2019 n. 1802 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Le circolari amministrative (sulla cui natura è nota la varietà delle opinioni dottrinarie e giurisprudenziali, varietà dovuta peraltro alla molteplicità delle fattispecie che vengono riunite sotto quest’unica denominazione, come riconosce esplicitamente l’art. 26 della legge 07.08.1990, n. 241) costituiscono atti interni, diretti agli organi ed agli uffici periferici, al fine di disciplinarne l'attività e vincolano, conseguentemente, i comportamenti degli organi operativi sottordinati, ma non i soggetti destinatari estranei all’Amministrazione.
Le circolari, invero, non possono né contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie (che, come tali vincolano tutti i soggetti dell'ordinamento), essendo dotate di efficacia esclusivamente interna.
In sintesi, le circolari amministrative non hanno valore normativo o provvedimentale e anche la giurisprudenza di legittimità costantemente afferma che l’interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola né le parti né i giudici, né infine costituisce fonte di diritto.

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Va peraltro evidenziato che la circostanza che l’interpretazione avversata dal Comune ricorrente è racchiusa in circolari del Ministero dell’Interno (che sono state, per l’appunto, espressamente impugnate) è del tutto irrilevante ai fini di interesse.
E’ noto, invero, che le circolari amministrative (sulla cui natura è nota la varietà delle opinioni dottrinarie e giurisprudenziali, varietà dovuta peraltro alla molteplicità delle fattispecie che vengono riunite sotto quest’unica denominazione, come riconosce esplicitamente l’art. 26 della legge 07.08.1990, n. 241) costituiscono atti interni, diretti agli organi ed agli uffici periferici, al fine di disciplinarne l'attività e vincolano, conseguentemente, i comportamenti degli organi operativi sottordinati, ma non i soggetti destinatari estranei all’Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 17.11.2015, n. 5231; Cons. Stato, sez. IV, 12.06.2012, n. 3457).
Le circolari, invero, non possono né contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie (che, come tali vincolano tutti i soggetti dell'ordinamento), essendo dotate di efficacia esclusivamente interna (arg. ex Cass. civ., Sez. Un., 02.11.2007, n. 23031).
In sintesi, le circolari amministrative non hanno valore normativo o provvedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2017, n. 5664; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2016, n. 310) e anche la giurisprudenza di legittimità costantemente afferma che l’interpretazione ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola né le parti né i giudici, né infine costituisce fonte di diritto (Cass. civ., sez. lav., 05.10.2018, n. 24585; Cass. civ., sez. lav., 12.04.2017, n. 9400) (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 01.04.2019 n. 397 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione in zona agricola di abitazioni destinate ai dipendenti degli imprenditori agricoli è consentita dall’art. 59, comma 1, della LR 12/2005 della Lombardia. Tali abitazioni si aggiungono a quelle destinate alle esigenze personali degli imprenditori e dei rispettivi familiari, e dunque costituiscono un potenziale moltiplicatore degli insediamenti abitativi in zona agricola, con relativo consumo di suolo.
Occorre pertanto applicare anche agli alloggi dei dipendenti i requisiti previsti dall’art. 60, comma 2-b, della LR 12/2005, il quale subordina il permesso di costruire all'accertamento da parte degli uffici comunali dell'effettiva esistenza e del funzionamento dell'azienda agricola. È infatti evidente il rischio di comportamenti opportunistici, qualora mancasse un controllo sulla reale esigenza per l’azienda agricola di assumere e di ospitare stabilmente dei dipendenti.
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Il punto è dunque dimostrare che l’azienda agricola, per il suo attuale funzionamento o in relazione a investimenti già effettuati, ha la necessità di dare alloggio ai lavoratori.
L’alloggio, per diventare il motivo che legittima la richiesta del titolo edilizio, deve essere molto più di un semplice beneficio contrattato con un potenziale lavoratore. Il consumo di suolo coinvolge interessi urbanistici e ambientali di natura pubblica, e non può dipendere da accordi tra privati su aspetti della retribuzione.
È necessaria invece la prova che non è possibile, per ragioni produttive, rinunciare alla presenza continuativa di uno o più dipendenti all’interno dell’azienda agricola per la maggior parte dell’anno, con proiezione pluriennale, e che non è ragionevole aspettarsi di reperire manodopera sul mercato del lavoro senza offrire la disponibilità dell’alloggio.
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... per l'annullamento:
   - del permesso di costruire n. 856/2016, rilasciato il 28.06.2016, riguardante una nuova costruzione destinata ai dipendenti dell’azienda agricola dei ricorrenti, nella parte in cui subordina l’edificazione a una verifica da parte del Comune sulla regolarità del contratto di lavoro;
   - della nota del responsabile del procedimento di data 11.07.2016, che, con riferimento al permesso di costruire n. 856/2016, sospende per un massimo di 60 giorni i termini ex art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, in considerazione della rinuncia all’incarico da parte del progettista, del direttore dei lavori e del responsabile della sicurezza;
...
Sugli alloggi per i dipendenti
8. La realizzazione in zona agricola di abitazioni destinate ai dipendenti degli imprenditori agricoli è consentita dall’art. 59, comma 1, della LR 12/2005. Tali abitazioni si aggiungono a quelle destinate alle esigenze personali degli imprenditori e dei rispettivi familiari, e dunque costituiscono un potenziale moltiplicatore degli insediamenti abitativi in zona agricola, con relativo consumo di suolo.
9. Occorre pertanto applicare anche agli alloggi dei dipendenti i requisiti previsti dall’art. 60, comma 2-b, della LR 12/2005, il quale subordina il permesso di costruire all'accertamento da parte degli uffici comunali dell'effettiva esistenza e del funzionamento dell'azienda agricola. È infatti evidente il rischio di comportamenti opportunistici, qualora mancasse un controllo sulla reale esigenza per l’azienda agricola di assumere e di ospitare stabilmente dei dipendenti.
10. Il punto è dunque dimostrare che l’azienda agricola, per il suo attuale funzionamento o in relazione a investimenti già effettuati, ha la necessità di dare alloggio ai lavoratori.
L’alloggio, per diventare il motivo che legittima la richiesta del titolo edilizio, deve essere molto più di un semplice beneficio contrattato con un potenziale lavoratore. Il consumo di suolo coinvolge interessi urbanistici e ambientali di natura pubblica, e non può dipendere da accordi tra privati su aspetti della retribuzione. È necessaria invece la prova che non è possibile, per ragioni produttive, rinunciare alla presenza continuativa di uno o più dipendenti all’interno dell’azienda agricola per la maggior parte dell’anno, con proiezione pluriennale, e che non è ragionevole aspettarsi di reperire manodopera sul mercato del lavoro senza offrire la disponibilità dell’alloggio.
11. La relazione dell’ing. Bo. allegata dai ricorrenti non contiene indicazioni specifiche su questi problemi. Correttamente, quindi, il Comune ha stabilito di non autorizzare immediatamente la nuova edificazione residenziale sulla base della semplice prospettazione di un evento futuro, quale l’assunzione di un dipendente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 01.04.2019 n. 297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va disattesa la tesi secondo cui sulle istanze di proroga del termine di ultimazione dei lavori si possa formare il silenzio-assenso.
Ed invero, l’art. 15 DPR n. 380/2001 statuisce che:
   - dopo il decorso del termine di ultimazione dei lavori il permesso di costruire “decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”, specificando che “la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori” (comma 2);
   - “la proroga dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate” (comma 2-bis, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014);
   - “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio” (comma 4).
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La pronuncia dell’Amministrazione sulla domanda di proroga dell’efficacia del permesso di costruire è di natura discrezionale, in quanto, come desumibile anche dal verbo “può” usato nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio dell’edificazione, sicché non può formarsi il silenzio-assenso sulle predette istanze di proroga.
Peraltro, la proroga di efficacia del permesso di costruire, oltre ad assicurare al titolare dell’autorizzazione edilizia la certezza del titolo, garantisce la certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia del territorio comunale e l’effettiva vigenza delle nuove norme urbanistiche approvate successivamente al rilascio del permesso di costruire, consentendo all’Amministrazione di valutare l’oggettiva sussistenza delle cause, contemplate dal citato art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, e/o di fatti sopravvenuti estranei alla volontà e/o responsabilità del richiedente, come la mole dell’opera da realizzare e/o particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive, che hanno impedito il completamento della costruzione ed il tempo necessario occorrente per l’ultimazione dei lavori oppure l’effettiva sussistenza delle fattispecie giuridiche del factum principis e/o della forza maggiore, che hanno reso oggettivamente impossibile il rispetto dei termini stabiliti dal permesso di costruire. Sul punto è stato statuito che:
  
la crisi economica del settore dell’edilizia non può giustificare il mancato rispetto da parte del titolare del permesso di costruire dell’obbligo di osservare i tempi di inizio e completamento dei lavori e non è una valida ragione opponibile all’inutile decorso di tali termini;
  
la proroga di efficacia del permesso di costruire non può essere giustificata da motivi di carattere economico e/o familiari.
Ne consegue che il suddetto art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, nella parte in cui specifica le ragioni che consentono la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire, deve essere interpretato restrittivamente, giacché tale norma costituisce una deroga alla disciplina generale dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più.
Il suddetto comma 4 dell’art. 15 DPR n. 380/2001, è bene ribadirlo, stabilisce espressamente che “il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
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Nel merito, l’impugnazione con ricorso introduttivo del provvedimento prot. n. 353 dell’08.01.2018 risulta infondata, in quanto va disattesa la tesi del ricorrente, secondo cui sulle suddette istanze di proroga del termine del 26.10.2013 di ultimazione dei lavori, autorizzati con il permesso di costruire del 26.10.2010, si sarebbe formato il silenzio-assenso.
Ed invero, l’art. 15 DPR n. 380/2001 statuisce che:
   - dopo il decorso del termine di ultimazione dei lavori il permesso di costruire “decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga”, specificando che “la proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori” (comma 2);
   - “la proroga dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate” (comma 2-bis, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014);
   - “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio” (comma 4).
Può prescindersi dal contrasto giurisprudenziale se la decadenza ex art. 15 DPR n. 380/2001 operi anche in assenza di un apposito atto amministrativo di tipo ricognitivo (cfr. C.d.S. Sez. IV Sent. n. 1520 del 15.04.2016; TAR Catanzaro Sez. II Sent. n. 1790 del 24.10.2018; TAR Lecce Sez. III Sent. n. 131 dell’01.02.2018; TAR Salerno Sez. I Sent. n. 448 del 24.02.2016; TAR Catania Sez. I Sent. n. 528 del 16.02.2015; TAR Palermo Sez. II Sent. n. 746 del 14.03.2014; TAR Lazio Sez. II-bis Sent. n. 5370 del 28.06.2005; TAR Bari Sez. II Sent. n. 668 del 21.02.2005), seguito da questo Tribunale (cfr. TAR Basilicata Sent. n. 140 del 07.02.2017), oppure risulti necessaria una formale dichiarazione dell’effetto verificatosi direttamente ex se all’esito di un apposito procedimento (cfr. C.d.S. Sez. VI Sent. n. 5285 del 15.11.2017; C.d.S. Sez. V Sent. n. 3612 del 26.06.2000; TAR Lazio Sez. II-quater Sent. n. 9746 del 05.10.2018; TAR Lecce Sez. III Sent. n. 1454 del 21.09.2016), in quanto con il provvedimento impugnato è stata anche dichiarata l’inefficacia del citato permesso di costruire del 26.10.2010.
D’altronde, la pronuncia dell’Amministrazione sulla domanda di proroga dell’efficacia del permesso di costruire è di natura discrezionale, in quanto, come desumibile anche dal verbo “può” usato nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal privato e il loro apprezzamento in termini di evento oggettivamente impeditivo dell’avvio dell’edificazione (cfr. TAR Lecce Sez. I Sent. n. 603 del 10.04.2018; TAR Napoli Sez. IV Sent. n. 1276 del 26.02.2018), sicché non può formarsi il silenzio-assenso sulle predette istanze di proroga.
Peraltro, la proroga di efficacia del permesso di costruire, oltre ad assicurare al titolare dell’autorizzazione edilizia la certezza del titolo, garantisce la certezza temporale dell’attività di trasformazione edilizia del territorio comunale e l’effettiva vigenza delle nuove norme urbanistiche approvate successivamente al rilascio del permesso di costruire, consentendo all’Amministrazione di valutare l’oggettiva sussistenza delle cause, contemplate dal citato art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, e/o di fatti sopravvenuti estranei alla volontà e/o responsabilità del richiedente, come la mole dell’opera da realizzare e/o particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive, che hanno impedito il completamento della costruzione ed il tempo necessario occorrente per l’ultimazione dei lavori oppure l’effettiva sussistenza delle fattispecie giuridiche del factum principis e/o della forza maggiore, che hanno reso oggettivamente impossibile il rispetto dei termini stabiliti dal permesso di costruire (sul punto cfr. C.d.S. Sez. IV Sent. n. 1520 del 15.04.2016, secondo cui la crisi economica del settore dell’edilizia non può giustificare il mancato rispetto da parte del titolare del permesso di costruire dell’obbligo di osservare i tempi di inizio e completamento dei lavori e non è una valida ragione opponibile all’inutile decorso di tali termini; TAR Veneto Sez. II Sent. n. 652 del 05.07.2017, secondo cui la proroga di efficacia del permesso di costruire non può essere giustificata da motivi di carattere economico e/o familiari).
Ne consegue che il suddetto art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, nella parte in cui specifica le ragioni che consentono la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire, deve essere interpretato restrittivamente, giacché tale norma costituisce una deroga alla disciplina generale dettata al fine di evitare che una edificazione autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico venga realizzata quando il mutato regime non lo consente più.
Il suddetto comma 4 dell’art. 15 DPR n. 380/2001, è bene ribadirlo, stabilisce espressamente che “il permesso decade con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
In ogni caso, deve affermarsi l’insussistenza dei presupposti per ottenere la prima proroga, richiesta dal ricorrente con la nota del 10/11.10.2013, concernente lo spostamento del termine per l’esecuzione dei lavori dal 26.10.2013 al 26.10.2015.
Il ricorrente richiama in tale nota l’art. 30, comma 3, primo periodo, D.L. n. 69/2013 conv. nella L. n. 98/2013, il quale prevede che, “salva diversa disciplina regionale, previa comunicazione del soggetto interessato, sono prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione dei lavori di cui all’art. 15 DPR n. 380/2001, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all’entrata in vigore del presente decreto, purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento della comunicazione dell’interessato e sempre che i titoli abilitativi non risultino in contrasto, al momento della comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti urbanistici approvati o adottati”.
Nel caso di specie ricorre proprio quest’ultima circostanza impeditiva della proroga ex lege, perché al momento della presentazione dell’istanza di proroga del ricorrente del 10/11.10.2013 era già entrato in vigore il Regolamento Urbanistico ex art. 16 L.R. n. 23/1999, approvato con Del. C.C. n. 39 del 30.8.2012, recante nuove disposizioni urbanistiche, contrastanti con il permesso di costruire del 26.10.2010.
Anche le successive istanze di proroga del 13.10.2015 e del 20/21.10.2016 risultano carenti dei presupposti, stabiliti dall’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, in quanto l’inerzia e/o la mancata realizzazione da parte del ricorrente del fabbricato, autorizzato con il rilascio del permesso di costruire del 26.10.2010, entro il termine del 26.10.2013, non risulta giustificata da “fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori”.
Né sussiste la fattispecie giuridica del factum principis e/o della forza maggiore, con riferimento alla quale il comma 2-bis dell’art. 15 DPR n. 380/2001, inserito dall’art. 17, comma 1, lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014, prevede l’obbligo di concedere la proroga dei termini di efficacia del permesso di costruire, limitandola, però, alla fattispecie delle “iniziative dell’Amministrazione o dell’Autorità Giudiziaria rivelatesi poi infondate”, in quanto con l’Ordinanza contingibile ed urgente ex art. 54 D.Lg.vo n. 267/2000 n. 20 dell’11.1.2012, invocata dal ricorrente, il Sindaco di Lavello gli aveva ingiunto di realizzare opere di messa in sicurezza, che sono state realizzate soltanto nel 2016.
Mentre, per quanto riguarda la parte dell’impugnato provvedimento prot. n. 353 dell’08.01.2018, che ha respinto in maniera definitiva la SCIA del 27.10.2016, va precisato che, anche se tale provvedimento dovesse essere qualificato come annullamento della predetta SCIA del 27.10.2016, in ogni caso non sussisterebbe la violazione del presupposto del “termine ragionevole”, sancito dall’art. 21-nonies L. n. 241/1990 per l’esercizio del potere di autotutela, perché il Responsabile del Settore Servizi al Territorio del Comune di Lavello prima con le note del 29.12.2016 e del 30.12.2016 aveva sospeso “i lavori inerenti alla SCIA” ed aveva “archiviato con esito negativo” la pratica e poi, dopo la presentazione, in data 30.12.2016 ed in data 06.09.2017, da parte del ricorrente di documentazione integrativa ed ulteriori elaborati progettuali, con le successive note del 14.02.2017 e del 06.10.2017 aveva evidenziato il mancato rispetto della L.R. 25/2009 (TAR Basilicata, sentenza 30.03.2019 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste alcun dover di comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi.
Quanto alla censura di parte ricorrente volta a lamentare l’intervenuta violazione del proprio diritto di partecipazione al procedimento per effetto della mancata comunicazione dell’avvio dello stesso, ritiene il Collegio di doversi riportare al principio, ormai consolidato in giurisprudenza, in base al quale l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e, pertanto, i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
Invero,
a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990 (che ha recepito, sul punto le indicazioni della giurisprudenza), a fronte di attività interamente vincolata, quale quella di repressione degli abusi edilizi, i vizi di carattere "formale" -tra cui rientra pacificamente anche la violazione dell'art. 7, della legge n. 241- difettano ormai di capacità invalidante, al cospetto dell'invarianza dell'esito provvedimentale e del principio di "strumentalità delle forme".
Consegue, dai principi sopra enunciati, che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla repressione di abusi edilizi non vizia il provvedimento adottato, atteso il carattere vincolato dell'esercizio dei poteri repressivi, laddove il provvedimento demolitorio o ripristinatorio sia stato emesso per sanzionare esclusivamente violazioni edilizie od urbanistiche e risulti adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della realizzazione di opere in assenza di titolo, con contestuale richiamo alla normativa violata, costituendo atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui non deve essere preceduto da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da una comunicazione ex art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990 (peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi alcuna istanza di parte), anche in considerazione della consequenziale intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies, della medesima legge n. 241 del 1990.
La natura urgente e strettamente vincolata degli atti di repressione degli abusi edilizi, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, comporta che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario che nessuna utilità potrebbero apportare ai fini dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.

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2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del giudizio, ritiene il Collegio di dover delibare l’infondatezza della proposta azione.
Va in primo luogo rilevato come il carattere abusivo delle opere oggetto del gravato ordine di demolizione non sia stato in alcun modo contestato da parte ricorrente, dovendo conseguentemente affermarsi, in applicazione del principio di non contestazione, che le stesse siano state realizzate in assenza di un titolo edilizio legittimante e, come tali, sono soggette al potere repressivo previsto dalla normativa di riferimento.
Quanto alla censura di parte ricorrente volta a lamentare l’intervenuta violazione del proprio diritto di partecipazione al procedimento per effetto della mancata comunicazione dell’avvio dello stesso, ritiene il Collegio di doversi riportare al principio, ormai consolidato in giurisprudenza, in base al quale l'esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e, pertanto, i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 10.08.2011, n. 4764; TAR Puglia, Lecce, 19.11.2018, n. 1710; TAR Campania, Napoli, 25.10.2018, n. 6218; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 17.10.2018 , n. 10055; Consiglio di Stato, n. 4703 del 2017; n. 4269 del 2017; n. 2065 del 2017; TAR Campania, Napoli, n. 1220 del 2017; n. 5555 del 2016; n. 4138 del 2016).
Trascura, invero, parte ricorrente di considerare come, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-octies, secondo comma, della legge n. 241 del 1990 (che ha recepito, sul punto le indicazioni della giurisprudenza), a fronte di attività interamente vincolata, quale quella di repressione degli abusi edilizi, i vizi di carattere "formale" -tra cui rientra pacificamente anche la violazione dell'art. 7, della legge n. 241- difettano ormai di capacità invalidante, al cospetto dell'invarianza dell'esito provvedimentale e del principio di "strumentalità delle forme" (ex multis Consiglio di Stato sez. IV, 22.09.2014, n. 4740) (TAR Umbria, Perugia, Sezione Prima, 26.01.2016, n. 52; in termini, TAR Puglia, Lecce, Sezione III, 27.06.2018, n. 1075).
Consegue, dai principi sopra enunciati, che l'omessa comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla repressione di abusi edilizi non vizia il provvedimento adottato, atteso il carattere vincolato dell'esercizio dei poteri repressivi, laddove il provvedimento demolitorio o ripristinatorio sia stato emesso per sanzionare esclusivamente violazioni edilizie od urbanistiche e risulti adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della realizzazione di opere in assenza di titolo, con contestuale richiamo alla normativa violata, costituendo atto doveroso e vincolato nel contenuto, per cui non deve essere preceduto da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da una comunicazione ex art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990 (peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi alcuna istanza di parte), anche in considerazione della consequenziale intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies, della medesima legge n. 241 del 1990.
La natura urgente e strettamente vincolata degli atti di repressione degli abusi edilizi, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, comporta che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario che nessuna utilità potrebbero apportare ai fini dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
Fermo, quindi, il principio in base al quale non sussiste alcun dover di comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, va rilevato, con riferimento alla fattispecie in esame, che con determinazione datata 19.09.2018 –regolarmente notificata alla ricorrente– è stata disposta la sospensione dei lavori e data puntuale comunicazione dell’avvio del procedimento di repressione degli abusi, il che rende palese il carattere meramente pretestuoso della doglianza, oltre che la sua non veridicità in punto di fatto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non incombe in capo all’Amministrazione comunale alcun dovere di verifica della compatibilità edilizia ed urbanistica delle opere abusivamente realizzate, essendo onere del privato attivare i rimedi che l’ordinamento appresta ai fini della sanatoria o dell’accertamento della conformità delle opere abusive.
Ed invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che in tal caso obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato, costituendo l'abusività di un'opera edilizia di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria senza necessità di ulteriori accertamenti.

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Avuto riguardo all’ulteriore profilo di censura, volto a lamentare la mancata valutazione, da parte dell’Amministrazione, della astratta sanabilità delle opere, osserva il Collegio come non incomba in capo all’Amministrazione comunale alcun dovere di verifica della compatibilità edilizia ed urbanistica delle opere abusivamente realizzate, essendo onere del privato attivare i rimedi che l’ordinamento appresta ai fini della sanatoria o dell’accertamento della conformità delle opere abusive.
Ed invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che in tal caso obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato, costituendo l'abusività di un'opera edilizia di per sé sola presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria senza necessità di ulteriori accertamenti (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina l’illegittimità della sanzione, essendo comunque il soggetto tenuto ad osservare un comportamento attivo e collaborativo rivolto ad eliminare l'abuso perpetrato sollecitando il dissequestro all'autorità giudiziaria allo scopo di poter provvedere direttamente alla sua eliminazione.
Ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione di un'opera edilizia abusivamente realizzata e della sua eseguibilità è quindi irrilevante la pendenza di un sequestro penale, potendo in ogni caso il destinatario dello stesso chiedere ed ottenere il dissequestro da parte del giudice penale ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p..
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Con riferimento, infine, alla lamentata mancata considerazione, da parte dell’Amministrazione, della sottoposizione dell’immobile a sequestro giudiziario, osserva il Collegio –in ciò discostandosi da quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza 17.05.2017 n. 2337– che l'esistenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non determina l’illegittimità della sanzione, essendo comunque il soggetto tenuto ad osservare un comportamento attivo e collaborativo rivolto ad eliminare l'abuso perpetrato sollecitando il dissequestro all'autorità giudiziaria allo scopo di poter provvedere direttamente alla sua eliminazione (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016, n. 283; TAR Campania, Salerno, 15.06.2018, n. 958; Napoli, 16.02.2018, n. 1049; TAR Puglia, Lecce, 14.02.2018, n. 275; Cassazione Penale, sez. III, 14.01.2009, n. 9186).
Ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione di un'opera edilizia abusivamente realizzata e della sua eseguibilità è quindi irrilevante la pendenza di un sequestro penale, potendo in ogni caso il destinatario dello stesso chiedere ed ottenere il dissequestro da parte del giudice penale ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p.
In conclusione, tenuto conto del carattere abusivo delle opere oggetto del gravato ordine di demolizione, la cui realizzazione è peraltro proseguita nel tempo nonostante l’intervento di sequestri probatori, e della palese infondatezza e parziale pretestuosità delle censure proposte, il ricorso deve essere rigettato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’onere di fornire la prova dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul privato e non sull’amministrazione che, in presenza di un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di sanzionarla.
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4 – L’appello avverso tale sentenza è parzialmente fondato per le ragioni di seguito esposte.
In generale, deve ribadirsi che l’onere di fornire la prova dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul privato e non sull’amministrazione che, in presenza di un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il potere-dovere di sanzionarla (cfr. Cons. St., sez. VI, 20.12.2013, n. 6159; Cons. St., sez. V, 08.07.2013, n. 3596; Cons. St. Sez. VI, n. 3177 del 18.07.2016).
4.1 - Nel caso di specie, contrariamente alla valutazione del TAR, l’appellante ha tuttavia fornito plurimi elementi concreti atti a corroborare la tesi che il capannone sia stato edificato prima del 1967, e precisamente:
   a) lo stesso risulta dal grafico catastale del 30.10.1969 n. 3909 nella consistenza attuale;
   b) il comune di Pagani, in data 14.06.1971, ha approvato il progetto di ampliamento, presentato dalla medesima società proprietaria, in cui si evidenziava la parte in ampliamento (da edificare) e la parte dell'opificio già esistente;
   c) nel corso del 1971, allorché, dopo il rilascio della licenza n. 8/71, la società aveva in corso la realizzazione dell'ampliamento, il privato confinante –tale Em.Tr.– in data 28.09.1971 aveva presentato un esposto contestando le violazioni edilizie commesse dalla società F.lli Cu., ma nulla rilevava circa i capannoni (quelli prospicienti il piazzale) comprendenti la parte per cui è causa;
   d) la relazione di accertamento, seguita a tale esposto, aveva effettivamente individuato delle difformità relative al progetto di ampliamento, senza nulla contestare in riferimento agli altri capannoni dell’intero complesso industriale.
4.2 – Quanto all’argomento valorizzato dal giudice di primo grado, facente leva sul fatto che i titoli edilizi sono idonei ad assentire soltanto 5.545 metri quadri, l’appellante ha chiarito che tale dato è relativo solo alla parte in ampliamento (licenza 8/1971 ed ordinanza di sanatoria del 14.05.1972), senza tener conto delle altre superfici produttive originarie precedenti, realizzate nel periodo 1965–1968 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a) autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b) incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto del territorio.
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La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata al muro di un edificio preesistente, non può essere considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di autorizzatorio.

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5 – L’appello non può inoltre trovare accoglimento in riferimento al carattere abusivo delle tettoie oggetto di contestazione, dovendosi confermare la decisone del TAR che ha ritenuto che la loro realizzazione, per caratteristiche e dimensioni, necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire.
Al riguardo l’appellante, che cita anche la circolare ministeriale n. 1918/77, sostiene che le tettoie aperte sarebbero opere di natura meramente accessoria e pertinenziale, al servizio esclusivo dei capannoni e prive di una loro autonoma fruibilità.
5.1 – Come anticipato, la censura è infondata, muovendo da un concetto improprio di pertinenza e trascurando le caratteristiche concrete delle tettoie in discorso, costituite da struttura portante in ferro e copertura con lamiere grecate ed aventi dimensioni notevoli (“la tettoia individuata al punto 6) dell'allegato A), presenta una superficie coperta ad una sola falda inclinata pari a circa mq 12100,00, con altezze pari a circa mt. 5,60 max e mt. 5,20 min., mentre la tettoia individuata alpunto 7) dell’allegato A) presenta una superficie coperta pari a circa mq 504,00 ... con altezze pari a circa mt. 5,70 max e mt. 4,35 min”).
Invero, ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a) autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b) incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto del territorio (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 23.07.2009, n. 4636; Cons. di Stato, sez. IV, 16.05.2013, n. 2678; Cons. di Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata al muro di un edificio preesistente, non può essere considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di autorizzatorio (cfr. Cons. St. n. 6493 del 2012; Cons. St. n. 3939 e n. 4997 del 2013) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
Si è anche precisato che i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza.

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6 – La sentenza impugnata deve essere confermata anche nel punto in cui ha respinto le censure dirette a contestare l’ordine di demolizione del locale in alluminio e vetro, ubicato al di sotto di una tettoia, utilizzato per il riparo degli addetti al controllo del carico e scarico delle merci e del locale tecnologico, anch’esso ubicato al di sotto di una tettoia, destinato ad ospitare l’impianto antincendio.
L’appellante assume che tali strutture possano essere classificati come volumi tecnici.
6.1 - Le argomentazione a tal fine dedotte dalla società sono smentite dalle caratteristiche delle opere in esame e dalla loro entità rapportate ai criteri individuati dalla giurisprudenza al fine di delineare la nozione di vano tecnico.
Le dimensioni del primo locale sono “pari a circa mq = (3,80 mi x 5,75 mt.) = 21,85 mq con altezza esterna pari a mi 2,70”, quelle del secondo sono ”pari a circa mq = (4,60 mi x 5,95 mi) = mq 27,37 con altezza delle pareti rilevata esternamente pari a mi 2,70”.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza (ex plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2017, n. 5516), la nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di essa.
Si è anche precisato che i volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate all’altezza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 04.11.2014) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti di demolizione si pongono quale conseguenza necessitata dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento discrezionale in capo all’amministrazione.
In tal senso si giustifica il richiamo all’art. 21-octies della legge 241/1990 da ritenersi idoneo a superare i rilievi dell’appellante, che come innanzi illustrati si rilevano infondati.
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7 – Rispetto alle predette opere eseguite senza l’idonea autorizzazione, sono destituite di fondamento le censure con le quali l’appellante lamenta il mancato rispetto delle norme in tema di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, ed in particolare la mancata considerazione delle controdeduzioni presentate dalla società ricorrente.
Al riguardo, invero, deve ricordarsi che i provvedimenti di demolizione si pongono quale conseguenza necessitata dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento discrezionale in capo all’amministrazione (cfr. Cons. St. sez. VI, n. 3744 del 2015).
In tal senso si giustifica il richiamo all’art. 21-octies della legge 241/1990 da ritenersi idoneo a superare i rilievi dell’appellante, che come innanzi illustrati si rilevano infondati (cfr. Cons. St., 1208 del 2014) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il passaggio di destinazione da terziario (uffici) a residenziale determina senza ombra di dubbio un cambio tra destinazioni non omogenee, idoneo ad incidere sul carico urbanistico, con conseguente necessità del permesso di costruire, e ciò, evidentemente, indipendentemente dall’esecuzione di opere.
Difatti, l'aspetto rilevante, ai fini l'insorgenza del presupposto imponibile, non è se il mutamento di destinazione d'uso avvenga senza opere, ma se implichi il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico, circostanza, quest’ultima, che comporta la necessità di una distribuzione dei relativi costi sociali, che devono essere posti a carico di coloro che effettivamente si trovino a beneficiare delle relative utilità.
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Invero, risulta dirimente -ai fini della decisione della presente controversia- l'interpretazione della disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso, alla luce del disposto dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380 del 2001, così come introdotto dal c.d. Sblocca Italia.
Ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, infatti, "Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale."
La normativa in questione è chiara nello stabilire che il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico con i consequenziali effetti sul c.d. carico urbanistico.
In buona sostanza, la finalità di semplificazione delle attività edilizie, voluta appunto dal decreto Sblocca Italia, non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono, evidentemente, non assimilabili, confermando la scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444 del 1968.

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12.- Il Collegio ritiene dirimente, ai fini della decisione della presente controversia, l'interpretazione della disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso, alla luce del disposto dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380 del 2001, così come introdotto dal c.d. Sblocca Italia.
13.- Ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, infatti, "Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale."
14.- La normativa in questione è chiara nello stabilire che il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico con i consequenziali effetti sul c.d. carico urbanistico.
15.- In buona sostanza, la finalità di semplificazione delle attività edilizie, voluta appunto dal decreto Sblocca Italia, non si è spinta al punto di rendere tra loro omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono, evidentemente, non assimilabili, confermando la scelta già operata con il decreto ministeriale n. 1444 del 1968 (cfr. ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III, 06/02/2017, n. 745).
16.- Ciò posto, nel caso di specie, il passaggio di destinazione da terziario (uffici) a residenziale (circostanza su cui le parti concordano) determina senza ombra di dubbio un cambio tra destinazioni non omogenee, idoneo ad incidere sul carico urbanistico, con conseguente necessità del permesso di costruire, e ciò, evidentemente, indipendentemente dall’esecuzione di opere.
17.- Difatti, l'aspetto rilevante, ai fini l'insorgenza del presupposto imponibile, non è se il mutamento di destinazione d'uso avvenga senza opere, ma se implichi il passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente diverso carico urbanistico, circostanza, quest’ultima, che comporta la necessità di una distribuzione dei relativi costi sociali, che devono essere posti a carico di coloro che effettivamente si trovino a beneficiare delle relative utilità (conforme, Consiglio di Stato sez. VI, 20/11/2018) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 29.03.2019 n. 468 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Desistenza dalla prosecuzione dell'intervento edilizio abusivo - Presupposti - Definitività e dimostrabilità - Onere della prova - Artt. 25, 44, D.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la desistenza dalla prosecuzione dell'intervento abusivo, deve essere definitiva e non soltanto temporanea, e richiede, necessariamente, di essere efficacemente dimostrata attraverso dati obiettivi ed inequivocabili, non potendosi basare su mere attestazioni, poiché, diversamente, ogni interruzione dei lavori, anche se dovuta a circostanze contingenti, potrebbe essere utilizzata per rappresentare una più vantaggiosa collocazione temporale dei lavori abusivi.
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Reato urbanistico - Natura di reato permanente - Consumazione inizio e termine - Ultimazione dell'opera, requisiti e valutate nel loro complesso.
Il reato urbanistico, ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva. La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale) o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
La permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione dei lavori del manufatto, quando la condotta antigiuridica dell'agente prosegua fino all'ultimazione dell'opera, ivi comprese le rifiniture, ovvero al momento della cessazione dei lavori, quando vi sia stata l'effettiva interruzione dell'attività costruttiva, sia essa volontaria, da provare rigorosamente, o dovuta a provvedimento autoritativo.
Inoltre, l'ultimazione dell'opera coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi. Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale, che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell'art. 25 del TU dell'edilizia, che fissa "entro quindici giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il termine per la presentazione, allo sportello unico, della domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti. Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione.
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Immobile abusivo - Prova della concreta ed effettiva funzionalità - Datazione dell'intervento edilizio abusivo - Riferimento all'attivazione delle utenze - Esclusione - Dimostrazione della definitiva cessazione dei lavori - Necessità.
La materiale utilizzazione di un immobile e l'eventuale attivazione di utenze non sono elementi da soli sufficienti per dimostrare la sua concreta ed effettiva funzionalità e la presenza di tutti i requisiti di agibilità o abitabilità che consentano di ritenerlo ultimato.
Tale affermazione, esclude sostanzialmente la possibilità di presumere la datazione dell'intervento edilizio abusivo semplicemente sulla base della mera attivazione delle utenze e la materiale utilizzazione dell'immobile, trattandosi di circostanze che non eliminano del tutto la possibilità di proseguire nell'esecuzione delle opere, né dimostrano la definitiva cessazione dei lavori (l'attivazione dell'energia elettrica, infatti, può addirittura essere necessaria per l'esecuzione delle opere e l'uso dell'immobile può essere parziale o non incompatibile con l'attività edilizia ancora da eseguire) non si pone in contrasto con quanto rilevato in altre pronunce, ove si è stabilito che non possono escludersi ipotesi marginali in cui la permanenza del reato sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera, come, ad esempio, quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo del bene comprovato dalla attivazione delle utenze necessarie essendo quest'ultimo un elemento sintomatico da solo non sufficiente a far ritenere cessata la permanenza, risultando peraltro evidente che, in ogni caso, a tale particolare situazione deve accompagnarsi necessariamente la dimostrata definitiva cessazione dei lavori.

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Responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente committente - Onere della prova - Principio del "cui prodest" - Giurisprudenza.
In tema di responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o comproprietario) dell'area non formalmente committente, la giurisprudenza richiede, la disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e concordanti che sono stati individuati, ad esempio, nella piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e nell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodest"); nei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; nell'eventuale presenza "in loco" del proprietario dell'area durante l'effettuazione dei lavori; nello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; nel particolare regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà
(così Sez. 3 n. 35907 del 29/05/2008, Calicchia, non massimata, che riporta anche gran parte degli esempi sopra indicati e ampi richiami a precedenti pronunce. Conf. Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanzato; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella e altro; Sez. 3, n. 44202 del 10/10/2013, Menditto; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012, Zeno).
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Rapporto di coniugio e compartecipazione di un coniuge nel reato edilizio - Elementi indizianti e prova.
In tema di reati edilizi la responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente commesso dall'altro può essere rilevata sulla base di oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse all'edificazione, il regime di comunione dei beni, l'acquiescenza all'esecuzione dell'intervento, la presenza sul luogo di esecuzione dei lavori, l'espletamento di attività di controllo sull'esecuzione dei lavori, la presentazione di istanze o richieste concernenti l'immobile o l'esecuzione di attività indicative di una partecipazione all'attività illecita (Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018).
Pertanto, in merito allo specifico riferimento al rapporto di coniugio la compartecipazione di un coniuge nel reato materialmente commesso dall'altro non può essere desunta dalla mera qualità di comproprietario. Sono stati pertanto individuati, quali elementi indizianti: il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo su cui è stato realizzato l'edificio abusivo e che entrambi abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare l'opera al fine di trasferire la loro residenza (Sez. 3 n. 28526 del 30/5/2007, Mele, non massimata); l'abitare nel luogo ove si è svolta l'attività illecita di costruzione; l'assenza di manifestazioni di dissenso; il comune interesse alla realizzazione dell'opera (fattispecie relativa ad imputata la quale, benché formalmente residente in altro comune, conviveva con il marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al coniuge, in altri illeciti edilizi); il regime patrimoniale dei coniugi (comunione dei beni); lo svolgimento di attività di vigilanza dell'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi in sanatoria e la presenza in loco all'atto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.03.2019 n. 13607 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICI: Project financing.
Nella materia del c.d. project financing, il Comune gode di ampia discrezionalità nella cernita del progetto, da successivamente porre a fondamento della procedura di evidenza pubblica, in quanto reputato maggiormente confacente al pubblico interesse; il primo segmento procedimentale del c.d. project financing si connota non già in termini di concorsualità, id est di gara comparativa finalizzata alla individuazione di un vincitore.
In questa fase ciò che rileva è esclusivamente l’interesse della Amministrazione ad includere le opere e i servizi proposti dal privato negli strumenti di programmazione, all’uopo nominando “promotore” il soggetto imprenditoriale il cui progetto sia risultato maggiormente aderente ai desiderata e agli interessi dell’Ente; gli interessi privati rimangono, per così dire, sullo sfondo, non essendosi ancora entrati nella fase della procedura pubblica di selezione finalizzata a consentire alle imprese interessate il conseguimento del sostanziale bene della vita, costituito dalla aggiudicazione di una pubblica commessa.
Rispetto ai tipici moduli contrattuali pubblicistici, la complessiva disciplina dell’istituto del project financing si contraddistingue proprio perché la fase di iniziativa non è assunta dall’Amministrazione stessa –con valutazioni prodromiche alla decisione di indire gare pubbliche che, normalmente, rimangono nella “sfera di signoria” di essa Amministrazione, non incidendo in sfere soggettive “terze”- bensì dal privato, i cui progetti e le cui proposte necessitano, dunque, di essere “introitate” e fatte proprie dalla Amministrazione, in quanto reputate coerenti e confacenti con gli indirizzi programmatici e le esigenze pubbliche di cui sono istituzionalmente portatrici.
Trattasi di valutazione per sua stessa natura connotata da ampi margini di discrezionalità, ciò che ha indotto la giurisprudenza, ad esempio, ad escludere che, anche una volta dichiarata di pubblico interesse la proposta del privato e individuato il promotore, l'Amministrazione sia tenuta a dare corso alla procedura di gara per l'affidamento della relativa concessione, posto che, da un lato, tale scelta costituisce una tipica e prevalente manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera, dall'altro, la posizione di vantaggio acquisita per effetto della dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo all'interno della gara, una volta che la decisione di affidare la concessione sia stata assunta.
Di talché, e a fortiori, tali ampi margini di discrezionalità connotano la fase “preventiva” della individuazione del progetto e della sua collocazione nell’alveo dei pubblici interessi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 28.03.2019 n. 691 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso, i cui motivi ben possono essere congiuntamente scrutinati, non è fondato.
2. E, invero, valga in via liminare rimarcare che in subiecta materia il Comune gode di ampia discrezionalità nella cernita del progetto, da successivamente porre a fondamento della procedura di evidenza pubblica, in quanto reputato maggiormente confacente al pubblico interesse.
2.1. Il primo segmento procedimentale del cd. “project financing”, invero, si connota non già in termini di concorsualità, id est di gara comparativa finalizzata alla individuazione di un vincitore; in questa fase ciò che rileva è esclusivamente l’interesse della Amministrazione ad includere le opere e i servizi proposti dal privato negli strumenti di programmazione, all’uopo nominando “promotore” il soggetto imprenditoriale il cui progetto sia risultato maggiormente aderente ai desiderata e agli interessi dell’Ente.
Gli interessi privati rimangono, per così dire, sullo sfondo, non essendosi ancora entrati nella fase della procedura pubblica di selezione finalizzata a consentire alle imprese interessate il conseguimento del sostanziale bene della vita, costituito dalla aggiudicazione di una pubblica commessa.
2.2. Rispetto ai tipici moduli contrattuali pubblicistici, la complessiva disciplina dell’istituto del project financing si contraddistingue proprio perché la fase di iniziativa non è assunta dall’Amministrazione stessa –con valutazioni prodromiche alla decisione di indire gare pubbliche che, normalmente, rimangono nella “sfera di signoria” di essa Amministrazione, non incidendo in sfere soggettive “terze”- bensì dal privato, i cui progetti e le cui proposte necessitano, dunque, di essere “introitate” e fatte proprie dalla Amministrazione, in quanto reputate coerenti e confacenti con gli indirizzi programmatici e le esigenze pubbliche di cui sono istituzionalmente portatrici.
Trattasi, indi, di valutazione per sua stessa natura connotata da ampi margini di discrezionalità, ciò che ha indotto di recente il Supremo Consesso, ad esempio, ad escludere che, anche una volta dichiarata di pubblico interesse la proposta del privato e individuato il promotore, l'Amministrazione sia tenuta a dare corso alla procedura di gara per l'affidamento della relativa concessione, “posto che, da un lato, tale scelta costituisce una tipica e prevalente manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera, dall'altro, la posizione di vantaggio acquisita per effetto della dichiarazione di pubblico interesse si esplica solo all'interno della gara, una volta che la decisione di affidare la concessione sia stata assunta” (CdS, V, 23.11.2018, n. 6633).
Di talché, e a fortiori, tali ampi margini di discrezionalità connotano la fase “preventiva” della individuazione del progetto e della sua collocazione nell’alveo dei pubblici interessi.

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte di giustizia i limiti alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile.
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Telecomunicazione - Telefonia mobile – Impianti – Localizzazione – Divieti – Art. 8, comma 6, l. n. 36 del 2001 – Rimessione Corte di giustizia Ue.
Va rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea osti a una normativa nazionale, come quella di cui all’art. 8, comma 6, l. 22.02.2001, n. 36, intesa ed applicata nel senso di consentire alle singole amministrazioni locali criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile, anche espressi sotto forma di divieto, quali il divieto di collocare antenne in determinate aree ovvero ad una determinata distanza da edifici appartenenti ad una data tipologia (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina europea ha contribuito a far emergere un duplice elemento che, seppur già ricavabile dalle norme interne (a partire dagli artt. 15 e 21 Cost.), appare di fondamentale importanza nel predetto bilanciamento: il diritto all'informazione dei cittadini e quello del cittadino di effettuare e ricevere chiamate telefoniche (e comunicazioni di dati) in ogni luogo, senza, quindi, limitazioni di carattere spaziale-territoriale (cfr. altresì art. 4 direttiva servizio universale).
In tale diritto è ricompresa, anche se come contenuto accessorio, la facoltà di poter chiamare gratuitamente i numeri d'emergenza e in particolare il numero d'emergenza unico europeo a partire da qualsiasi apparecchio telefonico (cfr. Direttiva servizio universale, considerando 12) e di essere localizzati, anche senza comunicare, in situazioni in cui fosse necessario per la tutela della propria vita o della sicurezza anche altrui (considerando 36).
Per rendere effettivo tale diritto la disciplina europea ha imposto specifici obblighi a coloro i quali gestiscono i servizi, prevedendo che gli operatori del servizio universale mantengano l'integrità della rete, come pure la continuità e la qualità del servizio (considerando 14), in modo tale da assicurare l'effettività del diritto in capo a tutti gli utenti omogeneamente su tutto il territorio dell'Unione europea.
Sotto questo profilo, secondo una impostazione dottrinale di origine europea, il diritto dell'utente a poter chiamare, essere chiamato e trasmettere dati sempre e dovunque costituisce un diritto a soddisfazione necessaria che non può essere compresso o limitato arbitrariamente né da normazioni di livello statale né tanto meno da normazioni di livello inferiore
Tali diritti possono peraltro all’evidenza porsi in conflitto con quelli alla tutela dell'ambiente, della salute e del corretto assetto del territorio. Quelli appena richiamati danno vita ad interessi che, in materia, si muovono nella medesima direzione: la massimizzazione della tutela dell'ambiente esigerebbe che non vi fosse alcuna emissione elettromagnetica artificiale e pertanto nessun apparato/antenna idonea a produrlo; quella del corretto assetto del territorio che non vi fossero pali, tralicci o altre strutture più o meno impattanti; quella della salute imporrebbe, sulla scorta del principio di precauzione, di evitare qualsiasi tipo di emissione elettromagnetica in quanto potenzialmente dannosa.
In via astratta l’iter conflittuale in esame, oggetto di attenta ricostruzione a livello nazionale di riparto di competenza fra enti nella giurisprudenza costituzionale (nei termini con chiarezza espressi dalla Corte costituzionale, in specie a partire dalla sentenza 307 del 2003), è stato così efficacemente riassunto anche a livello dottrinale: posto che i dati scientifici attualmente a disposizione non dimostrano in modo certo che le emissioni elettromagnetiche siano dannose per la salute; posto che il principio di precauzione impone comunque di adottare ogni cautela in vista di danni ipoteticamente possibili, allora occorre definire i limiti oltre i quali, precauzionalmente, non sono legittime le emissioni.
Tali limiti segnano la misura dell'incomprimibilità del diritto alla salute. La massimizzazione del diritto alla comunicazione troverebbe quindi in essi un primo confine invalicabile: le emissioni delle antenne dovranno essere sempre inferiori ai limiti cautelativi posti sulla base delle risultanze scientifiche anzidette. D'altra parte, dato che il diritto alla comunicazione non può essere arbitrariamente e ingiustificatamente compresso o limitato, le amministrazioni preposte al corretto governo del territorio dovranno trovare le soluzioni che di volta in volta meglio consentano il minor sacrificio dello stesso e, allo stesso tempo, la massima tutela del diritto alla comunicazione.
Sorge quindi, a quest’ultimo proposito, la necessità di individuare un bilanciamento; in tale ottica la condivisa interpretazione della disciplina nazionale in materia di cui agli orientamenti di questo Consiglio sopra richiamati, va sottoposta alla verifica della compatibilità con la disciplina europea vigente (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 27.03.2019 n. 2033 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Effetti processuali della proposizione dell’istanza di sanatoria successivamente all’ingiunzione di demolizione.
La proposizione dell’istanza di sanatoria successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace il provvedimento sanzionatorio, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’emanazione di un’ulteriore misura sanzionatoria, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere;
Conseguentemente, la presentazione della domanda di accertamento di conformità anteriormente alla proposizione del ricorso avvero l’ordine di demolizione rende lo stesso inammissibile, non essendovi alcun interesse a ricorrere avverso l'atto già divenuto inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.03.2019 n. 665 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato:
   - che l’impugnativa investe il provvedimento con cui, accertata la “… presenza di una struttura in legno delle dimensioni di ml 4.75 x ml 4.60 ancorata in modo fisso al suolo presso l’immobile sito in Tavernerio via ... 17 distinto al mappale n. 607, foglio 11, …” e assunto il carattere abusivo del manufatto, il Comune di Tavernerio ha ingiunto ai ricorrenti, ai sensi dell’art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001, la rimessa in pristino dello stato dei luoghi;
   - che gli interessati lo censurano sotto molteplici profili;
   - che si è costituito in giudizio il Comune di Tavernerio, resistendo al gravame;
   - che alla camera di consiglio del 27.03.2019, ascoltati i difensori delle parti, la causa è passata in decisione;
Ritenuto:
   - che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza che, anteriormente alla notificazione del ricorso, gli interessati abbiano presentato istanza di accertamento di conformità ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
   - che, come questa Sezione ha già avuto modo di rilevare, la proposizione di una simile istanza –successivamente all’ingiunzione di demolizione delle opere abusive– produce l’effetto di rendere definitivamente inefficace il provvedimento sanzionatorio, essendo comunque tenuta l’Amministrazione all’adozione di un nuovo provvedimento, che sia di accoglimento o di rigetto della domanda di sanatoria, e in questo secondo caso all’emanazione di un’ulteriore misura sanzionatoria, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere (v. sent. n. 2635 del 23.11.2018);
   - che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria l’ordinanza di demolizione deve essere sostituita o dal rilascio del titolo edilizio in sanatoria o da un nuovo provvedimento sanzionatorio (v. TAR Umbria 10.12.2018 n. 672);
   - che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di conformità anteriormente alla proposizione del ricorso rende lo stesso inammissibile, non essendovi alcun interesse a ricorrere avverso atto già divenuto inefficace e quindi non più idoneo a ledere l’interesse della parte ricorrente (v., tra le altre, TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n. 827);
   - che, in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, essendo incontestato che la domanda ex art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 sia stata presentata dai ricorrenti ancor prima della notificazione del presente ricorso al Comune di Tavernerio;
   - che, ai sensi dell’art. 73, comma 3, cod. proc. amm., è stato dato avviso in udienza della possibile adozione di una simile pronuncia;
Considerato:
   - che, stante la sussistenza dei presupposti di legge, la Sezione può decidere con “sentenza in forma semplificata”, ai sensi dell’art. 60 cod. proc. amm.;
   - che nel corso della camera di consiglio il Collegio ha avvertito i presenti dell’eventualità di definizione del giudizio nel merito;
   - che, avuto riguardo all’insussistenza di un univoco orientamento giurisprudenziale circa le conseguenze (sul provvedimento sanzionatorio pregresso) della presentazione della domanda di accertamento di conformità, si può disporre la compensazione delle spese di lite;

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione delle stazioni radio base per la telefonia mobile non deve rispettare i limiti di distanza dalle strade, previsti per le ordinarie costruzioni edilizie, trattandosi di opere assimilate alle infrastrutture di urbanizzazione primaria.
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Il ricorso è fondato.
Infatti, secondo il condivisibile orientamento giurisprudenziale (cfr. TAR Napoli Sez. VII Sentenze n. 1146 del 03.03.2016 e n. 3443 del 12.04.2007 e TAR Basilicata Sent. n. 124 dell’11.03.2010), richiamato dalle società ricorrenti, la realizzazione delle stazioni radio base per la telefonia mobile non deve rispettare i limiti di distanza dalle strade, previsti per le ordinarie costruzioni edilizie, trattandosi di opere assimilate alle infrastrutture di urbanizzazione primaria.
Mentre non può essere presa in considerazione la Giurisprudenza, citata dalla Provincia di Potenza, atteso che:
   1) la Sentenza della Sezione II-quater del TAR Lazio n. 12607 del 22.12.2017 non ha esaminato il merito della censura, relativa alla distanza degli impianti di telefonia cellulare dalle strade, in quanto ha dichiarato inammissibile il ricorso della Wind;
   2) la Sentenza n. 87 del TAR Trento del 16.4.2018 ha applicato una precisa disposizione dello strumento urbanistico del Comune di Trento, che stabilisce espressamente la distanza minima dalle strade degli impianti di telefonia mobile;
   3) le altre Sentenze richiamate si riferiscono alla diversa fattispecie disciplinata dall’art. 28 del Codice della Strada, e/o ai vincoli di inedificabilità assoluta, prescritti dallo strumento urbanistico comunale.
Al riguardo, va, altresì, precisato che il richiamo da parte del Comune di Potenza all’art. 3, comma 1, lett. e), punto 4, DPR n. 380/2001, il quale comprende tra gli interventi di “nuova costruzione”, assentibili con permesso di costruire, “l’installazione di torri e tralicci per gli impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazioni”, non coglie nel segno, in quanto, prescindendo dalla circostanza che la predetta norma è stata superata dal successivo art. 87 D.Lg.vo n. 259/2003, che ha sostituito il permesso di costruire con il rilascio di un’apposita autorizzazione all’esito di un procedimento, in cui vengono esaminati contestualmente gli aspetti edilizi/urbanistici e quelli di carattere sanitario, va rilevato che l’art. 26, comma 2, DPR n. 495/1992, nel disciplinare le distanze dal confine stradale, si riferisce alle costruzioni edilizie e non anche alle opere di urbanizzazione primaria e, comunque, il Comune di Potenza non risulta aver adottato nel proprio Regolamento Edilizio, come il Comune di Trento, un’apposita norma, che preveda la distanza minima degli impianti di telefonia mobile dalle strade.
Pertanto, possono essere assorbiti il secondo ed il terzo motivo di impugnazione.
A quanto sopra consegue l’accoglimento del ricorso e per l’effetto l’annullamento dell’impugnato provvedimento di autotutela del 20.08.2018 (TAR Basilicata, sentenza 27.03.2019 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’Adunanza plenaria si pronuncia sulle conseguenze della mancanza del requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota dei lavori.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento temporaneo di imprese – Quota di lavori dichiarata in offerta - Requisito di un componente insufficiente – Conseguenza.
In applicazione dell’art. 92, comma 2, d.P.R. 05.10.2010 n. 207, la mancanza del requisito di qualificazione in misura corrispondente alla quota dei lavori, cui si è impegnata una delle imprese costituenti il raggruppamento temporaneo in sede di presentazione dell’offerta, è causa di esclusione dell’intero raggruppamento, anche se lo scostamento sia minimo ed anche nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme (ovvero un’altra delle imprese del medesimo) sia in possesso del requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione dell’intera quota di lavori (1).
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   (1) La questione era stata rimessa dalla sez. V con ordinanza 18.10.2018, n. 5957.
Ha chiarito l’Alto Consesso che è possibile ritenere come “formalistica” l’interpretazione ora offerta, contrapponendola (come non condivisibilmente effettuato dall’appellante) ad un’altra interpretazione di tipo “sostanzialistico”, secondo la quale –in presenza delle tre condizioni più volte innanzi indicate– il principio di doverosa corrispondenza tra i requisiti di partecipazione di ciascuna impresa e la quota di esecuzione dichiarata “non può dirsi nella sostanza violato”, posto che si otterrebbe anche il “contemperamento tra il principio di libero accesso alle gare ed il principio della necessaria affidabilità degli offerenti”.
A tal fine, occorre in primo luogo osservare come la funzione cui sono preordinati i requisiti di qualificazione ne esclude, per le ragioni di tutela dell’interesse pubblico innanzi esposte, una loro natura meramente “formale”, risolvendosi essi in requisiti di affidabilità professionale del potenziale contraente, la cui natura “sostanziale” è del tutto evidente.
Di modo che una non corrispondenza, in sede di partecipazione alla gara, tra requisito e quota dei lavori da eseguire si risolve non già in una imprecisione formale ovvero in una sorta di errore materiale, bensì in una violazione sostanziale di regole disciplinanti l’intero sistema dei contratti pubblici (e valevoli oggettivamente per tutti i partecipanti alle gare).
Né, inoltre, può dirsi pretermesso il principio del libero accesso alle gare (più volte richiamato dall’appellante), posto che tale accesso è certamente “libero” per i soggetti che rispondono ai requisiti previsti dall’ordinamento per la partecipazione.
D’altra parte, il principio volto a garantire la più ampia partecipazione alle gare non agisce “in astratto”, ma esso, nella sua concreta attuazione, non può che riferirsi ad imprese che –per serietà ed affidabilità tecnico-professionale (appunto validate dal possesso dei requisiti)– sono potenzialmente idonee ad assumere il ruolo di contraenti con gli operatori economici pubblici.
Nel caso di specie, quanto richiesto dalle norme regolamentari e dal bando di gara non appare costituire un impedimento irragionevole alla partecipazione (così costituendo un vulnus per il principio di libera partecipazione), posto che le imprese associate ben possono attribuire a ciascuna di esse ex ante una quota di lavori corrispondente al requisito di qualificazione.
Si intende cioè affermare che nulla vieta al r.t.i. la partecipazione alla gara, ben potendo questa avvenire con una attribuzione delle quote di lavori tra le imprese associate coerente con i loro requisiti di partecipazione.
In altre parole, ciò che si vuol rendere possibile ex post, attraverso l’intervento di un’altra impresa associata avente un requisito “sovrabbondante”, non si vede perché non possa correttamente avvenire ex ante, in sede di ripartizione tra le associate delle quote dei lavori: il che dimostra come non sussista alcun irragionevole restringimento del principio di ampia e libera partecipazione alle gare.
Giova ancora osservare come l’interpretazione cd. “sostanzialistica”, nel richiedere, tra le condizioni per evitare l’esclusione dalla gara del r.t.i. per mancanza di corrispondenza tra requisiti di qualificazione e quote di esecuzione lavori, quella della misura “minima” o “non eccessiva” dello scostamento, finisce per dar luogo:
   - per un verso, ad un non consentito fenomeno di integrazione normativa, attesa la chiara prescrittività del dato normativo in favore della corrispondenza. Nel caso di specie, infatti, l’interprete finirebbe non già per individuare l’esatto contenuto normativo della disposizione (che prevede un chiaro principio di corrispondenza), quanto per aggiungere ad essa una norma ulteriore, peraltro di incerta prescrittività;
   - per altro verso, ad una invasione del campo riservato alla pubblica amministrazione, valutando ex post –in luogo di questa ed in assenza di dato normativo– quando uno scostamento possa definirsi minimo e, dunque, non rilevante ai fini dell’esclusione;
   - per altro verso ancora, ad una lesione del principio della par condicio dei concorrenti, laddove si consentisse alla stazione appaltante di valutare ex post quando (ed in che misura) lo scostamento può definirsi irrilevante.
Delle considerazioni (e preoccupazioni) ora esposte si è resa conto la stessa ordinanza di rimessione laddove, per il caso di adesione alla tesi cd. sostanzialistica, ha in via subordinata richiesto che questa Adunanza Plenaria determini “la soglia superata la quale lo scostamento non possa più essere considerato minimo”.
Il che dimostra, contemporaneamente, il timore per l’esercizio da parte della stazione appaltante di un potere discrezionale ex post e non sorretto da indicazioni normative e la natura di integrazione normativa (e non di interpretazione) di quanto richiesto (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 27.03.2019 n. 6 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001, non ammette termini o condizioni atteso che la ratio della norma è quella di dare rilievo alla piena conformità agli strumenti urbanistici dell'intera opera così come realizzata, senza quindi che siano consentiti accorgimenti per far rientrare la stessa nell'alveo della legittimità urbanistica.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che
è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica in tema di reati urbanistici.
Si è precisato altresì, che
la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Inoltre,
non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria parziale, dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare tutti gli interventi eseguiti nella loro integrità.
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In materia edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito dell'istanza di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione conseguente a condanna per costruzione abusiva- ha il potere-dovere di verificare la legittimità e l'efficacia del titolo predetto, sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio, la corrispondenza di quanto autorizzato alle opere destinate alla demolizione e, qualora trovino applicazione disposizioni introdotte da leggi regionali, la conformità delle stesse ai principi generali fissati dalla legislazione regionale.
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2. Con riferimento al dedotto vizio di violazione di legge si deve premettere che dagli atti indicati dal ricorrente emerge che già nel 2014 si era accertato che il permesso in sanatoria rilasciato ex art. 36 DPR 380/2001 -per un progetto di ripristino di un preesistente fabbricato- e gli atti autorizzatori di tipo paesaggistico correlati erano stati rilasciati in relazione ad opere abusive con prescrizione di demolizione di parte di esse e ripristino dello stato dei luoghi del fabbricato preesistente.
2.1. E' pertanto fondata la censura proposta, in quanto in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001, non ammette termini o condizioni (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014 Rv. 260973 - 01 Chisci), atteso che la ratio della norma è quella di dare rilievo alla piena conformità agli strumenti urbanistici dell'intera opera così come realizzata, senza quindi che siano consentiti accorgimenti per far rientrare la stessa nell'alveo della legittimità urbanistica.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che è illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio" della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica in tema di reati urbanistici (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 Rv. 266034 - 01 Carratu').
Si è precisato altresì, che la sanatoria degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente sia al momento della realizzazione del manufatto che al momento della presentazione della domanda di sanatoria, dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione postuma di opere originariamente abusive che, successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica (cfr. Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015 Rv. 262422 - 01 Bonarota).
Inoltre, non è ammissibile il rilascio di una concessione in sanatoria parziale, dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare tutti gli interventi eseguiti nella loro integrità (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 22256 del 28/04/2016 Rv. 267290 - 01 Rongo).
2.2. Consegue anche la fondatezza dell'ulteriore rilievo critico inerente il mancato esercizio da parte del giudice dell'esecuzione del dovere di verificare la legittimità del titolo abilitativo, atteso che in materia edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito dell'istanza di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione conseguente a condanna per costruzione abusiva- ha il potere-dovere di verificare la legittimità e l'efficacia del titolo predetto, sotto il profilo del rispetto dei presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio, la corrispondenza di quanto autorizzato alle opere destinate alla demolizione e, qualora trovino applicazione disposizioni introdotte da leggi regionali, la conformità delle stesse ai principi generali fissati dalla legislazione regionale (cfr. Sez. 3 - n. 55028 del 09/11/2018 Rv. 274135 - 01 B).
2.3. Quanto al rilascio di autorizzazioni sopravvenute, il giudice dell'esecuzione nell'esercitare il doveroso potere di controllo deve tenere conto dell'art. 146 D.Lgs. n. 42 del 2004, laddove dispone che l'autorizzazione paesaggistica costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio e, fuori dai casi di cui all'articolo 167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Inoltre, il comma 36 dell'articolo unico della L. n. 308 del 2004 (con previsioni trasfuse nel D.Lgs. n. 42 del 2004, ad, 181, commi 1- ter e quater e, successivamente, anche nell'art. 167, commi 4 e 5) ha introdotto (in relazione al reato contravvenzionale contemplato dal cit. D.Lgs., art. 181, comma 1) la possibilità di una valutazione postuma della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi comunque "minori", all'esito della quale -pur restando ferma l'applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167- l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi -rilevante sul piano eminentemente paesaggistico- non si applica o deve essere revocato.
Nei casi anzidetti l'accertamento della compatibilità paesaggistica dell'intervento inoltre, deve avvenire secondo le procedure di cui al D.Lgs. n. 42/2004, art. 181, comma 1-quater, introdotto dalla L. 15.12.2004, n. 308, anche esse verificabili (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.03.2019 n. 13084).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sezioni unite: l’atto amministrativo può arrivare tramite postino privato.
La disciplina relativa alle notificazioni ha subito una costante evoluzione, in linea con le direttive Ue orientate nel senso della progressiva liberalizzazione del particolare settore
Nel periodo in cui la riserva legale a favore del fornitore del servizio postale universale riguardava gli atti giudiziari e quelli concernenti le violazioni al Codice della strada, non operava alcun divieto rispetto alla notificazione a mezzo di servizio di posta privata di provvedimenti di natura amministrativa.

Questo, in breve, il principio di diritto formulato dalle sezioni unite, con la sentenza 26.03.2019 n. 8416, che, nel ritenere legittima la notifica di un’ordinanza (ingiunzione emanata dall’autorità competente ed eseguita tramite operatore postale privato), ha sancito una regula iuris, che appare applicabile in generale con riferimento a tutti gli atti amministrativi.
La vicenda processuale
Nell’ambito di un contenzioso dinanzi al tribunale regionale delle acque pubbliche di Palermo, il giudice accoglieva il ricorso di un condominio avverso la sanzione amministrativa a esso irrogata dall’Organo competente in materia.
Quest’ultimo, dapprima, impugnava la pronuncia del collegio regionale dinanzi al Tribunale superiore, che respingeva il gravame; quindi, ricorreva in sede di legittimità avverso lo sfavorevole verdetto di seconde cure.
Nel ricorso, l’istante denunciava violazione dell’articolo 4 del Dlgs 261/1999, censurando l’affermazione del tribunale superiore, a parere del quale la notifica postale del provvedimento amministrativo impugnato, avvenuta il 05.06.2014, doveva essere eseguita, necessariamente e a pena di giuridica inesistenza, per il tramite del fornitore del servizio universale, escludendosi invece la possibilità di ricorrere ai medesimi fini a un operatore postale privato.
Nello specifico, il ricorrente asseriva che la previsione del citato articolo 4 vigente all’epoca dei fatti contestati, nella parte in cui stabiliva a favore del fornitore del servizio universale una riserva sugli invii postali raccomandati, doveva intendersi riferito ai soli invii concernenti atti giudiziari e non anche ad altri atti notificati a mezzo posta.
La pronuncia della Corte
La Corte ha accolto il motivo, confutando l’argomentazione della pronuncia impugnata secondo la quale la notificazione postale del processo verbale di contestazione della violazione amministrativa e la conseguente irrogazione della sanzione non poteva essere effettuata tramite gestore privato del servizio di posta.
Al riguardo, le sezioni unite ripercorrono l’evoluzione normativa della disciplina di riferimento, osservando che, nel quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali voluto dalla direttiva 97/67/Ce, il Dlgs 261/1999 ha mantenuto un servizio postale universale, “espletato, all’esito della trasformazione in società per azioni dell’Ente Poste, dalla società Poste Italiane s.p.a.”.
In seguito, prosegue la pronuncia, il Dlgs 58/2011, di recepimento della direttiva 2008/6/Ce, ha modificato l’articolo 4 del citato Dlgs 261/1999, restringendo l’ambito oggettivo dei servizi riservati alle sole notificazioni di atti a mezzo posta e comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 890/1982 e alle notificazioni postali dei verbali di contestazione delle infrazioni al codice della strada.
Alla luce del dettato normativo vigente ratione temporis, concludono le sezioni unite, a fronte di un provvedimento, emanato dall’organo competente, e che riveste natura di atto amministrativo e non già di atto giudiziario e neppure concernente violazioni al Codice della strada, risulta pertanto “legittima la relativa notificazione a mezzo servizio di posta privata”.
Osservazioni
Secondo quanto esposto, la disciplina in materia di notificazione postale di atti, contenuta nel Dlgs 261/1999, ha subito una costante evoluzione, in coerenza con le direttive dell’Unione europea orientate nel senso della progressiva liberalizzazione del particolare settore attraverso il riconoscimento della possibilità di svolgimento dei relativi servizi in regime di piena e libera concorrenza.
Tradizionalmente, infatti, la legge prevedeva un regime di riserva, in virtù del quale gli adempimenti relativi ad alcuni specifici servizi postali erano affidati in via esclusiva all’operatore postale che, in ragione del possesso di specifici requisiti, assumeva la qualità di fornitore del servizio postale universale.
In particolare, per un certo periodo, l’articolo 4, comma 5, del decreto legislativo in argomento, ha previsto a favore del fornitore la riserva in ordine agli “invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.
Successivamente, a decorrere dal 30.04.2011, data di entrata in vigore del Dlgs 58/2011, detto articolo 4 è stato “ridimensionato”, limitando l’esclusiva del fornitore ai “…servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari” di cui alla legge 890/1982, e ai “servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui all'articolo 201 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285” (ovvero, le notificazioni postali dei verbali di accertamento delle violazioni alle disposizioni del nuovo Codice della strada).
Il medesimo articolo 4 è stato, poi, abrogato a opera dell’articolo 1, comma 57, lettera b), della legge 124/2017, a decorrere dal 10.09.2017, così eliminandosi qualunque riserva in favore del fornitore.
Tanto precisato, la questione della sussistenza o meno, nel periodo 30.04.2011-09.09.2017, di una riserva a favore del fornitore sugli invii raccomandati di atti amministrativi tributari ha formato oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale che, in mancanza di una soluzione interpretativa univoca, ha indotto la sezione VI della Corte di cassazione, con ordinanza n. 12152/2018, a rimettere la questione alla sezione V, istituzionalmente deputata alla funzione di nomofilachìa.
Nelle more di una decisione al riguardo, la sentenza delle sezioni unite in commento fissa una linea interpretativa piuttosto netta che, assai verosimilmente, sarà confermata dalle sezioni semplici.
Invero, ancorché la pronuncia del Collegio allargato di legittimità abbia avuto a oggetto un provvedimento di ordinanza-ingiunzione, si può ragionevolmente ritenere che la medesima regola sancita dalla sentenza n. 8416 in rassegna troverà applicazione anche con riguardo ad altri atti che, pur di contenuto diverso, ugualmente al primo hanno natura di atto amministrativo (commento tratto da e link a www.fiscooggi.it).
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MASSIMA
Orbene, siffatto assunto è erroneo.
Il d.lgs. n. 261 del 1999, di recepimento della Direttiva 97/67/CE ( emanata con il preciso scopo di dettare <<regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio>>), ha, nel quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali, mantenuto un servizio postale universale, includendo tra i servizi ad esso riservati <<gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie>>.
Il servizio postale universale è espletato, all'esito della trasformazione in società per azioni dell'Ente Poste, dalla società Poste Italiane s.p.a. (v. Cass., Sez. Un., 29/05/2017, n. 13452, ove si pone in rilievo come, nonostante la trasformazione, permanga tuttora in capo all'agente postale l'esercizio di poteri certificativi propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione della connotazione pubblicistica della disciplina normativa che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse finalità pubbliche).
All'art. 18 L. n. 689 del 1981 è stato dall'art. 10 L. n. 265 del 1999 inserito il comma 6, ove si stabilisce che «La notificazione dell'ordinanza ingiunzione può essere eseguita dall'ufficio che adotta l'atto, secondo le modalità di cui alla legge 20.11.1982, n. 890».
Alla su indicata Direttiva del 1997 è seguita la Direttiva 2008/6/CE, recepita con d.lgs. n. 58 del 2011, che ha modificato l'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999 stabilendo che «Per esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20.11.1982, n. 890, e successive modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a mezzo posta di cui all'articolo 201 del decreto legislativo 30.04.1992, n. 285» (cfr. Cass., 19/12/2014, n. 27021 ).
L'art. 1, comma 57, lett. b), L. n. 124 del 2017, ha quindi espressamente abrogato l'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999, con soppressione pertanto dell'attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane s.p.a., quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti le notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari ai sensi della L. n. 890 del 1982, nonché dei servizi inerenti le notificazioni delle violazioni al codice della strada ai sensi dell'art. 201 d.lgs. n. 285 del 1992 (v. Cass., 11/10/2017, n. 23887, e, conformemente, da ultimo, Cass., 07/09/2018, n. 21884).
Detta abrogazione opera, peraltro, come dalla su indicata norma espressamente indicato, con decorrenza dal 10/09/2017, sicché non assume nella specie rilievo, essendo stato -come detto- l'impugnato atto de quo notificato in data 05.06.2014.
A tale stregua, con riferimento alla disciplina ratione temporis nella specie applicabile va osservato che la riserva della notifica a mezzo posta all'Ente Poste (poi società Poste Italiane s.p.a.), pur se posteriore (art. 10, comma 6, L. n. 265 del 1999, che ha modificato l'art. 18 L. n. 689/1981) al d.lgs. n. 261 del 1999 di liberalizzazione (nel più ampio quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi postali) delle notificazioni, è stata successivamente limitata alla notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari e alla notificazione a mezzo posta delle violazioni al Codice della strada per effetto del disposto di cui all'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999, come modificato dal d.lgs. n. 58 del 2011, vigente alla data di notifica del verbale di contestazione di cui trattasi.
Atteso che, diversamente da quanto affermato dal TSAP nell'impugnata sentenza, il riferimento alle <<modalità di cui alla legge 20.11.1982, n. 890>> va invero inteso quale mera previsione di un ulteriore strumento di notificazione di cui i soggetti al riguardo abilitati (e pertanto anche quello gestore del servizio privato) possono avvalersi, decisivo rilievo assume la circostanza che il provvedimento di ordinanza-ingiunzione emanato dall'autorità amministrativa competente secondo le previsioni della L. n. 689 del 1981 ha natura di atto amministrativo (cfr. Cass., 20/09/2006, n. 20401; Cass., 01/06/1993, n. 6088), e non già giudiziario, e non concerne violazioni al Codice della strada, risultando pertanto legittima la relativa notificazione a mezzo servizio di posta privata (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 26.03.2019 n. 8416).

EDILIZIA PRIVATA: Va «rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand’anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze».
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nell’ordinamento statale, infatti, vi è il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un ‘manufatto edilizio’: salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Viceversa, il testo unico attribuisce rilevanza urbanistica ed edilizia alle pertinenze, ammettendo all’art. 3, comma 1, lett. e.6), che specifiche regole siano contenute nelle ‘norme tecniche degli strumenti urbanistici’.
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L’appellato ha realizzato una tettoia in aderenza ad un suo fabbricato sito nel territorio del Comune di Bovolone,
Con l’atto n. 17497 del 31.07.2006, il Comune ha respinto la domanda di accertamento di conformità presentata dall’appellato e, con il successivo atto n. 49 del 17.08.2006, ha ordinato la demolizione della tettoia.
...
7. Risulta inoltre fondato il secondo motivo d’appello, con il quale il Comune ha lamentato l’errore in cui è incorso il TAR, nel valutare l’opera realizzata senza titolo.
Come si è sopra rilevato, il TAR ha ritenuto che il Comune non avrebbe potuto disporre la demolizione dell’opera abusiva, per la sua natura pertinenziale.
Al riguardo, in questa sede il Comune ha rilevato che il portico:
   - ‘è stato realizzato in diretta prosecuzione del fabbricato, di cui rappresenta a tutti gli effetti un ampliamento’;
   - ‘ha le dimensioni di 22,70 ml x 2,77’, con ‘superficie coperta così realizzata pari a mq 62,88’;
   - ‘è stato realizzato con pilastri in legno delle dimensioni di cm 20 x 14, traversi e travetti sulla copertura, dotato di canali di gronda e munito di impianto di illuminazione con lampade stabilmente collocate sulla struttura’.
Tenuto conto di tali circostanze, rileva la giurisprudenza di questo Consiglio (che il Collegio condivide e fa propria: cfr. Sez. VI, 13.03.2017, n. 1155; Sez. VI, 16.02.2017, n. 694), per la quale va «rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand’anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze».
«La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si connotino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti possibile alcuna diversa utilizzazione economica» (cfr. anche Cons. St., Sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; Sez. VI, 04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952; Sez. V, 12.02.2013, n. 817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615).
«Nell’ordinamento statale, infatti, vi è il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando si tratti di un ‘manufatto edilizio’ (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma».
«Viceversa, il testo unico attribuisce rilevanza urbanistica ed edilizia alle pertinenze, ammettendo all’art. 3, comma 1, lett. e.6), che specifiche regole siano contenute nelle ‘norme tecniche degli strumenti urbanistici’».
Nel condividere tali considerazioni, osserva il Collegio che nel presente giudizio non è stato dedotto che una norma tecnica dello strumento urbanistico del Comune di Bovolone abbia considerato irrilevanti le opere in questione sotto il profilo edilizio: le disposizioni delle n.t.a. invocate dall’appellato hanno riguardato aspetti diversi (riguardanti le definizioni della superficie coperta e del volume del fabbricato), ma non in quanto tali le pertinenze e il loro rilievo sotto il profilo edilizio.
Pertanto, anche per tale ragione va riformata la statuizione con cui il TAR ha accolto la censura sulla qualificazione come ‘pertinenze’ delle opere in questione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.03.2019 n. 1995 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi diretti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici e vincolo paesaggistico.
Con riferimento alla realizzazione di un cappotto isolante con tinteggiatura della facciata, è da precisarsi che gli interventi diretti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici sono sempre assistiti dal favore del legislatore; questo favore si riflette anche sul profilo paesistico, perché le innovazioni che migliorano l’efficienza energetica si devono considerare normalmente compatibili con il contesto vincolato.
Il vincolo paesistico non determina di per sé l’immodificabilità delle costruzioni esistenti, né l’obbligo di conservazione dei materiali tradizionali o dei singoli dettagli costruttivi.
Nel confronto tra l’efficientamento energetico, che richiede l’adozione di nuovi materiali, e la conservazione dello scenario tradizionale, l’interesse pubblico prevalente è il primo, a condizione che non vengano introdotti elementi architettonici gravemente dissonanti; una volta evitato questo rischio, il risultato della modifica può ricevere un maggiore o minore grado di approvazione da parte dei soggetti che abitano nelle vicinanze, ma si tratta soltanto di un problema di preferenze personali, che non retroagisce sui diritti edificatori, e non dà diritto a compensazioni.
Sarebbe infatti contraddittorio se l’ordinamento incentivasse, da un lato, gli interventi di efficientamento energetico e, dall’altro, esponesse i proprietari che li eseguono all’obbligo di garantire, oltre a un esito paesisticamente compatibile, l’invariabilità del valore venale degli immobili vicini
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.03.2019 n. 276 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Sulla legittimità degli interventi edilizi.
23. La prima opera contestata di cui può occuparsi il presente giudizio è l’ampliamento della pavimentazione in porfido. Peraltro, rispetto all’originario ricorso sul silenzio, qui la situazione si è rovesciata, in quanto il Comune in data 18.04.2016 ha emesso un’ordinanza di demolizione. La ricorrente non ha quindi interesse a formulare un’impugnazione sotto questo profilo.
È vero che la situazione è cambiata di nuovo dopo che il Comune e la Soprintendenza hanno riconosciuto la compatibilità paesistica della nuova pavimentazione ai sensi dell’art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs. 22.01.2004 n. 42 (v. documentazione depositata dal Comune il 30.10.2018). È però evidente che l’oggetto dell’eventuale impugnazione è ora costituito dai nuovi provvedimenti, i quali si collocano su una linea autonoma rispetto al presente giudizio.
24. Per quanto riguarda la seconda opera contestata, ossia la porta-finestra con balcone sul lato sud, si tratta di un intervento descritto nella relazione tecnica della DIA del 27.11.2009, e rappresentato nella tavola 3 allegata all’autorizzazione paesistica del 19.04.2010 (v. doc. 16 e 18 del Comune, depositati il 13.05.2016). Dal punto di vista urbanistico, questi lavori non presentano criticità.
L’incremento dei rapporti aeroilluminanti e la creazione di un più comodo affaccio sono risultati del tutto legittimi, che l’amministrazione può limitare solo in presenza di un interesse pubblico prevalente, Nello specifico, un simile interesse non sussiste, in quanto gli elementi architettonici sporgenti, se di modesta profondità, non rilevano ai fini del rispetto delle distanze minime, e neppure per quanto riguarda la tutela di una soglia adeguata di riservatezza sociale.
Le questioni civilistiche di dettaglio sulle distanze minime e sulle vedute tra confinanti competono invece al giudice ordinario, come si è precisato sopra.
25. Anche la terza opera contestata, ossia la realizzazione del cappotto isolante con tinteggiatura della facciata, è descritta nella relazione tecnica della DIA del 27.11.2009. Gli interventi diretti a migliorare l’efficienza energetica degli edifici sono sempre assistiti dal favore del legislatore (v. art. 8, comma 2, e art. 54, comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12).
26. Questo favore si riflette anche sul profilo paesistico, perché le innovazioni che migliorano l’efficienza energetica si devono considerare normalmente compatibili con il contesto vincolato. Il vincolo paesistico non determina per sé l’immodificabilità delle costruzioni esistenti, né l’obbligo di conservazione dei materiali tradizionali o dei singoli dettagli costruttivi.
Nel confronto tra l’efficientamento energetico, che richiede l’adozione di nuovi materiali, e la conservazione dello scenario tradizionale, l’interesse pubblico prevalente è il primo, a condizione che non vengano introdotti elementi architettonici gravemente dissonanti. Una volta evitato questo rischio, come appare evidente nel caso in esame, anche in base alla documentazione fotografica acquisita, il risultato della modifica può ricevere un maggiore o minore grado di approvazione da parte dei soggetti che abitano nelle vicinanze, ma si tratta soltanto di un problema di preferenze personali, che non retroagisce sui diritti edificatori, e non dà diritto a compensazioni.
Sarebbe infatti contraddittorio se l’ordinamento incentivasse da un lato gli interventi di efficientamento energetico, e dall’altro esponesse i proprietari che li eseguono all’obbligo di garantire, oltre a un esito paesisticamente compatibile, l’invariabilità del valore venale degli immobili vicini.
27. Non sussistono quindi i presupposti per individuare un danno risarcibile come conseguenza degli interventi eseguiti dalla controinteressata. Non vi sono neppure le condizioni per condannare il Comune a risarcire il danno da ritardo per i tempi con cui è stata data risposta agli inviti a reprimere gli abusi edilizi.
In realtà, come si è visto sopra, vi era un’unica opera abusiva, ossia l’ampliamento della pavimentazione in porfido, mentre negli altri casi non si poneva evidentemente alcuna necessità di adottare misure ripristinatorie. L’unico obbligo per gli uffici comunali era quello di effettuare una verifica delle segnalazioni, e questo adempimento è stato eseguito correttamente, anche attraverso un sopralluogo.
28. Il fatto che l’ordinanza di demolizione dell’unica opera abusiva sia stata adottata dopo la notifica del riscorso sul silenzio non può essere considerato un comportamento dilatorio fonte di danno risarcibile.
In realtà, l’ordinanza è stata intempestiva, in quanto, per regola generale, prima di adottare un provvedimento ripristinatorio è necessario accertare se vi siano le condizioni per regolarizzare l’opera abusiva, come in effetti è poi avvenuto con il riconoscimento della compatibilità paesistica.

APPALTI: Risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale derivante dalla condotta della P.A. nella fase precedente alla conclusione del contratto.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità precontrattuale – Configurabilità.
  
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Responsabilità precontrattuale – Presupposti – Individuazione.
  
Sussiste una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. che, omettendo di stipulare un contratto con un soggetto già individuato come affidatario, pone in essere comportamenti indicativi della volontà di non procedere alla conclusione del contratto, allorché l'Ente, con la propria condotta, abbia ingenerato nell’interlocutore il legittimo affidamento relativo alla futura conclusione del contratto, anche per effetto della condotta successiva all'espletamento della procedura selettiva, culminata nell'individuazione del soggetto col quale dover procedere alla stipula. In tal caso, si configura in capo alla P.A. una responsabilità precontrattuale, intendendo con tale espressione la lesione dell'altrui libertà negoziale, realizzata attraverso un comportamento doloso o colposo, ovvero mediante l'inosservanza del precetto della buona fede (1).
  
Nel caso di responsabilità precontrattuale, i danni -se si esclude, come nel caso di specie, la perdita di occasioni di guadagno alternative, non provata– devono essere limitati al solo interesse negativo, ravvisabile, per le procedure ad evidenza pubblica, nelle spese inutilmente sopportate per partecipare alla gara, nelle spese di pianificazione, programmazione e progettazione e in tutte le altre spese inutilmente sostenute prima e dopo l’aggiudicazione, in ragione dell’affidamento nella conclusione del contratto, ivi comprese le spese di ammortamento di attrezzature e macchinari acquistati o locati per la realizzazione delle opere appaltate (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la violazione del dovere di buone fede genera responsabilità precontrattuale. Le condotte che possono integrarla sono: abbandonare le trattative senza giusta causa, quando queste siano giunte a un punto tale da far confidare la controparte sulla conclusione del contratto; non rendere note alla controparte cause di invalidità del contratto conosciute (art. 1338 c.c.); indurre la controparte a stipulare un contratto con inganno; indurre la controparte a concludere un contratto pregiudizievole (art. 1440 c.c.).
La natura giuridica della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 codice civile -pur dibattuta tra chi ritiene trattarsi di illecito aquiliano (2043 c.c.) e chi la riporta a quello contrattuale (art. 1218 c.c.)- è posta a tutela dell'interesse, negativo, a non essere coinvolti in trattative inutili, a differenza di quanto accade nella responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) che sanziona la lesione dell'interesse positivo ad ottenere la prestazione dovuta.
Ha aggiunto il Tar che la responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione può derivare da qualsiasi comportamento antecedente o successivo alla gara pubblica che risulti contrario, all'esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.
Nondimeno, affinché nasca la responsabilità dell'Amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
   a) che l'affidamento incolpevole sia leso da una condotta che, valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
   b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione, in termini di colpa o dolo;
   c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'Amministrazione (Cons. Stato, Ad. Plen., 04.05.2018, n. 5).
   (2) Ha chiarito il Tar che per le ipotesi di responsabilità precontrattuale, è ammesso il ristoro della perdita di chance ma tale possibilità è limitata alle sole occasioni di guadagno alternative cui l'operatore leso avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso dell'Amministrazione, mentre non è ammesso il ristoro della chance intesa come pura e semplice possibilità di conseguire i guadagni connessi all'esecuzione del contratto non stipulato (Cons. Stato, sez. V, 28.01.2019, n. 697) (
TAR Molise, sentenza 26.03.2019 n. 117 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
XIII – La prima delle due domande subordinate –quella intesa ad ottenere il riconoscimento di una responsabilità precontrattuale del Comune di Termoli e della T.U.A. S.p.A.– è meritevole di accoglimento, la qual cosa induce il Collegio a pretermettere l’esame della seconda domanda subordinata –quella intesa ad ottenere l’indennizzo ex art. 21-quinquies della legge n. 241/1990– stante il rapporto di continenza e, quindi, l’incompatibilità, l’alternatività e la non cumulabilità tra le due forme di tutela e di ristoro economico (cfr.: Cass. civile, Sez. Unite, 22.05.2018, n. 12565; Cass. civile II, 09.02.2017, n. 352; Tar Campania-Napoli I, 05.06.2018, n. 3707; Tar Lazio-Roma II-ter, 08.01.2015, n. 179).
XIV – La violazione del dovere di buone fede genera responsabilità precontrattuale.
Le condotte che possono integrarla sono: abbandonare le trattative senza giusta causa, quando queste siano giunte ad un punto tale da far confidare la controparte sulla conclusione del contratto; non rendere note alla controparte cause di invalidità del contratto conosciute (1338 c.c.); indurre la controparte a stipulare un contratto con inganno; indurre la controparte a concludere un contratto pregiudizievole (1440 c.c.).
In tale ultima ipotesi, a differenza delle altre, il contratto è valido ma la parte subisce un danno per le condizioni svantaggiose della stipula. La natura giuridica della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 codice civile -pur dibattuta tra chi ritiene trattarsi di illecito aquiliano (2043 c.c.) e chi la riporta a quello contrattuale (1218 c.c.)- è posta a tutela dell'interesse, negativo, a non essere coinvolti in trattative inutili, a differenza di quanto accade nella responsabilità contrattuale (1218 c.c.) che sanziona la lesione dell'interesse positivo ad ottenere la prestazione dovuta.
Sussiste una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. che, omettendo di stipulare un contratto con un soggetto già individuato come affidatario, pone in essere comportamenti indicativi della volontà di non procedere alla conclusione del contratto, allorché l'Ente, con la propria condotta, abbia ingenerato nell’interlocutore il legittimo affidamento relativo alla futura conclusione del contratto, anche per effetto della condotta successiva all'espletamento della procedura selettiva, culminata nell'individuazione del soggetto col quale dover procedere alla stipula.
In tal caso, si configura in capo alla P.A. una responsabilità precontrattuale, intendendo con tale espressione la lesione dell'altrui libertà negoziale, realizzata attraverso un comportamento doloso o colposo, ovvero mediante l'inosservanza del precetto della buona fede. Trattasi di una responsabilità derivante dalla condotta amministrativa nella fase delle trattative o comunque in una fase precedente alla conclusione del contratto, che si ricollega a un comportamento scorretto tenuto da una parte negoziale, ai danni dell'altra (cfr. Tar Lazio-Roma II, 09.07.2018, n. 7628).
La responsabilità precontrattuale della pubblica Amministrazione può derivare da qualsiasi comportamento antecedente o successivo alla gara pubblica che risulti contrario, all'esito di una verifica da condurre necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e buona fede.
Nondimeno, affinché nasca la responsabilità dell'Amministrazione non è sufficiente che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono gli ulteriori seguenti presupposti:
   a) che l'affidamento incolpevole sia leso da una condotta che, valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;
   b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione, in termini di colpa o dolo;
   c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta scorretta che si imputa all'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 04.05.2018, n. 5).
...
XV – Sussistono, pertanto, tutti i presupposti della responsabilità precontrattuale, con conseguenze da addebitare in solido a Comune e società partecipata.
XVI - Per le ipotesi di responsabilità precontrattuale, è ammesso il ristoro della perdita di chance ma tale possibilità è limitata alle sole occasioni di guadagno alternative cui l'operatore leso avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso dell'Amministrazione, mentre non è ammesso il ristoro della chance intesa come pura e semplice possibilità di conseguire i guadagni connessi all'esecuzione del contratto non stipulato (cfr. Cons. Stato V, 28.1.2019, n. 697).
La ricorrente non ha provato, invero, la perdita di possibilità di guadagno alternative cui avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso dell'Amministrazione, di guisa che il risarcimento del danno da perdita di chance deve essere escluso.
XVII - Mentre i danni da illegittima mancata aggiudicazione sono parametrati al cosiddetto interesse positivo e consistono nell'utile netto ritraibile dal contratto, oltre che nei pregiudizi di tipo curriculare e all'immagine commerciale della società, ingiustamente privata di una commessa pubblica, nel caso di responsabilità precontrattuale, i danni -se si esclude, come nel caso di specie, la perdita di occasioni di guadagno alternative– devono essere limitati al solo interesse negativo, ravvisabile, per le procedure ad evidenza pubblica, nelle spese inutilmente sopportate per partecipare alla gara, nelle spese di pianificazione, programmazione e progettazione e in tutte le altre spese inutilmente sostenute prima e dopo l’aggiudicazione, in ragione dell’affidamento nella conclusione del contratto, ivi comprese le spese di ammortamento di attrezzature e macchinari acquistati o locati per la realizzazione delle opere appaltate (cfr. Cons. Stato V, 28.1.2019, n. 697).
XVIII – Nei suesposti limiti, va riconosciuto alla ricorrente un risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale.

URBANISTICA: Sulla distinzione tra la variante ‘generale’ e quella ‘particolare’.
La variante ‘parziale’ o ‘puntuale’ è quella che riguarda l’area del soggetto che intende impugnarla o anche le aree oggetto di una ‘modificazione finalizzata’ al perseguimento di una determinata finalità, specificamente riferibile ad una specifica parte del territorio comunale.
Tale principio risulta corroborato dall’art. 11, comma 1, lettera a), del testo unico sugli espropri, il quale ha previsto che va trasmesso l’avviso di avvio del procedimento quando si tratti di una variante allo strumento urbanistico, volta alla apposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, per la realizzazione di una ‘singola opera pubblica’.
La variante va considerata ‘generale’, invece, quando riguarda una pluralità di aree distinte, situate in diverse parti del territorio comunale: in tal caso, in linea di principio sono diverse le regole procedimentali sulla partecipazione degli interessati e diventa applicabile il suesposto principio, per il quale il termine di impugnazione degli atti comincia a decorrere dalla data di pubblicazione, con le modalità previste dalla legge.
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Rilevato che la stessa società appellante ha richiamato la giurisprudenza che si è occupata della distinzione tra la variante ‘generale’ e quella ‘particolare’ (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n, 1904 del 1998; Sez. V, n. 36 del 2007; Sez. VI, n. 4326 del 2007 e n. 5105 del 2007), nella specie, contrariamente a quanto è stato dedotto, vi è stata una vera e propria variante generale.
La variante ‘parziale’ o ‘puntuale’ è quella che riguarda l’area del soggetto che intende impugnarla o anche le aree oggetto di una ‘modificazione finalizzata’ al perseguimento di una determinata finalità, specificamente riferibile ad una specifica parte del territorio comunale.
Tale principio risulta corroborato dall’art. 11, comma 1, lettera a), del testo unico sugli espropri, il quale ha previsto che va trasmesso l’avviso di avvio del procedimento quando si tratti di una variante allo strumento urbanistico, volta alla apposizione di un vincolo preordinato all’esproprio, per la realizzazione di una ‘singola opera pubblica’.
La variante va considerata ‘generale’, invece, quando riguarda una pluralità di aree distinte, situate in diverse parti del territorio comunale: in tal caso, in linea di principio sono diverse le regole procedimentali sulla partecipazione degli interessati e diventa applicabile il suesposto principio, per il quale il termine di impugnazione degli atti comincia a decorrere dalla data di pubblicazione, con le modalità previste dalla legge.
Nella specie, proprio perché la variante in questione ha riguardato un ‘coacervo’ di beni (come rilevato dall’appellante), non risultando che questi abbiano riguardato il perseguimento di uno specifico e ben localizzato interesse pubblico, si deve ritenere che vi si è stata una variante generale, con la conseguente tardività del ricorso di primo grado, rispetto alla data di pubblicazione degli atti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.03.2019 n. 1946 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va considerata la natura vincolata dell’ordine di demolizione, che va emanato senz’altro, quando risulti la natura abusiva di opere edilizie, pur se risalenti nel tempo.
La Sezione condivide e fa proprie (ai sensi dell’art. 74 del c.p.a.) le argomentazioni con cui l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, ha ribadito come l’ordine di demolizione sia un atto ‘rigidamente vincolato’, che va emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio.
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5. Ritiene la Sezione che l’appello risulta infondato e vada respinto.
Quanto al primo motivo, tutte le deduzioni dell’interessato risultano infondate, in considerazione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, che va emanato senz’altro, quando risulti la natura abusiva di opere edilizie, pur se risalenti nel tempo.
La Sezione condivide e fa proprie (ai sensi dell’art. 74 del c.p.a.) le argomentazioni con cui l’Adunanza Plenaria, con la sentenza n. 9 del 2017, ha ribadito come l’ordine di demolizione sia un atto ‘rigidamente vincolato’, che va emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in violazione delle regole sulla tutela del territorio.
Quanto al secondo motivo, risultano irrilevanti le deduzioni dell’interessato secondo cui nella zona in questione sarebbe stato possibile il rilascio di un titolo edilizio per realizzare ‘annessi rustici’.
Infatti, l’ordine di demolizione è stato emesso –e doveva essere emanato- in considerazione della abusività delle opere, sicché non ha importanza esaminare la questione se un titolo edilizio si sarebbe potuto rilasciare.
Non rileva dunque accertare se in ipotesi nella zona si sarebbero potuti realizzare ‘annessi agricoli’ oppure se le opere abusive, per come sono state realizzate e per la loro utilizzazione, si possano così qualificare.
6. Per le ragioni che precedono, l’appello risulta infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.03.2019 n. 1942 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Rinegoziazione dei prezzi ai sensi dell’art. 9-ter del d.l. n. 78/2015 – Controversie – Giurisdizione del giudice ordinario.
Il meccanismo di rinegoziazione dei prezzi previsto dall’art. 9-ter del d.l. 19.06.2015, n. 78, riferendosi al contratto già perfezionato e atteggiandosi a vicenda modificativa o estintiva di esso, secondo che la rinegoziazione abbia esito positivo ovvero l'amministrazione receda dal contratto, esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo per rientrare in quella del Giudice ordinario (TAR Lazio, Roma, sez. III, 20.09.2016 n. 9862).
La norma in questione prevede infatti che l’amministrazione proponga alla controparte negoziale una rinegoziazione del contratto che, attraverso la riduzione dei prezzi unitari di fornitura o dei volumi di acquisto pattuiti in origine, realizzi l’obiettivo della riduzione del cinque per cento, su base annua, del suo valore complessivo e riconosce alle stesse parti, qualora non si trovi l’accordo sulla modifica del contratto, un reciproco diritto di recesso: in questo sistema la volontà dell'affidatario del contratto rimane determinante per l'esito definitivo della procedura di rinegoziazione, poiché “l'alterazione dell'originario sinallagma non viene automaticamente determinata dalla norma, ma esige un esplicito consenso di entrambe le parti. Ove tale consenso non venga raggiunto, soccorrono … le ipotesi alternative … del recesso, della nuova gara e della adesione transitoria a contratti più vantaggiosi” (Corte cost., sentenza n. 169 del 2017, punto 7.1 della motivazione).
L’amministrazione non dispone dunque di un potere autoritativo di modifica unilaterale dell’oggetto del contratto, ma solo di un diritto potestativo di recesso in caso di mancato accordo tra le parti sulla riduzione del prezzo o delle prestazioni (controbilanciato da analoga potestà dell’appaltatore di sciogliersi dal vincolo)
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 25.03.2019 n. 1937 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta.
I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria.
Tale principio esclude la possibilità di ritenere ammissibile il perfezionamento dell'accordo sulla base di una manifestazione di volontà implicita o di comportamenti concludenti o meramente attuativi.
Il requisito di forma scritta è richiesto non soltanto per la conclusione del contratto, ma anche per le eventuali modificazioni successive, le quali devono rivestire, a pena di nullità, la medesima forma del contratto originario, non potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante l'adozione di contenuti e pratiche difformi da quelle precedentemente convenute, ancorché protrattisi nel tempo e rispondenti ad un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva o -comunque- mediante comportamenti concludenti, venendo altrimenti eluso il suddetto vincolo di forma.

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2. Il motivo è infondato.
La Corte distrettuale ha precisato che il tema di lite verteva non sull'esistenza della concessione—contratto, ma di un valido accordo che, modificando l'originario rapporto, legittimasse l'impresa a pretendere il pagamento di un corrispettivo calcolato in base alla maggior tariffa di € 122/kg..
Ha escluso che un tale accordo modificativo si fosse perfezionato per facta concludentia, evidenziando che, essendo il Comune obbligato a conferire i rifiuti presso i siti in gestione della In. s.r.l. e non potendo quest'ultima respingere i conferimenti, l'esecuzione del rapporto non poteva valere come accettazione tacita della tariffazione richiesta dall'impresa.
Sostiene la ricorrente che l'originaria convenzione poteva essere modificata liberamente dalle parti anche riguardo alla tariffa applicabile e che il Comune, avendo continuato a conferire i rifiuti presso l'impianto S5/1, aveva accettato, mediante un comportamento concludente, la richiesta di maggiorazione del corrispettivo.
Deve in contrario osservarsi che, anche a voler ritenere che le parti potessero liberamente stabilire la tariffa applicabile, era comunque necessaria l'osservanza della forma scritta ad substantiam.
I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il contenuto del programma negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria (cfr. Cass. 27910/2018; Cass. 19410/2016; Cass. 17646/2002; Cass. 13039/1999; Cass. 21477/2013; Cass. 1606/2007; Cass. 22537/2007).
Tale principio esclude la possibilità di ritenere ammissibile il perfezionamento dell'accordo sulla base di una manifestazione di volontà implicita o di comportamenti concludenti o meramente attuativi (cfr. Cass. 22994/2015; Cass. 12323/2005).
Il requisito di forma scritta è richiesto non soltanto per la conclusione del contratto, ma anche per le eventuali modificazioni successive, le quali devono rivestire, a pena di nullità, la medesima forma del contratto originario, non potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante l'adozione di contenuti e pratiche difformi da quelle precedentemente convenute, ancorché protrattisi nel tempo e rispondenti ad un accordo tacitamente intervenuto tra le parti in epoca successiva o -comunque- mediante comportamenti concludenti, venendo altrimenti eluso il suddetto vincolo di forma (cfr. Cass. 8539/2011; Cass. 8621/2006; Cass. 5448/1999).
Non era inoltre invocabile l'art. 17, del R.D. 2240/1923, poiché, in disparte ogni altra questione, la norma non introduce alcuna deroga al requisito della forma scritta, ma si limita a consentire, a date condizioni, il perfezionamento dei contratti pubblici non mediante dichiarazioni formali contestuali, contenute in un documento unico, ma tramite lo scambio di corrispondenza a distanza, secondo gli usi commerciali (Cass. 6555/2014; Cass. 8000/2010; Cass. 7297/2009; Cass. 1752/2007), non essendo comunque sufficiente che dagli scritti risultino comportamenti attuativi di un accordo solo verbale (Cass. 5263/2015).
Del tutto irrilevante era che, quale conseguenza dell'adozione della delibera regionale n. 200/1999, fossero stati aggravati i costi di gestione degli impianti, occorrendo che l'amministrazione, prendendo atto della nuova situazione, acconsentisse, nelle forme dovute, alla modifica della convenzione e ne valutasse, alla stregua dell'interesse pubblico, l'effettiva incidenza nell'economia del rapporto già in essere.
Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 22.03.2019 n. 8244).

EDILIZIA PRIVATA: Nullità degli atti di trasferimento di immobili abusivi: la parola alle Sezioni Unite. La Suprema Corte chiamata a dirimere un annoso contrasto.
La nullità degli atti traslativi di immobili abusivi è, come noto, uno di quei temi da sempre dibattuto sia in dottrina che in giurisprudenza.
Inizialmente fu la c.d. “legge ponte” (L. n. 795 del 1967) a sancire la nullità degli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati.
Dopo di che l’art. 15, comma 7, della c.d. legge Bucalossi (L. n. 10/1977), ha stabilito l’invalidità dei rogiti aventi ad oggetto unità edilizie completamente prive di concessione. La ratio della disposizione era individuata nell’interesse a tutelare, quanto più possibile, l’acquirente. In conformità a tale spirito normativo, la nullità derivante dalla mancanza di concessione veniva definita dalla giurisprudenza in termini di nullità relativa.
La L. n. 47 del 1985, normativa che per prima ha introdotto il principio del condono edilizio, ha sanzionato gli atti tra vivi (o di costituzione ovvero di scioglimento della comunione di diritti reali) aventi ad oggetto edifici o parti di essi privi della dichiarazione, da parte del venditore, recante gli estremi della concessione edilizia, oppure del titolo o della domanda in sanatoria con l’indicazione dei dovuti versamenti.
Disposizioni chiaramente volte ad assicurare la necessaria attenzione per l’esigenza di non paralizzare altrimenti la circolazione degli immobili.
L’impianto normativo è poi integralmente confluito nell’art. 46 del T.U. dell’edilizia, il D.L.vo n. 380 del 2001.
Rispetto a questo tema due sono stati i filoni interpretativi che hanno caratterizzato la giurisprudenza di legittimità:
   a) l’orientamento più antico è quello che privilegia un’interpretazione letterale degli artt. 17 e 40 della L. n. 47/1985, in base al quale la nullità rileva soltanto sul piano formale, ossia della mera mancanza della dichiarazione degli estremi della concessione edilizia, ovvero della domanda di concessione in sanatoria. Non assume, così, rilievo, l’irregolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico, posto che siffatto elemento ha a che fare con il tema dell’adempimento del debitore, essendo quest’ultimo obbligato a trasferire l’immobile esattamente voluto dall’acquirente;
   b) il principio della nullità degli atti di trasferimento immobiliare irregolari rispetto alla normativa urbanistica ha carattere sostanziale. Detta nullità si aggiunge, così, alla nullità comminata agli atti aventi ad oggetto immobili in regola od in corso di regolarizzazione privi dell’indicazione dei titoli concessori. Questo secondo orientamento si fonda sul principio in base al quale l’approccio formalistico più risalente rischia di produrre il risultato di impedire i trasferimenti di immobili abusivi, facendo ritenere nullo un atto relativo ad un immobile regolare (per l’assenza della dichiarazione), e per converso valido un atto avente ad oggetto un immobile totalmente difforme dal titolo edilizio ivi menzionato.
Dinanzi ad una cospicua produzione giurisprudenziale, con specifico riguardo alla portata della nullità degli atti traslativi di immobili abusivi, la seconda sezione civile della Suprema Corte con ord.za n. 20061 del 2018 ha rimesso gli atti al primo Presidente affinché si valutasse l’opportunità di una pronuncia dirimente delle Sezioni Unite, auspicando una precisazione sulla nozione di irregolarità urbanistica, rilevante in tema di invalidità degli atti traslativi, dando rilievo anche alla distinzione tra variazione essenziale e non essenziale dell’immobile oggetto di stipula, rispetto al progetto approvato dall’Amministrazione comunale.
Con la poderosa sentenza 22.03.2019 n. 8230, le SS.UU. civili pongono (almeno per ora) fine al contrasto, aderendo all’orientamento originario, ed enunciando i seguenti principi di diritto:
   a) La nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art. 1418 Cod. civ., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile.
   b) In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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SENTENZA
1. Il contrasto nella giurisprudenza della seconda Sezione di questa Corte, che queste Sezioni Unite sono chiamate a dirimere, riguarda l'interpretazione della sanzione di nullità prevista dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 e 46 del TU n. 380 del 2001 entrato in vigore il 30.06.2003 (l'originaria data del 30.06.2001, disposta dall'art. 138 del TU, è stata prorogata di un anno dall'art. 5-bis, co. 1, del D.L. 411 del 2001, convertito con modificazioni dalla L. n. 463 del 2001, e di un ulteriore anno dall'art. 2, co. 1, del D.L. n. 122 del 2002, convertito con modificazioni dalla L. n. 185 del 2002).
Va precisato che il caso in esame è disciplinato dall'art. 46 del TU del 2001, dato che la nullità riguarda, in tesi, la vendita immobiliare in data 01.6.2005, ai rogiti Sc., da potere di An.Da.Mo. e di Ro.Ar., per i rispettivi diritti, in favore di Do.Ci. e Gi.Se.; mentre l'abuso edilizio, che il ricorrente afferma aver compiuto nei beni oggetto di tale negozio, ricade nella disciplina della L. n. 47 del 1985 essendo intervenuto dopo l'acquisto, asseritamente simulato, delle venditrici avvenuto il 23.10.2001 ed a seguito della concessione edilizia n. 98 del 17.12.2001, titolo che, com'è incontroverso, è stato menzionato nell'atto impugnato. Per il resto, la precisazione è priva di rilevanza, come pure sottolinea il PG, trattandosi di disposizioni sostanzialmente analoghe.
2. La disciplina urbanistica.
2.1. La questione sottoposta impone, per le sue sfaccettature, di premettere sinteticamente quanto segue. L'esercizio dello jus aedificandi, pur atteggiandosi come una concreta e peculiare manifestazione del diritto di proprietà fondiaria, soggiace all'osservanza di molteplici limitazioni e prescrizioni connesse a determinazioni della pubblica autorità, previste già in nuce negli artt. 86-92 della L. n. 2359 del 1865, e poi codificate, in via generale, dalla legge 17.08.1942, n. 1150 -legge urbanistica- che, all'art. 31, ha, appunto, imposto di richiedere apposita licenza per l'esecuzione di nuove costruzioni, l'ampliamento di quelle esistenti, la modifica di struttura o dell'aspetto dei centri abitati ed in presenza di piano regolatore comunale, anche nelle zone di espansione.
2.2. La legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge Ponte) art. 10, nel sostituire il menzionato art. 31 della Legge Urbanistica, ha esteso l'obbligo della licenza edilizia a tutto il territorio comunale (nel centro abitato e fuori).
2.3. La successiva legge 28.01.1977, n. 10 (c.d. legge Bucalossi) ha posto il principio secondo cui ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la relativa esecuzione è subordinata a concessione da parte del sindaco (art. 1). La sostituzione della licenza con la concessione edilizia (cfr. art. 21) non ha, peraltro, comportato modifiche sostanziali dal punto di vista giuridico, in quanto la nuova concessione a edificare non ha attribuito nuovi diritti, ma ha svolto una funzione sostanzialmente analoga all'antica licenza: accertare la ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per l'esercizio dello jus aedificandi (cfr. Corte Cost. n. 5 del 1980).
2.4. Col testo unico dell'edilizia di cui al D.P.R. 06.06.2001, n. 380, sono stati definiti i tipi d'intervento edilizio (art. 3), è stato previsto uno specifico titolo abilitativo per ciascuna tipologia di intervento, ed individuati casi di attività completamente libere. In particolare, la concessione è stata sostituita dal permesso di costruire (art. 10), sono stati indicati gli interventi realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio di attività (già denuncia di inizio attività) (art. 22) anche in sostituzione del permesso (art. 23, quale modificato dall'art. 3, co. 1 lett. g), del D.lgs. n. 222 del 2016), sono stati codificati i lavori che si reputano eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali (art. 31), enunciate le condizioni in presenza delle quali ricorre "l'essenzialità" della variazione al progetto approvato, che deve essere stabilita dalle Regioni (art. 32).
3. La comminatoria della nullità.
3.1. L'inosservanza dei precetti posti dalla normativa urbanistica, da sempre variamente sanzionata sotto un profilo amministrativo, con la distruzione, o la sospensione dei lavori, o la demolizione del manufatto contrario al PRG o al titolo abilitativo o con l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale (artt. 90 L. n. 2359 del 1865; 26 Legge Urbanistica; 6 L. n. 765 del 1967; 15 L. n. 10 del 1977; 7 L. n. 47 del 1985 e 40 d.P.R. n. 380 del 2001) e penale, con fattispecie contravvenzionali (artt. 41 Legge Urbanistica; 13 L. n. 765 del 1967; 17 L. n. 10 del 1977; 20 L. n. 47 del 1985; 44 d.P.R. n. 380 del 2001), ha avuto la sua prima disciplina in riferimento alla sorte degli atti tra privati aventi ad oggetto diritti reali su fabbricati irregolari sotto il profilo urbanistico con la L. n. 10 del 1977, il cui art. 15, co 7, ha previsto, per quanto interessa in questa sede, che: "Gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione", disposizione che era stata preceduta dalla L. n. 765 del 1967, art. 10, che, nel modificare l'art. 31 della Legge Urbanistica, aveva disposto la nullità delle compravendite di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale nel medesimo caso in cui "da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza" di una lottizzazione autorizzata.
3.2. La legge 28.02.1985 n. 47, denominata "Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie" ed emanata appunto al duplice scopo di reprimere il fenomeno dell'abusivismo e di sanare il pregresso, ha rimodulato la sanzione di nullità, disponendo all'art. 17, co. 1, che: "gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo l'entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai sensi dell'articolo 13. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù".
Analogamente ha disposto il successivo art. 40, co. 2, che, in relazione agli atti aventi per oggetto diritti reali (esclusi diritti di garanzia e servitù) riferiti a costruzioni realizzate prima dell'entrata in vigore della legge stessa, ha previsto quali titoli abilitativi oggetto di dichiarazione dell'alienante la licenza e la concessione in sanatoria (che la legge introduceva), la domanda di concessione corredata dalla prova del versamento delle prime due rate dell'oblazione o la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante che l'opera era stata iniziata prima del 02.09.1967.
Entrambe tali disposizioni hanno previsto (artt. 17, co. 4, e 40, co. 3) la possibilità della "conferma" delle comminate nullità, nel caso in cui la mancata indicazione della concessione edilizia, ovvero la mancanza di dichiarazione o il mancato deposito di documenti, non fossero dipesi dall'inesistenza, al tempo della stipula, della concessione, o della domanda di concessione in sanatoria, o, ancora dal fatto che la costruzione sia stata iniziata dopo il 02.09.1967: in tal caso, è stata prevista la possibilità della conferma degli atti, anche da una sola delle parti, mediante atto successivo, redatto nella stessa forma del precedente, contenente la menzione omessa o al quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto notorio o la copia della domanda di concessione in sanatoria.
3.3. Il menzionato art. 17 della L. n. 47 del 1985 è stato abrogato (l'art. 40 è invece rimasto in vigore) dall'art. 136 del d.P.R. n. 380 del 2001 a far data dalla sua entrata in vigore, ma è stato sostanzialmente riprodotto dall'art. 46 del medesimo d.P.R. n. 380, intitolato "Nullità degli atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione abusiva sia iniziata dopo il 17.03.1985 (legge 28.02.1985, n. 47, art. 17; decreto-legge 23.04.1985, n. 146, art. 8)" secondo cui: "Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù". Il comma 4 della norma in esame prevede, anch'esso, la possibilità di conferma nell'ipotesi in cui la mancata indicazione nell'atto degli estremi del titolo non sia dipesa dall'inesistenza del titolo stesso.
3.4. Va aggiunto che il discrimen temporale tra la legge n. 47 del 1985 ed il TU sull'edilizia (costruzioni realizzate prima e dopo il 17.03.1985) è stato superato per effetto di due successivi condoni, introdotti con L. n. 724 del 1994 (art. 39) e col DL n. 269 del 2003, convertito dalla L. n. 326 del 2003 (art. 32, co. 25) per alcune tipologie di fabbricati ed irregolarità edilizie in riferimento ad abusi rispettivamente, commessi fino al 31.12.1993 e fino al 31.03.2003.
4. La giurisprudenza sulla legge Bucalossi.
4.1. Val bene rilevare che, nonostante la realizzazione di lavori senza licenza costituisse, come si è visto, un illecito sanzionato penalmente dall'art. 41 della L. 17.08.1942, n. 1150 (anche prima delle sue modifiche da parte della L. n. 765 del 1967 art. 13), la giurisprudenza di questa Corte ha escluso l'invalidità dei rapporti che avevano ad oggetto edifici realizzati in assenza di licenza, o la relativa incommerciabilità, reputando che, in assenza di espressa comminatoria, la nullità della compravendita non poteva ritenersi integrata sotto il profilo della illiceità dell'oggetto del contratto, per essere oggetto di tale negozio il trasferimento della proprietà della cosa, insuscettibile, nella sua essenza, in termini di valutazione di illiceità, attenendo tale qualificazione all'attività della sua produzione, in sé estranea al contenuto tipico delle prestazioni oggetto della compravendita (cfr. Cass. n. 2631 del 1984; n. 6466 del 1990), sicché la costruzione di un immobile senza licenza edilizia comportava unicamente l'illiceità dell'attività del costruttore, e poteva dar luogo ai rimedi civilisti della risoluzione per inadempimento, dell'actio quanti minoris o della garanzia per evizione, (in ipotesi di sanzione pecuniaria o di demolizione del bene, Cass. n. 6399 del 1984; n. 11218 del 1991; n. 4786 del 2007), ma non impediva che il proprietario del suolo acquistasse il diritto dominicale dell'edificio costruito e ne potesse liberamente disporre nei confronti dei terzi (Cass. n. 4096 del 1980; n. 6063 del 1995).
4.2. In tale contesto, la disposizione di cui all'art. 15 della L. n. 10 del 1977, che, come si è sopra esposto, ha introdotto la comminatoria di nullità degli atti aventi ad oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, sempre che dagli stessi non risultasse che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione, è stata valutata, come pure rammenta l'ordinanza di rimessione, in termini di invalidità relativa, deducibile solo dal contraente in buona fede ignaro dell'abuso edilizio, e volto a tutelarne, ulteriormente, le ragioni e così consentirgli di ripetere il corrispettivo pagato, o di evitarne, comunque, il pagamento qualora non fosse stato ancora versato (cfr. Cass. n. 3350 del 1992; n. 4926 del 1993; n. 8685 del 1999).
5. La giurisprudenza sulla L. n. 47 del 1985 e sul TU n. 380 del 2001.
Teoria c.d. formale.
5.1. In riferimento alle disposizioni degli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985, la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 8685 del 1999) nel rimarcare la differenza col pregresso regime, ha sottolineato che dette norme mirano a reprimere e a scoraggiare gli abusi edilizi e, derivando dalla mancata indicazione nell'atto, da parte dell'alienante, degli estremi della concessione (ad edificare o in sanatoria), non hanno alcun riguardo allo stato di buona o mala fede dell'acquirente. La nuova sanzione, da esse prevista, costituisce un'ipotesi di nullità assoluta, come tale suscettibile di esser fatta valere da chiunque vi abbia interesse, rilevabile d'ufficio dal giudice ex art. 1421 c.c., e riconducibile all'ultimo comma dell'art. 1418 c.c., quale ipotesi di nullità formale e non virtuale, conclusione che non è smentita dalla possibilità di successiva conferma degli atti viziati mediante la redazione di altro atto, reputato un semplice rimedio convalidante, "consentito soltanto nel caso che le carenze della precedente stipulazione siano meramente formali e non siano dipese, quindi, dall'insussistenza, all'epoca di essa, dei requisiti sostanziali per la commerciabilità del bene".
La natura formale della nullità è stata confermata da Cass. n. 8147 del 2000, che, dopo averne posto in evidenza il duplice obiettivo di soddisfare l'esigenza di tutela dell'affidamento dell'acquirente e l'esigenza di prevenzione degli abusi, ha osservato che le prescritte dichiarazioni costituiscono requisito formale del contratto, sicché è la loro assenza "che di per sé comporta la nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto", in altri termini: "l'irregolarità del bene non rileva di per sé, ma solo in quanto preclude la conferma dell'atto. Simmetricamente, la regolarità del bene sotto il profilo urbanistico non rileva in sé, ma solo in quanto consente la conferma dell'atto".
In tale arresto, è stata, in particolare, esclusa la fondatezza della tesi, secondo cui accanto a tale nullità avrebbe dovuto ravvisarsi una nullità sostanziale (per la difformità della costruzione rispetto al titolo abilitativo), sul rilevo che ove "il legislatore avesse voluto attribuire diretta rilevanza alla non conformità dei beni alla normativa urbanistica, con o senza il "filtro" della prescrizione di forma, si dovrebbe finire per considerare valido, al di là delle indicazioni, l'atto che riguardi beni comunque in regola con le norme urbanistiche", evidenziando che, in tal modo, si sarebbe svuotata la portata precettiva della previsione della conferma degli atti e così vanificato "l'apprezzabile tentativo operato dal legislatore di trovare una soluzione che non solo costituisca uno strumento di lotta contro l'abusivismo, ma che soddisfi anche l'interesse dell'acquirente alla (esatta) conoscenza delle condizioni del bene oggetto del contratto".
5.2. Tale ricostruzione sistematica è stata poi seguita dalla giurisprudenza successiva, tra le altre: la sentenza n. 5068 del 2001 (rigettando il motivo di ricorso avverso una sentenza emessa ex art. 2932 c.c.) ha riaffermato il principio della natura formale delle nullità in esame; la sentenza n. 5898 del 2004, ne ha ribadito la riconducibilità all'art. 1418, ult. co , c.c. e la sua configurabilità nella mancata indicazione nell'atto degli estremi della concessione, confermando che la sanzione non prende in considerazione l'ipotesi della conformità o meno dell'edificio rispetto al titolo urbanistico, e che la nullità del contratto di compravendita è prevista a prescindere dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto; la sentenza n. 26970 del 2005 ha aggiunto che tale conclusione consegue alla rigidità della previsione normativa; la sentenza n. 7534 del 2004 ha sottolineato il principio secondo cui le norme che sanciscono la nullità degli atti sia in base all'art. 15 della L. n. 10 del 1977 che in base all'art. 40 della L. n. 47 dello '85, ponendo limiti all'autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono applicate ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste; la sentenza n. 16876 del 2013, pur ritenendo interessante la tesi della c.d. nullità sostanziale, ha confermato che i canoni normativi dell'interpretazione della legge non consentono di attribuire al testo normativo un significato che prescinda o superi le espressioni formali in cui si articola, e che i casi di nullità previsti dalla norma di cui all'art. 40 -mancata indicazione degli estremi della licenza edilizia, ovvero dell'inizio della costruzione prima del 1967- sono tassativi e non estensibili per analogia.
5.3. In base a tale impostazione, la questione della negoziabilità di immobili affetti da irregolarità urbanistiche, non sanate o non sanabili, è stata risolta nella giurisprudenza di questa Corte sul piano dell'inadempimento, in modo in sostanza non difforme da quanto si era ritenuto in riferimento alle disposizioni della legge Bucalossi.
In particolare, in tema di preliminare, la sentenza n. 27129 del 2006 ha ritenuto inadempimento di non scarsa importanza -tale da giustificare il recesso dal contratto del promittente acquirente e la restituzione del doppio della caparra versata- il comportamento del promittente alienante che prometta in vendita un immobile costruito in violazione di un vincolo di inedificabilità assoluta e al di fuori di ogni possibilità di regolarizzazione; e la sentenza n. 20714 del 2012 ha affermato che la presentazione dell'istanza di condono edilizio e del pagamento delle prime due rate dell'oblazione presuppone che la domanda in questione sia connotata dai requisiti minimi perché possa essere presa in esame, con probabilità di accoglimento, dalla P.A., in difetto delle quali il preliminare di vendita può essere risolto per colpa del promittente venditore.
In tema di vendita, poi, la sentenza n. 25357 2014 (in fattispecie in cui il convenuto con azione di evizione aveva chiamato in manleva i propri venditori) ha affermato che la responsabilità dell'alienante di un immobile affetto da irregolarità edilizie si applica, indipendentemente dalla prestazione di una garanzia in tal senso, salva l'ipotesi della conoscenza della medesima irregolarità.
Teoria c.d. sostanziale
5.4. Il primo segnale del diverso orientamento, richiamato nell'ordinanza di rimessione, va individuato nella sentenza n. 20258 del 2009, che, nel valutare la fondatezza di una domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto, pur richiamando il precedente consolidato indirizzo, non ha mancato di precisare che la strumentazione prevista dalla L. n. 47 del 1985 ha lo scopo di garantire che il "bene nasca e si trasmetta nella contrattazione soltanto se privo di determinati caratteri di abusivismo", aggiungendo che il prescritto obbligo di dichiarazione in seno all'atto degli estremi della licenza o della concessione edilizia (ovvero della concessione in sanatoria) presuppone che detta documentazione vi sia effettivamente e riguardi la costruzione in concreto realizzata.
5.5. Il diverso indirizzo si è, però, concretizzato con la sentenza n. 23591 del 2013. Con tale decisione, si è, appunto, affermato che il contratto avente ad oggetto un bene irregolare dal punto di vista edilizio è affetto da nullità sostanziale. Ciò è stato ritenuto, anzitutto, sulla base dello scopo perseguito dalla norma, che è stato individuato in quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista urbanistico; inoltre, è stata posta in evidenza l'incongruità di un sistema che sanzioni con la nullità per motivi meramente formali atti di trasferimento di immobili regolari dal punto di vista urbanistico, o in corso di regolarizzazione, e consenta, invece, il valido trasferimento di immobili non regolari, lasciando alle parti interessate la possibilità di assumere l'iniziativa di risolverli sul piano dell'inadempimento contrattuale, o, addirittura, di eludere consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore, stipulando il contratto ed immediatamente dopo concludendo una transazione con la quale il compratore rinunziasse al diritto a far valere l'inadempimento della controparte.
Si è sottolineato, ancora, che il maggior rigore voluto dal legislatore, con L. 47 del 1985 rispetto a quello previsto dalla legge Ponte -che prevedeva la nullità degli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione, ove da essi non risultasse che l'acquirente era a conoscenza della mancata concessione- resterebbe vanificato se, per gli atti in questione, si riconoscesse all'acquirente la sola tutela prevista per l'inadempimento. La sentenza in esame ha poi evidenziato che, nonostante la sua "non perfetta formulazione", la lettera dell'art. 40 della L n. 47 del 1985 consente di desumere "l'affermazione del principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi".
Conclusione avvalorata dal comma 3 del medesimo articolo, che consente la conferma dell'atto, con conseguente salvezza dalla nullità, solo, nel caso in cui la mancanza delle dichiarazioni o il deposito dei documenti non siano dipesi dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati; conferma che non avrebbe senso se tali atti fossero ab origine validi, e ferma restando la responsabilità per inadempimento del venditore.
5.6. Tale decisione è stata recepita nella sentenza n. 28194 del 2013, adottata in pari data, di analogo tenore, ed è stata seguita dalle sentenze n. 25811 del 2014 e n. 18261 del 2015, prive in parte qua di specifiche argomentazioni.
6. La natura della nullità.
6.1. Come si è detto in narrativa, l'ordinanza di rimessione invita queste Sezioni Unite a riconsiderare l'indirizzo più recente, non mancando di sottolineare come la tesi della nullità virtuale da esso propugnato:
   a) non trova un solido riscontro nella lettera della legge;
   b) può risultare foriera di notevoli complicazioni nella prassi applicativa, con conseguente rischio per la parte acquirente, esposta alla declaratoria di nullità pur in situazioni in cui aveva fatto incolpevole affidamento sulla validità dell'atto;
   c) impone, in tal caso, di precisare la nozione di irregolarità urbanistica che dà luogo alla nullità, ed eventualmente di chiarire se sia applicabile alla materia degli atti ad effetti reali, la nozione tra variazione essenziale e non essenziale elaborata in tema di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto.
6.2. Il contrasto, che non è solo diacronico, constando esser stata di recente ribadita la tesi della nullità formale (sentenza n. 14804 del 2017, che richiama la n. 8147 del 2000, sopra citata al § 5.1.), attiene invero alla possibilità di ravvisare accanto alla nullità formale dovuta alla mancata inclusione nell'atto della dichiarazione dell'alienante, che è unanimemente riconosciuta, anche, l'esistenza di una nullità sostanziale dell'atto ad effetti reali per l'irregolarità urbanistica della costruzione, affermata dalla giurisprudenza più recente ed in precedenza negata.
6.3. A fronte del sostanziale distacco mostrato in passato rispetto al tema della rispondenza del bene al titolo abilitativo, la cui nunciazione in seno all'atto è stata nei fatti considerata un mero requisito formale e l'esigenza di prevenzione degli abusi concorrente, se non secondaria, rispetto alla tutela dell'affidamento dell'acquirente, gli argomenti a sostegno dell'interpretazione c.d. rigorista sopra riassunti, sono, per contro, mossi dal chiaro intento di supportare, anche da un punto di vista schiettamente civilistico, il disvalore espresso dall'ordinamento rispetto al diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio.
Tale disvalore, in effetti, si coglie non solo in riferimento alle sanzioni penali ed amministrative variamente graduate che reprimono direttamente la commissione di abusi edilizi (di cui si è già detto e su cui infra), ma, in generale, in relazione alla percezione negativa di ciò che circonda il bene abusivo.
Tanto si desume dalla giurisprudenza che ritiene nulli per illiceità dell'oggetto i contratti d'appalto aventi ad oggetto la costruzione di un immobile senza titolo abilitativo (Cass. n. 7961 del 2016; n. 13969 del 2011 e cfr., pure, n. 3913 del 2009; n. 2187 del 2011; n. 30703 del 2018), o non suscettibili di indennizzo espropriativo gli edifici costruiti abusivamente (a meno che, alla data dell'esproprio, sia stata avanzata domanda di sanatoria, pur non ancora scrutinata dalla P.A., ma con favorevole valutazione prognostica, art. 38, co. 2-bis, del d.P.R. n. 327 del 2001, Cass. n. 18694 del 2016; n. 10458 del 2017; n. 645 del 2018), ed, in assoluto, in relazione al valore conformativo della proprietà riconosciuto alla disciplina urbanistica (Cass. SU n. 183 del 2001 e successive conformi).
Inoltre, l'importanza della veridicità delle dichiarazioni dell'alienante, affermata dalla menzionata sentenza n. 20258 del 2009, ha trovato seguito nella successiva giurisprudenza in tema di contratto preliminare (Cass. n. 52 del 2010; n. 8081 del 2014).
L'esegesi propugnata dalla teoria c.d. sostanziale, pur mossa da un intento commendevole, non può tuttavia prescindere dagli specifici dati normativi di riferimento, ed al cui esame non può essere qui avallata.
6.4. L'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 dichiara, infatti, invalidi quegli atti da cui non constino (ove da essi non risultino) gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione certificata di inizio attività, con la precisazione che tali elementi devono risultare per dichiarazione dell'alienante.
Nella disposizione di cui all'art. 17 della L. n. 47 del 1985, la dichiarazione deve avere ad oggetto, coerentemente alla disciplina abilitativa allora vigente, gli estremi della concessione ad edificare o della concessione in sanatoria, laddove l'art. 40 della menzionata L. n. 47, consente di stipulare validamente, oltre che con l'indicazione degli estremi della licenza o della concessione in sanatoria, anche con l'allegazione della relativa domanda e versamento delle prime rate di oblazione, o con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l'inizio della costruzione in epoca anteriore al 02.09.1967.
Nell'ipotesi qui in rilievo di compravendita di edifici o parte di essi (ed a parte le allegazioni di cui all'art. 40), le norme pongono, dunque, un medesimo, specifico, precetto: che nell'atto si dia conto della dichiarazione dell'alienante contenente gli elementi identificativi dei menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e l'impossibilità della stipula sono direttamente connesse all'assenza di siffatta dichiarazione (o allegazione, per le ipotesi di cui all'art. 40). Null'altro.
6.5. Pare, dunque, che il principio generale di nullità riferita agli immobili non in regola urbanisticamente che la giurisprudenza c.d. sostanzialista ritiene di poter desumere da tale contesto normativo, sottolineando l'intenzione del legislatore di renderli tout court incommerciabili, costituisca un'opzione esegetica che ne trascende il significato letterale e che non è, dunque, ossequiosa del fondamentale canone di cui all'art. 12, co 1, delle Preleggi, che impone all'interprete di attribuire alla legge il senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la loro connessione.
La lettera della norma costituisce, infatti, un limite invalicabile dell'interpretazione, che è uno strumento percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo della voluntas legis (cfr. Cass. n. 12144 del 2016), tanto che, in tema di eccesso di potere giurisdizionale riferito all'attività legislativa, queste Sezioni Unite hanno affermato che l'attività interpretativa è, appunto, segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del significante testuale (cfr. Cass. S.U. n. 15144 del 2011; n. 27341 del 2014).
La tesi della nullità generalizzata non è neppure in linea col criterio di interpretazione teleologica, di cui all'ultima parte del primo comma dell'art. 12 citato, che non consente all'interprete di modificare il significato tecnico giuridico proprio delle espressioni che la compongono, ove ritenga che l'effetto che ne deriva sia inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa (cfr. Cass. n. 3495 del 1996; n. 9700 del 2004 e giurisprudenza ivi citata) e ciò in quanto la finalità di una norma va, proprio al contrario, individuata in esito all'esegesi del testo oggetto di esame e non già, o al più in via complementare, in funzione dalle finalità ispiratrici del più ampio complesso normativo in cui quel testo è inserito (cfr. Cass. n. 24165 del 2018).
Inoltre, come ricordato dal PG nella sua requisitoria, la lettera della norma costituisce il limite cui deve arrestarsi, anche, l'interpretazione costituzionalmente orientata dovendo, infatti, esser sollevato l'incidente di costituzionalità ogni qual volta l'opzione ermeneutica supposta conforme a costituzione sia incongrua rispetto al tenore letterale della norma stessa (Corte Cost. sentenze n. 78 del 2012; n. 49 del 2015; n. 36 del 2016 e n. 82 del 2017).
Del resto, lo scarto dialettico della tesi si coglie, anche, dalla prospettiva delle decisioni che la hanno sostenuta, laddove hanno ritenuto "imperfetta" la formulazione della norma.
6.6. In base a tali principi, e specie al lume della consolidata ed univoca interpretazione giurisprudenziale delle disposizioni in tema di ricadute civilistiche relative ad atti aventi ad oggetto immobili abusivi e nonostante la relativa edificazione, come si è ricordato, fosse sanzionata penalmente, l'ipotizzato scopo avrebbe potuto esser agevolmente perseguito mediante una semplice previsione di nullità degli atti aventi ad oggetto siffatti immobili o d'incommerciabilità degli stessi.
Il che non è stato fatto. Al contrario, la nullità risulta comminata per specifici atti ad effetti reali inter vivos, sicché ne restano fuori non solo quelli mortis causa, e gli atti ad effetti obbligatori, ma ne sono espressamente esclusi i diritti reali di garanzia e le servitù, ed inoltre, gli atti derivanti da procedure esecutive immobiliari, individuali o concorsuali, ai quali le nullità, appunto, non si applicano (artt. 46, co. 5, TU n. 380 del 2001; 17, co. 5 e 40, co. 5, della L. n. 47 del 1985).
6.7. Da tanto, consegue che la nullità comminata dalle disposizioni in esame non può esser sussunta nell'orbita della nullità c.d. virtuale di cui al comma 1 dell'art. 1418 c.c., che presupporrebbe l'esistenza di una norma imperativa ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili, e tale divieto, proprio come registra l'ordinanza di rimessione, non trova riscontro in seno allo jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche ipotesi di nullità.
Né la conclusione può fondarsi nella previsione della conferma degli atti nulli, mediante la redazione di un atto aggiuntivo, contemplata per l'ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del permesso di costruire al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati (di cui si è detto ai §§ 3.2. e 3.3.), in quanto tale conferma e l'atto aggiuntivo che la contiene presuppongono, bensì, che il titolo e la documentazione sussistano (cfr. infra), ma, di per sé, non implicano che l'edificio oggetto del negozio ne rispecchi fedelmente il contenuto.
6.8. Per completezza d'indagine, ancorché la giurisprudenza qui esaminata non ne tratti, va aggiunto che la tesi sostanzialista non può fondarsi sul disposto di cui al comma secondo dell'art. 1418 c.c.
La consentita disposizione testamentaria in ordine ad immobili non regolari urbanisticamente, e comunque la possibilità del loro trasferimento per successione mortis causa, la loro attitudine a costituire garanzie reali, la loro idoneità, inoltre, ad esser contemplati in seno agli atti inter vivos (valga per tutti la locazione) ed in seno ad atti costituenti diritti reali di servitù escludono che il loro modo di atteggiarsi possa di per sé solo valere ad integrare le vietate ipotesi d'illiceità o d'impossibilità dell'oggetto, o, ancora d'illiceità della prestazione (che, in tesi, dovrebbero colpire tutti gli atti e, dunque, anche quelli esentati) o della causa per contrarietà a norme imperative o al buon costume, dovendo, peraltro, confermarsi l'esattezza della giurisprudenza richiamata al § 4.1. (Cass. n. 6466 del 1990; n. 2631 del 1984) che per l'ipotesi qui in esame (e che peraltro è quella più rilevante nella pratica) evidenzia che l'oggetto della compravendita, secondo la definizione data dall'art. 1470 c.c., è il trasferimento della proprietà della res, che, in sé, non è suscettibile di valutazione in termini di liceità o illiceità, attenendo l'illecito all'attività della sua produzione, e, considerato che la regolarità urbanistica del bene è estranea alla causa della compravendita, tradizionalmente definita nello scambio -cosa contro prezzo- che ne costituisce la sua funzione economica e sociale, ed altresì il suo effetto essenziale.
7. La composizione del contrasto. La nullità testuale.
7.1. Muovendo doverosamente dal dato normativo, secondo quanto si è sopra esposto, ritiene il Collegio di dover, anzitutto, affermare al lume delle considerazioni sopra svolte ai §§ 6.7. e 6.8., che si è in presenza di una nullità che va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art. 1418 c.c., secondo quanto ritenuto dalla teoria c.d. formale, con la precisazione essa ne costituisce una specifica declinazione, e va definita «testuale» (secondo una qualificazione pure datane in qualche decisione), essendo volta a colpire gli atti in essa menzionati.
Procedendo, poi, all'analisi congiunta dei commi primo e quarto dell'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ma il discorso vale in riferimento alle analoghe disposizioni dell'art. 17, co. 1 e 4, della L. n. 47 del 1985 nonché mutatis mutandis dei commi 2, e 3 dell'art. 40 della medesima L. n. 47 del 1985), emerge che, a fronte del primo comma che sanziona con la nullità specifici atti carenti della dovuta dichiarazione, il quarto comma ne prevede, come si è detto, la possibilità di "conferma", id est di convalida, nella sola ipotesi in cui la mancata indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla insussistenza del titolo abilitativo.
Il dettato normativo indica, quindi, che il titolo deve realmente esistere e, quale corollario a valle, che l'informazione che lo riguarda, oggetto della dichiarazione, deve esser veritiera: ipotizzare, infatti, la validità del contratto in presenza di una dichiarazione dell'alienante che fosse mendace, e cioè attestasse la presenza di un titolo abilitativo invece inesistente, svuoterebbe di significato i termini in cui è ammessa la previsione di conferma e finirebbe col tenere in non cale la finalità di limite delle transazioni aventi ad oggetto gli immobili abusivi che la norma, pur senza ritenerli tout court incommerciabili, senz'altro persegue, mediante la comminatoria di nullità di alcuni atti che li riguardano.
Se ciò è vero, ne consegue che la dichiarazione mendace va assimilata alla mancanza di dichiarazione, e che l'indicazione degli estremi dei titoli abilitativi in seno agli atti dispositivi previsti dalla norma non ne costituisce un requisito meramente formale, secondo quanto ritenuto da parte della giurisprudenza sopra richiamata ai §§ 5.1 e 5.2. che va in parte qua superata, essa rileva piuttosto, come pure affermato in altre decisioni adesive alla teoria formale e sottolineato da un'accorta dottrina, quale veicolo per la comunicazione di notizie e per la conoscenza di documenti, o in altri termini, essa ha valenza essenzialmente informativa nei confronti della parte acquirente, e, poiché la presenza o la mancanza del titolo abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma devono esserlo in relazione al bene che costituisce l'immobile contemplato nell'atto (cfr. Cass. 20258 del 2009 cit.), la dichiarazione oltre che vera, deve esser riferibile, proprio, a detto immobile.
In costanza di una dichiarazione reale e riferibile all'immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e tanto a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo in esso menzionato, e ciò per la decisiva ragione che tale profilo esula dal perimetro della nullità, in quanto, come si è esposto al § 6.5., non è previsto dalle disposizioni che la comminano, e tenuto conto del condivisibile principio generale, affermato nei richiamati , precedenti, arresti della Corte, secondo cui le norme che, ponendo limiti all'autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione, sicché esse non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste.
7.2. La distinzione in termini di variazioni essenziali e non essenziali, elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di contratto preliminare ed alla quale si riferisce l'ordinanza di rimessione, non è pertanto utile al fine di definire l'ambito della nullità del contratto, tenuto conto, peraltro, che la moltiplicazione dei titoli abilitativi, cui si è sopra accennato al § 2.4., previsti in riferimento all'attività edilizia da eseguire (minuziosamente indicata), comporterebbe, come correttamente rilevato dal PG nelle sue conclusioni, un sistema sostanzialmente indeterminato, affidato a graduazioni di irregolarità urbanistica di concreta difficile identificazione ed, in definitiva, inammissibilmente affidato all'arbitrio dell'interprete.
Il che mal si concilia con le esigenze di salvaguardia della sicurezza e della certezza del traffico giuridico e spiega la cautela dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte, da ultimo ricordata da Cass. n. 111659 del 2018, all'uso dello strumento civilistico della nullità quale indiretta forma di controllo amministrativo sulla regolarità urbanistica degli immobili.
7.3. La tesi qui adottata non è, peraltro, dissonante rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno dell'abusivismo edilizio, cui pure tende la disposizione in esame, e che è meritevole di massima considerazione.
Pare infatti che la ricostruzione nei termini di cui si è detto della nullità concorra a perseguirlo, costituendo uno dei mezzi predisposti dal legislatore per osteggiare il traffico degli immobili abusivi: per effetto della prescritta informazione, l'acquirente, utilizzando la diligenza dovuta in rebus suis, è, infatti, posto in grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene, e così valutare la convenienza dell'affare, anche, in riferimento ad eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo dichiarato.
In tale valutazione, potrà, ben a ragione, incidere la sanzione della demolizione che l'art. 31, co. 2 e 3, del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede nei confronti sia del costruttore che del proprietario in caso d'interventi edilizi eseguiti non solo in assenza di permesso, ma anche in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32. Tale sanzione, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (Ad Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017), ha, infatti, carattere reale e non incontra limiti per il decorso del tempo e ciò in quanto l'abuso costituisce un illecito permanente, e l'eventuale inerzia dell'Amministrazione non è idonea né a sanarlo o ad ingenerare aspettative giuridicamente qualificate, né a privarla del potere di adottare l'ordine di demolizione, configurandosi, anzi, la responsabilità (art. 31 cit., co. 4-bis) in capo al dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del ritardo nell'adozione di siffatto atto, che resta, appunto, doveroso, nonostante il decorso del tempo.
7.4. In conclusione, mentre la nullità del contratto è comminata per il solo caso della mancata inclusione degli estremi del titolo abilitativo, che abbia le connotazioni di cui si è detto, l'interesse superindividuale ad un ordinato assetto di territorio resta salvaguardato dalle sanzioni di cui si è dato conto al § 3.1. e, nel caso degli abusi più gravi, dal provvedimento ripristinatorio della demolizione.
Tale approdo ermeneutico, che ha il pregio di render chiaro il confine normativo dell'area della non negoziabilità degli immobili, a tutela dell'interesse alla certezza ed alla sicurezza della loro circolazione, appare, quindi, al Collegio quello che meglio rappresenta la sintesi tra le esigenze di tutela dell'acquirente e quelle di contrasto all'abusivismo: in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell'atto e costruzione, l'acquirente non sarà esposto all'azione di nullità, con conseguente perdita di proprietà dell'immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell'interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica.
7.5. A soluzione del contrasto, vanno, pertanto, affermati i seguenti principi di diritto:
  
"La nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità «testuale», con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell'immobile."
  
"In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato" (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 22.03.2019 n. 8230).

URBANISTICA: Il P.G.T. è un atto di pianificazione di livello comunale, sul quale la Provincia esprime un parere obbligatorio avente ad oggetto la compatibilità delle sue previsioni rispetto al piano di coordinamento provinciale, al fine di accertare l’idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi ivi fissati.
In via generale gli strumenti di pianificazione adottati dai diversi enti territoriali nell’attuale modello di governo del territorio non si rapportano fra loro secondo il principio di gerarchia.
Infatti “In base all'art. 2, quarto comma, della legge regionale n. 12, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che ai sensi della stessa legge, abbiano efficacia prevalente e vincolante. Il modello delineato dalla legge regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio. Ciò naturalmente non può azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui partecipazione deve essere quindi assicurata e non può essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e Province trasformare i poteri comunali in ordine all'uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive”.
Il parere di conformità è peraltro vincolante nei limiti previsti dall’articolo 18, comma 2, della L.R. 11/03/2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), a norma del quale “Hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti del PGT le seguenti previsioni del PTCP:
   a) le previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell'articolo 77;
   b) l'indicazione della localizzazione delle infrastrutture riguardanti il sistema della mobilità, qualora detta localizzazione sia sufficientemente puntuale, alla scala della pianificazione provinciale, in rapporto a previsioni della pianificazione o programmazione regionale, programmazioni di altri enti competenti, stato d'avanzamento delle relative procedure di approvazione, previa definizione di atti d'intesa, conferenze di servizi, programmazioni negoziate. (…);
   c) la individuazione degli ambiti di cui all'articolo 15, comma 4, fino alla approvazione del PGT;
   d) l'indicazione, per le aree soggette a tutela o classificate a rischio idrogeologico e sismico, delle opere prioritarie di sistemazione e consolidamento, nei soli casi in cui la normativa e la programmazione di settore attribuiscano alla provincia la competenza in materia con efficacia prevalente.”.
Si tratta di previsioni che tutelano obiettivi e finalità di carattere sovracomunale e che pertanto non hanno natura orientativa, ma hanno carattere prescrittivo e prevalente rispetto ad ogni diversa scelta pianificatoria comunale.
Dispone –infatti- l’articolo 13 della medesima legge regionale che “7. Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
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Ip.Pr. s.p.a. opera nel settore della prefabbricazione civile ed industriale, in particolare nel settore metro-ferro-tramviario, ed è soggetta a concordato preventivo, omologato dal Tribunale di Bergamo nel maggio del 2011.
Nell’aprile dell’anno 2007 la società otteneva dal Comune di Calcinate, nel cui territorio ha sede, l’autorizzazione all’utilizzo di alcune aree confinanti con quelle di sua proprietà, sulle quali aveva stipulato un preliminare di acquisto, per il deposito temporaneo dei materiali prodotti per la manutenzione e l’ammodernamento di tratte ferroviarie, in attesa del loro impiego.
Nel dicembre dello stesso anno, in occasione dell’avvio del procedimento di adozione del nuovo Piano di Governo del Territorio, congiuntamente al promittente venditore sig. Re.Ma. presentava un’osservazione al Comune, chiedendo che i terreni individuati catastalmente dai mappali 4388 (in parte), 4387, 3085, 374 e 273 fossero inseriti in zona D - destinata a funzione “artigianale/industriale di completamento”, per poterli definitivamente utilizzare in funzione strumentale all’attività produttiva condotta nell’area adiacente. Analoga richiesta veniva formulata da Ip.Pr. s.p.a. per le aree edificate di cui ai mappali 3084 e parte del 4388, qualificate all’epoca come artigianali.
In accoglimento di tali memorie procedimentali, in sede di adozione del P.G.T. gran parte delle predette aree veniva inserita dal Comune nell’ambito di Trasformazione P6, soggetto a piano attuativo ed avente destinazione produttiva.
Peraltro in sede di verifica della compatibilità dello strumento urbanistico comunale con il Piano territoriale di coordinamento provinciale, la Provincia di Bergamo, con deliberazione della Giunta n 179 del 04.04.2011, evidenziava che “la quasi totalità dell’ambito di trasformazione ATP 6 risulta classificato dalle tavole E2 e E4 del PTCP quale “ambiti di valorizzazione, riqualificazione e/o progettazione paesistica” disciplinato dall’art. 66 delle NdA per il quale sono consentiti il recupero e il riuso del patrimonio edilizio esistente, anche con limitati ampliamenti volumetrici, ma sono escluse altre forme di insediamento e di edificazione” e conseguentemente prescriveva la modifica della destinazione dell’ambito in coerenza con le previsioni del P.T.C.P.
Respingendo l’osservazione formulata dall’odierna ricorrente il comune intimato, con deliberazione del consiglio comunale n. 11 del 15.04.2011, approvava quindi definitivamente il Piano di governo del territorio richiamando il contenuto della delibera della giunta provinciale ed inserendo le aree Ip.Pr. s.p.a./Ma. tra gli “ambiti di valorizzazione, riqualificazione, e/o progettazione paesistica”, conformemente alla destinazione assegnata a tali mappali dal piano provinciale.
Nel censurare l’atto di approvazione definitiva del P.G.T. la società ribadiva il proprio interesse al ricorso e la sua attualità, pur non avendo essa impugnato il P.T.C.P., evidenziando come il Piano di livello provinciale costituisse mero atto di indirizzo e coordinamento non strettamente vincolante per la pianificazione di livello subordinato.
...
L’odierna controversia verte sulla legittimità dell’atto di approvazione del P.G.T. di Calcinate indicato in epigrafe, nella parte in cui, conformandosi alle prescrizioni formulate dalla Provincia nel parere di conformità dello strumento urbanistico rispetto al P.T.C.P., ha modificato le previsioni recate dal precedente atto di adozione del piano comunale, ha impresso ai terreni di cui è questione la destinazione agricola.
Il ricorso è infondato.
Il P.G.T. è un atto di pianificazione di livello comunale, sul quale la Provincia esprime un parere obbligatorio avente ad oggetto la compatibilità delle sue previsioni rispetto al piano di coordinamento provinciale, al fine di accertare l’idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi ivi fissati.
In via generale gli strumenti di pianificazione adottati dai diversi enti territoriali nell’attuale modello di governo del territorio non si rapportano fra loro secondo il principio di gerarchia.
Infatti “In base all'art. 2, quarto comma, della legge regionale n. 12, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le previsioni che ai sensi della stessa legge, abbiano efficacia prevalente e vincolante. Il modello delineato dalla legge regionale prevede che i piani collocati al livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento, indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma, in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale dettata dallo strumento di pianificazione contenente disposizioni di maggior dettaglio. Ciò naturalmente non può azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui partecipazione deve essere quindi assicurata e non può essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e Province trasformare i poteri comunali in ordine all'uso del territorio in funzioni meramente consultive prive di reale incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici attività esecutive” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 23.09.2016, n. 1699).
Il parere di conformità è peraltro vincolante nei limiti previsti dall’articolo 18, comma 2, della L.R. 11/03/2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), a norma del quale “Hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti del PGT le seguenti previsioni del PTCP:
   a) le previsioni in materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in attuazione dell'articolo 77;
   b) l'indicazione della localizzazione delle infrastrutture riguardanti il sistema della mobilità, qualora detta localizzazione sia sufficientemente puntuale, alla scala della pianificazione provinciale, in rapporto a previsioni della pianificazione o programmazione regionale, programmazioni di altri enti competenti, stato d'avanzamento delle relative procedure di approvazione, previa definizione di atti d'intesa, conferenze di servizi, programmazioni negoziate. (…);
   c) la individuazione degli ambiti di cui all'articolo 15, comma 4, fino alla approvazione del PGT;
   d) l'indicazione, per le aree soggette a tutela o classificate a rischio idrogeologico e sismico, delle opere prioritarie di sistemazione e consolidamento, nei soli casi in cui la normativa e la programmazione di settore attribuiscano alla provincia la competenza in materia con efficacia prevalente
.”.
Si tratta di previsioni che tutelano obiettivi e finalità di carattere sovracomunale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 01.08.2014 n. 898, confermata da C.d.S., sez. IV, 15.06.2016, n. 2629) e che pertanto non hanno natura orientativa, ma hanno carattere prescrittivo e prevalente rispetto ad ogni diversa scelta pianificatoria comunale.
Dispone –infatti- l’articolo 13 della medesima legge regionale che “7. Entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni. Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti, provvede all'adeguamento del documento di piano adottato, nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive determinazioni qualora le osservazioni provinciali riguardino previsioni di carattere orientativo.”
Nel caso di specie la modifica delle previsioni recate dalla delibera di adozione del P.G.T sono state disposte all’atto dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico comunale nel vincolato rispetto delle disposizioni prevalenti recate dal piano provinciale, tra l’altro divenute inoppugnabili attesa la mancata impugnazione nei termini del P.T.C.P.
Infatti la destinazione dell’ATP6 risultava in contrasto con l’articolo 66 delle NTA del Piano provinciale, recante prescrizioni finalizzate alla tutela dei beni ambientali e paesaggistici (e quindi riconducibili ai contenuti vincolanti indicati dall’articolo 18, comma 2, lettera a) della l.r. 12/2005).
Il ricorso è quindi infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 21.03.2019 n. 268 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - DIRITTO DELL'ENERGIA - Aerogeneratori - Realizzazione di distinti impianti di fonti energetiche rinnovabili - Titolo abilitativo semplificato - Applicazione e limiti - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Aree sottoposte a tutela ex d.lgs. n. 42/2004 e "aree contermini" - Riconducibilità al medesimo centro di interessi - Acquisizione di autorizzazione unica regionale - Necessità - Elusione artificiosa dei limiti di potenza fino a 1MW - Artt. 44 dpr n. 380/2001 e 181 d.lgs. n. 42/2004 - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, si integra il reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 nel caso di realizzazione di distinti impianti di fonti energetiche rinnovabili, riconducibili al medesimo centro di interessi ma artificiosamente frazionati allo scopo di eludere il rispetto dei limiti di potenza fino a 1MW previsti dalla legislazione statale e dell'acquisizione di autorizzazione unica regionale.
L'accertamento degli elementi fattuali sintomatici della elusione artificiosa dei limiti di potenza fino a 1MW previsti dalla legislazione statale costituisce un accertamento in fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità
(Cass., Sez. 3, n. 16624/2015; Sez. 3, n. 40361/2014, Buglisi; Sez. 3, n. 888/2018; Sez. 3, n. 11981/2014, Di Gennaro; Sez. 3, n. 15988/2013, Rubino).
Nella specie, la diversità dei «punti di connessione», è stata ritenuta circostanza dimostrativa che l'impianto non poteva considerarsi artificiosamente frazionato, non deponendo in maniera univoca in tal senso, gli ulteriori elementi individuati nella prospettazione accusatoria, quali la unicità del soggetto richiedente l'autorizzazione e la contiguità delle aree frazionate.

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CODICE DELL'AMBIENTE - Pale eoliche - VIA VAS AIA - Valutazioni di impatto e di incidenza ambientale (V.I.A. e V.incA) - Legislazione concorrente - Emissioni provocate da aerogeneratori - Tutela dell'ambiente, del patrimonio culturale, della salute e della pubblica incolumità - 270, 273 e 282 d.lgs n. 152/2006.
Con la nuova regolamentazione introdotta dal d.lgs. n. 28/2011, il legislatore statale ha dato facoltà alle Regioni di estendere l'ambito di applicazione del procedimento autorizzatorio semplificato fino ad una soglia massima di potenza di energia elettrica pari a 1 MW, fermo restando il vincolo per la legislazione regionale costituito dai limiti posti dall'art. 6 citato, che, secondo la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, Corte cost. n. 99 del 2012) esprime un principio fondamentale, sicché il legislatore regionale è tenuto a rispettarlo nell'esercizio della sua potestà legislativa concorrente; inoltre, l'art. 4, comma 3, del dlgs 28/2011 dispone che "al fine di evitare l'elusione della normativa di tutela dell'ambiente, del patrimonio culturale, della salute e della pubblica incolumità, fermo restando quanto disposto dalla Parte quinta del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152, e successive modificazioni, e, in particolare, dagli articoli 270, 273 e 282, per quanto attiene all'individuazione degli impianti ed al convogliamento delle emissioni, le Regioni e le Province autonome stabiliscono i casi in cui la presentazione di più progetti per la realizzazione di impianti alimentati da fonti rinnovabili e localizzati nella medesima area o in aree contigue sono da valutare in termini cumulativi nell'ambito della valutazione di impatto ambientale.
Fattispecie: annullamento del decreto di sequestro preventivo per i reati di cui agli artt. 674 e 659 cod. pen. per aver provocato immissioni acustiche e luminose atte a causare gravi rischi per la salute degli abitanti del Comune di Pontelandolfo e ad arrecare disturbo alle occupazioni diurne ed al riposo notturno dei residenti ed in violazione, e per i reati di cui all'art. 582 cod.pen. per aver cagionato lesioni personali ad alcuni abitanti della zona conseguenti all'inquinamento
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.03.2019 n. 12268 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – LAVORO PUBBLICO - Accesso agli atti di un procedimento disciplinare, strumentale alla difesa del dipendente – Contenuto delle segnalazioni ed identità del segnalante – Sottrazione all’accesso – Tutela del whisteblower – Art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001.
In tema di accesso agli atti del procedimento disciplinare, deve riconoscersi in capo al dipendente la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/90 prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
E’, infatti, pacifico che la conoscenza di tali atti è strumentale alla difesa del dipendente nell’ambito del procedimento disciplinare subìto e sfociato nell’irrogazione di una sanzione. Ciò nondimeno l’amministrazione è tenuta ad oscurare i dati riguardanti l’identità dei segnalanti e il contenuto delle segnalazioni. Alla ostensione di tali segnalazioni ostano le disposizioni di cui all’art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001 (come da ultimo modificato dall’art. 1 della legge n. 179/2017) il quale com’è noto disciplina il c.d. whistleblowing, dettando specifiche disposizioni volte a preservare da eventuali ritorsioni il dipendente pubblico che segnali illeciti.
La disposizione è chiara nel prevedere due ipotesi:
   a) procedimento disciplinare scaturito da segnalazioni ma fondato su accertamenti “distinti e ulteriori” rispetto alla segnalazione;
   b) procedimento disciplinare (e contestazione degli addebiti) che si fonda “in tutto o in parte sulla segnalazione” con la “conoscenza dell’identità del segnalante” indispensabile per la difesa dell’incolpato.
In quest’ultimo caso, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità. A prescindere dal tipo di utilizzo della segnalazione nell’ambito del procedimento disciplinare vale il principio stabilito dall’art. 54-bis cit. che “l’identità del segnalante non può essere rivelata [a meno che non vi sia il suo consenso]” e che “la segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241”.
Tale principio non risulta valicabile dalla circostanza che l’amministrazione abbia eventualmente fatto (illegittimamente) uso della segnalazione nell’ambito del procedimento disciplinare, in quanto la finalità voluta dalle disposizioni in parola di tutelare l’identità del segnalante tenendo riservato anche il contenuto della segnalazione, dalla quale, evidentemente, è possibile risalire alla persona che ha effettuato la denuncia
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 20.03.2019 n. 1553 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza il potere dell’amministrazione di repressione degli abusi edilizi ha carattere di doverosità e tale doverosità caratterizza ampiamente gli atti che ne costituiscano espressione; sul piano della motivazione, è sufficiente il riscontro dell’accertata irregolarità dell’opera e non è necessaria alcuna motivazione sull’interesse pubblico, dato che la ponderazione di tale interesse è resa irrilevante dal carattere vincolato dell’attività.
Ed invero l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio.

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Deve negarsi che, prima di irrogare sanzioni urbanistiche o edilizie, il Comune, quale Autorità urbanistica, debba curare di verificare se le opere contestate come abusive dalla Polizia Municipale trovino un qualche e riscontro in titoli abilitativi edilizi in precedenza rilasciati oppure debba compiere accertamenti in relazione alla morfologia originaria dell’immobile, analizzando i luoghi, le strutture, le geometrie architettoniche.
In proposito, per giurisprudenza costante, “i rapporti provenienti da soggetti che avuto riguardo alla natura dello status che rivestono (agenti di P.S. e di polizia giudiziaria) oltre che alla specifica competenza di tali organi, hanno, relativamente a quanto attestano, una indubbia valenza privilegiata che di per sé è sufficiente a provare i fatti addebitati, fatta salva la possibilità per gli interessati di proporre le appropriate azioni giurisdizionali (querela di falso) volte ad inficiare il contenuto degli atti”.
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Giurisprudenza ha puntualizzato che la proposizione della istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 successivamente all’ordinanza di demolizione, non vale, di per sé sola, a incidere sulla legittimità del provvedimento repressivo, causandone, al più, una temporanea inefficacia in relazione alla decorrenza del termine di 60 giorni previsto dalla norma stessa perché l’Amministrazione si pronunci, decorso il quale si forma il silenzio-rigetto sull’istanza.
Infatti, se si sostenesse che l’Amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l’obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò “equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento”.
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Nessuna rilevanza può avere l’affidamento ingenerato nel privato dal lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione del presunto abuso e dall’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, considerato che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, “non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare, e non potendo l’interessato dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi” .
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Viene in decisione il ricorso concernente l’ordinanza n. 1140 del 19.11.2014, emessa dal Responsabile del IV settore del Comune di Corleone, avente ad oggetto la demolizione di opere edili abusive eseguite in difformità della concessione edilizia n. 64 del 12.06.2001 sul fabbricato di proprietà del ricorrente una volta appurato che “le opere consistenti nell’ampliamento della struttura originaria del magazzino, nella realizzazione di un solaio intermedio e nella variazione, da rurale a civile abitazione, di una porzione di fabbricato, sono state abusivamente realizzate”.
Il ricorso è infondato.
Per costante giurisprudenza il potere dell’amministrazione di repressione degli abusi edilizi ha carattere di doverosità e tale doverosità caratterizza ampiamente gli atti che ne costituiscano espressione; sul piano della motivazione, è sufficiente il riscontro dell’accertata irregolarità dell’opera e non è necessaria alcuna motivazione sull’interesse pubblico, dato che la ponderazione di tale interesse è resa irrilevante dal carattere vincolato dell’attività.
Ed invero l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione discrezionale del configgente interesse al mantenimento in loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione, consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e nella constatazione della loro esecuzione in assenza del necessario titolo abilitativo edilizio (Cons. Stato Sez. IV, 05/11/2018, n. 6246).
Nel caso di specie, la natura delle opere contestate e le motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione demolitoria emergono inequivocabilmente dal provvedimento impugnato e dagli atti da questo richiamati.
Inoltre deve negarsi che, prima di irrogare sanzioni urbanistiche o edilizie, il Comune, quale Autorità urbanistica, debba curare di verificare se le opere contestate come abusive dalla Polizia Municipale trovino un qualche e riscontro in titoli abilitativi edilizi in precedenza rilasciati oppure debba compiere accertamenti in relazione alla morfologia originaria dell’immobile, analizzando i luoghi, le strutture, le geometrie architettoniche.
In proposito, per giurisprudenza costante, “i rapporti provenienti da soggetti che avuto riguardo alla natura dello status che rivestono (agenti di P.S. e di polizia giudiziaria) oltre che alla specifica competenza di tali organi, hanno, relativamente a quanto attestano, una indubbia valenza privilegiata che di per sé è sufficiente a provare i fatti addebitati, fatta salva la possibilità per gli interessati di proporre le appropriate azioni giurisdizionali (querela di falso) volte ad inficiare il contenuto degli atti (cfr. C. di S., sez. IV, 31.01.2012, n. 478)” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 10/07/2018 n. 4566) .
Sotto altro profilo, giurisprudenza ha puntualizzato che la proposizione della istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 successivamente all’ordinanza di demolizione, non vale, di per sé sola, a incidere sulla legittimità del provvedimento repressivo, causandone, al più, una temporanea inefficacia in relazione alla decorrenza del termine di 60 giorni previsto dalla norma stessa perché l’Amministrazione si pronunci, decorso il quale si forma il silenzio-rigetto sull’istanza (Cons. Stato Sez. VI, 30/07/2018, n. 4671).
Infatti, se si sostenesse che l’Amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l’obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò “equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27.02.2018, n. 1171; id., sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
Nella fattispecie in esame, il Comune di Corleone, in ottemperanza alla sopra citata ordinanza n. 1586/2017, ha dichiarato di non avere emesso alcun provvedimento di accoglimento totale o parziale dell’istanza di cui all’art. 13 della legge 47/1985, presentata dal ricorrente e che, comunque, la relativa pratica “… non è accoglibile ai sensi dell'art. 13 della legge 47/1985…”.
Ne consegue che risultano del tutto inconferenti le argomentazioni contenute in ricorso secondo cui il ricorrente, non appena ricevuta la notificata l’ordinanza di demolizione impugnata, si sarebbe prontamente attivato provvedendo tempestivamente a depositare apposita istanza di autorizzazione in sanatoria atteso che detta istanza -in disparte ogni possibile considerazione sulla formazione del silenzio rigetto- non vale ad incidere sulla legittimità del provvedimento repressivo.
Infine nessuna rilevanza può avere l’affidamento ingenerato nel privato dal lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione del presunto abuso e dall’inerzia dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, considerato che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, “non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), e non potendo l’interessato dolersi del fatto che l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781)” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. III, 13/04/2018 n. 2449) .
Allo stesso modo nessun rilevo può assumere, in questa sede, la sopravvenuta stipula di un atto di compravendita avente ad oggetto il terreno confinante con quello di proprietà del ricorrente ed oggetto del presente giudizio, circostanza questa che non può incidere sulla legittimità dell’impugnata ordinanza di demolizione che va valutata con riferimento agli elementi (di fatto e di diritto) sussistenti al momento della sua adozione.
L’Amministrazione comunale ha quindi correttamente emesso il provvedimento impugnato che resiste alle censure proposte con il ricorso in epigrafe.
In conclusione, per le considerazioni che precedono, il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. , sentenza 19.03.2019 n. 798 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Interpretazione del bando di gara.
In caso di oscurità ed equivocità nelle disposizioni di una procedura concorsuale, un corretto rapporto tra amministrazione e privato –che sia rispettoso dei principi generali di buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità e del canone specifico enunciato all’art. 1337 del c.c. (dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative)– impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che espressamente dice, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, mediante indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati.
Costituisce jus receptum della materia dei contratti pubblici la regola secondo cui l'interpretazione delle clausole della lex specialis che presentino margini di opinabilità deve essere effettuata in maniera tale da consentire la massima partecipazione agli operatori economici: pertanto, in presenza di più soluzioni interpretative possibili, occorre aderire alla ricostruzione ermeneutica e pratico applicativa che realizza una più ampia concorrenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2019 n. 242 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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1.4 Al riguardo, non si può che richiamare l’indirizzo giurisprudenziale per cui, in caso di oscurità ed equivocità nelle disposizioni di una procedura concorsuale, un corretto rapporto tra amministrazione e privato –che sia rispettoso dei principi generali di buon andamento dell'azione amministrativa e di imparzialità e del canone specifico enunciato all’art. 1337 del c.c. (dovere di buona fede delle parti nello svolgimento delle trattative)– impone che di quella disciplina sia data una lettura idonea a tutelare l'affidamento degli interessati, interpretandola per ciò che espressamente dice, restando il concorrente dispensato dal ricostruire, mediante indagini ermeneutiche ed integrative, ulteriori ed inespressi significati (TAR Campania Napoli, sez. V – 28/12/2018 n. 7426 che richiama Consiglio di Stato, sez. V – 22/06/2012 n. 3687 e aggiunge che “Pertanto, ove il dato testuale presenti evidenti ambiguità, deve essere prescelto dall'interprete il significato più favorevole all'ammissione del candidato, essendo conforme al pubblico interesse (e sempreché non si oppongano a ciò interessi pubblici diversi e di maggior rilievo) che alla procedura selettiva partecipi il più elevato numero di candidati (Consiglio di Stato, sez. V, 27.05.2014, n. 2709)”.
Del resto, costituisce jus receptum della materia dei contratti pubblici la regola secondo cui l'interpretazione delle clausole della lex specialis che presentino margini di opinabilità deve essere effettuata in maniera tale da consentire la massima partecipazione agli operatori economici: pertanto, in presenza di più soluzioni interpretative possibili, occorre aderire alla ricostruzione ermeneutica e pratico applicativa che realizza una più ampia concorrenza (cfr. TAR Puglia Bari, sez. I – 05/07/2018 n. 978 che evoca tra le tante Consiglio di Stato, sez. V – 05/10/2017 n. 4644, secondo cui “l'interpretazione delle clausole della lex specialis di gara che presentino margini di opinabilità deve essere improntata al principio eurounitario della massima partecipazione”.
1.5 I suddetti principi sono stati espressi anche da TAR Veneto, sez. I – 02/03/2017 n. 218. In definitiva, quando la formulazione letterale della lex specialis lasci spazi interpretativi, come nella fattispecie all’esame, va prescelta l’opzione volta a favorire la massima dinamica concorrenziale.

APPALTI: Per consolidato indirizzo giurisprudenziale, il giudizio di anomalia richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo, mentre in caso positivo (come quello di cui ora si controverte), non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva delle giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate.
L"ammissibilità della motivazione "per relationem" del giudizio di congruità non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub-procedimento, per cui saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a verifica a fungere da parametro.

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Il compito di effettuare l’indagine di anomalia risulta espressamente attribuito dalla legge all’organo amministrativo, unico soggetto preposto alla tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto.
Il giudice amministrativo può quindi sindacare le valutazioni compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e dell’adeguatezza dell’istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica.
Nello specifico, una volta accertato che la scomposizione della proposta tecnica sotto il profilo del costo del personale presenta plurime incongruenze che non sono state correttamente verificate nella sede propria, tale omissione non può essere “surrogata” da una verifica in sede giudiziale, tenuto conto dei limiti al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni rimesse all’amministrazione in materia.
Secondo l’indirizzo dominante, in caso di inadeguatezza dell’analisi per carenze istruttorie non deve essere disposta –in sede giudiziale– l’esclusione dell’offerta sospetta di inattendibilità, ma solo la regressione della procedura alla fase di verifica dell’anomalia, dato che l’amministrazione è la sola competente a valutare se, una volta riconsiderata l’offerta sul piano tecnico, le ricadute su quello economico consentano ancora di concludere per la serietà della proposta contrattuale.
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Anche dopo l’accertamento, con l’ausilio di un CTU, di manifeste lacune dell’istruttoria procedimentale e del giudizio di congruità che hanno condotto all’accoglimento del gravame, le medesime non potevano essere colmate neppure parzialmente ex post dal giudice attraverso le emergenze processuali, trattandosi di attività riservata all’amministrazione, la quale “provvederà al rinnovo delle valutazioni conseguente all’annullamento degli atti impugnati tenendo conto di tutte le indicazioni contenute nella presente sentenza, ivi comprese quelle desunte dalla C.T.U., selezionando gli elementi e i dati ritenuti significativi ai fini della verifica di anomalia dell’offerta, e motivando adeguatamente nel rispetto del principio di immodificabilità dell’offerta, nella fase della verifica di anomalia essendo notoriamente ammessi aggiustamenti e compensazioni che non si traducano in una variazione sostanziale dell’offerta o della sua logica, posto che, diversamente, ne risulterebbe violata la par condicio”.
Invero, il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione nel ritenere l’offerta complessivamente inattendibile, dovendo l’amministrazione provvedere alla riedizione del “vaglio di sostenibilità”. Tutti elementi addotti nel quarto motivo di gravame dovranno essere oggetto di rinnovata, attenta e complessiva verifica da parte della stazione appaltante, in sede procedimentale.

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3. La terza censura è priva di pregio.
3.1 Il dedotto vizio di difetto di motivazione non può ritenersi sussistente in quanto, come statuito nella sentenza di questa Sezione 25/10/2017 n. 1277 <<Per consolidato indirizzo giurisprudenziale, il giudizio di anomalia richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo, mentre in caso positivo (come quello di cui ora si controverte), non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva delle giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate (TAR Sicilia Catania, sez. III - 14/03/2017 n. 507; TAR Lazio Roma, sez. II - 02/01/2017 n. 24; TAR Brescia, sez. II - 15/04/2014 n. 396; TAR Veneto, sez. I - 16/05/2016 n. 528; TAR Lazio Roma sez. III-quater - 31/07/2013 n. 774, che richiama Consiglio di Stato, sez. V - 10/09/2012 n. 4785).
L"ammissibilità della motivazione "per relationem" del giudizio di congruità non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub-procedimento, per cui saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a verifica a fungere da parametro di riferimento sul quale misurare, "per relationem", la legittimità dell"indagine (Consiglio di Stato, sez. VI - 26/05/2015 n. 2662). ….
>>.
Il Consiglio di Stato, sez. III – 14/05/2018 n. 2867 ha confermato la pronuncia di questo giudice di prime cure, sostenendo che “Anche la seconda affermazione di carattere generale contenuta al punto 3 della sentenza gravata (quella per cui il giudizio di anomalia richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo, mentre in caso positivo non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva delle giustificazioni ritenute attendibili) risulta conforme alle consolidate acquisizioni della giurisprudenza di questo Consiglio. Basterà qui ricordare la decisione pubblicata lo stesso giorno della sentenza del Tar Brescia qui appellata: cioè Sez. V, 25/10/2017, n. 4912, secondo cui la valutazione favorevole circa le giustificazione dell'offerta sospetta di anomalia non richiede un particolare onere motivazionale, mentre è richiesta una motivazione più approfondita laddove l'amministrazione ritenga di non condividere le giustificazione offerte dall'impresa, in tal modo disponendone l'esclusione (con ulteriore richiamo a Cons. Stato, V, 02.12.2015, n. 5450)”.
Da ultimo, i principi suddetti sono stati applicati nella pronuncia di questa Sezione 07/02/2019 n. 122.
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SULLE CONSEGUENZE DELL’ACCOGLIMENTO DEL RICORSO
6. La premessa è che il compito di effettuare l’indagine di anomalia risulta espressamente attribuito dalla legge all’organo amministrativo, unico soggetto preposto alla tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto.
6.1 Il giudice amministrativo può quindi sindacare le valutazioni compiute dalla pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e ragionevolezza e dell’adeguatezza dell’istruttoria, ma non può operare autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica (cfr. Consiglio di Stato, sez. III – 13/09/2017 n. 4336; TAR Lazio Roma, sez. II-bis – 04/07/2017 n. 7797).
Nello specifico, una volta accertato che la scomposizione della proposta tecnica sotto il profilo del costo del personale presenta plurime incongruenze che non sono state correttamente verificate nella sede propria, tale omissione non può essere “surrogata” da una verifica in sede giudiziale, tenuto conto dei limiti al sindacato giurisdizionale sulle valutazioni rimesse all’amministrazione in materia.
Secondo l’indirizzo dominante, in caso di inadeguatezza dell’analisi per carenze istruttorie non deve essere disposta –in sede giudiziale– l’esclusione dell’offerta sospetta di inattendibilità, ma solo la regressione della procedura alla fase di verifica dell’anomalia (TAR Veneto, sez. III – 18/07/2017 n. 683), dato che l’amministrazione è la sola competente a valutare se, una volta riconsiderata l’offerta sul piano tecnico, le ricadute su quello economico consentano ancora di concludere per la serietà della proposta contrattuale.
6.2 Secondo TAR Toscana, sez. I – 08/07/2015 n. 1028 anche dopo l’accertamento, con l’ausilio di un CTU, di manifeste lacune dell’istruttoria procedimentale e del giudizio di congruità che hanno condotto all’accoglimento del gravame, le medesime non potevano essere colmate neppure parzialmente ex post dal giudice attraverso le emergenze processuali, trattandosi di attività riservata all’amministrazione, la quale “provvederà al rinnovo delle valutazioni conseguente all’annullamento degli atti impugnati tenendo conto di tutte le indicazioni contenute nella presente sentenza, ivi comprese quelle desunte dalla C.T.U., selezionando gli elementi e i dati ritenuti significativi ai fini della verifica di anomalia dell’offerta, e motivando adeguatamente nel rispetto del principio di immodificabilità dell’offerta, nella fase della verifica di anomalia essendo notoriamente ammessi aggiustamenti e compensazioni che non si traducano in una variazione sostanziale dell’offerta o della sua logica, posto che, diversamente, ne risulterebbe violata la par condicio”.
6.3 Come ha affermato il Consiglio di Stato, sez. III – 21/07/2017 n. 3623, il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione nel ritenere l’offerta complessivamente inattendibile, dovendo l’amministrazione provvedere alla riedizione del “vaglio di sostenibilità”. Tutti elementi addotti nel quarto motivo di gravame dovranno essere oggetto di rinnovata, attenta e complessiva verifica da parte della stazione appaltante, in sede procedimentale (
TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2019 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: E’ certamente vero che l’obbligo di assunzione del personale dell’operatore uscente non priva il subentrante della propria libertà di impresa e della conseguente facoltà di organizzare al meglio i propri fattori produttivi, ad esempio assegnando gli assunti ad altri servizi e procedendo a nuove assunzioni o avvalendosi del lavoro supplementare.
Invero, “l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria”.
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MASSIMA
4.2 E’ certamente vero che l’obbligo di assunzione del personale dell’operatore uscente non priva il subentrante della propria libertà di impresa e della conseguente facoltà di organizzare al meglio i propri fattori produttivi, ad esempio assegnando gli assunti ad altri servizi e procedendo a nuove assunzioni o avvalendosi del lavoro supplementare (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV – 24/02/2017 n. 445, che richiama TAR Toscana, sez. III – 13/02/2017 n. 231).
Come ha sostenuto TAR Puglia Bari, sez. I – 20/12/2018 n. 1665, “l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato e reso compatibile con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante; i lavoratori, che non trovano spazio nell’organigramma dell’appaltatore subentrante e che non vengano ulteriormente impiegati dall’appaltatore uscente in altri settori, sono destinatari delle misure legislative in materia di ammortizzatori sociali; la clausola non comporta invece alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria” (si veda anche Consiglio di Stato, sez. III – 05/05/2017 n. 2078)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.03.2019 n. 242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Richiesta di esercizio di autotutela.
Non è configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente sulla richiesta di annullamento/revoca di un permesso di costruire rilasciato a terzi, la quale ha natura meramente sollecitatoria.
Tale obbligo, infatti, contrasterebbe con le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché con il principio dell’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, che non possono essere elusi mediante l’impugnazione del silenzio formatosi su un’istanza diretta a sollecitare l’adozione di provvedimenti di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni non impugnate nei termini e nelle forme di rito.
Solo nella specifica ipotesi di presentazione di DIA o di SCIA reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione avverso il silenzio ex art. 31 c.p.a., ma solo in quanto DIA e SCIA non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili e l’unica azione oggi concessa agli interessati è quella avverso il silenzio della P.A. ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241/1990
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 18.03.2019 n. 236 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Ciò nondimeno il ricorso è inammissibile.
Sotto un primo e preliminare profilo, si rileva che
il ricorso all’autotutela (mediante annullamento d’ufficio) può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui all’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche introdotte dal D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, sussiste uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, fissato in un termine "comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici".
Il Consiglio di Stato ha poi avuto modo di chiarire che,
pur se tale norma posa risultare, in determinate ipotesi, non applicabile ratione temporis (ma non è il caso in esame), in ogni caso, essa rileva ai fini interpretativi e ricostruttivi del sistema degli interessi rilevanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625 e 31.08.2016, n. 3762).
Sotto distinto profilo, va osservato che,
oltre ai limiti legislativamente fissati, il ricorso all’esercizio del potere di autotutela incontra anche il limite della discrezionalità amministrativa.
Giova, infatti, richiamare il principio generale (costantemente ribadito) che governa l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione, valido anche nell’ipotesi in cui la richiesta di autotutela riguardi titoli abilitativi edilizi rimasti inoppugnati, e cioè che non è configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente sulla richiesta di annullamento/revoca presentata dagli interessati, la quale ha natura meramente sollecitatoria.
Tale obbligo, infatti, contrasterebbe con le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché con il principio dell’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, che non possono essere elusi mediante l’impugnazione del silenzio formatosi su un’istanza diretta a sollecitare l’adozione di provvedimenti di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni non impugnate nei termini e nelle forme di rito
(ex multis, Consiglio di Stato, sez. IV, 28.03.2018, n. 1945; id., sez. V, 07.11.2016, n. 4642; id., 22.01.2015, n. 273; id., sez. IV, 26.08.2014, n. 4309; id., sez. V, 17.06.2014, n. 3095; id, sez. IV, 24.09.2013, n. 4714; id., sez. VI, 09.07.2013, n. 3634; id., sez. V, 03.10.2013, n. 5199; id., 14.04.2009, n. 1610; TAR Lazio, Latina, sez. I, 22.03.2018, n. 147; Cons. Giust. Amm. Sicilia, 06.09.2017, n. 380; TAR Marche, 03.10.2016, n. 543; TAR Campania, Salerno, 20.04.2016, n. 1033).
Solo nella specifica ipotesi di presentazione di DIA o di SCIA reputate illegittime, i soggetti che si considerano lesi dall’attività edilizia possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’ente locale e, in caso di inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione avverso il silenzio ex art. 31 CPA, ma solo in quanto DIA e SCIA non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili e l’unica azione oggi concessa agli interessati è quella avverso il silenzio della P.A. ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, della L. n. 241/1990 (Consiglio di Stato n. 4713/2013 cit.; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.01.2017, n. 115).
Nel caso in esame, non si è in presenza di segnalazione certificata di inizio attività, ma di permesso di costruire.

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Autorizzazione allo scarico - Preventivo rilascio di una formale - Necessità - Controllo anticipato delle autorità competenti - Eventuale imposizione di specifiche prescrizioni - Mancato "monitoraggio ecologico" - Fattispecie - Att. 124, 125, 137, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di inquinamento idrico, la finalità dell'autorizzazione non è soltanto quella di permettere l'apertura e l'effettuazione dello scarico, ma anche di porre l'amministrazione competente nelle condizioni di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni successiva attività di controllo e prevenzione, con la conseguenza che l'apertura o l'effettuazione di uno scarico in assenza dell'autorizzazione denota una effettiva offensività della condotta, in quanto determina una evidente lesione dell'interesse protetto dal precetto penale.
Ne consegue, che l'apertura o, comunque, l'effettuazione di uno scarico richiede il preventivo rilascio di una formale, espressa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità sulla base dei criteri e nelle forme indicate dalla legge e non ammette equipollenti.
Nella fattispecie, non soltanto è mancata una formale attestazione delle condizioni per il rilascio del titolo da parte dell'amministrazione competente, ma l'assenza dell'autorizzazione ha precluso la eventuale imposizione di specifiche prescrizioni, la complessiva attività di "monitoraggio ecologico" che la legge richiede, circa la permanenza delle condizioni che hanno consentito il rilascio del titolo ed il rispetto dei termini di efficacia stabiliti dalla legge per il titolo medesimo e, cioè, tutti quegli adempimenti finalizzati, come si è detto, alla sottoposizione di attività potenzialmente pericolose per l'integrità dell'ambiente ad una disciplina rigorosa e puntuali controlli.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Tutela delle acque dall'inquinamento - Preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi - Necessità - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Verifiche del procedimento amministrativo - Taciti assensi o illegittime prassi - Esclusione - Att. 124, 125, 137, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di tutela delle acque dall'inquinamento, l'articolo 124, d.lgs. 152/2006 prevede la necessaria, preventiva autorizzazione per tutti gli scarichi, indicando anche la procedura per il suo rilascio e tale titolo abilitativo non può essere sostituito da equipollenti, quali i pareri o nulla osta dei servizi comunali, che rivestono natura meramente interna al provvedimento.
Tale contesto, si desume dalla semplice lettura degli artt. 124 e 125 d.lgs. 152/2006, prevedendo che, il rilascio del titolo abilitativo presuppone una serie di adempimenti.
Si pensi, ad esempio, alla necessità dell'indicazione delle caratteristiche, anche tecniche, dello scarico e della sua destinazione finale (art. 125, comma 1); alla possibilità di stabilire prescrizioni e limiti per particolari tipologie di scarico in presenza di determinate condizioni (art. 124, comma 8), ovvero in relazione alle caratteristiche tecniche dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni locali dell'ambiente interessato (art. 124, comma 10); alla necessità del versamento della somma di cui al comma undicesimo dell'articolo 124, nonché alle verifiche che caratterizzano lo specifico procedimento amministrativo, sicché non può ritenersi sostituibile da altri atti o provvedimenti rilasciati per finalità diverse ed all'esito di procedure stabilite da altre disposizioni normative, (ad es. dall'autorizzazione sanitaria).
A maggior ragione, non assumono alcuna validità taciti assensi o illegittime prassi eventualmente applicate dalle amministrazioni competenti. Scopo dell'autorizzazione è, infatti, quello di consentire una preventiva verifica della rispondenza di un'attività, potenzialmente pericolosa per l'ambiente, a quanto stabilito dalla legge.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - 231 e responsabilità dell'impresa - Individuazione dell'elemento soggettivo di responsabilità dell'ente nella colpa - Oneri probatori - Artt. 1, 6, 12, 25-undecies e 25-undecies, d.lgs. n. 231/2001 - Fattispecie: scarico in assenza di autorizzazione.
Il sistema normativo introdotto dal d.lgs. 231/2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un "tertium genus" di responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e, nell'affermare tale principio, si è anche chiarito, in tema di responsabilità dell'ente derivante da persone che esercitano funzioni apicali, che grava sulla pubblica accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito dell'ente, mentre a quest'ultimo incombe l'onere, con effetti liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi (Sez. U., n. 38343/2014, PG., R.C., Espenhahn e altri).
Nella fattispecie, l'esercizio dello scarico in assenza di autorizzazione aveva consentito alla società di continuare a percepire utili dall'attività aziendale, la quale, altrimenti, avrebbe dovuto essere ritardata o interrotta in attesa dell'autorizzazione ed, inoltre, il superamento del limite tabellare, dovuto al trascinamento di fanghi, era conseguenza della precisa scelta aziendale, basata su un calcolo di costi e benefici, come dimostrato dalle dichiarazioni di un teste, di non adottare accorgimenti idonei ad evitare un simile accadimento.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Responsabilità degli enti - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Attenuante di cui all'art. 12, c. 2, lett. a), d.lgs. n. 231/2001 - Poteri del giudice - DANNO AMBIENTALE - Risarcimento integrale del danno da parte ente - Eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato - Giurisprudenza.
L'attenuante di cui all'art. 12, comma 2, lett. a), d.lgs. 231/2001 presuppone che l'ente abbia risarcito integralmente il danno ed abbia eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia comunque efficacemente adoperato in tal senso.
Inoltre, in tema di responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 08.06.2001, n. 231, qualora nei confronti dell'autore del reato presupposto sia stata applicata la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell'art. 737-bis cod. pen., il giudice deve procedere all'autonomo accertamento della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l'illecito fu commesso, che non può prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del fatto di reato, non essendo questa desumibile in via automatica dall'accertamento contenuto nella sentenza di proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica.
Deve dunque essere ribadita l'esclusione di ogni automatismo tra l'eventuale riconoscimento della particolare tenuità del fatto nei confronti dell'autore del reato e l'accertamento della responsabilità dell'ente, la cui autonomia è stabilita dall'art. 8 d.lgs. 231/2001, nel quale, come è noto, si afferma che la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non è stato identificato o non è imputabile, nonché quando il reato si estingue per una causa diversa dall'amnistia.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - 231 ambito di operatività - Assoluzione della persona fisica e ente - Automatismo - Esclusione - Accertamento autonomo della responsabilità dell'ente.
Sull'ambito di operatività dell'art. 8 d.lgs. 231/2001, all'assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest'ultimo, non consegue automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi del richiamato articolo, deve essere affermata anche nel caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato identificato, ovvero in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, riconoscendo, quindi, la necessità di un accertamento autonomo della responsabilità dell'ente.
Pertanto, l'eventuale declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto nei confronti dell'autore del reato presupposto non incide sulla contestazione formulata nei confronti dell'ente, né ad esso può applicarsi la predetta causa di non punibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11518 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia "ricostruttiva" - Rispetto delle distanze - Differenze di condizioni del preesistente fabbricato - Artt. 3, 13, 29, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Con riferimento alla c.d. ristrutturazione edilizia ricostruttiva bisogna distinguere, in tema di rispetto delle distanze, l'ipotesi in cui essa consista nella ricostruzione del preesistente fabbricato con identità di area di sedime e di sagoma, poiché ciò determina una effettiva coincidenza con il precedente edificio, al quale si sostituisce il nuovo, il quale non rispettava già le distanze ovvero preesisteva alla loro previsione normativa.
Nel diverso caso in cui il manufatto sia ricostruito con sagoma diversa rispetto al preesistente o diversa area di sedime, per cui vi è, invece, l'obbligo del rispetto delle distanze trattandosi di edificio nuovo e differente quanto a collocazione fisica.

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Interventi di ristrutturazione edilizia - Differenza tra ristrutturazione "conservativa" e ristrutturazione "ricostruttiva" - Titoli abilitativi - Permesso di costruire e procedura semplificata della SCIA - Nozione del termine «consistenza» - Accertamento e limiti della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito.
L'articolo 3, del d.P.R. 380/2001, prevede due diverse ipotesi di ristrutturazione, la prima parte dell'articolo considera una tipologia di intervento che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti, mentre la seconda parte della norma considera la possibilità della demolizione e ricostruzione nel rispetto dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche della sagoma, così che la giurisprudenza amministrativa ha denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la seconda ristrutturazione "ricostruttiva" (Cons. di Stato Sez. V, n. 5988 del 05/12/2014).
Inoltre, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio.
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001, inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
Con l'ulteriore precisazione che l'accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.P.R 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edificazione in zona agricola - Posizione soggettiva del committente delle opere - Necessaria destinazione funzionale all'attività agricola - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, per l'edificazione in zona agricola la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria (Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Innamorati e altri).
Nel caso di specie, come risulta dalla sentenza impugnata e dai ricorsi, il proprietario committente delle opere non era certamente un agricoltore, trattandosi del comandante di una stazione dei Carabinieri
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato di costruzione edilizia abusiva - Condotta colposa - Differenza tra semplici cittadini e soggetti con qualifiche professionali.
La condotta colposa nel reato di costruzione edilizia abusiva può consistere nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle possibilità edificatorie concesse dagli strumenti urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di ignoranza inevitabile l'erronea convinzione che un determinato intervento non necessiti di specifico titolo abilitativo.
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità dell'errore sulla legge penale non si configura quando l'agente svolge una attività in uno specifico settore rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza sulla normativa esistente (nella specie il soggetto era un ufficiale di polizia giudiziaria).

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Reati urbanistici - Titolare del permesso di costruire, committente, costruttore e direttore dei lavori - Responsabilità.
Il d.P.R. 380/2001 nell'articolo 29 individua, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore, sono infatti ritenuti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
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Responsabilità del direttore dei lavori - Posizione di garanzia - Casistica giurisprudenziale - Concorso di persone nel reato - Carattere meramente fittizio della prestazione - Assenza di idoneo titolo professionale - Mancanza di un effettivo e costante controllo - Mancata conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato - Assenza sul cantiere - Negligenza - Casi di esonero di responsabilità - Contestazioni al titolare del permesso di costruire, al committente ed al costruttore delle violazione - Rinuncia contestuale all'incarico - Comunicazione motivata all'Amministrazione comunale.
Il direttore dei lavori ha, per il ruolo svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve sovrintendere ed il riferimento, contenuto dalla norma, al titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi dirige materialmente i lavori in assenza del permesso secondo i principi generali del diritto penale in materia di concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori non viene meno neppure nel caso in cui si assuma il carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto, acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione di esso al Comune, ovvero nel caso in cui il soggetto che assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo titolo professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di fatto, alla realizzazione dell'opera abusiva.
La giurisprudenza, ha pure ritenuto la responsabilità del direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante controllo sullo svolgimento delle opere anche riguardo alla loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato nel caso in cui si disinteressi dell'esecuzione delle opere edilizie poste in essere in difformità del provvedimento autorizzatorio o le stesse vengano realizzate autonomamente da altri a sua insaputa o in sua assenza.
L'art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo comma, un esonero di responsabilità del direttore dei lavori qualora egli abbia contestato al titolare del permesso di costruire, al committente ed al costruttore la violazione delle prescrizioni del provvedimento amministrativo; abbia fornito contemporaneamente all'Amministrazione comunale motivata comunicazione della violazione stessa e, nelle ipotesi di totale difformità o di variazione essenziale, abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico, sempre che il recesso sia tempestivo, quando, cioè, intervenga non appena l'illecito edilizio obiettivamente si profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano state disattese o violate.

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Demolizione dell'immobile abusivo - Ordine alla subordinazione della sospensione condizionale della pena - Omissione di specifica motivazione.
L'omessa motivazione in ordine alla subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell'immobile abusivo, è sufficiente richiamare il principio, anche recentemente ribadito, secondo il quale il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione dell'opera abusiva, senza dover procedere a specifica motivazione sul punto, essendo questa implicita nell'emanazione dell'ordine di demolizione che, in quanto accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera stessa nei confronti dell'interesse protetto (Sez. 3, n. 23189 del 29/03/2018, Ferrante).
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Reati urbanistici - Limiti di applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. - Non particolare tenuità del fatto per contestuale violazione di più disposizioni.
Ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, assumono rilievo vari elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è stata inoltre ritenuta la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Dirigente o responsabile dello sportello unico - Configurabilità del reato di abuso di ufficio - Elemento soggettivo - Consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale - Macroscopica illiceità dell'atto - Fattispecie.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R. 06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e degli strumenti urbanistici" integra il requisito della violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è affermato che esso consiste nella consapevolezza dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà di agire per procurarlo e può essere desunta dalla macroscopica illiceità dell'atto.
Nella specie, l'evidenza della natura abusiva della costruzione non emerge esclusivamente dalle sue caratteristiche dimensionali, ma anche per il contrasto dell'opera con la destinazione di zona (agricola)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Preavviso di rigetto: la determinazione conclusiva ancora negativa va integrata con le argomentazioni che confutano la fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio.
Se è vero che, per costante giurisprudenza, laddove il provvedimento negativo sia supportato da una pluralità di ragioni autonome, è sufficiente ai fini della legittimità dell’atto che anche una sola di esse resista al vaglio giurisdizionale, è altresì vero che l’applicazione adeguata dell’art. 10-bis della legge sul procedimento amministrativo esige non solo l’enunciazione nel preavviso di provvedimento negativo delle ragioni che si intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le stesse siano integrate, nella determinazione conclusiva ancora negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione.
E ciò a maggior ragione quando tali ragioni si siano concretate in una proposta progettuale sviluppata in aderenza al preavviso di provvedimento negativo, che ha comportato una modifica delle motivazioni del diniego, sia quanto al loro numero che quanto alla portata di quelle perduranti, rendendo queste ultime, in difetto di una loro rinnovata esposizione, non più puntualmente rintracciabili nell’atto.
Va infine escluso che nella fattispecie possa ritenersi integrata l’eccezione al principio dell’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo, che ricorre quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva dello stesso o si verta in ipotesi di attività vincolata.
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1. L’appello è fondato.
2. Il primo giudice, come sostenuto dall’appellante Ku.Pe.It. s.p.a., ha effettivamente provveduto a una attività di interpretazione e di integrazione del diniego opposto da ANAS s.p.a. al rinnovo della concessione degli accessi all’impianto di carburanti di cui in fatto che, riguardando ambedue i profili di preminente rilievo della vicenda, non può essere confermata.
3. Detta attività interpretativa/integrativa ha innanzitutto riguardato la individuazione delle difformità rilevate in via definitiva da ANAS tra le caratteristiche dell’impianto e le norme tecniche ritenute di rilevo nella fattispecie.
Il diniego, nella prima parte, che costituisce, nella dinamica espositiva del provvedimento, quella preponderante, riproduce con modalità puntuali, ovvero elencandone ogni specifico elemento, tutte le sette difformità rilevate dall’ANAS nella comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza originariamente presentata, nonostante la Kuwait avesse proposto, successivamente alla predetta comunicazione, un progetto di adeguamento tendente proprio al superamento dei rilievi contenuti nella comunicazione stessa.
Tale progetto di adeguamento viene poi preso in considerazione nella seconda parte del provvedimento, che chiarisce, laconicamente, che esso non risolve “le non conformità relative alle lunghezze delle corsie di accesso e alla distanza minima tra la corsia di accelerazione e la rampa di uscita dello svincolo successivo”.
La tecnica espositiva utilizzata da ANAS rende il provvedimento, di fatto, inintellegibile.
Infatti, ove riproduce pedissequamente i sette motivi ostativi individuati nella comunicazione ex art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, il diniego rimanda, naturalmente, allo stato dell’impianto in se, e non a quello che sarebbe risultato dall’attuazione del progetto di adeguamento proposto da Ku..
Ove, invece, richiama il progetto di adeguamento, il diniego, per difetto di qualsiasi collegamento concreto con gli elementi di quest’ultimo, non consente di comprendere quali siano in concreto le difformità ancora riscontrabili e la loro effettiva portata.
Per ovviare a tali lacune, la sentenza appellata ha dovuto far ricorso alle argomentazioni difensive svolte delle parti del giudizio, ivi compresa quelle della parte ricorrente, che hanno chiarito che le insufficienze riscontrate anche dopo la presentazione del progetto di adeguamento sono due, e riguardano la distanza della corsia di accelerazione dallo svincolo di Sant’Eraclio (m 53,80 anziché 300) e la lunghezza della corsia di accelerazione (m 88,10 anziché 260).
In tal modo, il primo giudice ha tenuto conto di dati non ricavabili dal provvedimento, che nella prima parte, dichiarava, per le stesse difformità, due diverse misure (rispettivamente, m 12,06 anziché 300 e m 118,85 anziché 260).
Sicché appare condivisibile il rilievo dell’appellante che il richiamo da parte del diniego anche dei profili di difformità che potevano considerarsi superati dal progetto di adeguamento milita nella direzione della superficialità dell’istruttoria e della carenza di motivazione, e non può dirsi superato, come ha fatto la sentenza gravata, dalla circostanza che alcuni dei predetti profili siano risultanti, in definiva, ancora tali.
Se è vero, infatti, che, per costante giurisprudenza, laddove il provvedimento negativo sia supportato da una pluralità di ragioni autonome, è sufficiente ai fini della legittimità dell’atto che anche una sola di esse resista al vaglio giurisdizionale (da ultimo, Cons. Stato, V, 13.09.2018, n. 5362), è altresì vero che l’applicazione adeguata dell’art. 10-bis della legge sul procedimento amministrativo esige non solo l’enunciazione nel preavviso di provvedimento negativo delle ragioni che si intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le stesse siano integrate, nella determinazione conclusiva ancora negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione (Cons. Stato, VI, 27.09.2018, n. 5557; III, 05.06.2018, n. 3396; VI, 02.05.2018, n. 2615; I, 25.03.2015, n. 80).
E ciò a maggior ragione quando, come nella fattispecie, tali ragioni si siano concretate in una proposta progettuale sviluppata in aderenza al preavviso di provvedimento negativo, che ha comportato una modifica delle motivazioni del diniego, sia quanto al loro numero che quanto alla portata di quelle perduranti, rendendo queste ultime, in difetto di una loro rinnovata esposizione, non più puntualmente rintracciabili nell’atto.
Va infine escluso che nella fattispecie possa ritenersi integrata l’eccezione al principio dell’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione del provvedimento amministrativo, che ricorre quando le ragioni del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base della parte dispositiva dello stesso o si verta in ipotesi di attività vincolata (Cons. Stato, V, 16.04.2014, n. 1938).
Infatti, quanto alla prima ipotesi, si è già rilevato come, in difetto dell’attività chiarificatrice delle parti, non sarebbe stato possibile in alcun modo derivare dal provvedimento quali insufficienze, dopo la presentazione da parte di Ku. del progetto di adeguamento, fossero ancora riscontrabili dall’ANAS, e in che misura.
Non si verte poi, come meglio in seguito, nell’ambito della seconda ipotesi (attività vincolata) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.03.2019 n. 1705 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Difformità o difetti costruttivi dell’opera - Responsabilità del direttore dei lavori - Vigilanza urbanistica ed alta sorveglianza delle opere - Attività del direttore dei lavori - Controlli, verifiche e istruzioni - Giurisprudenza - Art. 24, 25, 29 D.P.R. n. 380/2001.
In materia di vigilanza urbanistica, l'attività del direttore dei lavori per conto del committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere, che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sua varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati (Cass. Sez. 2, 03/05/2016, n. 8700; Cass. Sez. 2, 24/04/2008, n. 10728; Cass. Sez. 2, 27/02/2006, n. 4366; Cass. Sez. 2, 20/07/2005, n. 15255).
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Vizi o difformità dell'opera (privata) appaltata - Obblighi del direttore dei lavori - Tutela del committente - Impiego di peculiari competenze tecniche - Normale diligenza - Omissione in vigilanza, controlli o istruzioni - Responsabilità del direttore dei lavori - Sussistenza.
In tema di responsabilità conseguente a vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei lavori per conto del committente, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all'opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente-preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della "diligentia quam in concreto".
Pertanto, rientrano, tra gli obblighi del direttore dei lavori l'accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell'opera al progetto, sia le modalità dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza difetti costruttivi.
Non si sottrae, dunque, a responsabilità il professionista che ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllarne l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al committente
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 14.03.2019 n. 7336 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone - Rumore - Accertamento idoneità delle emissioni sonore - Principi giurisprudenziali consolidati - Fattispecie: pubblico esercizio che diffonde musica ad elevato volume anche in ore notturne - Art. 659, c. 1, cod. pen..
In tema disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone, per individuare l'idoneità delle emissioni sonore e arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone, il giudice non è tenuto a basarsi necessariamente su specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno idoneo ad arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
Pertanto, ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. si possono trarre tre principi generali consolidati nella giurisprudenza:
   1) l'affermazione di responsabilità per la fattispecie di cui all'art. 659, comma 1, cod. pen., non implica, attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato;
   2) l'attitudine dei rumori ad arrecare pregiudizio al riposo od alle occupazioni delle persone non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità;
   3) la piena attendibilità delle deposizioni assunte, invero non contestata con argomenti concreti nel ricorso
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2019 n. 10938 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Inosservanza delle prescrizioni dell'autorizzazione - Natura del reato - Istantaneo, eventualmente abituale o eventualmente permanente - Reato di cui all'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006.
L'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006 sanziona le ipotesi di inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché le ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni.
Sicché, la contravvenzione di cui all'art. 256, comma 4, dlgs. 152/2006 può dunque presentarsi, in concreto, come reato istantaneo (nel caso in cui, ad esempio, alla singola inosservanza segua immediatamente la cessazione dell'attività), come reato eventualmente abituale, quando si configuri attraverso condotte reiterate, ovvero eventualmente permanente, come nei casi dianzi richiamati o, comunque quando si concreta con la protrazione nel tempo della situazione antigiuridica creata da una singola condotta
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2019 n. 10933  - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi nel sottosuolo (cd. Legge Tognoli) - Speciale regime di favore - Applicazione e limiti - Realizzazione di parcheggi di servizio a fabbricati esistenti realizzati nel sottosuolo - Requisiti richiesti dalla norma - Atti di cessione nulli - Casistica giurisprudenziale - L. n. 122/1989 - Artt. 12 e 44, lett. c) d.P.R. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. 42/2004.
La legge 24.03.1989, n. 122 (cd. Legge Tognoli) riguarda i parcheggi a servizio di edifici già esistenti e stabilisce, nell'art. 9, comma 1, che detti parcheggi, costruiti dai proprietari degli immobili, possono essere realizzati nel sottosuolo, ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici; devono essere destinati a pertinenza dei fabbricati; non possono essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale.
I relativi atti di cessione sono nulli. Conseguentemente, deve escludersi l'applicabilità della «Legge Tognoli» ed il conseguente ricorso al regime ordinario, previsto per tutti gli interventi che comportino comunque una trasformazione permanente del suolo inedificato.
Lo speciale regime di favore introdotto dalla L. n. 122/1989 è applicabile solo nel caso in cui ricorrano tutti i requisiti richiesti dalla norma, in difetto dei quali le opere realizzate resteranno soggette al regime generale che richiede il permesso di costruire, escludendo, ad esempio, l'applicazione delle disposizioni in esame per la realizzazione, unitamente ad un garage interrato, di un insieme ulteriore di opere ad esso accessorie finalizzate ad una nuova sistemazione degli accessi all'edificio residenziale: terrazza con pensilina e scala di collegamento (Sez. 3, n. 28840/2008, Dantoni e altro), per parcheggi realizzati in superficie
(Sez. 3, n. 29080/2013, PM. in proc. Gullo) e in particolare, va ricordato che, l'applicabilità della speciale disciplina è stata esclusa in caso di parcheggi costruiti con interramenti ottenuti per effetto del riporto di terra (Sez. 3, n. 26825/2003, Grandazzo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire o altro atto abilitativo anche in sanatoria materialmente incompatibile con la legge o difforme da essa - Ipotesi dell'illiceità del provvedimento - Poteri del giudice penale.
I poteri del giudice penale rispetto all'atto abilitativo, anche in sanatoria, si sostanziano nell'individuare quelle situazioni di illegittimità che rendono l'atto abilitativo improduttivo di validi effetti, facendo riferimento alle finalità della disciplina urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso di costruire, che l'art. 12 del d.P.R. 380/2001 individua, tra l'altro, nella conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente, con la conseguenza che, in disparte l'ipotesi dell'illiceità del provvedimento, la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che essere quella derivante dalla non conformità del titolo abilitativo alla normativa che ne regola l'emanazione o alle disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario, radicalmente escludersi la possibilità che il mero dato formale dell'esistenza del permesso di costruire possa precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla sussistenza del reato (Cass. Sez. 3, n. 12389/2017, Minosi. Conf. Sez. 3, n. 46477/2017, Menga e altri).
Pertanto, si è ribadito il principio secondo il quale l'obbligo di applicare "soltanto" la legge implica l'obbligo di negare applicazione ad ogni atto che, sebbene formalmente fondato sulla legge, sia tuttavia materialmente incompatibile con la legge o sia difforme da essa
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato paesaggistico - Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto - Norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente - Condotte riparatorie ed estinzione dell’illecito penale - Effetti e limiti dell'art. 131-bis cod. pen..
In tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, condotte riparatorie ed estinzione dell’illecito penale, ai fini dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen., per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, assumono rilievo vari elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici, ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, PM. in proc. Derossi, Rv. 265450. Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, Rv. 266586).
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è stata inoltre ritenuta la contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali).
Nella specie è stata esclusa l'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. con riferimento al reato paesaggistico
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale respinge la q.l.c. sull’art. 19, comma 6-ter, l. 241/1990 per assenza di termine alla sollecitazione da parte del terzo della verifica della legittimità della s.c.i.a..
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La Corte costituzionale respinge i dubbi di costituzionalità sollevati nei confronti dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, con riferimento alla mancata previsione di un termine finale per la sollecitazione da parte del controinteressato della verifica della legittimità della s.c.i.a. e indica i percorsi praticabili per la tutela effettiva del terzo.
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Atto amministrativo – SCIA – Denuncia del terzo – Termine – Assenza – Questione infondata di costituzionalità.
Sono infondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 11, 97, 117, primo comma –quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge 04.08.1955, n. 848, e all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 07.02.1992, entrato in vigore il 01.11.1993– e secondo comma, lettera m), della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana (1).
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   (1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale ha dichiarato infondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati da Tar per la Toscana, sez. III, ordinanza 11.05.2017, n. 667 (in Urbanistica e appalti, 2017, 528, con nota di DAPAS e VIOLA e in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 328, nonché oggetto della News US in data 16.05.2017), con riferimento alla mancata previsione da parte dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, di un termine finale per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla s.c.i.a., ritenendo che i termini per le suddette verifiche, dei quali riconosce l’essenzialità a tutela dell’affidamento del segnalante, siano ricavabili dallo stesso art. 19 della legge n. 241 del 1990 e dalle norme cui esso rinvia e indicando, in una prospettiva più ampia e sistematica, gli strumenti apprestati dall’ordinamento a tutela della posizione giuridica del terzo.
   II. – Il giudizio dinanzi al Tar per la Toscana, che ha portato all’adozione della richiamata ordinanza n. 667 del 2017, aveva ad oggetto un’azione per silenzio-inadempimento, ex art. 31 c.p.a., proposta da un condomino in relazione alla mancata risposta dell’Amministrazione comunale alle richieste di inibitoria dallo stesso avanzate, nel corso dell’anno 2016, nei confronti dell’attività edilizia intrapresa da altro condomino e fatta oggetto di s.c.i.a. presentata nell’anno 2012.
In seno a tale giudizio veniva sollevata dal segnalante eccezione di tardività della sollecitazione del potere inibitorio da parte del terzo, avvenuta a diversi anni di distanza dalla presentazione della s.c.i.a. Nello scrutinio di tale eccezione il Tar per la Toscana rilevava la mancata previsione, nell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, di un termine per la proposizione dell’istanza sollecitatoria da parte del terzo e riteneva che il suddetto termine non fosse neppure ricavabile in termini univoci dal sistema normativo, con la conseguenza che la diffida del terzo dovesse ritenersi tempestiva anche se proposta a notevole distanza di tempo dall’avvenuto deposito della segnalazione presso l’Ente competente.
Concludeva però il Tar che un simile sistema normativo risultava in contrasto con l’esigenza di tutelare l’affidamento del segnalante circa la legittimità dell’iniziativa intrapresa, con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione nonché con il generale principio di certezza dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione e conseguentemente sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, per violazione degli artt. 3, 11, 97, 117, primo comma, e 117, secondo comma, lett. m) Cost. Il ragionamento del Tar per la Toscana, la cui illustrazione è necessaria per la migliore comprensione della decisione della Corte costituzionale, è fondato su due premesse:
      a) la prima consistente nel rilievo che la tutela del terzo nei confronti della s.c.i.a., con l’introduzione del comma 6-ter nell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ad opera dell’art. 6, comma 1, lett. c), del decreto-legge n. 138/2011, viene ad essere tutta concentrata nella sollecitazione dei poteri di verifica da parte dell’Amministrazione e nella conseguente azione sul silenzio (dispone infatti il citato comma 6-ter che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”);
      b) la seconda premessa si sostanzia nella opzione interpretativa offerta dal Tribunale amministrativo, secondo la quale il potere amministrativo, sollecitato dal terzo a tutela della proprie situazioni giuridiche soggettive, deve essere ricostruito come potere inibitorio puro, cioè vincolato, che garantisca al terzo di ottenere, attraverso l’intervento dell’Amministrazione, la cessazione dell’attività lesiva non consentita dalla legge; esso non potrebbe invece qualificarsi come potere di autotutela, come previsto dall’art. 19, comma 3, della stessa legge n. 241 per l’intervento ufficioso dell’Ente, perché in tal caso si finirebbe per subordinare la tutela del terzo ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione in ordine alla sussistenza o meno di un interesse pubblico alla rimozione degli effetti della s.c.i.a.; la suddetta lettura del potere inibitorio di cui al comma 6-ter porta il Tribunale ad escludere che si possa richiamare, come termine finale per il suo esercizio, quello di 18 mesi previsto per l’annullamento d’ufficio dall’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 (come modificato dalla legge 124/2015) ed oggi applicabile anche all’intervento in autotutela sulla s.c.i.a. in base al combinato disposto della suddetta norma con l’art. 19, comma 4, della stessa legge n. 241.
La tesi sostenuta nell’ordinanza n. 667/2017 del Tar Toscana porta dunque a distinguere:
         b1) intervento ufficioso sulla s.c.i.a. (art. 19, commi 3 e 4), che si articola in due ipotesi di potere che si succedono nel tempo:
I] quello del comma 3 è potere vincolato, volto all’accertamento da parte della p.a. della sola “carenza dei requisiti e dei presupposti” della s.c.i.a., da esercitarsi nel termine di sessanta o trenta giorni dalla presentazione della segnalazione;
II] quello del comma 4 è potere discrezionale, in quanto l’adozione dei provvedimenti di cui al comma terzo è subordinata alla “presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies”, e può essere esercitato decorso il termine di sessanta o trenta giorni per l’intervento inibitorio puro e nel termine finale di 18 mesi dalla segnalazione, secondo quanto previsto dall’art. 21-nonies cit.;
         b2) intervento sulla s.c.i.a. a istanza del terzo pregiudicato (comma 6-ter):
I] la tesi del giudice rimettente è nel senso che in questo caso, per ragioni di piena tutela del terzo, il potere amministrativo di cui viene sollecitato l’esercizio debba essere ricostruito come potere inibitorio puro, di natura vincolata, e non sottoposto ai presupposti dell’autotutela, neppure una volta decorsi i termini di sessanta o trenta giorni dalla presentazione della segnalazione;
II] il giudice rimettente, a tutela del contrapposto interesse del segnalante, riteneva tuttavia che il suddetto potere inibitorio puro non potesse essere esercitato sine die, giungendo quindi alla questione di costituzionalità in discorso.
   III. – La Corte costituzionale giunge alle conclusioni sintetizzate nella massima riportata, sulla base del seguente percorso argomentativo:
      c) l’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, che attribuisce al terzo interessato la facoltà di “sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3” c.p.a. nulla dice circa il termine entro cui va fatta la sollecitazione e, quindi, entro cui vanno esercitati i poteri di verifica da parte dell’Amministrazione; tale carenza, secondo il giudice a quo, non sarebbe colmabile in via interpretativa, come si desumerebbe dall’erroneità di tutte le tesi avanzate in proposito, il che esporrebbe la norma a dubbi di legittimità costituzionale:
         c1) certamente non sbaglia il Tar per la Toscana a ritenere che la previsione di un termine costituisca, nel contesto normativo in questione, un requisito essenziale dei poteri di verifica sulla s.c.i.a. a tutela dell’affidamento del segnalante;
         c2) non può invece condividersi la tesi del rimettente, secondo cui i poteri di verifica sollecitati dal terzo sarebbero “altri” rispetto a quelli previsti dai commi precedenti dell’art. 19 cit. e sempre vincolati, cosicché non sarebbe possibile mutuarne la disciplina;
         c3) l’art. 19, in particolare:
            c3.1) al comma 3 attribuisce alla p.a. un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili, “in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” dell’art. 19, comma 1, entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., dando la preferenza a quelli conformativi;
            c3.2) al successivo comma 4 prevede che, decorso tal termine, quei poteri siano ancora esercitabili “in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-novies” della stessa legge n. 241 del 1990; quest’ultimo articolo, a sua volta, disciplina l’annullamento in autotutela degli atti illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, che si operi un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, il potere debba essere esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi;
            c3.3) al comma 6-bis applica questa disciplina anche alla s.c.i.a. edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta a trenta giorni e prevedendo, inoltre, che, “restano […] ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali”;
         c4) ebbene, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, è ai poteri di cui ai commi 3, 4 e 6-bis dell’art. 19 che deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter dello stesso articolo;
      d) a tale conclusione si perviene anzitutto sulla base del dato testuale: la locuzione “verifiche spettanti all’amministrazione” lascia chiaramente intendere che la norma rinvia a poteri già previsti; questa piana lettura testuale trova poi conferma:
         d1) da una parte, nella genesi della disposizione censurata: il comma 6-ter è stato introdotto dall’art. 6, comma 1, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138, in aperta dialettica con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento; il riferimento alle “verifiche spettanti all’amministrazione”, dunque, non è finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo dell’esercizio dei poteri esistenti;
         d2) dall’altra, nella evoluzione del quadro normativo di riferimento: la diversa opzione ermeneutica seguita dal giudice a quo darebbe luogo ad una evidente incongruenza del sistema, per come si è evoluto a seguito della introduzione −ad opera della legge n. 124 del 2015− del termine di esercizio dell’autotutela nell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, termine reso applicabile anche ai poteri di controllo sulla s.c.i.a. dall’art. 19, comma 4, della stessa legge: si avrebbe qui, infatti, un potere sempre vincolato, e quindi più incisivo di quello di autotutela, e pur tuttavia temporalmente illimitato;
      e) più in generale, il riconoscimento di un potere “in bianco” nel comma 6-ter sarebbe in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità che caratterizza, qualifica e limita tutti i poteri amministrativi, principio che, com’è noto, ha fondamento costituzionale (artt. 23, 97, 103 e 113 Cost.) e va letto non solo in senso formale, come necessità di una previsione espressa del potere, ma anche in senso sostanziale, come determinazione del suo ambito, e cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo esercizio;
      f) non meno evidente, infine, è l’incompatibilità della lettura proposta dal giudice a quo con l’istituto della s.c.i.a., per come conformato dalla sua storia normativa e giurisprudenziale:
         f1) il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la scelta del legislatore nel senso della liberalizzazione dell’attività oggetto di segnalazione, cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una –sia pur importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi;
         f2) una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero dell’istituto all’area amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere;
         f3) le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono dunque quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-nonies);
         f4) decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo; questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue;
      g) questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata, non può essere messa in discussione dal timore del rimettente che ne derivi un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del terzo; il problema indubbiamente esiste, ma trascende la norma impugnata e va affrontato in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati a tutela della situazione giuridica del terzo:
         g1) il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (in questo caso “non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge”);
         g2) potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia. (Testo A)», ed espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis;
         g3) esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della p.a. in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica, poiché l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti;
         g4) al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica;
      h) tutto ciò, peraltro, non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere.
   IV. – La sentenza della Corte costituzionale esaminata propone una sorta di decalogo dei mezzi di tutela messi a disposizione del terzo per opporsi all’attività oggetto della segnalazione, offrendo lo spunto per qualche considerazione su alcuni degli strumenti indicati:
      i) vengono in primo luogo in considerazione i poteri inibitori, repressivi e conformativi previsti dall’art. 19, commi 3 e 6-bis, della legge n. 241 del 1990, da esercitarsi nel termine di sessanta o trenta giorni (per l’attività edilizia) dal ricevimento della segnalazione;
         i1) i suddetti poteri, sia nell’ipotesi che vengano esercitati d’ufficio (come direttamente dispongono i commi 3 e 6-bis richiamati), sia nell’ipotesi che vengano esercitati in esito a sollecitazione del privato (tramite il richiamo ad essi del comma 6-ter dell’art. 19) hanno come presupposto la “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti” della segnalazione certificata di inizio attività, non intermediata da valutazioni di interesse pubblico o di altri requisiti valutativi;
         i2) il terzo ha un interesse specifico a ottenere l’esercizio del potere inibitorio qui previsto (piuttosto che del potere di autotutela, che diventa operativo allo scadere del termine di trenta o sessanta giorni dalla presentazione della segnalazione e che ha ben più stringenti requisiti e presuppone la sussistenza di interesse pubblico prevalente al suo esercizio), il che lo può portare a chiedere -nell’ambito del procedimento camerale sul c.d. rito silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a.- la tutela cautelare, nelle sue varie forme (tra le quali assume specifica utilità quella presidenziale); in giurisprudenza, sulla ammissibilità della tutela cautelare nel procedimento sul silenzio, si vedano: Tar per la Sicilia–Palermo, sez. II, ord. 27.07.2018, n. 718 (in termini dubitativi), Tar per l’Abruzzo, sez. I, ord. 11.09.2014, n. 661 (in senso contrario); in dottrina: M.V. LUMETTI, Processo amministrativo e tutela cautelare, Padova, 2012, p. 395, si è espressa in senso contrario alla ammissibilità dell’intervento cautelare nel giudizio sul silenzio, parlando di “inconciliabilità strutturale” della tutela cautelare con detto rito; F. D’ALESSANDRI, Il rito speciale del silenzio in F. D’ALESSANDRI e E. SCATOLA, Il silenzio inadempimento, Milano, 2016, p. 126 afferma invece che “anche con questo rito [quello sul silenzio] può in alcune ipotesi residuare la necessità di accedere ad una vera e propria fase cautelare, ex artt. 55 ss c.p.a. che assicuri una tutela interinale, nei casi di periculum in mora grave e irreparabile, in attesa della decisione finale”, ciò sul rilievo che i “termini previsti dall’art. 55, comma 5, c.p.a. per la trattazione dell’istanza cautelare, risultano decisamente più brevi di quelli (comunque abbreviati) previsti dall’art. 87, comma 3, c.p.a. per il rito camerale ordinario, applicabili alla trattazione del rito del silenzio”; da ultimo R. DE NICTOLIS, Processo amministrativo, IV ed., Milano, 2019, p. 2398 afferma che “in astratto la possibilità di tutela cautelare nel rito in commento non può essere esclusa” anche se “in concreto la valutazione in ordine al periculum in mora dovrà tener conto dei tempi (che si presumono rapidi) della tutela processuale ordinaria”, aggiungendo che l’incidente cautelare, in tale ipotesi, dovrebbe svolgersi nei termini dell’art. 55, comma 5, c.p.a. ma dimezzati (prima camera di consiglio 10 giorni dopo l’ultima notificazione);
         i3) in relazione alle ipotesi in cui le leggi regionali prevedano, in caso di incompletezza della documentazione presentata a supporto della s.c.i.a., la richiesta dell’Amministrazione al segnalante di procedere a regolarizzazioni (ad es. art. 145, comma 8, legge regionale Toscana 10.11.2014, n. 65), c’è da interrogarsi sull’effetto sospensivo o interruttivo del termine per l’intervento inibitorio in parola; sul tema cfr. Tar per la Lombardia–Milano, sez. II, 03.04.2014, n. 880 secondo cui “deve quindi ritenersi che sia consentito al Comune interrompere il termine di trenta giorni per il consolidamento della SCIA attraverso la sollecitazione del contributo istruttorio del privato, come, del resto, già riconosciuto dalla giurisprudenza con riferimento alla diversa ipotesi di semplificazione procedimentale costituita da silenzio-assenso di cui al già richiamato articolo 87, comma 9, del d.lgs. n. 259 del 2003”, poiché non è condivisibile “la prospettazione di parte ricorrente, secondo la quale il Comune non avrebbe avuto il potere di interrompere il predetto termine, essendogli consentita esclusivamente l’adozione di un provvedimento di diniego. Una siffatta soluzione appare contraria all’interesse stesso del soggetto privato che intenda procedere all’intervento, perché imporrebbe al Comune di emettere un provvedimento di segno negativo anche in presenza di carenze o irregolarità suscettibili di integrazione”;
         i4) più in generale, si pone anche l’interrogativo se vi siano carenze nelle allegazioni alla s.c.i.a. così gravi da comportare la sua inefficacia a prescindere dall’intervento inibitorio dell’Amministrazione; uno spunto in tal senso è fornito dall’art. 145, comma 3, della già evocata legge toscana n. 65 del 2014, a mente del quale è inefficace la s.c.i.a. presentata senza la relazione asseverata del progettista, senza gli elaborati progettuali necessari per consentire le verifiche di competenza dell’Amministrazione o senza i pareri o nulla-osta necessari per poter eseguire i lavori; in termini si vedano: Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 625, secondo cui “la segnalazione ex art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990 n. 241 deve contenere elementi minimali di identificazione e qualificazione dell'attività della quale si chiede la verifica, in assenza dei quali l'Amministrazione non soltanto non è obbligata ma non dispone neppure degli elementi conoscitivi essenziali per svolgere le proprie verifiche e emanare un provvedimento”; Tar per la Campania–Napoli, sez. III, 13.01.2016, n. 140, secondo cui “il decorso del termine di trenta giorni non legittima l'intervento edilizio se la dichiarazione non corrisponde al modello legale prescritto dalla legge”;
      j) decorsi i termini di trenta e sessanta giorni, l’Amministrazione può comunque esercitare i poteri di cui al comma 3 dell’art. 19, al ricorrere però delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della legge n. 241/90, ciò sia d’ufficio che in presenza della sollecitazione del privato, ai sensi del comma 6-ter; anche questo potere amministrativo risulta temporalizzato, stante la fissazione in legge del termine massimo di 18 mesi; viene il dubbio, però, che l’intervento in autotutela presenti nelle due ipotesi (intervento ufficioso e su istanza di parte) connotazioni in parte diverse; nel caso di agire ufficioso dell’Amministrazione l’autotutela conserva certamente la sua connotazione ampiamente discrezionale; ma quando l’autotutela viene ad essere lo strumento di tutela delle posizioni giuridiche del terzo appare possibile ritenere che la stessa si connoti come una autotutela atipica, ad esercizio doveroso, pena in alternativa il lasciare completamente sguarnita la tutela del terzo pregiudicato dalla segnalazione;
      k) tra gli strumenti evocati dalla sentenza in rassegna vi sono anche i poteri di vigilanza e repressivi di settore, di cui parla l’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990 e che la Corte esemplifica richiamando l’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, cioè la “vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia”; la norma evocata si riferisce alle opere abusive, realizzate senza titolo edilizio, il che pare presupporre la inesistenza originaria o l’eliminazione, a mezzo degli strumenti giuridici a disposizione dell’Amministrazione, dell’eventuale permesso di costruire o s.c.i.a. presentata; ma ove il segnalante abbia realizzato l’intervento edilizio e la s.c.i.a. non sia contestabile da parte dell’Amministrazione, per scadenza dei termini sopra visti, non pare configurabile un intervento repressivo dell’Amministrazione ai sensi dell’art. 27 cit., non essendo in presenza di attività edilizia abusiva, ciò al netto della ricorrenza di vincoli paesaggistici;
      l) infine un’ultima osservazione merita l’affermazione della Corte secondo cui “al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica”:
         l1) il riferimento è all’art. 872, comma 2, cod. civ., a mente del quale “colui che per effetto della violazione [delle norme edilizie] ha subito danno deve essere risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme contenute nella sezione seguente o da questa richiamate”;
         l2) in ambito civilistico il terzo può dunque aspirare, in generale, alla tutela risarcitoria, salva la possibilità di tutela reale, con riduzione in pristino, nel caso di violazione delle normativa sulla distanza nella costruzioni, di cui agli artt. 873–899 cod. civ.;
         l3) la Corte costituzionale, nell’evocare la tutela civilistica “in forma specifica”, par riferirsi alle ipotesi in cui, secondo il codice civile, è possibile andar oltre la mera tutela per equivalente, attraverso appunto la rimessione in pristino, secondo la sistematica propria dell’art. 872 cit., cioè in sostanza nelle sole ipotesi di violazione delle regole sulle distanze.
   V. – Per completezza, nel rinviare all’ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza di cui alla recente News US n. 19 del 06.02. 2019 (avente ad oggetto Tar per l’Emilia Romagna–Parma, sez. I, sentenza non definitiva 22.01.2019, n. 12), si segnala quanto segue:
      m) per la natura giuridica e gli strumenti di tutela dei terzi in caso di d.i.a. anteriormente all’intervento del legislatore di cui al decreto-legge n. 138 del 2011 si veda Cons. Stato, Ad. plen., 29.07.2011, n. 15 (in Foro it., 2011, III, 501, con nota di TRAVI, in Urbanistica e appalti, 2011, 1185, con nota di LAMBERTI, in Guida al dir., 2011, fasc. 37, 93 [m], con nota di TOSCHEI, in Riv. giur. edilizia, 2011, I, 513, con nota di SANDULLI, in Giurisdiz. amm., 2011, I, 1063, con nota di ANCORA, in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2309, in Giur. it., 2012, 934 [m], con nota di BOSCOLO, in Giur. it., 2012, 433 [m], con nota di MERUSI, in Dir. proc. amm., 2012, 171, con nota di FERRARA, BERTONAZZI, in Giornale dir. amm., 2012, 153 [m], con nota di GIARDINO, e in Giust. civ., 2012, I, 1357, con nota di COLALEO) secondo cui: “la denuncia di inizio attività (analogamente alla dichiarazione di inizio attività e alla segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto privato; il silenzio mantenuto dall'amministrazione che avrebbe dovuto inibire l'attività del privato si configura come un provvedimento tacito, nei cui confronti il terzo può proporre azione di annullamento nell'ordinario termine decadenziale e contestualmente azione di adempimento per imporre l'adozione del provvedimento inibitorio”; “ove la denuncia di inizio attività (o, analogamente, la dichiarazione di inizio attività o la segnalazione certificata di inizio attività) produca effetti legittimanti prima della scadenza del termine per l'esercizio del potere inibitorio, il terzo che si ritenga leso può proporre avanti al giudice amministrativo un'azione di accertamento, al fine di ottenere misure cautelari; una volta decorso il termine per l'esercizio del potere inibitorio, tale azione si converte automaticamente in domanda di annullamento del provvedimento tacito negativo”;
      n) sull’ordinanza del T.a.r. per la Toscana n. 667 del 2017 cfr. A. DAPAS, L. VIOLA, Ancora su scia e tutela del terzo in Urbanistica e appalti, 2017, 528; G. GRECO, Scia e tutela del terzo al vaglio della Corte costituzionale: è troppo auspicare un ritorno al passato (o quasi)? in Giustamm. n. 6 del 2018; in generale sulla tutela del terzo si veda G. MANNUCCI, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2016 (ove sono reperibili ampi riferimenti dottrinali);
      o) sulla valenza di disciplina di principio della disciplina sulla s.c.i.a. di cui alla legge n. 241 del 1990 cfr. Corte cost. 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8 con nota di STRAZZA, in Giur. it., 2016, 2233 [m], con nota di VIPIANA PERPETUA, in Riv. giur. urbanistica, 2016, fasc. 4, 87, con nota di CERBO, nonché oggetto della News US in data 11.03.2016, cui si rinvia per i riferimenti di dottrina e giurisprudenza richiamati); nella citata sentenza si afferma che “è costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 117, 3º comma, cost., l'art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005 n. 1, che stabilisce la possibilità per l'amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi rispetto alla previsione statale; nell'ambito della materia concorrente del «governo del territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), che si inseriscono in una fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi; tale fattispecie ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell'amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi l'autotutela amministrativa; anche le condizioni e le modalità di esercizio dell'intervento della p.a., una volta che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa statale, devono considerarsi il necessario completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché l'individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall'amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del titolo abilitativo e costituisce un tutt'uno inscindibile; il suo perno è costituito da un istituto di portata generale -quello dell'autotutela- che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell'affidamento del privato, dall'altra; ne deriva che la disciplina de qua costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio»; la normativa regionale, nell'attribuire all'amministrazione un potere di intervento, lungi dall'adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e l'unitarietà dello stesso”;
      p) sulla s.c.i.a. e d.i.a. come aspetti centrali della semplificazione burocratica da considerarsi un LEA, si veda Corte cost., 09.05.2014, n. 121 (in Foro it., 2014, I, 2703, in Giur. costit., 2014, 2118 e in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 733), secondo cui: “è infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49, 4º comma-ter, d.l. 31.05.2010 n. 78, conv., con modif., dall'art. 1, 1º comma, l. 30.07.2010 n. 122, nella parte in cui qualifica la disciplina sulla «segnalazione certificata di inizio attività» (SCIA), come attinente alla tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. e), cost., ne ribadisce la qualificazione come livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. m), cost., e dispone che la disciplina sulla SCIA sostituisca direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 31.05.2010 n. 78, quella della «dichiarazione di inizio attività» (dia), recata da ogni normativa statale e regionale, in riferimento all'art. 8, 1º comma, n. 5, e all'art. 9 dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige, nonché all'art. 2 d.leg. 16.03.1992 n. 266”; la disciplina della s.c.i.a. ben si presta ad essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. e “tale parametro permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione”;
      q) sull’ulteriore recente rinvio alla Corte costituzionale della disciplina dell’art. 19, comma 6-ter, legge n. 241 del 1990 cfr. Tar per l’Emilia Romagna–Parma, sez. I, sentenza non definitiva 22.01.2019, n. 12 (oggetto della già citata News US n. 19 del 06.02.2019), secondo cui “è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter della l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui prevede che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili limitando la tutela degli interessati alla mera sollecitazione dei poteri di verifica spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, ad esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”;
      r) sulle recenti pronunce in materia di autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990 si vedano:
         r1) Cons. Stato, sez. IV, 07.09.2018, n. 5277, in Foro it., 2019, III, 57, con nota di CORDOVA, secondo cui: “Ai fini dell'annullamento d'ufficio di un permesso di costruire, non deve essere trascurato il comportamento del privato, se improntato a canoni di lealtà e di chiarezza”; “Il termine decennale per l'esercizio del potere regionale di annullamento del permesso di costruire illegittimo non può essere invocato rispetto all'annullamento d'ufficio da parte del comune”;
         r2) Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2018, n. 4374 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “in ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività della legge, il termine di diciotto mesi per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non si applica ai provvedimenti di annullamento d'ufficio adottati prima dell'entrata in vigore di tale legge (28.08.2015)”; “la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato (configurabile anche in presenza del solo silenzio su circostanze rilevanti) comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, e perciò senza neppure richiedere alcun accertamento processuale penale”; “il termine «ragionevole» per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio decorre soltanto dal momento in cui l'amministrazione sia venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell'atto”; “nel caso di illegittimità del provvedimento determinata dalla non veritiera prospettazione da parte del privato di circostanze di fatto o di diritto, la motivazione dell'annullamento d'ufficio è soddisfatta dal documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”;
         r3) Cons. Stato, sez. V, 27.06.2018, n. 3940 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “le modifiche inserite nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, e che hanno comportato l'introduzione di un termine per l'annullamento d'ufficio, vanno interpretate considerando che un'aspettativa meritevole di tutela rispetto all'esercizio del potere di annullamento d'ufficio non è configurabile quando l'amministrazione sia stata indotta in errore da un comportamento doloso del privato”; “le modifiche introdotte nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124 vanno interpretate nel senso che la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio introdotto, senza la necessità di alcun accertamento processuale penale”; “la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità dei presupposti del provvedimento non sia imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all'amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato (la sentenza precisa che in tal caso, non essendo applicabile un termine perentorio, l'amministrazione dovrà esclusivamente applicare un canone di ragionevolezza)”;
         r4) Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8 (in Foro it., 2018, III, 6, in Foro amm., 2017, 1980, in Giornale dir. amm., 2018, 67 [m], con nota di TRIMARCHI, e in Urbanistica e appalti, 2018, 45, con nota di MANFREDI, nonché oggetto della News US in data 23.10.2017, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui: “nella vigenza dell'art. 21-nonies l. 241/1990, nel testo introdotto dalla l. 15/2005, l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole”; “ai fini dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”; “nella vigenza dell'art. 21-nonies l. 241 del 1990 -per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005- l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
”;
      s) sulla tipicità-legalità del potere amministrativo, principio che la sentenza in rassegna ribadisce, si vedano:
         s1) Corte cost. 07.04.2011, n. 115 (in Foro it., 2011, I, 1280, Guida al dir., 2011, fasc. 18, 81, con nota di FORLENZA, Giornale dir. amm., 2011, 1093 [m], con nota di CAPANTINI, Giur. costit., 2011, 1581, con note di IRELLI, MORANA, Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2277 [m], con nota di BROCCA); Corte cost., 06.02.2009, n. 32 (in Foro it., 2009, I, 2005, Giur. costit., 2009, 244, Regioni, 2009, 701, con nota di BARAGGIA); Corte cost., 07.10.2003, n. 307 (in Foro it., 2004, I, 1365, con nota di MIGLIORANZA, Urbanistica e appalti, 2004, 295 [m], con nota di MANFREDI, Foro amm.- Cons. Stato, 2003, 2791, con nota di DE LEONARDIS, Riv. giur. ambiente, 2004, 257 [m], con note di CERUTI, MAZZOLA); Corte cost., 29.07.1982, n. 150 (in Foro it., 1983, I, 603, Quaderni regionali, 1982, 1477 [m], con nota di CARLI GARDINO, Giur. it., 1983, I, 1, 1054, con nota di CALIFANO);
         s2) di recente e nell’ambito di una letteratura assai ampia si vedano: G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, 243 ss., sulla evoluzione della tipicità del potere amministrativo alla stregua del diritto europeo; M. CLARICH, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, III ed., 105 ss., per la declinazione della tipicità all’interno del rapporto giuridico amministrativo; A. PLAISANT, Dal diritto civile al diritto amministrativo, Cagliari, 2017, 538 ss., sulla evoluzione storica del concetto di causa del provvedimento amministrativo in relazione alle ipotesi di inesistenza, nullità e carenza di potere in astratto; nel senso della inconciliabilità del principio della legalità tipicità con il diritto civile -pur nella consapevolezza della necessità di fondare un nuovo diritto comune che superi la dicotomia pubblico privato- e della crisi della legalità tipicità del potere amministrativo ad opera delle nuove tecniche di produzione normativa (soft law, comply or explain, c.d. paternalismo libertario, cogestione regolatoria, better regulation, A.I.R., codici deontologici) cfr. G.P. CIRILLO, Diritto civile pubblico, Roma, 2018, V ed., 18 ss., 21 ss. (Corte Costituzionale, sentenza 13.03.2019 n. 45 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – SCIA - Art. 19, c. 6-ter, l. n. 241/1990 – Strumenti di tutela del terzo – Facoltà di sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione – Termini – Opportunità di un intervento normativo – Questione di legittimità costituzionale – Infondatezza.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 11, 97, 117, primo comma –quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE)– e secondo comma, lettera m), della Costituzione.
Il comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, chiarito che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, attribuisce al terzo interessato la facoltà di sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del Codice del processo amministrativo.
Nulla dice la disposizione circa il termine entro cui va fatta la sollecitazione e, quindi, entro cui vanno esercitati i poteri di verifica. Tuttavia, poiché le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, esse vanno esercitate entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies).
Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue.
Nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, c. 1, della l. n. 241 del 1990; potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ed espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis.
Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, c. 2-ter, della l. n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti).
Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica.
Tutto ciò non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere
(Corte Costituzionale, sentenza 13.03.2019 n. 45 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Limitare le ricadute sui terzi interessati in caso di inerzia della Pa. Consulta: correggere le norme sulla Scia.
La Corte costituzionale sollecita un intervento per correggere alcune distorsioni delle regole in materia di Scia, contenute nella legge 241/1990.

È questa la parte più rilevante della sentenza 13.03.2019 n. 45 che affronta la questione dei poteri di verifica della Pa sulle segnalazioni di inizio attività.
Le norme oggi prevedono che l'attività oggetto di Scia (come la ristrutturazione di un immobile) possa iniziare dalla data di presentazione all'amministrazione, salvo il potere del Comune di attivarsi in caso di mancanza dei requisiti: per l'edilizia, la Pa deve muoversi entro trenta giorni.
Questi tempi compressi, per i giudici, sono giustificati: «Una dilatazione temporale dei poteri di verifica -si legge-, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe quel recupero dell'istituto all'area amministrativa tradizionale», quando invece si tratta di un'attività liberalizzata.
Il problema, però, è che per la Consulta servirebbe, comunque, un intervento normativo «ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell'attività segnalata e, dall'altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell'esercizio del potere da parte dell'amministrazione». Bisogna, cioè, limitare gli effetti negativi in caso di inerzia della Pa (articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2019).
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La Corte Costituzionale chiarisce che le verifiche cui è chiamata l’amministrazione, ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, sono quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies); decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo; questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue.
Aggiunge poi la Corte che, nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (in questo caso «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge»); potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ed espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis; esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti).
Sempre secondo la Corte, al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica.
Così ricostruita la norma la Corte, pur non escludendo l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990 sollevata dal TAR Toscana nella parte in cui non prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica sulla segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) spettanti alla pubblica amministrazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Norme impugnate: Art. 19, c. 6-ter, della legge 07/08/1990, n. 241, come introdotto dall'art. 6, c. 1, del decreto-legge 13/08/2011, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 14/09/2011, n. 148.
Oggetto: Edilizia e urbanistica - Segnalazione certificata di inizio attività [SCIA] - Previsione che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili - Possibilità per gli interessati di sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104 - Mancata previsione di un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla SCIA presentata da altri soggetti.
Dispositivo: non fondatezza

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SENTENZA
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sezione terza, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), nella parte in cui non prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica sulla segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) spettanti alla pubblica amministrazione.
2.− Secondo il rimettente la disposizione censurata vìola, in primo luogo, gli artt. 3, 11 e 117, primo comma –quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge 04.08.1955, n. 848, e all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 07.02.1992, entrato in vigore il 01.11.1993− e secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché non tutela l’affidamento del segnalante, che sarebbe esposto sine die al rischio di inibizione dell’attività oggetto di SCIA.
L’art. 19, comma 6-ter, poi, violerebbe, sotto altro profilo, l’art. 3 Cost., perché, con specifico riferimento all’attività edilizia, darebbe luogo ad una irragionevole disparità di trattamento tra il segnalante e coloro che realizzino interventi assoggettati a permesso di costruire, esposti alla reazione del terzo per il solo termine di sessanta giorni previsto, a pena di decadenza, per l’impugnazione del titolo edilizio espresso.
La disposizione censurata, ancora, violerebbe i principi di ragionevolezza e buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost., poiché l’amministrazione sarebbe costretta a verificare i presupposti dell’attività segnalata anche qualora sia trascorso un notevole lasso di tempo dal deposito della SCIA e nonostante abbia già esercitato il controllo d’ufficio, così aggravandosi l’attività amministrativa; perché la possibilità incondizionata di rivalutare, anche a notevole distanza di tempo, l’assetto di interessi già definito aumenterebbe il rischio di decisioni amministrative contraddittorie; e perché l’incertezza normativa sull’esistenza di un termine e sul dies a quo della sua decorrenza −e quindi sull’obbligo dell’amministrazione di attivarsi a fronte dell’istanza del terzo− inciderebbe sull’efficienza dell’attività amministrativa.
Il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., infine, sarebbe violato anche «in relazione» all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., perché la mancata previsione del termine si tradurrebbe in una violazione degli standard minimi, che il legislatore statale deve assicurare nella normazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; perché darebbe luogo a una disciplina contraddittoria che, da un lato, incentiva la semplificazione e la liberalizzazione delle attività amministrative e, dall’altro, espone chi si avvale della SCIA al rischio permanente di vedere travolta, su iniziativa del terzo, l’attività segnalata; e perché tradirebbe «l’esigenza di uniformità normativa che caratterizza l’istituto», aprendo «la strada a discipline territoriali eterogenee […] con conseguente disomogeneità degli standards di tutela».
3.− La parte privata P. M., ricorrente nel giudizio a quo, ha sollevato una prima eccezione di inammissibilità delle questioni per la natura ancipite del petitum, che oscillerebbe tra la richiesta dell’addizione di un termine e la caducazione della disposizione censurata.
3.1.− L’eccezione non è fondata.
È vero che nell’ordinanza di rimessione si afferma che una eventuale pronuncia di accoglimento di questa Corte avrebbe sicuri effetti sul giudizio a quo, sia nell’ipotesi di sentenza additiva che fornisca il parametro temporale sulla cui base verificare la tardività della sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri inibitori della pubblica amministrazione, sia nell’ipotesi di declaratoria «pura» di illegittimità costituzionale del censurato art. 19, comma 6-ter (ipotesi, questa, che, nelle more dell’intervento del legislatore, secondo il TAR Toscana, renderebbe necessario applicare il diritto vivente formatosi anteriormente all’introduzione della norma censurata con la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 29.07.2011, n. 15).
In tutti gli altri passaggi della motivazione, tuttavia, il rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma censurata, esclusivamente nella parte in cui non prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica della PA: l’intera ordinanza è cioè costruita in senso additivo.
4.− La seconda eccezione d’inammissibilità sollevata dalla parte privata riguarda anch’essa la natura del petitum, che si risolverebbe nella richiesta di un intervento additivo priva dell’indicazione dell’unica soluzione costituzionalmente obbligata, in violazione dell’art. 28 della legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), che impedisce a questa Corte il sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.
4.1.− Anche questa eccezione non è fondata.
La fissazione di un termine entro cui il terzo controinteressato può attivare i poteri di verifica dell’amministrazione implica, in effetti, una scelta tra diverse soluzioni, come è reso evidente dalla molteplicità delle tesi sostenute in dottrina e in giurisprudenza e illustrate dal rimettente, soluzioni tutte rientranti nella discrezionalità del legislatore nella configurazione degli istituti processuali e nella fissazione di termini di decadenza o prescrizione o di altre disposizioni condizionanti l’azione (ex plurimis, sentenze n. 6 del 2018, n. 94 del 2017 e n. 155 del 2014).
Il giudice a quo, tuttavia, consapevole della difficoltà di individuare una soluzione a rime obbligate, a fronte della ritenuta omissione legislativa, correttamente ha invocato una pronuncia additiva di principio, che –come è noto– è utilizzata da questa Corte proprio al fine di non invadere la sfera riservata al legislatore e, nelle more del suo intervento, di fornire al giudice comune uno strumento duttile per rinvenire una soluzione del caso concreto conforme a Costituzione.
5.− Con la terza eccezione la parte privata lamenta l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, poiché il TAR Toscana si sarebbe limitato a sostenere di dovere fare applicazione della norma censurata, senza che «i parametri costituzionali invocati risultino […] in concreto violati»: il rimettente, cioè, avrebbe sollevato una questione del tutto «ipotetica ed eventuale», fermandosi ad un esame di principio o «estetico» del quadro normativo di riferimento.
In particolare, quanto alla violazione del principio dell’affidamento, il Tribunale non avrebbe considerato che i lavori intrapresi dal segnalante erano stati immediatamente sospesi e tali erano rimasti; e, quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., il Comune resistente nel giudizio a quo non avrebbe lamentato alcun aggravio della sua attività amministrativa, limitandosi ad affermare l’assenza dell’obbligo di rispondere all’istanza della ricorrente.
5.1.− Anche questa eccezione è infondata.
Il TAR Toscana, con motivazione non solo plausibile ma anche corretta, ha osservato che, per decidere sull’eccezione di tardività sollevata dall’amministrazione e dal controinteressato, deve fare applicazione della norma censurata, che, secondo la ricostruzione fatta propria dal rimettente, consentirebbe al terzo di sollecitare in ogni tempo le verifiche spettanti alla PA sull’attività oggetto di SCIA (nel caso di specie, la prima sollecitazione è stata presentata dopo due anni ed undici mesi circa dal deposito della segnalazione e l’ultima dopo tre anni e nove mesi circa).
Tanto basta a fondare la rilevanza della questione (tra le più recenti, sentenze n. 236 e n. 225 del 2018; ordinanze n. 184 e n. 171 del 2017), contrariamente a quanto affermato dalla parte privata.
6.− Nel merito, oggetto delle questioni di legittimità costituzionale è il comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, il quale comma, chiarito che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili, attribuisce al terzo interessato la facoltà di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3», dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto legislativo 02.07.2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18.06.2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo).
Nulla dice la disposizione circa il termine entro cui va fatta la sollecitazione e, quindi, entro cui vanno esercitati i poteri di verifica.
Tale carenza, secondo il giudice a quo, non sarebbe colmabile in via interpretativa, come si desumerebbe dall’erroneità di tutte le tesi avanzate in proposito, e ciò esporrebbe la norma a dubbi di legittimità costituzionale.
7.− Certamente
non sbaglia il TAR Toscana a ritenere che la previsione di un termine costituisca, nel contesto normativo in questione, un requisito essenziale dei poteri di verifica sulla SCIA a tutela dell’affidamento del segnalante (sentenza n. 49 del 2016).
Non può invece condividersi la tesi del rimettente, secondo cui tali poteri sarebbero “altri” rispetto a quelli previsti dai commi precedenti e sempre vincolati, cosicché non sarebbe possibile mutuarne la disciplina.

7.1.− Come è noto,
l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 prevede che all’immediata intrapresa dell’attività oggetto di segnalazione si accompagnino successivi poteri di controllo dell’amministrazione, più volte rimodulati, da ultimo dall’art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124 (Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
In particolare,
il comma 3 dell’art. 19 attribuisce alla PA un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA, dando la preferenza a quelli conformativi, «[q]ualora sia possibile»; mentre il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono ancora esercitabili «in presenza delle condizioni» previste dall’art. 21-novies della stessa legge n. 241 del 1990.
Quest’ultimo, a sua volta, disciplina l’annullamento in autotutela degli atti illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità, che si operi un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica dei privati, il potere debba essere esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi.
Il comma 6-bis dell’art. 19 applica questa disciplina anche alla SCIA edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta a trenta giorni e prevedendo, inoltre, che, «restano […] ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».

8.− Ebbene, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, è a questi poteri che deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter.
8.1.− A tale conclusione si perviene anzitutto sulla base del dato testuale: la locuzione «verifiche spettanti all’amministrazione» lascia chiaramente intendere che la norma rinvia a poteri già previsti.
8.2.− Questa piana lettura testuale trova conferma, da una parte, nella genesi della disposizione censurata e, dall’altra, nella evoluzione del quadro normativo di riferimento.
Quanto al primo profilo, il comma 6-ter è stato introdotto dall’art. 6, comma 1, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella legge 14.09.2011, n. 148, in aperta dialettica con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento. Il riferimento alle «verifiche spettanti all’amministrazione», dunque, non è finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo.
Quanto al secondo profilo, la diversa opzione ermeneutica seguita dal giudice a quo darebbe luogo ad una evidente incongruenza del sistema, per come si è evoluto a seguito della introduzione −ad opera della legge n. 124 del 2015− del termine di esercizio dell’autotutela nell’art. 21-novies della legge n. 241 del 1990, termine reso applicabile anche ai poteri di controllo sulla SCIA dall’art. 19, comma 4, della stessa legge: si avrebbe qui, infatti, un potere sempre vincolato, e quindi più incisivo, e pur tuttavia temporalmente illimitato.
Più in generale, il riconoscimento di un potere “in bianco” nel comma 6-ter sarebbe in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità che caratterizza, qualifica e limita tutti i poteri amministrativi, principio che, com’è noto, ha fondamento costituzionale (artt. 23, 97, 103 e 113 Cost.) e va letto non solo in senso formale, come necessità di una previsione espressa del potere, ma anche in senso sostanziale, come determinazione del suo ambito, e cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo esercizio (sentenze n. 115 del 2011, n. 32 del 2009, n. 307 del 2003 e n. 150 del 1982).
8.3.− Non meno evidente, infine, è l’incompatibilità della lettura proposta con l’istituto della SCIA, per come conformato dalla sua storia normativa e giurisprudenziale.
Il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la scelta del legislatore nel senso della liberalizzazione dell’attività oggetto di segnalazione, cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una –sia pur importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi.
Una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero dell’istituto all’area amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere.
9.−
Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono dunque quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies).
Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue.

10.− Questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata, non può essere messa in discussione dal timore del rimettente che ne derivi un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del terzo.
10.1.− Il problema indubbiamente esiste, ma trascende la norma impugnata.
Esso va affrontato in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto dell’insieme degli strumenti apprestati a tutela della situazione giuridica del terzo.
In particolare,
nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (in questo caso «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge»); potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia. (Testo A)», ed espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis.
Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti).

Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica.
Tutto ciò, peraltro, non esclude l’opportunità di un intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di tale potere.

11.− Così ricostruita la portata della norma censurata, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR Toscana non sono fondate.

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria - Casi di speciale protezione e iter - Legge sul condono edilizio - Inapplicabilità - Art. 146, d.lgs n. 42/2004 - D.P.R. n. 380/2001.
In materia di tutela dei beni paesistici, l'art. 146 d.lgs. 42 del 2004 regola il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica preventiva rispetto ad interventi sui beni oggetto della speciale protezione e l'iter ivi delineato può estendersi al rilascio delle autorizzazioni in sanatoria previste dallo stesso d.lgs. 42/2004, e in via analogica e soltanto in quanto applicabile, agli altri casi di sanatoria previsti da diverse disposizioni di legge.
Essa, però, certamente non vale in toto laddove esista una disciplina speciale di maggior rigore quale quella prevista dalla legge sul condono edilizio.

...
Legge sul condono edilizio e sanatoria su beni paesaggistici - Procedimento per il rilascio del provvedimento in sanatoria - Soprintendenze e spatium deliberandi - Decorso del termine - Silenzio-rifiuto impugnabile in sede di giustizia amministrativa - Differente contesto dei beni che vengono in rilievo - Iter procedimentale più gravoso - Art. 10-bis L. 07.08.1990, n. 241.
In materia urbanistica, nell'ambito del procedimento per il rilascio del provvedimento in sanatoria previsto dalla legge sul condono edilizio, il legislatore, da un lato, ha ritenuto di concedere alla soprintendenza uno spatium deliberandi più ampio (180 giorni, anziché 45), d'altro lato ha previsto che il decorso del termine valga quale silenzio-rifiuto impugnabile in sede di giustizia amministrativa, specificando senza possibilità di deroghe che il parere sfavorevole espresso dalla stessa soprintendenza preclude il rilascio del titolo in sanatoria.
Tale disciplina, ben diversa da quella delineata nell'art. 146 d.lgs. 42 del 2004, trova peraltro giustificazione alla luce del differente contesto e dei beni che vengono in rilievo: se può essere ragionevole consentire di superare l'inerzia della soprintendenza laddove la stessa, non pronunciandosi nel termine, rischi di bloccare l'iniziativa del privato che abbia scrupolosamente seguito il preventivo iter previsto, sottoponendolo ad un ingiusto aggravio procedimentale, ben si giustifica un più rigoroso regime laddove si tratti di sanare un illecito commesso, onerando in tal caso il trasgressore che voglia avvantaggiarsi degli effettivi della sanatoria di un più gravoso iter procedimentale che consenta in ogni caso di pervenire ad un effettivo vaglio di compatibilità paesaggistica dell'opera abusiva da parte dell'autorità preposta alla gestione del vincolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.03.2019 n. 10799 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI FORNITURE: Rispetto per l’ambiente per partecipare agli appalti di fornitura di arredi sanitaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto fornitura – Arredi sanitari – Rispetto ambiente – Punteggio aggiuntivo – Possibilità.
La distinzione fra requisiti soggettivi di partecipazione agli appalti di fornitura e caratteristiche oggettive dei prodotti offerti non osta, secondo le previsioni dell’art. 2 Cost, alla previsione di punteggi aggiuntivi per il rispetto dell’ambiente, così come dei lavoratori e delle popolazioni, da parte dei partecipanti.
Pertanto, qualora la lex specialis di un appalto per la fornitura di arredi sanitari indichi tra i criteri valutativi il rispetto da parte delle ditte partecipanti dei criteri ambientali minimi - CAM tale parametro non è rispettato se a possedere la richiesta certificazione (ISO 14001) è la società produttrice degli arredi ma non la società controllata partecipante alla gara, in quanto tale requisito attiene non al prodotto offerto ed alle sue caratteristiche bensì all’organizzazione aziendale del partecipante alla gara (1).

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   (1) La Sezione ha affermato la legittimità di criteri di valutazione che possano premiare le caratteristiche organizzative dell’impresa sotto il profilo ambientale, così come sotto i profili della tutela dei lavoratori e delle popolazioni interessate e della non discriminazione, al fine di valorizzare la compatibilità e sostenibilità ambientale della filiera produttiva e distributiva dei prodotti che costituiscono, comunque, l’oggetto dell’appalto.
   Le predette considerazioni valgono a maggior ragione qualora i predetti criteri non siano preponderanti nella determinazione complessiva del punteggio tecnico. Inoltre, l’art. 95, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016 già consentiva alle amministrazioni di indicare criteri premiali per la valutazione dell’offerta che potevano essere relativi, oltre che al maggior “rating” di legalità dell’impresa, anche al “minor impatto sulla salute e sull’ambiente”; parimenti il comma 6 del medesimo articolo, allorché elenca gli elementi che possono costituire criteri valutativi, non esclude il richiamo a caratteristiche proprie e soggettive dell’impresa.
Tale possibilità è stata altresì già confermata, seppure con riferimento agli appalti di servizi, dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato (sez. III, n. 4283 del 2018) secondo la quale il principio della netta separazione tra criteri soggettivi di prequalificazione e criteri di aggiudicazione della gara deve essere interpretato cum grano salis (Cons. St., sez. IV, 25.11.2008, n. 5808), consentendo alle stazioni appaltanti, nei casi in cui determinate caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto direttamente riguardanti l’oggetto del contratto, possano essere valutate anche per la selezione della offerta, di prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione della offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti la specifica attitudine del concorrente.
Anche l’Autorità Anticorruzione -ANAC, nelle proprie linee guida sull’offerta economicamente più vantaggiosa approvate con deliberazione n. 2/2016 evidenzia che la separazione fra requisiti di partecipazione e criteri di valutazione è ormai divenuta più labile rispetto all’impostazione tradizionale, ed in base alla delibera ANAC n. 1091/2017, resa nell’ambito di un parere precontenzioso, è possibile valorizzare la certificazione ISO 14001 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 11.03.2019 n. 1635 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Riconoscimento errore scusabile per tardiva impugnazione dell’aggiudicazione definitiva se la stazione appaltante la qualifica erroneamente come provvisoria anziché definitiva.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione – Impugnazione tardiva – Erronea denominazione del relativo provvedimento come aggiudicazione "provvisoria" anziché "definitiva" – Errore scusabile – Va riconosciuto.
Va rimesso in termine per errore scusabile il ricorrente che ha tardivamente impugnato l’aggiudicazione di una gara nel caso in cui la stazione appaltante, sotto la vigenza del nuovo codice appalti, abbia erroneamente denominato il relativo provvedimento come aggiudicazione "provvisoria" anziché "definitiva" (1).
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   (1) Ad avviso della la Sezione si deve tenere conto del comportamento oggettivamente ambiguo dell’amministrazione che ha erroneamente qualificato il provvedimento di aggiudicazione come “provvisorio”, in contrasto sia con il vigente quadro normativo che con il bando di gara, inducendo in errore il concorrente circa la natura interinale dell’aggiudicazione medesima, anziché definitiva con conseguente onere di immediata impugnazione.
Altro profilo da valorizzare, sempre ad avviso del Tar, attiene alla comunicazione di cui all’art. 76, comma 5, lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016 da cui, come si è visto, decorre il termine per proporre ricorso ai sensi dell’art. 120, comma 5, c.p.a..
In base alla richiamata disposizione del Codice degli appalti pubblici, la predetta comunicazione -che deve essere inviata d’ufficio immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni ad opera della stazione appaltante- si riferisce all’“aggiudicazione” (non ulteriormente qualificata), da intendersi come atto conseguente all’approvazione dell’organo competente e non alla “proposta di aggiudicazione” (di cui all’art. 33) o alla “aggiudicazione provvisoria” secondo la terminologia del codice previgente.
In altri termini, la decadenza della ricorrente dall’impugnativa per superamento del termine di rito potrebbe essere dichiarata soltanto di fronte ad una comunicazione (che nel caso in esame non è dato individuare) della stazione appaltante resa ai sensi dell’art. 76, d.lgs. n. 50 del 2016 che, in termini chiari e univoci, risulti idonea a portare a conoscenza della ricorrente l’aggiudicazione definitiva dell’appalto (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 11.03.2019 n. 1382 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Sul piano civilistico, con la convenzione di lottizzazione i proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione pongono in essere un negozio di consorzio urbanistico volontario -con assunzione delle obbligazioni a fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina della comunione dettata dal codice civile, in proporzione alle relative quote ex art. 1101, comma 2.
In particolare, si tratta di “negozio (interno) di costituzione di un consorzio urbanistico volontario”.
Il carattere meramente interno della ripartizione delle quote comporta che la ripartizione delle stesse non condiziona la validità degli atti autorizzatori comunali e che la sua violazione produce effetti solo tra le parti del consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di tale ripartizione violi l’interesse pubblico al corretto sviluppo urbanistico della città che il Comune persegue con il rilascio dei titoli edilizi.
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2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.08.2011 n. 4576) ha chiarito che “Sul piano civilistico, con la convenzione di lottizzazione i proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione pongono in essere un negozio di consorzio urbanistico volontario -con assunzione delle obbligazioni a fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina della comunione dettata dal codice civile, in proporzione alle relative quote ex art. 1101, comma 2”.
In particolare, si tratta di “negozio (interno) di costituzione di un consorzio urbanistico volontario” (così Cass. civ. Sez. I, 26/04/2010, n. 9941).
Il carattere meramente interno della ripartizione delle quote comporta che la ripartizione delle stesse non condiziona la validità degli atti autorizzatori comunali e che la sua violazione produce effetti solo tra le parti del consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di tale ripartizione violi l’interesse pubblico al corretto sviluppo urbanistico della città che il Comune persegue con il rilascio dei titoli edilizi (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 11.03.2019 n. 519 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La funzione e le modalità di rilascio del certificato di abitabilità sono regolate dall’art. 24 del D.P.R. 380/2001 secondo cui detto certificato accerta “La sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato…”.
Secondo la norma citata ed il successivo art. 25 la certificazione avviene attraverso la segnalazione certificata di inizio di attività asseverata e documentata dai competenti professionisti.
Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono perciò collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, essendo stato sottolineato che i diversi piani possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza.
E’ dunque paradossalmente possibile che un edificio sia eseguito in difformità dal titolo edilizio rilasciato ma rispetti le norme di igiene, sicurezza e contenimento del consumo energetico indicate dall’art. 24 seguendone che, in tale ipotesi, l'edificio è agibile (e quindi può essere rilasciato il certificato di agibilità), ma difforme dal progetto approvato e quindi sanzionabile dal punto di vista urbanistico-edilizio.
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1. Viene impugnata la nota in epigrafe con cui il Comune di Pisa ha dichiarato l’inefficacia della SCIA n. 108 del 15.01.2013 presentata dalla parte ricorrente per la ristrutturazione e cambio d'uso da magazzino a civile abitazione di una porzione di immobile sito in località Tirrenia, via ... n. 77.
Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
2. Assume la ricorrente, richiamando giurisprudenza anche di questo TAR, che le unità immobiliari in questione possiedono una destinazione abitativa sin dal 1957 e tale destinazione risulterebbe legittimata dal certificato di abitabilità rilasciato lo stesso anno. Ebbene tale licenza, ove si esprima anche in merito alla conformità del titolo edilizio rilasciato, avrebbe piena validità in ordine alla legittimazione edilizia e urbanistica della destinazione con essa certificata.
La tesi, per quanto sorretta da una parte minoritaria della giurisprudenza, non appare condivisibile.
Come rilevato dalla difesa del Comune, la funzione e le modalità di rilascio del certificato di abitabilità sono regolate dall’art. 24 del D.P.R. 380/2001 secondo cui detto certificato accerta “La sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la conformità dell'opera al progetto presentato…”.
Secondo la norma citata ed il successivo art. 25 la certificazione avviene attraverso la segnalazione certificata di inizio di attività asseverata e documentata dai competenti professionisti.
Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono perciò collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili, dato che il certificato di agibilità ha la funzione di accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio energetico degli edifici e degli impianti, mentre il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto della specifica funzione del titolo edilizio, essendo stato sottolineato che i diversi piani possano convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe le tipologie normative sia in quella patologica di una loro divergenza (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2018, n. 3212 id., sez. IV, 24.10.2012 n. 5450; id, sez. V, 30.04.2009 n. 2760).
E’ dunque paradossalmente possibile che un edificio sia eseguito in difformità dal titolo edilizio rilasciato ma rispetti le norme di igiene, sicurezza e contenimento del consumo energetico indicate dall’art. 24 seguendone che, in tale ipotesi, l'edificio è agibile (e quindi può essere rilasciato il certificato di agibilità), ma difforme dal progetto approvato e quindi sanzionabile dal punto di vista urbanistico-edilizio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I dati catastali per le qualificazioni e valutazioni di ordine urbanistico-edilizio non possono ritenersi fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia.
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2.1. Né, ai fini di cui trattasi può attribuirsi rilievo al classamento catastale o all’affidamento ingeneratosi per effetto del decorso del tempo
Quanto al primo profilo vale rilevare che i dati catastali per le qualificazioni e valutazioni di ordine urbanistico-edilizio non possono ritenersi fonte di prova certa sulla situazione di fatto esistente sul piano immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini, senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero valore indiziario, per evidenziare la reale consistenza degli immobili interessati e la relativa conformità alla disciplina urbanistico-edilizia (in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2015, n. 631; 04.02.2013, n. 666; Sez. V, 29.03.2004, n. 1631, TAR Puglia, Lecce, sez. III, 13/08/2015, n. 2615) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di abusi edilizi non sussiste in capo all’amministrazione l’onere di motivare in maniera specifica la sanzione ripristinatoria mentre deve escludersi che trovi tutela l’affidamento del privato sulla legittimità dell'opera realizzata, fondata sul mero decorso del tempo accompagnato dall'inerzia dell'amministrazione sino a quel momento.
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2.1. Né, ai fini di cui trattasi può attribuirsi rilievo al classamento catastale o all’affidamento ingeneratosi per effetto del decorso del tempo
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In ordine al secondo aspetto è noto che la giurisprudenza è ormai consolidata nel ritenere che in materia di abusi edilizi non sussiste in capo all’amministrazione l’onere di motivare in maniera specifica la sanzione ripristinatoria mentre deve escludersi che trovi tutela l’affidamento del privato sulla legittimità dell'opera realizzata, fondata sul mero decorso del tempo accompagnato dall'inerzia dell'amministrazione sino a quel momento (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 26/03/2018, n. 1893, id. sez. VI, 03/10/2017, n. 4580; TAR Emilia Romagna, Parma 10/05/2017, n. 154) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione su quanti ne beneficiano, con la conseguenza che, nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto per il pagamento della differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione.
Non ha dunque rilievo la circostanza che tale mutamento abbia natura temporanea, purché non si versi nell’ipotesi di un utilizzo meramente occasionale.
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Come è pacifico il carico urbanistico viene misurato in astratto con riferimento al rispetto degli standard in funzione delle diverse categorie urbanistiche, la cui variazione, sia essa causata dal mutamento di destinazione d’uso o dall'aumento di unità immobiliari o della volumetria impegnata, va ad incidere sull’equilibrio della programmazione urbanistica.
Infatti, ai sensi dell'art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico, senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto.
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3.2. Lamenta, altresì, la ricorrente che, contrariamente all’assunto di controparte, il cambio di destinazione d'uso potrebbe assumere rilevanza urbanistica solo se detto mutamento sia definitivo e consolidato, non essendo sufficiente a configurare la fattispecie un cambiamento momentaneo e transitorio.
In realtà, come rilevato dal Comune, l'immobile in questione risulta essere stato stabilmente destinato a fini commerciali già in epoca precedente all'accertamento e tale destinazione persiste tuttora.
In ogni caso il fondamento del contributo di urbanizzazione non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità di ridistribuire i costi sociali delle opere di urbanizzazione su quanti ne beneficiano, con la conseguenza che, nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il presupposto per il pagamento della differenza tra gli oneri dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione (TAR Toscana, sez. III, 27/02/2018, n. 309, Cons. Stato, sez. V, 30.08.2013, n. 4326).
Non ha dunque rilievo la circostanza che tale mutamento abbia natura temporanea (presupposto, peraltro, indimostrato), purché non si versi nell’ipotesi di un utilizzo meramente occasionale che nella fattispecie non appare ricorrere (TAR Lazio, sez. I, 01/12/2005, n. 12734).
4. Con il terzo motivo la ricorrente contesta che con il mutamento di destinazione si sarebbe verificato un aumento di carico urbanistico, presupposto ineliminabile perché sorga l'obbligo contributivo in parola.
La censura non ha pregio.
Come è pacifico il carico urbanistico viene misurato in astratto con riferimento al rispetto degli standard in funzione delle diverse categorie urbanistiche, la cui variazione, sia essa causata dal mutamento di destinazione d’uso o dall'aumento di unità immobiliari o della volumetria impegnata, va ad incidere sull’equilibrio della programmazione urbanistica.
Infatti, ai sensi dell'art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e automatica, sul carico urbanistico, senza necessità di ulteriori accertamenti in concreto (TAR Campania, Napoli Sez. II, 15.10.2018, n. 5964; Cass. pen., Sez. III, 22.09.2017 n. 5770; Cons. Stato, Sez. VI, 13.05.2016 n. 1951; id., Sez. IV, 26.02.2015 n. 974) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.03.2019 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il mancato godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità”.
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve, quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro.
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La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di pronunciarsi anche sulla portata del divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole.
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell’affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia.
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Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione giuridica sottoposta all’attenzione del Collegio verte su un unico punto. Si tratta di comprendere se sia dovuta la monetizzazione del periodo di ferie non goduto nel caso in cui il mancato godimento sia dipeso da assenza continuativa del dipendente dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la correttezza del diniego opposto affermando di avere liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente, facendo corretta applicazione della disciplina di riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995, n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e dell’art. 11 d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti, l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno 11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di una lettura costituzionalmente orientata, collide con il principio della indisponibilità del diritto alle ferie sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato ininterrottamente la propria opera nel periodo di riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità, rinviene il proprio fondamento giuridico tanto nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale, attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa che preveda la relativa indennità, discende direttamente dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese, non essendo logico far discendere da una violazione imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata; analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state fruite per cessazione dal servizio per infermità” (Consiglio di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve, quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia, Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar Sardegna 13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro, sez. II, 03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV, 24.02.2009 n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di pronunciarsi anche sulla portata del divieto di monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l. 06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo, sicché la norma in parola va interpretata come diretta a reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per incentivare una razionale programmazione del periodo feriale e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017, n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza del giudice del lavoro è costante nell’affermare che in tema di pubblico impiego e monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve essere interpretato nel senso che il divieto di monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis, Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e 2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna, sentenza 08.03.2019 n. 211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione della nullità, prevista dall'art. 40 della legge 28.02.1985, n. 47 con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria, trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita, come si desume dal tenore letterale della norma, nonché dalla circostanza che successivamente al contratto preliminare può intervenire la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al 01.09.1967, con la conseguenza che in queste ipotesi rimane esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita, ovvero si può far luogo alla pronunzia di sentenza ex art. 2932 cod. civ..
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Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1418 c.c., dell'art. 15, co. 7, L. 10/1977, degli artt. 17 e 40 l. 47/1985 in riferimento all'art. 360, n. 3 c.p.c. per avere la Corte territoriale sussunto la vicenda in esame nell'alveo degli artt. 17 e 40 l. 47/1985 anziché in quello dell'art. 15, co. 7, l. 10/1977.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha infatti affermato la nullità del contratto preliminare per violazione degli artt. 17 e 40 l. 47/1985, rilevando che il fabbricato in oggetto risultava edificato in assenza di concessione edilizia e per di più in violazione dello strumento urbanistico vigente. Il giudice di appello ha al riguardo affermato di aderire all'orientamento secondo cui la nullità per violazione dell'art. 40 l. 47/1985, sebbene riferita agli atti di trasferimento ad efficacia reale, si estendesse al contratto preliminare.
Tale statuizione non è conforme a diritto.
A monte della questione, sulla quale questa sezione con l'ordinanza n. 20061 del 31.07.2018 ha chiesto al Primo Presidente l'eventuale assegnazione del relativo ricorso alle sezioni unite, circa la natura della nullità per violazione degli artt. 17 e 40 l. 47/1985 (ora art. 46 dpr 380/2001) -vale a dire se si tratti di nullità sostanziale (o virtuale) in relazione all'art. 1418 comma 1, ovvero di nullità testuale, riconducibile alla violazione dell'art. 1418 u.c.- il più recente indirizzo di questa Corte esclude l'applicabilità della  nullità suddetta ai preliminari ed ai contratti obbligatori in genere.
L'orientamento alla base dell'estensione della nullità ex artt. 17 e 40 legge 47/1985 ai contratti preliminari, espresso nelle sentenze n. 23591/2013 e 28194/2013 di questa Corte, non ha trovato seguito nella successiva giurisprudenza di legittimità (salvo che nella sentenza n. 18621/2015) mentre l'esclusione dei contratti obbligatori dall'ambito di operatività della nullità ex art. 40 l. 47/1985, costantemente affermata nella giurisprudenza di legittimità anteriore alle citate sentenze -n. 23591/2013 e 28194/2013- è stata ribadita nelle sentenze di questa Corte n. 28456/2013, 9318/16, 21942/2017 e 11659/18.
A tale indirizzo questo Collegio ritiene di uniformarsi.
Deve dunque affermarsi che la sanzione della nullità, prevista dall'art. 40 della legge 28.02.1985, n. 47 con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili privi della necessaria concessione edificatoria, trova applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria, quale il preliminare di vendita, come si desume dal tenore letterale della norma, nonché dalla circostanza che successivamente al contratto preliminare può intervenire la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al 01.09.1967, con la conseguenza che in queste ipotesi rimane esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita, ovvero si può far luogo alla pronunzia di sentenza ex art. 2932 cod. civ. (Cass. 28456/2013; Cass. 15734 del 2011) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 07.03.2019 n. 6685).
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Al riguardo si legga anche:
  
G. D. Nuzzo, La nullità per l'immobile privo di titolo edilizio non si applica al preliminare di vendita La nullità per violazione dell'art. 40, L. n. 47/1985 è riferita agli atti di trasferimento ad efficacia reale (15.03.2019 - link a www.condominioweb.com).

COMPETENZE GESTIONALI: Sindaco: sottoscrizione di un atto gestionale.
La più recente giurisprudenza ha affermato che, ai sensi dell'art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7, d.lgs. 31.03.1998 n. 114 –il quale individua nel sindaco l’autorità competente per le violazioni indicate da quella norma– deve essere interpretato nel senso che spetta al dirigente, e non al sindaco, la competenza a disporre la decadenza e la revoca dell'autorizzazione all'esercizio di attività commerciale, ovvero la chiusura immediata ai sensi del comma 6 della medesima norma.
Né può rivestire alcun rilievo la sottoscrizione apposta anche dal dirigente nella parte sinistra del provvedimento, in quanto tale sottoscrizione è solo indicativa della provenienza dell'atto da parte dell'ufficio competente alla sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente, essendo inequivocabile la natura di ordinanza sindacale del provvedimento in questione.
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Deve premettersi che il fabbricato ove insiste l’attività commerciale succitata è stato edificato in virtù di licenza edilizia del 1955, rilasciata dal sindaco di Napoli a condizione, tra l’altro, che i locali cantinati, incluso quello attualmente condotto in locazione dalla società ricorrente, non fossero adibiti ad autorimessa o a deposito di materiali comunque infiammabili; malgrado tale tassativa prescrizione, l’unità immobiliare di cui la Gi. 3 è conduttrice è stata, dall’epoca della sua realizzazione e fino al 2005, adibita ad autorimessa.
Il fabbricato ricade nella sottozona “Bb” di espansione recente del P.R.G. del comune di Napoli, nella quale sono ammessi, ex art. 33, commi 2 e 4, delle N.T.A. allegate alla variante generale al P.R.G. approvata con D.P.G.R.C. n. 323 dell’11.06.2004, interventi fino alla ristrutturazione edilizia a parità di volume e destinazioni d’uso “di cui alle lettere a), c) e d) dell’articolo 21” (tra le quali rientrano, ai sensi della predetta lettera a), le “abitazioni ordinarie, specialistiche e collettive”, le “attività artigianali e commerciali al minuto per beni di prima necessità; altre destinazioni non specificamente residenziali, ma strettamente connesse con la residenza quali servizi collettivi per le abitazioni, studi professionali, eccetera”).
Tanto premesso, l’appello non merita accoglimento.
Ed invero, riguardo al ricorso principale, il Tar ha accolto il motivo dell’incompetenza del sindaco ad adottare l’ordinanza, in quanto: “ai sensi dell'art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7, d.lgs. 31.03.1998, n. 114 -il quale individua nel sindaco l'autorità competente per le violazioni indicate da quella norma- deve essere interpretato, anche secondo una lettura costituzionalmente orientata, nel senso che spetta al dirigente, e non al sindaco, la competenza a disporre la decadenza e la revoca dell'autorizzazione all'esercizio di attività commerciale, ovvero la chiusura immediata ai sensi del comma 6 della medesima norma (cfr. in questo senso, ex multis, Tar Lazio, Roma, Sez. II, 19.08.2004, n. 7790).
Né, nel caso concreto, conduce a diverse conclusioni il fatto che il provvedimento in questione sia stato sottoscritto, in calce nella parte sinistra, anche dal Dirigente comunale.
Ed infatti, il provvedimento impugnato è inequivocabilmente un'ordinanza sindacale, come emerge dalla sua intestazione (“Il Sindaco”) e dalla sottoscrizione, per il Sindaco, dell’Assessore al Commercio; nel mentre, la firma del dirigente apposta sulla sinistra dell’ordinanza è solo indicativa della provenienza dell'atto da parte dell'ufficio competente alla sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente (cfr., per un caso analogo, CdS, Sez. V, 05.07.2005, n. 3692)
”.
Tale interpretazione è totalmente da condividere.
Va, infatti, posto in evidenza che la più recente giurisprudenza ha affermato che, ai sensi dell'art. 107, comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7, d.lgs. 31.03.1998 n. 114 –il quale individua nel sindaco l’autorità competente per le violazioni indicate da quella norma– deve essere interpretato nel senso che spetta al dirigente, e non al sindaco, la competenza a disporre la decadenza e la revoca dell'autorizzazione all'esercizio di attività commerciale, ovvero la chiusura immediata ai sensi del comma 6 della medesima norma (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.05.2004, n. 3143).
Né può rivestire alcun rilievo la sottoscrizione apposta anche dal dirigente nella parte sinistra del provvedimento, in quanto, come correttamente statuito dal giudice di primo grado, tale sottoscrizione è solo indicativa della provenienza dell'atto da parte dell'ufficio competente alla sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente, essendo inequivocabile la natura di ordinanza sindacale del provvedimento in questione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.03.2019 n. 1566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Diritto di prelazione previsto in favore del promotore ex art. 183, comma 15, del codice dei contratti pubblici.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Finanza di progetto – Promotore finanziario – Aggiudicazione – Diritto di prelazione ex art. 183, d.lgs. n. 50 del 2016 – Conseguenza.
L’esercizio del diritto di prelazione nelle forme previste dal comma 15 dell’art. 183, d.lgs. n. 50 del 2016 fa nascere in capo all’amministrazione aggiudicatrice il mero obbligo di aggiudicare la gara al promotore, senza dunque generare alcun subentro automatico in un diritto da disporre o già acquisito da un terzo (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il diritto di prelazione attribuito dal codice dei contratti pubblici al promotore ha connotazioni decisamente peculiari rispetto agli altri casi di prelazione legale, connotazioni non compatibili automaticamente con la disciplina generale evincibile in materia.
Innanzitutto, si tratta di un diritto di prelazione che ha come oggetto una posizione di primato nell’ambito di una graduatoria pubblica di cui fanno previamente parte sia prelazionario che terzo, e non il subentro automatico in un diritto che il concedente ha intenzione di trasferire ad un terzo estraneo all’obbligo legale, o che addirittura, come nel caso della prelazione artistica, è già stato alienato.
In secondo luogo, l’istituto della denuntiatio è sostituito de plano dalla ordinaria comunicazione dell’aggiudicazione della gara e l’unica formalità prevista a carico del prelazionario è la dichiarazione, entro il termine di quindici giorni dalla suddetta comunicazione, di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall'aggiudicatario, mentre il pagamento, a carico del promotore, dell'importo delle spese sostenute dal terzo per la predisposizione dell'offerta è previsto dalla legge come obbligazione da adempiere successivamente all’esercizio del diritto di prelazione, senza la previsione di alcun termine di decadenza.
Da queste semplici annotazioni, e al di là delle stringate previsioni di legge, derivano due conseguenze logico-giuridiche.
Da un lato, l’esercizio del diritto di prelazione nelle forme previste dal comma 15 dell’art. 183, d.lgs. n. 50 del 2016 fa nascere in capo all’amministrazione aggiudicatrice il mero obbligo di aggiudicare la gara al promotore, senza dunque generare alcun subentro automatico in un diritto da disporre o già acquisito da un terzo; dall’altro, il previo espletamento di una gara pubblica -in cui, tra l’altro, il diritto di prelazione legale del promotore è stato ribadito dal bando-, e la conclusione di tale gara con l’aggiudicazione provvisoria al terzo, in qualità di concorrente vincitore, esclude che la notificazione a costui del successivo esercizio del diritto di prelazione debba costituire un presupposto necessario per il perfezionamento di tale diritto.
In particolare, ostano ad una ricostruzione diversa del sistema due argomenti, uno di natura letterale e l’altro di natura sostanziale.
Invero, da un lato, l’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del 2016 non ha espressamente previsto la necessità della notificazione dell’esercizio del diritto di prelazione anche al terzo, come invece disposto dall’art. 61, d.lgs. n. 42 del 2004 in caso di prelazione artistica; dall’altro, nel caso di specie, l’esercizio del diritto di prelazione è inserito all’interno di una fase in cui la procedura ad evidenza pubblica non si è ancora conclusa e ha ad oggetto il mero subentro in un’aggiudicazione e non nel diritto all’esecuzione dei lavori.
Tale diritto nascerà soltanto a seguito del contratto stipulato tra affidatario ed amministrazione aggiudicatrice, e sempre che la stazione appaltante non ravvisi ostative e sopravvenute ragioni di interesse pubblico, l’illegalità della procedura espletata o il mancato rispetto, da parte del promotore, delle forme previste per l’esercizio del diritto di prelazione.
Il termine di decadenza è stato dunque previsto in diretto collegamento con il proseguimento della procedura ad evidenza pubblica e non con l’espropriazione, nei confronti del terzo, di un diritto già acquisito.
Da ciò derivano due conseguenze di natura processuale.
Per un verso, il Giudice amministrativo è fornito, nel caso di specie, di giurisdizione.
La società ricorrente ha infatti censurato un comportamento illegittimo della stazione appaltante, consistito nell’avere reso edotto l’aggiudicatario provvisorio dell’avvenuto esercizio del diritto di prelazione, senza previamente accertare l’intervenuta decadenza in cui sarebbe incorso il promotore; i motivi svolti e la domanda proposta rientrano a pieno titolo nell’oggetto di una delle controversie “relative a procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale”, di cui all’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a..
Si tratta di giurisdizione esclusiva, che ricomprende al suo interno, per consolidato orientamento giurisprudenziale, qualunque controversia, sia essa afferente a diritti soggettivi, sia essa afferente ad interessi legittimi, che insorga nell’ambito di una gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, servizi o forniture, cui si applichino regole di derivazione euro-unitaria, dall’indizione della gara stessa fino alla stipulazione del contratto di diritto privato tra le parti (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 06.03.2019 n. 58 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, l’approvazione del piano di lottizzazione non è un atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di discrezionalità valutativa dell’autorità comunale, nell’ambito dei poteri di scelta di politica urbanistica alla stessa demandati.
Ne consegue, quale diretto ed immediato corollario, che “"le scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento urbanistico […] non necessitano di specifica motivazione”, tranne in “casi specifici, tra i quali sono da annoverare la presenza di accordi con l'ente aventi ad oggetto convenzioni di lottizzazioni, implicante la lesione di un interesse qualificato del privato derivante da convenzione di lottizzazione approvata” del tutto estranei alla fattispecie posta all’esame del Collegio".
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La censura tesa a stigmatizzare l’asserita frustrazione delle garanzie partecipative endo-procedimentali di cui agli artt. 7 e 10-bis L. n. 241/1990 non coglie nel segno.
Ciò in quanto, l'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti di pianificazione -tra cui rientrano anche le delibere di approvazione dei piani di lottizzazione, equiparati, quanto a natura giuridica, agli atti di pianificazione urbanistica attuativi redatti dalla Pubblica Amministrazione- è espressamente sottratta, giusta il disposto di cui all’art. 13 l. n. 241/1990, all’applicazione delle norme di carattere generale dettate dal capo III della medesima legge in tema di “partecipazione al procedimento amministrativo”, ferme restando le disposizioni particolari che ne regolano la formazione.
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7. Passando al merito della vicenda contenziosa, il primo gruppo di censure, teso a contestare il deficit motivazionale in cui sarebbe incorso il Consiglio Comunale nel rigettare l’approvazione del piano di lottizzazione proposto dal ricorrente, non incontra il positivo apprezzamento del Collegio.
Ed invero, in base ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Tribunale non ha motivo di discostarsi, l’approvazione del piano di lottizzazione non è un atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di discrezionalità valutativa dell’autorità comunale, nell’ambito dei poteri di scelta di politica urbanistica alla stessa demandati (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, n. 1337/2017).
Ne consegue, quale diretto ed immediato corollario, che “"le scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento urbanistico […] non necessitano di specifica motivazione”, tranne in “casi specifici, tra i quali sono da annoverare la presenza di accordi con l'ente aventi ad oggetto convenzioni di lottizzazioni, implicante la lesione di un interesse qualificato del privato derivante da convenzione di lottizzazione approvata” del tutto estranei alla fattispecie posta all’esame del Collegio (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 03/12/2018, n. 2718; sez. II, 08/10/2018, n. 2228; ex multis, TAR Toscana, sez. I, 24.06.2009, n. 1091; Cons. di Stato sez. IV, n. 2453 del 14.05.2015; TAR Abruzzo-L'Aquila n. 435 del 04.06.2015; TAR Friuli Venezia-Giulia n. 488 del 07.10.2014; TAR Piemonte n. 1524 del 30.10.2015; TAR Sicilia-Palermo n. 1667 dell'08.07.2015)".
8. Anche il secondo gruppo di censure, teso a stigmatizzare l’asserita frustrazione delle garanzie partecipative endo-procedimentali di cui agli artt. 7 e 10-bis L. n. 241/1990, non coglie nel segno.
Ciò in quanto, l'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti di pianificazione -tra cui rientrano anche le delibere di approvazione dei piani di lottizzazione, equiparati, quanto a natura giuridica, agli atti di pianificazione urbanistica attuativi redatti dalla Pubblica Amministrazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV, 26/11/2018, n. 2659)- è espressamente sottratta, giusta il disposto di cui all’art. 13 l. n. 241/1990, all’applicazione delle norme di carattere generale dettate dal capo III della medesima legge in tema di “partecipazione al procedimento amministrativo”, ferme restando le disposizioni particolari che ne regolano la formazione.
9. In conclusione il ricorso è infondato e, come tale, deve essere rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 434 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 23-ter del DPR 380/2001 stabilisce che “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale.”
Si configura pertanto un mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante solo quando l’immobile viene utilizzato in forma diversa da quella originaria, benché in assenza di esecuzione di opere edilizie, ma con assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle contemplate dal legislatore.
Quando, invece, il mutamento di destinazione d’uso si consuma all’interno di un’unica categoria funzionale, quale nel caso è quella commerciale, trattandosi di mutamento di categoria omogeneo, ad esso non può accompagnarsi alcun onere economico per il privato perché l’operazione perde il suo connotato di mutamento di destinazione urbanisticamente rilevante, ossia implicante un diverso carico urbanistico per l’amministrazione.
La conclusione è confermata anche dall’art. 23-ter, comma 3, ultimo periodo, in forza del quale “salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.
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La facoltà riservata dall’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001 alla Regione di introdurre una disciplina differenziata del mutamento di destinazione d’uso rilevante rispetto alle previsioni del legislatore nazionale, non trova applicazione nel caso di specie.
Deve, infatti, ritenersi che, nella Regione Puglia, difetti una disciplina di questa natura non essendo sovrapponibili le previsioni contenute nel già esaminato art. 32 Legge Reg. 6/1979, che si limita a disciplinare operazioni assai più limitate dal punto di vista urbanistico, a quelle dell’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001, aventi specifico rilievo sotto il profilo del carico urbanistico che ne deriva.
Per questa ragione, erra il Comune nel considerare che la fattispecie concreta possa essere regolata dalla legislazione regionale sopra citata, atteso che manca il requisito indispensabile della perfetta sovrapposizione tra normativa nazionale e disciplina regionale, in presenza del quale può farsi spazio alla sfera di competenza dell’Autonomia territoriale.
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... per l'annullamento del provvedimento a firma del Direttore dell’Area Tecnica Serv. Urbanistica del Comune di Gioia del Colle prot. n. 26264 del 28.09.2016, successivamente conosciuto, avente ad oggetto: “Pratica edilizia n. 110/2016. Richiesta pagamento contributo di costruzione relativa a richiesta di permesso di costruire per la realizzazione di un cambio di destinazione da uso residenziale, deposito e autorimessa del locale sito in ... n. 82, ang. Via ..., zona A2 di prg.”;
...
Il ricorrente assume di essere proprietario di una unità immobiliare sita in Gioia del Colle, alla via ... n. 82, angolo via ... n. 1 e Via ... n. 44, composta da tre piccoli locali a piano terra intercomunicanti tra di loro.
I locali in questione costituiscono parte di un immobile di modeste dimensioni, composto da piano terra e primo piano, edificato antecedentemente al 1942 e realizzato in una zona dell’abitato a ridosso del centro storico (A2 di P.R.G.).
I locali sono stati adibiti ad attività commerciale da lunga data avendo ospitato nel tempo, rispettivamente, una tipografia, una merceria ed altre attività commerciali.
Negli ultimi anni, secondo la prospettazione del ricorrente, e cioè a partire dal 1997 ad oggi, i locali medesimi sono stati utilizzati dall’attuale conduttore per l’esercizio di un pub-birreria, in forza di un contratto regolarmente registrato, e sulla base di autorizzazioni amministrative rilasciate, a vario titolo, dal Comune di Gioia del Colle.
Sta di fatto che, in occasione di una verifica per la cessione dell’attività esercitata all’interno dei vani in esame, è emersa la mancanza di destinazione ad uso commerciale, il che ha impedito la prosecuzione dell’attività fino a quel momento esercitata.
Il ricorrente, a questo punto, ha inoltrato, in data 10.06.2016, richiesta di permesso di costruire per mutamento di destinazione d’uso senza opere accompagnata da relazione tecnica asseverata che illustrava lo stato dei luoghi e la natura dell’intervento.
L’Amministrazione comunale di Gioia del Colle, con provvedimento del 28.09.2016 prot. n. 2624, ha richiesto al ricorrente, ai fini del rilascio del titolo edilizio in sanatoria sopra ricordato, il pagamento della complessiva somma di € 9.505,06, a titolo di oneri di urbanizzazione primaria, oneri di urbanizzazione secondaria, contributo commisurato al costo di costruzione oltre diritti di segreteria.
Il ricorrente ha, però, contestato la legittimità del provvedimento recante la richiesta delle somme sopra citate e ne ha chiesto il riesame da parte dell’ente civico.
L’amministrazione comunale ha, tuttavia, confermato la determinazione precedentemente assunta.
Di qui la presente iniziativa giurisdizionale del ricorrente che mira ad ottenere l’annullamento della nota comunale emanata in sede di riesame della richiesta di somme e della presupposta nota del 28.09.2016 alla luce dei seguenti motivi di censura:
   1) violazione di legge: artt. 16 e 19 D.p.r. 380/2001; art. 3 legge 10/1977; art. 6 legge 1150/1942. Difetto di istruttoria;
   2) violazione e falsa applicazione art. 31, primo comma, L.R. Puglia n. 6 del 12.02.1979. Violazione e falsa applicazione art. 23-ter D.p.r. 380/2001. Travisamento dei fatti e sviamento. Difetto di istruttoria;
   3) violazione del principio di tassatività ed eccesso di potere in relazione all’asserito assoggettamento ad oneri di urbanizzazione ed a contributo di costruzione, in relazione a mutamento di destinazione d’uso senza opere; violazione e falsa applicazione della deliberazione del Commissario Straordinario del Comune di Gioia del Colle n. 30 del 21/03/2012;
   4) violazione art. 3 della legge 241/1990. Eccesso di potere per difetto di motivazione ed istruttoria; omessa ed erronea considerazione dei presupposti; travisamento dei fatti.
...
Il ricorso è fondato con particolare riguardo al motivo di censura relativo alla violazione e falsa applicazione dell’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001.
Ed invero, l’amministrazione comunale di Gioia del Colle ha, in un primo tempo, immotivatamente chiesto al ricorrente il pagamento del contributo di costruzione in merito alla istanza volta a conseguire il permesso di costruire per la realizzazione di un cambio di destinazione da uso residenziale, deposito e autorimessa ad uso commerciale del locale sito in Via ... n. 82 ang. Via ..., zona A2 di prg (si veda la nota del 28.09.2016 impugnata dal ricorrente).
Successivamente, dopo la richiesta di annullamento in autotutela di provvedimento illegittimo, posta dal ricorrente all’attenzione del dirigente dell’Area tecnica-Servizio Urbanistica del comune di Gioia del Colle, la stessa amministrazione locale si è limitata a richiamare la disciplina posta dall’art. 23-ter del T.U. in materia edilizia di cui al D.p.r. 380/2001 senza trarne le dovute conseguenze in ragione della caratteristica dei locali del ricorrente da destinare ad uso commerciale.
Risulta, infatti, dall’esame della richiesta di permesso di costruire formulata dal ricorrente che ben due dei tre locali appartenevano già a categoria commerciale, tali dovendo considerarsi gli immobili censiti al foglio 61, particella 141, sub 2 e 3, aventi classificazione C6, e C2 in quanto destinati rispettivamente a deposito e ad autorimessa.
Solo il locale sub 4, con accesso da Via ... n. 82 avente destinazione residenziale A4, della superficie netta di mq. 26 “...diventerà a destinazione commerciale”, come acclarato con la relazione tecnica asseverata a corredo della richiesta di permesso di costruire del ricorrente.
E, ritiene il Collegio, solo quest’ultimo locale può essere assoggettato legittimamente al pagamento del contributo del costo di costruzione, in base ad una corretta lettura dell’art. 23-ter del decreto sopra richiamato.
La norma in questione stabilisce che “Salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate:
a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale
.”
Si configura pertanto un mutamento di destinazione d’uso urbanisticamente rilevante solo quando l’immobile viene utilizzato in forma diversa da quella originaria, benché in assenza di esecuzione di opere edilizie, ma con assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa categoria funzionale tra quelle contemplate dal legislatore.
Quando, invece, il mutamento di destinazione d’uso si consuma all’interno di un’unica categoria funzionale, quale nel caso è quella commerciale, trattandosi di mutamento di categoria omogeneo, ad esso non può accompagnarsi alcun onere economico per il privato perché l’operazione perde il suo connotato di mutamento di destinazione urbanisticamente rilevante, ossia implicante un diverso carico urbanistico per l’amministrazione.
La conclusione è confermata anche dall’art. 23-ter, comma 3, ultimo periodo, in forza del quale “salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito”.
Le cose non cambiano se si volge lo sguardo alla legislazione regionale varata in Puglia e richiamata nel provvedimento contestato a fini di integrazione della disciplina urbanistica.
L’art. 32 della Legge Reg. Puglia n. 6/1979 prevede infatti che “Qualora la destinazione d'uso delle opere o impianti destinati alla residenza di cui all'art. 10 della legge 28.01.1977, n. 10, nonché di quelle zone agricole previste nell'art. 9 della medesima legge, così come precisato nell'art. 9 della presente legge venga comunque modificata nei 10 (dieci) anni successivi all'ultimazione dei lavori, il contributo per la concessione è dovuto nella misura massima corrispondente alla nuova destinazione, determinato con riferimento al momento della intervenuta variazione.
In tutti gli altri casi nei quali venga modificata la destinazione d'uso, che non siano quelli previsti nel comma precedente, il contributo per la concessione è pari alla differenza tra le misure corrispondenti alla nuova destinazione e alla vecchia, calcolate distintamente per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria
.”
Osserva, il Collegio, che la facoltà riservata dall’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001 alla Regione di introdurre una disciplina differenziata del mutamento di destinazione d’uso rilevante rispetto alle previsioni del legislatore nazionale, non trova applicazione nel caso di specie.
Deve, infatti, ritenersi che, nella Regione Puglia, difetti una disciplina di questa natura non essendo sovrapponibili le previsioni contenute nel già esaminato art. 32 Legge Reg. 6/1979, che si limita a disciplinare operazioni assai più limitate dal punto di vista urbanistico, a quelle dell’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001, aventi specifico rilievo sotto il profilo del carico urbanistico che ne deriva.
Per questa ragione, erra il Comune di Gioia del Colle nel considerare che la fattispecie concreta possa essere regolata dalla legislazione regionale sopra citata, atteso che manca il requisito indispensabile della perfetta sovrapposizione tra normativa nazionale e disciplina regionale, in presenza del quale può farsi spazio alla sfera di competenza dell’Autonomia territoriale.
In conclusione, i provvedimenti impugnati vanno annullati nella parte in cui l’Amministrazione comunale ha preteso oneri economici relativamente al mutamento di destinazione d’uso di unità immobiliari, quelle sub 2 e 3 della richiesta del ricorrente, destinate a essere utilizzate all’interno della medesima categoria funzionale di appartenenza originaria, cioè quella commerciale (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 05.03.2019 n. 353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Pur dovendosi ribadire l’orientamento della Sezione alla stregua del quale il criterio della c.d. vicinitas non è sufficiente a fondare l’interesse a ricorrere, essendo necessaria la prova di un pregiudizio concreto ed attuale alla posizione del ricorrente derivante dall’assetto edilizio scaturente dai provvedimenti impugnati, nel caso di specie, l’interesse è rinvenibile nella lesione delle prerogative proprietarie derivanti dalle prospettate plurime violazioni della disciplina delle distanze tra edifici, che impinge ad una diretta lesione delle facoltà proprietarie nei rapporti di vicinato.
In tali ipotesi, infatti, anche l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo, ritiene non necessaria un’ulteriore prova dell’interesse ad agire.
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1.1 Non è fondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse, formulata dal controinteressato.
Pur dovendosi ribadire l’orientamento della Sezione alla stregua del quale il criterio della c.d. vicinitas non è sufficiente a fondare l’interesse a ricorrere, essendo necessaria la prova di un pregiudizio concreto ed attuale alla posizione del ricorrente derivante dall’assetto edilizio scaturente dai provvedimenti impugnati (Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081; Tar Veneto, Sez. II, 15.02.2018, n. 324, Tar Campania, Salerno, Sez. I, 18.04.2018, nr. 755, Consiglio di Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5442), nel caso di specie, l’interesse è rinvenibile nella lesione delle prerogative proprietarie derivanti dalle prospettate plurime violazioni della disciplina delle distanze tra edifici, che impinge ad una diretta lesione delle facoltà proprietarie nei rapporti di vicinato.
In tali ipotesi, infatti, anche l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo, ritiene non necessaria un’ulteriore prova dell’interesse ad agire (Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio in sanatoria, decorre per il terzo interessato dalla data in cui costui abbia avuto conoscenza del rilascio del titolo, mentre appare ingiustificatamente restrittiva dell’effettività della tutela giurisdizionale la tesi che, per i titoli in sanatoria, fa decorrere il termine di impugnazione dei terzi dalla data di pubblicazione del provvedimento all’Albo pretorio del Comune.
Se tale soluzione si giustifica, in un’ottica di certezza dei rapporti giuridici, nei casi in cui il terzo, pur essendo in condizione di conoscere l’esistenza delle opere abusive, si sia astenuto ingiustificatamente da ogni forma di reazione (con esposti, denunce, istanze di accesso agli atti…), lo stesso non può affermarsi nei casi  in cui il ricorrente si sia attivato tempestivamente per segnalare al Comune l’esistenza di opere potenzialmente abusive e ciononostante l’Amministrazione non abbia ritenuto di informare l’istante della pendenza del procedimento di sanatoria.
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1.4 Non è fondata l’eccezione di irricevibilità dei motivi di impugnazione –formulati nel ricorso per motivi aggiunti– relativi al permesso di costruire in sanatoria n. 102 del 12/5/2008, pubblicato in pari data all’Albo pretorio del Comune di Malcesine.
Nel caso in esame, deve farsi applicazione del principio, recentemente ribadito dal Giudice d’appello, secondo il quale il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio in sanatoria, decorre per il terzo interessato dalla data in cui costui abbia avuto conoscenza del rilascio del titolo (cfr. Consiglio di Stato sez. VI - 10/09/2018, n. 5307), mentre appare ingiustificatamente restrittiva dell’effettività della tutela giurisdizionale la tesi che, per i titoli in sanatoria, fa decorrere il termine di impugnazione dei terzi dalla data di pubblicazione del provvedimento all’Albo pretorio del Comune.
Se tale soluzione si giustifica, in un’ottica di certezza dei rapporti giuridici, nei casi in cui il terzo, pur essendo in condizione di conoscere l’esistenza delle opere abusive, si sia astenuto ingiustificatamente da ogni forma di reazione (con esposti, denunce, istanze di accesso agli atti…), lo stesso non può affermarsi nei casi -come quello in esame- in cui il ricorrente si sia attivato tempestivamente per segnalare al Comune l’esistenza di opere potenzialmente abusive (la ricorrente aveva presentato un esposto al Comune nel febbraio del 2007 nel quale descriveva le opere oggetto di contestazione, chiedendo al Comune di effettuare i dovuti controlli) e ciononostante l’Amministrazione non abbia ritenuto di informare l’istante della pendenza del procedimento di sanatoria.
In un’ipotesi del genere, l’esigenza di evitare che la decorrenza del termine d’impugnazione sia interamente rimesso all’arbitrio del ricorrente non sussiste.
Perché possa pronunciarsi l’irricevibilità del ricorso, pertanto, occorre che sia fornita dalla parte interessata la prova dell’epoca in cui il ricorrente ha acquisito l’effettiva conoscenza del provvedimento di sanatoria.
L’eccezione del Comune, volta a dimostrare un’acquisita conoscenza del provvedimento in data anteriore a quella in cui del permesso di costruire in sanatoria n. 102/2007 è stato menzionato nella memoria del controinteressato, è sguarnita di prova.
Dai documenti richiamati dall’Amministrazione e depositati agli atti emerge che la ricorrente era a conoscenza dell’esistenza delle opere, ma non che avesse avuto notizia della richiesta e del successivo rilascio del permesso di costruire in sanatoria (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in deroga per una veranda in vetro e distanze tra edifici: prevale il DM 1444/1968.
Con il permesso di costruire in deroga è ammessa la deroga unicamente alla norme degli strumenti urbanistici generali, ma non a quelle previste dal D.M. 1444/1968.
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Né è condivisibile la difesa del Comune nella parte in cui afferma che nella specie l’art. 9 D.M. 1444/1968 non troverebbe applicazione poiché la distanza inferiore ai 10 metri riguarderebbe una veranda in vetro e non una costruzione, poiché, per costante giurisprudenza, la nozione di costruzione ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, “deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera”.
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7. È, invece, parzialmente fondato il quarto motivo, con il quale è impugnato il permesso di costruire n. 49/2007 con cui è stata autorizzata in deroga la chiusura della veranda.
Trattandosi di permesso in deroga, non può essere accolta la censura con cui è dedotta la violazione dell’art. 38-bis delle NTA nella parte in cui prescrive una distanza dal confine di 5 metri. Le distanze previste dal PRG possono essere legittimamente derogate con il permesso di cui all’art. 14 DPR 380/2001.
È, invece, fondata la censura con cui si fa valere la violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, essendo la veranda posta, incontestatamente, ad una distanza inferiore ai 10 metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà della ricorrente.
Con il permesso di costruire in deroga, infatti, è ammessa la deroga unicamente alla norme degli strumenti urbanistici generali, ma non a quelle previste dal D.M. 1444/1968 (TAR Napoli, (Campania) sez. II, 13/02/2009, n. 799).
Né è condivisibile la difesa del Comune nella parte in cui afferma che nella specie l’art. 9 D.M. 1444/1968 non troverebbe applicazione poiché la distanza inferiore ai 10 metri riguarderebbe una veranda in vetro e non una costruzione, poiché, per costante giurisprudenza, la nozione di costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 02/03/2018, n. 1309) ai fini dell'osservanza delle norme sulle distanze legali tra edifici, “deve estendersi a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È incontroverso tra le parti che i poggioli sul fronte ovest dell’Albergo Ve., posto fronte lago, sono stati realizzati ad una distanza inferiore a 10 metri dal “piede dell’argine” del lago di Garda.
Come ha già avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato, l’art. 96, lettera f, del RD 523/1904 si applica a tutte le acque pubbliche e, quindi, anche a quelle dei laghi, indipendentemente dall’altezza alla quale le opere sono state costruite.

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Quanto alle argomentazioni concernenti l’idoneità delle opere in questione ad arrecare pregiudizio alle esigenze sottese alla previsione della fascia di rispetto, si osserva che tale valutazione è riservata dalla stessa norma all’Autorità amministrativa, la quale può determinare una distanza diversa con disciplina ad efficacia generale, purché “specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga”.
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8. Il quinto motivo, per la parte in cui sussiste l’interesse alla decisione, è infondato.
Con esso si deduce l’illegittimità del permesso di costruire 30.01.2007 n. 13 (pratica n. 91/2006) e dell'allegata concessione demaniale del 22.01.2007 n. 51, in base ai quali il controinteressato ha realizzato la terrazza-solarium sul lago poiché non risulterebbe acquisita alcuna autorizzazione paesaggistica ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
Il Comune obietta che l’autorizzazione è stata acquisita sul conforme progetto presentato ai fini del rilascio della concessione demaniale. Tale circostanza trova conferma, oltre che nelle premesse del provvedimento di concessione demaniale (ove è richiamata l’Autorizzazione ambientale n. 3960 del 13.03.2006), anche nel parere reso dalla Soprintendenza in data 20.03.2008 sull’istanza di permesso in sanatoria n. 8/2008, ove si afferma che le opere in progetto “non modificano sostanzialmente quanto già autorizzato”.
9. Le censure formulate con i motivi sub A del ricorso per motivi aggiunti sono integralmente riproduttive dei primi tre motivi del ricorso principale, e, come quelli, da rigettare.
10. E’, invece, fondato il motivo sub B.1 con cui il permesso di costruire in sanatoria 12.05.2008 n. 102/2007 è censurato per violazione dell’art. 96, lettera f, del RD 523/1904.
È incontroverso tra le parti che i poggioli sul fronte ovest dell’Albergo Ve., posto fronte lago, sono stati realizzati ad una distanza inferiore a 10 metri dal “piede dell’argine” del lago di Garda.
Come ha già avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato nella sentenza n. 5620/2012, resa tra le medesime parti, l’art. 96, lettera f, del RD 523/1904 si applica a tutte le acque pubbliche e, quindi, anche a quelle dei laghi, indipendentemente dall’altezza alla quale le opere sono state costruite.
Le contrarie argomentazioni di ordine interpretativo contenute nelle difese del Comune e del controinteressato non evidenziano argomenti decisivi per modificare le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato, considerato, peraltro, che si tratta di rilievi in gran parte già formulati nel corso di quel giudizio e respinti dal Giudice d’appello.
Quanto alle argomentazioni concernenti l’idoneità delle opere in questione ad arrecare pregiudizio alle esigenze sottese alla previsione della fascia di rispetto, si osserva che tale valutazione è riservata dalla stessa norma all’Autorità amministrativa, la quale può determinare una distanza diversa con disciplina ad efficacia generale, purché “specificamente diretta a tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi l'eventuale deroga” (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 10.01.2018, n. 102).
11. L’accoglimento del motivo B.1. consente di assorbire le residue censure concernenti la legittimità dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in relazione al suddetto permesso (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per costante giurisprudenza ciò che caratterizza gli interventi di restauro e risanamento conservativo e li differenzia dagli interventi di ristrutturazione, sotto il profilo teleologico, è la finalità del recupero funzionale di un bene che si vuole resti immutato nelle caratteristiche tipologiche, formali e strutturali.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia mirano, invece, alla trasformazione dell’edificio:
  
“Ricorre la categoria del restauro e risanamento conservativo allorquando sussiste un'attività rivolta a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso), ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia. Invero, quest'ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie”).
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“Affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente. Anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie”.
  
“Affinché sia ravvisato un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente, atteso che anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile; non possono, dunque, qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura o la struttura interna dell'edificio; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia”.
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3. Orbene dall’esame della relazione tecnica allegata all’istanza di permesso di costruire n. 86/2010 e degli elaborati progettuali, emerge la correttezza della qualificazione di lavori assentiti come interventi di ristrutturazione e non di restauro e risanamento conservativo.
3.1 Per costante giurisprudenza ciò che caratterizza gli interventi di restauro e risanamento conservativo e li differenzia dagli interventi di ristrutturazione, sotto il profilo teleologico, è la finalità del recupero funzionale di un bene che si vuole resti immutato nelle caratteristiche tipologiche, formali e strutturali.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia mirano, invece, alla trasformazione dell’edificio (TAR Bari, (Puglia) sez. III, 09/04/2018, n. 530: “Ricorre la categoria del restauro e risanamento conservativo allorquando sussiste un'attività rivolta a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso), ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione di elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo preesistente non consente di confondere la relativa vicenda con quella della ristrutturazione edilizia. Invero, quest'ultima si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata accezione di componenti strutturali originali o meramente riproduttivi) e la distribuzione interna della sua superficie”).
3.2 Come ha recentemente ribadito il Cons. Stato, nella sentenza della VI Sezione, n. 4483, del 23/07/2018 “Affinché sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente. Anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di manutenzione straordinaria e di risanamento conservativo, che presuppongono la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell'edificio e la distribuzione interna della sua superficie” (nel medesimo senso anche TAR Lecce, (Puglia) sez. I, 05/04/2018, n. 554: “Affinché sia ravvisato un intervento di ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino modificati la distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso esistente, atteso che anche in questi casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica dell'immobile; non possono, dunque, qualificarsi come strettamente manutentivi di una costruzione preesistente, ovvero diretti al suo consolidamento o restauro conservativo, i lavori che determinano la creazione di un organismo nuovo che veda alterata la sua struttura o la struttura interna dell'edificio; infatti, gli interventi edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come manutenzione straordinaria né come restauro o risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia”, cfr. anche TAR Lazio, II, 10.8.2017, n. 9290).
3.3 Nel caso in esame, dalla relazione tecnica e dal progetto allegato all’istanza di permesso di costruire, emerge che l’intervento è consistito nelle seguenti opere: 1) la completa riorganizzazione delle superfici interne; 2) il rifacimento del solaio del secondo piano che viene portato a quota inferiore, determinando l’ampliamento del volume dell’ultimo piano dell’edificio; 3) la trasformazione della scala interna, originariamente organizzata per rampe, in scala elicoidale; 4) il ribassamento del pavimento del piano terra per realizzare la camera di ventilazione; 5) l’inserimento di tre lucernari sul tetto dell’edificio con modifica del prospetto; 6) l’inserimento di un ascensore.
Non solo, pertanto, si è realizzata una completa redistribuzione delle superfici interne su ciascuno dei piani dell’edificio, ma anche dei volumi, per effetto del ribassamento del solaio del secondo piano.
Ciò è avvenuto mediante modifiche ad elementi strutturali dell’edificio, quali il solaio del secondo piano (che è stato portato a quota più bassa), la scala (trasformata in scala elicoidale), il pavimento del pianterreno (ribassato per creare la camera di ventilazione) ed il prospetto (modificato mediante inserimento di tre lucernari).
3.4 Pertanto, nonostante l’intervento non abbia determinato una modifica di destinazione d’uso, o un aumento della volumetria complessiva dell’edificio, esso appare qualificabile complessivamente quale ristrutturazione edilizia.
La finalità perseguita, infatti, è stata sì quella di migliorare lo stato dell’edificio, ma apportandovi modifiche che ne hanno trasformato elementi strutturali e formali (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di edificio unifamiliare.
La ratio dell’esenzione di cui all’art. 17, c. 3, lett. b), DPR 390/2001 si rinviene nella tutela e salvaguardia delle necessità abitative del nucleo familiare, perseguite attraverso la gratuità degli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di “edificio unifamiliare” richiamata dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione socio-economica che coincide “con la piccola proprietà immobiliare” poiché soltanto ove presenti tali caratteri appare meritevole di un trattamento differenziato.

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4. Con il secondo motivo, il ricorrente contesta che l’Amministrazione abbia diritto di pretendere il pagamento del contributo, anche ove l’intervento sia qualificabile come ristrutturazione edilizia, ostandovi il disposto dell’art. 17, c. 3, lett. b), DPR 380/2001. La disposizione prevede, infatti, un’ipotesi di esenzione dal contributo per gli interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari, quale sarebbe quello oggetto di causa.
Afferma, inoltre, che l’opzione interpretativa invalsa in giurisprudenza secondo cui l’esenzione si giustificherebbe come “aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione abitativa” non troverebbe riscontro nel dato normativo e sarebbe, pertanto, non percorribile, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 231 del 03.11.2016.
4.1 La tesi non persuade.
4.2 Invero la stessa Corte costituzionale ha costantemente affermato che l’onerosità del permesso di costruire costituisce un principio generale. Le eccezioni al suddetto principio devono, pertanto, essere oggetto di interpretazione restrittiva, conforme alla ratio dell’esenzione.
4.3 Va osservato che tutte le ipotesi di riduzione ed esenzione dall’obbligo contributivo contenute nell’art. 17 DPR 380/2001 sono volte al perseguimento di interessi generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività o interventi che abbiano un positivo impatto sull’ambiente. Non può, pertanto, fare eccezione la causa di esenzione prevista dalla lettera b (“Il contributo di costruzione non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari”) che deve essere interpretata in conformità allo scopo di tutela cui è preposta.
4.4 Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento che riviene la ratio dell’esenzione di cui all’art. 17, c. 3, lett. b), nella tutela e salvaguardia delle necessità abitative del nucleo familiare, perseguite attraverso la gratuità degli interventi funzionali all’adeguamento dell’immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di “edificio unifamiliare” richiamata dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua accezione socio-economica che coincide “con la piccola proprietà immobiliare” poiché soltanto ove presenti tali caratteri appare meritevole di un trattamento differenziato (TAR sez. I, Brescia, 26/04/2018, n. 449 nel medesimo senso si cfr. anche TAR Toscana, Sez. III, 26.04.2017 n. 616, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416, TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707).
4.5 D’altronde il presupposto del contributo di costruzione, se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è costituito dalla compartecipazione alle spese che il maggiore carico urbanistico derivante dall’intervento genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è correlato all’aumento di valore che consegue all’intervento.
Pertanto, si giustifica la sottrazione all’imposizione dell’aumento di valore che la famiglia consegue per effetto della ristrutturazione solo per le finalità di ordine sociale sopra individuate che, nel caso di specie, tenuto conto delle dimensioni del fabbricato, del suo pregio storico-monumentale e della rilevanza dell’intervento, non ricorrono.
4.6 I principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 231/2016, inoltre, sono del tutto inconferenti rispetto alla fattispecie in esame. La Corte si è pronunciata sulla legittimità costituzionale di norme di legge regionale con cui era stata estesa la portata applicativa delle fattispecie di esenzione previste dall’art. 17 DPR 380/2001 e si è limitata a valutare se le suddette disposizioni avessero travalicato i limiti individuati dalla norma statale di principio e, per tale via, violato l’art. 117, c. III, Cost. Nulla, invece, ha affermato sull’interpretazione delle fattispecie di esenzione.
Inoltre, neppure rileva, ai fini dell’interpretazione della norma in esame, il riferimento contenuto nella sentenza all’aumento di carico urbanistico, dovuto alla previsione normativa costituente il parametro interposto di legittimità costituzionale, ossia l’art. 17, c. 4, che prevede una riduzione del contributo per le opere di manutenzione straordinaria che comportino aumento del carico urbanistico (all’art. 6, comma 2, lett. a TUE) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della verifica della spettanza del contributo, la qualificazione dell’intervento effettuata dall’Amministrazione nel permesso di costruire non è decisiva, dovendo, piuttosto aversi riguardo all’autentica natura dell’attività edilizia esercitata.
Come confermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 12/2018) l’obbligazione al pagamento del contributo di costruzione costituisce, infatti, una prestazione imposta (e precisamente un corrispettivo di diritto pubblico), che sorge al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, la quale determina altresì integralmente i suoi contenuti, secondo lo schema legge-fatto-effetto.
L’Amministrazione, pertanto, poteva, come ha fatto, riqualificare l’intervento al fine di determinare la debenza e l’entità del contributo conseguente al rilascio del titolo.
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È vero che una delle componenti del contributo di costruzione è determinata in relazione agli oneri di urbanizzazione e che, pertanto, per tale parte, il contributo trova un suo fondamento giustificativo nell’aumento del carico urbanistico derivante dall’intervento.
È, altresì, vero, tuttavia, che per costante giurisprudenza il contributo di costruzione non si pone in rapporto sinallagmatico con le opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (C.d.S., Ad. Plen., n. 12/2018). Ciò in quanto il contributo di costruzione ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario ed a carattere generale.
In linea di principio, pertanto, non può affermarsi che l’assenza di aumento del carico urbanistico escluda l’obbligo di corrispondere il contributo, ove la legge il suddetto obbligo imponga in relazione ad un determinato intervento.
D’altro canto, il contributo di costruzione è costituito anche dall’ulteriore componente correlata al costo di costruzione, volta a compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, che prescinde dall’aumento di carico urbanistico.
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L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 12/2018 –nel dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità ed i limiti della riliquidazione del contributo di costruzione determinato al momento del rilascio del titolo edilizio-, conferma i seguenti principi:
   1) l’obbligazione di pagamento del contributo di costruzione ha natura di corrispettivo di diritto pubblico, i cui presupposti e contenuti sono definiti interamente dalla legge;
   2) il rapporto obbligatorio che ne discende soggiace interamente alla disciplina civilistica, nonostante la fonte legale da cui promana;
   3) dalla natura privatistica del rapporto che s’instaura tra l’Amministrazione ed il privato deriva che gli atti con i quali l’Amministrazione determina o riliquida il contributo hanno natura paritetica;
   4) l’Amministrazione può –entro il termine di prescrizione decennale decorrente dal momento in cui sorge l’obbligazione– esercitare il diritto di credito che dalla legge deriva, senza i limiti previsti per l’autotutela per gli atti aventi natura autoritativa, modificando l’importo originariamente richiesto.
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1. Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione dell’art. 22, c. 7, DPR 380/2001 e 76 L.R. Veneto n. 61/1985 poiché il Comune avrebbe richiesto il contributo di costruzione per la realizzazione di un intervento di restauro e risanamento conservativo che né la legge statale né quella regionale qualificano come oneroso.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Ai fini della verifica della spettanza del contributo, la qualificazione dell’intervento effettuata dall’Amministrazione nel permesso di costruire non è decisiva, dovendo, piuttosto aversi riguardo all’autentica natura dell’attività edilizia esercitata.
1.2 Come confermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 12/2018) l’obbligazione al pagamento del contributo di costruzione costituisce, infatti, una prestazione imposta (e precisamente un corrispettivo di diritto pubblico), che sorge al verificarsi dei presupposti previsti dalla legge, la quale determina altresì integralmente i suoi contenuti, secondo lo schema legge-fatto-effetto.
1.3 L’Amministrazione, pertanto, poteva, come ha fatto, riqualificare l’intervento al fine di determinare la debenza e l’entità del contributo conseguente al rilascio del titolo.
...
5. È infondato anche il terzo motivo di ricorso con il quale il ricorrente afferma che, anche a prescindere dall’applicabilità della causa di esenzione di cui all’art. 17, c. 3, lett. b), il contributo nella specie non può essere preteso poiché ne difetterebbe il fondamento causale da rinvenirsi nell’aumento di carico urbanistico derivante dall’intervento.
5.1 L’argomento prova troppo. È vero che una delle componenti del contributo di costruzione è determinata in relazione agli oneri di urbanizzazione e che, pertanto, per tale parte, il contributo trova un suo fondamento giustificativo nell’aumento del carico urbanistico derivante dall’intervento.
È, altresì, vero, tuttavia, che per costante giurisprudenza il contributo di costruzione non si pone in rapporto sinallagmatico con le opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo determinato indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere (C.d.S., Ad. Plen., n. 12/2018). Ciò in quanto il contributo di costruzione ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario ed a carattere generale.
5.2 In linea di principio, pertanto, non può affermarsi che l’assenza di aumento del carico urbanistico escluda l’obbligo di corrispondere il contributo, ove la legge il suddetto obbligo imponga in relazione ad un determinato intervento.
5.3 D’altro canto, il contributo di costruzione è costituito anche dall’ulteriore componente correlata al costo di costruzione, volta a compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della proprietà immobiliare del costruttore, che prescinde dall’aumento di carico urbanistico.
5.4 Nella specie, dovendosi, come si è detto, qualificare l’intervento come di ristrutturazione, il contributo è dovuto, poiché, non ricorrendo alcuna delle fattispecie per le quali l’art. 76 L.R. Veneto, n. 61/1985 prevede il rilascio di un’autorizzazione o di una concessione gratuita, trova applicazione la residuale previsione di cui al n. 4 del comma 1 (concessione onerosa).
5.5 Conferma dell’onerosità dell’intervento si trae, inoltre, dall’art. 82, ultimo comma, che, con riferimento al calcolo della componente del contributo di costruzione correlata agli oneri di urbanizzazione prevede: “Il contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione relativo a interventi di ristrutturazione, ivi compresi gli ampliamenti che non comportino aumento della superficie utile di calpestio, è pari a quello calcolato per interventi di nuova edificazione moltiplicato per 0,20.”
Si riferisce agli interventi di ristrutturazione anche l’art. 83, ultimo comma, L.R. Veneto n. 61/1985, che definisce i criteri di determinazione del costo di costruzione ai fini della quantificazione del contributo per particolari interventi di ristrutturazione.
6. Sono, altresì, da rigettare le residue censure che attengono a vizi di eccesso di potere, difetto di motivazione o che presuppongono la tendenziale immodificabilità delle determinazioni sul contributo di costruzione assunte dall’Amministrazione in sede di rilascio del titolo. Esse possono essere esaminate congiuntamente alla luce dei principi affermati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 12/2018.
6.1 La pronuncia –nel dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità ed i limiti della riliquidazione del contributo di costruzione determinato al momento del rilascio del titolo edilizio- conferma i seguenti principi:
   1) l’obbligazione di pagamento del contributo di costruzione ha natura di corrispettivo di diritto pubblico, i cui presupposti e contenuti sono definiti interamente dalla legge;
   2) il rapporto obbligatorio che ne discende soggiace interamente alla disciplina civilistica, nonostante la fonte legale da cui promana;
   3) dalla natura privatistica del rapporto che s’instaura tra l’Amministrazione ed il privato deriva che gli atti con i quali l’Amministrazione determina o riliquida il contributo hanno natura paritetica;
   4) l’Amministrazione può –entro il termine di prescrizione decennale decorrente dal momento in cui sorge l’obbligazione– esercitare il diritto di credito che dalla legge deriva, senza i limiti previsti per l’autotutela per gli atti aventi natura autoritativa, modificando l’importo originariamente richiesto.
6.2 Sulla scorta dei suddetti principi può affermarsi che:
6.3 Sono infondate le censure formulate nella seconda parte del secondo motivo di ricorso con le quali il ricorrente lamenta la contraddittorietà tra la richiesta di conguaglio del contributo ed il presupposto dichiarato nella richiesta di pagamento, ossia che il contributo di costruzione non sia mai stato richiesto in fase di rilascio del P.d.C. (seconda sub-censura del secondo motivo) e quelle a mezzo delle quali si contesta l’ammissibilità della richiesta del contributo per la prima volta a distanza di anni dal momento del rilascio del titolo.
La natura di diritto soggettivo della pretesa azionata con l’atto impugnato, consente all’Amministrazione di agire per la riscossione in ogni tempo, entro il termine di prescrizione decennale. Non essendo previsto alcun termine di decadenza per la richiesta del contributo, deve ritenersi che l’Amministrazione possa chiedere anche per la prima volta a distanza di tempo –purché entro il termine di prescrizione– il pagamento del contributo
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Ordine di demolizione delle opere abusive - Presupposti e limiti di revoca - Incompatibilità con atti amministrativi o giurisdizionali - Sospensione dell'ordine di demolizione - Valutazione prognostica.
In materia urbanistica, l'ordine di demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza penale passata in giudicato può essere revocato esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con atti amministrativi o giurisdizionali resi dalla autorità competente, e che abbiano conferito all'immobile altra destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria, mentre può essere sospeso solo quando sia ragionevolmente prevedibile, sulla base di elementi concreti, che, nel giro di brevissimo tempo, sia adottato dall'autorità amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si ponga in insanabile contrasto con il detto ordine di demolizione, non essendo invece sufficiente una mera possibilità del tutto ipotetica che si potrebbe verificare in un futuro lontano o comunque entro un tempo non prevedibile ed in particolare la semplice pendenza della procedura amministrativa o giurisdizionale, in difetto di ulteriori concomitanti elementi che consentano di fondare positivamente la valutazione prognostica.
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Abusi edilizi - Ordine demolizione delle opere abusive - Domanda in sanatoria - Revoca o sospensione dell’ordine di demolizione - Poteri del giudice dell’esecuzione - Artt. 31, 41, 44, D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi ai fini della revoca o sospensione dell'ordine di demolizione delle opere abusive in presenza di una istanza di condono o di sanatoria, il giudice dell'esecuzione investito della questione è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e tempi di definizione della procedura ed in particolare ad accertare il possibile risultato dell'istanza e se esistono cause ostative al suo accoglimento, e nel caso di insussistenza di tali cause a valutare i tempi di definizione del procedimento amministrativo e sospendere l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento dello stesso (Cass. Sez. 3, n. 6530/2013) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 04.03.2019 n. 9210 - link a www.ambientediritto.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Revoca di assessore.
La nomina degli Assessori, prevista dal comma secondo dell'art. 46 del TUEL, si basa su un vincolo di fiducia tra il Sindaco e la Giunta, non richiedendosi alcuna motivazione in ordine alle ragioni della scelta compiuta, ma soltanto la comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva all'elezione.
Conseguentemente, analoga natura va riconosciuta al contrarius actus della revoca, ex art. 46, c. 4 cit., che si fonda proprio sul venir meno dell'intuitu personae, come atto simmetricamente negativo alla nomina.
In conclusione, poiché la nomina e la revoca degli assessori comunali dipendono esclusivamente dall'esistenza di un rapporto fiduciario con il Sindaco, detti provvedimenti possono sorreggersi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico amministrativa, tra cui l'affievolirsi del rapporto fiduciario, senza che occorra invece specificare i singoli comportamenti addebitati all'interessato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 04.03.2019 n. 453 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Osserva il Collegio che, secondo quanto evidenziato nel provvedimento impugnato, “nel corso del mandato è oggettivamente venuto meno il rapporto fiduciario e collaborativo” con l’attuale ricorrente, e conseguentemente, “le condizioni per la permanenza dello stesso nella carica e nelle sue funzioni”, ciò che, secondo l’istante, sostanzialmente, costituirebbe una motivazione insufficiente.
Il ricorso va respinto, come recentemente statuito dal Tribunale in una fattispecie analoga a quella per cui è causa (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 29.05.2018 n. 525), non ravvedendosi ragioni per discostarsi dalla stessa.
La nomina degli Assessori prevista dal comma secondo dell'art. 46 del TUEL, si basa infatti su un vincolo di fiducia tra il Sindaco e la Giunta, non richiedendosi alcuna motivazione in ordine alle ragioni della scelta compiuta, ma soltanto la comunicazione al Consiglio nella prima seduta successiva all'elezione.
Conseguentemente, analoga natura va riconosciuta al contrarius actus della revoca, ex art. 46, c. 4, cit., che si fonda proprio sul venir meno dell'intuitu personae, come atto simmetricamente negativo alla nomina
(C.S., Sez. I, 24.12.2013 n. 4970, TAR Abruzzo, L'Aquila, 11.02.2010 n. 74).
In conclusione, poiché la nomina e la revoca degli assessori comunali dipendono esclusivamente dall'esistenza di un rapporto fiduciario con il Sindaco (TAR Lazio, Roma, Sez. II-bis, 28.11.2016 n. 11870), detti provvedimenti possono sorreggersi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico amministrativa, tra cui l'affievolirsi del rapporto fiduciario, come ha avuto luogo nel caso di specie, senza che occorra invece specificare, come erroneamente sostenuto dall’istante, i singoli comportamenti addebitati all'interessato (C.S., Sez. V, 19.01.2017 n. 215, C.G.A. Sicilia, 01.06.2015 n. 594), dovendosi pertanto respingere il presente ricorso.

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI – Gestione – Politiche comunitarie – Cd. società del riciclaggio – Artt. 177 e 179 d.lgs. n. 152/2006 – Gerarchia dei rifiuti – Scelta ultima e residuale del conferimento in discarica – Economia circolare – Direttive 2018/849/UE, 2018/850/UE, 2018/851/UE e 2018/852UE.
Le politiche comunitarie in tema di rifiuti hanno per obiettivo la realizzazione di una c.d. società del riciclaggio.
In coerenza, l’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 prevede che la gestione dei rifiuti non debba produrre inquinamento, non debba arrecare danno alla salute umana, o all’ambiente e non debba arrecare nocumento al paesaggio o ai siti di particolare interesse e il novellato art. 179 (come modificato dal d.lgs. n. 4 del 2008 prima e dal d.lgs. n. 205 del 2010 poi) stabilisce expressis verbis la gerarchia dei rifiuti, intesa come “ordine di priorità” nella politica e nell’attività di gestione dei rifiuti, che vede come opzioni da seguire nell’ordine:
   a) la prevenzione, intesa come insieme di misure volte ad impedire la produzione di rifiuti;
  b) la preparazione per il riutilizzo, definita come operazione di controllo, pulizia e riparazione, che permette il riutilizzo del bene;
   c) il riciclaggio, ovvero quella particolare forma di recupero attraverso il trattamento con tecniche appropriate per ottenere altri prodotti o materiali;
   d) il recupero di altro tipo, come ad esempio avviene con le tecniche di recupero per produrre energia e l’utilizzo del rifiuto pretrattato come combustibile, e, solo in ultimo,
   e) lo smaltimento, che a sua volta può avvenire, secondo due modalità principali. La prima è costituita dall’incenerimento, la seconda (residuale) dal conferimento a discarica.
Peraltro, a seguito della comunicazione COM (2015) 617 final della Commissione europea del 02.12.2015 e, soprattutto, a seguito delle recenti quattro direttive 2018/849/UE, 2018/850/UE (specifica in materia di discariche), 2018/851/UE e 2018/852UE è stata adottata la nuova strategia europea in tema ambientale della c.d. economia circolare, che considera gli oggetti e le sostanze residue del processo produttivo non beni da distruggere, bensì beni da riutilizzare in un nuovo processo, assegnando la qualifica di “rifiuto” a quei residui dell’attività di produzione che non siano altrimenti impiegabili per impossibilità tecnico-economica. Il conferimento in discarica dei rifiuti costituisce, per quanto detto, la scelta ultima e residuale, ossia di extrema ratio, per il trattamento dei rifiuti.
Infatti, il ricorso a discarica non comporta alcuna valorizzazione del rifiuto e implica, secondo la stessa normativa (art. 1 d.lgs. n. 36/2003), potenziali rischi di contaminazione per l’ambiente, come si evince anche dal dato empirico, che ha condotto la Corte di giustizia U.E., a sanzionare l’Italia con le sentenze 26.04.2007 (C-135/05) e 02.12.2014 (C-196/13).

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RIFIUTI – Realizzazione di discariche nel territorio – Attività di pianificazione e programmazione degli interventi – Iter autorizzatorio - Art. 208 d.lgs. n. 152/2006.
La realizzazione di discariche nel territorio comporta non solo la necessità di realizzare progetti assistiti da una serie di misure di cautela, volte a scongiurare pericoli di inquinamento, ma richiede anche un’attenta attività di pianificazione del territorio e di programmazione degli interventi, in modo tale da poter ubicare le discariche da realizzarsi, come ultima opzione del sistema del trattamento dei rifiuti, in sicurezza e in luoghi confacenti.
In base all’art. 208, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006, i soggetti che intendono realizzare e gestire impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti devono presentare un’apposita domanda alla regione competente, allegando un progetto definitivo e la documentazione tecnica relativa alla realizzazione dell’impianto coerente con le disposizioni in materia urbanistica, ambientale, della salute, sicurezza sul lavoro e igiene pubblica.
Ai sensi dell’art. 208, comma 3, la regione indice poi una conferenza di servizi, al fine di acquisire tutti i documenti, informazioni e chiarimenti dai soggetti coinvolti.
A seguito delle risultanze della conferenza, la regione autorizza o meno l’impianto. L’approvazione costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità (art. 208, comma 6, del d.lgs. n. 152 del 2006).

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VIA, VAS E AIA – RIFIUTI – Impianto ed esercizio di un’installazione di trattamento dei rifiuti - Autorizzazione integrata ambientale – Nozione – Autorizzazione costitutiva – Discrezionalità mista – Destinatario del provvedimento – Semplificazione del modulo procedimentale – Considerazione unitaria di tutti i fattori ambientali rilevanti – Attività pianificatoria e programmatoria delle autorità pubbliche preposte.
L’autorizzazione integrata ambientale (c.d. A.I.A.), ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. o-bis), del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, è quel peculiare provvedimento, che, nell’ottica del perseguimento di un elevato livello di tutela ambientale (art. 191 del T.F.U.E.), permette l’impianto e l’esercizio di una “installazione” di trattamento dei rifiuti, con prescrizioni idonee a prevenire, evitare o contenere al massimo emissioni inquinanti nell’aria, nell’acqua e nel suolo, secondo le migliori tecnologie disponibili (c.d. best available techniques), pur sempre nell’ambito della pianificazione strategica e della programmazione operativa, predisposta dall’amministrazione regionale (artt. 179-180 del d.lgs. n. 152), inerente alla gestione dei rifiuti, quale attività di pubblico interesse (art. 178, comma 1, del d.lgs. n. 152), secondo la “gerarchia” (art. 179, commi 1-2, del d.lgs. n. 152), in conformità alla legge ed al diritto U.E., nel trattamento dei rifiuti.
Più specificamente l’A.I.A. si connota come una tipica autorizzazione costitutiva, in quanto è “concessa” per un tempo prestabilito (art. 208, comma 12, d.lgs. n 152) e dunque non sussiste in capo al destinatario alcun precostituito diritto ad ottenerla: può essere rilasciata solo dopo che la pubblica amministrazione abbia valutato discrezionalmente i vari interessi pubblici rilevanti, che vengono in evidenza nel corso dell’iter procedimentale, soprattutto con riferimento alla strategia di fondo (aderente alle disposizioni U.E.) prescelta in materia di gestione dei rifiuti e accolta dalla P.A. competente (art. 179, commi 1, 2 e 5; art. 180 del d.lgs. n. 152).
L’autorizzazione viene rilasciata nell’esercizio di una discrezionalità mista, che implica tanto apprezzamenti tecnici, quanto valutazioni di opportunità, e coinvolge una pluralità di amministrazioni od organismi sia prettamente tecnici (A.R.P.A., A.S.L., Comitato tecnico V.I.A.), sia preposte alla tutela paesaggistico-culturale (Soprintendenza competente del Ministero dei beni culturali), che ancora enti esponenziali della collettività (regioni, province, comuni). Destinatario del provvedimento è il gestore ambientale proponente, ossia un soggetto abilitato dalla legge al servizio di pubblico interesse dello smaltimento dei rifiuti (art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006).
L’A.I.A. è il provvedimento finale di un procedimento amministrativo complesso, che tramite il modello di coordinamento della conferenza dei servizi, effettua la valutazione di impatto ambientale (c.d. V.I.A.), ossia procede a ponderare, nel processo della gestione dei rifiuti, gli interessi pubblici secondari e gli interessi privati, in ordine al perseguimento dell’interesse pubblico primario al corretto smaltimento dei residui delle attività antropiche, in modo economico, efficiente ed efficace, senza però nuocere all’ambiente.
L’A.I.A. dunque considera in modo combinato ogni fattore potenziale di inquinamento, evitando le tradizionali distinzioni settoriali (aria, acqua, suolo, rifiuti, rumore), e s’inserisce nel solco della tendenza dell’evoluzione del quadro normativo in materia ambientale improntato alla semplificazione del modulo procedimentale e alla considerazione unitaria di tutti i fattori ambientali rilevanti nella fattispecie. Pertanto, l’attività di discarica non costituisce un’attività libera, bensì un’attività, riservata a soggetti muniti di predeterminati requisiti, che assume un rilevante pubblico interesse e viene “concessa” (art. 208, comma 12, d.lgs. n. 152 del 2006) al gestore ambientale, con un’autorizzazione costitutiva, a fronte della presentazione di una domanda, con il corredato progetto definitivo, che si colloca però all’interno di un’attività pianificatoria e programmatoria delle autorità pubbliche preposte, che individua specifiche esigenze e criteri.

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RIFIUTI – Art. 208 d.lgs. n. 152/2006 – Soggetto promotore – Presentazione di un progetto definitivo – Imposizione di plurime prescrizioni – Equivalenza ad un atto di diniego.
L’art. 208, comma 1, del d.lgs n. 152 del 2006 prevede che il soggetto promotore l’attivazione di una discarica debba presentare un progetto definitivo (e non già un progetto preliminare, o di massima); ne consegue che l’imposizione una rilevante quantità di prescrizioni (nella specie, volte peraltro alla riprogettazione pressoché integrale dell’impianto discarica) equivale sostanzialmente ad un atto di diniego.
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RIFIUTI – Art. 208, c. 6, d.lgs. n. 152/2006 – Effetto di variante urbanistica – Presupposti – Regione Puglia – Delega dell’attività istruttoria e di assenso alla realizzazione delle discariche – Esclusione del potere di variante.
Il c.d. effetto di variante urbanistica previsto dall’art. 208, comma 6, del d.lgs. n. 152/2006 consiste in una formula di semplificazione, che ovviamente è possibile in presenza dell’assenso dell’autorità competente e non già in suo dissenso. Peraltro, in Puglia l’art. 5 della legge regionale 03.10.1986 n. 30, poi ribadita dall’art. 6 della legge regionale 14.06.2007 n. 17, ha “delegato” l’attività istruttoria e di assenso alla realizzazione delle discariche alle Province, con esclusione del potere di variante urbanistica”, come già accertato in giurisprudenza (Cons. St., sez. IV, 28.08.2018 n. 5065).
L’art. 4 della legge regionale 31.12.2009 n. 36 ha confermato la delega, stabilendo all’art. 2 (Principi e obiettivi), comma 3, lett. b), della stessa legge che è precipuo obiettivo della Regione Puglia quello di “ridurre drasticamente lo smaltimento dei rifiuti urbani in discarica promuovendo sistemi di raccolta che privilegiano la separazione dei rifiuti a monte”. Delega precisata da ultimo dall’art. 1 della legge reg. 12.02.2014 n. 3.

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RIFIUTI – Atto di assenso all’apertura di una discarica – Natura.
L’atto di assenso all’apertura di una discarica ha natura di autorizzazione costitutiva, in quanto provvedimento, che si inserisce in un quadro di pianificazione e di programmazione dell’attività di gestione dei rifiuti, avente un rilievo di pubblico interesse, che genera un rapporto giuridico di stretto controllo tra amministrazione e beneficiario. Infatti, l’autorizzazione integrata ambientale è “concessa” ed è temporalmente limitata a dieci anni, salvo proroga (art. 208, comma 12, d.lgs n. 152).
Le condizioni (c.d. prescrizioni) di esercizio, imposte nell’atto di assenso, possono essere sempre modificate, prima del termine di scadenza (ma, dopo almeno cinque anni dal rilascio), nel caso di condizioni di criticità ambientale, tenendo conto dell’evoluzione delle migliori tecnologie disponibili e nel rispetto delle garanzie procedimentali.
Inoltre, ferma restando l’applicazione di specifiche misure repressive e sanzionatorie, in caso di inosservanza dei contenuti dell’autorizzazione, l’autorità competente può procedere, secondo la gravità dell’infrazione: a) alla diffida, stabilendo un termine entro il quale devono essere eliminate le inosservanze; b)alla diffida e contestuale sospensione dell’atto di assenso per un tempo determinato, ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente; c) alla revoca-decadenza, in caso di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino situazione di pericolo per la salute pubblica e per l’ambiente.
La realizzazione di una discarica è quindi un’attività di eminente pubblico interesse, in ordine alla quale non sussiste un diritto precostituito all’esercizio in capo al gestore ambientale, bensì un interesse alla legittimità degli atti dell’amministrazione, nella misura in cui l’attività di discarica sia contemplata come attività utile e necessaria, nell’ambito della programmazione della gestione dei rifiuti, quale invero ultima ipotesi rispetto alla vigente implementazione dei parametri della vigente società del riciclaggio contemplata dalla direttiva U.E. 2008 (attuata dal d.lgs. 03.12.2010 n. 205), che sarà abbinata alla strategia della economia circolare introdotta dalle direttive U.E. 2018
  (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 04.03.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Sub-procedimento di verifica dell’anomalia dell'offerta.
Nell'ambito del sub-procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta, l’impresa aggiudicataria può rimodulare le quantificazioni dei costi e dell’utile, purché non ne risulti una modifica degli elementi compositivi tale da pervenire ad un aliud pro alio rispetto a quanto inizialmente offerto.
Nell’ambito del contraddittorio, a fronte dell’immodificabilità dell’offerta sono tuttavia modificabili le relative giustificazioni e in particolare sono consentite giustificazioni sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez I, sentenza 04.03.2019 n. 212 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5.3 In linea generale, per orientamento pacifico,
nel sub-procedimento di verifica dell’anomalia l’impresa aggiudicataria può rimodulare le quantificazioni dei costi e dell’utile, purché non ne risulti una modifica degli elementi compositivi tale da pervenire ad un aliud pro alio rispetto a quanto inizialmente offerto (TAR Lazio Roma, sez. II – 18/05/2017 n. 5899).
Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez. V – 22/05/2015 n. 2581,
nell’ambito del contraddittorio, a fronte dell’immodificabilità dell’offerta sono tuttavia modificabili le relative giustificazioni, ed in particolare sono consentite giustificazioni sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione e a tale momento dia garanzia di una seria esecuzione del contratto.
La sentenza evocata ha altresì puntualizzato che <<questo collegio reputa di dovere dare continuità a tale indirizzo, il quale si fonda su un dato inoppugnabile, e cioè sul fatto che
la formulazione di un’offerta economica e la conseguente verifica di anomalia dell’offerta si fondano su stime previsionali e dunque su apprezzamenti e valutazioni implicanti un ineliminabile margine di opinabilità ed elasticità, essendo conseguentemente impossibile pretendere una rigorosa quantificazione preventiva delle grandezze delle voci di costo rivenienti dall’esecuzione futura di un contratto, ed essendo per contro sufficiente che questa si mostri ex ante ragionevole ed attendibile …. ed infatti, questo Consiglio di Stato ha anche definito il limite a questa modifica “interna” di voci di costo, precludendo la possibilità di rimodulare voci in assenza di qualsiasi plausibile spiegazione «con un'operazione di finanza creativa priva di pezze d'appoggio, al solo scopo di ‘far quadrare i conti’ ossia di assicurarsi che il prezzo complessivo offerto resti immutato e si superino le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo» (Sez. VI, 20.09.2013, n. 4676; in termini, Sez. V, 02.07.2012, n. 3850; Sez. VI, 07.02.2012, n. 636)>>.
Secondo il Consiglio di Stato, sez. V – 24/04/2017 n. 1896,
le rettifiche e le compensazioni incontrano il limite del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta (da intendersi preclusa), che ne alteri l’equilibrio economico (allocando diversamente rilevanti voci di costo nella sola fase delle giustificazioni).
Diversamente opinando, secondo i giudici d’appello, si perverrebbe all’inaccettabile conseguenza di consentire un'indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell’offerta economica (nella fase del controllo dell’anomalia), con il solo limite del rispetto del saldo complessivo, il che si porrebbe in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della sua struttura di costi, e, segnatamente, degli interessi sottesi alla specifica individuazione degli oneri di sicurezza aziendale (la cui necessaria integrità viene espressamente sancita dall'art. 87, comma 4, d.lgs. cit.), che resterebbero in tal modo irrimediabilmente vanificati.
Si finirebbe, in tal modo, per snaturare completamente la funzione e i caratteri del sub-procedimento di anomalia, trasformando inammissibilmente le giustificazioni, che, nella disciplina legislativa di riferimento, servono a chiarire le ragioni della serietà e della congruità dell'offerta economica, in occasione, secundum eventum, per una sua libera rimodulazione, per mezzo di una scomposizione e di una diversa ricomposizione delle sue voci di costo (per come dettagliate nella domanda di partecipazione originaria), che implicherebbe, peraltro (oltre ad una evidente lesione delle esigenze di stabilità ed affidabilità dell’offerta), anche una violazione della par condicio tra i concorrenti.

APPALTIIl Piano Economico Finanziario (PEF) è lo strumento volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco temporale prescelto attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per l’intero periodo: il che consente all’Amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione stessa.
Il Piano Economico-Finanziario è, dunque, un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa ma ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività.
Sicché il Piano Economico-Finanziario non può essere tenuto separato dall’offerta in senso stretto; in realtà, esso rappresenta un elemento significativo della proposta contrattuale perché dà modo all’Amministrazione di apprezzare la congruenza e dunque l’affidabilità della sintesi finanziaria contenuta nell’offerta in senso stretto, con la conseguenza che ben può un vizio intrinseco del Piano Economico-Finanziario riflettersi fatalmente sulla qualità dell’offerta medesima ed inficiarla.
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5.4 Con particolare riguardo al Piano Economico Finanziario (PEF), si tratta dello strumento “volto a dimostrare la concreta capacità del concorrente di correttamente eseguire la prestazione per l’intero arco temporale prescelto attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico–finanziario di investimenti e connessa gestione, nonché il rendimento per l’intero periodo: il che consente all’Amministrazione concedente di valutare l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva realizzabilità dell’oggetto della concessione stessa. Il Piano Economico-Finanziario è, dunque, un documento che giustifica la sostenibilità dell’offerta e non si sostituisce a questa ma ne rappresenta un supporto per la valutazione di congruità, per provare che l’impresa va a trarre utili tali da consentire la gestione proficua dell’attività. Sicché il Piano Economico-Finanziario non può essere tenuto separato dall’offerta in senso stretto; in realtà, esso rappresenta un elemento significativo della proposta contrattuale perché dà modo all’Amministrazione di apprezzare la congruenza e dunque l’affidabilità della sintesi finanziaria contenuta nell’offerta in senso stretto, con la conseguenza che ben può un vizio intrinseco del Piano Economico-Finanziario riflettersi fatalmente sulla qualità dell’offerta medesima ed inficiarla” (cfr. TAR Veneto, sez. I – 07/02/2019 n. 182, che richiama TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I – 15/11/2018 n. 350; TAR Liguria, sez. I – 17/10/2018 n. 826; Consiglio di Stato, sez. V – 13/04/2018 n. 2214). (TAR Lombardia-Brescia, Sez I, sentenza 04.03.2019 n. 212 -
link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualificazione dell'opera edilizia oggetto di concessione va desunta non solo dal titolo assentito, ma anche dalla domanda presentata dal richiedente.
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La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire.
Ora, la rilevazione della preesistenza ai fini dell'intervento ricostruttivo non può non ancorarsi alla situazione di fatto esistente alla data di presentazione dell'istanza di edificazione, laddove il fabbricato di cui si tratta aveva connotazioni tipologiche di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra (vedasi documentazione fotografica allegata dal Comune) da ristrutturare ed ampliare, come del resto risulta evidente dai pareri espressi a diversi fini (paesaggistici, sicurezza sismica) emessi dalle altre Amministrazioni coinvolte.
E’ del tutto evidente, quindi, che il Comune non era chiamato a valutare la conformità alla normativa edilizia ed urbanistica di un nuovo edificio, quanto a valutare se la domanda del privato, nei termini in cui essa era stata formulata, era compatibile con gli strumenti edilizi vigenti, a prescindere dal nomen iuris formalmente impiegato nel provvedimento di rilascio del titolo.
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10. Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti lamentano la difformità tra l’intervento oggetto della domanda di permesso di costruire (“progetto per la ristrutturazione ed ampliamento di un fabbricato praticabile ma non abitabile destinato a civile abitazione”) rispetto a quello assentito (“realizzazione di un fabbricato in c.a. ad un piano f.t. e sottotetto non abitabile ma calpestabile da adibire a civile abitazione”), deducendone, per ciò solo, l’illegittimità.
La censura non può essere positivamente apprezzata.
La qualificazione dell'opera edilizia oggetto di concessione va desunta non solo dal titolo assentito, ma anche dalla domanda presentata dal richiedente (cfr. TAR Sardegna 27.10.2003 n. 1299) che, nel caso concreto, si riferisce testualmente alla ristrutturazione e all’ampliamento di un fabbricato già esistente e sanato dal Comune di Scilla nel 2006.
La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento indispensabile la preesistenza del fabbricato nella consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed architettoniche proprie del manufatto che si vuole ricostruire (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2006 n. 5375).
Ora, la rilevazione della preesistenza ai fini dell'intervento ricostruttivo non può non ancorarsi alla situazione di fatto esistente alla data di presentazione dell'istanza di edificazione (14.09.2007), laddove il fabbricato di cui si tratta aveva connotazioni tipologiche di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra (vedasi documentazione fotografica allegata dal Comune di Scilla) da ristrutturare ed ampliare, come del resto risulta evidente dai pareri espressi a diversi fini (paesaggistici, sicurezza sismica) emessi dalle altre Amministrazioni coinvolte.
E’ del tutto evidente, quindi, che il Comune non era chiamato a valutare la conformità alla normativa edilizia ed urbanistica di un nuovo edificio, quanto a valutare se la domanda del privato, nei termini in cui essa era stata formulata, era compatibile con gli strumenti edilizi vigenti, a prescindere dal nomen iuris formalmente impiegato nel provvedimento di rilascio del titolo.
In ogni caso, il mezzo è irrilevante poiché l’intervento edilizio richiesto presuppone necessariamente la formazione di un titolo espresso (permesso di costruire) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, nel dare attuazione all’art. 17 della legge n. 765 del 1967, fissa i limiti inderogabili di distanza tra fabbricati e, nell’ambito di detti limiti,a tutela non del diritto alla riservatezza bensì di imperative esigenze igienico-sanitarie salvaguardate con un divieto volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive, prevede un distacco minimo di dieci metri nei casi in cui almeno uno dei due muri che si fronteggiano risulti munito di finestre, restando espressamente sottratte ad un simile impedimento, di carattere assoluto, solo le costruzioni situate in zona A (nel caso di specie ci troviamo in zona B4 residenziale) e i “…gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Trattandosi di disposizione tassativa ed inderogabile, essa impone al proprietario dell’area confinante con quella in cui sorge una parete finestrata di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dalla parete altrui, senza possibilità di dispensa dal divieto, neppure se la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di esse conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c..
Il distacco di dieci metri, che prescinde dall’altezza degli edifici interessati,va calcolato con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano ed inoltre a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, indipendentemente anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, purché ne sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro sia pure per quel limitato segmento.
La conseguenza è che assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi –anche accessori–,qualunque ne sia la funzione, sempre che abbiano i caratteri della solidità, della stabilità e dell’immobilizzazione,e con la sola eccezione di sporti o aggetti di modeste dimensioni e con una finalità meramente decorativa e di rifinitura, tali cioè da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma nella sua funzione di salvaguardia della salubrità, dell’igiene e della sicurezza.
Per derivare, poi, da fonte normativa statuale, la prescrizione si presenta sovraordinata rispetto alle disposizioni degli strumenti urbanistici locali ed immediatamente rilevante nei rapporti tra Amministrazione e privati e nei rapporti tra privati, nel senso che occorre disapplicare le eventuali previsioni locali difformi e considerare comunque efficace la norma di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, divenuta –per inserzione automatica– parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione delle previsioni illegittime; pertanto, le Amministrazioni comunali, pur quando non abbiano conformato i propri strumenti urbanistici alle regole fissate a livello statale, sono obbligate ad attenersi a quella normativa, la quale in ogni caso prevale sulla contrastante disciplina locale.
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Qualsiasi corpo di fabbrica avente i caratteri della solidità, della stabilità e dell’immobilizzazione, e che non sia di dimensioni così ridotte da risultare del tutto inidoneo a dare luogo alla formazione di intercapedini potenzialmente nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è tenuto a rispettare
la distanza di dieci metri dal più vicino muro finestrato, indipendentemente dalla destinazione d’uso che gli venga attribuita.
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9. Il terzo motivo è invece fondato.
9.1. La questione sottoposta al vaglio del Collegio riguarda l’ammissibilità dell’ubicazione del manufatto, oggetto del contestato permesso di costruire, ad una distanza inferiore a dieci metri dalla parete finestrata delle ricorrenti.
A fondamento della loro doglianza, in particolare, le interessate invocano il disposto dell’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444 (“…è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti …”), che assumono nella circostanza violato.
Come è noto (v.,ex multis, Cass. civ., Sez. II, 22.04.2008 n. 10387, 03.03.2008 n. 5741 e 28.09.2007 n. 20574; Cons. St. Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759 e 02.11.2010 n. 7731; TAR Abruzzo, Pescara, 03.07.2012 n. 328; TAR Puglia, Bari, Sez. III, 22.06.2012 n. 1235), la norma di cui le ricorrenti lamentano l’inosservanza, nel dare attuazione all’art. 17 della legge n. 765 del 1967, fissa i limiti inderogabili di distanza tra fabbricati e, nell’ambito di detti limiti,a tutela non del diritto alla riservatezza bensì di imperative esigenze igienico-sanitarie salvaguardate con un divieto volto ad impedire la formazione di intercapedini nocive, prevede un distacco minimo di dieci metri nei casi in cui almeno uno dei due muri che si fronteggiano risulti munito di finestre, restando espressamente sottratte ad un simile impedimento, di carattere assoluto, solo le costruzioni situate in zona A (nel caso di specie ci troviamo in zona B4 residenziale) e i “…gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche”.
Trattandosi di disposizione tassativa ed inderogabile, essa impone al proprietario dell’area confinante con quella in cui sorge una parete finestrata di costruire il proprio edificio ad almeno dieci metri dalla parete altrui, senza possibilità di dispensa dal divieto, neppure se la nuova costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota inferiore a quella delle finestre antistanti e a distanza dalla soglia di esse conforme alle previsioni dell’art. 907, comma 3, c.c..
Il distacco di dieci metri, che prescinde dall’altezza degli edifici interessati,va calcolato con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano ed inoltre a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale, indipendentemente anche dal fatto che esse siano o meno in posizione parallela, purché ne sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro sia pure per quel limitato segmento.
La conseguenza è che assumono rilievo tutti gli elementi costruttivi –anche accessori–,qualunque ne sia la funzione, sempre che abbiano i caratteri della solidità, della stabilità e dell’immobilizzazione,e con la sola eccezione di sporti o aggetti di modeste dimensioni e con una finalità meramente decorativa e di rifinitura, tali cioè da potersi definire di entità trascurabile rispetto all’interesse tutelato dalla norma nella sua funzione di salvaguardia della salubrità, dell’igiene e della sicurezza.
9.2. Per derivare, poi, da fonte normativa statuale, la prescrizione si presenta sovraordinata rispetto alle disposizioni degli strumenti urbanistici locali ed immediatamente rilevante nei rapporti tra Amministrazione e privati e nei rapporti tra privati, nel senso che occorre disapplicare le eventuali previsioni locali difformi e considerare comunque efficace la norma di cui all’art. 9 del d.m. n. 1444/1968, divenuta –per inserzione automatica– parte integrante dello strumento urbanistico, anche in sostituzione delle previsioni illegittime; pertanto, le Amministrazioni comunali, pur quando non abbiano conformato i propri strumenti urbanistici alle regole fissate a livello statale, sono obbligate ad attenersi a quella normativa, la quale in ogni caso prevale sulla contrastante disciplina locale.
...
Il distacco di dieci metri, come detto, va poi effettivamente calcolato in relazione ad ogni punto dei fabbricati che qui, coincidendo progettualmente con il vertice basso della copertura della sopraelevazione del fabbricato De Gi., misura m. 4,55 rispetto alla parete di proprietà Ch. (e non m. 11,70 come sarebbe prendendo come punto di riferimento il vertice alto della copertura).
Ciò posto, la circostanza che il manufatto del sig. De Gi. non rispetti la distanza di dieci metri dal muro finestrato delle ricorrenti rende illegittimo l’intervento edilizio oggetto della controversia, anche a prescindere dalla eventuale disciplina contenuta nel piano regolatore comunale.
Né rileva il carattere di volume tecnico del nuovo locale, in quanto –come si è visto– qualsiasi corpo di fabbrica avente i caratteri della solidità, della stabilità e dell’immobilizzazione, e che non sia di dimensioni così ridotte da risultare del tutto inidoneo a dare luogo alla formazione di intercapedini potenzialmente nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è tenuto a rispettare il divieto in questione, indipendentemente dalla destinazione d’uso che gli venga attribuita.
Di qui la fondatezza della censura e il conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove il “sottotetto” è dotato di una finestra circolare quest'ultima è normalmente incompatibile con la natura di volume tecnico di un manufatto, definito come volume che, per altezza, dimensioni e dotazioni, è necessariamente destinato ad ospitare impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione),aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione degli immobili e che non possono essere sistemati all’interno della parte abitativa.
Non rientrano, pertanto, nella nozione di volume tecnico i vani utilizzati come stenditoi, soffitte o locali di sgombero, né tanto meno i locali che risultino agevolmente adattabili ad uso abitativo.
Dei volumi tecnici non si tiene conto al fine dell’accertamento della conformità del progetto alle volumetrie massime consentite nelle singole zone edificabili.
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9.3. Sulla natura dell’ampliamento che si vuole realizzare nella particella n. 335 di proprietà del sig. De Gi. si contrappongono le due tesi opposte, quella delle ricorrenti, secondo cui si tratta di una sopraelevazione,come tale soggetta al rispetto delle distanze,e quella del Comune resistente secondo cui si tratterebbe di “un sottotetto non abitabile adibito a vano tecnico e coperto con monofalde che per giurisprudenza pacifica va scorporato dal computo volumetrico e conseguentemente sottratto alla disciplina delle distanze legali”.
La tesi sostenuta dal Comune non persuade.
Dalla planimetria allegata agli atti, balza all’evidenza che il “sottotetto” è dotato di una finestra circolare che normalmente è incompatibile con la natura di volume tecnico di un manufatto, definito come volume che, per altezza, dimensioni e dotazioni, è necessariamente destinato ad ospitare impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio, televisivo, di parafulmine, di ventilazione),aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione degli immobili e che non possono essere sistemati all’interno della parte abitativa.
Non rientrano, pertanto, nella nozione di volume tecnico i vani utilizzati come stenditoi, soffitte o locali di sgombero, né tanto meno i locali che risultino agevolmente adattabili ad uso abitativo.
Dei volumi tecnici non si tiene conto al fine dell’accertamento della conformità del progetto alle volumetrie massime consentite nelle singole zone edificabili.
Il Comune resistente si limita però soltanto a dedurre la natura di volume tecnico senza dimostrarlo in concreto (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ giurisprudenza pacifica quella secondo la quale, per determinare la capacità edificatoria di un lotto unitario e cioè di un’unica proprietà, ai fini del rilascio o meno di un permesso di costruire (titolo edilizio di carattere generale nel caso di ampliamento e comunque di volumetria aggiuntiva), occorre tener conto dell’indice fondiario, fissato dallo strumento urbanistico per la specifica area di insistenza del lotto (nel rispetto dell’indice cd. territoriale, che tiene conto anche degli spazi pubblici quali parcheggi e aree verdi, determinato per le normalmente più ampie zone territoriali omogenee in cui ricadono le singole aree classificate dallo strumento urbanistico) e scomputando dalla volumetria espressa dalla superficie totale del lotto di proprietà, quella assentita prima del rilascio del permesso di costruire richiesto, anche se non realizzata (purché il titolo sia ancora efficace).
La giurisprudenza afferma ancora più significativamente che “è computabile anche la costruzione realizzata prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa, il che comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorre al computo complessivo della densità territoriale”.
Dall’altro lato, se sono rilevanti gli interventi precedentemente assentiti, realizzati o meno (salvo che il titolo abbia perso efficacia), sono irrilevanti i frazionamenti del lotto disposti nel tempo anche allo scopo di ritagliare un’area libera che possa utilizzare tutto l’indice fondiario, operazione non consentita: “Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo”.
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Ai fini della determinazione della volumetria concretamente e legittimamente realizzabile in uno specifico lotto in base all’indice fondiario, si computa tutta la volumetria regolarmente assentita in precedenza.
Afferma, infatti, la giurisprudenza che “un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio…”.
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10. Anche il quarto motivo di ricorso si rivela meritevole di accoglimento.
E’ giurisprudenza pacifica (cfr. parere del Consiglio di Stato, Sezione terza, 28.04.2009 n. 9605) quella secondo la quale, per determinare la capacità edificatoria di un lotto unitario e cioè di un’unica proprietà, ai fini del rilascio o meno di un permesso di costruire (titolo edilizio di carattere generale nel caso di ampliamento e comunque di volumetria aggiuntiva), occorre tener conto dell’indice fondiario, fissato dallo strumento urbanistico per la specifica area di insistenza del lotto (nel rispetto dell’indice cd. territoriale, che tiene conto anche degli spazi pubblici quali parcheggi e aree verdi, determinato per le normalmente più ampie zone territoriali omogenee in cui ricadono le singole aree classificate dallo strumento urbanistico) e scomputando dalla volumetria espressa dalla superficie totale del lotto di proprietà, quella assentita prima del rilascio del permesso di costruire richiesto, anche se non realizzata (purché il titolo sia ancora efficace).
La giurisprudenza afferma ancora più significativamente che “è computabile anche la costruzione realizzata prima della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa, il che comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il prescritto titolo, concorre al computo complessivo della densità territoriale (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria 23.04.2009 n. 3)” (Cons. St. IV, 13.11.2018, n. 6397).
Dall’altro lato, se sono rilevanti gli interventi precedentemente assentiti, realizzati o meno (salvo che il titolo abbia perso efficacia), sono irrilevanti i frazionamenti del lotto disposti nel tempo anche allo scopo di ritagliare un’area libera che possa utilizzare tutto l’indice fondiario, operazione non consentita: “Nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941)” (Cons. St. ult. cit.).
All’opposto, quindi, di quanto sostenuto dal Comune, va computata la superficie e la correlata volumetria del manufatto denominato “garage-cantina” oggetto di sanatoria.
Ai fini della determinazione della volumetria concretamente e legittimamente realizzabile in uno specifico lotto in base all’indice fondiario, si computa tutta la volumetria regolarmente assentita in precedenza. Afferma, infatti, la giurisprudenza che “un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio… (Cons. St. sez. V, 10.02.2000 n. 749)” (Cons. St. IV, 22.11.2017 n. 5419; negli stessi termini TAR Milano sez. II 27.03.18 n. 882).
Nella fattispecie, proprio il fatto che sia stata rilasciata, come si premura di sottolineare il comune, la “sanatoria” del manufatto denominato “garage-cantina” e cioè il relativo titolo edilizio, per quanto postumo, comporta che il comune abbia già computato le superfici e volumetrie sanate, con conseguente sottrazione, dalla volumetria realizzabile, della superficie e –soprattutto, rilevando il volume in sede di edificazione residenziale-della volumetria già realizzata e assentita.
Errato è anche l’argomento sviluppato dal comune sulla base della disposizione dell’art. 90 delle NTA. Stando al contenuto della disposizione riportato dalla stessa amministrazione comunale, l’art. 90 non risulta applicabile ad ipotesi di ampliamento ma solo alle fattispecie di “trasformazione conservativa”, ipotesi non disciplinata dalla normativa generale ma da intendersi come riferita alla figura della ristrutturazione senza ampliamento. D’altro canto, la disposizione risulta prevedere, per la suddetta fattispecie (trasformazione conservativa) l’attivazione di “procedure di deroga agli indici edilizi ed urbanistici” e non autorizza immediatamente e direttamente tale deroga, di cui, del resto non fissa in alcun modo i limiti (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ritiene il Collegio di dare applicazione all’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi".
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12. Con il settimo motivo le ricorrenti censurano il permesso di costruire, controvertendo in dubbio il titolo di proprietà in capo al controinteressato.
Il motivo è infondato.
Al di là delle pur condivisibili e documentate argomentazioni dedotte dal Comune resistente circa l’esatta estensione della proprietà catastale oggetto dell’intervento edilizio coincidente con le particelle n. 215 e 335 come risultanti da pregressi frazionamenti, ritiene il Collegio di dare applicazione all’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui può ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore (in questo caso il decreto del Pretore di Bagnara datato 08.03.1988 – all. 13 parte resistente), senza dover procedere ad una accurata e approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità necessario all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia, ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti dei terzi" (ex pluribus cfr. Cons. St. Sez. VI, 04.09.2012, n. 4676; Cons. St. Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIÈ incostituzionale l'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali dei Comuni
È incostituzionale l’articolo 14, comma 28, del Dl 31.05.2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio-ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento.

È quanto afferma la Corte costituzionale, con la sentenza 04.03.2019 n. 33.
L’approfondimento
La Corte costituzionale è intervenuta affermando l’illegittimità dell’articolo 14, comma 28, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, che prevede per i piccoli Comuni l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali tassativamente stabilite dalla legge.
La decisione
Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della normativa impugnata, la Corte ha avuto modo di rilevare come, gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli Enti territoriali debbano svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
Per la Corte, infatti, La previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione della lett. l del comma 27) sconterebbe in ogni caso un’eccessiva rigidità, al punto che non consentirebbe di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina.
A giudizio della Corte, la norma del comma 28 dell’articolo 14 del Dl n. 78 del 2010, pretende di avere applicazione anche in tutti quei casi in cui:
   a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati;
   b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in una situazione di prossimità;
   c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento» (sentenza n. 17 del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta.
Si tratterebbe nella sostanza di situazioni dalla più varia complessità che però meritano attenzione, perché in tutti questi casi, solo esemplificativamente indicati, in cui l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale, il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità (nello stesso senso, ex plurimis sentt. n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015).
La Corte ha altresì rilevato che un ulteriore sintomo delle criticità della normativa risulta dall’estenuante numero dei rinvii dei termini originariamente previsti, che, come evidenziato dal giudice rimettente, coprendo un arco temporale di quasi un decennio, dimostrano l’esistenza di situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile la norma.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che il menzionato comma 28 è pertanto illegittimo nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali dei piccoli Comuni: la Consulta accoglie parzialmente le questioni sollevate dal Tar per il Lazio.
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La Corte costituzionale si pronuncia sulle norme (art. 14, commi 28 ss., del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dal decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012) che hanno imposto, per i Comuni di piccole dimensioni (con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se si tratta di Comuni montani), la gestione associata delle funzioni fondamentali.
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Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di esercizio in forma associata – Mancata previsione della possibilità di dimostrare l’esistenza di circostanze rilevanti ai fini dell’esonero dall’obbligo – Incostituzionalità.
  
Regione Campania – Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Svolgimento in forma associata – Individuazione, con legge regionale, della dimensione territoriale ottimale ed omogenea – Mancata concertazione con i Comuni interessati – Incostituzionalità.
  
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Numero e contenuto – Questione di costituzionalità – Difetto di motivazione sulla rilevanza – Questione inammissibile di costituzionalità.
  
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di esercizio in forma associata – Previsione con decreto-legge – Questione infondata di costituzionalità.
  
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di esercizio in forma associata – Lesione del principio autonomistico – Questione infondata di costituzionalità.
  
E’ incostituzionale l’art. 14, comma 28, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, il quale impone l’esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni comunali fondamentali, nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio-ambientali del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento. (1)
  
E’ incostituzionale l’art. 1, commi 110 e 111, della legge della Regione Campania 07.08.2014, n. 16 (recante “Interventi di rilancio e sviluppo dell'economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo (collegato alla legge di stabilità regionale 2014)”), per contrasto con gli artt. 5 e 114 Cost., nel combinato disposto con l’art. 97 Cost., non risultando dimostrato che l’individuazione ivi contenuta della dimensione territoriale ottimale ed omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, ai sensi di quanto prescritto dal comma 28 dell’art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, sia stata preceduta dalla concertazione con i Comuni interessati. (2)
  
Sono inammissibili, per difetto di motivazione sulla rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 26 e 27, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2008, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, concernenti il numero ed il contenuto delle funzioni fondamentali dei Comuni, sollevate in riferimento agli artt. 3, 5, 77, comma 2, 95, 97, 114, 117, comma 1 –in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15.10.1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30 dicembre 1989, n. 439– e comma 6, 118, 119 e 133, comma 2, Cost. (3)
  
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, sollevata in riferimento all’art. 77, comma 2, Cost., non essendo ravvisabile un’“evidente mancanza” dei presupposti di necessità ed urgenza tipici della decretazione d’urgenza. (4)
  
Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 28-bis, 29, 30 e 31, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114, 117, comma 1 –in relazione all’art. 3 della Carta europea dell’autonomia locale–, 118, 119 e 133 Cost., posto che, per un verso, il meccanismo della rappresentanza di secondo grado (derivante dall’obbligatorietà, per legge, delle forme associative tra i Comuni) appare compatibile con la garanzia del principio autonomistico –risultando comunque preservato uno specifico ruolo agli Enti locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato ottimale, e che, per altro verso, la minore concessione all’autonomia comunale trova fondamento nella finalità della disciplina che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di efficienza– e in particolare a quello della mancanza di economie di scala –dei piccoli Comuni, con conseguente emersione della potestà statale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. (5)
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   (1 - 5) I. – Con la decisione in rassegna, la Corte costituzionale accoglie solo parzialmente le questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate dal Tar per il Lazio, sez. Iter, con ordinanza 20.01.2017, n. 1027 (oggetto della News US in data 24.01.2017, cui si rinvia per ogni approfondimento), in materia di esercizio obbligatoriamente associato delle funzioni fondamentali per i Comuni di piccola dimensione (quelli aventi, cioè, una popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti nel caso dei Comuni montani). La norma sospettata di incostituzionalità era l’art. 14, commi 26 ss., del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come modificato dal decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012 (c.d. decreto sulla spending review), che detta la disciplina dell’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni.
L’attenzione del rimettente si era focalizzata su due questioni principali:
      a) da un lato, la previsione dei commi 26 e 27, che pongono come obbligatorio, per l’Ente locale, l’esercizio delle “funzioni fondamentali” (comma 26) ed individuano, con apposito elenco, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p), Cost., quali sono tali funzioni (comma 27);
      b) dall’altro lato, la prescrizione della “forma associata” (“mediante unione di comuni o convenzione”) come modalità obbligatoria per l’esercizio di tali funzioni, con obbligo imposto ai “comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide integralmente con quello di una o di più isole e il comune di Campione d'Italia” (così il comma 28);
      c) nonché sulle successive norme di contorno, di cui ai commi successivi – i quali disciplinano l’“unione” con rinvio all’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000 (così il comma 28-bis), fissano il divieto di svolgere le funzioni singolarmente o mediante più di una forma associativa (comma 29), demandano alle Regioni l’individuazione della dimensione territoriale ottimale per il predetto esercizio associato (comma 30) e definiscono il limite demografico minimo che le forme associate devono raggiungere (comma 31).
Il giudizio dinnanzi al Tar per il Lazio era stato azionato (oltre che da un’associazione esponenziale di Enti locali) da alcuni Comuni campani, tutti aventi popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, i quali hanno impugnato la circolare del Ministero dell’Interno del 12.01. 2015 (recante "Esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali, mediante unioni o convenzioni da parte dei comuni”) con cui si era dettata una prima disciplina attuativa degli obblighi di legge, imponendo alle Prefetture di procedere alla ricognizione dello stato di attuazione della normativa e di diffidare i Comuni inadempimenti, secondo specifiche tempistiche e modalità.
Va qui rammentato che il termine entro il quale tutte le funzioni fondamentali avrebbero dovuto essere gestite in forma associata, inizialmente fissato dalla legge al 31.12.2014, è stato poi via via prorogato fino, da ultimo, alla data del 31.12.2019 (fissata, oggi, dall’art. 11-bis, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2018, convertito in legge n. 12 del 2019, in vista, peraltro, di un nuovo tentativo di riforma volto “all'avvio di un percorso di revisione organica della disciplina in materia di ordinamento delle province e delle città metropolitane, al superamento dell'obbligo di gestione associata delle funzioni e alla semplificazione degli oneri amministrativi e contabili a carico dei comuni, soprattutto di piccole dimensioni”).
Il Tar per il Lazio aveva sottoposto al giudizio della Consulta, oltre alle menzionate disposizioni di legge statale, anche le norme della legislazione campana (in specie, l’art. 1, commi 110 e 111, della legge regionale n. 16 del 2014) che, in attuazione di quelle statali, avevano individuato, quale dimensione territoriale ottimale ed omogenea per l'esercizio delle funzioni fondamentali in forma obbligatoriamente associata, i cc.dd. sistemi territoriali di sviluppo previsti a fini urbanistici e di coesione territoriale.
In punto di rilevanza, il Tar rimettente aveva evidenziato che il petitum oggetto del ricorso consisteva nella “pronuncia di accertamento negativo della sussistenza dell’obbligo, per i Comuni ricorrenti, di associarsi in via convenzionale” e nella “correlata pronuncia di annullamento della circolare ministeriale” (avente portata immediatamente lesiva, nella parte in cui ha prescritto ai Prefetti di verificare lo stato di attuazione della normativa introdotta dal decreto-legge n. 78 del 2010 e di diffidare ad adempiere i Comuni che, in violazione dell’obbligo di gestione in forma associata delle funzioni fondamentali, non vi avessero provveduto nelle modalità e nei termini previsti).
   II. – Il giudizio della Corte costituzionale è chiaro nel differenziare i due gruppi di norme oggetto del suo scrutinio, cioè quello formato dai commi 26 e 27 (fissazione dell’obbligo di esercizio delle funzioni fondamentali ed elenco di queste ultime), da un lato, e quello di cui ai commi 28 ss. (imposizione dell’obbligo di gestione associata), dall’altro lato.
La Corte rileva che “l’interesse alla tutela azionata dai ricorrenti è scaturito non in relazione all’individuazione, in quanto tale, delle funzioni fondamentali, quanto piuttosto dalla preclusione a gestirle da parte di ciascun Comune autonomamente, effetto questo riconducibile solo alle disposizioni contenute nei commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31 dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, nonché nell’art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014”.
Le questioni concernenti il primo gruppo vengono quindi dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza (in quanto l’ordinanza di rimessione “non chiarisce per quali motivi la individuazione delle funzioni fondamentali, ossia lo specifico oggetto di una o più di esse, rileverebbe nella risoluzione della controversia sottoposta al rimettente”).
Passando allora al merito delle questioni concernenti il secondo gruppo di norme (commi 28 ss.) e, quindi, specificamente, l’introduzione, per legge, dell’obbligo (per i Comuni di piccole dimensioni o i Comuni montani) di svolgere in forma associata le proprie “funzioni fondamentali”, oltre alle ulteriori norme di contorno, la Corte svolge il seguente percorso argomentativo:
      d) viene anzitutto respinta la questione incentrata sul parametro della carenza dei presupposti di necessità e di urgenza per l’adozione del decreto-legge censurato, ex art. 77, comma 2, Cost.; qui, in particolare, la Corte:
         d1) precisa che l’oggetto del giudizio riguarda non solo il decreto-legge n. 78 del 2010 (cui l’ordinanza di rimessione esplicitamente si riferiva nel dispositivo), ma anche il successivo decreto-legge n. 95 del 2012, modificativo di alcune delle norme dal primo introdotte (opportunamente menzionato nella motivazione dell’ordinanza di rimessione): si conclude, pertanto, che –poiché “l’oggetto del giudizio costituzionale deve essere individuato interpretando il dispositivo dell’ordinanza di rimessione con la sua motivazione” (cfr. sentenza 21.07.2016, n. 203, in Rass. dir. farmaceutico, 2016, 789)– “si può ritenere che il giudice rimettente abbia preso in considerazione il contenuto normativo delle disposizioni censurate come effettivamente applicabili alla fattispecie sottoposta al suo esame e sulla cui base è stata adottata la circolare impugnata”;
         d2) richiama la propria pregressa giurisprudenza sul sindacato riguardante i presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost., circoscritto alla “evidente mancanza di tali presupposti” (cfr., da ultimo, la sentenza 18.01.2018, n. 5, in Foro it., 2018, I, 710, con nota di PASCUZZI, in Nuova giur. civ., 2018, 881, con nota di TOMASI, ed in Giur. cost., 2018, 38, con nota di PINELLI) o alla “manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione” (cfr. sentenza 12.07.2017, n. 170, in Giur. cost., 2017, 1555, con nota di PINELLI), sulla base di una pluralità di indici intrinseci ed estrinseci;
         d3) rimarca che, nel caso di specie, non sussiste tale “evidente mancanza”, “alla luce del titolo dei provvedimenti, dei rispettivi preamboli e del contenuto complessivo delle disposizioni introdotte”, trattandosi di norme “dirette ad assicurare il coordinamento della finanza pubblica e il contenimento delle spese per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei comuni” (così il comma 25 dell’art. 14 cit.) e dal legislatore introdotte per favorire “un contenimento della spesa pubblica, creando un sistema tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni (e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni, che mira ad un risparmio di spesa” (cfr. sentenza 11.02.2014, n. 22, in Le Regioni, 2014, 791, con nota di CORTESE), avuto specialmente riguardo al numero di enti potenzialmente coinvolti (la Corte qui precisa che “alla fine del 2010 i Comuni fino a 5.000 abitanti erano, infatti, 5.683 su 8.092, pari a circa il 70 per cento del totale dei Comuni italiani”);
         d4) ritiene superabile l’argomento (pure utilizzato dal Tar rimettente) che, ai fini di dimostrare l’insussistenza della necessità e dell’urgenza nel provvedere, aveva fatto leva sul differimento degli effetti del decreto-legge (come detto, inizialmente postergati alla fine del 2014, ed oggi ulteriormente rimandati a tutto il 2019), “apparendo fisiologico e non incompatibile con i presupposti della necessità e urgenza che il decreto-legge articoli alcuni passaggi procedurali e preveda per determinati aspetti un risultato differito” (cfr., oltre alle pronunce già ricordate, anche la sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
         d5) ritiene, altresì, superabile la censura riferita alla natura ordinamentale delle disposizioni introdotte dai decreti-legge in questione, pur ricordando che “la trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano logico e giuridico, con il dettato costituzionale” (cfr. sentenza 19.07.2013, n. 220, in Foro it., 2013, I, 2706, con nota di ROMBOLI, in Giur. cost., 2013, 3157, con note di MACCABIANI e SAPUTELLI, ed in Le Regioni, 2013, 1162, con note di DI COSIMO e MASSA), ma rilevando che “le norme censurate hanno introdotto riforme dalla portata innovativa solo parziale, atteso che [...] sia la convenzione che l’unione di Comuni erano forme istituzionali già da tempo previste e disciplinate dall’ordinamento, che, sebbene in limitate ipotesi e solo in relazione a specifiche funzioni, prefigurava anche la possibilità di una loro costituzione obbligatoria” (con richiamo, qui, agli artt. 24, 25 e 26 della legge n. 142 del 1990 ed ai corrispondenti artt. 30, 31 e 32 del d.lgs. n. 267 del 2000);
         d6) ricorda, comunque, che ad analoghe conclusioni è già pervenuta la sentenza n. 44 del 13.03.2014 (in Giur. cost., 2014, 986, con nota di FALLETTA), a proposito della disciplina –parallela a quella qui in esame– dell’obbligo di gestione associata di tutte le funzioni per i Comuni fino a 1.000 abitanti: a fronte della censura delle Regioni di violazione dell’art. 77 Cost., quella sentenza non aveva condiviso “l’assunto secondo cui l’intero art. 16 introdurrebbe norme ordinamentali dirette ad incidere profondamente sullo status istituzionale dei Comuni”, precisando che “le disposizioni censurate non alterano il tessuto strutturale e il sistema delle autonomie locali, ma sono dirette a realizzare, per i Comuni con popolazione fino a 1.000 abitanti, l’esercizio in forma associata delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici, mediante unioni di Comuni, secondo un modello peraltro già presente nell’ordinamento, sia pure con talune differenze di disciplina (art. 32 del TUEL)”;
      e) venendo alle ulteriori censure sollevate dal Tar per il Lazio -incentrate sull’obbligatorietà e sulla rigidità del nuovo assetto dell’esercizio associato delle funzioni comunali (a fronte della diversa caratterizzazione che i relativi istituti avevano precedentemente, quando era prevista “la volontarietà nell’an e la flessibilità nel quomodo della scelta delle forme associative alle quali aderire”), tale da mettere in pericolo, in particolare, il principio dell’autonomia degli Enti territoriali- la Corte ricorda, da un lato, che “è un dato definitivamente acquisito come la loro autonomia vada in primo luogo intesa quale potere di indirizzo politicoamministrativo” (con richiamo alla sentenza 27.03.1987, n. 77, in Cons. Stato, 1987, II, 727, con nota di STADERINI, in Riv. giur. polizia locale, 1987, 595, con nota di VICICONTE, in Riv. amm., 1987, 728, con nota di FELICETTI, ed in Le Regioni, 1987, 1033, con nota di COLUCCI), ma ribadisce, dall’altro lato, che “già da tempo sono previsti gli istituti della unione e della convenzione, che stabiliscono modalità di attuazione delle scelte di indirizzo politico di ciascun ente tramite la mediazione di specifiche strutture comuni”; giunge, quindi, sul punto alle seguenti conclusioni:
         e1) un ipotetico vincolo costituzionale che imponesse la coincidenza, in un unico soggetto istituzionale, della funzione di indirizzo politico con quella di indirizzo amministrativo risulterebbe già violato dalla previsione della forma associativa in sé stessa, “a prescindere dal fatto che questa risulti obbligatoriamente imposta”, in quanto sarebbe “la stessa forma associativa, costituendo [...] un ‘sistema di governo locale acefalo’, a risultare lesiva, nel contesto dell’autonomia comunale, dell’archetipo del principio rappresentativo e delle sue necessarie implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla comunità locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo in scelte di politica amministrativa”; ma tale conclusione “appare palesemente insostenibile, posto che le forme associative risultano pur sempre una proiezione degli enti stessi, come affermato da questa Corte in più occasioni” (si citano, qui: la sentenza 23.12.2005, n. 456, in Giust. amm., 2005, 1266, con nota di GIORDANO, ed in Le Regioni, 2006, 542, con nota di GIUPPONI; la sentenza 24.06.2005, n. 244, in Giorn. dir. amm., 2005, 1033, con nota di SCIULLO; la sentenza 06.06.2001, n. 229, in Dir. e giustizia, 2001, 29, 26, con nota di POGGI);
         e2) anche nella più stringente forma di associazione, ossia l’unione di Comuni (la quale è provvista di propri organi), il meccanismo della rappresentanza di secondo grado “appare compatibile con la garanzia del principio autonomistico, dal momento che, anche in questo caso, non può essere negato che venga ‘preservato uno specifico ruolo agli enti locali titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella forma della partecipazione agli organismi titolari dei poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale reputato ottimale’” (così la sentenza n. 160 del 2016, cit.), posto che, a norma dell’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000, il previsto modo di elezione e di composizione del Consiglio dell’unione è tale da assicurare la rappresentanza di ogni Comune e di garantire la rappresentanza delle minoranze;
      f) il punto centrale delle questioni sollevate –chiarisce la Corte– non è, quindi, la previsione della forma associativa tra i Comuni (aspetto della cui legittimità costituzionale, come appena visto, non si può dubitare), quanto piuttosto il fatto che venga imposto l’obbligo della forma associativa per l’esercizio delle funzioni fondamentali; qui la Corte, a difesa della norma, chiarisce che:
         f1) la legge impugnata (in particolare, il comma 28 dell’art. 14 cit.) lascia all’autonomia degli enti locali interessati l’alternativa tra due istituti (convenzione e unione), i cui caratteri costitutivi e funzionali consentono agli enti stessi di modulare il rispetto della norma con valutazioni proprie dell’indirizzo politico;
         f2) il (pur ravvisabile) sacrificio dell’autonomia comunale si giustifica alla luce della “finalità della disciplina, che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di efficienza –e in particolare a quello della mancanza di economie di scala– dei piccoli Comuni” ed il relativo intervento dello Stato rientra –come già detto– nella potestà statale concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica;
      g) quest’ultimo riferimento conduce, però, alla prima declaratoria di incostituzionalità, in quanto –ricorda la Corte– “gli interventi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato” (ex plurimis, cfr. sentenza n. 22 del 2014, cit.); da questo punto di vista, nel caso di specie accade che:
         g1) la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione di quella indicata dalla lettera l) del comma 27, in materia di tenuta dei registri di stato civile e di servizi anagrafici ed elettorali) sconta “un’eccessiva rigidità, al punto che non consente di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera disciplina”;
         g2) possono darsi situazioni di fatto che male si attagliano alla previsione generale e astratta della norma (si pensi ai casi in cui: “a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari ‘fattori antropici’, ‘dispersione territoriale’ e ‘isolamento’, di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta”) (cfr. sentenza 02.02.2018, n. 17, in Giur. cost., 2018, 202); insomma, possono darsi casi “in cui l’ingegneria legislativa non combacia con la geografia funzionale”, ed allora “il sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa; questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando quindi il test di proporzionalità”;
         g3) pertanto, per evitare che la rigidità della disciplina possa condurre, irragionevolmente, ad effetti contrari alle finalità che la giustificano, la Corte emette qui una pronuncia additiva, dichiarando l’incostituzionalità del comma 28 “nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento”; con l’ulteriore avvertenza che “Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione, e, dall’altro, al legislatore provvedere a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che richiedono apposita regolamentazione” (cfr. la sentenza 26.04.2018, n. 88, in Giur. it., 2018, 2123, con nota di PARISI, e la sentenza 07.04.2011, n. 113, in Foro it., 2013, I, 802, con nota di CALÒ);
         g4) sul punto, peraltro, la Corte non manca di evidenziare i “gravi limiti che, rispetto al disegno costituzionale, segnano l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale italiana, dove le funzioni fondamentali risultano ancora oggi contingentemente definite con un decreto-legge che tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie su quelle ordinamentali” (come era già accaduto con la legge n. 42 del 2009, allorquando l’individuazione, allora solo provvisoria, delle funzioni fondamentali era stata meramente funzionale a permettere la disciplina del c.d. federalismo fiscale) e di bacchettare, conseguentemente, il legislatore (“il problema della dotazione funzionale tipica, caratterizzante e indefettibile, dell’autonomia comunale non è, quindi, stato mai stato risolto ex professo dal legislatore statale, come invece avrebbe richiesto l’impianto costituzionale risultante dalla riforma del Titolo V della Costituzione”);
         g5) la Corte quindi si appella ad una “fisiologica dialettica”, improntata a una “doverosa cooperazione” (cfr. sentenza 12.07.2017, n. 169, in Giur. cost., 2017, 1549), “da parte del sistema degli attori istituzionali, nelle varie sedi direttamente o indirettamente coinvolti”, al fine di raggiungere l’obiettivo di “una equilibrata, stabile e organica definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni ascrivibili all’autonomia locale”, in cui trovino adeguata considerazione anche “i limiti –da tempo rilevati– dell’ordinamento base dell’autonomia locale, per cui le stesse funzioni fondamentali –nonostante i principi di differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui all’art. 118, Cost.– risultano assegnate al più piccolo Comune italiano, con una popolazione di poche decine di abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento, con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei primi e chi nei secondi”; e ricorda qui la Corte l’esperienza di altri Paesi europei, dove il problema della “polverizzazione dei Comuni” è stato affrontato “attuando la differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche su quello funzionale”, come avvenuto, ad esempio, nell’ordinamento francese, “dove il problema è stato risolto sia con la promozione di innovative modalità di associazione intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento alle fusioni” (si compie un accenno, altresì, anche alle esperienze della Germania, del Regno Unito, della Svezia, della Danimarca, del Belgio e dell’Olanda);
      h) viene invece giudicato non fondato, sempre con riguardo all’imposto obbligo di associazione tra piccoli Comuni, il profilo di costituzionalità incentrato sul parametro dell’autonomia organizzativa e finanziaria degli Enti locali, dal rimettente argomentato nel senso che l’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali finirebbe con il comportare “l’estinzione dell’ente locale per fusione o incorporazione” (con aggiramento del procedimento imposto dall’art. 133 Cost.): la Corte in proposito rileva che l’introduzione del menzionato obbligo “non presenta alcuna attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni” e “non prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente modifica delle circoscrizioni territoriali” (cfr. sentenza n. 44 del 2014, cit.);
      i) quanto, infine, alla questione di legittimità concernente la norma regionale campana che, in attuazione della legge statale, ha individuato la dimensione territoriale ottimale ed omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali, la Corte emette anche qui una decisione di accoglimento per “mancata previa concertazione con i comuni interessati nell’ambito del Consiglio delle autonomie locali” (concertazione che è richiesta dal comma 30 dell’art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010), con violazione degli artt. 5, 114 e 97 Cost.: risulta, infatti, infranto il principio, affermato già nella sentenza n. 229 del 2001, cit., del necessario coinvolgimento, “per le conseguenze concrete che ne derivano sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi dell’autonomia comunale”, degli enti locali infra regionali nelle determinazioni regionali che investono l’allocazione di funzioni tra i  diversilivelli di governo, “anche di natura associativa”.
   III. – Per completezza si consideri quanto segue:
      j) di recente, la Corte costituzionale ha avuto occasione di occuparsi di altre questioni concernenti, ciascuna con peculiarità sue proprie, l’accorpamento di enti anche territoriali (mediante soppressione di enti preesistenti e conseguente allargamento della sfera territoriale di competenza degli enti mantenuti):
         j1) con la sentenza n. 246 del 2017 (oggetto della News US in data 10.01.2017, cui si rinvia per i dovuti approfondimenti) la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità, sollevata dal Consiglio di Stato nel 2015, concernente la soppressione (a seguito di apposito referendum regionale) di alcune delle Province sarde di recente istituzione: la declaratoria di inammissibilità è dipesa dalla mancata tempestiva censura della disciplina normativa presupposta, in base alla quale gli organi in carica delle Province soppresse all’esito dei referendum abrogativi erano già stati trasformati in organi di mera gestione provvisoria;
         j2) con sentenza 17.07.2018, n. 160 (in Foro it., 2018, I, 2970, nonché oggetto della News US in data 03.08.2018, cui si rinvia per gli approfondimenti opportuni), la Corte costituzionale ha salvato la legge della regione Basilicata n. 1 del 2017 che aveva istituito un unico consorzio di bonifica per tutto il territorio regionale (in luogo dei preesistenti consorzi, contestualmente soppressi) avente competenza sull'intero territorio regionale: in quel caso, a giudizio della Corte, l'unificazione dei comprensori dei consorzi di bonifica, posta in essere dalla Regione, appariva coerente con i principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale in materia di governo del territorio, ed in particolare con il principio fondamentale della specialità degli interventi in materia di bonifica (di cui all’art. 27 del decreto-legge n. 248 del 2007, convertito in legge n. 31 del 2008);
      k) in materia di riordino delle Province, in vista della loro soppressione, operato dalla legge n. 56 del 2014 (c.d. legge Del Rio), sono punti fermi nella giurisprudenza costituzionale i seguenti:
         k1) le Città metropolitane, quali istituite dalla legge n. 56 del 2014 in attuazione del novellato art. 114 Cost., non possono ricevere una disciplina ed una struttura diversificate da regione a regione, “senza con ciò porsi in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme, almeno con riferimento agli aspetti essenziali” (cfr. sentenza 26.03.2015, n. 50, in Riv. neldiritto, 2015, 1249, con nota di DI FOLCO, in Giorn. dir. amm., 2015, 489, con nota di TUBERTINI, in Giur. cost., 2015, 432, con note di BARTOLE, DE MARTIN, DI FOLCO e SERGES, ed in Guida al dir., 2015, 17, 86, con nota di PONTE);
         k2) l'intervento di riordino di province e città metropolitane, di cui alla citata legge n. 56 del 2014, rientra nella competenza esclusiva statale nella materia “legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane” ex art. 117, comma 2, lett. p), Cost. (in tal senso: sentenza 07.07.2016, n. 159, in Foro it., 2016, I, 3720, con nota di G. D'AURIA; sentenza 21.07.2016, n. 202, in Giur. cost., 2016, 1434; sentenza 09.02.2017, n. 32, in Foro it., 2018, I, 1848);
         k3) in tale quadro, la disciplina del personale degli enti coinvolti costituisce “uno dei passaggi fondamentali della riforma” (così la sentenza n. 159 del 2016, cit.), anch’esso quindi rientrante nella competenza esclusiva dello Stato in materia di “funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane”, essendo evidente che “la ridefinizione delle funzioni amministrative spettanti a regioni ed enti locali non può prescindere, per divenire effettiva, dall'individuazione delle corrispondenti risorse di beni, di mezzi finanziari e di personale” (così le sentenze n. 202 del 2016 e n. 32 del 2017, cit.);
         k4) i meccanismi di elezione indiretta degli organi di vertice dei nuovi “enti di area vasta”, previsti dalla legge n. 56 del 2014, sono “funzionali al perseguito obiettivo di semplificazione dell'ordinamento degli enti territoriali, nel quadro della ridisegnata geografia istituzionale, e contestualmente rispondono ad un fisiologico fine di risparmio dei costi connessi all'elezione diretta”; di conseguenza, “il ‘modello di governo di secondo grado’, adottato dal legislatore statale [...], rientra tra gli ‘aspetti essenziali’ del complesso disegno riformatore che si riflette nella legge stessa” (così la sentenza 20.07.2018, n. 168, in Foro it., 2018, I, 2961);
         k5) le disposizioni sull’elezione indiretta degli organi territoriali, per l’appunto contenute nella legge n. 56 del 2014, si qualificano, dunque, come “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” ed, in quanto tali, costituiscono un limite anche all'esercizio delle competenze legislative di tipo esclusivo: di conseguenza, con la menzionata sentenza n. 168 del 2018, è stata dichiarata l’incostituzionalità delle disposizioni della legge della Regione siciliana n. 17 del 2017 che prevedevano l’elezione diretta e a suffragio universale del Presidente e dei membri del Consiglio del “Libero Consorzio comunale” (ente di area vasta composto dai Comuni di una corrispondente ex circoscrizione provinciale) e del Consiglio metropolitano;
      l) con riguardo all’individuazione ed alla salvaguardia delle funzioni amministrative comunali si segnalano, di recente, le seguenti pronunce:
         l1) Corte cost., sentenza 13.06.2018, n. 126 (in Giur. cost., 2018, 1374, nonché oggetto della News US in data 02.07.2018, cui si rinvia per ulteriori richiami), in cui –per un verso– si è ritenuto che l’intervento del legislatore statale, volto al risanamento ed alla bonifica di un sito di interesse nazionale (si trattava, nella specie, delle misure di bonifica ambientale e di rigenerazione urbana del comprensorio Bagnoli-Coroglio, previste dall’art. 33 del decreto-legge n. 133 del 2014, convertito in legge n. 164 del 2014), deve essere ricondotto alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di ambiente, spettando dunque allo Stato disciplinare, “pure con disposizioni di dettaglio e anche in sede regolamentare, le procedure amministrative dirette alla prevenzione, riparazione e bonifica dei siti contaminati”, anche esercitando “funzioni propriamente programmatorie a livello urbanistico” secondo “un adeguato e puntuale programma di rigenerazione urbana” (venendo in considerazione interventi “strettamente connessi alla destinazione urbanistica delle singole aree da bonificare”), ma in cui –per altro verso– si è tenuta ferma la necessità di salvaguardare, ex art. 118 Cost., la corretta allocazione delle funzioni amministrative degli Enti territoriali, anche eventualmente in sede di conferenza di servizi (dove “le amministrazioni coinvolte devono raggiungere un accordo sul programma e solo nel caso in cui ciò non avvenga la decisione può essere rimessa ad una deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata però con la necessaria partecipazione alla relativa seduta del Presidente della Regione interessata”); in tale quadro la Corte ha altresì precisato che le funzioni comunali in materia di programmazione urbanistica “non godono di specifica tutela costituzionale, sebbene i poteri dei Comuni non possano essere annullati e sia necessario garantire agli stessi forme di partecipazione ai procedimenti che ne condizionano l'autonomia”, asseverando che, nel caso di specie, tali “forme di partecipazione sono state appunto predisposte dal legislatore statale, che ha individuato numerose sedi di coinvolgimento del Comune, a monte e a valle del programma di risanamento”;
         l2) Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 04.12.2017, n. 5711 (in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 49, con nota di PAGLIAROLI, nonché oggetto della News US in data 21.12.2017, cui parimenti si rinvia), con cui è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale della legge regionale lombarda in tema di consumo del suolo (legge della Regione Lombardia n. 31 del 2014), sotto il profilo della compressione delle funzioni comunali in materia urbanistica, ricordandosi, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che, “in relazione ai poteri urbanistici dei Comuni, [...] la legge nazionale e regionale possa modificarne le caratteristiche o l'estensione, ovvero subordinarli a preminenti interessi pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano l'autonomia” (con richiamo, tra le molte, alle sentenze della Corte costituzionale n. 378 del 2000, n. 357 del 1998, n. 286 del 1997, n. 83 del 1997 e n. 61 del 1994) ed altresì ricordandosi, sulla scorta della pregressa giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr., tra le tante, la sentenza della IV sezione n. 821 del 22.02.2017, in Foro amm., 2017, 303), che il potere di pianificazione urbanistica del territorio, normalmente attribuito al Comune, “non è limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli [...], ma che, per mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, realizzi anche finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato), nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di valori costituzionalmente tutelati; tali finalità, più complessive dell'urbanistica, e degli strumenti che ne comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l. 17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto della ‘disciplina urbanistica e dei suoi scopi’ -art. 1-, non solo nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato, ma anche nello ‘sviluppo urbanistico in genere nel territorio della Repubblica’”;
      m) sui requisiti della decretazione d’urgenza, ai sensi dell’art. 77, comma 2, Cost., cfr., di recente –oltre agli altri precedenti menzionati nella sentenza qui in rassegna ed in linea con quanto da quest’ultima ulteriormente affermato– Corte cost., sentenza 15.05.2018, n. 99 (in Giur. it., 2018, 2395, con nota di BOGGIO, ed in Società, 2018, 830, con nota di DE CHIARA, nonché oggetto della News US in data 21.05.2018, cui si rinvia per i necessari approfondimenti), che, nel respingere le questioni di costituzionalità sulla riforma del sistema delle banche popolari (di cui al decreto-legge n. 3 del 2015, convertito in legge n. 33 del 2015), ha ribadito che, ai fini di un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale ex art. 77, comma 2, Cost.:
         m1) deve essere soddisfatto il requisito dell’“evidente mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, nonché di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione;
         m2) ai fini di valutare la sussistenza di tale requisito ben può l’interprete considerare il contenuto del preambolo del decreto-legge e le ragioni giustificative ivi eventualmente enunciate (nel caso, il preambolo si riferiva alla straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei) ovvero anche la relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione (nel caso, sono risultati convincenti i riferimenti, ivi contenuti, alle sollecitazioni provenienti dal Fondo monetario internazionale e dall’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica nonché alla crisi economica e finanziaria in atto);
         m3) l’adozione di un decreto-legge è compatibile con l’intento di operare modificazioni solo parziali e specifiche di un determinato settore dell’ordinamento, non assimilabili ad un intervento “di riforma di sistema”;
         m4) non è incompatibile con lo strumento della decretazione d’urgenza la presenza, nel contesto della normativa così introdotta, di talune disposizioni non auto-applicative, richiedenti cioè norme di attuazione;
      n) per una ricostruzione generale del rapporto tra decreto-legge e legge di conversione, nel quadro dei possibili vizi degli emendamenti apportati in sede di conversione, cfr. di recente:
         n1) Corte cost., sentenza 25.02.2014, n. 32 (in Foro it., 2014, I, 1003, con nota di ROMBOLI, in Riv. polizia, 2013, 123, con nota di LA CUTE, in Riv. neldiritto, 2014, 1025, con nota di MABELLINI, in Giur. cost., 2014, 485, con note di CUPELLI e di LAVARINI, ed in Guida al dir., 2014, 12, 16, con nota di AMATO), la quale si è soffermata, in particolare, sui limiti di intervento della legge di conversione, specificando che quest’ultima –in quanto “legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto”, avente pertanto una “competenza tipica”– sconta di conseguenza limiti di intervento, non potendo aprirsi a qualsiasi contenuto che risulti ulteriore ed estraneo rispetto a quello del decreto-legge (“come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari: art. 96-bis del regolamento della camera dei deputati e art. 97 del regolamento del senato della repubblica, come interpretato dalla giunta per il regolamento con il parere dell’08.11.1984”): “Pertanto, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua”;
         n2) Corte cost., sentenza 06.05.2016, n. 94 (in Foro it., 2016, I, 1880, nonché in Guida al dir., 2016, 24, 42, con nota di AMATO, in Gazzetta forense, 2016, 712, con nota di AMOROSO, in Giur. it., 2016, 2492, con nota di MAZZANTI, ed in Giur. cost., 2016, 869, con nota di SERGES), che ha dichiarato incostituzionali alcune disposizioni introdotte dalla legge n. 49 del 2006 (concernenti, in particolare, la previsione di una nuova contravvenzione in materia di tossicodipendenza), trattandosi di legge di conversione del decreto-legge n. 272 del 2005, il cui contenuto è stato ritenuto dalla Corte “palesemente estraneo” rispetto a quello dell’emendamento contestato;
      o) in dottrina, con riguardo ai presupposti della decretazione d’urgenza, cfr., tra i più recenti contributi: CONDEMI, Il punto di correlazione tra l'originario contenuto del decreto legge e le innovazioni introdotte in sede di conversione, in Giur. cost., 2015, 1271; DOMENICALI, Conferme (e future aperture?) in tema di sindacato costituzionale sulla decretazione d'urgenza, in Studium iuris, 2017, 430; G. BERNABEI, Carattere provvedimentale della decretazione d’urgenza, Padova, 2017 (che rivolge particolare attenzione ai presupposti di “necessità” e di “urgenza”, spec. 114 ss., dove si pone in particolare l’accento sulla valutazione che di essi ne faccia l’esecutivo, sotto la sua responsabilità politica, unitamente alla questione sui limiti di ammissibilità dei c.d. decreti-legge ad efficacia differita);
      p) sul test di proporzionalità e sul sindacato di ragionevolezza e razionalità, oltre alle sentenze citate in motivazione, cfr. Corte cost., sentenza 02.11.1996, n. 370 (in Foro it., 1997, I, 1695, con nota di TRAMONTANO, in Dir. pen. e proc., 1996, 1473, con nota di PISA, in Corriere giur., 1997, 405, con nota di LANZI, in Nuovo dir., 1996, 1141, con nota di NUNZIATA, ed in Giur. cost., 1996, 3351, con note di MICHELETTI e INSOLERA), con la quale fu dichiarato incostituzionale il reato di possesso ingiustificato di valori (art. 708 c.p.), ma fu per contro salvata l’omologa contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. (possesso ingiustificato di chiavi o grimaldelli): in tale circostanza la Corte, per un verso, argomentò la sopravvenuta irragionevolezza del reato ex art. 708 c.p. (definito uno “strumento ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato a contrastare le nuove dimensioni della criminalità”, “non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall’osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni”) e, per altro verso, rivenne una plausibile giustificazione nel mantenimento della contravvenzione ex art. 707 c.p. (affermando che “La determinazione del fatto-reato circa questa ipotesi criminosa è data infatti dalla tipologia stessa degli oggetti detenuti (le ‘chiavi alterate o contraffatte’, le ‘chiavi genuine’, gli ‘strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature’) in ordine ai quali è pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale destinazione”);
      q) in tema, per l’applicazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza nella previsione delle pene, nonché sullo status del principio di proporzionalità dei trattamenti punitivi, cfr., da ultimo, in dottrina, E. COTTU, Giudizio di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena: verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen processo, 2017, 473 (commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2016);
      r) secondo l’elaborazione dottrinale classica, il controllo di ragionevolezza può dispiegarsi, in linea generale, secondo due diverse direttrici:
         r1) come controllo di ragionevolezza estrinseca (conformemente alla sua derivazione dal principio di eguaglianza), cioè come il risultato di un giudizio relazionale, fondato cioè sul raffronto con un tertium comparationis (cfr. in dottrina, per in contributi classici: PALADIN, Corte costituzionale e principio generale di eguaglianza, in Giur. cost., 1984, I, 219 ss.; ZAGREBELSKY, Processo costituzionale, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1987, XXXVI, 558 ss.; SERGES, Questione di legittimità costituzionale alla stregua del principio di eguaglianza ed individuazione del «tertium comparationis», in Giur. it., 1989, IV, 3 ss.; BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1982, 42 ss.);
         r2) come controllo di ragionevolezza intrinseca, nel senso cioè di una valutazione circa la giustizia o la bontà in sé della legislazione e, quindi, di un’irragionevolezza risultante anche dalla stessa disposizione impugnata, isolatamente considerata, e non necessariamente dal confronto di quest’ultima con altra disposizione analoga (cfr., in particolare, in dottrina, CORASANITI, Principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1994; ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 147 ss.; più di recente, in generale, cfr. MARTINEZ, Diritto costituzionale, Milano, 2012, XII ed., 484 ss., nonché J. LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., 1997, aggiornato al 2011);
      s) da ultimo, per un’applicazione dei criteri del sindacato di ragionevolezza al campo economico-finanziario, specialmente alla luce della nuova formulazione dell’art. 81 Cost., il contributo di V. POLI, Il controllo della Corte costituzionale (al tempo della crisi) sulle leggi in materia economica, in Foro it., 2014, V, 19, con riferimenti anche a giurisprudenza straniera, nel quale si propone “un test di ragionevolezza incentrato sull’attendibilità tecnico-finanziaria delle leggi in materia economica” (nell’ambito del quale “la necessità di recuperare l’equilibrio di bilancio non ha una prevalenza incondizionata sulle previsioni e gli interessi tutelati dalla Costituzione”, tenendo presente che “le stesse politiche di equilibrio non possono essere perseguite ad ogni costo e contro la logica delle dinamiche più scientificamente consolidate della politica finanziaria fiscale ed economica in genere”) (Corte Costituzionale, sentenza 04.03.2019 n. 33 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee.
Sul punto non esplica alcun rilievo l'intervenuta modifica normativa operata dal d.l. n. 133 del 2014, essendo stato affermato da questa Corte che
in tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso.
Nello stesso senso la giurisprudenza amministrativa, secondo il cui costante orientamento giurisprudenziale
per l'identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all'impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all'esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.

È stato in particolare escluso che possa considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa "una operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l'ambiente della sua intrinseca qualità abitativa".
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna, costituisse "indice rilevatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati".
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Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10 comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
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7. Quanto al secondo ed al terzo motivo, che, attesa l'omogeneità dei profili di doglianza, meritano congiunta trattazione, gli stessi appalesano parimenti inammissibili.
Ed invero, quanto alla necessità del p.d.c. in relazione al mutamento della destinazione d'uso del sottotetto per finalità abitative, correttamente i giudici di appello richiamano la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui la destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra categorie non omogenee (in termini: Sez. 3, n. 17359 del 08/03/2007 - dep. 08/05/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
Sul punto non esplica alcun rilievo l'intervenuta modifica normativa operata dal d.l. n. 133 del 2014, essendo stato affermato da questa Corte che in tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso (in termini: Sez. 3, n. 3953 del 16/10/2014 - dep. 28/01/2015, Statuto, Rv. 262018).
Nello stesso senso la giurisprudenza amministrativa, secondo il cui costante orientamento giurisprudenziale (TAR Napoli n. 3490/2015 e n. 4132/2013; Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014; Consiglio di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014), per l'identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo hanno carattere negativo e sono collegati: all'impossibilità di elaborare soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui tali volumi devono essere ubicati solo all'esterno; ad un rapporto di necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche solo potenziale.
È stato in particolare escluso che possa considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa "una operazione in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l'ambiente della sua intrinseca qualità abitativa" (Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala interna, costituisse "indice rilevatore dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso ricavati" (Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, sentenza n. 207/2014; Consiglio di stato, sezione IV, sentenza n. 3666/2013; Tar Puglia-Lecce, sezione III, n. 2170/2011).
8. E, nella specie, è la stessa ricorrente a riconoscere nella propria impugnazione (pag. 5) che i due corpi di fabbrica sono tra loro collegati da una botola, ciò che, unitamente agli altri elementi individuati dai giudici di merito, rendeva evidente la finalità abitativa del locale sottotetto; quanto infatti al presunto vizio motivazionale sul punto, le censure della ricorrente sono del tutto prive di pregio, non tenendo conto della puntuale motivazione dei giudici di appello che pervengono all'affermazione della responsabilità dell'imputata, riconoscendo la sussistenza della contestata modifica della destinazione d'uso del sottotetto per finalità abitative sulla scorta di argomenti la cui tenuta motivazionale è fuori discussione.
Si legge in sentenza, in particolare, anzitutto che non rileva la circostanza che non fosse stato provato l'effettivo abbassamento del piano di calpestio, in quanto la natura delle opere realizzate all'interno del sottotetto dimostrava inequivocabilmente la modifica della destinazione d'uso dello stesso e la sua trasformazione in unità abitativa; ancora, si evidenzia come dal verbale di sequestro in atti risultava che il locale sottotetto si presentava, al momento, dell'accertamento, fornito di impiantistica elettrica e televisiva, di impiantistica idraulica e di riscaldamento in fase di completamento, presentatosi l'area completamente pavimentata ad eccezione di un piccolo locale, la cui destinazione alla realizzazione di un bagno era dimostrata dalla presenza di impiantistica idraulica.
Sulla base di tale elementi, quindi, i giudici di appello pervengono alla logica conclusione per cui non poteva ritenersi che gli impianti rinvenuti fossero stati realizzati a servizio del locale sottostante, in quanto dal fascicolo fotografico e dal verbale di sequestro era chiaramente evincibile che il sottotetto non era un semplice locale destinato ad uso tecnico, poiché era munito di finestre corredate da infissi, era rifinito, la pavimentazione era nuova ed all'interno di era anche un locale destinato alla realizzazione di un bagno.
Infine, correttamente, affermano i giudici di merito, la responsabilità non poteva essere esclusa per il fatto che le opere avessero carattere interno, richiamando sul punto la consolidata giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio, secondo cui per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10 comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome (v., tra le tante: TAR Roma, (Lazio) sez. II, 04/04/2017, n. 4225) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 01.03.2019 n. 9046).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva - Aree destinate a campeggio - Esecuzione di opere stabili - Gestione campeggio con allestimenti e servizi finalizzati alla sosta ed al soggiorno dei turisti - Art. 734 cod. pen. - Artt. 30, 44, d.P.R. 380/2001.
E' configurabile la lottizzazione abusiva con riferimento ad aree destinate a campeggio interessate dall'esecuzione di opere stabili con conseguente formazione di insediamento residenziale.
Pertanto, in tema di attività campeggistica e lottizzazione abusiva, si integra il reato dalla realizzazione, all'interno di una area adibita a campeggio, di una struttura ricettiva con caratteristiche tipiche di uno stabile insediamento residenziale, ricordando come il campeggio sia caratterizzato dalla presenza di allestimenti e servizi finalizzati alla sosta ed al soggiorno dei turisti, dovendosi quindi escludere ogni forma di stabile residenza, come risulta evidente dall'espresso riferimento alla «sosta» ed al «soggiorno», che presuppongono una permanenza temporanea ed alla figura del «turista», il quale è individuabile, secondo il significato della parola stessa, come un soggetto che viaggia e soggiorna in località diverse dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo limitato per piacere, affari o altri scopi, osservando, peraltro, come tale definizione coincida sostanzialmente con quella data dalla Organizzazione Mondiale del Turismo, agenzia delle Nazioni Unite (WTO, Ottawa Conference on Travel and Tourism Statistics, 1991)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.03.2019 n. 8970 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati urbanistici - Effetti e limiti sulla persona giuridica proprietaria del bene confiscato rimasta estranea al processo - Verifiche del giudice dell'esecuzione.
In materia di confisca per reati urbanistici, la persona giuridica proprietaria del bene confiscato che sia rimasta estranea al processo può far valere le proprie ragioni innanzi al giudice dell'esecuzione il quale, ai fini della decisione, ha il potere-dovere di accertare in modo autonomo la sussistenza del reato e l'estraneità ad esso della persona giuridica nei confronti della quale il giudicato non produce effetti e che non può considerarsi terza estranea al reato ed al processo la persona giuridica che costituisca mero schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.03.2019 n. 8970 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni - RISARCIMENTO DEL DANNO - Danno morale subito dal privato confinante - Danno risarcibile - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato commesso contro la P.A. - Artt. 65 e 72 DPR n. 380/2001 - Art. 2059 c.c..
Il danno non patrimoniale subito dal privato confinante non può ritenersi conseguente al reato commesso contro la P.A. (nella specie per la violazione della normativa in tema di c.a.), essendo invero pacifico nella giurisprudenza civilistica che solo nel caso di violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni e dalle norme integrative, quali i regolamenti edilizi comunali, è concessa l'azione risarcitoria per il danno determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la necessità di una specifica attività probatoria, perché il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l'effetto (certo) dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e quindi della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima.
Viceversa, nel caso in cui siano violate disposizioni non integrative delle norme sulle distanze, ma norme amministrative diverse da quelle in materia di distanze, mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la prova del danno è richiesta ed il proprietario è tenuto a fornirne una dimostrazione precisa, sia in ordine alla sua potenziale esistenza che alla sua entità obiettiva, in termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro, oltre che l'accertamento del nesso tra la violazione e il pregiudizio subito, la prova del quale, a carico della parte interessata, deve riguardare sia la sussistenza che l'entità del danno
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.03.2019 n. 8965 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: RUP: quando può essere presidente della commissione giudicatrice.
Dibattuta è stata la questione interpretativa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 (nel testo anteriore alla novella), inerente il quesito se possa svolgere le funzioni di presidente della Commissione (come avveniva nel vigore del previgente art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006) anche il R.U.P.
Nella fattispecie in esame, nella quale il R.U.P. non ha anche predisposto gli atti di gara, redatti da altra unità organizzativa dell’Amministrazione, e peraltro riproduttivi della lex specialis delle precedenti procedure per l’affidamento del medesimo servizio, la soluzione del quesito appare al Collegio che possa essere prudentemente positiva.
La norma contenuta nell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 può infatti essere interpretata, come ha fatto il primo giudice, nel senso che l’eventuale incompatibilità debba essere comprovata, sul piano concreto e di volta in volta, sotto il profilo dell’interferenza sulle rispettive funzioni assegnate al R.U.P. ed alla Commissione.
Ha condivisibilmente sottolineato la sentenza che «sarebbe stato onere della ricorrente fornire precisi elementi di prova sull’esistenza di possibili e concreti condizionamenti, del componente in questione, in relazione all’attività di RUP»; al contrario, nessuna contestazione è stata svolta, se non marginalmente, e comunque tardivamente, con la memoria depositata in data 05.07.2018, ai punteggi attribuiti dalla Commissione alle offerte tecniche, in base al coefficiente ponderale previsto per ciascun criterio.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della disposizione dell’art. 77, comma 4, è quello per cui chi ha redatto la lex specialis non può essere componente della Commissione, costituendo il principio della separazione tra chi predisponga il regolamento di gara e chi è chiamato a concretamente applicarlo una regola generale posta a tutela della trasparenza della procedura, e dunque a garanzia del diritto delle parti ad una decisione adottata da un organo terzo ed imparziale mediante valutazioni il più possibile oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che l’hanno preceduta.
Il che conferma l’assunto secondo cui il ruolo di R.U.P. con le funzioni di presidente o componente della Commissione è precluso allorché sussista la concreta dimostrazione che i due ruoli siano incompatibili, per motivi di interferenza e di condizionamento tra gli stessi.
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Non è possibile riferire le ragioni di incompatibilità ad un incarico anteriore nel tempo alle preclusioni che deriveranno solamente dall’assunzione di un incarico posteriore.
Si intende dire che, anche a seguire un’interpretazione rigorosa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, potrebbe al più determinarsi la preclusione al conferimento dell’incarico di responsabile dell’esecuzione in capo a chi ha fatto parte della Commissione di gara, ma non certo la preclusione ad assumere le funzioni di commissario da parte di chi svolgerà solamente in una fase successiva le funzioni di responsabile dell’esecuzione.
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2. - Procedendo alla disamina del merito, con il primo motivo di appello viene criticata la sentenza deducendosi la illegittima commistione, melius concentrazione di tutti i ruoli procedurali in capo alla medesima persona, in violazione dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, e poi anche l’incompatibilità di un altro componente della Commissione.
In particolare; sotto il primo profilo, si deduce l’incompatibilità assoluta del presidente della Commissione, in quanto è lo stesso soggetto che ha approvato gli atti di gara, presieduto la Commissione, svolto la verifica di anomalia dell’offerta, che ha la qualifica di R.U.P., di dirigente del Servizio Cultura (ed in tale veste ha stipulato il contratto), e dunque anche superiore gerarchico degli altri due componenti della Commissione, appartenenti alla stessa Unità operativa (la dott.ssa En. quale responsabile dell’U.O. Servizi Culturali, la dott.ssa Me. quale referente delle iniziative culturali); sotto il secondo profilo, è stata contestata l’incompatibilità (anche in questo caso in violazione dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016) della dott.ssa En. ad essere designata quale responsabile per la fase esecutiva, avendo ricoperto la funzione di membro della Commissione di gara.
Il complesso motivo, nonostante la sua problematicità, va respinto.
Dibattuta è stata la questione interpretativa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 (nel testo anteriore alla novella), inerente il quesito se possa svolgere le funzioni di presidente della Commissione (come avveniva nel vigore del previgente art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006) anche il R.U.P.
Nella fattispecie in esame, nella quale il R.U.P. non ha anche predisposto gli atti di gara, redatti da altra unità organizzativa dell’Amministrazione, e peraltro riproduttivi della lex specialis delle precedenti procedure per l’affidamento del medesimo servizio, la soluzione del quesito appare al Collegio che possa essere prudentemente positiva.
La norma contenuta nell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 può infatti essere interpretata, come ha fatto il primo giudice, nel senso che l’eventuale incompatibilità debba essere comprovata, sul piano concreto e di volta in volta, sotto il profilo dell’interferenza sulle rispettive funzioni assegnate al R.U.P. ed alla Commissione. Ha condivisibilmente sottolineato la sentenza che «sarebbe stato onere della ricorrente fornire precisi elementi di prova sull’esistenza di possibili e concreti condizionamenti, del componente in questione, in relazione all’attività di RUP»; al contrario, nessuna contestazione è stata svolta, se non marginalmente, e comunque tardivamente, con la memoria depositata in data 05.07.2018, ai punteggi attribuiti dalla Commissione alle offerte tecniche, in base al coefficiente ponderale previsto per ciascun criterio.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della disposizione dell’art. 77, comma 4, è quello per cui chi ha redatto la lex specialis non può essere componente della Commissione, costituendo il principio della separazione tra chi predisponga il regolamento di gara e chi è chiamato a concretamente applicarlo una regola generale posta a tutela della trasparenza della procedura, e dunque a garanzia del diritto delle parti ad una decisione adottata da un organo terzo ed imparziale mediante valutazioni il più possibile oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che l’hanno preceduta. Il che conferma l’assunto secondo cui il ruolo di R.U.P. con le funzioni di presidente o componente della Commissione è precluso allorché sussista la concreta dimostrazione che i due ruoli siano incompatibili, per motivi di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (Cons. Stato, III, 26.10.2018, n. 6082).
Quanto al rapporto tra il presidente della Commissione ed i due membri, non può parlarsi certamente di una dipendenza giuridica, non essendo ravvisabile un rapporto di gerarchia all’interno degli uffici pubblici e comunque risultando le dott.sse Me. ed En. titolari di un incarico di posizione organizzativa, caratterizzato da maggiore autonomia.
2.1. - Infondato è anche il sub-motivo sull’incompatibilità della dott.ssa En., chiamata a svolgere le funzioni di responsabile del procedimento per la fase esecutiva.
Ed infatti non è possibile riferire le ragioni di incompatibilità ad un incarico anteriore nel tempo alle preclusioni che deriveranno solamente dall’assunzione di un incarico posteriore; si intende dire che, anche a seguire un’interpretazione rigorosa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016, potrebbe al più determinarsi la preclusione al conferimento dell’incarico di responsabile dell’esecuzione in capo a chi ha fatto parte della Commissione di gara, ma non certo la preclusione ad assumere le funzioni di commissario da parte di chi svolgerà solamente in una fase successiva le funzioni di responsabile dell’esecuzione (in termini Cons. Stato, V, 04.02.2019, n. 819) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.02.2019 n. 1387 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Responsabilità solidale tra enti esproprianti.
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Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità – Occupazione sine titulo – Amministrazione committente dell’opera e soggetto affidatario – responsabilità solidale – Sussiste.
Per l’illecito consistente nell’occupazione di immobile sine titulo sussiste la responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra l’amministrazione pubblica committente dell’opera ed il soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla realizzazione dell’opera, sia stata affidata, in virtù di delega anche il potere di gestire, in nome e per conto del delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il decreto di espropriazione (1).
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   (1) Cass. civ., sez. I, 01.02.2016, n. 1870; id. 27.02.2009, n. 4817; id. 07.07.2008, n. 18612.
Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame, in cui ricorre un illecito consistente in occupazione sine titulo di un immobile per mancata emanazione del decreto di espropriazione, non può esservi alcun dubbio, alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza, in ordine alla sussistenza della responsabilità dei soggetti pubblici (ANAS e Ministero); e ciò, in concreto, perché: per un verso, hanno certamente conservato il potere di vigilanza e controllo sull’operato del proprio delegato Autostrade Centro Padane, di modo che rispondono, ex art. 2043 c.c. e 40 c.p., (anche) per il comportamento omissivo di questo in quanto causativo di danno; per altro verso, stante la cessazione di efficacia della concessione, ANAS in particolare ha riassunto su di sé l’esercizio del potere espropriativo, in tal modo tenendo direttamente il comportamento omissivo fonte di responsabilità.
A ciò va ulteriormente aggiunto che, anche in presenza di un rapporto concessorio (pur se previsto per legge), resta sempre fermo il potere/dovere di vigilanza dell’amministrazione concedente sull’attività del concessionario, con particolare riguardo all’esercizio di poteri pubblici da parte di questi. E ciò in quanto l’amministrazione è pur sempre il soggetto cui è attribuita la titolarità del potere espropriativo in ragione del principio di legalità, di modo che restano sempre fermi (essendo irrilevanti in tal senso disposizioni convenzionali di segno diverso) i suoi poteri di vigilanza e controllo, i quali possono spingersi fino alla revoca (sanzionatoria) della concessione.
Il che comporta, anche in queste ipotesi, una necessaria verifica della eventuale sussistenza della responsabilità per culpa in vigilando (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 26.02.2019 n. n. 1332 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
5.2.1. In tema di illecito consistente nella occupazione di immobili non seguita da emanazione del decreto di esproprio entro il termine previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità, la Corte di Cassazione (Sez. Un., 16.03.2010 n. 6309) ha già avuto modo di affermare (peraltro, proprio in controversia avente ANAS come parte) che: “ove un ente o un'impresa curino la realizzazione di un'opera di pertinenza di una p.a. o, per altro verso sussista un'ipotesi di collaborazione tra di essi nella sua esecuzione, nel caso di abusiva occupazione, nonché di illegittima ed irreversibile trasformazione dell'immobile privato di tali fatti risponde anzitutto l'ente o l'impresa che ha effettivamente agito per realizzare tale risultato al di fuori della procedura espropriativa.
In questa ipotesi tuttavia può sussistere ... una corresponsabilità solidale dell'Ente delegante, il quale con il conferimento del mandato non si spoglia delle responsabilità relative allo svolgimento della procedura espropriativa secondo i suoi parametri soprattutto temporali; e conserva quindi l'obbligo di sorvegliarne il corretto svolgimento, anche perché questa si svolge non solo in nome e per conto di detta amministrazione, ma altresì d'intesa con essa.
Ed è da ritenere che quest'ultima conservi un potere di controllo o di stimolo dei comportamenti del delegato -si tratti di un ente, di una cooperativa, o di un'impresa- il cui mancato o insufficiente esercizio obbliga lo stesso delegante, in presenza di tutti i presupposti, al relativo risarcimento ai sensi del combinato disposto degli art. 2043 e 2055 cod. civ. (Cass. 14959/2007; 23279/2006; 18237/2002; 9812/2001).
Per cui il problema che può porsi è esclusivamente quello di accertare se alla causazione di quel danno (inconfutabilmente "ingiusto" perché incidente sul diritto di proprietà) avessero, e in che misura, contribuito eventuali negligenze o colpevoli inerzie di detto ente: pur da accertare alla stregua del rapporto di causalità stabilito dagli artt. 40 e 41 cod. pen., e non certamente in base al rapporto interno tra gli enti in questione, come disciplinato da atti e convenzioni tra di loro intercorsi: neppure se si concretino in assunzioni unilaterali di responsabilità nonché dell'intero onere economico della costruzione dell'opera, o, comunque dell'impegno di apprestare i mezzi finanziari. O, infine in quello di fornire una qualche collaborazione al quale risulti, poi, inadempiente: e ciò, perfino quando proprio l'inadempimento abbia concorso alla mancata o ritardata adozione del decreto ablativo: ciò potendo al più comportare una facoltà di rivalsa (ove ne ricorrano i presupposti: cfr. Cass. 12958/2004) dell'ente danneggiato nei confronti di quello autore dell'inadempimento o del comportamento colposo che ha impedito il perfezionarsi del procedimento di esproprio
.”.
Si è ulteriormente ed in senso conforme affermato (Corte Cass., sez. I, 17.09.2015 n. 18236; in senso conforme, Cass., Sez. Un., 23.11.2007, n. 24397), che nel caso di occupazione illegittima, “trova applicazione il principio secondo cui dell'illecito risponde sempre e comunque l'ente che ha posto in essere le attività materiali di apprensione del bene e di esecuzione dell'opera pubblica, cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del bene, potendo solo residuare, qualora lo stesso (come delegato, concessionario od appaltatore) curi la realizzazione di un'opera di pertinenza di altra amministrazione, la responsabilità concorrente di quest'ultima, da valutare sulla base della rilevanza causale delle singole condotte, a seconda che si tratti di concessione c.d. "traslativa", ovvero di delega L. n. 865 del 1971, ex art. 60. In ogni caso, gli atti e le convenzioni intercorsi, anche se si concretano in assunzioni unilaterali di responsabilità, rilevano nei soli rapporti interni tra gli enti eventualmente corresponsabili, mentre dei danni causati nella materiale costruzione dell'opera pubblica, risponde solo l'appaltatore-esecutore, in quanto gli stessi non sono collegabili né all'esecuzione del progetto, né a direttive specifiche dell'amministrazione concorrente, ma a propri comportamenti materiali in violazione del precetto generale dell'art. 2043 cod. civ.” .
Sul punto, si è più incisivamente (ed ampliativamente) affermato di recente (Cass. civ., sez. I, ord. 22.08.2018 n. 20942) che , in caso di appalto di opere pubbliche, la responsabilità concorrente e solidale dell'amministrazione committente non può essere esclusa anche nel caso in cui il fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del progetto da essa approvato, mentre una sua responsabilità esclusiva resta configurabile solo allorquando essa abbia rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da neutralizzare completamente la sua libertà di decisione.
Conformemente a quanto affermato dalla Suprema Corte di Cassazione, anche questa Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi in ordine alla sussistenza della responsabilità solidale dell’amministrazione con il soggetto delegato al compimento dei lavori e delle procedure espropriative (Cons. Stato, sez. IV, 28.07.2016 n. 3416).
Si è affermato quindi che l’amministrazione “non può invocare un contratto stipulato con l'appaltatrice (nell'ambito del quale, peraltro, neppure era stato dedotto che essa non dovesse esercitare i propri poteri di sorveglianza e vigilanza nei confronti dell'appaltatrice) per invocare il proprio esonero da responsabilità nei confronti della parte proprietaria del fondo illegittimamente occupato e trasformato (che a detto contratto è rimasta totalmente estranea).
Ciò discende da consolidati principi civilistici (res inter alios acta tertiis neque nocet neque prodest) e dalla consolidata giurisprudenza amministrativa e civile che in materia ha configurato un possibile esonero di responsabilità in favore dell'Ente espropriante (peraltro unicamente al ricorrere di particolari condizioni) soltanto nella ... ipotesi della c.d. "concessione traslativa” (ex aliis Cass. Civ., sez. I, 17.09.2015, n. 18236; Cons. Stato sez. IV 21.08.2013 n. 4229).
E' stato infatti costantemente affermato, in materia, il principio per cui (ex aliis Cons. Stato, sez. IV, 11.12.2014, n. 6080; 28.01.2011 n. 676) sussiste responsabilità solidale tra la pubblica amministrazione e il soggetto delegato allo svolgimento delle procedure espropriative per i danni cagionati all'espropriato per occupazione illegittima
.”.
Alla luce di quanto già considerato dalla giurisprudenza, può, quindi, affermarsi come per l’illecito consistente nell’occupazione di immobile sine titulo sussiste la responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra l’amministrazione pubblica committente dell’opera ed il soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla realizzazione dell’opera, sia stata affidata, in virtù di delega anche il potere di gestire, in nome e per conto del delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il decreto di espropriazione (Cass. Civ., sez. I, 01.02.2016 n. 1870; 27.02.2009 n. 4817; 07.07.2008 n. 18612).

EDILIZIA PRIVATA: Vie e piazze pubbliche e interesse storico ed artistico.
Ai sensi del comma 1 dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004, le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani sono soggetti ad una presunzione di interesse storico e artistico, fatto salvo l’esito negativo della verifica condotta ai sensi dell’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42 del 2004 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.02.2019 n. 411 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
1. Il Comune di Cusano Milanino chiede l’annullamento del provvedimento del Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle Province di Milano, Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Sondrio, Varese, del 02.12.2008, prot. 13328/SG, ricevuto dal Comune il 13.01.2009, nella parte in cui detta prescrizioni di carattere monumentale sugli interventi da realizzare sul Viale Buffoli in Cusano Milanino.
2. Con il primo motivo di ricorso il Comune lamenta, in sostanza, la nullità del provvedimento per carenza di potere dell’Amministrazione atteso che gli interventi interessanti il viale non richiederebbero l’autorizzazione della Soprintendenza di cui all’articolo 21, comma 4, del d.lgs. n. 42/2004, ma soltanto l’autorizzazione paesaggistica delegata allo stesso Comune, su cui la Soprintendenza avrebbe potuto esercitare soltanto il potere di annullamento di cui all’art. 159, comma 3, del d.lgs. n. 42/2004.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. La previsione di cui all’articolo 12 del d.lgs. 42 del 2004, nella versione vigente ratione temporis, prevede: “1. Le cose immobili e mobili indicate all'articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni, sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2.
2. I competenti organi del Ministero, d'ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione.
3. Per i beni immobili dello Stato, la richiesta di cui al comma 2 è corredata da elenchi dei beni e dalle relative schede descrittive. I criteri per la predisposizione degli elenchi, le modalità di redazione delle schede descrittive e di trasmissione di elenchi e schede sono stabiliti con decreto del Ministero adottato di concerto con l'Agenzia del demanio e, per i beni immobili in uso all'amministrazione della difesa, anche con il concerto della competente direzione generale dei lavori e del demanio. Il Ministero fissa, con propri decreti, i criteri e le modalità per la predisposizione e la presentazione delle richieste di verifica, e della relativa documentazione conoscitiva, da parte degli altri soggetti di cui al comma 1.
4. Qualora nelle cose sottoposte a verifica non sia stato riscontrato l'interesse di cui al comma 2, le cose medesime sono escluse dall'applicazione delle disposizioni del presente Titolo.
5. Nel caso di verifica con esito negativo su cose appartenenti al demanio dello Stato, delle regioni e degli altri enti pubblici territoriali, la scheda contenente i relativi dati è trasmessa ai competenti uffici affinché ne dispongano la sdemanializzazione qualora, secondo le valutazioni dell'amministrazione interessata, non vi ostino altre ragioni di pubblico interesse.
6. Le cose di cui al comma 4 e quelle di cui al comma 5 per le quali si sia proceduto alla sdemanializzazione sono liberamente alienabili, ai fini del presente codice.
7. L'accertamento dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico, effettuato in conformità agli indirizzi generali di cui al comma 2, costituisce dichiarazione ai sensi dell'articolo 13 ed il relativo provvedimento è trascritto nei modi previsti dall'articolo 15, comma 2. I beni restano definitivamente sottoposti alle disposizioni del presente Titolo.
8. Le schede descrittive degli immobili di proprietà dello Stato oggetto di verifica con esito positivo, integrate con il provvedimento di cui al comma 7, confluiscono in un archivio informatico, conservato presso il Ministero e accessibile al Ministero e all'Agenzia del demanio, per finalità di monitoraggio del patrimonio immobiliare e di programmazione degli interventi in funzione delle rispettive competenze istituzionali.
9. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle cose di cui al comma 1 anche qualora i soggetti cui esse appartengono mutino in qualunque modo la loro natura giuridica.
10. Il procedimento di verifica si conclude entro centoventi giorni dal ricevimento della richiesta
”.
2.3. La previsione normativa in esame detta un regime differenziato della dichiarazione di interesse culturale dipendente dal tipo di bene preso in considerazione. Nel caso di specie si tratta di un viale del Comune ricorrente che, come tale, rientra nella previsione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera g), che ricomprende tra i beni culturali di cui al comma 1 del medesimo articolo (trattandosi di bene di proprietà pubblica) “le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico”.
2.4. La parte finale della proposizione normativa appena riportata potrebbe indurre a ritenere (come sostenuto dal Comune) che, ai fini della ricomprensione delle pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti sia, comunque, necessaria una preventiva verifica positiva dell’interesse storico o artistico del bene. Va, tuttavia, evidenziato che il combinato disposto delle previsioni di cui agli articoli 10 e 12 del d.lgs. 42 del 2004 conduce ad una diversa conclusione consentendo di ritenere che tali beni siano soggetti ad una presunzione di interesse storico ed artistico, fatto salvo l’esito negativo della verifica condotta ai sensi dell’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42 del 2004.
2.5. Infatti, come osservato dalla giurisprudenza, “
la disposizione [di cui all’articolo 12 del d.lgs. 42 del 2004 introduce] -cautelarmente- un vincolo culturale in forza di una presunzione di legge, superabile soltanto a seguito di una verifica negativa, in quanto finalizzata all'esclusione dell'interesse culturale e -conseguentemente- al definitivo esonero dall'applicazione delle disposizioni di tutela dei beni culturali (art. 12, comma 4), anche in vista di una loro eventuale sdemanializzazione (art. 12, commi 5, e 6).
Diversamente, in caso di conferma dell'interesse culturale presunto, le cose di cui all'art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004 restano definitivamente sottoposte alle disposizioni di tutela del codice dei beni culturali (art. 12, comma 7).
Dunque, fino alla verifica effettiva dell'interesse culturale, i beni di cui all'art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004 (tra i quali le pubbliche piazze) rimangono comunque soggetti alle disposizioni di tutela, sicché colui che intenda eseguire su di essi opere e lavori di qualunque genere deve preliminarmente munirsi dell'autorizzazione del soprintendente, che “è resa su progetto” e può contenere prescrizioni (art. 21, commi 4 e 5, del D.Lgs. n. 42/2004)
” (TAR per la Liguria, sez. I, 19.05.2014, n. 787; cfr., inoltre, TAR per l’Abruzzo – sede di L'Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
2.6. Dello stesso avviso si mostra il Giudice d’appello secondo cui “
ai sensi del comma 1 dell'articolo 10 del decreto legislativo n. 42 del 2004, le piazze pubbliche (in specie laddove rientranti nell'ambito dei centri storici) sono qualificabili come 'beni culturali' indipendentemente dall'adozione di una dichiarazione di interesse storico-artistico (in tal senso: Cons. Stato, VI, sent. 482/2011; id., VI, sent. 4010/2013; id., VI, sent. 4497/2013)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 01.12.2014, n. 5934). Conclusione valevole anche per le vie in ragione della ricomprensione delle stesse nella medesima proposizione normativa a fondamento delle decisioni richiamate.
2.7. Non conduce ad una diversa soluzione l’esame delle sentenza citate in memoria di replica da parte ricorrente considerato che:
   a) la sentenza del TAR per l’Emilia Romagna – sede di Bologna, sez. I, 21.12.2015, n. 1159 si riferisce ad una declaratoria di nullità di un trasferimento immobiliare avvenuto nel 1971 e sorretta dalla diversa previsione di cui all’articolo 4 della L. 1089 del 1939;
   b) la sentenza del TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. II, 29.11.2005, n. 19757 si riferisce ad un bene di proprietà di soggetto privato senza scopo di lucro e riguarda, anch’essa, una normativa diversa da quella operante nel caso in esame;
   c) la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 22.06.2007, n. 3450 si riferisce, anch’essa alla previsione di cui all’articolo 4 della L. 1089 del 1939.
2.8. Alla luce dell’esame sin qui condotto ritiene il Collegio che, in fattispecie come quella in esame, il bene deve ritenersi munito ex lege della qualifica di bene di interesse culturale, fatto salvo l’esito negativo del procedimento di cui all’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42 del 2004 che la legge consente di avviare d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti a cui le cose appartengono.
Nel caso di specie, sussiste, pertanto, una presunzione legislativa che conferisce al viale la natura di bene di interesse culturale, non venuta meno in ragione della insussistenza di un espresso provvedimento di esclusione che il Comune avrebbe potuto richiedere ai sensi della già menzionata previsione contenuta nell’alveo del comma 2 dell’articolo 12 del codice normativo di riferimento.
3. Alla luce delle considerazioni esposte, devono ritenersi infondate le censure articolate nel primo motivo di ricorso atteso che la qualificazione del bene come culturale impone il rilascio dell’autorizzazione prescritta ai sensi dell’articolo 21 del d.lgs. 42 del 2004 a cui è da ricondursi il provvedimento impugnato.
4. La riconduzione del provvedimento al potere disciplinato dalla previsione di cui all’articolo 21 del d.lgs. 42 del 2004 rende infondato anche il secondo motivo di ricorso tenuto conto che l’atto impugnato non costituisce un provvedimento di annullamento dell’autorizzazione paesaggistica (con le conseguenze che la parte ricorrente intende far derivare) ma, come spiegato, l’esercizio di una diversa prerogativa assegnata alla Soprintendenza e volta a riconoscere alla stessa il potere di autorizzare, dettando eventuali prescrizioni ritenute necessarie come nel caso in esame, un intervento che incida su un bene avente interesse storico ed artistico come il viale Buffoli del comune di Cusano Milanino.
5. In definitiva il ricorso deve essere respinto in quanto infondato.

EDILIZIA PRIVATA: Va ascritta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte di un Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione.
In tali casi la polizza fideiussoria prestata ha natura di contratto autonomo di garanzia, con conseguente autonomia del rapporto di garanzia rispetto al rapporto principale concernente gli oneri di urbanizzazione.
In ragione di ciò, in sede di escussione della polizza, l'Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri.
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Nel caso in esame, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario avendo l’impugnativa esclusivamente ad oggetto la contestazione delle somme pretese dall’intimato Comune nei confronti del garante, dovendosi conseguentemente considerare, in sede di opposizione all’ingiunzione, solo l’esistenza e la validità del contratto di garanzia e l’esistenza dell’inadempimento che vincola la società assicuratrice a corrispondere le somme previste, e non anche il rapporto urbanistico-edilizio che intercorre tra Pubblica Amministrazione e concessionario.
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8.- E’ fondata l’eccezione, formulata dal resistente comune di Cerignola, di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo adito.
9.- Va, infatti, ascritta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto l'escussione, da parte di un Comune, di una polizza fideiussoria concessa a garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a titolo di penali, pattuite in una convenzione di lottizzazione (ex multis, Cassazione civile sez. un. 28/07/2016, n. 15666).
10.- In tali casi la polizza fideiussoria prestata ha natura di contratto autonomo di garanzia (Cassazione civile sez. III, 10/01/2012, n. 65), con conseguente autonomia del rapporto di garanzia rispetto al rapporto principale concernente gli oneri di urbanizzazione.
11.- In ragione di ciò, in sede di escussione della polizza, l'Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente, pubblici poteri (in termini, TAR Campobasso, sez. I, 17/05/2017, n. 184).
12.- Nel caso in esame, pertanto, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario avendo l’impugnativa esclusivamente ad oggetto la contestazione delle somme pretese dall’intimato Comune nei confronti del garante, dovendosi conseguentemente considerare, in sede di opposizione all’ingiunzione, solo l’esistenza e la validità del contratto di garanzia e l’esistenza dell’inadempimento che vincola la società assicuratrice a corrispondere le somme previste, e non anche il rapporto urbanistico-edilizio che intercorre tra Pubblica Amministrazione e concessionario.
13.- Il Tribunale, conclusivamente, declina la giurisdizione, avvertendo che la relativa causa potrà essere riproposta, ai sensi dell'art. 11 del c.p.a., dinanzi al giudice ordinario (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza III, sentenza 25.02.2019 n. 306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il potere sotteso all’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e può essere esercitato solo quando specifiche norme di settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici per risolvere la situazione di emergenza.
Orbene, la sussistenza, nel caso di specie, della previsione normativa di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che detta specifiche norme in caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, esclude la possibilità, da parte delle pubbliche amministrazioni, di ricorrere al potere extra ordinem proprio dei provvedimenti contingibili ed urgenti.
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Premessa la corretta qualificazione dell’ordinanza gravata, in disparte il nomen, quale provvedimento ordinario adottato ai sensi del predetto art. 192, in relazione alla quale risulterebbe, peraltro, infondata la censura di incompetenza dedotta con esclusivo riferimento alla fattispecie extra ordinem di cui all’art. 54 (rectius, 50, comma 4) del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), difetta, nel caso di specie, quale elemento imprescindibile ai fini dell'adozione dell'ordinanza di rimozione dei rifiuti a carico del proprietario, proprio l'accertamento dell'elemento psicologico, quanto meno sotto il profilo della colpa, e, tanto, in considerazione dello stato e consistenza dei luoghi.
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L'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene. Pertanto, in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino.
In definitiva, “in base al d.lgs. n. 152/2006, la P.A. non può imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento— dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale qualità".
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Secondo orientamento giurisprudenziale condiviso, il dovere di diligenza che incombe sul proprietario del fondo non può in alcun modo concretarsi nell’esercizio di una costante diligenza, da esplicarsi ininterrottamente, notte e giorno, per impedire illecite intrusioni sul fondo, da parte di estranei.
La previsione di un impegno di tale gravosissima entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa.
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Dispone l'art. art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, cd. codice dell’ambiente, quanto alla posizione del proprietario o di altro soggetto comunque avente una diretta disponibilità del bene che: “chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Sul punto, questo tribunale ha avuto modo di precisare che: “l’adozione di un provvedimento tipico, quale l’ordinanza sindacale gravata, adottata ai sensi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 156/2006, di natura squisitamente sanzionatoria, che presuppone, cioè, l’accertamento della responsabilità a titolo di dolo o colpa...., avrebbe imposto l’assicurazione di quelle garanzie di partecipazione procedimentale, cui la comunicazione di avvio del procedimento è strumentale, tali da assicurare un accertamento in contraddittorio, legislativamente previsto, oltre che in ordine all’esatta localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per l’individuazione dell’organo pubblico effettivamente competente (vista la sottoscrizione dei Protocolli e del Patto richiamato)”, e, conseguentemente, per quanto attiene all’imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di degrado e incuria dei luoghi interessati.
Al riguardo, infatti, mentre “l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa.
In altri termini, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi”.
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... per l'annullamento dell’ordinanza n. 2316 del 18.01.2018, emessa dal Comune di Calvizzano, notificata in data 17.02.2018, con la quale il Comune di Calvizzano gli ordinava di rimuovere rifiuti, non meglio specificati, siti in via Garibaldi;
...
IV. Il ricorso è fondato.
IV.1. Si evidenzia, quale antecedente logico, che il contestuale richiamo alla normativa disciplinante l’ordinanza contingibile ed urgente, adottata per ragioni di igiene e sanità pubblica, provvedimento atipico ed extra ordinem, e a quella che prevede l’esercizio di poteri ordinari nell’ambito della tutela ambientale, evidenzia una contraddittorietà, insita nel provvedimento, che non consente di individuare la funzione concretamente esercitata, con quanto ne consegue in ordine alla sussistenza o meno dei presupposti legittimanti (TAR Campania, Napoli, sez. V, 26.07.2018, n. 5003).
IV.1.1. Ciò posto, occorre, altresì, puntualizzare che il potere sotteso all’adozione di un’ordinanza contingibile ed urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e può essere esercitato solo quando specifiche norme di settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici per risolvere la situazione di emergenza. Orbene, la sussistenza, nel caso di specie, della previsione normativa di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che detta specifiche norme in caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti, esclude la possibilità, da parte delle pubbliche amministrazioni, di ricorrere al potere extra ordinem proprio dei provvedimenti contingibili ed urgenti.
IV.1.2. Tanto premesso, occorre previamente qualificare il provvedimento impugnato quale ordinanza ambientale, adottata nell’esercizio dei poteri ordinari dell’Amministrazione, sgombrando il campo da ogni apparente commistione, atteso l’improprio richiamo normativo all’esercizio di un potere extra ordinem, esercitabile in condizioni di urgenza e contingibilità, laddove, cioè, non siano utilmente utilizzabili, al fine di un sollecito soddisfacimento dell’interesse pubblico, gli istituti giuridici tipizzati nell’ordinamento.
Ed invero, il provvedimento impugnato è stato adottato a seguito della nota “del Corpo di Polizia Giudiziaria della Città Metropolitana di Napoli, con la quale veniva segnalato l’abbandono di rifiuti classificabili in RSU e RSA in via Garibaldi”, situazione in cui, ex se, difettano, in quanto non adeguatamente esplicitate, ragioni di contingibilità, indifferibilità ed urgenza, richiamandosi, poi, in modo diffuso il solo contenuto di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, strumento, invece, tipico ed assegnando ai destinatari, per l’esecuzione, un termine, relativamente lungo, di 60 gg..
V. Orbene, premessa la corretta qualificazione dell’ordinanza gravata, in disparte il nomen, quale provvedimento ordinario adottato ai sensi del predetto art. 192, in relazione alla quale risulterebbe, peraltro, infondata la censura di incompetenza dedotta con esclusivo riferimento alla fattispecie extra ordinem di cui all’art. 54 (rectius, 50, comma 4) del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL), difetta, nel caso di specie, quale elemento imprescindibile ai fini dell'adozione dell'ordinanza di rimozione dei rifiuti a carico del proprietario, proprio l'accertamento dell'elemento psicologico, quanto meno sotto il profilo della colpa, e, tanto, in considerazione dello stato e consistenza dei luoghi.
V.1. Con il primo motivo di ricorso, connesso ai successivi, parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006 per omesso accertamento dell’imputabilità, quanto meno a titolo di colpa, del contestato sversamento.
V.1.1. Il motivo è fondato.
V.1.2. “L'imputabilità delle condotte di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente esclusione della natura di obbligazione propter rem dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare di un diritto di godimento sul bene. Pertanto, in caso di rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e rimessione in pristino (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 02.11.2018, n. 2477; TAR Campania, Napoli, sez. V, 01.08.2018, n. 5151; Cons. di St., sez. IV, 07.06.2018, n. 3430)” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 18.01.2019, n. 272).
In definitiva, “in base al d.lgs. n. 152/2006, la P.A. non può imporre ai privati che non abbiano alcuna responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare. Ai fini della responsabilità in questione è perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento— dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in ragione di tale qualità" (TAR Campania, Salerno, sez. II, 04.02.2015 n. 232).
V.1.3. Invero, manca, nel caso all’esame, la prova dell’elemento soggettivo, attesa l’assenza, da parte del Comune di Calvizzano, di qualsivoglia accertamento che possa determinare, al di là della mera formula di stile riferita alla titolarità del bene, la corresponsabilità della parte ricorrente proprietaria e che possa giustificare, sotto il profilo motivazionale, il provvedimento adottato.
V.1.4. Né ad essa sembrerebbe addebitarsi, in assenza di contrari elementi di prova da accertarsi, comunque, in contraddittorio, una culpa in omittendo o in vigilando che, date le circostanze, trascenda la diligenza media esigibile, atteso che, come dedotto:
   a) in passato (anno 2014), allorché terzi ignoti avevano depositato, non già nel fondo ma in prossimità del cancello di accesso al fondo (e quindi in area esterna al fondo), dei piccoli quantitativi di rifiuti, il ricorrente-istante, constatata la presenza di quel materiale, provvide a presentare, in data 22.05.2014, una denuncia-querela, richiedendo, contestualmente, di essere autorizzato all’apposizione di un impianto di videosorveglianza;
   b) il fondo agricolo de quo è chiuso da un cancello di accesso, alto più di 2,30 mt., e da una rete che corre lungo tutto il perimetro di confine; prima del detto cancello vi è anche una sbarra di chiusura, che impedisce l’accesso carraio e pedonale a chiunque voglia inoltrarsi già solo in prossimità del confine esterno fondo;
   c) il bene non è accessibile ai terzi se non attraverso un illecito travalicamento delle opere di chiusura.
V.1.5. D’altro canto, secondo orientamento giurisprudenziale condiviso, il dovere di diligenza che incombe sul proprietario del fondo non può in alcun modo concretarsi nell’esercizio di una costante diligenza, da esplicarsi ininterrottamente, notte e giorno, per impedire illecite intrusioni sul fondo, da parte di estranei. La previsione di un impegno di tale gravosissima entità travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (del buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di colpa (TAR Campania, Sez. V, 03.03.2014 n. 1294).
V.2. Con successivi motivi di ricorso, parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 in combinato disposto con gli artt. 192 del d.lgs. n. 152/2006 e 50 del d.lgs. n. 267/2000, disciplinanti, rispettivamente, le ordinanze sindacali ambientali, da un lato, e quelle contingibili ed urgenti, dall’altro, per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, con conseguente lesione delle prerogative partecipative proprie del contraddittorio.
V.2.1. Le censure sono fondate.
V.2.2. Ora, dispone, per quanto d’interesse, l’invocato art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, cd. codice dell’ambiente, applicabile al caso di specie, quanto alla posizione del proprietario o di altro soggetto comunque avente una diretta disponibilità del bene: “chiunque viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
V.2.3. Sul punto, questo tribunale ha avuto modo di precisare che: “l’adozione di un provvedimento tipico, quale l’ordinanza sindacale gravata, adottata ai sensi di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 156/2006, di natura squisitamente sanzionatoria, che presuppone, cioè, l’accertamento della responsabilità a titolo di dolo o colpa...., avrebbe imposto l’assicurazione di quelle garanzie di partecipazione procedimentale, cui la comunicazione di avvio del procedimento è strumentale, tali da assicurare un accertamento in contraddittorio, legislativamente previsto, oltre che in ordine all’esatta localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per l’individuazione dell’organo pubblico effettivamente competente (vista la sottoscrizione dei Protocolli e del Patto richiamato)”, e, conseguentemente, per quanto attiene all’imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di degrado e incuria dei luoghi interessati (TAR Campania-Napoli, sez. V, n. 1684/2016).
Al riguardo, infatti, mentre “l’art. 7 della legge n. 241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli interessati, l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, nella specifica materia ambientale, prescrive che i controlli svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato all’istruttoria amministrativa (TAR Campania, sez. V, 03.03.2014 n. 1294).
In altri termini, deve ritenersi la necessità, nella specifica materia ambientale, dell’accertamento in contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti sia data la possibilità di partecipare attivamente alla stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti, oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi (TAR Campania, Napoli, sez. V, 27.06.2018, n. 4284)
” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.10.2018, n. 5783).
VI. Sulla base delle sovra esposte considerazioni, assorbite le ulteriori censure dedotte, il ricorso è fondato atteso che non si è mai proceduto ad alcun accertamento in contraddittorio, previa comunicazione di avvio del procedimento, onde verificare la sussistenza dell’elemento soggettivo in capo alla parte ricorrente (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 20.02.2019 n. 950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I balconi sono rilevanti per le distanze tra vicini. Le superfici finestrate anche se munite di sbarre non si considerano luci. Il limite fissato dal Dm 1444 non è derogabile dalla normativa locale.
Anche i balconi definiscono come "finestrata" una parete in quanto assicurano la possibilità di esercitare la veduta, per cui bisognerà tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici confinanti.

Così afferma la Corte di Cassazione -Sez. II civile- ordinanza 19.02.2019 n. 4834, dando ragione a un condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare perché aveva realizzato un fabbricato a confine con l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di legge (Dm 1444/1968).
Il Tribunale rigettava la domanda mala Corte d'Appello la accoglieva e condannava la società convenuta a demolire e arretrare la porzione del fabbricato, compresi i balconi aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di 10 metri dal condominio di fronte e al risarcimento dei danni.
I giudici di appello sottolineavano che le risultanze della Ctu avevano evidenziato che effettivamente il fabbricato realizzato dalla società era posto a confine con l'edificio condominiale dovendo, quindi, trovare applicazione l'articolo 873 del Codice civile, con il rinvio alle fonti integrative locali che, però, devono trovare il loro limite nelle previsioni del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci metri tra pareti finestrate doveva essere disapplicata.
A questo punto veniva fatto ricorso in Cassazione. Uno dei motivi riguardava i balconi presenti sulla parete del fabbricato "incriminato". Si discuteva, cioè, se avessero il carattere di veduta (per cui si doveva applicare il Dm 1444) o di semplici luci: peri costruttori la Ctu era sbagliata perché aveva considerato i balconi, mentre alle finestre sulle pareti erano state poste delle sbarre che impedivano l'affaccio in tutte le direzioni, per cui non si era più al cospetto di vedute ma di semplici luci.
Mala Cassazione, richiamando la giurisprudenza di legittimità, ha precisato che devono intendersi "pareti finestrate" in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta.
La presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della ricorrente di cui si era tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze era quindi legittima.
E il ricorso veniva respinto, confermando la demolizione di parte del fabbricato o il suo arretramento.
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IN SINTESI
   1. La pronuncia La Cassazione ha dato ragione a un condominio che aveva fatto causa a una società immobiliare perché aveva realizzato un fabbricato a confine con l'edificio condominiale a distanza inferiore a quelle di legge, confermando l'obbligo di demolire e arretrare una porzione del fabbricato
   2. Nessuna deroga Valgono comunque i limiti del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci metri tra pareti finestrate deve essere disapplicata (articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2019).
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SENTENZA
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 e dell'art. 113 c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di parete finestrata include le sole pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza quindi potere prendere in esame le semplici aperture lucifere.
Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non consentono una possibilità di affaccio stante la collocazione di una sbarra metallica, dovendosi altresì escludere che abbia rilevanza ai fini della norma in esame la presenza di balconi o di una porta.
Il secondo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., in quanto la sentenza ha omesso di considerare l'assenza di finestre, intese quali vedute, sulla parete del fabbricato di parte convenuta, come peraltro sempre eccepito in tutti gli scritti difensivi.
Il terzo motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. la nullità della sentenza per assenza di motivazione, quanto alla qualificazione della parete come finestrata, nonché per avere fatto riferimento esclusivo alla consulenza di parte attrice e non anche agli accertamenti del CTU, e ciò in violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4 c.p.c. e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., 61 c.p.c. e 24 e 111 Cost.
I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.
Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui è stata ordinata la demolizione ovvero l'arretramento sono collocate, oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano carattere di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei quali si è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul presupposto che non fossero dei meri sporti ornamentali), come confortato anche dalla lettura del dispositivo.
La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la previsione di cui al citato DM del 1968 n. 1444, lungo una delle pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese quali vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale e/o obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini della norma in esame.
Ritiene il Collegio che tuttavia l'interpretazione della norma de qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a connotare come finestrata una parete sia anche la presenza di balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che assicurano la possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla ratio che è sottesa alla previsione in esame.
In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n. 26383/2016),
poiché nella disciplina legale dei "rapporti di vicinato" l'obbligo di osservare nelle costruzioni determinate distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche alle luci, la dizione "pareti finestrate" contenuta in un regolamento edilizio che si ispiri all'art. 9 del d.nn. n. 1444 del 1968 -il quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti- non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite di finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere quelle sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere" (conf. Cass. n. 6604/2012).
Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi assicuri la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018, a mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad ogni lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale, e due laterali o oblique, a seconda dell'ampiezza dell'angolo), e che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone l'applicazione della norma alla quale hanno fatto riferimento i giudici di merito (si veda per la giurisprudenza amministrativa Cons. Stato 05/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per pareti finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite di finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in esse anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché TAR L'Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato che ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi per "pareti finestrate", non solo le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia finestrata anche la sola parete che subisce l'illegittimo avvicinamento).
Ne consegue che,
attesa la presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta violazione di legge, mentre risulta priva del carattere della decisività la pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle aperture non consentano l'affaccio, trattandosi di affermazione che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece assumono i balconi ai fini della presente vicenda.
Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la sentenza adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo il fronte del fabbricato della società.
5. Il quinto motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro profilo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 nonché dell'art. 113 c.p.c. e dell'art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di finestre.
Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto alla chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione dell'intera parete.
Il motivo è privo di fondamento.
Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il principio per il quale (Cass. n. 5017/2018)
è illegittima una previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi, in quanto l'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 detta disposizioni inderogabili da parte dei regolamenti locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra costruzioni e non tra queste e le vedute.
Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può essere condivisa in quanto contrasta con l'interpretazione che delle norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di legittimità.
Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n. 20574/2007)
ai fini dell'osservanza delle distanze legali, ove sia applicabile il DM n. 1444/1968 in quanto recepito negli strumenti urbanistici, l'obbligo del rispetto della distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una sola delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che la norma in esame è finalizzata alla salvaguardia dell'interesse pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata.
Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che,
attesa l'idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica, non è legittima una previsione regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima di dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti dotati di finestre, con esonero di quelli ciechi.
Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n. 15529/2015,
ai fini della corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e non tra queste e le vedute, in modo che sia assicurato un sufficiente spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse soltanto quello direttamente antistante alle finestre in direzione ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne conseguirebbe la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni incongrue, con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di quelli ciechi delle facciate.
Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo sviluppo ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante facciata e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe le superfici aperte.

Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n. 8383/1999)
ai fini dell'applicazione della norma in esame è del tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi sia finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a diversa altezza rispetto all'altra, atteso che (cfr. Cass. n. 11404/1998) il regolamento edilizio che impone una distanza minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi, deve esser osservato anche se dalle finestre dell'uno non è possibile la veduta sull'altro perché la "ratio" di tale normativa non è la tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed evitare intercapedini dannose tra pareti.
Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da questa Corte, anche prima dell'intervento delle Sezioni Unite del 2011 sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011)
ai fini dell'applicazione della norma in esame è sufficiente che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta, sicché il rispetto della distanza minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in parte privi di finestre (conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della quale, essendo "ratio" della norma non la tutela della riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la medesima va applicata indipendentemente dall'altezza degli edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle pareti di questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento).
Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha ritenuto applicabile l'art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione identica all'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, laddove gli edifici per cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed uno spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima recita a favore dell'applicazione dell'art. 9 sempre che le finestre esistano in qualsiasi zona della parete contrapposta ad altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi a distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82 dell'uno ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive parti contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza della decisione dei giudici di appello che avevano disposto l'arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a ripristinare la distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di metri 0,82)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 19.02.2019 n. 4834).
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Al riguardo si leggano anche:
  
● M. Tarantino, Anche i balconi sono rilevanti nella distanza tra gli edifici condominiali (19.03.2019 - link a www.condominioweb.com).
   ● G. D. Nuzzo, Le distanze previste per i muri con vedute si applicano anche in presenza di balconi aggettanti. Anche la presenza di balconi legittima l'applicazione del DM n. 1444/1968 (26.02.2019 - link a www.condominioweb.com).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici - Lavori abusivi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Normativa applicabile dopo la sentenza della C. Cost. n. 56/2016 - Revoca dell'ordine di demolizione dei manufatti abusivi.
In tema di reati paesaggisti, a seguito della pronuncia emessa dalla Corte Costituzionale il 23/03/2016, n. 56, la sussistenza del delitto di cui all'art. 181, comma 1-bis, del dlgs n. 42 del 2004 è limitata ai soli casi in cui i lavori abusivamente realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al 30% della volumetria della costruzione originaria o, in alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi, ovvero ancora abbiano comportato la realizzazione di una nuova costruzione con una volumetria superiore a 1000 metri cubi.
Nella fattispecie: le opere oggetto di imputazione non avevano la consistenza necessaria per il loro inquadramento nella fattispecie delittuosa, sicché il reato originariamente contestato come delitto è stato riqualificato quale violazione di natura contravvenzionale ai sensi dell'art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.02.2019 n. 7243 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dissuasori della sosta.
Il TAR Milano, dopo aver premesso che la valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione (sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura non facilmente rimuovibili, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo rilascio del permesso di costruire), ritiene che la realizzazione senza titolo urbanistico e viabilistico di dissuasori della sosta in cemento su area di proprietà privata, ma esterna al muro di recinzione e, di conseguenza, collocata in area destinata all’uso pubblico o ad essa adiacente, costituisce una trasformazione stabile del territorio che per la sua rilevanza edilizia e per i rischi che comporta per la circolazione in strada (nella fattispecie molto stretta), dev’essere sanzionata con la demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.02.2019 n. 331 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5. Il quarto motivo è parzialmente fondato.
Infatti
la posa di alcuni paletti infissi nel suolo, destinati a sorreggere una recinzione di rete metallica senza opere murarie, costituisce un manufatto di limitato impatto urbanistico e visivo, essenzialmente destinato al solo scopo di delimitare la proprietà per separarla dalle altre, per cui l’intervento non richiede il rilascio di un permesso di costruire, fatta salva ovviamente l’osservanza dei vincoli paesaggistici (da ultimo TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333).
Diverso è invece il caso dei dissuasori della sosta in cemento.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che
la valutazione sulla necessità, o meno, del permesso di costruire, va compiuta in base ai parametri della natura e delle dimensioni delle opere, e della loro destinazione e funzione (si vedano, tra le altre, Tar Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, Tar Lombardia, n. 6266/2009, Tar Lazio, n. 8644/2009, Tar Veneto, n. 1215/2011, Tar Calabria, n. 1299/2014, Tar Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre), sicché quando, ad esempio, vengono eseguite opere in muratura non facilmente rimuovibili, l’intervento, essendo idoneo a incidere in modo permanente sull’assetto edilizio del territorio, esige il previo rilascio del permesso di costruire.
Nel caso di specie
la realizzazione senza titolo urbanistico e viabilistico di dissuasori della sosta in cemento su area di proprietà privata ma esterna al muro di recinzione e, di conseguenza, collocata in area destinata all’uso pubblico o ad essa adiacente, costituisce una trasformazione stabile del territorio che per la sua rilevanza edilizia e per i rischi che comporta per la circolazione in una strada molto stretta qual è quella in questione, dev’essere sanzionata con la demolizione.
In definitiva quindi il ricorso va accolto limitatamente alla realizzazione della recinzione mentre i dissuasori in cemento debbono essere rimossi.

EDILIZIA PRIVATAUn consolidato orientamento giurisprudenziale esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato.
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il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
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Non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem.
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MASSIMA
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Un consolidato orientamento giurisprudenziale, da cui la Sezione non ritiene di doversi discostare, esclude che l'ordine di demolizione di opere abusive debba essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria carattere vincolato (da ultimo Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.10.2018 n. 5887).
3. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Quanto al rispetto del dovere di motivazione, deve ricordarsi che il provvedimento con cui viene ingiunta la demolizione di un immobile abusivo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento impugnato contiene sufficienti elementi in fatto e diritto per evidenziare il tipo di abuso edilizio e le norme in violazione delle quali lo stesso è stato commesso, come meglio specificato nel rapporto della polizia municipale, al quale l’ordinanza rinvia per relationem.
4. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 15.10.2018 n. 5974) ha chiarito che “non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria. Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea stessa di connettere al decorso del tempo e all’inerzia dell’amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare il grave fenomeno dell’abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l’edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta –e inammissibile– forma di sanatoria automatica o praeter legem” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.02.2019 n. 331 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La prescrizione nei reati edilizi - Inizio e decorso del termine di prescrizione - Onere della prova a carico dell'imputato - Principio del "favor rei" - Giurisprudenza.
In tema di prescrizione, anche per i reati edilizi, grava sull'imputato che voglia giovarsi di tale causa estintiva del reato, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso dai quali poter desumere la data di inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante dagli atti al fine di scardinare la prova su cui si fonda l'assunto dell'accusa, non essendo a tal fine sufficiente la mera affermazione da parte di costui a fare ritenere che il reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a determinare l'incertezza sulla data di inizio della decorrenza del relativo termine con la conseguente applicazione del principio "in dubio pro reo": in base al principio generale per cui ciascuno deve dare la dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto con quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il solo a potere concretamente disporre, per determinare la data di inizio del decorso del termine di prescrizione.
Pertanto, il principio del "favor rei", in base al quale, nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che risulti più favorevole all'imputato, opera solo in caso di incertezza assoluta sulla data di commissione dei reato o, comunque, sull'inizio del termine di prescrizione, ma non quando sia possibile eliminare tale incertezza, anche se attraverso deduzioni logiche, del tutto ammissibili
(Cass. Sez. 3, n. 4139 del 13/12/2017 - dep. 29/01/2018, Zizzi e altri che ha precisato che il giudice è tenuto a dar conto, in sede di motivazione, delle ragioni per le quali non è possibile pervenire, anche sulla base di deduzioni logiche, ad una puntuale collocazione temporale dell'intervento abusivo).

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Reati in materia di abusi edilizi - Natura di reato permanente - Cessazione della permanenza della condotta illecita - Prescrizione del reato e principio del favor rei - Artt. 10, 17, 44 d.P.R. n. 380/2001.
Il reato ex art. 44 DPR 380/2001 è per sua natura un reato permanente, ciò significa che il momento di cessazione della permanenza va individuata o nella sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta "ex auctoritate", o nella ultimazione dei lavori per il completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di primo grado ove i lavori siano proseguiti dopo l'accertamento e sino alla data del giudizio.
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Interventi subordinati a permesso di costruire - Aumento della volumetria complessiva e carico urbanistico - Variante non sostanziale rispetto al progetto approvato - Permesso in variante - Interventi soggetti a segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A., ex D.I.A).
In materia urbanistica, rientra nella nozione di "nuova costruzione", comprensiva, secondo previsto dall'art. 10, lett. c), DPR 380/2001, qualsiasi manufatto fuori terra o interrato che costituisca ampliamento all'esterno della sagoma dell'immobile preesistente, con conseguente integrabilità, in difetto del preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella fattispecie, anche a voler ritenere che si trattasse di una variante non sostanziale, nel cui ambito rientrano le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, la stessa è comunque soggette al rilascio di permesso in variante, complementario ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, gli imputati erano perciò anche in tal caso onerati della richiesta della relativa variante, il conseguimento della quale soltanto gli avrebbe consentito di procedere ad una legittima modifica.

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Realizzazione di una piscina posta al servizio di una residenza privata - Natura pertinenziale - Presupposti.
La realizzazione di una piscina posta al servizio di una residenza privata non richiede il preventivo rilascio del permesso di costruire a condizione che se ne accerti la natura pertinenziale, la quale a sua volta postula che debba accedere ad un edificio preesistente edificato legittimamente, che presenti ridotte dimensioni anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con l'edificio principale e che non sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto adottati.
Nel caso di specie, caratteristiche queste all'evidenza insussistenti tenuto conto che il manufatto principale risulta edificato in totale difformità dal permesso di costruire avente ad oggetto un manufatto con destinazione funzionale all'uso agricolo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2019 n. 7038 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza del termine per impugnare un titolo edilizio.
Il Consiglio di Stato riassume i principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di valutare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   - il termine per impugnare il permesso di costruire, laddove si contesti il quomodo dell’edificazione, decorre dalla piena conoscenza del provvedimento che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici;
   - l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   - dal momento della constatazione della presenza dello scavo (a quella data deve per legge essere presente il cartello dei lavori e deve essere stata data effettiva pubblicità sull’albo pretorio del rilascio del titolo edilizio), è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   - la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 11.02.2019 n. 982 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
3.3. Ne consegue che la decisione sulla ricevibilità o meno del ricorso di primo grado impone di precisare il concetto di “piena conoscenza” del provvedimento, vale a dire di quella conoscenza idonea a far decorrere il termine perentorio di sessanta giorni per l’impugnazione.
3.3.1. La giurisprudenza di questa Sezione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 3875 del 2018; Cons. Stato, Sez. IV, n. 5675 del 2017; Sez. IV, n. 5654 del 2017) ha avuto modo di chiarire che
la “piena conoscenza” non deve essere intesa quale “conoscenza piena ed integrale” del provvedimento stesso, ovvero di eventuali atti endo procedimentali, la cui illegittimità sia idonea a viziare, in via derivata, il provvedimento finale, dovendosi invece ritenere che sia sufficiente ad integrare il concetto la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidente la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere riconoscibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”, quindi, la consapevolezza dell’esistenza del provvedimento e della sua lesività e tale consapevolezza determina la sussistenza di una condizione dell’azione, l’interesse al ricorso, mentre la conoscenza “integrale” del provvedimento (o di altri atti del procedimento) influisce sul contenuto del ricorso e sulla concreta definizione delle ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei motivi aggiunti cc.dd. propri -per il tramite dei quali il ricorrente può proporre ulteriori motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza di ulteriori atti (già esistenti al momento dell’introduzione del giudizio, ma ignoti) o dalla conoscenza integrale di atti prima non pienamente conosciuti, e ciò entro il (nuovo) termine decadenziale di sessanta giorni decorrente da tale conoscenza sopravvenuta- comprova la fondatezza dell’interpretazione resa in ordine al significato della “piena conoscenza”.
Infatti, se quest’ultima dovesse essere intesa come “conoscenza integrale”, il tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non avrebbe una pratica ragion d’essere, o dovrebbe essere considerato residuale.
3.3.2. Con specifico riferimento alla impugnazione dei titoli edilizi, va innanzitutto rilevato che
la vicinitas di un soggetto rispetto all’area e alle opere edilizie contestate induce a ritenere che lo stesso abbia potuto avere più facilmente conoscenza della loro entità anche prima della conclusione dei lavori.
3.3.3.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire da parte di terzi, la percezione dell’effetto lesivo si atteggia diversamente a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità assoluta dell’area) ovvero, come nel caso di specie, che si contesti il contenuto specifico del permesso (ad esempio, per eccesso di volumetria o per violazione delle distanze minime tra fabbricati).
Il momento da cui computare i termini decadenziali di proposizione del ricorso, nell’ambito dell’attività edilizia, è infatti individuato, secondo la giurisprudenza
(cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, n. 3875 del 2018; Sez. IV, n. 5754 del 2017; Sez. VI, n. 4830 del 2017; Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n. 4701; Sez. IV, n. 1135 del 2016; Sez. IV, nn. 4909 e 4910 del 2015; Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V, 16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano sostanzialmente all’insegnamento dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, sviluppandone i logici corollari): nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga che nessun manufatto poteva essere edificato sull’area; ovvero, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal completamento dei lavori o dal grado di sviluppo degli stessi, se si renda comunque palese l’esatta dimensione, consistenza, finalità, dell’erigendo manufatto, ferma restando:
   a) la possibilità, da parte di chi solleva l’eccezione di tardività, di provare, anche in via presuntiva, la concreta anteriore conoscenza del provvedimento lesivo in capo al ricorrente (ad esempio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 20, comma 6, e 27, comma 4, t.u. edilizia, avuto riguardo alla presenza in loco del cartello dei lavori [specie se munito di rendering e indicazione puntuale del titolo edilizio] ovvero alla effettiva comunicazione all’albo pretorio del comune del rilascio del titolo edilizio; alla consistenza del tempo trascorso fra l’inizio dei lavori e la proposizione del ricorso; alla effettiva residenza del ricorrente in zona confinante con il lotto su cui sono in corso i lavori; ecc. ecc.);
   b) l’onere di chi intende contestare adeguatamente un titolo edilizio di esercitare sollecitamente l’accesso documentale.

In altri termini,
la giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis: Cons. Stato, IV, n. 3075 del 2018; Sez. IV; n. 5675 del 2017; Sez. IV, n. 4701 del 2016; Sez. IV, n. 1135 del 2016) ha sistematizzato i seguenti principi sulla verifica della piena conoscenza dei titoli edilizi, al fine di valutare il rispetto del termine decadenziale per proporre l’azione di annullamento:
   - il termine per impugnare il permesso di costruire, laddove si contesti il quomodo dell’edificazione, decorre dalla piena conoscenza del provvedimento, che ordinariamente s'intende avvenuta al completamento dei lavori, a meno che sia data prova di una conoscenza anticipata da parte di chi eccepisce la tardività del ricorso anche a mezzo di presunzioni semplici;
   - l’inizio dei lavori segna il dies a quo per la tempestiva proposizione del ricorso laddove si contesti l’an dell’edificazione;
   - dal momento della constatazione della presenza dello scavo (a quella data, si badi, deve per legge essere presente il cartello dei lavori e deve essere stata data effettiva pubblicità sull’albo pretorio del rilascio del titolo edilizio), è ben possibile ricorrere enucleando le censure (ivi comprese quelle in ordine all'asserito divieto di nuova edificazione) senza differire il termine di proposizione del ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della pratica di accesso agli atti avviata né, a monte, che si possa differire quest'ultima;
   - la richiesta di accesso non è idonea ex se a far differire i termini di proposizione del ricorso, perché se, da un lato, deve essere assicurata al vicino la tutela in sede giurisdizionale dei propri interessi nei confronti di un intervento edilizio ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve parimenti essere salvaguardato l'interesse del titolare del permesso di costruire a che l'esercizio di detta tutela venga attivato senza indugio e non irragionevolmente differito nel tempo, determinando una situazione di incertezza delle situazioni giuridiche contraria ai principi ordinamentali.

EDILIZIA PRIVATA: Gravi difetti dell’opera - Appalti di lavori privati - Responsabilità dell'appaltatore nei confronti dei committente e dei suoi aventi causa - Vizi non impeditivi dell’uso dell’immobile - Risarcimento dei danni - Art. 1669 c.c..
In materia di appalti, i gravi difetti che, ai sensi dell'art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell'appaltatore nei confronti dei committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura.
A tal fine, rilevano pure vizi non totalmente impeditivi dell'uso dell'immobile, come quelli relativi all'efficienza dell'impianto idrico o alla presenza di infiltrazioni e umidità, ancorché incidenti soltanto su parti comuni dell'edificio e non sulle singole proprietà dei condomini
(Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 24230/2018; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27315/2017).
Fattispecie: risarcimento dei danni alle parti comuni e alle proprietà esclusive per i gravi difetti nell'esecuzione dei lavori di costruzione dell'edificio.

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Denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile - Decorrenza del termine - Rilevanza del nesso di causale - Decadenza dall'azione di responsabilità contro l'appaltatore - Sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause - Necessità.
Il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall'art. 1669 c.c. a pena di decadenza dall'azione di responsabilità contro l'appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all'esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (Cass. sez. 2, Sentenza n. 10048/2018) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 07.02.2019 n. 3674 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Il frazionamento del fondo originario in più lotti con superfici non utilizzabili a fini agricoli, e oggetto di plurimi trasferimenti, sostanzia l’intento lottizzatorio.
Al riguardo,
il provvedimento ex art. 30 d.P.R. 380/2001 (Lottizzazione abusiva) mira, in funzione anticipatoria, al ripristino del tessuto urbano violato dalla lottizzazione abusiva in corso, a presidio dell’esigenza di assicurare un ordinato sviluppo del territorio attraverso la salvaguardia del potere di pianificazione urbanistica. Integrata la fattispecie illecita, il potere sanzionatorio dell’ente non è condizionato da successive vicende di trasferimento del bene, maturate per atti inter vivos o iure successionis, che potrebbero, altrimenti, comportare –ove invece ritenute idonee ad elidere la potestà sanzionatoria amministrativa– l’integrale vanificazione della tutela.
Né potrebbe rilevare l'affermazione per la quale i ricorrenti versavano in situazione di buona fede, perché donatari del terreno nel 2015 successivamente al frazionamento dell'area e, quindi, non autori dell'originario disegno lottizzatorio. Infatti, la lottizzazione abusiva rileva in modo oggettivo e indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa.
Giova ricordare che, l’art. 30 d.P.R. 380/2001, riproducendo le disposizioni già contenute nell’art. 18 della L. 47/1985, prevede che si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
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L’ordinamento disciplina una lottizzazione materiale, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici.
Prevede, inoltre, la lottizzazione negoziale, ovvero cartolare, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Con riguardo alla prima, il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione, al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio e uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Con riferimento alla seconda, inoltre, sebbene l'accertamento dei presupposti di cui all'art. 30 del d.P.R. n. 380 comporti la ricostruzione di un quadro indiziario sulla scorta degli elementi indicati nella norma, dalla quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, è tuttavia sufficiente che lo scopo edificatorio emerga anche solo da alcuni degli indizi o, anche da un solo indizio.

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2. Il primo motivo è infondato.
Dagli atti di accertamento compiuti dal Comune resistente, risulta che:
   - l’avvio della lottizzazione abusiva è avvenuta nel 2008 a seguito della divisione ereditaria delle originarie p.lle 285 e 469 tra i germani An., Ma.Gi. e Fr. Ga. eredi della madre e proprietaria An. Lo Gi. alla quale hanno fatto seguito una serie di vendite e permute e successivi frazionamenti catastali che hanno portano alla divisione delle tre quote ereditarie in otto lotti simmetrici, tra i quali, in particolare, il “lotto 6” è attualmente in proprietà dei ricorrenti in forza di atto di donazione del 14/12/2015 da parte dei genitori Giordano Leonardo e Di Fiore Rita, acquirenti originari in data 05.11.2008 da Antonino Gargano sopra citato;
   - sono presenti, nel lotto 1 un vecchio manufatto; nel lotto 2 un edificio in costruzione (due appartamenti), un muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 3, il cavidotto ENEL; nel lotto 4, un basamento in cemento, il muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 5, un edificio in costruzione, un muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 6, un muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 7, la diramazione per il cavidotto ENEL; nel lotto 8, un edificio in costruzione, un muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la nicchia ENEL.
   - i lavori edili sono proseguiti con violazione dei sigilli e con conseguente denuncia dell’accaduto all’autorità giudiziaria.
Alla luce di tali circostanze si desume che il frazionamento del fondo originario in più lotti con superfici non utilizzabili a fini agricoli, e oggetto di plurimi trasferimenti, sostanzia l’intento lottizzatorio.
Il provvedimento ex art. 30 d.P.R. 380/2001 mira, in funzione anticipatoria, al ripristino del tessuto urbano violato dalla lottizzazione abusiva in corso, a presidio dell’esigenza di assicurare un ordinato sviluppo del territorio attraverso la salvaguardia del potere di pianificazione urbanistica. Integrata la fattispecie illecita, il potere sanzionatorio dell’ente non è condizionato da successive vicende di trasferimento del bene, maturate per atti inter vivos o iure successionis, che potrebbero, altrimenti, comportare –ove invece ritenute idonee ad elidere la potestà sanzionatoria amministrativa– l’integrale vanificazione della tutela.
Né potrebbe rilevare l'affermazione per la quale i ricorrenti versavano in situazione di buona fede, perché donatari del terreno nel 2015 successivamente al frazionamento dell'area e, quindi, non autori dell'originario disegno lottizzatorio. Infatti, la lottizzazione abusiva rileva in modo oggettivo e indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa (giurisprudenza consolidata, cfr., Cons. Stato, sez. VI, n. 5805/2018; id. n. 3419/2018; id., n. 2082/2018; id., n. 1888/2018; Cons. Stato, sez. IV, n. 26/2016).
Giova ricordare che, l’art. 30 d.P.R. 380/2001, riproducendo le disposizioni già contenute nell’art. 18 della L. 47/1985, prevede che si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
L’ordinamento disciplina una lottizzazione materiale, consistente nella realizzazione, anche nella sola fase iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli strumenti urbanistici.
Prevede, inoltre, la lottizzazione negoziale, ovvero cartolare, allorquando la trasformazione avvenga tramite atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Con riguardo alla prima, il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione, al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio e uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standard compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Con riferimento alla seconda, inoltre, sebbene l'accertamento dei presupposti di cui all'art. 30 del d.P.R. n. 380 comporti la ricostruzione di un quadro indiziario sulla scorta degli elementi indicati nella norma, dalla quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere dalle parti, è tuttavia sufficiente che lo scopo edificatorio emerga anche solo da alcuni degli indizi o, anche da un solo indizio (Consiglio Stato, sez. IV, n. 2004/2009).
Ritiene, dunque, il Collegio che nel caso di specie sussistono sufficienti elementi indiziari della lottizzazione abusiva, sia cartolare (frazionamento e vendita della p.lla originaria; non esclusione dell’intento lottizzatorio anche nell’ipotesi di divisione ereditaria in presenza degli altri indici rivelatori) sia materiale (trasformazione urbanistica dell’area destinata a verde agricolo mediante edificazione e creazione della strada; impossibilità di sfruttamento agricolo della p.lla residua di ridotte dimensioni).
3. La censura relativa alla mancata comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. n. 241 del 1990 è parimenti infondata.
Va condiviso, anche riguardo al caso di specie, l’indirizzo giurisprudenziale che qualifica il provvedimento di sospensione come “avente natura cautelare e non sanzionatoria e per il quale, dunque, tale obbligo non sussiste. L’art. 7 della legge sul procedimento amministrativo oltre a prescrivere tale obbligo, ne giustifica l'omissione in presenza di ragioni derivanti da particolari esigenze di celerità. Tale situazioni che giustificano l'omissione sono dunque atipiche e sono frutto di un bilanciamento di interessi fatto dalla stessa amministrazione, laddove decida di omettere tale adempimento. Nel caso di specie tali esigenze sussistevano trattandosi di un provvedimento cautelare che ben poteva essere revocato, qualora il ricorrente, nei successivi 90 giorni, avesse dimostrato all'amministrazione la legalità del suo agire. La natura cautelare del provvedimento in questione sembra essere confermata dalla rigida sequenza procedimentale, che presuppone un atto iniziale di accertamento circa la configurabilità di una lottizzazione abusiva, la successiva obbligatoria sospensione ed infine la eventuale acquisizione al patrimonio disponibile del Comune” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3073/2016 e Cons. Stato, sez. VI, n. 5805/2018, cit.).
4. Conclusivamente il ricorso è infondato e va rigettato (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 07.02.2019 n. 349 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esigenza di rispettare la sagoma preesistente perché l’intervento non travalichi i confini della ristrutturazione edilizia è tradizionalmente esclusa nelle sole ipotesi di demolizione parziale, che si ha “quando continua ad esistere una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E non si può considerare esistente un edificio in senso tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i muri perimetrali”.
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Stabilire se ci si trovi in presenza di una demolizione totale o parziale è frutto, evidentemente, di una valutazione casistica.
Nel caso di specie, avendo comportato modifica della sagoma, esattamente l’intervento è stato qualificato dal Comune in termini di nuova costruzione, e non di ristrutturazione, ai sensi dell’art. 46 delle norme di attuazione del P.R.G. interpretato alla luce delle definizioni contenute nell’art. 31 della legge n. 457/1978 e poi nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, che, lo si ripete, anche nel testo oggi in vigore continua a richiedere il rispetto della sagoma per gli interventi eseguiti su immobili ricadenti in zone sottoposte a vincolo paesaggistico.
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Al riguardo, si osserva in primo luogo che sia l’art. 31 l. n. 457/1978, sia la legge toscana n. 59/1980 (art. 2 co. 2), sancivano la prevalenza delle proprie disposizioni su quelle dettate dagli strumenti urbanistici generali e dai regolamenti edilizi.
È vero che la legge regionale n. 64/1995 ha procrastinato, nel periodo temporale rilevante per il giudizio, l’efficacia delle previgenti disposizioni urbanistiche locali e ne ha sancito, fino all’entrata in vigore del piano strutturale, la prevalenza sulle sue stesse disposizioni; ma questo non toglie che, per le definizioni degli interventi di recupero del patrimonio edilizio, dovesse  e debba, ai fini della decisione, farsi riferimento alla superiore fonte legale, prevalente sulle eventuali definizioni difformi contenute negli strumenti urbanistici locali.
Un problema di contrasto fra previsioni degli strumenti urbanistici e definizioni di legge non si pone, peraltro, nel caso in esame.
Il tenore dell’art. 46 delle N.T.A. di P.R.G. in questione non autorizza a ritenere che il pianificatore comunale avesse inteso ricomprendere nella nozione di ristrutturazione edilizia anche gli interventi comportanti modifiche della sagoma. La “sostituzione” dell’edificio, contemplata dalla disposizione, implica la conservazione della sagoma originaria, così come la possibilità di demolizione parziale e ricostruzione nei limiti del volume preesistente, “detratto delle aggiunte non autorizzate”, non equivale certo a generalizzata facoltà di modificare la sagoma dell’edificio.
L’interpretazione propugnata dalla ricorrente porterebbe, del resto, a giudicare l’art. 46 incompatibile con la definizione di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 31 della legge n. 457/1978, che, nella consolidata lettura della giurisprudenza, anche di questo TAR, ricomprendeva gli interventi di demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato, purché ne rimanessero inalterati sagoma e volumi (fra le moltissime, cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; id., sez. V, 02.12.1998, n. 1714; id., sez. V, 24.02.1999, n. 197; id., sez. V, 18.09.2003, n. 5310; id., sez. V, 10.02.2004, n. 476; id., sez. IV, 07.09.2004, n. 5791; id., sez. IV, 10.08.2011, n. 4765; id., sez. IV, 05.10.2010, n. 7310; id., sez. V, 18.12.2008, n. 6318; TAR Toscana, sez. III, 30.06.2003, n. 2531, 22.06.2004, n. 2289, 29.11.2004, n. 6073).
Il limite della sagoma, da intendersi quale conformazione planivolumetrica della costruzione e contorno dell’edificio, è stato in seguito esplicitato dal legislatore, che, avallando il cennato orientamento giurisprudenziale, con l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha ricondotto nell’alveo della ristrutturazione edilizia gli interventi di “demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”. La formulazione iniziale della norma è stata presto modificata, ad opera del d.lgs. n. 301/2002, che ha però mantenuto fermo il limite della sagoma, rimosso in termini generali –con previsione innovativa– solo dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, con l’eccezione degli immobili sottoposti a vincoli.
L’esigenza di rispettare la sagoma preesistente perché l’intervento non travalichi i confini della ristrutturazione edilizia è tradizionalmente esclusa nelle sole ipotesi di demolizione parziale, che si ha “quando continua ad esistere una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E non si può considerare esistente un edificio in senso tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i muri perimetrali” (così Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2723, e, in precedenza, 19.02.2007, n. 867; TAR Toscana, sez. III, 14.02.2017, n. 260).
2.3.2. Stabilire se ci si trovi in presenza di una demolizione totale o parziale è frutto, evidentemente, di una valutazione casistica.
In questa prospettiva va esaminato l’intervento eseguito nel 1997 sull’immobile di proprietà della società ricorrente, consistito nell’integrale sostituzione della porzione seminterrata e fuori terra del fabbricato con una struttura in muratura portante che si differenzia dalla precedente per volume, sagoma, area di sedime, al punto da avere reso necessario lo scavo di una nuova fondazione perimetrale, oltre all’apertura di porte e finestre e alla demolizione e al rifacimento della vecchia copertura.
Gli stati sovrapposti rappresentati nell’istanza di sanatoria, e nell’integrazione depositata nel 2011, mostrano chiaramente come non vi sia alcun elemento comune tra il manufatto risultante dall’intervento e lo stato dell’immobile condonato nel 2010, del quale sono stati mantenuti unicamente un locale interrato, al grezzo, e un muro a retta ora utilizzato come parete dello scannafosso, vale a dire le opere realizzate in forza della licenza del 1968: preesistenze insufficienti ad attestare la conservazione anche solo parziale dell’edificio perché del tutto prive di autonomia strutturale e funzionale, a maggior ragione se si ha riguardo alla destinazione residenziale del fabbricato; e che perciò non bastano a escludere il carattere totale della demolizione alla stregua degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, dai quali non vi è ragione di discostarsi.
Ne deriva che, avendo comportato modifica della sagoma, esattamente l’intervento è stato qualificato dal Comune resistente in termini di nuova costruzione, e non di ristrutturazione, ai sensi dell’art. 46 delle norme di attuazione del P.R.G. interpretato alla luce delle definizioni contenute nell’art. 31 della legge n. 457/1978 e poi nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, che, lo si ripete, anche nel testo oggi in vigore continua a richiedere il rispetto della sagoma per gli interventi eseguiti su immobili ricadenti in zone sottoposte a vincolo paesaggistico (cfr. TAR Toscana, sez. III, 05.04.2016, n. 582).
E non induce a diverse conclusioni il precedente invocato da It. (la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 23.04.2018, n. 2448, di riforma della citata TAR Toscana, n. 260/2017), che, in linea con i principi consolidati, si limita a confermare la pacifica riconducibilità alla nozione di ristrutturazione edilizia di un intervento di demolizione e fedele ricostruzione dell’originaria consistenza di un fabbricato (la peculiarità del caso trattato dalla sentenza n. 2448/2018 risiede nel fatto che il giudice di appello, sulla base della disciplina urbanistica applicabile in quella fattispecie, ha ritenuto di scorporare l’intervento eseguito appunto sulla “consistenza originaria” del fabbricato dal contestuale intervento di ampliamento e sopraelevazione realizzato sullo stesso fabbricato: interventi che il TAR in prime cure aveva invece giudicato costituire un’operazione unitaria di demolizione e ricostruzione con variazioni di forma e ingombro, implicante come tale la novità –in funzione del rispetto delle distanze– dell’intero edificio che ne era risultato, ivi compresa la porzione preesistente fedelmente ricostruita).
Del legittimo operato del Comune non fanno dubitare neppure le disposizioni di legge regionale richiamate inizialmente. La definizione di ristrutturazione edilizia contenuta nell’allegato alla l.r. n. 59/1980, al pari di quella dettata dall’art. 31 l. n. 457/1978, non contiene riferimenti espressi alla demolizione e ricostruzione: essa non può, pertanto, che essere interpretata conformemente alla fonte statale, vale a dire nel senso dell’appartenenza all’ambito della ristrutturazione edilizia degli interventi di demolizione e ricostruzione ove rispettosi di volume e sagoma dell’edificio preesistente, e questo perché la definizione delle categorie degli interventi edilizi spetta solo allo Stato, le cui disposizioni di legge in materia costituiscono principi fondamentali del governo del territorio (per tutte, cfr. Corte Cost., 23.11.2011, n. 309).
In particolare, non si riferisce a interventi di demolizione e ricostruzione la categoria D2 della classificazione adottata dal legislatore toscano, che prevede alcune opere potenzialmente foriere di incrementi volumetrici e modifiche della sagoma di per sé compatibili con la nozione di ristrutturazione edilizia non comportante la preventiva demolizione dell’immobile interessato. Fermo restando che si tratta di incrementi e modifiche di modesta portata, non incidenti anche sugli elementi verticali strutturali e, soprattutto, finalizzati all’adeguamento igienico-sanitario dell’immobile, condizioni completamente assenti nell’intervento eseguito dall’odierna ricorrente.
2.3.3. La corretta qualificazione dell’intervento in termini di nuova costruzione rende vincolato il diniego della sanatoria, stanti le limitazioni alle tipologie di opere assentibili in zona agricola stabilite dall’art. 40 delle norme di attuazione del P.R.G. comunale.
Assumono, di conseguenza, una connotazione non invalidante i vizi procedimentali denunciati con il secondo e il terzo motivo di ricorso, essendo palese, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, che il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto dispositivo diverso.
Solo per inciso, la dedotta violazione dell’art. 10-bis della medesima l. n. 241/1990 è insussistente per ambedue i profili allegati, posto che il Comune resistente mostra di aver vagliato le controdeduzioni dell’interessata non soltanto in virtù del richiamo presente nell’epigrafe dell’atto impugnato, ma anche dei contenuti del provvedimento, che ne costituiscono confutazione; e che, per altro verso, l’argomento inerente la mancata presentazione di un piano attuativo non rappresenta un quid novi, ma un mero corollario della ritenuta contrarietà dell’intervento alla previsione dell’art. 46 N.T.A. di P.R.G. sul versante paesaggistico.
Infondato in radice è il primo motivo, dal momento che la violazione del termine massimo di durata del procedimento di per sé non vizia le determinazioni assunte dall’amministrazione.
Le rimanenti censure (settimo e ottavo motivo), dirette proprio contro il giudizio di incompatibilità paesaggistica del manufatto, sono a loro volta irrilevanti per difetto di interesse, atteso che la riconosciuta fondatezza della principale ragione giustificatrice dell’operato del Comune –quella inerente la natura dell’intervento– impedisce comunque di pervenire all’annullamento del provvedimento impugnato.
Al pari del diniego di sanatoria, è legittimo il rifiuto del Comune di dare avvio al procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.02.2019 n. 210 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di pertinenza.
Il Consiglio di Stato rimarca che occorre il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico/edilizi; la qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica.
A differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio"; fatta salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma (nella fattispecie, il carattere pertinenziale dell’opera è stato escluso in ragione del fatto che si trattava di una struttura di dimensioni di entità tali -circa 345 mq- da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui era stata inserita)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.02.2019 n. 904 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5.2. Quanto poi a quello che, variamente articolato, sembra essere il “motivo centrale” della impugnazione, attinente alla legittimità e correttezza, o no, della qualificazione, sul piano urbanistico–edilizio, dell’intervento realizzato, con riguardo in particolare alla riconducibilità dell’opera stessa nel novero degli interventi di edilizia libera o, viceversa, da assoggettare a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380/2001; o al carattere pertinenziale, o no, dell’opera, occorre rilevare in primo luogo che non può trovare accoglimento la tesi del privato in base alla quale verrebbe in considerazione un’opera di natura pertinenziale, anche a prescindere dalle –oggettivamente cospicue, invero- dimensioni dell’opera stessa.
Al contrario, questo Collegio di appello, concordando in ciò col TAR, ritiene che nella specie venga in considerazione un’opera che, per consistenza e tipologia, ha comportato una trasformazione del territorio e del suolo, e una alterazione dei luoghi, tutt’altro che irrilevanti, e che esattamente è stata fatta ricadere nella categoria degli interventi per l’esecuzione dei quali occorre il permesso di costruire ai sensi degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001.
In proposito, più volte questo Consiglio di Stato ha rimarcato come occorra il titolo edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti, quand'anche sotto il profilo civilistico essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza differisce da quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile soltanto a opere di modesta entità e accessorie rispetto a un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti per il contenimento di impianti tecnologici “et similia”, ma non anche a opere che, dal punto di vista delle dimensioni e della funzione, si caratterizzino per una propria autonomia rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano coessenziali alla stessa, di tal che ne risulti possibile una diversa e autonoma utilizzazione economica
(cfr. Cons. St., Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n. 694, 04.01.2016, n. 19, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del 2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di appello è costante nel ritenere che, a differenza della nozione civilistica di pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può essere considerato una pertinenza quando è non solo preordinato ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale e funzionalmente inserito al suo servizio, ma è anche sfornito di un autonomo valore di mercato e non incide sul "carico urbanistico" mediante la creazione di un "nuovo volume" (v. Cons. Stato, Sez. IV, 2.2.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il principio generale per il quale occorre il rilascio della concessione edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente) quando si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr. Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952). Fatta salva una diversa normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume, su un'area diversa ed ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera come, ad esempio, una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Esaminando da vicino la fattispecie, il carattere pertinenziale dell’opera è escluso proprio in ragione del fatto che si tratta di un intervento di tutt’altro che ridotta o esigua dimensione. Viene in questione una struttura di dimensioni di entità tali (circa 345 mq) da arrecare una visibile alterazione all'edificio o alle parti dello stesso su cui è stata inserita.
Evidente, la trasformazione del territorio e l’alterazione dello stato dei luoghi.
Di qui, la correttezza della decisione comunale, avallata nella sentenza impugnata, di applicare la sanzione della demolizione di cui all’art. 31 del t.u. n. 380 del 2001 (a differenza di quanto sostiene la parte appellante, la quale invoca, implicitamente ma non per questo meno sicuramente, la irrogabilità di una sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del t.u. dell’edilizia, considerando inapplicabile il regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del t.u. medesimo).
In conclusione, non può trovare accoglimento la deduzione secondo la quale verrebbe in considerazione un’opera di natura pertinenziale.

URBANISTICA: Nel caso in cui il piano di lottizzazione approvato e convenzionato sia scaduto per il decorso del termine di dieci anni, divengono inefficaci le sue previsioni che non abbiano avuto concreta attuazione, non essendo consentita la loro ulteriore esecuzione: non si possono, più eseguire neppure gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria.
Ne consegue che anche la convenzione di lottizzazione, scaduta e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i successivi strumenti urbanisti
ci generali
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Invero, dalla documentazione versata in atti risulta che il piano di lottizzazione approvato dal comune di Rivoli Veronese con deliberazione consiliare n. 19 del 01.08.2007 è scaduto per decorso del termine di dieci anni, ai sensi dell’art. 20 (Procedimento di formazione, efficacia e varianti del piano urbanistico attuativo), commi 9 e 10, della legge regionale del Veneto 23.04.2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), come pure è scaduta la convenzione di lottizzazione, stipulata il 31.10.2007 tra il comune di Rivoli Veronese ed il consorzio di lottizzazione “Cason 2”.
Lo stesso consorzio risulta, di fatto, cessato, avendo una durata di dieci anni dall'autorizzazione a lottizzare, ai sensi dell’articolo 4 del suo atto costitutivo (cfr. documento n. 12 depositato dall'appellante il 07.12.2018).
Per la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, nel caso in cui il piano di lottizzazione approvato e convenzionato sia scaduto per il decorso del termine di dieci anni, divengono inefficaci le sue previsioni che non abbiano avuto concreta attuazione, non essendo consentita la loro ulteriore esecuzione:, non si possono, più eseguire neppure gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria.
Ne consegue che anche la convenzione di lottizzazione, scaduta e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare i successivi strumenti urbanistici generali (cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 31.08.2017, n. 4144; VI, 26.08.2014, n. 4278; IV, 28.12.2012, n. 6703).
L’odierna appellante ha perso, dunque, interesse all'impugnazione, atteso che lo stesso piano di lottizzazione, nella parte che rileva nel caso di specie (ossia il terzo stralcio) non può più trovare attuazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, l’appello va dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.02.2019 n. 809 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’art. 27 del c.p.a. stabilisce che, perché il contraddittorio possa considerarsi integro, il ricorso deve essere notificato sia all’Amministrazione resistente che, ove esistenti, ai contro interessati.
Nel processo amministrativo la qualità di controinteressato è strettamente connessa ai vantaggi e benefici che un determinato soggetto può ritrarre dal provvedimento amministrativo oggetto di impugnazione, tali da fondare la sussistenza di un interesse legittimo omologo e speculare rispetto a quello del ricorrente che invece se ne assume leso; intrinsecamente connessa a tale qualità c’è la possibilità che i controinteressati siano identificati o quanto meno possano esserlo, sulla base del provvedimento impugnato.
La nozione di controinteressato in senso tecnico postula, dunque, il concorso di due elementi essenziali, di tipo formale e sostanziale: il primo da ricercare nell’espressa menzione o nell’immediata individuabilità del soggetto in questione nel provvedimento impugnato; il secondo consistente nel riconoscimento, in capo al suddetto soggetto, di un interesse giuridico qualificato al mantenimento degli effetti dell’atto in questione.
La mancata notifica del ricorso ad almeno un controinteressato rende il ricorso inammissibile. E tale vizio, derivante dalla mancata notifica del ricorso al controinteressato, è insuscettibile di sanatoria (ad es. attraverso la notificazione allo stesso del ricorso per motivi aggiunti ovvero dell’appello avverso la sentenza del giudice di primo grado).
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5.- Preliminarmente il Collegio deve darsi carico delle eccezioni sollevate dalla resistente amministrazione intese a sostenere l’inammissibilità del ricorso siccome giammai notificato al controinteressato impresa Ed. D’Al., impresa proponente il progetto del piano di lottizzazione della Maglia C1 – 16 nella quale è ricompreso il terreno di proprietà della ricorrente, approvato dalla resistente amministrazione.
5.1- L’eccezione è fondata.
5.1.a.- L’art. 27 del c.p.a. stabilisce che, perché il contraddittorio possa considerarsi integro, il ricorso deve essere notificato sia all’Amministrazione resistente che, ove esistenti, ai contro interessati.
Nel processo amministrativo la qualità di controinteressato è strettamente connessa ai vantaggi e benefici che un determinato soggetto può ritrarre dal provvedimento amministrativo oggetto di impugnazione, tali da fondare la sussistenza di un interesse legittimo omologo e speculare rispetto a quello del ricorrente che invece se ne assume leso; intrinsecamente connessa a tale qualità c’è la possibilità che i controinteressati siano identificati o quanto meno possano esserlo, sulla base del provvedimento impugnato.
La nozione di controinteressato in senso tecnico postula, dunque, il concorso di due elementi essenziali, di tipo formale e sostanziale: il primo da ricercare nell’espressa menzione o nell’immediata individuabilità del soggetto in questione nel provvedimento impugnato; il secondo consistente nel riconoscimento, in capo al suddetto soggetto, di un interesse giuridico qualificato al mantenimento degli effetti dell’atto in questione (cfr. Cons. St., sez. V, 19.12.2012, n. 6554; id., sez. VI, 19.01.2010, n. 162).
La mancata notifica del ricorso ad almeno un controinteressato rende il ricorso inammissibile (Cons. St., sez. III, 24.05.2012, n. 3053). E tale vizio, derivante dalla mancata notifica del ricorso al controinteressato, è insuscettibile di sanatoria (ad es. attraverso la notificazione allo stesso del ricorso per motivi aggiunti ovvero dell’appello avverso la sentenza del giudice di primo grado: Cons. St., sez. VI, 15.06.2011, n. 3629).
Nella specie, dalla documentazione versata in atti ricorrono entrambi i presupposti dal momento che risulta espressamente menzionata nell’atto impugnato (decreto di esproprio n. 694 dell’11.02.2015) la ditta Ed. D’Al. s.r.l., quale impresa proponente il progetto definitivo, a scomputo degli oneri di urbanizzazione, con la quale risulta stipulata anche apposita convenzione intesa a disciplinare la realizzazione delle menzionate opere di urbanizzazione. Quest’ultima, pertanto, deve ritenersi titolare di un interesse qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio.
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Costituisce ius receptum, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione.
Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione della logica generale, che sorregge l’azione davanti al giudice amministrativo, la quale -similmente al processo civile– riposa su tre condizioni fondamentali:
   a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);
   b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).
   c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento della proposizione della domanda e perdurare, a pena di improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla pronuncia della sentenza).
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Con riguardo alla progettazione dell’opera di pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente sussiste.
Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è certa e immediatamente individuabile la lesione che il singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che possono, con un certo grado di approssimazione, così riassumersi:
   a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da realizzare;
   b) adozione del decreto di occupazione temporanea e d’urgenza;
   c) adozione del decreto di espropriazione.
In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica implica espropriazione di beni privati, il progetto definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.
In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la situazione di immediato spossessamento del bene in capo al privato che ne rende attuale e concreta la reazione.
Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla lettera sub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di trasferimento in favore della pubblica amministrazione ovvero del soggetto espropriante.
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È stato correttamente osservato che “Soltanto nella progettazione definitiva l'opera pubblica assume il carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa l'amministrazione possono essere sanate fino all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art. 16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni”.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto comportante la pubblica utilità alla approvazione del progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo.

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6.2.- Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per cui il riconoscimento dell’assenza di una valida dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta travolto, come tutti gli altri atti della procedura espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex multis Cons. St. Sez. IV 03.10.2012 n. 5189).
Si invera, cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla invalidità degli atti presupposti, senza che si possa configurare a carico della parte interessata un onere di impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155 e 30.06.2003 n. 3896).
6.3.- Orbene, costituisce ius receptum, nella giurisprudenza amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della serie procedimentale degli atti di approvazione di un progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività della pubblica amministrazione.
6.3.1.- Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione della logica generale, che sorregge l’azione davanti al giudice amministrativo, la quale -similmente al processo civile– riposa su tre condizioni fondamentali:
   a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);
   b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).
   c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento della proposizione della domanda e perdurare, a pena di improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla pronuncia della sentenza).
6.3.2.- Con riguardo alla progettazione dell’opera di pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente sussiste.
Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è certa e immediatamente individuabile la lesione che il singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che possono, con un certo grado di approssimazione, così riassumersi:
   a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da realizzare;
   b) adozione del decreto di occupazione temporanea e d’urgenza;
   c) adozione del decreto di espropriazione.
In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica implica espropriazione di beni privati, il progetto definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.
In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la situazione di immediato spossessamento del bene in capo al privato che ne rende attuale e concreta la reazione.
Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla lettera sub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di trasferimento in favore della pubblica amministrazione ovvero del soggetto espropriante.
6.3.3.- È stato correttamente osservato (Consiglio di Stato, sez. II, 14.04.2011, n. 2367), che “Soltanto nella progettazione definitiva l'opera pubblica assume il carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa l'amministrazione possono essere sanate fino all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art. 16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni”.
6.3.4.- La vigente legislazione (art. 12 del TU) non ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto comportante la pubblica utilità alla approvazione del progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo.
7.- Trasponendo le menzionate acquisizioni giurisprudenziali al caso in esame, deve convenirsi che l’amministrazione comunale, nella scansione diacronica degli atti in esame, ha collegato, da ultimo, la dichiarazione di pubblica utilità, all’approvazione del progetto esecutivo, così come risultante dalla determinazione dirigenziale n. 585 del 29.04.2014, con la quale, previa riepilogazione di tutti gli atti della procedura espropriativa, si è proceduto all’approvazione del progetto esecutivo dei lavori per cui è causa nonché a “dichiarare la pubblica utilità di detti lavori ai sensi dell’art. 12 e seguenti del D.P.R. 08/06/2001 n. 327 e succ. mod….”.
7.1.- Con nota 11760 del 05.06.2014, l’amministrazione comunale ha notiziato la ditta Bo.Ma. dell’avvenuta approvazione del progetto e della dichiarazione di pubblica utilità dei lavori, autorizzando la visione della relativa documentazione: la circostanza che detta nota sia stata spedita con raccomandata a.r. alla parte non risulta contestata in giudizio, per cui, in applicazione del principio di non contestazione, deve ritenersi pacificamente ammesso che la ricorrente l’abbia conosciuta.
7.2.- Orbene, siffatta determinazione (risalente all’anno 2014) -siccome adottata in violazione della previsione di cui all’art. 12 del dpr n. 327/2001 e, comunque, lesiva, per quanto sopra detto, della sfera giuridica dell’interessata- andava impugnata nel termine decadenziale decorrente dall’avvenuta conoscenza dell’atto; la stessa, invece, è rimasta inoppugnata nei termini, di talché tutte le censure rassegnate con il ricorso (notificato nell’anno 2015) oggi all’esame del Collegio -intese ad evidenziare l’inesistenza di un vincolo preordinato all’esproprio (I motivo) e l’avvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità (II e III motivo)- devono ritenersi tardivamente proposte, stante l’avvenuto consolidamento del provvedimento dirigenziale.
Pertanto, risulta preclusa al Collegio l’esame del merito del ricorso azionato contro il decreto di esproprio n. 694 dell’11.02.2015, emesso nell’arco temporale quinquennale decorrente dalla data della citata determinazione dirigenziale.
Può concludersi per la reiezione del ricorso nei sensi suesposti(TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'avvenuta demolizione e ricostruzione di fabbricato con volume e sagoma diversa è qualificabile come "sostituzione edilizia", la quale costituisce nuova edificazione, come tale richiedente non la d.i.a. ma il permesso di costruire.
Non vi è dubbio che attraverso l'aumento di volume e il superamento della sagoma preesistente alla demolizione si sia posto in essere un intervento edilizio giuridicamente del tutto diverso da quello previsto nella d.i.a. e quindi realizzato senza titolo, con qualificazione giuridica di sostituzione edilizia che coinvolge l'intero manufatto realizzato.
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Il motivo è infondato.
Il fatto che le ricorrenti abbiano operato una demolizione e ricostruzione integrale (pagina 4, paragrafo 10, del ricorso) con ampliamento eccedente il 5% del volume e della superficie originari (come ammette la ricorrente: pagine 5 e 7 del ricorso), con aumento di altezza (pagina 4, paragrafo 10, e pag. 5 del ricorso), modifica di sagoma e con cambiamento della destinazione d’uso induce a ritenere che si tratti di sostituzione edilizia.
Peraltro, l’aumento di volume e di superficie è stato particolarmente significativo, in quanto l’originario manufatto aveva una superficie di mq. 80,62 (si veda il documento n. 2 allegato all’impugnativa), mentre l’attuale edificio in muratura ha una superficie di mq. 103 (documento n. 10 depositato in giudizio dalle ricorrenti); inoltre la difesa del Comune, non smentita sul punto dalle ricorrenti, quantifica nel 37% la percentuale di incremento del volume sulla base del grafico riportante lo stato sovrapposto.
Ne discende che non si attaglia al caso di specie l’invocato art. 79, comma 2, lett. d, della L.R. n. 1/2005, nemmeno nella parte in cui consente, in determinati casi (inserimento di addizioni funzionali, che peraltro non ricorre nella vicenda in esame), modifiche entro il limite del 20% del volume esistente.
In definitiva, l’opera oggetto dell’atto impugnato non ha nessun nesso di continuità o di assimilabilità né col manufatto preesistente, né con l’intervento edilizio previsto nella d.i.a.; rilevano infatti la demolizione e la ricostruzione integrale di locali con caratteristiche funzionali ad una destinazione d’uso diversa (non più ricovero di attrezzi agricoli ma abitazione), maggiore altezza e volume, modifica della sagoma, che nell’insieme costituiscono caratteristiche vistosamente eccedenti la ristrutturazione edilizia.
L'avvenuta demolizione e ricostruzione di fabbricato con volume e sagoma diversa è qualificabile come "sostituzione edilizia", la quale costituisce nuova edificazione, come tale richiedente non la d.i.a. ma il permesso di costruire. Non vi è dubbio che attraverso l'aumento di volume e il superamento della sagoma preesistente alla demolizione si sia posto in essere un intervento edilizio giuridicamente del tutto diverso da quello previsto nella d.i.a. e quindi realizzato senza titolo, con qualificazione giuridica di sostituzione edilizia che coinvolge l'intero manufatto realizzato (TAR Toscana, III, 15.02.2016, n. 279) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 30.01.2019 n. 148 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi in zona sismica - Permesso di costruire in sanatoria - Rilascio della "doppia conformità" agli strumenti urbanistici - Estintiva dell'illecito penale - Effetti del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica - Potere-dovere di sindacare la legittimità dell'atto - Artt. 31, 33, 34, 36, 44, 45, 64, 65, 71, 72, 93, 95 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi, sussistono i presupposti per attribuire efficacia estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere abusive risultano, per quanto difformi dal titolo abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione della domanda, con la conseguenza che il risultato non può prodursi se sia necessario procedere ad ulteriori interventi che riconducano i lavori realizzati a tale doppia conformità.
Ne segue che, in presenza del rilascio della "doppia conformità", divenuta efficace a seguito del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, si può sanare la violazione edilizia di cui al capo A), fermo restando il potere-dovere di sindacare la legittimità dell'atto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2019 n. 3976 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Veranda, nozione tecnico-giuridico - Difetta normalmente del carattere di precarietà - Assenza di esigenze temporanee e contingenti.
In materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile (Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008 - dep. 07/04/2008, Iacono Ciulla) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2019 n. 3976 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici - Provvedimento di compatibilità paesaggistica - Accertamento - Effetti e limiti - C.d. condono ambientale - Nozione di "creazione di superfici utili" - Nozione di "volumetria" - Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004.
In tema di reati paesaggistici, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Inoltre, la "creazione di superfici utili", il quale impedisce il perfezionamento del cd. "condono ambientale" previsto dall'art. 181, comma 1-ter e 1-quater, del D.Lgs. n. 42 del 2004, consiste in una immutazione permanente dell'assetto territoriale rispetto alla originaria conformazione dello stato dei luoghi; dall'altro, che la nozione di "volumetria" -al pari di quella di "superficie utile" di cui al comma 1-ter, lett. a), della stessa disposizione- dev'essere individuata prescindendo dai criteri applicabili per la disciplina urbanistica e considerando l'impatto dell'intervento sull'originario assetto paesaggistico del territorio
(Cass. Sez. 3, n. 9060/2018, Veillon)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.01.2019 n. 3976 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ristrutturazione edilizia di un immobile sito in zona A finalizzata ad un mutamento di destinazione d’uso da civile abitazione in una “infrastruttura per attività culturali e sociali”, ovvero in un museo didattico dell’agricoltura, laboratorio ludico/didattico e sala conferenze sconta il pagamento del costo di costruzione.
Ed invero, l’articolo 16 del D.p.r. n. 380/2001 prevede che il rilascio del permesso di costruire comporti la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione; l’art 17, invece, individua i casi in cui tale contributo non è dovuto così elencandoli:
   “a) interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1972, n. 153);
   b) interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari;
   c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici; 
   d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
   e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale” (comma 3).
L’esenzione dal contributo, quindi, può operare solo in presenza degli stringenti requisiti indicati dalla disposizione in esame, che, nella ipotesi di cui alla lettera e) invocata da parte ricorrente, consistono in requisiti di ordine soggettivo ed oggettivo: deve trattarsi, infatti, di opere pubbliche e/o di interesse generale realizzate da soggetti pubblici ovvero di opere realizzate anche da privati che, però, costituiscano opere di urbanizzazione ovvero opere precipuamente previste e realizzate in attuazione di strumenti urbanistici.
Nella ipotesi di lavori realizzati da soggetti privati, più nel dettaglio, non basta che le opere siano autorizzate dagli strumenti urbanistici ma occorre che siano ivi previste e che siano, quindi, qualificabili quali opere di urbanizzazione.
Nel caso de quo i lavori di ristrutturazione sono stati eseguiti dal privato ricorrente per conto proprio, seppur usufruendo di finanziamenti regionali, su di un immobile di sua proprietà cosicché l’opera in questione non può dirsi riconducibile alla mano pubblica; non ne è stata dimostrata, poi, la natura di opera di urbanizzazione ovvero la diretta riconduzione alle previsioni dello strumento urbanistico.
Anche a volere ammettere la natura di opera di interesse generale della struttura, ancora, manca l’ulteriore condizione consistente della realizzazione della stessa da parte dell’ente pubblico o di un soggetto ad esso strettamente riferibile, quale ad esempio un concessionario di opera pubblica.
Non può ravvisarsi, infine, nemmeno l’ulteriore ipotesi di esonero prevista dalla lettera b), pure invocata da parte ricorrente, non trattandosi, nel caso in esame, di edificio unifamiliare né risultando l’intervento funzionale all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare.
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Il ricorrente, nella qualità di proprietario di un immobile rurale sito in località Valle del Comune di Filignano (IS), denominato “Palazzo Ferri”, presentava istanza per accedere ai finanziamenti previsti dalla Regione Molise con determina n. 256/2011 nell’ambito del PSR Molise 2007/2013 Misura 3.2.2 “Sviluppo e rinnovamento di villaggi”-1^ sottofase”, al fine di procedere al recupero architettonico del suddetto immobile e destinarlo a museo didattico dell’agricoltura, laboratorio ludico/didattico e sala conferenze.
Il Comune rilasciava il permesso di costruire n. 1/2012 in data 21.05.2012 per eseguire i suddetti lavori di ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso, al fine di destinarlo a “infrastrutture per attività culturali e sociali” e la Regione, con determina n. 675 del 31.07.2013, concedeva al ricorrente il finanziamento previsto; il ricorrente, a sua volta, provvedeva a pagare gli oneri di costruzione per la somma di euro 20.490,10.
Con successiva istanza del 20.01.2016 il ricorrente richiedeva la restituzione di tali somme ma il Comune, con nota n. 5036 del 01.12.2016, gli notificava la delibera di Giunta n. 83/2016 con la quale tale istanza veniva respinta.
Il ricorrente ha, quindi, adito questo Tribunale per sentir annullare la delibera comunale n. 83/16 e dichiarare il suo diritto alla restituzione degli oneri di costruzione, a suo dire indebitamente versati.
...
Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono.
A detta di parte ricorrente il costo di costruzione non sarebbe dovuto in base a quanto previsto dalla sopra citata disposizione normativa di cui alla lettera c) trattandosi, a suo dire, di lavori di mera manutenzione straordinaria di un edificio già esistente, di un cambio di destinazione d’uso all’interno della medesima categoria funzionale, senza aumento di carico urbanistico ed in piena conformità allo strumento urbanistico, peraltro mai contestata dal Comune.
La realizzazione di un museo didattico dell’agricoltura sarebbe, quindi, pienamente conforme alla finalità della Misura 3.2.2 ed allo spirito del Bando e costituirebbe un’opera di finalità generale idonea ad apportare vantaggi alla stessa Amministrazione comunale; quanto alla natura dei lavori eseguiti, non erano state realizzate né nuove superfici né nuovi volumi né tanto meno ulteriori opere di urbanizzazione primaria quali strade, parcheggi, verde attrezzato ecc..
Ritiene, invece, il Collegio, che tali rilievi siano inconferenti.
Nel caso di specie, infatti, risulta assentita una ristrutturazione edilizia di un immobile sito in zona A del territorio comunale, finalizzata ad un mutamento di destinazione d’uso: il “Palazzo Ferri”, infatti, in origine destinato a civile abitazione, risulta trasformato in una “infrastruttura per attività culturali e sociali”, ovvero in un museo didattico dell’agricoltura, laboratorio ludico/didattico e sala conferenze.
Pertanto, il Collegio è dell’avviso che il costo di costruzione sia dovuto.
Ed invero, l’articolo 16 del D.p.r. n. 380/2001 prevede che il rilascio del permesso di costruire comporti la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione; l’art 17, invece, individua i casi in cui tale contributo non è dovuto così elencandoli: “a) interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1972, n. 153); b) interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura non superiore al 20% di edifici unifamiliari; c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici; d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità; e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale” (comma 3).
L’esenzione dal contributo, quindi, può operare solo in presenza degli stringenti requisiti indicati dalla disposizione in esame, che, nella ipotesi di cui alla lettera e) invocata da parte ricorrente, consistono in requisiti di ordine soggettivo ed oggettivo: deve trattarsi, infatti, di opere pubbliche e/o di interesse generale realizzate da soggetti pubblici ovvero di opere realizzate anche da privati che, però, costituiscano opere di urbanizzazione ovvero opere precipuamente previste e realizzate in attuazione di strumenti urbanistici (Cons. Stato, sez. IV, 17.10.2018, n. 5942).
Nella ipotesi di lavori realizzati da soggetti privati, più nel dettaglio, non basta che le opere siano autorizzate dagli strumenti urbanistici ma occorre che siano ivi previste e che siano, quindi, qualificabili quali opere di urbanizzazione (Tar Veneto, Sez. II, 04.08.2014, n. 1133).
Nel caso de quo i lavori di ristrutturazione sono stati eseguiti dal privato ricorrente per conto proprio, seppur usufruendo di finanziamenti regionali, su di un immobile di sua proprietà cosicché l’opera in questione non può dirsi riconducibile alla mano pubblica; non ne è stata dimostrata, poi, la natura di opera di urbanizzazione ovvero la diretta riconduzione alle previsioni dello strumento urbanistico.
Anche a volere ammettere la natura di opera di interesse generale della struttura, ancora, manca l’ulteriore condizione consistente della realizzazione della stessa da parte dell’ente pubblico o di un soggetto ad esso strettamente riferibile, quale ad esempio un concessionario di opera pubblica (Tar Milano, sez. II, 11.07.2014, n. 1827).
Non può ravvisarsi, infine, nemmeno l’ulteriore ipotesi di esonero prevista dalla lettera b), pure invocata da parte ricorrente, non trattandosi, nel caso in esame, di edificio unifamiliare né risultando l’intervento funzionale all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del nucleo familiare.
In conclusione, per quanto dedotto, il ricorso va respinto (TAR Molise, sentenza 25.01.2019 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La pubblica amministrazione conserva indiscutibilmente –anche in relazione ai procedimenti di gara per la scelta del contraente– il potere di annullare in via di autotutela sia il bando che le singole operazioni di gara, tenendo conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse: l’autotutela trova fondamento negli stessi principi costituzionali predicati dall’art. 97 della Costituzione cui deve ispirarsi l'azione amministrativa, ed in tale prospettiva neppure il provvedimento di aggiudicazione definitiva osta all'esercizio di un siffatto potere, il quale, tuttavia, incontra il limite del rispetto dei principi di buona fede e correttezza, e della tutela dell'affidamento ingenerato.
L’enunciata potestà di autotutela consente alla stazione appaltante di porre nel nulla l'intera procedura di gara qualora una scelta siffatta si renda necessaria, o anche solo opportuna, a tutela del superiore interesse pubblico, a fronte del quale le aspettative del concorrente, ancorché già aggiudicatario (e, quindi, titolare di una qualificata posizione) devono essere considerate recessive. Tuttavia, per quanto connotato da margini di ampia discrezionalità, tale potere non è illimitato, dovendo l’amministrazione fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che, alla luce della comparazione dell'interesse pubblico con le contrapposte posizioni consolidate dei partecipanti alla gara, giustificano la differente determinazione.
Il potere di autotutela deve essere esercitato nel rispetto dei requisiti esplicitati all'articolo 21-nonies della L. 241/1990, ossia entro un termine ragionevole (non superiore a 18 mesi) e dando conto della sussistenza di ragioni attuali d'interesse pubblico e dell’adeguata e congrua ponderazione delle posizioni dei destinatari e dei controinteressati.
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1.1 In via generale, questo TAR (cfr. sentenze sez. II – 10/06/2014 n. 612; 29/11/2016 n. 1634) ha già osservato che la pubblica amministrazione conserva indiscutibilmente –anche in relazione ai procedimenti di gara per la scelta del contraente– il potere di annullare in via di autotutela sia il bando che le singole operazioni di gara, tenendo conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse: l’autotutela trova fondamento negli stessi principi costituzionali predicati dall’art. 97 della Costituzione cui deve ispirarsi l'azione amministrativa, ed in tale prospettiva neppure il provvedimento di aggiudicazione definitiva osta all'esercizio di un siffatto potere, il quale, tuttavia, incontra il limite del rispetto dei principi di buona fede e correttezza, e della tutela dell'affidamento ingenerato (cfr. TAR Puglia Lecce, sez. II – 05/03/2018 n. 383, che risulta appellata e il Consiglio di Stato sez. III – 19/12/2018 n. 7154 ha disposto la conversione del rito; TAR Campania Napoli, sez. V – 21/10/2016 n. 4824, confermata in appello dal Consiglio di Stato, sez. III – 10/05/2017 n. 2172; Consiglio di Stato, sez. III – 19/02/2014 n. 769; Consiglio di Stato, sez. V – 08/11/2012 n. 5681).
L’enunciata potestà di autotutela consente alla stazione appaltante di porre nel nulla l'intera procedura di gara qualora una scelta siffatta si renda necessaria, o anche solo opportuna, a tutela del superiore interesse pubblico, a fronte del quale le aspettative del concorrente, ancorché già aggiudicatario (e, quindi, titolare di una qualificata posizione) devono essere considerate recessive. Tuttavia, per quanto connotato da margini di ampia discrezionalità, tale potere non è illimitato, dovendo l’amministrazione fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che, alla luce della comparazione dell'interesse pubblico con le contrapposte posizioni consolidate dei partecipanti alla gara, giustificano la differente determinazione (TAR Lazio Roma, sez. II – 27/07/2016 n. 8613; TAR Emilia Romagna-Parma – 17/04/2013 n. 159, confermata in appello con diversa motivazione dal Consiglio di Stato, sez. V – 11/07/2017 n. 3401).
1.2 Il potere di autotutela deve essere esercitato nel rispetto dei requisiti esplicitati all'articolo 21-nonies della L. 241/1990, ossia entro un termine ragionevole (non superiore a 18 mesi) e dando conto della sussistenza di ragioni attuali d'interesse pubblico e dell’adeguata e congrua ponderazione delle posizioni dei destinatari e dei controinteressati (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.01.2019 n. 79 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La legittimità di un provvedimento non è da sola sufficiente a escludere la scorrettezza o l'illiceità della condotta (e la conseguente pronuncia risarcitoria) ove sia provato il danno, qualificandosi l'atto amministrativo come uno dei fatti oggetto di valutazione nel giudizio sul comportamento complessivo.
Infatti, nel caso di pur legittima revoca o annullamento di una procedura di gara può residuare una responsabilità per culpa in contrahendo qualora sussista un affidamento in capo all’impresa, suscitato dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi ritirati e perdurato fino alla comunicazione dell’avvenuto ripensamento.
In buona sostanza, in caso di esercizio della potestà di autotutela e di revirement dell’Ente pubblico può sussistere, comunque, una responsabilità precontrattuale ove l’impresa abbia ragionevolmente confidato di addivenire alla stipula del contratto, nella logica esecuzione degli atti della procedura ad evidenza pubblica, culminati nell’aggiudicazione definitiva e in seguito rimossi.

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La responsabilità precontrattuale dell’Ente pubblico non è una responsabilità “da provvedimento” ma “da comportamento”, e ciò che il privato lamenta non è la mancata aggiudicazione ma la lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale: anche sulla pubblica amministrazione grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, ossia di rispettare i doveri di lealtà e di correttezza –che in quanto “regole comuni” gravano su tutti gli operatori– e di porre in essere comportamenti che salvaguardino l’affidamento della controparte in modo da non sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto.
L’autorità procedente è chiamata a rispondere dei danni conseguenti alla condotta contraria ai canoni di buona fede e correttezza soprattutto ove, accortasi delle ragioni che consigliavano di procedere in via di autotutela mediante la revoca della già disposta aggiudicazione, non abbia immediatamente ritirato i propri provvedimenti, prolungando inutilmente lo svolgimento della gara, così inducendo le imprese concorrenti a confidare nelle chances di conseguire l’appalto.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha statuito che “Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”.
La pronuncia ha richiamato alcune sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione ove “il provvedimento viene in considerazione come elemento di una più complessa fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di responsabilità solo se e nella misura in cui risulti oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo convincimento della legittimità del provvedimento”.

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Il ripensamento delle amministrazioni resistenti, seppur adeguatamente giustificato dalla necessità del Comune di disporre in via immediata di una somma ingente per non sostenere gli oneri un mutuo, abbia comunque inciso su un affidamento di Di. che, seppur di ridotta intensità (tale cioè da non precludere la rimozione degli atti in autotutela), configura una posizione soggettiva tutelabile nel quadro della responsabilità pre-contrattuale.
A tali fini il Consiglio di Stato ha affermato –proprio con riguardo a una gara i cui atti erano stati rimossi mediante l’esercizio del potere di autotutela– che devono essere rinvenuti tre elementi costitutivi:
   - un elemento oggettivo, consistente nella chiarezza, certezza e univocità del vantaggio del privato, che deve trovare fonte in un comportamento attivo;
   - un elemento soggettivo, rappresentato dalla plausibile convinzione del privato di aver titolo all'utilità ottenuta;
   - un elemento cronologico, ovvero il passaggio del tempo che rafforza la convinzione della spettanza del bene della vita ottenuto.

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Risulta dunque accertato l’an del risarcimento, per cui il Collegio deve affrontare la questione del quantum del danno.
Come ha osservato il Consiglio di Stato, i principi regolatori della materia sono i seguenti:
   a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse negativo, ossia all’interesse a non essere coinvolti in trattative inutili e dispendiose (l’interesse, appunto, a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale);
   b) vi rientrano sia il danno emergente (corrispondente alle spese sostenute per partecipare alla gara e in previsione della conclusione del contratto) che il lucro cessante (correlato alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione non sfociata nella stipulazione);
   c) deve essere escluso il ristoro dell’interesse positivo (il mancato guadagno, cd. utile d’impresa) prospetticamente derivante dall’esecuzione del contratto non venuto ad esistenza;
   d) in ogni caso il danno risarcibile deve essere comprovato, giusta la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata: nel giudizio risarcitorio non ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di legittimità, l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo.

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2. SULLE QUESTIONI RISARCITORIE
2.1 Anzitutto il Collegio osserva che la legittimità di un provvedimento non è da sola sufficiente a escludere la scorrettezza o l'illiceità della condotta (e la conseguente pronuncia risarcitoria) ove sia provato il danno, qualificandosi l'atto amministrativo come uno dei fatti oggetto di valutazione nel giudizio sul comportamento complessivo.
Infatti, nel caso di pur legittima revoca o annullamento di una procedura di gara può residuare una responsabilità per culpa in contrahendo qualora sussista un affidamento in capo all’impresa, suscitato dagli atti della procedura di evidenza pubblica poi ritirati e perdurato fino alla comunicazione dell’avvenuto ripensamento (cfr. Consiglio di Stato, adunanza plenaria – 05/09/2005 n. 6).
In buona sostanza, in caso di esercizio della potestà di autotutela e di revirement dell’Ente pubblico può sussistere, comunque, una responsabilità precontrattuale ove l’impresa abbia ragionevolmente confidato di addivenire alla stipula del contratto, nella logica esecuzione degli atti della procedura ad evidenza pubblica, culminati nell’aggiudicazione definitiva e in seguito rimossi (TAR Sicilia Catania, sez. I – 09/03/2018 n. 515, che risulta appellata; TAR Piemonte, sez. II – 24/04/2018 n. 482).
2.2 La responsabilità precontrattuale dell’Ente pubblico non è una responsabilità “da provvedimento” ma “da comportamento”, e ciò che il privato lamenta non è la mancata aggiudicazione ma la lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale (violazione del diritto soggettivo all’integrità patrimoniale – Consiglio di Stato, adunanza plenaria 04/05/2018 n. 5): anche sulla pubblica amministrazione grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, ossia di rispettare i doveri di lealtà e di correttezza –che in quanto “regole comuni” gravano su tutti gli operatori– e di porre in essere comportamenti che salvaguardino l’affidamento della controparte in modo da non sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto (Consiglio di Stato, sez. V – 26/06/2015 n. 3237).
L’autorità procedente è chiamata a rispondere dei danni conseguenti alla condotta contraria ai canoni di buona fede e correttezza soprattutto ove, accortasi delle ragioni che consigliavano di procedere in via di autotutela mediante la revoca della già disposta aggiudicazione, non abbia immediatamente ritirato i propri provvedimenti, prolungando inutilmente lo svolgimento della gara, così inducendo le imprese concorrenti a confidare nelle chances di conseguire l’appalto (Consiglio di Stato, sez. V – 05/05/2016 n. 1797).
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. 04/05/2018 n. 5 già evocata) ha statuito che “Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un mosaico connotato da una condotta complessivamente superficiale, violativa dei più elementari obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono la parabola procedurale”.
La pronuncia ha richiamato alcune sentenze delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (tra le quali 22/01/2015 n. 1162; 04/09/2015 n. 17586) ove “il provvedimento viene in considerazione come elemento di una più complessa fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di responsabilità solo se e nella misura in cui risulti oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo convincimento della legittimità del provvedimento”.
2.3 Il Collegio è dell’avviso che il ripensamento delle amministrazioni resistenti, seppur adeguatamente giustificato dalla necessità del Comune di disporre in via immediata di una somma ingente per non sostenere gli oneri un mutuo, abbia comunque inciso su un affidamento di Di. che, seppur di ridotta intensità (tale cioè da non precludere la rimozione degli atti in autotutela), configura una posizione soggettiva tutelabile nel quadro della responsabilità pre-contrattuale.
A tali fini il Consiglio di Stato (cfr. sez. V – 23/08/2016 n. 3674) ha affermato –proprio con riguardo a una gara i cui atti erano stati rimossi mediante l’esercizio del potere di autotutela– che devono essere rinvenuti tre elementi costitutivi: un elemento oggettivo, consistente nella chiarezza, certezza e univocità del vantaggio del privato, che deve trovare fonte in un comportamento attivo; un elemento soggettivo, rappresentato dalla plausibile convinzione del privato di aver titolo all'utilità ottenuta; un elemento cronologico, ovvero il passaggio del tempo che rafforza la convinzione della spettanza del bene della vita ottenuto. Ebbene, nella specie esaminata le predette condizioni appaiono realizzate, dato che:
   • la procedura selettiva si era conclusa con l’adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, che ha conferito alla ricorrente in ATI il beneficio sperato senza margine di incertezza alcuno;
   • dal punto di vista soggettivo, l’impresa poteva essere logicamente persuasa di ottenere l’affidamento del servizio;
   • quanto al profilo cronologico, già si è affermato che pochi mesi dopo l’aggiudicazione è stato adottato il provvedimento di decadenza che ha certamente impedito il consolidamento dell’aspettativa all’esecuzione del rapporto (e del resto, la gestione non è stata avviata e neppure è stato sottoscritto il contratto); inoltre, dopo la pubblicazione della sentenza di questo TAR (30/03/2018), il procedimento di autotutela è stato avviato tempestivamente (nel mese di giugno 2018) per concludersi a settembre, dopo un intervallo temporale non eccessivo né irragionevole; peraltro, pur in presenza di segmenti temporali non particolarmente estesi, la sentenza di questo TAR più volte evocata ha comunque accertato una negligenza nella formazione del bando, suscettibile di nuocere al concorrente che, dal momento dell’aggiudicazione in data 30/5/2017 sino ai successivi eventi (cfr. in primis la nota del 27/06/2017 di richiesta tra l’altro del versamento di € 1.354.659,27 quale corrispettivo della concessione – doc. 18 Comune), era incontestabilmente in buona fede.
2.4 Seguendo l’ulteriore percorso logico-giuridico tracciato dalla recente sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5/2018 (punto 51) il Collegio è dell’avviso che l’affidamento incolpevole sia stato leso da una condotta che, valutata nel suo complesso e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulta oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà. Detta violazione è anche soggettivamente imputabile alle amministrazioni in termini di colpa.
Nel richiamare nuovamente la pronuncia di questo TAR n. 362/2018, si rammenta che lo schema di bando elaborato dal Comune di Stezzano contemplava l’obbligo di corrispondere il corrispettivo fisso della concessione trentennale in unica soluzione entro 35 giorni dall’aggiudicazione definitiva, mentre la Provincia ha indetto la gara telematica elaborando un disciplinare non corrispondente sul punto.
I successivi profili afferenti alla prova del danno-evento e del danno-conseguenza (ossia, le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), e i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta delle amministrazioni saranno affrontati nel paragrafo seguente, tenuto conto che il privato è tenuto a dimostrare che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento.
2.5 Risulta dunque accertato l’an del risarcimento, per cui il Collegio deve affrontare la questione del quantum del danno.
Come ha osservato il Consiglio di Stato nella già citata sentenza n. 1036/2018, i principi regolatori della materia (cfr. Consiglio di Stato, sez, V – 06/11/2017 n. 5091), sono i seguenti:
   a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse negativo, ossia all’interesse a non essere coinvolti in trattative inutili e dispendiose (l’interesse, appunto, a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale);
   b) vi rientrano sia il danno emergente (corrispondente alle spese sostenute per partecipare alla gara e in previsione della conclusione del contratto) che il lucro cessante (correlato alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione non sfociata nella stipulazione);
   c) deve essere escluso il ristoro dell’interesse positivo (il mancato guadagno, cd. utile d’impresa) prospetticamente derivante dall’esecuzione del contratto non venuto ad esistenza;
   d) in ogni caso il danno risarcibile deve essere comprovato, giusta la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui fonda la pretesa avanzata: nel giudizio risarcitorio non ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di legittimità, l’applicazione del principio dispositivo con metodo acquisitivo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 24.01.2019 n. 79 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' da escludersi che la Stazione appaltante, a mezzo di chiarimenti, possa modificare o integrare la disciplina di gara, sì da pervenire a una sostanziale disapplicazione della lex specialis.
I chiarimenti sono ammissibili se contribuiscono, con un'operazione di interpretazione del testo che ne forma oggetto, a renderne più chiaro e comprensibile il significato, ma non anche quando si giunga ad attribuire a una disposizione del bando un significato e una portata diversa da quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il principio formale della lex specialis posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost..
Ne consegue che i chiarimenti, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale, devono ritenersi inidonei a modificare o integrare la disciplina della procedura come definita dal bando, dal disciplinare e capitolato, introducendo prescrizioni non desumibili dalla stessa legge di gara.
Va perciò “negata qualsiasi capacità dei chiarimenti forniti dalla stazione appaltante di modificare la normativa di gara dalla stessa predisposta ed alla quale sola gli operatori economici partecipanti alla procedura di affidamento si devono attenere.
E corollario del principio appena esposto è quello della mancanza di un onere d’impugnativa dei chiarimenti tesi a tradursi in una modifica della disciplina di gara, giacché un diverso opinamento al riguardo condurrebbe, appunto, ad ammettere l’astratta eventualità di un loro consolidamento per omessa impugnativa, e, per questa via, proprio quella possibilità di modificare la lex specialis mediante chiarimenti che si è invece appena visto essere esclusa.
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La giurisprudenza del Consiglio di Stato esclude, invero, che la Stazione appaltante, a mezzo di chiarimenti, possa modificare o integrare la disciplina di gara, sì da pervenire a una sostanziale disapplicazione della lex specialis.
I chiarimenti sono ammissibili se contribuiscono, con un'operazione di interpretazione del testo che ne forma oggetto, a renderne più chiaro e comprensibile il significato, ma non anche quando si giunga ad attribuire a una disposizione del bando un significato e una portata diversa da quella che risulta dal testo stesso, in tal caso violandosi il principio formale della lex specialis posto a garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost. (cfr., tra le tante, C.d.S., III, 10.05.2017, n. 2172).
Ne consegue che i chiarimenti, in base a un consolidato orientamento giurisprudenziale, devono ritenersi inidonei a modificare o integrare la disciplina della procedura come definita dal bando, dal disciplinare e capitolato, introducendo prescrizioni non desumibili dalla stessa legge di gara (C.d.S., V, 24.04.2017, n. 1903; 17.05.2018, n. 2952).
Va perciò “negata qualsiasi capacità dei chiarimenti forniti dalla stazione appaltante di modificare la normativa di gara dalla stessa predisposta ed alla quale sola gli operatori economici partecipanti alla procedura di affidamento si devono attenere (ex multis: Cons. Stato, III, 26.01.2018, n. 565, 10.05.2017, n. 2172; V, 17.05.2018, n. 2952, 17.01.2018, n. 279, 04.12.2017, n. 5690)” (C.d.S., V, 02.08.2018, n. 4782).
E corollario del principio appena esposto è quello della mancanza di un onere d’impugnativa dei chiarimenti tesi a tradursi in una modifica della disciplina di gara, giacché un diverso opinamento al riguardo condurrebbe, appunto, ad ammettere l’astratta eventualità di un loro consolidamento per omessa impugnativa, e, per questa via, proprio quella possibilità di modificare la lex specialis mediante chiarimenti che si è invece appena visto essere esclusa.
Anche questo aspetto del motivo in trattazione deve, quindi, essere disatteso (CGARS, sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in tema di procedure ad evidenza pubblica, “le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti:
   - le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione;
   - le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla stazione appaltante.
In definitiva la differenza tra varianti e soluzioni migliorative apportate dall'impresa al progetto posto a base di gara riposa sull'"intensità" e sul "grado" delle modifiche introdotte.
Le soluzioni migliorative (o "varianti progettuali migliorative"), hanno ad oggetto gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara, e possono essere sempre e comunque introdotte in sede di offerta.
Il motivo è che esse riguardano aspetti tecnici in grado di consentire, fatto salvo il principio della par condicio, alle imprese partecipanti d'individuare -va, sottolineato, tutto vantaggio della stazione appaltante- nell'ambito delle proprie specifiche capacità e competenze, le possibili soluzioni tecniche migliori sulla base del progetto di gara
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Nello stesso ordine di idee è stato puntualizzato, inoltre, che “possono essere considerate proposte migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto prescelto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste”.
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Come è stato recentemente osservato dalla giurisprudenza, “Una peculiare modalità esecutiva dell'opera o del servizio, non affatto circoscritta la solo materiale, che non alteri struttura, funzione e tipologia del progetto, non integra affatto la variante sostanziale non ammessa, iscrivendosi piuttosto fra le migliorie consentite”.
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6a Ma anche per il secondo motivo s’impone lo stesso esito.
Con tale mezzo viene denunciato che, come sarebbe stato desumibile già dalla relazione tecnica descrittiva dell’avversaria, la medesima aveva proposto delle soluzioni progettuali in variante sostanziale rispetto al progetto esecutivo a base di gara, con aperta violazione dell’art. 95 del d.lgs. n. 50/2017 e del divieto recato in tal senso anche dalla disciplina di gara (disciplinare, punti 6 e II.1.9). Tali supposte migliorie si sarebbero inoltre tradotte in soluzioni peggiorative.
L’aggiudicataria doveva di conseguenza essere esclusa dalla gara.
6b Il motivo si appunta principalmente sulla prevista sostituzione (miglioria ME. n. 42) della vasca in cemento armato di compensazione delle acque meteoriche contemplata dal progetto dell’Amministrazione, che nell’offerta vittoriosa viene sostituita da moduli prefabbricati componenti un “tubo” di capacità analoga alla predetta vasca (capacità di circa 100 mc).
6b1 A questo proposito il Consiglio, pur non ritenendo corretta la valutazione d’inammissibilità espressa dal TAR su buona parte di questo secondo mezzo (nonché sul terzo), deve però confermare l’avviso già espresso in fase cautelare circa la non condivisibilità della tesi, carente anche di un convincente impianto probatorio, che le migliorie offerte dall’aggiudicataria avrebbero costituito, in realtà, delle vere e proprie varianti, come tali vietate.
6b2 In questa materia è appena il caso di ricordare che secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in tema di procedure ad evidenza pubblica, “le soluzioni migliorative si differenziano dalle varianti: le prime possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di vista tecnico, salva la immodificabilità delle caratteristiche progettuali già stabilite dall'Amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è necessaria una previa manifestazione di volontà della stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a quella prefigurata dalla stazione appaltante (cfr., Cons. St., sez. V, 20.02.2014, n. 814; Id., sez. V, 24.10.2013, n. 5160).…
In definitiva la differenza tra varianti e soluzioni migliorative apportate dall'impresa al progetto posto a base di gara riposa sull'"intensità" e sul "grado" delle modifiche introdotte. …
Le soluzioni migliorative (o "varianti progettuali migliorative"), hanno ad oggetto gli aspetti tecnici lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto posto a base di gara, e possono essere sempre e comunque introdotte in sede di offerta.
Il motivo è che esse riguardano aspetti tecnici in grado di consentire, fatto salvo il principio della par condicio, alle imprese partecipanti d'individuare -va, sottolineato, tutto vantaggio della stazione appaltante- nell'ambito delle proprie specifiche capacità e competenze, le possibili soluzioni tecniche migliori sulla base del progetto di gara
” (in termini, C.d.S., sez. VI, 19.06.2017, n. 2969).
Nello stesso ordine di idee è stato puntualizzato, inoltre, (da C.d.S., sez. V, 17.01.2018, n. 270) che “possono essere considerate proposte migliorative tutte quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate a rendere il progetto prescelto meglio corrispondente alle esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste (Cons. Stato, Sez. V, 10/01/2017, n. 42; 16/04/2014, n. 1923).
6b3 Orbene, gli elementi forniti dalle appellate, rimasti insuperati ex adverso, denotano la corrispondenza qualitativa, dimensionale e funzionale della vasca prefabbricata offerta dalla ME. (con conseguente riduzione dei tempi di esecuzione dell’intervento) a quella contemplata nel progetto dell’Amministrazione (cfr. la consulenza tecnica prodotta dall’aggiudicataria in primo grado alle pagg. 15-17 e 32). Le due strutture si differenzierebbero unicamente nelle loro rispettive modalità di realizzazione: la prima, a mezzo di moduli prefabbricati in cemento; la seconda mediante gettata di cemento in loco.
Né la corrispondenza riscontrata viene meno per il mero fatto che l’azienda produttrice del prefabbricato avesse ideato il medesimo per un differente scopo specifico.
Ne discende che la proposta sostituzione della vasca con elementi prefabbricati non realizza alcuna sostanziale modifica dei caratteri essenziali del progetto esecutivo dell’Amministrazione, rientrando nel genus delle proposte migliorative ammesse dalla disciplina di gara. Come è stato recentemente osservato, difatti, dalla giurisprudenza (C.d.S., VI, 19.06.2017, n. 2969), “Una peculiare modalità esecutiva dell'opera o del servizio, non affatto circoscritta la solo materiale, che non alteri struttura, funzione e tipologia del progetto, non integra affatto la variante sostanziale non ammessa, iscrivendosi piuttosto fra le migliorie consentite.” (CGARS, sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La giurisprudenza è uniforme nel ritenere che le valutazioni operate dalle commissioni di gara sulle offerte tecniche delle imprese, in quanto espressioni di discrezionalità tecnica, siano sottratte al sindacato di legittimità del Giudice amministrativo, a meno che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti, o vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione.
L’Amministrazione nell'attribuire i punteggi alle offerte tecniche non applica scienze esatte, ma formula giudizi tecnici connotati da un fisiologico margine di opinabilità, per sconfessare i quali non è sufficiente evidenziare la loro mera non condivisibilità ma occorre piuttosto dimostrare la loro palese inattendibilità, ossia l'evidente insostenibilità del giudizio della Commissione.
Sicché, ove non emergano manifesti travisamenti, pretestuosità o irrazionalità, ma solo margini di fisiologica opinabilità della valutazione tecnico-discrezionale operata dall’Amministrazione, il Giudice amministrativo non potrebbe sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo amministrativo la propria.
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8a Il quarto motivo, subordinato ai precedenti, verte, infine, sulla critica di fondo della manifesta illogicità ed erroneità dei giudizi e punteggi attribuiti dalla Commissione in occasione della valutazione dell’offerta della ME. e di quella di essa ricorrente, nel senso che questa seconda, in presenza di una logica e coerente attribuzione dei punteggi, avrebbe dovuto senz’altro conseguirne uno superiore.
8b Il mezzo è inammissibile per le ragioni addotte dal primo Giudice -in questo caso, pertinentemente- nella sentenza in epigrafe.
8c La ricorrente torna sull’asserto della “manifesta illogicità ed arbitrarietà della delibazione della qualità delle offerte … siccome palesemente inficiata da una travisata rappresentazione delle medesime con la conseguente irragionevole attribuzione dei punteggi”.
E’ però necessario ricordare che con il motivo in discorso, articolato in 15 dense pagine (20 nel ricorso di prime cure), vengono passate in analitica e dettagliata rassegna, rispetto a tutti i sub-criteri recati dalla lex specialis, le 61 migliorie proposte dall’aggiudicataria, concludendo rispetto a ciascun sub-criterio che alla ME., anche indipendentemente dal confronto con le migliorie proposte dagli altri concorrenti, non avrebbe potuto essere assegnato alcun punteggio (di volta in volta perché le sue migliorie sarebbero state peggiorative, non pertinenti rispetto al sub-criterio di riferimento, o per le più varie ragioni inammissibili, oppure –è il caso degli ultimi due sub-criteri- in quanto l’attribuzione da parte della Commissione del punteggio massimo non sarebbe stata “intelligibile”).
Tanto premesso, è agevole osservare che una contestazione con queste caratteristiche effettivamente confligge con il consolidato orientamento giurisprudenziale già richiamato dal TAR.
La giurisprudenza, invero, è uniforme nel ritenere che le valutazioni operate dalle commissioni di gara sulle offerte tecniche delle imprese, in quanto espressioni di discrezionalità tecnica, siano sottratte al sindacato di legittimità del Giudice amministrativo, a meno che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (C.d.S., Sez. V, 22.01.2015, n. 257; 26.03.2014, n. 1468; 23.06.2014, n. 3132; III, 13.03.2012, n. 1409), o vengano in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (III, 19.01.2012, n. 249).
L’Amministrazione nell'attribuire i punteggi alle offerte tecniche non applica scienze esatte, ma formula giudizi tecnici connotati da un fisiologico margine di opinabilità, per sconfessare i quali non è sufficiente evidenziare la loro mera non condivisibilità ma occorre piuttosto dimostrare la loro palese inattendibilità, ossia l'evidente insostenibilità del giudizio della Commissione.
Sicché, ove non emergano manifesti travisamenti, pretestuosità o irrazionalità, ma solo margini di fisiologica opinabilità della valutazione tecnico-discrezionale operata dall’Amministrazione, il Giudice amministrativo non potrebbe sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo amministrativo la propria.
Occorre altresì aggiungere che il carattere di globalità delle contestazioni tecniche mosse dalla SQM, che hanno investito la generalità degli elementi di apprezzamento dell’offerta tecnica avversaria stabiliti dalla lex specialis, e pertanto le valutazioni della Commissione nella loro interezza, denota che con il presente mezzo si è chiesto al Giudice, in pratica, di rinnovare l’esame dell’offerta vittoriosa già condotto dalla competente Commissione.
Le doglianze di parte, cioè, più che promuovere un sindacato di legittimità di precisi e ben determinati snodi della specifica azione amministrativa, sono sconfinate –snaturando tale sindacato- nella sostanziale richiesta del rifacimento globale di questa, da parte del Giudice, in sostituzione dell’Amministrazione competente.
Sicché il motivo deve essere giudicato inammissibile anche sotto questo profilo (CGARS, sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è incontestabile che le asseverazioni costituiscono una indispensabile condizione di procedibilità delle istanze volte ad ottenere provvedimento di assenso o sanatoria edilizia, non rientra nella potestà degli enti locali chiedere ai tecnici asseveratori le motivazioni delle dichiarazioni da essi rilasciate sotto la propria responsabilità.
Spetta infatti ai funzionari competenti in sede di istruttoria della pratica la valutazione finale sulla qualificazione degli interventi e sul loro regime rispetto alla quale il parere del tecnico risulta essere un ausilio non previsto e, quindi, non dovuto.
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Il Sig. Va. rappresenta di aver presentato al comune di Poggibonsi una istanza di accertamento di conformità relativa ad alcune opere interne e di prospetto realizzate su un immobile di sua proprietà ivi sito alla via S. Gallo.
Il dirigente del Servizio edilizia avrebbe dapprima chiesto al tecnico asseveratore di verificare se le opere realizzate ricadano nel regime dell’art. 20-bis del locale regolamento edilizio, a mente del quale la sanatoria per talune categorie di opere realizzate prima della vigenza della legge n. 10/1977 non sarebbe necessaria, di fronte alla risposta negativa avrebbe ulteriormente chiesto al tecnico di motivare il suo avviso.
Non soddisfatto delle spiegazioni ricevute il Dirigente avrebbe archiviato la pratica senza pronunciarsi sulla stessa.
Il ricorso è fondato.
Se è incontestabile che le asseverazioni costituiscono una indispensabile condizione di procedibilità delle istanze volte ad ottenere provvedimento di assenso o sanatoria edilizia non rientra nella potestà degli enti locali chiedere ai tecnici asseveratori le motivazioni delle dichiarazioni da essi rilasciate sotto la propria responsabilità. Spetta infatti ai funzionari competenti in sede di istruttoria della pratica la valutazione finale sulla qualificazione degli interventi e sul loro regime rispetto alla quale il parere del tecnico risulta essere un ausilio non previsto e, quindi, non dovuto.
Spetterà quindi a Comune per effetto dell’annullamento della archiviazione riprendere in esame la domanda di sanatoria alla luce del disposto dell’art. 20-bis del regolamento edilizio qualora si prospetti nuovamente la questione della sua applicabilità.
La domanda volta all’annullamento dell’art. 20-bis del regolamento edilizio è inammissibile per carenza di interesse.
In primo luogo non essendosi ancora l’Ente pronunciato non è dato sapere se la sussistenza di tale norma sarà o meno ragione ostativa all’accoglimento della istanza.
In secondo luogo qualora la predetta norma fosse ritenuta applicabile si verrebbe a creare una situazione del tutto equivalente al rilascio della sanatoria atteso che una archiviazione della pratica basata su tale motivazione precluderebbe ogni successivo intervento sanzionatorio.
Altri ed ulteriori profili di interesse all’ottenimento della sanatoria non appaiono ictu oculi evidenti e dovrebbero essere puntualmente dimostrati.
Nei predetti limiti il ricorso deve essere accolto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.01.2019 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: In sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto, le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione; la valutazione dell’offerta tecnica costituisce, pertanto, espressione di apprezzamento discrezionale insindacabile dal giudice amministrativo salvo che sia affetta da manifesta illogicità.
Inoltre, il sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione del giudice a quella espressa dall'organo dell'amministrazione, ma è finalizzato a verificare se il potere amministrativo si sia esercitato con utilizzo di regole conformi a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza, sicché tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, pena un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A..
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3. Nell’esaminare il primo ordine di censure, giova ribadire, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, che, in sede di valutazione comparativa delle offerte tecniche presentate nelle gare d’appalto, le valutazioni tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del giudice amministrativo se non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione; la valutazione dell’offerta tecnica costituisce, pertanto, espressione di apprezzamento discrezionale insindacabile dal giudice amministrativo salvo che sia affetta da manifesta illogicità (cfr. ex plurimis C.d.S. sez. III, 14.11.2017, n. 5258; id., 07.03.2014, n. 1072; sez. V, 06.09.2017, n. 4225).
Inoltre, il sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione del giudice a quella espressa dall'organo dell'amministrazione, ma è finalizzato a verificare se il potere amministrativo si sia esercitato con utilizzo di regole conformi a criteri di logicità, congruità e ragionevolezza, sicché tale sindacato rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, pena un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. (Tar Abruzzo, Pescara, sez. I, 20.02.2018, n. 66)
(cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n. 6639) (TAR Umbria, sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Costituisce ius receptum giurisprudenziale quello per cui “nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese, l'interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza (occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale)” e stante che “l'interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale”.
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3.1. Esaminate in questa prospettiva, le doglianze mosse dalla parte ricorrente sono fondate nei limiti di quanto segue.
Come già ricordato nell’esposizione in fatto, la legge di gara ha posto, per la valutazione dell’offerta tecnica, una serie di sub-parametri, prevedendo la possibilità per la Commissione di graduare il proprio giudizio tra un minimo e un massimo (compreso tra insufficiente e ottimo) in virtù del grado di soddisfazione rispetto al criterio delle caratteristiche tecniche della soluzione proposta. Fermo restando quanto ricordato al punto precedente circa il perimetro del sindacato giurisdizionale, la formulazione di taluni dei citati parametri è tale da non consentirne l’applicazione effettuata dalla Commissione.
Costituisce ius receptum giurisprudenziale quello per cui “nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese, l'interpretazione letterale del testo della lex specialis, dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una sua obiettiva incertezza (occorre infatti evitare che il procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle regole di gara palesando significati del bando non chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale)” (ex multis C.d.S., sez. V, 07.01.2013, n. 7) e stante che “l'interpretazione della lex specialis soggiace, come per tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali assume carattere preminente quella collegata all'interpretazione letterale” (C.d.S., sez. V, 09.10.2015, n. 4684; C.d.S., sez. III, 18.06.2018, n. 3715) (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n. 6639)
(TAR Umbria, sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE: In merito al principio di equivalenza, che trova prioritaria applicazione in sede di ammissione e/o esclusione delle offerte, se da un lato appare condivisibile l’affermazione per cui “il principio di equivalenza permea l'intera disciplina dell'evidenza pubblica (e, specificatamente, la norma di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006) e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis e costituisce altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell'Amministrazione”, occorre, d’altro canto, ricordare che la giurisprudenza ha anche affermato che tale criterio opera solo laddove vi sia un espresso richiamo nella legge di gara (carente nel caso in esame) oppure laddove l’azienda partecipante alla gara abbia espressamente evidenziato nella propria offerta tale equivalenza (il che non emerge dagli atti e non è affermato nelle difese).
Si è, infatti, osservato che laddove l’Amministrazione abbia ritenuto di non inserire nella lex specialis la clausola di equivalenza, la sua inserzione automatica con il meccanismo dell’eterointegrazione del bando si risolverebbe nella inammissibile lesione della riserva di amministrazione nella regolamentazione della gara.
Pertanto, a fronte della chiara e stringente formulazione di parametri, la Commissione di gara non può valorizzare soluzioni tecniche che non rispettano i requisiti minimi e i caratteri essenziali richiesti dalla lex specialis.

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Nelle due ipotesi che precedono, a fronte di una chiara ed inequivocabile formulazione del parametro, non è possibile, come invece proposto negli scritti difensivi dell’Amministrazione e della controinteressata, invocare l’equivalenza delle funzionalità del dispositivo della Si. rispetto a quelle indicate nella legge di gara; nel caso in esame, infatti, la lex specialis non richiamava il principio di equivalenza funzionale.
In merito al principio di equivalenza, che trova prioritaria applicazione in sede di ammissione e/o esclusione delle offerte, se da un lato appare condivisibile l’affermazione per cui “il principio di equivalenza permea l'intera disciplina dell'evidenza pubblica (e, specificatamente, la norma di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006) e la possibilità di ammettere a seguito di valutazione della stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche equivalenti a quelle richieste risponde al principio del favor partecipationis e costituisce altresì espressione del legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell'Amministrazione” (cfr. C.d.S., sez. III, 29.03.2018, n. 2013; Id., 02.09.2013, n. 4364; C.d.S., sez. IV, 26.08.2016 n. 2701), occorre, d’altro canto, ricordare che la giurisprudenza ha anche affermato che tale criterio opera solo laddove vi sia un espresso richiamo nella legge di gara (carente nel caso in esame) oppure laddove l’azienda partecipante alla gara abbia espressamente evidenziato nella propria offerta tale equivalenza (il che non emerge dagli atti e non è affermato nelle difese).
Si è, infatti, osservato che laddove l’Amministrazione abbia ritenuto di non inserire nella lex specialis la clausola di equivalenza, la sua inserzione automatica con il meccanismo dell’eterointegrazione del bando si risolverebbe nella inammissibile lesione della riserva di amministrazione nella regolamentazione della gara (cfr. C.d.S., sez. III, 02.09.2013, n. 4364; Id., 2015, n. 5631).
Pertanto, a fronte della chiara e stringente formulazione dei parametri 1c e 1e, la Commissione di gara non poteva valorizzare soluzioni tecniche che non rispettano i requisiti minimi e i caratteri essenziali richiesti dalla lex specialis (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n. 6639)
(TAR Umbria, sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi.
Le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende  pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento.
Va peraltro osservato che,
in tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi.

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In materia di normativa antisismica, la fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001.
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2. Quanto al primo motivo, deve innanzitutto osservarsi che la sentenza impugnata -facendo corretta applicazione degli insegnamenti di questa Corte, debitamente richiamati- ha logicamente ritenuto che l'opera oggetto di contestazione era assoggettata alla disciplina in materia di costruzioni sismiche delineata negli artt. 83 ss. d.P.R. 380 del 2001.
Secondo il non contestato accertamento compiuto dal giudice di merito, si è trattato della sopraelevazione di un preesistente fabbricato, insistente in zona dichiarata sismica, mediante realizzazione sul terrazzo di copertura di una tettoia con struttura in legno di circa 17 mq., costituita da montanti e traversi e soprastante tavolato in legno.
Ricorreva, dunque, l'obbligo di dare preavviso scritto al competente ufficio tecnico della regione, previsto, nelle zone sismiche di cui all'art. 83 d.P.R. 380 del 2001, per «chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni» (art. 93, comma 1, d.P.R. 380 del 2001, la cui violazione integra gli estremi del reato previsto dal successivo art. 95).
Secondo il consolidato orientamento, di fatti, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende  pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti, Rv. 269303; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio, Rv. 252441).
2.1. Va peraltro osservato che, in tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376).
Contrariamente a quanto si allega nella stringata impugnazione -che, sul punto, è pertanto generica e manifestamente infondata- l'art. 20 della l.reg. Sicilia 16.04.2003, n. 4 (rubricata Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2003) contiene una disciplina dei manufatti precari a chiusura di terrazze, verande e balconi limitata all'aspetto urbanistico-edilizio che ricade nella competenza esclusiva della regione a norma dell'art. 14, primo comma, lett. t), dello Statuto (l.c. 26.02.1948, n. 2 e succ. modiff.).
Essa non riguarda, invece, la disciplina antisismica, che, anche nel territorio della regione Sicilia, appartiene alla competenza esclusiva statale, come questa Corte ha già ripetutamente avuto modo di chiarire: la deroga della legislazione  regionale siciliana alla disciplina nazionale in materia urbanistica non può essere estesa alla diversa disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni in conglomerato cementizio armato, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, Cost. (Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli e a., Rv. 255254).
In particolare -si è osservato- le disposizioni delle leggi della regione Sicilia secondo cui, in deroga alla legislazione nazionale, la chiusura di terrazze e la copertura di spazi interni con strutture precarie non sono soggette a concessione o autorizzazione, si applicano limitatamente alla materia dell'urbanistica e non possono quindi essere estese alla diversa disciplina edilizia antisismica e a quella per le costruzioni in conglomerato cementizio armato, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva  dello Stato ex art. 117, comma secondo, Cost.; ne consegue che tali opere continuano ad essere soggette ai controlli preventivi previsti dalla legislazione nazionale (Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e a., Rv. 241287).
3. Il secondo motivo di ricorso è parimenti inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
E' ben vero che in materia di normativa antisismica, la fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano, Rv. 273225; trattasi, peraltro, di orientamento risalente affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione: v. Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola e aa., Rv. 213933), sicché il termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica, e di esecuzione dei medesimi in assenza di autorizzazione, decorre dalla data di inizio dei lavori (Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori, Rv. 250487).
Non è in alcun modo provato, tuttavia, che nel caso di specie i lavori siano iniziati decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della d.i.a., trattandosi, com'è noto, di termine iniziale rispetto ad un titolo edilizio che ha efficacia triennale (cfr. art. 23, comma 2, d.P.R. 380/2001).
L'autosufficienza del ricorso per cassazione avrebbe dunque imposto al ricorrente di allegare gli atti processuali da cui poteva ricavarsi l'effettiva data di inizio dei lavori, nulla essendo al proposito indicato in sentenza, la quale, semmai, contiene un indizio di segno contrario nella parte in cui attesta che i lavori erano ancora in corso di esecuzione alla data dell'accertamento (02.08.2013), posto che, tenendo conto della modestia delle opere, la circostanza non depone certo nel senso che i lavori fossero iniziati, come allega il ricorrente, nel novembre 2012.
Poiché la sentenza impugnata è stata pronunciata in data 04.12.2017, non è dunque  provato che l'omissione penalmente sanzionata si fosse perfezionata oltre cinque anni prima ed il reato non poteva dirsi prescritto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58316).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atto confermativo.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco, e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo quando la Pubblica Amministrazione si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.12.2018 n. 2874 - commento tratto da
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MASSIMA
Come chiarito da granitica giurisprudenza, allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi; in particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l’atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché l’esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco, e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può condurre a un atto propriamente confermativo in grado, come tale, di dare vita ad un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione; ricorre invece l’atto meramente confermativo quando la Pubblica Amministrazione si limita a dichiarare l’esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (ex multis, C.d.S., Sez. V, n. 2172/2018).

APPALTI: Avvalimento che ha per oggetto requisiti immateriali.
Nei casi in cui l’avvalimento ha per oggetto requisiti immateriali –quali l’iscrizione in un determinato registro o albo, il fatturato globale o specifico– la prestazione oggetto specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire (con le proprie complessive risorse economiche e di esperienza professionale) l'impresa ausiliata munendola così di quei requisiti che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando.
Ciò che l'impresa ausiliaria mette a disposizione è il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato e i servizi svolti costituiscono indici significativi; ne consegue che non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti a esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere e individuare con precisione, essendo sufficiente che da essa dichiarazione emerga l'impegno contrattuale della società ausiliaria a “prestare” alla società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.12.2018 n. 1251 - commento tratto da
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MASSIMA
L’articolata censura è priva di fondamento.
1.3
L’istituto dell’avvalimento, di derivazione comunitaria, è finalizzato a conseguire l’apertura degli appalti pubblici alla concorrenza nella misura più ampia possibile, e consente che un’impresa possa comprovare alla stazione appaltante il possesso dei requisiti economici, finanziari, tecnici e organizzativi per la partecipazione a una gara, facendo riferimento alla capacità di altro soggetto, che assume contrattualmente con la stessa una responsabilità solidale, impegnandosi nei confronti della stazione appaltante.
1.4 Come ha statuito il Consiglio di Stato, sez. V – 26/11/2018 n. 6690, <<
ai fini della determinazione del contenuto necessario per il contratto di avvalimento nelle gare di appalto, si è stabilita una distinzione tra requisiti generali (requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico-organizzativo, ad es. il fatturato globale o la certificazione di qualità) e risorse: solamente per queste ultime è giustificata l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico, in quanto solo le risorse possono rientrare nella nozione di beni in senso tecnico-giuridico, cioè di "cose che possono formare oggetto di diritti" ex art. 821 c.c., con il corollario che soltanto in questa ipotesi l'oggetto del contratto di avvalimento deve essere determinato, in tutti gli altri casi essendo sufficiente la sua semplice determinabilità. Proprio ad evitare il rischio, particolarmente rilevante in tale sottogenere di avvalimento, che il prestito dei requisiti rimanga soltanto su un piano astratto e cartolare e l'impresa ausiliaria si trasformi in una semplice cartiera produttiva di schemi contrattuali privi di sostanza, occorre che dalla dichiarazione dell'ausiliaria emerga con certezza ed in modo circostanziato l'impegno contrattuale a prestare e mettere a disposizione dell'ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio di esperienza della prima, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità (Consiglio di Stato, Sez. V, 22.12.2016, n. 5423). L'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di avvalimento di garanzia, dovrà diventare di fatto, un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario, mentre nel caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo … sussisterà l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di determinate risorse che l’art. 88 del d.P.R. n. 207 predetto stabilisce che debbano essere riportate in modo determinato e specifico” (si veda in senso analogo Consiglio di Stato, sez. V – 16/07/2018 n. 4329)>>.
Ha puntualizzato nello stesso senso il Consiglio di Stato, sez. V – 02/08/2018 n. 4775, che “
l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità a fare fronte agli impegni economici conseguenti al contratto di appalto, anche in caso di inadempimento. Concernendo l’avvalimento di garanzia il fatturato, enuclea una situazione del tutto diversa dall’avvalimento operativo, che, come noto, ricorre allorché l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico-organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto. Ai fini dell’accertamento della validità del contratto di avvalimento occorre dunque necessariamente distinguere tra avvalimento di garanzia ed avvalimento operativo, in quanto nel primo caso trova deroga anche la regola della puntuale indicazione nel contratto delle risorse in concreto prestate, essendo sufficiente che l’ausiliaria si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio di esperienza (Cons. Stato, V, 14.02.2018, n. 953)”.
La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V – 16/07/2018 n. 4329, di conferma della pronuncia del TAR Lombardia Milano n. 157/2018, ha esaminato un contratto di avvalimento operativo, “dato che esso non è finalizzato alla prestazione, ad esempio, di requisiti finanziari ma, come assunto nell’istanza di partecipazione del r.t.i. Al., del requisito tecnico-operativo di aver prestato nei tre anni solari antecedenti il bando almeno un servizio di cremazione salme per dodici mesi continuativi presso un impianto della portata annuale di 2000 cremazioni”.
Il Consiglio di Stato, sez. VI – 03/08/2018 n. 4798 ha quindi ritenuto configurabile un avvalimento di garanzia quando l’istituto investe la capacità economica e finanziaria, e serve a rassicurare la stazione appaltante sulla capacità della parte di far fronte alle obbligazioni derivanti dal contratto, e non richiede come tale di essere riferito a beni capitali descritti con precisione. L’individuazione specifica è invece necessaria per l’avvalimento tecnico ovvero operativo, che riguarda le risorse materiali in concreto necessarie per eseguire il contratto, ad esempio dotazioni di personale ovvero di macchinari.
L’avvalimento di garanzia è in definitiva “caratterizzato dal fatto che non implica necessariamente il coinvolgimento di assetti specifici dell’organizzazione dell’impresa, assolvendo alla funzione di ampliare lo spettro della responsabilità per la corretta esecuzione dell’appalto, con le risorse economiche dell’ausiliaria (volume di affari e fatturato), e quindi con i soli requisiti di carattere finanziario, costituenti valori immateriali (Consiglio di Stato, sez. V – 08/05/2018 n. 2753; si veda anche Consiglio di Stato, sez. V – 14/02/2018 n. 953).
1.5 In buona sostanza,
nei casi in cui l’avvalimento ha per oggetto requisiti immateriali –quali l’iscrizione in un determinato registro o albo, il fatturato globale o specifico– la prestazione oggetto specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire (con le proprie complessive risorse economiche e di esperienza professionale) l'impresa ausiliata munendola, così, di quei requisiti che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando; ciò che l'impresa ausiliaria mette a disposizione è il suo valore aggiunto in termini di solidità finanziaria e di acclarata esperienza di settore, dei quali il fatturato e i servizi svolti costituiscono indici significativi (Consiglio di Stato, sez. V – 06/04/2017 n. 1608); ne consegue che non occorre che la dichiarazione negoziale costitutiva dell'impegno contrattuale si riferisca a specifici beni patrimoniali o ad indici materiali atti ad esprimere una determinata consistenza patrimoniale e, dunque, alla messa a disposizione di beni da descrivere ed individuare con precisione, essendo sufficiente che da essa dichiarazione emerga l'impegno contrattuale della società ausiliaria a “prestare” alla società ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria ed il suo patrimonio esperienziale, garantendo con essi una determinata affidabilità ed un concreto supplemento di responsabilità (TAR Sicilia Palermo, sez. I – 03/07/2018 n. 1534, che ha richiamato il Consiglio di Stato, sez. V – 14/05/2018 n. 2855).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Natura degli accordi ex art. 11 della legge n. 241 del 1990.
Gli accordi conclusi ai sensi dell'art. 11 della legge n. 241/1990 sono atti che l’amministrazione pone in essere con il consenso del privato, ma comunque soggetti al vincolo di perseguimento dell’interesse pubblico; infatti, gli accordi in discorso, essendo un’alternativa al provvedimento, non possono non partecipare della sua stessa natura.
A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due parti, il soggetto pubblico, assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello del privato: l’accordo deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico”.
In altri termini, la validità dell’accordo e la sua vincolatività sono subordinate alla compatibilità con l’interesse pubblico, il quale ne diviene così elemento definitorio
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 24.12.2018 n. 7212 - commento tratto da
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6 – Tanto precisato, con il primo motivo di appello si censura la mancata acquisizione durante il giudizio di primo grado dell’accordo concluso ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990 presso la Presidenza del Consiglio in data 19.07.2007.
6.1 - La censura è infondata. Va infatti osservato che il principio dispositivo con metodo acquisitivo, che opera nel processo amministrativo al fine di neutralizzare la disuguaglianza di posizione fra Amministrazione pubblica e privato, non consente al giudice di sostituirsi alla parte onerata, disponendo d’ufficio le acquisizioni istruttorie a cui era tenuta quest’ultima.
La ricorrente, che è subentrata alla società che originariamente ha stipulato l’accordo, doveva ragionevolmente ritenersi nella disponibilità dell’accordo, in quanto parte dello stesso, sicché rientrava nella sua autonoma valutazione la scelta di produrlo o meno in giudizio.
7 – Prima di esaminare le doglianze che coinvolgono sotto diverse prospettive il detto accordo, censurando le modalità con le quali il Comune se ne sarebbe sottratto, giova ricordare che gli accordi conclusi ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990 sono atti che l’amministrazione pone in essere con il consenso del privato, ma comunque soggetti al vincolo di perseguimento dell’interesse pubblico.
Infatti, gli accordi in discorso, essendo un’alternativa al provvedimento, non possono non partecipare della sua stessa natura. A differenza di quanto accade nelle fattispecie contrattuali, l’interesse affidato alla cura di una delle due parti, il soggetto pubblico, assume all’interno dell’accordo un ruolo del tutto differente rispetto a quello del privato: l’accordo deve essere stipulato “in ogni caso nel perseguimento dell’interesse pubblico”.
In altri termini, la validità dell’accordo e la sua vincolatività sono subordinate alla compatibilità con l’interesse pubblico, il quale ne diviene così elemento definitorio (cfr. Cons. St. n. 2258 del 2017; Cort. Cost. n. 179 del 2016).
La giurisprudenza in più occasioni ne ha ribadito il collegamento con l’esercizio del potere, avendo chiarito che gli accordi costituiscono una modalità di esercizio del potere amministrativo attuata attraverso un modulo bilaterale e consensuale, pur rimanendo “pubblica” la potestà esercitata e, quindi, istituzionalmente funzionalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico di cui è titolare l’amministrazione e soggetta alle regole generali dell’attività amministrativa, in parte diverse da quelle che disciplinano l’attività contrattuale privatistica (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013).
Ciò si spiega in quanto anche con il ricorso a moduli consensuali, lo svolgimento dell’azione amministrativa resta in ogni caso ancorato ai canoni tipici dell’agire dell’amministrazione e, in particolare, al vincolo teleologico posto a fondamento della preesistente tensione al perseguimento dell’interesse pubblico (cd. vincolo di scopo), informato, altresì, ai principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.
7.1 - In ossequio alla funzionalizzazione pubblicistica dell’accordo, deve ritenersi che, anche dopo la stipula, l’amministrazione rimanga titolare di un potere pubblicistico, indipendentemente dai poteri e dalle facoltà riconosciuti nell’accordo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31.01.2001, n. 354: “l’impegno assunto dall’amministrazione attraverso l’accordo non può risultare vincolante in termini assoluti, in quanto esso riguarda pur sempre l’esercizio di pubbliche potestà”).
In altre parole, deve ritenersi ammissibile l’esercizio di un potere pubblicistico di autotutela che, per la imprescindibile funzionalizzazione degli accordi in discorso, non può ritenersi paralizzato dall’assimilazione dell’accordo al contratto. Al riguardo, la stessa norma, art. 11 comma 2, richiama (solo) i “principi” in materia di obbligazioni e contratti” ritenendoli, oltretutto, applicabili solo “in quanto compatibili”.
7.2 - In definitiva, alla luce del condivisibile orientamento che configura in chiave pubblicistica degli accordi ex art. 11, deve convenirsi che l’esercizio del potere di recesso di cui al comma 4 del medesimo articolo non esaurisce il novero di possibili modalità di esercizio del ius poenitendi rispetto alla fattispecie caratterizzata dalla conclusione dell’accordo.
Invero, al riguardo, deve rilevarsi che in tali ipotesi –e a prescindere dal mancato espresso richiamo da parte del legislatore– non può dubitarsi della possibilità per l’amministrazione di adottare altresì provvedimenti di annullamento d’ufficio al ricorrere dei presupposti di cui all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990 (cfr. Cons. St., Sezione V, 12.05.2017, n. 2231).

APPALTI: Indicazione nell’offerta dei costi della manodopera.
Il TAR Milano, pur consapevole dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione nell’offerta dei costi della manodopera, così come prevede il comma 10 dell’articolo 95 del D.Lgs. n. 50/2016, nondimeno ritiene allo stato di confermare l’orientamento già assunto dalla Sezione nelle sentenze n. 1855/2018 e n. 1870/2018, e pertanto riafferma che la mancata indicazione in offerta dei costi della manodopera per l’esecuzione del contratto ha effetti inevitabilmente escludenti, senza possibilità di ricorrere al rimedio del soccorso istruttorio non trattandosi della carenza di meri elementi formali della domanda di partecipazione, bensì di un elemento essenziale dell’offerta stessa (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.12.2018 n. 2854 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Come già osservato in sede cautelare, sia pure all’esito di una valutazione necessariamente sommaria quale è quella che viene assunta in detta fase del giudizio, fondato e assorbente è il secondo motivo di ricorso.
Invero, risulta per tabulas che il disciplinare di gara (articolo 12, lettera C) stabiliva che all’offerta economica dovesse essere allegata una tabella che evidenziasse “in modo analitico il costo del lavoro sostenuto per il personale”. Risulta, altresì, che la società Fa. S.r.l.s. non ha allegato alla propria offerta economica la suvvista tabella, ma l’ha inviata in fase di verifica della congruità dell’offerta, perché a tanto sollecitata dalla stazione appaltante.
Ora, il Collegio è consapevole dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione nell’offerta dei costi della manodopera, così come prevede del resto il comma 10 dell’articolo 95 del D.Lgs. n. 50/2016, contrasto sfociato nella ordinanza del TAR del Lazio–Roma di remissione del quesito interpretativo alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (ordinanza n. 4562/2018) e nella ordinanza del C.G.A. Sicilia di remissione della questione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (ordinanza n. 772/2018).
Nondimeno allo stato si ritiene di riconfermare l’orientamento già assunto dalla Sezione nelle sentenze n. 1855/2018 e n. 1870/2018, e alle cui motivazioni si rinvia.
Pertanto, va riaffermato che la mancata indicazione in offerta dei costi della manodopera per l’esecuzione del contratto ha effetti inevitabilmente escludenti, senza possibilità di ricorrere al rimedio del soccorso istruttorio non trattandosi della carenza di meri elementi formali della domanda di partecipazione, bensì di un elemento essenziale dell’offerta stessa.
In conclusione, il ricorso è fondato e per questo viene accolto.

APPALTI: Esclusione delle offerte tecniche che non rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara.
Ad onta delle dichiarazioni rese dalle imprese partecipanti, la stazione appaltante conserva in ogni modo il potere di disporre l’esclusione delle offerte tecniche che di fatto non rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara, in quanto tali offerte configurano la presentazione di un prodotto che, ponendosi al di sotto degli “standard” minimi chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio “aliud pro alio”.
La radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta tecnica non permette la valutazione della stessa e impone l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità dello stesso nei termini richiesti dalla stazione appaltante; non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia espressamente prevista dalla legge di gara giacché, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale.
Le caratteristiche minime essenziali devono, poi essere possedute al momento di presentazione dell’offerta, non essendo ammissibile che possa trovare accettazione da parte dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche, seppure con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima dell’esecuzione del contratto d’appalto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 24.12.2018 n. 2844 - commento tratto da
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Orbene, il Collegio deve evidenziare che,
ad onta delle dichiarazioni rese dalle imprese partecipanti, la stazione appaltante conserva in ogni modo il potere di disporre l’esclusione delle offerte tecniche che di fatto non rispettano i requisiti minimi previsti dalla legge di gara, in quanto tali offerte configurano la presentazione di un prodotto che, ponendosi al di sotto degli “standard” minimi chiesti dall’amministrazione, realizza un vero e proprio “aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde nel ritenere che
la radicale mancanza di livelli essenziali dell’offerta tecnica non permette la valutazione della stessa ed impone l’esclusione del concorrente per la sostanziale inidoneità dello stesso nei termini richiesti dalla stazione appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano Consiglio di Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4809, per cui: «
…le caratteristiche tecniche previste nel capitolato di appalto valgono a qualificare i beni oggetto di fornitura e concorrono, dunque, a definire il contenuto della prestazione sulla quale deve perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talchè eventuali, apprezzabile difformità registrate nell’offerta concretano una forma di 'aliud pro alio', comportante, di per sé, l'esclusione dalla gara, anche in mancanza di apposita comminatoria, e, nel contempo, non rimediabile tramite regolarizzazione postuma, consentita soltanto quando i vizi rilevati nell'offerta siano puramente formali o chiaramente imputabili a errore materiale…»; oltre a TAR Lazio, Roma. Sez. II, 21.02.2018, n. 2016; senza contare che “le difformità dell’offerta tecnica che rivelano l’inadeguatezza del progetto proposto dall’impresa offerente rispetto ai requisiti minimi previsti dalla stazione appaltante per il contratto da affidare legittimano l’esclusione dalla gara e non già la mera penalizzazione dell’offerta nell’attribuzione del punteggio, perché determinano la mancanza di un elemento essenziale per la formazione dell'accordo necessario per la stipula del contratto” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1809, oltre a Sez. III, 21.10.2015, n. 4804; 01.072015, n. 3275; Sez. V, 17.02.2016, n. 633 e 23.09.2015, n. 4460).
Le difformità dell’offerta tecnica, anche parziali, si risolvono quindi in un aliud pro alio, che giustifica l’esclusione dalla selezione (cfr. ancora Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e Sez. V, 05.05.2016, n. 1818).
Non è necessario neppure che la sanzione espulsiva sia espressamente prevista dalla legge di gara giacché, “ai fini dell’esclusione, non è necessaria un’espressa previsione in tal senso, essendo sufficiente il riscontro della difformità dell’offerta rispetto alle specifiche tecniche richieste dalla lex specialis, che abbiano per l’Amministrazione un valore essenziale (così ancora Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e TAR Umbria, 01.09.2017, n. 563).
L’esclusione del concorrente risponde ai principi fondamentali sulla scelta del contraente e trova altresì un fondamento nell’art. 94, comma 1, lett. a), del codice dei contratti pubblici, articolo riguardante appunto i principi generali in materia di selezione dei contraenti (sul punto si veda TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 02.02.2017, n. 145).
Le caratteristiche minime essenziali devono essere possedute al momento di presentazione dell’offerta, non essendo ammissibile che possa trovare accettazione da parte dell’amministrazione un bene privo di tali caratteristiche, seppure con l’impegno dell’offerente ad apportare gli adeguamenti necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o prima dell’esecuzione del contratto d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente contrasto con la regola del rispetto della par condicio fra i partecipanti, oltre a determinare anche un inevitabile stravolgimento dell’offerta economica, posto che l’offerta di un bene privo dei requisiti minimi potrebbe consentire un prezzo apparentemente più vantaggioso per l’amministrazione, salvi i costi successivi per l’adeguamento del bene agli standard minimi.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli strumenti urbanistici.
In caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli strumenti urbanistici sono le seconde a prevalere, in quanto in sede d'interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo.
Ne consegue che, di fronte al chiaro contenuto della parte normativa del piano, derivante dall’accoglimento di una osservazione, è la parte grafica del piano che dev’essere modificata e non il contrario
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.12.2018 n. 2814 - commento tratto da
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B. Anche il ricorso per motivi aggiunti è fondato.
Secondo la relazione, poi approvata dal Consiglio comunale, “non si ritiene percorribile il percorso metodologico suggerito da Findivo, relativo all'attivazione di procedura per errore materiale ex art. 13 —comma 14-bis della LR 12/2005 e ss.mm.ii., con conseguente rettifica della perimetrazione in funzione delle reali confinanze catastali; ciò in considerazione del fatto che appare esplicita, come riportato nella relazione di Piano, la volontà dell'Amministrazione Comunale di mantenere la perimetrazione IC in località "Cava Altea" lungo il confine della galleria, in quanto non ampliabile perché costretta dalla SP 52 e dal sedime della strada statale 336-bis, sia galleria e sia trincea, e dal confine comunale. Inoltre il completamento delle attività di recupero della ex Cava consentirà il ripristino delle condizioni di naturalità e la cessazione delle attività in essere interferente con i siti Natura 2000".
La motivazione dell’atto è irragionevole in quanto si pone in contrasto con quanto approvato in sede di accoglimento delle osservazioni al PGT.
Infatti
è noto che in caso di contrasto tra le indicazioni grafiche e prescrizioni normative degli strumenti urbanistici, sono le seconde a prevalere, in quanto in sede d'interpretazione degli strumenti urbanistici le risultanze grafiche possono chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non sovrapporsi o negare quanto risulta da questo (per tutte, da ultimo cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2015, n. 2998; TAR Toscana, Sez. I, sentenza 21.07.2017 n. 946).
Ne consegue che, di fronte al chiaro contenuto della parte normativa del piano, derivante dall’accoglimento dell’osservazione, è la parte grafica del piano che dev’essere modificata e non il contrario.
A ciò si aggiunge che l’asserita impossibilità di ampliare l’area IC per la presenza della SP. 52 e del sedime della strada statale 336-bis, sia galleria e sia trincea, è contraddittoria. Infatti non è data prova che l’area di proprietà della ricorrente sia, per esproprio o vincolo particolare o per altre ragioni, inidonea a costituire area di Interesse Comunale (IC).
In definitiva quindi la deliberazione del consiglio comunale n. 2 del 31.01.2015 va annullata con conseguente obbligo del Comune di adeguare la planimetria agli atti di approvazione del PGT.

INCARICHI PROFESSIONALI: Il giudice è tenuto a effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55/2014.
La Corte di Cassazione chiarisce che il D.M. n. 140 emanato il 20.07.2012 -il quale, stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che "In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa"- risulta essere stato emanato (D.L. n. 1 del 2012, conv. nella L. n. 27 del 2012) allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l'avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l'incarico professionale.
Per contro, il giudice resta tenuto a effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55/2014, il quale non prevale sul D.M. n. 140/2012, per ragioni non di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, poiché non è il D.M. n. 140/2012 -evidentemente generalista e rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente (ed infatti, l'intervento del giudice ivi preso in considerazione riguarda il caso in cui fra le parti non fosse stato preventivamente stabilito il compenso o fosse successivamente insorto conflitto)- a prevalere, ma il D.M. n. 55/2014, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 17.12.2018 n. 32576 - commento tratto da
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MASSIMA
Considerato che:
   - con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., dell'art. 2233 c.c. in relazione al D.M 55/2014 per avere la corte territoriale liquidato un importo, pari ad € 405,00 inferiore ai minimi tariffari di cui al D.M. 55/2014, ratione temporis applicabile trattandosi di liquidazione successiva al 03.04.2014; inoltre la corte territoriale, liquidando un compenso così modesto, avrebbe leso il decoro professionale dell'avvocato;
   - considerato che l'opinione secondo la quale il decreto del Ministero della Giustizia n. 55 del 10/03/2014, nella parte in cui stabilisce un limite minimo ai compensi tabellarmente previsti (art. 4) non può considerarsi derogativo del Decreto n. 140, emesso dallo stesso Ministero il 20/07/2012, il quale, stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che "In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa", non è condivisa dalla Corte, in quanto: come ricorda lo stesso controricorrente, il D.M. n. 140, risulta essere stato emanato (D.L. n. 1 del 2012, conv. nella L. n. 27 del 2012) allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l'avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l'incarico professionale;
   - per contro, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55, il quale non prevale sul D.M. n. 140, per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, poiché, non è il D.M. n. 140 -evidentemente generalista e rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente (ed infatti, l'intervento del giudice ivi preso in considerazione riguarda il caso in cui fra le parti non fosse stato preventivamente stabilito il compenso o fosse successivamente insorto conflitto)- a prevalere, ma il D.M. n. 55, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa;
   - considerato che la liquidazione effettuata dalla Corte locale in complessivi Euro 405,00 si pone al di sotto dei limiti imposti dal D.M. n. 55, tenuto conto del valore della causa (da Euro 1.100,01 a Euro 5.200,00) e pur applicata la riduzione massima, in ragione della speciale semplicità dell'affare (art. 4, cit.);
   - considerato che a motivo dell'esposto il provvedimento gravato deve essere cassato e, sussistendone le condizioni, decisa la causa nel merito, il complessivo compenso può essere liquidato in Euro 1198,50, (Euro 255,00 per la fase di studio, Euro 255,00 per la fase introduttiva, Euro 283,50 per la fase istruttoria, Euro 405,00 per la fase decisionale), oltre IVA e contributo L. n. 576 del 1980, ex art. 11, con distrazione in favore dagli avv.ti Gi.Fe. e Fe.Em.Ab., che ne hanno fatto richiesta, dichiarandosi antistatari;

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ricognizione del patrimonio edilizio esistente in fase di redazione del PGT e rilevanza dei ruderi.
La ricognizione dell’esistente è una fase essenziale della pianificazione che consiste in una operazione tecnica, e non giuridica, in quanto è preliminare alla qualificazione dei fabbricati e all’attribuzione dei diritti edificatori; i compilatori dello strumento urbanistico devono quindi segnalare graficamente qualsiasi fabbricato presente sul territorio, anche se privo di titolo o privo di consistenza materiale, in quanto ridotto allo stato di rudere; su questa base viene poi esercitata la discrezionalità dell’amministrazione nell’attribuzione dei diritti edificatori.
Per quanto riguarda i ruderi, i diritti edificatori utilizzati al momento della costruzione originaria rimangono incorporati nel suolo, e fanno parte del patrimonio del proprietario dell’area; la discrezionalità dell’amministrazione è quindi libera quando decide di espandere le facoltà edificatorie, ma incontra degli ostacoli quando si propone di cancellare la rilevanza giuridica dei ruderi, perché in questo secondo caso incide direttamente sulla consistenza del diritto di proprietà.
Affinché si possa conservare rilevanza giuridica ai ruderi è però necessario che sia individuabile in modo sufficientemente preciso l’immagine originaria del fabbricato; questo avviene normalmente quando sia possibile dedurre dalle strutture presenti il disegno complessivo dell’edificio, oppure quando, pur in assenza di strutture ancora integre, siano disponibili le planimetrie o le descrizioni dei luoghi inserite negli atti di accatastamento.
Le due fonti (referto di sopralluogo, scheda di accatastamento) possono anche combinarsi, fornendo ciascuna una parte delle informazioni su quanto edificato; in caso di contrasto, è applicabile per analogia la regola ex art. 950 c.c. sul carattere sussidiario, e dunque recessivo, dei dati catastali
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 14.12.2018 n. 1205 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
11. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni:
   (a) nello stabilire un metodo di esame della controversia, appare utile distinguere la ricognizione degli edifici esistenti da parte dello strumento urbanistico e la disciplina urbanistica associata a tali fabbricati;
   (b)
la ricognizione dell’esistente è una fase essenziale della pianificazione (v. art. 8, comma 1-b, della LR 11.03.2005 n. 12, che attribuisce al Documento di Piano il compito di fornire “il quadro conoscitivo del territorio comunale, come risultante dalle trasformazioni avvenute”).
Si tratta di un’operazione tecnica, e non giuridica, in quanto è preliminare alla qualificazione dei fabbricati e all’attribuzione dei diritti edificatori. I compilatori dello strumento urbanistico devono quindi segnalare graficamente qualsiasi fabbricato presente sul territorio, anche se privo di titolo o privo di consistenza materiale, in quanto ridotto allo stato di rudere. Su questa base viene poi esercitata la discrezionalità dell’amministrazione nell’attribuzione dei diritti edificatori;

   (c)
per quanto riguarda i ruderi, occorre precisare che i diritti edificatori utilizzati al momento della costruzione originaria rimangono incorporati nel suolo, e fanno parte del patrimonio del proprietario dell’area.
La discrezionalità dell’amministrazione è quindi libera quando decide di espandere le facoltà edificatorie, ma incontra degli ostacoli quando si propone di cancellare la rilevanza giuridica dei ruderi, perché in questo secondo caso incide direttamente sulla consistenza del diritto di proprietà;

   (d)
affinché si possa conservare rilevanza giuridica ai ruderi è però necessario che sia individuabile in modo sufficientemente preciso l’immagine originaria del fabbricato.
Questo avviene normalmente quando sia possibile dedurre dalle strutture presenti il disegno complessivo dell’edificio, oppure quando, pur in assenza di strutture ancora integre, siano disponibili le planimetrie o le descrizioni dei luoghi inserite negli atti di accatastamento.
Le due fonti (referto di sopralluogo, scheda di accatastamento) possono anche combinarsi, fornendo ciascuna una parte delle informazioni su quanto edificato. In caso di contrasto, è applicabile per analogia la regola ex art. 950 c.c. sul carattere sussidiario, e dunque recessivo, dei dati catastali;

   (e) prevalgono quindi le misurazioni effettuate sul posto, avendo cura di non includere le superfetazioni estranee alla struttura o alla funzione originaria del fabbricato, conseguenza verosimile di manipolazioni recenti non autorizzate. Una volta stabilito che nei dati catastali vi sono degli errori, è necessario procedere alla regolarizzazione della relativa scheda. Da questo deriva poi l’ulteriore obbligo di ricalcolare le imposte con base catastale, entro i termini della prescrizione dell’obbligo tributario;
   (f)
se un fabbricato può essere considerato esistente in esito al procedimento sopra descritto, si pone il problema delle modalità di ricostruzione e del cambio di destinazione d’uso;
   (g)
su questi aspetti si riespande la discrezionalità dell’amministrazione. Vi è però un limite implicito, che impone di non sacrificare il contenuto del diritto di proprietà senza aver individuato chiaramente un interesse pubblico prevalente.
Per quanto riguarda i fabbricati agricoli ormai inutilizzati che si trovano in ambito extraurbano, il divieto di ricostruzione sarebbe quindi ragionevole solo se fosse necessario ripristinare valori paesistici e ambientali compromessi.
Al di fuori di tale ipotesi, la transizione dei fabbricati agricoli verso la destinazione d’uso residenziale si deve ritenere un risultato naturale, quando sia trascorso un ampio intervallo di tempo dalla cessazione dell’attività agricola;

   (h) in proposito, il Comune ha già individuato dei requisiti minimi, finalizzati evidentemente a rallentare l’antropizzazione delle zone agricole (v. nota del responsabile dell’Area Tecnica del 28.09.2010). Più precisamente,
la riconversione residenziale è ammessa quando sussistano le seguenti condizioni:
   (1)
l’anteriorità del fabbricato rispetto all’entrata in vigore della LR 07.06.1980 n. 93 (Norme in materia di edificazione nelle zone agricole);
   (2)
la cessazione dell’azienda agricola da almeno 10 anni.
Questi requisiti non sono espressamente contestati nel ricorso, e risultano comunque ragionevoli come disciplina residuale, applicabile indipendentemente da una codificazione nel PGT.
Al contrario,
la riconversione residenziale degli edifici agricoli costruiti beneficiando delle disposizioni di favore per gli imprenditori agricoli dovrebbe essere espressamente regolata nello strumento urbanistico, per evitare di incentivare atteggiamenti opportunistici;
   (i)
quando sia possibile riconvertire all’uso residenziale un fabbricato agricolo è normalmente necessario un permesso di costruire convenzionato, in quanto i proprietari devono assumere obblighi particolari sia sulle modalità costruttive sia sulle spese per le urbanizzazioni e i sottoservizi.
In effetti, l’attribuzione di diritti edificatori nelle zone agricole per finalità svincolate dalla coltivazione del fondo si deve ritenere eccezionale. I maggiori costi per la sistemazione residenziale dell’area rimangono quindi a carico dei proprietari;

   (j) tenendo conto di quanto sopra esposto, e degli indizi forniti nel ricorso circa l’esistenza dell’edificio, risulta illegittima l’omessa rappresentazione grafica dello stesso nelle tavole del PGT, quantomeno come rudere. Parimenti risulta illegittimo il diniego di permesso di costruire basato sull’affermazione che si tratterebbe di nuova edificazione. Il calcolo della superficie e della volumetria del rudere e l’accertamento dei requisiti per la ricostruzione con destinazione d’uso residenziale richiedono invece un ulteriore coinvolgimento degli uffici comunali.
12. In conclusione, il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati, per i profili sopra descritti.
13. L’effetto conformativo della pronuncia vincola il Comune a correggere le tavole del PGT, in occasione della prossima variante, e a riprendere l’esame dell’istanza di rilascio del permesso di costruire. Il riesame si articolerà in tre passaggi, ciascuno dei quali è condizione per procedere al successivo:
   (a) accertamento della reale consistenza del rudere, mediante rilievi e misurazioni sul posto, alla presenza dei funzionari comunali, integrando i dati mancanti con la scheda catastale, come sopra precisato;
   (b) verifica dei requisiti sopra descritti per la riconversione residenziale;
   (c) elaborazione di un atto unilaterale d’obbligo che renda compatibile l’intervento edilizio con l’attuale zonizzazione dell’area.
14. Per il completamento del riesame con l’adozione di un provvedimento espresso è fissato il termine di sei mesi dal deposito della presente sentenza.

EDILIZIA PRIVATA: Requisito della mera vicinitas in caso di impugnazione di titoli edilizi.
La sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 05.12.2018 n. 2742 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
8.1. Diversamente da quanto mostra di ritenere parte ricorrente,
il solo criterio dello stabile collegamento territoriale con l’area nella quale è destinato ad essere realizzato l’intervento edilizio contestato non può essere considerato, di per sé, dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un concreto pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento del titolo abilitativo; ciò, quanto meno in tutti i casi in cui “la modifica del preesistente assetto edilizio” non si dimostri “ictu oculi, ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui insiste la proprietà della ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale” (così, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081).
Ed infatti,
se tali condizioni non si verificano, spetterà a chi agisce in giudizio fornire la dimostrazione dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura, in quanto, se si volesse aderire a una diversa impostazione e ritenere che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi si giungerebbe ad “elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare (ancora, TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081; ma anche TAR Veneto, Sez. II, 15.02.2018, n. 324; e, più di recente, TAR Veneto, Sez. II, 04.09.2018, n. 873; TAR Campania, Salerno, Sez. I, 18.04.2018, n. 755, per cui: “Il Collegio ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale interesse all'impugnazione, pur senza pervenire alla posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di tutela in materia edilizia. Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice requisito dello stabile collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di puntuali allegazioni”).
Ne consegue che, “
…la sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente” (così, Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908, che poi aggiunge: “…il sistema così disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi: a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di dedurlo e provarlo”).

EDILIZIA PRIVATALa decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli a favore dei quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto: ciò si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica.
Nel caso in questione, in cui la ricorrente lamenta la limitazione dell’accesso al cortile di proprietà comune, tale lesione non può che derivare dall’inizio dei lavori.
A ciò si aggiunge, in ogni caso, che la piena conoscenza del provvedimento impugnato è legata alla cognizione dei suoi elementi essenziali.
Ne discende, quindi, che la piena conoscenza dell'atto censurato si concretizza con la cognizione degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, l'oggetto, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo, essendo tali elementi sufficienti a rendere il legittimato all'impugnativa consapevole dell'incidenza dell'atto nella sua sfera giuridica, avendo egli la concreta possibilità di rendersi conto della lesività del provvedimento, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione e degli atti del procedimento, che può rilevare solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti.
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E' inammissibile l'impugnazione di una SCIA in contrasto con quanto previsto dall’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, secondo il quale la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili.
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1.2 Il ricorso contro i titoli edilizi è invece irricevibile per tardività.
I titoli edilizi impugnati risalgono al 2011 mentre il ricorso è stato depositato nel 2014. La ricorrente ha proposto anche un giudizio possessorio affermando che almeno da giugno 2013 era a conoscenza dell’ostruzione del passaggio derivante dai lavori. La ricorrente e la controinteressata hanno raggiunto un accordo avente ad oggetto la rimozione delle transenne di cantiere ed il transito, anche carraio, sul mappale 490.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che la decorrenza del termine per ricorrere in sede giurisdizionale avverso atti abilitativi dell'edificazione si ha, per i soggetti diversi da quelli a favore dei quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui si renda palese ed oggettivamente apprezzabile la lesione del bene della vita protetto: ciò si verifica quando sia percepibile dal controinteressato la concreta entità del manufatto e la sua incidenza effettiva sulla propria posizione giuridica (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 18/2011; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.09.2011 n. 2149). Nel caso in questione, in cui la ricorrente lamenta la limitazione dell’accesso al cortile di proprietà comune, tale lesione non può che derivare dall’inizio dei lavori.
A ciò si aggiunge, in ogni caso, che la piena conoscenza del provvedimento impugnato è legata alla cognizione dei suoi elementi essenziali. Ne discende, quindi, che la piena conoscenza dell'atto censurato si concretizza con la cognizione degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, l'oggetto, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo, essendo tali elementi sufficienti a rendere il legittimato all'impugnativa consapevole dell'incidenza dell'atto nella sua sfera giuridica, avendo egli la concreta possibilità di rendersi conto della lesività del provvedimento, senza che sia necessaria la compiuta conoscenza della motivazione e degli atti del procedimento, che può rilevare solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.05.2011 n. 845).
Nel caso in questione l’instaurazione di un giudizio possessorio in merito all’accesso al cortile non poteva prescindere dall’accertamento dell’esistenza di un titolo edilizio che solo poteva legittimare l’inizio di lavori edilizi, con conseguente limitazione del possesso altrui. Ne consegue che almeno dal momento in cui la ricorrente ha instaurato tale giudizio deve ritenersi che fosse a conoscenza dell’esistenza di un titolo edilizio che legittimava i controinteressati ad eseguire le opere.
L’impugnazione dei titoli edilizi va dunque dichiarata irricevibile per tardività.
2. Il ricorso per motivi aggiunti è inammissibile.
Infatti con tale atto la ricorrente ha impugnato direttamente una segnalazione certificata di inizio attività in contrasto con quanto previsto dall’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, secondo il quale la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili.
In definitiva quindi il ricorso principale va dichiarato in parte inammissibile ed in parte tardivo. Il ricorso per motivi aggiunti va dichiarato inammissibile (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.12.2018 n. 2738 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Niente reintegra se il mancato superamento del periodo di prova è stato dichiarato dall’organo incompetente.
In mancanza di una definizione di dettaglio nel regolamento degli uffici circa l'organo competente a dichiarare il mancato superamento del periodo di prova del dipendente pubblico, non è ammissibile che sia l'organo esecutivo ad adottare quel provvedimento, in considerazione della distinzione tra attività di indirizzo politico e gestionale. Tuttavia, l'eventuale accertamento giudiziale della dichiarazione di incompetenza, a differenza del licenziamento, non consente al dipendente pubblico estromesso di poter essere reintegrato, in assenza di finalità discriminatorie o illecite.

Questo il preciso indirizzo della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, contenuto nella sentenza 30.11.2018 n. 31091.
La vicenda
Al dipendente di un ente locale veniva comunicato dalla giunta comunale il mancato superamento del periodo di prova con relativa interruzione del rapporto di lavoro. Il Tribunale di primo grado e, successivamente, la Corte d’appello hanno rigettato il ricorso del dipendente teso a evidenziare l’illegittimità del provvedimento espulsivo emesso da organo incompetente, dato il divieto degli organi di indirizzo politico di emettere atti gestionali di esclusiva competenza dirigenziale.
A supporto della loro decisione, i giudici aditi hanno evidenziato come, in assenza di disposizioni regolamentari, o di altra fonte, che individui a priori il dirigente competente a risolvere il rapporto di lavoro del dipendente, il Comune non poteva affidare ad altri dirigenti l'adozione dell'atto risolutivo del rapporto ostando il principio secondo cui l'assenza del soggetto competente all'adozione di un atto non ne legittima l'emanazione da parte di un diverso componente dell'amministrazione (tra le tante Cassazione, sentenze nn. 20981/2009 e 2168/2004).
Nel merito la Corte d’appello ha proceduto, con esito positivo, alla verifica della conformità delle funzioni assegnate e delle motivazioni conseguenti all'esito sfavorevole dell'esperimento lavorativo.
Le precisazioni della Cassazione
A differenza di quanto detto dalla Corte d’appello, il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo -spettanti agli organi di governo- e funzioni di gestione amministrativa -proprie dei dirigenti- trova fondamento nella Costituzione, tanto che è stato precisato, in diverse occasioni, l'illegittimità delle attività di gestione eventualmente intestate agli organi politici.
Vero è che spetta al legislatore l'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, ma è altrettanto vero che il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione (Corte costituzionale n. 81 del 2013).
Nel caso di specie la Corte d’appello ha errato nell'attribuire la competenza alla giunta comunale, pur in assenza di specifiche disposizioni all'interno del regolamento degli uffici e dei servizi, dimenticando come il punto fondamentale di raccordo sia la figura del segretario comunale.
Quest'ultimo, oltre a svolgere compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai regolamenti (articolo 97, comma 2), sovrintende anche allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività.
Il ricorso del dipendente, pertanto, deve essere accolto in quanto l'atto, con il quale la giunta municipale ha inteso risolvere il rapporto di lavoro, è inefficace perché adottato da un organo di governo del Comune privo, in quanto tale, dei poteri di gestione del rapporto stesso. Tuttavia, a differenza del licenziamento, l'inefficacia dell'atto di recesso adottato da organo incompetente non permette la ricostituzione del rapporto, ovvero la sua conversione o trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.12.2018).
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MASSIMA
15. Reputa il Collegio che premessa dell'esame delle censure sia la ricostruzione critica del complesso quadro normativo nel quale si colloca la controversia in esame.
16. Il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo,  e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti, trova fondamento nella Costituzione (artt. 95, c. 2, Cost., art. 97, commi 2 e 3, art. 98, c. 1).
17. Con riguardo alla dirigenza amministrativa, la Corte Costituzionale ha affermato più volte che una "netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e funzioni gestorie (Corte Cost. n. 161 del 2008) costituisce una condizione necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon andamento e di imparzialità dell'azione amministrativa" (Corte Cost. n. 304 del 2010, n. 390 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007, n. 81 del 2013).
18. La Corte Costituzionale ha osservato che al principio di imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale corollario, la separazione tra politica e amministrazione, tra "l'azione del governo -che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza- e l'azione dell' amministrazione - che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento" (Corte Cost. n. 453 del 1990).
19. Essa, inoltre, ha precisato che l'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa spetta al legislatore e che tale "potere incontra un limite nello stesso art. 97 Cost.: nell'identificare gli atti di indirizzo politico amministrativo e quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione" (Corte Cost. n. 81 del 2013).
20. I principi affermati dalla Costituzione sono stati recepiti nel d.lgs. 03.02.1993 n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), come successivamente modificato dal d.lgs. 23.12.1993 n. 546 e dal d.lgs. 31.03.1998 n. 80, e nel D.lgs. 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), a sua volta oggetto di ripetuti interventi riformatori.
21. Entrambi i decreti legislativi hanno delineato gli aspetti caratterizzanti della nuova dirigenza pubblica muovendo proprio dal principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa e affidando ai dirigenti un'autonoma legittimazione e una diretta responsabilità per la gestione.
In particolare, il d.lgs. 30.03.2001 n. 165 (che ha raccolto le disposizioni contenute nel d.lgs. 03.02.1993, n. 29) ha separato le funzioni e le competenze degli organi politici e degli organi amministrativi.
22. Esso, nel testo applicabile "ratione temporis" (il licenziamento dedotto in giudizio è stato adottato il 27.07.2007), dispone (art. 4, c. 1) che "Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo" (definizione degli obiettivi e dei programmi da attuare, adozione di altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, verifica della rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti).
23. I compiti ed i poteri dei dirigenti sono individuati nell'art. 4, c. 2, che attribuisce loro "l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo" e, correlativamente, la responsabilità esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
24. L'art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce, inoltre, che queste attribuzioni possono "essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative" (c. 3).
25. Gli artt. 6 (Organizzazione e disciplina degli uffici e dotazioni organiche), 16 (Funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali) e 17 (Funzioni dei dirigenti) integrano le disposizioni innanzi richiamate e, ad un tempo, rafforzano il collegamento tra organi politici e dirigenti, ferma la garanzia prevista dall'art. 22 (Comitato dei garanti) con riguardo alla responsabilità dirigenziale.
26. Infine, l'art. 27 (Criteri di adeguamento per le pubbliche amministrazioni non statali), completa la regola della applicabilità in via generale dei principi contenuti nello stesso decreto a tutte le pubbliche Amministrazioni (art. 1) stabilendo in modo espresso che "Le regioni a statuto ordinario, nell'esercizio della propria potestà statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche amministrazioni, nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai principi dell'articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità. Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione".
27. Analoghi principi e regole si rinvengono nel d.lgs. 18.08.2000 n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali).
28. Esso, dopo avere individuato nel Consiglio, nella Giunta e nel Sindaco gli "organi di governo del Comune" (art. 36. 1) e stabilito che il Consiglio Comunale è "l'organo dì indirizzo e di controllo politico-amministrativo" (art. 42, c. 1), riconosce nella Giunta Comunale l'organo che "collabora con il sindaco o con il presidente della provincia", nel governo del comune o della provincia (art. 48, c. 1), precisando che essa compie "tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia o degli organi di decentramento; collabora con il sindaco o con il presidente della provincia nell'attuazione degli indirizzi generali del consiglio; riferisce annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività propositive e di impulso nei confronti dello stesso" e adotta i "regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio" (art. 48, c. 3).
29. Il riferimento espresso alle disposizioni contenute nei commi 1 e 2 dell'art. 107, disposizione che attua nell'ambito degli enti locali il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico amministrativo e funzioni di gestione amministrativa e negoziale propria dei dirigenti, consente di individuare agevolmente la linea di riparto delle competenze tra Giunta Comunale e dirigenti, per quanto attiene alle funzioni "latu sensu" esecutive dell'indirizzo politico. Va, infatti, considerato che mentre la Giunta è un organo di governo dell'Ente locale e svolge una funzione di attuazione politica delle scelte fondamentali operate dal Consiglio, ai dirigenti compete l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi o degli atti di diritto privato, necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti  dagli organi di indirizzo (Cons. Stato n. 81 del 2013).
30. Va al riguardo osservato che l'art. 107, dopo avere disposto (c. 1) che "Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti", impone a questi ultimi di conformarsi al "principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo", precisa (c. 2) che ai dirigenti spettano "tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108".
31. Lo stesso art. 107, c. 3, lett. e), ricomprende tra i compiti riservati ai dirigenti quelli relativi agli "atti di amministrazione e di gestione del personale", compiti questi ultimi ai quali fa riferimento anche l'art. 89, c. 6, che prevede, con formula sostanzialmente sovrapponibile a quella contenuta nell'art. 5, c. 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001, che "Nell'ambito delle leggi, nonché dei regolamenti di cui al comma 1, le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dai soggetti preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro".
32. Il quadro normativo di fonte legale innanzi ricostruito attesta in modo inequivoco che gli atti di gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti del Comune sono riservati alla esclusiva competenza del personale che riveste la qualifica dirigenziale, le cui attribuzioni, ai sensi dell'art. 107, c. 4, del D.Lgs. n. 297 del 2000, possono essere derogate soltanto espressamente e "ad opera di specifiche disposizioni legislative". In parte qua la disposizione è sovrapponibile a quella che si legge nell'art. 4, c. 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 (a sua volta riproduttiva della disposizione contenuta nell'art. 3, c. 3, del d.lgs. 03.02.1993 n. 29, come modificato dal d.lgs. 29.10.1998 n. 387).
33. Nell'art. 48, c. 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000 non è rinvenibile alcuna deroga alla sfera di competenza dei dirigenti degli enti locali, diversamente da quanto opina il controricorrente (controricorso pg. 13) in quanto i poteri della Giunta Comunale sono ritagliati dall'art. 107 del D.lgs. n. 267 del 2000 nell'ambito della regola fondamentale della separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti (cfr. punti 28 e 29 di questa sentenza).
34.
E' innegabile che la distinzione fra attività di indirizzo politico e gestione tecnico-amministrativa non implica che esse, seppure distinte, non debbano in nessun caso comunicare fra loro, perché, al contrario, deve sussistere uno stretto coordinamento tra le funzioni di indirizzo e quelle di gestione, giacché quest'ultime vanno svolte conformemente agli obiettivi fissati dagli organi politici (Cass. 22396/2018). E', però, altrettanto certo che il principio inderogabile di separazione tra poteri di indirizzo politico e poteri di gestione tecnico-amministrativa esclude incursioni ed invasioni di campo degli organi di governo degli Enti nell'ambito della competenza che la legge attribuisce ai dirigenti.
35. Va anche osservato che il d.lgs. n. 267 del 2000 contiene numerose disposizioni che garantiscono all'apparato burocratico amministrativo di operare nel rispetto dei principi di imparzialità efficienza e legalità e nell'ambito del principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo rispetto alle funzioni di gestione amministrativa.
36. Se è significativa, al riguardo, l'attribuzione alla Giunta del potere di adottare i regolamenti "sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio" (art. 48, c. 3), non meno importante è la presenza presso i comuni della figura del "segretario titolare" prevista dall'art. 97, c. 1, del D.Lgs. n. 297 del 2000, il quale, oltre a svolgere compiti "di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" (art. 97 c. 2), sovrintende anche allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività, salvo i casi in cui, ai sensi e per gli effetti del comma 1 dell'articolo 108, il sindaco e il presidente della provincia abbiano nominato il direttore generale (art. 97, c. 3).
37. Inoltre, l'art. 108, c. 4, demanda al Segretario comunale, nei casi in cui il direttore generale non sia stato nominato, i compiti che l'art. 108, c. 1, attribuisce al direttore generale (attua gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell'ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della provincia, sovrintende alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza.... A tali fini, al direttore generale rispondono, nell'esercizio delle funzioni loro assegnate, i dirigenti dell'ente, ad eccezione del segretario del comune e della provincia).
38. Nel complesso e articolato sistema delineato dal d.lgs. n. 267 del 2000, nei termini innanzi ricostruiti, l'inerzia degli organi di governo che si compendi nella mancata adozione di norme statutarie e regolamentari (artt. 6, 7, 48 c. 3) e nel mancato esercizio di funzioni di indirizzo politico-amministrativo (artt. 42, c. 1, 48, c. 2, 50, commi 1 e 10) in ordine alle linee fondamentali di organizzazione degli uffici volte ad evitare vuoti di potere gestorio-amministrativo, non vale affatto a giustificare e a legittimare interferenze da parte di organi politici nell'ambito delle competenze proprie della dirigenza amministrativa in aperta violazione del più volte richiamato principio inderogabile di separazione di cui al più volte richiamato art. 107 del d.lgs.n. 267 del 2000.
Sulla scorta delle considerazioni svolte
deve in conclusione ritenersi che:
   39.
il principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti, che trova fondamento nella Costituzione (artt. 95, c. 2, Cost., art. 97, commi 2 e 3, art. 98, c. 1), è stato recepito dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000;
   40.
ai sensi dell'art. 107, c. 1, del d.lgs. n. 267 i regolamenti dei comuni e delle province devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica deve essere attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo;
   41.
ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. n. 267 del 2000, la Giunta Comunale, che è organo di governo del Comune ai sensi dell'art. 36 c. 1 del d.lgs. n. 267 del 2000, compie gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia o degli organi di decentramento e adotta i regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio;
   42.
ai sensi dell'art. 107 commi 1 e 2 ai dirigenti spetta la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti e tutti i compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge o dallo statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del direttore generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108;
   43.
ai sensi dell'art. 107, c. 3, lett. e) e dell'art. 89, c. 6, del d.lgs. n. 267 del 2000 tra i compiti riservati in via esclusiva ai dirigenti sono ricompresi quelli relativi agli "atti di amministrazione e di gestione del personale", questi ultimi adottati con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro;
   44.
nel complesso e articolato sistema delineato dal d.lgs. n. 267 del 2000 l'inerzia della Amministrazione, che si compendi nella mancata adozione delle norme statutarie e regolamentari previste dagli artt. 6, 7, 48, c. 3, e nel mancato esercizio di funzioni di indirizzo politico-amministrativo in ordine alle linee fondamentali di organizzazione degli uffici (artt. 42, c. 1, 48, c. 2, 50, c. 1) volte ad evitare vuoti di potere gestorio-amministrativo, non giustifica e non legittima interferenze da parte di organi politici nell'ambito delle competenze proprie della dirigenza amministrativa in violazione del principio inderogabile affermato nell'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000;
   45.
ai sensi delle disposizioni contenute negli artt. 48, 107 e 89 del d.lgs. n. 267 del 2000 gli atti di gestione dei rapporti di lavoro adottati dalla Giunta Comunale sono inefficaci in quanto adottati da organo estraneo all'apparato burocratico amministrativo del Comune e per questo del tutto privo di poteri di gestione dei rapporti di lavoro che fanno capo al Comune.
46. In conclusione, sulla scorta delle considerazioni svolte vanno accolti il primo, il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso dovendo ritenersi che l'atto con il quale la Giunta Municipale ha inteso risolvere il rapporto di lavoro della Si. è inefficace perché adottato da un organo di governo del Comune privo, in quanto tale, dei poteri di gestione del rapporto stesso.
47. Dall'accoglimento del primo, del secondo, del terzo e del quinto motivo di ricorso consegue l'assorbimento del quarto motivo, con il quale la ricorrente addebita alla sentenza impugnata di non avere tenuto conto dell'esistenza delle specifiche figure professionali da essa indicate che avrebbero potuto adottare gli atti di gestione relativi al suo rapporto di lavoro.
48. La sentenza impugnata va cassata in ordine ai motivi accolti in quanto la Corte territoriale, pur ritenendo correttamente che, ai sensi dell'art. 5, c. 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001 e dell'art. 107, c. 3, del D.Lgs n. 267 del 2000, il potere di risoluzione del rapporto di lavoro è radicato in capo alla figura dirigenziale, in difformità rispetto ai principi di cui ai punti dal n. 39 al n. 45 di questa sentenza, ha attribuito rilevanza alla circostanza che né nel Regolamento né altrove era rinvenibile alcuna disposizione che individuasse il dirigente competente a risolvere il rapporto di lavoro della Si..
49. La Corte territoriale, inoltre, nel richiamare il principio affermato da questa Corte, nelle sentenze n. 20981 del 2009 e n. 2168 del 2004, secondo il quale il procedimento instaurato da soggetto od organo diverso dall'ufficio competente per i procedimenti disciplinari è illegittimo, con conseguente nullità della sanzione irrogata in violazione delle regole inderogabili sulla competenza, non ha tenuto conto del fatto che tale principio non esclude affatto la possibilità che altre figure professionali proprie dell'apparato burocratico amministrativo ed estranee agli organi di governo del Comune possano intervenire nella gestione del rapporto di lavoro instaurato con la Si. e adottare il provvedimento risolutivo.
50. Occorre precisare che l'inefficacia del provvedimento risolutorio adottato dalla Giunta Municipale non comporta la conversione del rapporto dedotto in giudizio da rapporto di lavoro in prova in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
51. Al riguardo va osservato che, non essendo in discussione nella fattispecie in esame la validità della clausola appositiva del patto di prova e non potendo omologarsi la disciplina del recesso per mancato superamento della prova alla giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (Cass. 26679/2018, 23061/2017, 143/2008), deve escludersi che alla inefficacia dell'atto di recesso adottato da organo incompetente consegua la ricostituzione del rapporto, ovvero la sua conversione-trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
52. Va al riguardo richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte secondo cui
l'art. 2096 c.c. ed i principi elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma, non sono, infatti, applicabili allo "speciale" rapporto di pubblico impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, risultando l'istituto della prova regolato da diverse, specifiche norme secondo la salvezza formulata dal d.lgs. n. 165 del 2001, art. 2, rapporto in relazione al quale, per effetto del rinvio contenuto nell'art. 70, comma 13, del d.lgs. n. 165/2001, la disciplina dell'assunzione in prova è dettata dall'art. 28 del d.P.R. n. 487/1994 e dalla contrattazione collettiva (Corte costituzionale sentenze nn. 313/1996, 309/1997, 89/2003, 199/2003; Cass. nn. 26679/2018, 22396/2018, 21376/2018, 9296/2017, 17970/2010, 17970/2010, che nella specie è intervenuta a disciplinare la materia con l'art. 15 del CCNL 10.04.1996 per la dirigenza degli enti locali).
53.
L'obbligo di motivare il recesso, imposto dalle parti collettive alle amministrazioni, non esclude né attenua la discrezionalità dell'ente nella valutazione dell'esperimento, non incide sulla ripartizione degli oneri probatori, né porta ad omologare il recesso per mancato superamento della prova al licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, essendo finalizzato solo a consentire la «verificabilità giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall'altro, all'effettivo andamento della prova stessa», fermo restando che grava sul lavoratore l'onere di dimostrare il perseguimento di finalità discriminatorie o altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione dell'esperimento medesimo (Cass. nn. 26679/2018, 23061/2017, 21586/2008, 19558/2006). Finalità queste escluse dalla sentenza impugnata e non oggetto di censure sul punto.
54. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata in ordine ai motivi accolti e la causa va rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione che dovrà fare applicazione dei principi di diritto richiamati nei punti dal n. 39 al n. 45 e nei punti dal n. 50 al n. 53 di questa sentenza.

EDILIZIA PRIVATA: Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e apprezzare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva.
Si è inoltre specificato che
l'unitarietà dell'intervento edilizio è tale quando riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi diversi, le quali, pur non essendo parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato, costituiscano, di fatto, un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente contribuisce a realizzarne la destinazione.
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2. Alcuni motivi di ricorso riguardano le medesime questioni e potranno, pertanto, essere trattati unitariamente.
Sulla natura dell'intervento e l'esistenza del vincolo paesaggistico (primo motivo di ricorso del RI.) va premesso che, come chiaramente emerge dalla mera lettura dell'imputazione, l'intervento edilizio realizzato deve essere unitariamente considerato.
Giova ricordare, a tale proposito, che, come è stato ripetutamente affermato da questa Corte, il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e apprezzare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo, Rv. 270256; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc. Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 1 5442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv. 247175; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365).
Si è inoltre specificato che l'unitarietà dell'intervento edilizio è tale quando riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi diversi, le quali, pur non essendo parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato, costituiscano, di fatto, un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente contribuisce a realizzarne la destinazione (così Sez. 3, n. 23183 del 29/03/2018, Erbaggio, non ancora massimata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339).

EDILIZIA PRIVATA: L'edificazione in zona agricola si riferisce ad interventi in evidente collegamento funzionale con la destinazione del fondo.
Si osservava, a tale proposito, che, con riferimento ad una ipotesi di lottizzazione,
si era in precedenza rilevato come la realizzazione di un intervento edilizio in zona agricola è finalizzato alla conduzione del fondo in ragione della sua destinazione ed è a tale dato essenziale della oggettiva correlazione tra immobile realizzato e conduzione del fondo che deve farsi riferimento e non anche alle condizioni soggettive di chi richiede il titolo abilitativo.
Si poneva quindi in evidenza che,
pur in presenza di una formale qualifica, ciò che rileva è la effettiva destinazione del manufatto, richiamando tuttavia l'attenzione sul fatto che non si è mai escluso il rilievo assunto, in tali casi, dal requisito soggettivo, tanto da affermare che, in tema di reati edilizi, non è sufficiente il possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi dell'art. 1, comma quinto-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio di tale permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del rilascio del titolo abilitativo, ritenendo, altresì, che il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura.
Si è conseguentemente giunti ad affermare il principio secondo il quale,
per l'edificazione in zona agricola, la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.
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3. Ciò posto, va rilevato che, come accertato nel giudizio di merito, le opere sono state realizzate, in forza di titolo edilizio ormai decaduto, in zona classificata come E2 agricola ed hanno, pacificamente, destinazione residenziale, realizzando, comunque, una cubatura di 380 mc, superiore a quella assentibile, pari a mc 153,09.
Determinante risulta, ai fini della liceità dell'intervento edilizio, la natura e la destinazione dello stesso.
Pare opportuno ricordare, a tale proposito, quanto già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte in una decisione richiamata anche dalla sentenza impugnata (Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Innamorati e altri, Rv. 269159) e nella quale si è esplicitamente affermato che l'edificazione in zona agricola si riferisce ad interventi in evidente collegamento funzionale con la destinazione del fondo.
Si osservava, a tale proposito, che, con riferimento ad una ipotesi di lottizzazione, si era in precedenza rilevato come la realizzazione di un intervento edilizio in zona agricola è finalizzato alla conduzione del fondo in ragione della sua destinazione ed è a tale dato essenziale della oggettiva correlazione tra immobile realizzato e conduzione del fondo che deve farsi riferimento e non anche alle condizioni soggettive di chi richiede il titolo abilitativo (Sez. 3, n. 15605 del 31/03/2011, Manco e altri, Rv. 250151).
Si poneva quindi in evidenza che, pur in presenza di una formale qualifica, ciò che rileva è la effettiva destinazione del manufatto, richiamando tuttavia l'attenzione sul fatto che non si è mai escluso il rilievo assunto, in tali casi, dal requisito soggettivo, tanto da affermare che, in tema di reati edilizi, non è sufficiente il possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi dell'art. 1, comma quinto-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio di tale permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del rilascio del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 46085 del 29/10/2008, Monetti e altro, Rv. 241770), ritenendo, altresì, che il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura (Sez. 3, n. 33381 del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri, Rv. 253659).
Si è conseguentemente giunti ad affermare il principio secondo il quale, per l'edificazione in zona agricola, la destinazione del manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.
Si tratta di un principio che il Collegio condivide e che intende pertanto ribadire.
Nel caso specifico, entrambi i requisiti della destinazione dell'edificio e della qualifica soggettiva del proprietario committente difettavano, avendo i giudici del merito accertato in fatto che le opere consistevano, in realtà, nella realizzazione di una villa con piscina avente inequivoca destinazione residenziale e che la richiesta del titolo abilitativo era stata avanzata da soggetto (il MA.) che aveva fittiziamente assunto la veste di richiedente al solo fine di consentire la realizzazione delle opere di cui avrebbe poi effettivamente beneficiato il RI., il quale non possedeva la qualifica soggettiva necessaria per conseguire il permesso di costruire in zona agricola (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto l'indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la situazione fattuale e normativa è mutata, per tale ragione i lavori devono quindi essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di costruire.
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del permesso di costruire che, come indicato dalla lettera della legge, opera di diritto per il mero decorso del termine, senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono illeciti, perché realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma terzo dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione di inizio attività e che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del contributo di costruzione.
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4. Va altresì rilevato che, alla luce dei principi appena ribaditi, risulta del tutto infondato l'ulteriore assunto, contenuto nel ricorso del RI. (secondo motivo), secondo il quale l'assenza delle condizioni soggettive per l'edificazione in zona agricola avrebbe, quale unica conseguenza, l'impossibilità di ottenere l'esonero dai contributi di costruzione.
Va peraltro ricordato che questa Corte ha anche già stabilito che, essendo stato emanato, con delibera della Giunta regionale della Puglia n. 1748 del 15.12.2000, il Piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P), si è verificata, una volta entrato in vigore quest'ultimo, la clausola risolutiva espressa della efficacia della legge regionale della Puglia 56/1980 (così, Sez. 3, n. 8635 del 18/9/2014 (dep. 2015), Pmt in proc. Manzo e altri, Rv. 262512) che il ricorrente richiama ed i cui contenuti, in ogni caso, non conducevano a conclusioni diverse da quelle richiamate nelle menzionate pronunce.
Inoltre, come si ricava dall'imputazione, il permesso di costruire indebitamente conseguito risultava anche decaduto di validità in conseguenza della mancata comunicazione nei termini dell'inizio dei lavori.
Tale evenienza, che non risulta in alcun modo posta in discussione, assume comunque rilievo.
Come è noto l'indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la situazione fattuale e normativa è mutata, per tale ragione i lavori devono quindi essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di costruire (cfr. Sez. 3, n. 12316 del 21/02/2007, Minciarelli, Rv. 236336).
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del permesso di costruire che, come indicato dalla lettera della legge, opera di diritto per il mero decorso del termine, senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono illeciti, perché realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma terzo dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione di inizio attività e che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del contributo di costruzione (v. Sez. 3, n. 43175 del 04/05/2017, Botti, Rv. 271310)
Si tratta, dunque, di un ulteriore dato inequivocabilmente indicativo del fatto che l'esecuzione delle opere è avvenuta in difetto di valido permesso di costruire.
Quanto evidenziato rende altresì evidente l'infondatezza della tesi, prospettata in ricorso, secondo la quale si tratterebbe di opere in parziale difformità, ma una simile evenienza va comunque esclusa anche in considerazione della eccedenza di cubatura riscontrata ed indicata nell'imputazione (380 metri cubi in luogo dei 153,09 assentibili) che mette chiaramente in luce, pur a voler per assurdo considerare valido il permesso di costruire, la totale difformità delle opere eseguite, dovendosi intendere per tale, come indicato nell'art. 31 del d.P.R. 380/2001, l'esecuzione di interventi che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339).

EDILIZIA PRIVATA: Deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della PA., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale.
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5. Va poi rilevato come la tipologia dell'intervento e l'evidente contrasto con la destinazione di zona non ne avrebbero comunque consentito la sanatoria, la cui validità viene invece affermata nel secondo motivo di ricorso del RI. e nel terzo motivo di ricorso del MA. rilevando, sostanzialmente, l'ammissibilità della sanatoria c.d. condizionata.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria. Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della PA., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale (v. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 - dep. 29/12/2015, Carratu' e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 7405 del 15/1/2015, Bonarota, Rv. 262422; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009, Peoloso, non massimata; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro, Rv. 238020; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv. 226897 ed altre prec. conf.).
Anche tale principio è pienamente condiviso dal Collegio e va qui confermato al fine di assicurarne la continuità.
Le opere abusivamente realizzate, dunque, non sono in ogni caso suscettibili di sanatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339).

EDILIZIA PRIVATA: Il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva.
Si è poi precisato che
la cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Si è inoltre chiarito che
l'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi.
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell'articolo 25 del d.P.R. 380/2001, che fissa "entro quindici giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il termine per la presentazione allo sportello unico della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti.
Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione.
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6. Resta da aggiungere, con riferimento ai motivi di ricorso fin qui esaminati, che tanto il RI., quanto il MA. pongono in dubbio la sussistenza del vincolo paesaggistico, contestando le diverse conclusioni cui sono pervenuti i giudici del gravame sulla base di una consulenza tecnica in atti e la documentazione di riferimento.
Si tratta, tuttavia, di un accertamento in fatto, compiuto dai giudici del merito, che tiene evidentemente conto della ubicazione delle opere sulla base di emergenze processuali che non è consentito sottoporre ad autonoma valutazione nel giudizio di legittimità.
7. Per ciò che concerne, poi, la prescrizione dei reati, di cui trattano il terzo motivo di ricorso del RI., il primo ed il secondo motivo di ricorso del MA., il primo motivo di ricorso del MI., ed il ricorso del TA., rileva il Collegio come, anche sul punto, la sentenza impugnata sia immune da censure, perché giuridicamente corretta e conforme alla giurisprudenza di questa Corte.
Si è detto, a tale proposito, che il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221398).
Si è poi precisato (ex pl. Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351) che la cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v. anche Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498).
Si è inoltre chiarito che l'ultimazione dei lavori coincide con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del 8/7/2005, Amadori, non massimata sul punto ed altre prec. conf. nella stessa richiamate. V. anche Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano, Rv. 261153).
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell'articolo 25 del d.P.R. 380/2001, che fissa "entro quindici giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il termine per la presentazione allo sportello unico della domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti (Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365; Sez. 3 n. 34876 del 23/6/2009, Anselmo, non massimata; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125). Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali, Rv. 246221).
Nel caso di specie la Corte di appello ha correttamente escluso l'ultimazione delle opere sulla base dell'inequivoco dato fattuale dell'assenza, all'atto del sequestro eseguito il 03/03/2014, di "regolare e funzionante impianto elettrico", dando conto dell'assenza "non solo delle mascherine e dei corpi interni ma anche il collegamento tra tutti i cavi" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339).

EDILIZIA PRIVATA: Il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che è inapplicabile alla prima delle indicate categorie di interventi.
In relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.
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L’omesso pagamento dei diritti di segreteria integra un vizio regolarizzabile ex post su invito dell’amministrazione, e, di certo, non infirmante la presentata c.i.l.a., insuscettibile, cioè, di elidere in radice la legittimazione degli interventi eseguiti.
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Premesso che:
   - col ricorso in epigrafe, La Re. di S. Ma. di An. Ro. s.p.a. (in appresso, La Re. di S. Ma.) impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione, le note del Settore Pianificazione e Sviluppo del Territorio del Comune di Scafati prot. n. 20941 del 17.04.2018 e prot. n. 27731 del 22.05.2018, recanti, rispettivamente, l’archiviazione della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647 (avente per oggetto interventi di manutenzione straordinaria, consistenti nella sostituzione delle lamiere di copertura sovrastanti una porzione dello stabilimento produttivo sito in Scafati, alla via ..., n. 6, e censito in catasto al foglio 2, particelle 63 e 506), e la conseguente diffida dall’esecuzione degli interventi contemplati nella predetta c.i.l.a., nonché l’accertamento dell’abusività di questi ultimi;
   - il gravato divieto di esecuzione dei lavori era, segnatamente, motivato in base ai rilievi che:
a) in relazione alla c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647, non figuravano versati i diritti di segreteria, non potendosi considerare all’uopo utilizzabili quelli già corrisposti dalla Re. di S. Ma. in relazione alla già archiviata c.i.l.a. del 15.02.2018, prot. n. 8631;
b) i lavori contemplati nella c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647, risultavano attingere il medesimo manufatto riguardato dal procedimento di accertamento di conformità avviato con istanza del 06.11.2015, prot. n. 31733, ed ancora in itinere;
   - il parimenti gravato accertamento di abusività degli interventi eseguiti sine titulo era motivato, oltre che in base ai su indicati rilievi, anche in ragione della riscontrata mancanza della documentazione tecnico-amministrativa e fotografica a corredo della comunicazione di fine lavori prot. n. 20530 del 16.04.2018;
   - avverso siffatte determinazioni la ricorrente lamentava, in estrema sintesi, che:
- il provvedimento inibitorio di cui alla nota del 17.04.2018, prot. n. 20941, sarebbe stato notificato all’interessata soltanto in data 19.04.2018, ossia dopo lo spirare (in data 18.04.2018) del termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001;
- ai fini della presentazione della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647, il pagamento dei diritti di segreteria sarebbe stato regolarmente effettuato e, comunque, la sua omissione sarebbe stata suscettibile di regolarizzazione;
- gli interventi controversi non avrebbero attinto la porzione di manufatto riguardata dall’istanza di sanatoria prot. n. 31733 del 06.11.2015;
- alla comunicazione di fine lavori non andrebbe allegato altro se non il documento di identità del dichiarante;
...
Considerato, in limine, che:
   - il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che –a dispetto degli assunti di parte ricorrente– è inapplicabile alla prima delle indicate categorie di interventi;
   - in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia;
   - eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione in ordine alla legittimità degli interventi comunicati con c.i.l.a. –quali quelli in questa sede impugnati– non rivestono, quindi, carattere provvedimentale (cfr., in tal senso, TAR Veneto, Venezia, sez. II, n. 415/2015; TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 1625/2016);
   - ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto e attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in via giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella misura in cui –come, appunto, nella specie– prefigurano, a guisa di contestazioni preventive, le susseguenti determinazioni sfavorevoli dell’amministrazione;
   - di qui, dunque, l’ammissibilità delle censure rassegnate dalla ricorrente in ordine ai presupposti di ritenuta illegittimità della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647;
Considerato, in merito a tali censure, che:
   - l’omesso pagamento dei diritti di segreteria ha potuto integrare un vizio regolarizzabile ex post su invito dell’amministrazione, e, di certo, non infirmante la presentata c.i.l.a., insuscettibile, cioè, di elidere in radice la legittimazione degli interventi eseguiti;
   - come perspicuamente illustrato dalla Re. di S. Ma. mediante le riproduzioni grafiche riportate nella relazione di consulenza tecnica di parte esibita in giudizio, gli interventi contemplati nella c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647, risultano aver attinto una porzione di manufatto distinta da quella riguardata dall’istanza di sanatoria prot. n. 31733 del 06.11.2015;
   - a corredo della comunicazione di fine lavori non è normativamente richiesta l’allegazione di altro documento se non di quello di identità del dichiarante;
Ritenuto che:
   - stante la ravvisata fondatezza dei profili di censura dianzi scrutinati, ed assorbiti quelli ulteriori, il ricorso in epigrafe va accolto, con conseguente annullamento degli atti con esso impugnati;
   - appare equo compensare interamente tra le parti le spese di lite (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.08.2018 n. 1215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Non è dequalificato l’ingegnere scalzato dal geometra nell’accorpamento degli uffici tecnici comunali.
L'ingegnere capo dell'ufficio tecnico di un Comune scalzato da un geometra non ha diritto alla restituzione delle precedenti funzioni.
L'art. 109 del d.lgs. n.  267/2000 che disciplina al primo comma gli incarichi dirigenziali in senso stretto, conferibili cioè al personale con qualifica di dirigente, ed al secondo comma, applicabile ai comuni di minori dimensioni, consente l'attribuzione delle funzioni «a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dallo loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione».
Detti incarichi, pur attribuendo le funzioni e le responsabilità di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 107 del richiamato decreto legislativo, sono riconducibili all'area delle posizioni organizzative
che «si concretano nel conferimento di incarichi relativi allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità professionali e culturali corrispondenti alla direzione di unità organizzative complesse e all'espletamento di attività professionali e nell'attribuzione della relativa posizione funzionale».
Le posizioni organizzative, che trovano compiuta disciplina nella normativa contrattuale (artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999 per il personale del comparto delle autonomie locali), hanno natura temporanea, possono essere revocate prima della scadenza in relazione a mutamenti organizzativi dell'ente o a risultati negativi della gestione, sono attribuite tenendo conto «della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D» (art. 9 CCNL 31.03.1999).
Le stesse, quindi, esprimono una funzione ad tempus, che non determina un mutamento di area e dì profilo professionale ma comporta solo un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico, senza che «la restituzione ai compiti propri della qualifica possa concretare dequalificazione».
Dalla natura delle posizioni organizzative discende che, così come accade per il conferimento degli incarichi dirigenziali in senso stretto,
non è configurabile un diritto soggettivo del dipendente al conferimento della funzione, in quanto l'Amministrazione è solo «tenuta al rispetto dei criteri di massima indicati dalle fonti contrattuali e all'osservanza delle clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., senza tuttavia che la predeterminazione dei criteri di valutazione comporti un automatismo nella scelta, la quale  resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro».
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RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Ancona ha respinto l'appello di Lo.Na. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato il ricorso proposto nei confronti del Comune di Camerano volto ad ottenere, «previo annullamento o disapplicazione degli atti amministrativi lesivi della posizione di lavoro rivestita dalla ricorrente di Capo Settore Ufficio Tecnico-Urbanistico», il ripristino delle precedenti funzioni e la condanna dell'amministrazione convenuta al pagamento delle differenze retributive nonché al risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, subiti in conseguenza della dequalificazione professionale;
2. la Corte territoriale ha premesso che l'ufficio diretto dall'ing. Na. era stato unificato con quello in precedenza affidato al geom. Fr., al quale il Comune aveva poi assegnato la direzione della nuova struttura, denominata Gestione del Territorio e del Patrimonio;
3. ha ritenuto la scelta organizzativa non sindacabile in sede giudiziale ed ha evidenziato che l'appellato aveva indicato ragioni idonee a giustificare sia l'unificazione degli uffici, sia l'affidamento dei poteri di direzione al soggetto prescelto;
4. ha rilevato che l'incarico dirigenziale è necessariamente temporaneo ed il dirigente, spirato il termine fissato, non può pretenderne la conferma né ha un diritto soggettivo ad essere reintegrato nelle precedenti funzioni;
5. il giudice di appello ha aggiunto che il potere discrezionale del datore di lavoro incontra un limite nel necessario rispetto dei principi di correttezza e buona fede che, però, nella specie non potevano dirsi violati solo perché la appellante era in possesso di un titolo di studio superiore rispetto a quello posseduto dal concorrente, posto che non era stato neppure dedotto che la dirigenza dell'ufficio implicasse necessariamente attività riservate all'iscritto all'albo professionale;
...
7. occorre premettere che, in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, nonché sulla base del principio generale desumibile dall'art. 384 c.p.c., la Corte di cassazione, nell'esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, può ritenere fondata o infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente prospettata dalle parti e della quale si è discusso nei gradi di merito, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti esposti nel ricorso per cassazione, principale o incidentale, e nella stessa sentenza impugnata e fermo restando che l'esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell'esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto (in tal senso Cass. n. 11868/2016; Cass. n. 3437/2014; Cass. n. 9143/2007);
8. nel caso di specie la norma di riferimento va individuata nell'art. 109 del d.lgs. n.  267/2000 che, come già evidenziato da questa Corte (Cass. n. 21890/2016), disciplina al primo comma gli incarichi dirigenziali in senso stretto, conferibili cioè al personale con qualifica di dirigente, ed al secondo comma, applicabile ai comuni di minori dimensioni, consente l'attribuzione delle funzioni «a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente dallo loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni diversa disposizione»;
9. detti incarichi, pur attribuendo le funzioni e le responsabilità di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 107 del richiamato decreto legislativo, sono riconducibili all'area delle posizioni organizzative (Cass. nn. 21890/2016; Cass. 19045/2015; Cass. n. 19009/2010; Cass. S.U. n. 16540/2008) che «si concretano nel conferimento di incarichi relativi allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità professionali e culturali corrispondenti alla direzione di unità organizzative complesse e all'espletamento di attività professionali e nell'attribuzione della relativa posizione funzionale» (Cass. S.U. n. 16540/2008);
10. le posizioni organizzative, che trovano compiuta disciplina nella normativa contrattuale (artt. 8 e seguenti del CCNL 31.03.1999 per il personale del comparto delle autonomie locali), hanno natura temporanea, possono essere revocate prima della scadenza in relazione a mutamenti organizzativi dell'ente o a risultati negativi della gestione, sono attribuite tenendo conto «della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, dei requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale della categoria D» (art. 9 CCNL 31.03.1999);
11. le stesse, quindi, esprimono una funzione ad tempus, che non determina un mutamento di area e dì profilo professionale ma comporta solo un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico (Cass. 21890/2016), senza che «la restituzione ai compiti propri della qualifica possa concretare dequalificazione» (Cass. n. 19009/2010);
12. dalla natura delle posizioni organizzative discende che, così come accade per il conferimento degli incarichi dirigenziali in senso stretto, non è configurabile un diritto soggettivo del dipendente al conferimento della funzione, in quanto l'Amministrazione è solo «tenuta al rispetto dei criteri di massima indicati dalle fonti contrattuali e all'osservanza delle clausole generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., senza tuttavia che la predeterminazione dei criteri di valutazione comporti un automatismo nella scelta, la quale  resta rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro» (Cass. n. 2141/2017);
13. la sentenza impugnata è, quindi, conforme a diritto nella parte in cui evidenzia, sia pure sulla base di un diverso percorso argomentativo, che va corretto ex art. 384, comma 4, cod. proc. civ., che non potevano essere censurate nel merito le scelte discrezionali compiute dal Comune di Camerano quanto alla riorganizzazione degli uffici ed al conferimento dell'incarico, avvenuto nel rispetto delle norme di legge, essendo il destinatario della nomina pacificamente inquadrato nell'area D e non risultando che la direzione dell'ufficio di nuova istituzione richiedesse necessariamente l'iscrizione all'albo degli ingegneri;
14. il ricorso principale, che non coglie pienamente la ratio della decisione, è tutto incentrato sulla violazione di norme che non hanno specifica attinenza alla fattispecie,  perché riguardano o i requisiti attualmente richiesti per l'accesso all'area D, che non rilevano in quanto, evidentemente, il destinatario dell'incarico ha ottenuto l'inquadramento nella qualifica funzionale e, poi, nell'area sulla base della normativa vigente al momento dell'instaurazione del rapporto di impiego, o la disciplina dettata in tema di appalti pubblici, parimenti irrilevante non potendosi confondere la direzione dell'ufficio, che attiene agli aspetti organizzativi, con l'attività di progettazione che, eventualmente, può essere svolta dalle stazioni pubbliche appaltanti;
15. l'assunto della ricorrente principale, secondo la quale il laureato in ingegneria doveva necessariamente essere preferito al geometra, non considera la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, che individua nel requisito culturale solo uno dei parametri che l'ente è tenuto a valutare al momento del conferimento dell'incarico;
16. il regolamento del Comune di Camerano, il cui contenuto è riportato nel ricorso, riproduce sostanzialmente le previsioni della contrattazione collettiva lì dove stabilisce che la nomina è disposta previa valutazione: della professionalità acquisita nello svolgimento di attività rilevanti agli effetti dell'incarico da conferire, della formazione culturale, della natura e delle caratteristiche dei programmi da realizzare, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dipendente in relazione ai risultati conseguiti in precedenza, del curriculum professionale;
17. si tratta, quindi, di una valutazione complessiva della storia professionale dei dipendenti a confronto, sicché nessuno dei parametri indicati, singolarmente valutato, può essere ritenuto decisivo ai fini del giudizio di prevalenza dei titoli dell'uno rispetto a quelli posseduti dall'altro (Corte di cassazione, Sez. lavoro, ordinanza 07.08.2018 n. 20617).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 fonda il potere del competente dirigente o del responsabile di provvedere alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, in ipotesi di accertamento di inizio o esecuzione di opere realizzate senza titolo su aree assoggettate da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica (L. n. 167 del 1962) nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il comma 3, fermo rimanendo le ipotesi di cui all’illustrato comma 2, sancisce il potere di immediata sospensione dei lavori, con effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi, allo scopo di evitare che il protrarsi dei lavori per edificare opere sine titulo possa produrre danni irreversibili o, comunque, particolarmente gravosi nell’attività di rimozione.
Va tuttavia chiarito che l’ordinanza di demolizione può ma non deve essere necessariamente preceduta dall’ordinanza di sospensione, rientrando nel potere discrezionale del dirigente o del responsabile valutare l’utilità di sospendere i lavori, qualora questi siano in corso.
Sebbene il legislatore concepisca separatamente la sospensione dei lavori e la demolizione delle opere abusive, ciò non esclude che l’autorità amministrativa emani l’atto sanzionatorio senza attendere il decorso dei 45 giorni previsti come termine di efficacia della sospensione. Infatti il suddetto termine non ha carattere dilatorio, ragion per cui la sanzione può essere applicata anche immediatamente, se non emergono particolari esigenze istruttorie.
L’eccesso di cautela, consistente nel disporre congiuntamente la sospensione dei lavori e la demolizione, dimostra semmai la sostanziale inutilità della sospensione, se non vi sono lavori in corso, e comunque non comporta l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione, in base al principio generale dell’utile per inutile non vitiatur.
Nel caso controverso peraltro non vi era da disporre alcuna sospensione atteso che il manufatto presunto abusivo era già stato realizzato.
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L'ordinanza di demolizione è motivata in maniera adeguata con l'affermazione dell'accertato carattere abusivo dell'intervento edilizio in zona vincolata, della puntuale descrizione delle opere abusive compiute nonché dell'individuazione della violazione commessa, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione degli abusi edilizi e ambientali, sicché la stessa non necessita di ulteriore specifica indicazione che dia conto delle ragioni d’interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati.
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Come più volte chiarito da costante e condivisa giurisprudenza, l'attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertato carattere abusivo delle opere che s’ingiunge di demolire nonché alle norme legislative e regolamentare che sono state violate.
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Secondo costante e condivisa giurisprudenza, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, laddove al contrario la si considerasse dovuta, non subisce conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
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1.- Con il primo motivo, il ricorrente deduce: violazione e falsa applicazione dell’art. 27, comma 3, d.p.r. 380/2001.
1.1.- L’amministrazione, nonostante abbia accertato i lavori per realizzare un locale pertinenziale al fabbricato, ha ordinato immediatamente il ripristino dello stato dei luoghi, senza prima intimare la sospensione dei lavori come richiesto dal menzionato art. 27; in questo modo ha omesso di compiere un’adeguata istruttoria volta all’accertamento definitivo della presunta violazione ovvero della conformità delle opere. Il provvedimento indicherebbe, inoltre, in maniera erronea i dati catastali del cespite, a conferma della superficialità dell’istruttoria condotta.
1.2.- Il motivo è infondato.
L’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 fonda il potere del competente dirigente o del responsabile di provvedere alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, in ipotesi di accertamento di inizio o esecuzione di opere realizzate senza titolo su aree assoggettate da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica (L. n. 167 del 1962) nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il comma 3, fermo rimanendo le ipotesi di cui all’illustrato comma 2, sancisce il potere di immediata sospensione dei lavori, con effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi, allo scopo di evitare che il protrarsi dei lavori per edificare opere sine titulo possa produrre danni irreversibili o, comunque, particolarmente gravosi nell’attività di rimozione.
Va tuttavia chiarito che l’ordinanza di demolizione può ma non deve essere necessariamente preceduta dall’ordinanza di sospensione, rientrando nel potere discrezionale del dirigente o del responsabile valutare l’utilità di sospendere i lavori, qualora questi siano in corso.
Sebbene il legislatore concepisca separatamente la sospensione dei lavori e la demolizione delle opere abusive, ciò non esclude che l’autorità amministrativa emani l’atto sanzionatorio senza attendere il decorso dei 45 giorni previsti come termine di efficacia della sospensione (cfr. questa Sezione, 04.11.2015, n. 5107). Infatti il suddetto termine non ha carattere dilatorio, ragion per cui la sanzione può essere applicata anche immediatamente, se non emergono particolari esigenze istruttorie.
L’eccesso di cautela, consistente nel disporre congiuntamente la sospensione dei lavori e la demolizione, dimostra semmai la sostanziale inutilità della sospensione, se non vi sono lavori in corso, e comunque non comporta l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione, in base al principio generale dell’utile per inutile non vitiatur (cfr. Cons. Stato, sez. II, 18.01.2006, n. 408).
Nel caso controverso peraltro non vi era da disporre alcuna sospensione atteso che il manufatto presunto abusivo era già stato realizzato.
1.3.- Riguardo alla contestazione circa l’erronea menzione dei dati catastali, in disparte la considerazione che l’ordinanza di demolizione non li riporta, l’identificazione del manufatto e della sua collocazione non sembra lasciare adito a dubbi. L’ordinanza impugnata contiene la puntuale descrizione degli abusi realizzati, cosicché non può predicarsi la necessità di alcuna ulteriore specificazione.
...
5.- Con il sesto motivo, il ricorrente deduce: violazione del d.lgs. n. 42/2004; eccesso di potere per erroneità dei presupposti, carenza d’istruttoria, mancanza d’interesse pubblico.
5.1.- Con il provvedimento impugnato non sono addotte ragioni concrete di pubblico interesse ostative alla permanenza delle strutture, alla luce della circostanza che le opere realizzate non avrebbero particolare incidenza sul territorio, posto che l’abuso non comporterebbe alcun carico urbanistico.
5.2.- La censura è infondata.
In primo luogo, per le ragioni sopra illustrate, non sono condivisibili le premesse del ragionamento condotto dal ricorrente, posto che l’opera realizzata sine titulo, nel comportare un aumento di superficie e di volume edificati, non è neutrale rispetto all’impatto urbanistico sul territorio.
5.3.- In secondo luogo, la circostanza che l’opera abusiva ha prodotto un incremento plano-volumetrico in zona paesaggisticamente vincolata rende inammissibile il rilascio in via postuma dell’autorizzazione paesaggistica, per effetto delle prescrizioni inderogabili contenute agli articoli 167, comma 4, e 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del 2004.
Come chiarito sul punto da consolidata e condivisa giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione è motivata in maniera adeguata con l'affermazione dell'accertato carattere abusivo dell'intervento edilizio in zona vincolata, della puntuale descrizione delle opere abusive compiute nonché dell'individuazione della violazione commessa, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione degli abusi edilizi e ambientali, sicché la stessa non necessita di ulteriore specifica indicazione che dia conto delle ragioni d’interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati (ex multis, questa Sezione 02.01.2018, n. 4; Idem 06.03.2017 n. 1303; Cons. Stato, Sez. IV, 26.08.2014 n. 4279; id., sez. V, 11.07.2014 n. 3568; TAR Salerno, sez. II, 13.07.2017 n. 1179; TAR Napoli, sez. VI, 25.11.2016 n. 5486; TAR Torino, sez. I, 22.11.2016 n. 1435).
6.- Quanto sopra è sufficiente per superare anche il settimo motivo di ricorso col quale il ricorrente deduce la violazione degli artt. 3 e ss. L. n. 241/1990, per difetto di motivazione e d’istruttoria.
6.1.- A suo avviso, il provvedimento impugnato difetta di elementi essenziali quali l’individuazione della norma ostativa al rilascio o quantomeno delle eventuali disposizioni regolamentari che il comune ha ritenuto violate.
6.2.- Sul punto, nel rinviare alle argomentazioni dedotte con l’esame del motivo precedente, va solo aggiunto che, come più volte chiarito da costante e condivisa giurisprudenza anche di questa Sezione, l'attività di repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione, essendo sufficiente fare riferimento all'accertato carattere abusivo delle opere che s’ingiunge di demolire nonché alle norme legislative e regolamentare che sono state violate (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.09.2017, n. 4243; questa Sezione, 03.05.2018, n. 2991).
...
7.- Infine, con l’ultimo motivo, parte ricorrente deduce la violazione degli artt. 6, 7, 8 L. n. 241/1990.
7.1.- L’amministrazione comunale ha omesso la comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio del presunto abuso edilizio, impedendo all’interessato la possibilità di partecipare al procedimento.
7.2.- Il motivo è infondato.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della comunicazione di avvio del procedimento, laddove al contrario la si considerasse dovuta, non subisce conseguenze nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.09.2017, n. 4533; questa Sezione, 01.02.2018, n. 708; idem, 10.01.2015, n. 107; Tar Napoli, sez. IV; 03.05.2017, n. 2320).
8.- Per quanto sopra, il ricorso introduttivo va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il ricorso a provvedimenti sanzionatori in materia edilizia consegue al mero accertamento di un intervento realizzato senza il prescritto titolo abilitativo, a nulla rilevando la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di richiedere la sanatoria, qualora ne sussistano i presupposti, senza che da ciò discenda l’obbligo per l’autorità amministrativa di valutare preventivamente la eventuale conformità delle opere abusive alla disciplina edilizia vigente.
Peraltro, la domanda di accertamento di conformità –ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001- non incide sulla validità della sanzione applicata, la cui legittimità è valutabile in base ai presupposti di fatto e di diritto sussistenti al momento della sua emanazione; la stessa comporta semmai unicamente la sospensione temporanea degli effetti sino alla definizione sulla domanda medesima, in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono che paralizzano le procedure sanzionatorie e giudiziarie in virtù di disposizioni di legge eccezionali che non sono estensibili oltre i casi espressamente previsti.
L’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta quindi in uno stato di momentanea quiescenza, per il tempo occorrente allo scrutinio della domanda di accertamento, fermo restando che solo in caso di concessione della sanatoria l’ingiunzione a demolire risulta nei fatti ed in diritto superata.
Qualora invece, a conclusione del procedimento, la domanda sia -tacitamente o espressamente- respinta, l’ordine demolitorio riacquista la sua efficacia, con una nuova decorrenza del termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione.
Ciò in quanto l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 riconnette al decorso del termine di sessanta giorni, ivi stabilito, la formazione del provvedimento tacito di diniego che l’interessato ha l’onere di impugnare. Nel caso di specie, il ricorrente non deduce di avere impugnato il silenzio-rifiuto formatosi.
Del resto, una diversa soluzione interpretativa comporterebbe per il soggetto destinatario del provvedimento la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di una istanza.
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2.- Con il secondo motivo il ricorrente deduce: violazione ed omessa applicazione degli artt. 36 e 37 d.p.r. 380/2001; difetto d’istruttoria; difetto di motivazione, violazione del giusto procedimento di legge.
2.1.- Il provvedimento impugnato risulta adottato in assenza di sufficiente istruttoria ed, in particolare, in mancanza di qualsiasi indagine tesa a stabilire l’eventuale sanabilità dell’opera compiuta, considerato anche che, osserva il ricorrente, gli interventi per cui è causa risulterebbero pienamente conformi agli strumenti urbanistici comunali vigenti.
Il ricorrente aveva inoltre già provveduto a richiedere, ai sensi del menzionato art. 36, la concessione edilizia in sanatoria delle opere compiute che si assumono abusive con istanza assunta al prot. n. 32893/12 del 9 novembre 2012 con la conseguenza che l’amministrazione prima di attivare i propri poteri repressivi dovrebbe preventivamente pronunciarsi su tale istanza.
2.2.- Il motivo è infondato.
2.2.1.- Il ricorso a provvedimenti sanzionatori in materia edilizia consegue al mero accertamento di un intervento realizzato senza il prescritto titolo abilitativo, a nulla rilevando la conformità urbanistica o meno delle opere realizzate.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di richiedere la sanatoria, qualora ne sussistano i presupposti, senza che da ciò discenda l’obbligo per l’autorità amministrativa di valutare preventivamente la eventuale conformità delle opere abusive alla disciplina edilizia vigente.
Peraltro, la domanda di accertamento di conformità –ai sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001- non incide sulla validità della sanzione applicata, la cui legittimità è valutabile in base ai presupposti di fatto e di diritto sussistenti al momento della sua emanazione; la stessa comporta semmai unicamente la sospensione temporanea degli effetti sino alla definizione sulla domanda medesima (cfr. Cons. St., sez. VI, 02.02.2015, n. 466), in ciò distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono che paralizzano le procedure sanzionatorie e giudiziarie in virtù di disposizioni di legge eccezionali che non sono estensibili oltre i casi espressamente previsti.
L’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta quindi in uno stato di momentanea quiescenza, per il tempo occorrente allo scrutinio della domanda di accertamento, fermo restando che solo in caso di concessione della sanatoria l’ingiunzione a demolire risulta nei fatti ed in diritto superata.
2.2.2.- Qualora invece, a conclusione del procedimento, la domanda sia -tacitamente o espressamente- respinta, l’ordine demolitorio riacquista la sua efficacia, con una nuova decorrenza del termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione (cfr. Questa Sezione, 06.04.2017, n. 1891).
Ciò in quanto l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001 riconnette al decorso del termine di sessanta giorni, ivi stabilito, la formazione del provvedimento tacito di diniego che l’interessato ha l’onere di impugnare. Nel caso di specie, il ricorrente non deduce di avere impugnato il silenzio-rifiuto formatosi.
Del resto, una diversa soluzione interpretativa comporterebbe per il soggetto destinatario del provvedimento la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato, mediante la mera presentazione di una istanza (cfr. questa Sezione, 05.09.2017, n. 4251) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenza richiede un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, tale che la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione e sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico né un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica.
Il Consiglio Stato ha anche chiarito come la nozione di pertinenza, quale risulta dall'art. 7, comma 2, lett. a), D.L. 23.01.1982 n. 9, convertito dalla L. 25.03.1982 n. 94, debba essere interpretata in modo compatibile con i principi della materia e non può quindi valere a sottrarre al regime del permesso di costruire la realizzazione di opere di rilevante consistenza urbanistica solo perché destinate a servizio ed ornamento del bene principale; proprio con riferimento ad un nuovo manufatto si afferma che il rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione edilizia, opere che, da un punto di vista edilizio ed urbanistico, si pongono come ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto alla res principalis.
E’, infatti, "soggetta a concessione edilizia (ora permesso di costruire) ed al conseguente rispetto delle prescrizioni urbanistiche relative al tipo d'intervento, la realizzazione di un manufatto edilizio destinato a soddisfare esigenze non temporanee del soggetto attuatore e, al contempo, ad alterare in modo permanente l'assetto urbanistico di zona, indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati".
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3. – Con il terzo motivo il ricorrente deduc
e: violazione del combinato disposto degli artt. 36 e 37 d.p.r. n. 380/2001; L. n. 765/1967 e L. n. 122/1989 “Legge Tognoli” e seguenti; eccesso di potere per presupposto erroneo ed omessa attività istruttoria.
3.1.- Il ricorrente ha realizzato un locale box da destinare a garage o parcheggio di pertinenza dell’immobile di proprietà, non munito di locali da adibire al ricovero o alla sosta per i veicoli di proprietà o di coloro che accedono all’immobile, pertanto nei limiti della deroga consentita dall’art. 9 L. n. 122/1989.
3.2.- Con il quarto motivo il ricorrente deduce: violazione e falsa applicazione della legge regionale n. 19 del 2001; della L. n. 122/1989; eccesso di potere per omessa istruttoria.
La normativa regionale in materia dispone che la realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenze di unità immobiliari è soggetta a semplice denuncia di inizio attività (art. 6 Legge reg. n. 19/2001).
3.3.- I due motivi, in considerazione dell’omogeneità dei contenuti negli stessi presenti, possono essere trattati congiuntamente.
Il ricorrente contesta che le opere in questione costituiscano un intervento di nuova edificazione, in quanto avrebbe realizzato un manufatto di natura pertinenziale, consistente nell’esecuzione di un locale box da destinare a garage dell'immobile principale. A suo avviso, quindi, il manufatto non richiederebbe il rilascio del permesso di costruire ma la denunzia di inizio attività, il cui difetto comporterebbe l'applicazione della sanzione pecuniaria e non già di quella demolitoria.
3.4.- L’assunto non può essere preso in considerazione ed è smentito dai rilievi svolti dalla locale Polizia municipale.
Le opere eseguite senza titolo non sono indifferenti sotto il profilo urbanistico, come pretenderebbe il ricorrente, avendo quest’ultimo realizzato, in assenza di concessione edilizia, la seguente struttura che si presenta ben diversa da un semplice box per il ricovero delle auto o comunque da una semplice pertinenza. La stessa consiste infatti nella seguente opera: “manufatto composto da Piano terra, formato da struttura in ferro con copertura in lamiere coibentate a falda, tompagnatura già intonacata internamente ed esternamente solo abbozzato, infissi (quattro avvolgibili in ferro), pavimenti, impianti tecnologici, vano bagno ancora privo di infisso ma già completo dei pezzi igienici, il tutto già tenuto in uso, su una superficie di mq. 102,00 ca. e per una volumetria di mc. 326 ca.".
L'intervento in questione ha dunque prodotto un nuovo consistente aumento plano-volumetrico, a verosimile uso abitativo, con conseguente trasformazione dell'assetto del territorio e consistente aggravio sul carico urbanistico.
3.5.- Risulta pertanto non pertinente perché non applicabile al caso di specie, la normativa di carattere speciale e derogatorio in tema di spazi destinati a parcheggio di cui alla L. n. 122/1989 ed alla legge regionale n. 19 del 2001, la cui applicazione è stata invocata dal ricorrente.
Le opere realizzate avrebbero quindi imposto, in linea con l’art. 10 d.p.r. 380/2001, il rilascio di un permesso di costruire, non mostrandosi sufficiente la denuncia di inizio attività.
3.5.- Vi è peraltro da considerare che il manufatto in questione rientra:
   - in “Zona R.U.A.” del Piano territoriale paesistico, nella quale sono previsti unicamente interventi conservativi";
   - nella "perimetrazione Zona Rossa”, nella quale ai sensi della L.R. Campania n. 21 del 2003 è vietato il rilascio di titoli edilizi abilitanti la realizzazione di interventi finalizzati all'incremento dell'edilizia residenziale.
3.6.- In adesione all'orientamento della giurisprudenza amministrativa, anche di questa Sezione, la nozione di pertinenza richiede un oggettivo nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, tale che la prima non è suscettibile di autonoma e separata utilizzazione e sempre che l’opera secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico né un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica (cfr., sentenze della Sezione del 29.05.2018 n. 3536 e del 03.05.2017 n. 2381).
Il Consiglio Stato ha anche chiarito come (sez. II, 2102.1996, n. 1895), la nozione di pertinenza quale risulta dall'art. 7, comma 2, lett. a), D.L. 23.01.1982 n. 9, convertito dalla L. 25.03.1982 n. 94, debba essere interpretata in modo compatibile con i principi della materia e non può quindi valere a sottrarre al regime del permesso di costruire la realizzazione di opere di rilevante consistenza urbanistica solo perché destinate a servizio ed ornamento del bene principale; proprio con riferimento ad un nuovo manufatto si afferma che il rapporto pertinenziale non può esonerare dalla concessione edilizia, opere che, da un punto di vista edilizio ed urbanistico, si pongono come ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto alla res principalis.
E’, infatti, "soggetta a concessione edilizia (ora permesso di costruire) ed al conseguente rispetto delle prescrizioni urbanistiche relative al tipo d'intervento, la realizzazione di un manufatto edilizio destinato a soddisfare esigenze non temporanee del soggetto attuatore e, al contempo, ad alterare in modo permanente l'assetto urbanistico di zona, indipendentemente dalla natura dei materiali adoperati" (Cons. Stato, sez. V, 20.03.2000, n. 1507; TAR Campania, sez. IV, 22.02.2003, n. 1398) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Laddove le opere sono state eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, in tale ipotesi la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso: ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 deve essere sanzionato.
Detto articolo riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato.
E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica.
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Con riferimento al preteso ricorso alla sanzione pecuniaria, quest’ultima può essere applicata quale rimedio sostitutivo solo in ipotesi di assoluta impossibilità tecnica dell’originaria sanzione demolitoria, laddove, nella specie, non sono stati evidenziati impedimenti all’abbattimento del fabbricato in questione.
Peraltro, come già evidenziato in precedenti occasioni dalla Sezione, la valutazione circa la possibilità di dar corso o meno alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione.
La possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria –disciplinata dall'art. 34, comma 2, d.p.r. 380 del 2001- viene infatti valutata dall'Amministrazione soltanto in un secondo momento, successivo ed autonomo rispetto alla diffida a demolire, ossia quando il destinatario non vi abbia spontaneamente ottemperato e l'organo competente emani l'ordine di demolizione in danno delle opere edili costruite.
Di conseguenza, l’esito negativo di siffatta valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma al più della fase di esecuzione in danno.
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4.- Con il quinto motivo il ricorrente deduce: violazione degli artt. 33 e 37 d.p.r. 380/2001; omessa istruttoria, violazione del giusto procedimento.
4.1.- L’ente comunale resistente, senza prima compiere un’adeguata attività istruttoria, ha qualificato l’opera fra quelle sottoposte al regime sanzionatorio previsto dall’art. 33 in commento e non dell’art. 37. In ogni caso, l’art. 33, comma 2, d.p.r. 380/2001 dispone la sostituzione della sanzione ripristinatoria con quella pecuniaria, per l’ipotesi in cui il ripristino dello stato dei luoghi non sia possibile o sia eccessivamente gravoso.
4.2.- Il motivo è infondato.
Il comune ha correttamente ordinato il ripristino dello stato dei luoghi, facendo ricorso al menzionato art. 27 d.p.r. 380 del 2001, norma che configura l’esercizio doveroso del potere repressivo degli abusi edilizi in zona vincolata, anche a prescindere dal titolo occorrente (cfr., per tutte, la sentenza della Sezione del 24.10.2017 n. 4966, secondo cui: …le opere “…sono state eseguite in assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica e, in tale ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un principio di indifferenza del titolo necessario all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni caso ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e, pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce, infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di demolizione in presenza di opere realizzate in zone vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA, prive di autorizzazione paesaggistica”; cfr. anche, questo TAR, Sez. VI , 26.03.2015 n. 1815).
Risulta quindi non pertinente il richiamo all’art. 33 d.p.r. 380/2001.
4.3.- In ogni caso, con riferimento al preteso ricorso alla sanzione pecuniaria, quest’ultima può essere applicata quale rimedio sostitutivo solo in ipotesi di assoluta impossibilità tecnica dell’originaria sanzione demolitoria (ex multis, TAR Napoli, sez. II, 07.03.2012, n. 1133), laddove, nella specie, non sono stati evidenziati impedimenti all’abbattimento del fabbricato in questione.
Peraltro, come già evidenziato in precedenti occasioni dalla Sezione (cfr, sentenza 10.05.2010, n. 3418), la valutazione circa la possibilità di dar corso o meno alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione.
La possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione pecuniaria –disciplinata dall'art. 34, comma 2, d.p.r. 380 del 2001- viene infatti valutata dall'Amministrazione soltanto in un secondo momento, successivo ed autonomo rispetto alla diffida a demolire, ossia quando il destinatario non vi abbia spontaneamente ottemperato e l'organo competente emani l'ordine di demolizione in danno delle opere edili costruite.
Di conseguenza, l’esito negativo di siffatta valutazione non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma al più della fase di esecuzione in danno (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che la notificazione del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di demolizione.
Non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l'acquisizione gratuita, rilevando solo l'accertamento formale dell'inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione.

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In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001 –che ha sostituito il previgente art. 7, comma 3, L. 47/1985- l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime, per esplicita previsione legislativa, è un effetto automatico alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, senza che occorra alcuna precisazione.
Quest’ultima è invece richiesta in vista dell'acquisizione, in ampliamento all'area propriamente di sedime del manufatto abusivo, dell'ulteriore -e solo eventuale- area necessaria, fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il destinatario dell’ingiunzione può, infatti, impedire simile effetto, demolendo l'opera contestata e rendendo così impossibile la futura acquisizione; ne deriva che detta precisazione è adempimento che si riversa sui provvedimenti successivi all'ordinanza di demolizione allo scopo di rendere edotto l’interessato delle esatte conseguenze alle quali va incontro nel caso in cui non la esegua.
E’ chiaro quindi che la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione a demolire e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso controverso, non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione di siffatta ulteriore area.
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L’acquisizione al patrimonio del comune è un effetto automatico che la legge collega all’inadempimento alla presupposta ordinanza di demolizione, senza che quindi sia necessaria una motivazione circa la sussistenza dell’interesse pubblico perseguito, posto che quest’ultimo è già insito e comunque dato per prevalente dal legislatore stesso.
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Può quindi passarsi all’esame del ricorso per motivi aggiunti, con il quale parte ricorrente impugna l’ordinanza di acquisizione dell’opera abusiva, unitamente al verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolire.
10.- Con il secondo motivo, il ricorrente censura la violazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere per omessa istruttoria e sviamento.
10.1.- Il provvedimento di acquisizione non risulta preceduto dall’accertata inottemperanza all’ingiunzione a demolire; osserva il ricorrente che il verbale d’inottemperanza del 14.08.2014, non gli sarebbe stato notificato.
10.2.- Il motivo è infondato.
L’accertamento dell’inottemperanza è puntualmente avvenuto ed è stato trasfuso nel verbale del Comando dei vigili urbani, prot. n. 260/PMG del 07.08.2014. Al riguardo, considerata la sua valenza meramente ricognitiva, risulta irrilevante la circostanza della mancata notifica del verbale d’inadempienza.
Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che la notificazione del verbale di accertamento dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di demolizione. Non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento con cui si disponga l'acquisizione gratuita, rilevando solo l'accertamento formale dell'inottemperanza, pienamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174; Cassazione penale, sez. III, 28.11.2007 n. 4962).
11.- Con il terzo motivo, parte ricorrente deduce la violazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001 e dell’art. 3 L. n. 241/1990; l’erroneità e l’illegittimità del provvedimento per carenza dei presupposti, per motivazione erronea, sviamento, illogicità.
11.1.- L’attività istruttoria eseguita dall’amministrazione comunale appare sommaria, approssimativa e comunque non idonea alla corretta individuazione del bene, tale da inficiare l’intero procedimento. Sul punto, benché il legislatore abbia introdotto l’obbligo di indicare, nel provvedimento ablatorio, l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001, l’amministrazione non avrebbe esattamente identificato il bene oggetto di acquisizione.
11.2.- Il motivo è infondato.
11.2.1.- Il provvedimento individua puntualmente il manufatto abusivo da acquisire, posto che sia i richiami degli atti preordinati alla sanzione sia il provvedimento stesso indicano in modo chiaro la consistenza dell'abuso, la particella ed il foglio su cui lo stesso insiste, senza possibilità di equivoci.
Una precisazione va condotta riguardo alla tenuta apprensione dell’“area ulteriore”.
In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001 –che ha sostituito il previgente art. 7, comma 3, L. 47/1985- l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli immobili abusivi e della relativa area di sedime, per esplicita previsione legislativa, è un effetto automatico alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, senza che occorra alcuna precisazione. Quest’ultima è invece richiesta in vista dell'acquisizione, in ampliamento all'area propriamente di sedime del manufatto abusivo, dell'ulteriore -e solo eventuale- area necessaria, fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il destinatario dell’ingiunzione può, infatti, impedire simile effetto, demolendo l'opera contestata e rendendo così impossibile la futura acquisizione; ne deriva che detta precisazione è adempimento che si riversa sui provvedimenti successivi all'ordinanza di demolizione allo scopo di rendere edotto l’interessato delle esatte conseguenze alle quali va incontro nel caso in cui non la esegua (TAR Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4249; 03.07.2017, n. 3570; 06.03.2017, n. 1303).
E’ chiaro quindi che la mancata individuazione dell’area ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione a demolire e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso controverso, non risultino elementi adeguati per determinare l’esatta estensione di siffatta ulteriore area.
11.2.2.- Nella fattispecie in esame, l’ordinanza di demolizione chiarisce che, a norma del comma 2 dell’art. 31 d.p.r. 380/2001, l’area oggetto dell’abuso sarà acquisita di diritto e che, a norma del comma 3 del medesimo art. 31, “l’area acquisita non sarà superiore a dieci volte la superficie utile abusivamente costruita”; manca tuttavia ogni precisazione circa l’esatta estensione di tale ulteriore area.
Nell’ordinanza di acquisizione, tuttavia, la dichiarazione di apprensione del bene è limitata (“entra in possesso, ad ogni effetto di legge”) all’“opera abusiva eseguita, ricadente nelle part.lle n. 1909 del F. 6”.
E’ chiaro quindi che, dal tenore del provvedimento, l’acquisizione si circoscrive al manufatto abusivo ed alla relativa area di sedime, quale effetto automatico, ex lege, dell’inadempimento all’ingiunzione a demolire, senza estendersi all’area ulteriore, sia perché quest’ultima era solo indicata genericamente nell’ordinanza di demolizione, con conseguente impossibilità per il destinatario di potere esattamente conoscere quale porzione del fondo complessivo sarebbe stata appresa dal comune in caso di inottemperanza, sia perché l’ordinanza di acquisizione non ne fa alcun cenno.
12.- Con il quarto motivo, il ricorrente censura la violazione dell’art. 3 per carenza di motivazione e d’istruttoria sulla persistenza dell’interesse pubblico; nonché la violazione dell’art. 7 per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Il motivo è infondato.
Sul punto, il Collegio ritiene sufficiente richiamarsi a quanto illustrato nell’analisi degli ultimi tre motivi di censura del ricorso introduttivo.
E’ appena il caso di aggiungere che l’acquisizione al patrimonio del comune è un effetto automatico che la legge collega all’inadempimento alla presupposta ordinanza di demolizione, senza che quindi sia necessaria una motivazione circa la sussistenza dell’interesse pubblico perseguito, posto che quest’ultimo è già insito e comunque dato per prevalente dal legislatore stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamento disciplinare – Provvedimento espulsivo proporzionato rispetto ai fatti contestati – Registrazioni di conversazioni in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi – Violazione della normativa sulla privacy – Tutela della propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non cristalline – Consenso non richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria - Condotta legittima – Escluso illecito penale e disciplinare.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito". Ciò sulla scorta dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che
la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale.
Si è, quindi, ritenuto
, alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo.
E' stato, altresì, chiarito che
l'iporesi derogatoria di cui all'art. 24 del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal consenso dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto.
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio.
Inoltre,
il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso.
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Nella fattispecie qui in esame,
la Corte territoriale ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Così ha evidenziato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui'.
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3.2. Va innanzitutto chiarito che, sulla base della normativa a tutela della privacy (d.lgs. 30.06.2003, n. 196, oggetto di successivi aggiornamenti), per 'trattamento' dei dati personali si deve intendere qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati -art. 4 lett. a)- e che per 'dato personale' si deve intendere qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale -art. 4 lett. b)- e così, dunque, qualunque informazione che possa fornire dettagli sulle caratteristiche, abitudini, stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale, situazione economica, stato civile, stato di salute etc. della persona fisica ma anche e soprattutto le immagini e la voce della persona fisica.
Ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 196/2003, il trattamento di dati personali da parte di privati o di enti pubblici economici è ammesso solo con il consenso espresso dell'interessato.
L'art. 167, co. 1, sotto la rubrica 'trattamento illecito di dati', apre il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III (rubricato 'sanzioni') del d.lgs. n. 196/2003. La norma prevede due distinte condotte tipiche, diversamente sanzionate: l'una relativa al trattamento illecito di dati personali da cui derivi nocumento al titolare dei dati stessi e l'altra consistente nella comunicazione o diffusione dei dati illecitamente trattati, indipendentemente dal potenziale nocumento che ne derivi a terzi. Entrambe le condotte presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali altrui, realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli altri, dall'art. 23 del medesimo d.lgs..
Ai sensi dell'art. 4, co. 1, lett. m), la condotta di 'diffusione' consiste, poi, nel 'dare conoscenza dei dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione'.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in presenza del consenso dell'interessato, può essere eseguito anche in assenza di tale consenso, se, come statuisce l'art. 24, co. 1, lettera f), è volto a far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n. 397/2000, e ciò a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.
Si tratta, come è di tutta evidenza, della previsione di una deroga che rende l'attività, se svolta nel rispetto delle condizioni ivi previste, di per sé già a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati personali operato in assenza del consenso del titolare dei dati medesimi sia strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto da parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia finalizzato all'esercizio delle prerogative di difesa, è evidentemente anche insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici previste dall'art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente sottolineato, in termini generali, come la rigida previsione del consenso del titolare dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito" (Cass., Sez. U., 08.02.2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell'imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente lavoristico è stato ulteriormente precisato che la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come in quello penale.
Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29.12.2014, n. 27424 ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22.04.2010, n. 9526 ed a Cass. 14.11.2008, n. 27157), alla luce della giurisprudenza delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione fonografica di un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe, è prova documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro suggerimento o su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni caso, di registrazione operata da persona protagonista della conversazione, estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v. Cass. pen. n. 31342/2011; Cass. pen. n. 16986/2009; Cass. pen. n. 14829/2009; Cass. pen. n. 12189/2005; Cass. pen., Sez. U., n. 36747/2003).
E' stato, altresì, chiarito che l'iporesi derogatoria di cui all'art. 24 del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal consenso dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione viene eseguita, sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass. 20.09.2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata Cass., Sez. U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11.07.2013, n. 17204 e Cass. 10.08.2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è stato ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi difensiva va verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua oggettiva inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla e non alla sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo riguardo alla ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio (v. la già citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso (cfr. la già citata Cass. n. 27424/2014).
Non a caso nel codice di procedura penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto la qualità di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle investigazioni difensive ex art. 391-bis cod. proc. pen. e ss., alcune delle quali possono esercitarsi addirittura prima dell'eventuale instaurazione di un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies cod. proc. pen.), oppure ai poteri processuali della persona offesa, che -ancor prima di costituirsi, se del caso, parte civile- ha il diritto, nei termini di cui all'art. 408 cod. proc. pen. e ss., di essere informata dell'eventuale richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in tal caso, di ricorrere per cassazione contro il provvedimento di archiviazione che sia stato emesso de plano, senza previa fissazione dell'udienza camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver premesso che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di colloqui ad opera del Ch., vale a dire di una delle persone presenti e partecipi ad essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato tutte le dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni dal medesimo effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha considerato operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso non fosse richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria.
Così ha evidenziato che la condotta era stata posta in essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione all'interno dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui'.
Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il Ch. ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari (cfr. pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di pag. 10) in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili 'sacche di omertà' come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo capoverso).
Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità, che come tale non poteva in alcun modo integrare non solo l'illecito penale ma anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia alla stregua dell'indicata previsione derogatoria del codice della privacy sia, in ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un rapporto di lavoro e di quelli connessi all'ambiente in cui esso si svolge, sulla base dell'esistenza della scriminante generale dell'art. 51 cod. pen., di portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è noto, da sempre concordi -cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014-).
Altro sarebbe stato -sia ben chiaro- se si fosse trattato di registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a fini illeciti (ad esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il senso della contestazione disciplinare per cui è causa che, per quanto si rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato nella sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la 'gravissima' ed 'intollerabile' violazione della legge sulla privacy 'comportante l'ipotesi del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione da 6 a 24 mesi'.
Né, invero, risulta provato che il Ch., come si legge sempre nella contestazione disciplinare, a metà dicembre 2012, avesse scattato foto nella zona dell'ingresso merci al solo scolo di prendere in giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del Ch. non poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del dipendente di adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa, dovendo escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera di contestazione potessero configurare inadempimenti contrattuali di sorta (perché qui iure suo utitur neminem laedit) o -peggio- azioni delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di ritenere fondato il primo motivo del ricorso principale (con assorbimento del secondo).
4.2. La condotta del Ch., in sé lecita, non poteva rilevare in sede disciplinare.
Del tutto evidente è che il clima di tensione e sospetti venutosi a creare tra gli 'ignari colleghi' dopo la 'rivelazione' delle registrazioni e cioè una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma non costituente inadempimento, al più poteva assumere rilevanza, in una prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva incompatibilità del dipendente con l'ambiente di lavoro, se tale da rendere insostenibile la situazione incidendo negativamente sulla stessa organizzazione del lavoro e sul regolare funzionamento dell'attività, e dunque, ove ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo oggettivo di licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11.08.1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione 'insussistenza del fatto contestato' di cui dell'art. 18, co. 5, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 il fatto deve intendersi in senso giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto - come giustamente osservato da certa dottrina - non ha mai un proprio autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della qualificazione che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data norma.
Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti giuridici senza riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade nell'irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l'approccio ermeneutico sotto una visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez. U., 10.01.2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto del dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire eccezioni (non a caso, ex art. 5 legge n. 604/66 la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da un fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua significatività giuridica (in termini di impedimento, estinzione o modificazione della pretesa azionata dall'attore).
In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha mai ad oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica sostanzialistica e di coerenza interna del vigente art. 18 St. lav., nonché di compatibilità costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si intendesse quella a livello meramente materiale si otterrebbe l'illogico effetto di riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d. attenuata di cui all'art. 18, co. 4) a chi abbia comunque commesso un illecito disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili) rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo tenuto una condotta lecita.
L'esito sarebbe quello di una irragionevole disparità di trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost., oltre che di una intrinseca e inspiegabile aporia all'interno della medesima disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio già affermato da questa Corte secondo cui: "
L'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dall'art. 1, co. 42, della l. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità" (cfr. Cass. 13.10.2015, n. 20540; Cass. 20.09.2016, n. 18418 e le più recenti Cass. 26.05.2017, n. 13383 e Cass. 31.05.2017, n. 13799) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 10.05.2018 n. 11322).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il nomen iuris utilizzato dall’Amministrazione all'adottato atto non vincola l’interprete che, anzi, deve procedere alla (ri)qualificazione dell’attività posta in essere dall’Amministrazione sulla base della natura sostanziale del provvedimento in concreto adottato e del potere esercitato.
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Il provvedimento impugnato deve essere riqualificato alla stregua di un’ordinanza contingibile e urgente rientrante nell’ambito dei poteri del Sindaco ex art. 54 dlgs 267/2000.
Sicché, il ricorso deve essere accolto per l’assorbente rilievo dell’incompetenza del Dirigente del settore tecnico, restando salva, come già rilevato in sede cautelare, la possibilità che l’Amministrazione adotti i provvedimenti anche urgenti ed extra ordinem ritenuti necessari a fronteggiare la situazione e a limitare i rischi per la pubblica incolumità.
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Con il primo motivo del ricorso, che riveste anche carattere preliminare, parte ricorrente ha contestato la competenza del Dirigente responsabile del servizio tecnico per essere competente, invece, il Sindaco atteso che il provvedimento gravato sarebbe in realtà un’ordinanza sindacale ai sensi degli artt. 50 e 54 del TUEL.
Al riguardo il Comune resistente rileva in contrario che le attività prescritte ai proprietari dei fondi a valle, tra cui la ricorrente, avrebbe natura di ordinaria manutenzione del territorio e come tale sarebbe riconducibile alle prerogative tipiche di cui all’art. 107 del TUEL e non quindi alle competenze ascrivibili agli organi di indirizzo politico né ai poteri extra ordinem del Sindaco.
Che non si tratti di ordinanza contingibile e urgente risulterebbe, poi, anche dal tenore del provvedimento gravato che riserva l’adozione di un’ordinanza sindacale al caso in cui i proprietari non ottemperino al provvedimento gravato.
Il motivo merita positiva considerazione.
Giova preliminarmente riportare il testo dell’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000 nella parte che qui rileva: <<Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità pubblica e la sicurezza urbana>>, il successivo comma 4-bis, dispone, tra l’altro, che: <<provvedimenti adottati ai sensi del comma 4 concernenti l'incolumità pubblica sono diretti a tutelare l'integrità fisica della popolazione>>.
Come già evidenziato in sede cautelare il provvedimento impugnato deve essere riqualificato alla stregua di un’ordinanza contingibile e urgente rientrante nell’ambito dei poteri del Sindaco appena citati.
Rileva, infatti, il Collegio che il nomen iuris utilizzato dall’Amministrazione non vincola l’interprete che, anzi, deve procedere alla (ri)qualificazione dell’attività posta in essere dall’Amministrazione sulla base della natura sostanziale del provvedimento in concreto adottato e del potere esercitato.
Nella fattispecie si deve ritenere che il Dirigente comunale abbia adottato una statuizione che risulta riconducibile al paradigma prefigurato dalla citata disposizione normativa, atteso che è lo stesso provvedimento gravato ad individuare l’incolumità pubblica quale interesse pubblico primario oggetto di considerazione nell’atto.
Del resto la stessa riserva di adottare in caso di mancata ottemperanza un provvedimento contingibile e urgente ai sensi dell’art. 54 TUEL, contrariamente a quanto rilevato dall’Amministrazione, costituisce evidenza che in realtà l’interesse pubblico avuto di mira coincide con quello che avrebbe giustificato l’adozione di un’ordinanza sindacale; anzi, sotto questo aspetto, il rinvio ad un successivo provvedimento sindacale costituisce un’inversione rispetto alla fisiologica successione degli atti nella materia de qua, tenuto conto che l’urgenza di tutelare l’incolumità pubblica avrebbe semmai giustificato la preventiva adozione di un’ordinanza sindacale, sulla base di un’istruttoria sommaria come quella svolta nella specie, salva poi, in un secondo momento, l’adozione di provvedimenti, adottati sulla base di un’istruttoria più approfondita, volti a realizzare una situazione fattuale dotata di maggiore stabilità.
L’attribuzione al Sindaco della competenza ad adottare provvedimenti extra ordinem, peraltro, risponde ad esigenze sostanziali non obliterabili, atteso che solo il Sindaco ai sensi dell’art. 54 TUEL è abilitato ad agire, si legge, quale “ufficiale di Governo”, ed è dunque in tale veste che egli può derogare a specifiche previsioni di legge; un potere di tale latitudine non può non accompagnarsi alla responsabilità politica che solo il Sindaco, nella struttura comunale è nella posizione di assumere.
Sotto questo profilo, contrariamente a quanto rilevato dall’Amministrazione intimata, non rileva la concreta tipologia di attività che la ricorrente, unitamente agli altri proprietari interessati, è stata chiamata a compiere sulla base dell’ordinanza, atteso che ciò che qualifica il provvedimento adottato è l’interesse pubblico per la cui tutela si agisce e la natura contingibile ed urgente della statuizione, a prescindere dalle concrete azioni imposte ai destinatari.
Peraltro, le prescrizioni contenute nella gravata ordinanza non possono essere considerate meramente ordinarie, trattandosi di interventi anche strutturali e non sempre specificamente individuati volti nel loro complesso ad evitare il pericolo di smottamenti.
Tale provvedimento, ai sensi dell’art. 54 TUEL, doveva essere quindi essere necessariamente adottato dal Sindaco che non può in tale ambito essere surrogato né delegare altri soggetti, trattandosi, come detto, di una prerogativa strettamente legata alla sua posizione.
In definitiva il ricorso deve essere accolto per l’assorbente rilievo dell’incompetenza del Dirigente del settore tecnico, restando salva, come già rilevato in sede cautelare, la possibilità che l’Amministrazione adotti i provvedimenti anche urgenti ed extra ordinem ritenuti necessari a fronteggiare la situazione e a limitare i rischi per la pubblica incolumità (TAR Molise, sentenza 02.05.2018 n. 251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Allontanarsi dal luogo di lavoro senza timbrare il cartellino integra truffa.
L’omessa segnalazione di allontanamenti intermedi del dipendente impedisce il controllo di chi è tenuto alla retribuzione, sulla quantità e qualità della prestazione lavorativa svolta, per il recupero del periodo di assenza, se previsto, e per la detrazione del compenso mensile, dando luogo appunto al reato di truffa.
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1. Il ricorso è inammissibile in quanto generico e manifestamente infondato.
2. Il ricorrente introduce censure alle valutazioni di merito che sono insindacabili nel giudizio di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove sia conforme ai principi giurisprudenziali e l'argomentare scevro da vizi logici, come nel caso di specie (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31.05.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.09.2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. 5, 12634/2006 rv. 233780; Sez. 2 , 7856/2016, rv. 269217).
Inoltre le doglianze riproducono pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte d'appello, attraverso una lettura critica delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale per come interpretate dal giudice di prime cure, ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera e si limita a censurare genericamente.
Nello specifico, in sentenza, si è dato atto degli artifici e raggiri posti in essere dal Va. il quale timbrava il cartellino figurando in servizio e tuttavia si allontanava dal lavoro durante l'orario di servizio (come risulta da rilievi fotografici e dalle annotazioni di P.G. non contestati) a nulla rilevando che egli avesse, in altre occasioni, mostrato la propria disponibilità lavorativa anche oltre l'orario, poiché nella specie il Va. avrebbe dovuto segnalare il proprio allontanamento come prescritto per tutti i dipendenti comunali.
Infatti
l'omessa segnalazione di allontanamenti intermedi del dipendente impedisce il controllo di chi è tenuto alla retribuzione , sulla quantità e qualità della prestazione lavorativa svolta, per il recupero del periodo di assenza, se previsto, e per la detrazione del compenso mensile, dando luogo appunto al reato di truffa (Sez. 2, 10/06/2016, n. 46964 non massimata; Sez. 2 34776/2016, rv. 267855; Sez. 2, n. 1121/1989, rv. 183150).
Deve chiarirsi ulteriormente, in proposito, che
l'omissione di cui si tratta è giuridicamente rilevante, poiché il dipendente pubblico, nella specie, è tenuto ad uniformarsi ai principi di correttezza, anche nella fase esecutiva del contratto e, pertanto, ha l'obbligo giuridico di portare a conoscenza della controparte del rapporto di lavoro non soltanto l'orario di ingresso e quello di uscita, ma anche quello relativo ad allontanamenti intermedi sempre che questi, conglobati nell'arco del periodo retributivo, siano economicamente apprezzabili: tale obbligo va adempiuto tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi anche mediante la corretta timbratura del cartellino segnatempo o della scheda magnetica, ove installati, salvo che siano adottate altre procedure equivalenti, a condizione che queste siano formali e probatoriamente idonee ad assolvere alla medesima funzione.
La Corte di legittimità ha posto l'accento sul fatto che
anche l'indebita percezione di poche centinaia di euro, corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente apprezzabile per l'amministrazione pubblica e che danno apprezzabile non è sinonimo di danno rilevante, non limitandosi il concetto alla mera consistenza quantitativa ma investendo tutti gli aspetti pregiudizievoli per il patrimonio (Sez. 5. 8426 /2013 Rv. 258987) (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 05.03.2018 n. 9900).

AMBIENTE-ECOLOGIA: GUASTO MECCANICO DELL’IMPIANTO DI DEPURAZIONE: NON ESONERA DA RESPONSABILITÀ IL TITOLARE.
Rifiuti - Liquidi immessi in acque superficiali a causa di un guasto dell’impianto - Caso fortuito - Esclusione - Responsabilità del titolare dell’impianto
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 45, cod. pen.
In tema di immissione di rifiuti in acque superficiali, esclusa la rilevanza del caso fortuito in presenza di un guasto meccanico nel funzionamento dell’impianto di depurazione, il mancato intervento o la negligenza da parte del terzo, incaricato di curare il sistema di gestione e controllo dell’impianto, non vale ad escludere la responsabilità del titolare dell’impianto da cui ebbe a promanare lo sversamento illecito in quanto costui ha l’obbligo di impedire l’evento dovendo perciò predisporre tutte le misure necessarie per fronteggiare ogni evento per sua natura prevedibile o evitabile, compreso l’occasionale malfunzionamento del sistema di depurazione dei reflui.
Nella specie, il tribunale dichiarava M. e P. colpevoli del reato di gestione non autorizzata di rifiuti per aver effettuato un’immissione abusiva di rifiuti speciali non pericolosi in acque superficiali.
Nel proposto ricorso per cassazione, i due imputati sostenevano che erroneamente erano stati ritenuti responsabili del reato in relazione alla loro rispettiva qualifica di amministratore unico, quanto alla M., e di direttore tecnico della società, quanto al P.; invocavano il caso fortuito asserendo che erroneamente era stata esclusa qualsiasi rilevanza al comprovato concorso di cause plurime, da sole sufficienti a determinare l’evento e, quindi, idonee ad interrompere il nesso causale tra la condotta e l’evento.
In secondo luogo i ricorrenti sostenevano, quanto ai ruoli rivestiti in azienda, che la sentenza era carente sotto il profilo motivazionale; in particolare, il tribunale aveva attribuito una responsabilità anche all’amministratore unico, unitamente al direttore tecnico dell’impianto, responsabile dell’impianto per la parte tecnica, senza tenere conto della delega conferita dall’amministratore unico; in ogni caso, in sentenza non si faceva alcun cenno ad eventuali ingerenze dell’amministratore, che si occupava esclusivamente dell’amministrazione e gestione in senso generale della società, nella gestione tecnica dell’impianto che, tenuto conto dell’evento verificatosi, avrebbe implicato scelte operative e certamente specialistiche; l’aver quindi attribuito alla M. una corresponsabilità, attribuendole “un ruolo tecnico più defilato” costituiva un errore in assenza di elementi probatori in forza dei quali fosse stato possibile attribuire un ruolo tecnico minore in capo all’amministratore unico al fine di estendere a quest’ultima il giudizio di responsabilità in cooperazione.
In relazione al primo motivo di ricorso, incentrato sul c.d. fortuitus, essendosi dedotto che vi era stato un occasionale malfunzionamento del complesso sistema di gestione -curato da una società terza rispetto a quella presso cui l’evento ebbe a verificarsi- il Collegio ha osservato che la motivazione, con cui la sentenza impugnata aveva escluso la rilevanza del caso fortuito e la mancanza di “colpa”, era corretta e condivisibile atteso che l’eventuale ascrivibilità dell’evento al mancato intervento ed alla negligenza nel predisporre il sistema di gestione e controllo dell’impianto in capo alla società T. -cui sarebbe stata, nell’ottica difensiva, imputabile in via esclusiva la responsabilità dell’accaduto- non valeva tuttavia ad escludere la responsabilità della società titolare dell’impianto da cui ebbe a promanare lo sversamento illecito.
A carico di quest’ultima, infatti, ricadeva certamente l’obbligo di impedire l’evento, donde il nesso di causalità tra la condotta (non importa se omissiva o commissiva) del o dei soggetti titolari della relativa posizione di garanzia non veniva meno per effetto dell’eventuale negligenza della T., configurandosi, in tal caso, un concorso di cause ex art. 41, comma 1, cod. pen.
Del resto, ha ricordato la Corte, il guastomeccanico -quand’anche dovuto, come nel caso in esame, a più fattori concausali- non esonera da responsabilità il titolare dell’impianto essendo in tal caso ascrivibile una responsabilità non certo “oggettiva”, ma indubbiamente “colposa”, posto che il fatto in sé del guasto nel funzionamento dell’impianto di depurazione, senza che sia individuabile una causa, per sua natura imprevedibile od inevitabile, lungi dall’escludere, vale a comprovare l’insufficienza delle misure predisposte e, dunque, a dimostrare la responsabilità del soggetto, quanto meno a titolo di colpa.
In relazione al secondo motivo, limitatamente alla posizione del P., la Suprema Corte ha sostenuto che nessun rilievo poteva muoversi alla sentenza impugnata quanto alla posizione del predetto, qualificato come direttore tecnico cui spettava la gestione “tecnica” dell’impianto.
Invece, quanto alla posizione della M., amministratore unico della società, la quale era stata ritenuta responsabile dal giudice di merito per il “ruolo tecnico più defilato”, il Collegio ha rilevato che effettivamente la sentenza impugnata appariva carente sotto il profilo motivazionale, non specificando il giudice le ragioni per le quali alla stessa era stato attribuito detto ruolo, non rinvenendosi nel percorso argomentativo elementi probatori o di natura indiziaria idonei a pervenire a tale approdo, né avendo il giudice motivato sotto il profilo dell’omessa vigilanza sull’operato del direttore tecnico o sulla presunta “culpa in vigilando” della M., profili in base ai quali avrebbe potuto essere giustificata una responsabilità dell’amministratore unico della società.
L’impugnata sentenza è stata annullata con rinvio per colmare il deficit motivazionale in ordine all’individuazione di profili di effettiva corresponsabilità della M. nella gestione della fonte di rischio costituita dall’impianto, in presenza di un soggetto, il P., delegato espressamente alla gestione tecnica dell’impianto della società (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31262 - Ambiente & sviluppo 8-9/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: AUTOLAVAGGIO: NATURA PERSONALE DELL’AUTORIZZAZIONE ALLO SCARICO DEI REFLUI.
Acque - Attività di autolavaggio - Carattere personale dell’autorizzazione allo scarico dei reflui - Mutamento di titolarità dell’impresa - Necessità del rilascio di una “nuova” autorizzazione
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Attesa la natura personale dell’autorizzazione allo scarico dei reflui, deve escludersi che, in caso di mutamento della titolarità dell’impresa da cui promana lo scarico, possa considerarsi automaticamente autorizzato il soggetto subentrante essendo invece necessario il rilascio di una “nuova” autorizzazione allo scarico dei medesimi reflui.
Il Tribunale condannava tal L. per aver effettuato uno scarico in pubblica fognatura senza autorizzazione dei reflui derivanti da attività di autolavaggio.
Nel proposto ricorso per cassazione il L. così riassumeva le vicende amministrative che avevano interessato l’attività: la società amministrata dall’imputato era subentrata nella titolarità dell’attività svolta dalla società N.E.C. in forza di atto del 29.03.2010; la società cedente era titolare di autolavaggio, per il cui svolgimento era stata autorizzata con atto del 15.04.2009; tale autorizzazione era stata preceduta dall’autorizzazione allo scarico rilasciata dal gestore del servizio pubblico integrato; la società cedente aveva iniziato l’attività di autolavaggio senza rilievi da parte della P.A.; quando il L. era subentrato alla N.E.C. non aveva chiesto la voltura dell’autorizzazione allo scarico, voltura che era stata richiesta solo in data 16.06.2011 ed esitata positivamente il 21.06.2011 conseguendone, secondo il ricorrente, che, trattandosi di una voltura, l’autorizzazione allo scarico già concessa alla N.E.C. era proseguita in capo al L. senza soluzione di continuità. Al definitivo, secondo il ricorrente nessuno scarico abusivo poteva ritenersi sussistente.
La Cassazione ha motivato l’annullamento con rinvio per le ragioni che seguono.
In primo luogo, è stato rilevato che era condivisibile quanto argomentato dall’imputato alla luce della lettura della documentazione amministrativa, da cui risultava che la società cedente era titolare di un’autorizzazione allo scarico dei reflui derivanti dall’attività di autolavaggio di auto “al pubblico”, antecedente al subentro del L. nel 2010. Ma nel contempo, è stato osservato che era corretto quanto affermato dal Tribunale vale a dire che, all’atto del subentro del L. (ossia, alla data del giugno 2011, in cui questi ebbe a “volturare” la precedente autorizzazione) questi non poteva ritenersi autorizzato allo scarico.
Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza, l’autorizzazione allo scarico è rilasciata intuitu personae e, quindi, chi subentra al precedente titolare è tenuto a munirsi di una nuova e specifica autorizzazione, non potendosi limitare alla mera richiesta di “volturare” a suo favore quella già in essere. Si è infatti detto che, in tema di scarichi di acque reflue da insediamento produttivo, il titolare di una nuova impresa, subentrata ad altra non può giovarsi dell’autorizzazione rilasciata al precedente titolare dell’impresa sostituita, ma deve munirsi di nuova specifica autorizzazione.
Nella specie, la domanda del giugno 2011 presentata dal L. si limitava alla mera richiesta di “voltura” della precedente autorizzazione allo scarico, e perciò non poteva considerarsi equipollente ad una nuova richiesta di autorizzazione. Neppure rilevava la circostanza che nel 2013, in sede di “rinnovo” richiesto dal L., l’ente gestore del servizio di pubblica fognatura avesse sostanzialmente confermato che l’autorizzazione rilasciata nel 2009 consentiva al L. di “scaricare” i reflui derivanti dal lavaggio delle autovetture.
Tuttavia, confermata sul piano oggettivo la sussistenza del reato contestato, la Suprema Corte ha ritenuto che la motivazione del Tribunale sull’elemento soggettivo dovesse essere rivalutata sotto il profilo dell’eventuale buona fede “scusante” idonea a determinare il venir meno dell’elemento psicologico del reato per cui si procede. Infatti, il tribunale non aveva considerato l’incidenza che, sul convincimento soggettivo del reo, aveva indubbiamente esplicato il comportamento complessivo della Pubblica Amministrazione -che peraltro non aveva mai svolto osservazioni in ordine alla legittimità della procedura seguita dall’interessato (in particolare, per quanto concerne la “voltura” della precedente autorizzazione)- sicché egli era stato sostanzialmente “indotto” dalla stessa Amministrazione a proseguire nell’attività di gestione dell’autolavaggio abusivamente svolta.
La tematica andava perciò rivista alla luce della giurisprudenza che ha affermato che, nei reati contravvenzionali, l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore e sull’illiceità della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2017 n. 31261 - Ambiente & sviluppo 8-9/2017).

EDILIZIA PRIVATA: ALVEO FLUVIALE, SDEMANIALIZZAZIONE.
Corso d’acqua, fenomeno alluvionale, area abbandonata dalle acque, perdita della demanialità dell’area
Art. 942 cod. civ.; Legge 05.01.1994, n. 37
A seguito della deviazione o dello spostamento del corso dell’acqua, una porzione di terreno, che prima costituiva parte integrante dell’alveo, cessa di appartenervi, di talché anche l’ipotesi del ritiro di una sola sponda comporta la perdita della demanialità del relativo terreno, ai sensi dell’art. 942 cod. civ., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte con la Legge n. 37 del 1994.
Un Comune ingiungeva la demolizione di un fabbricato in quanto insistente su area demaniale, costituita dall’alveo di un fiume.
La controversia oggetto della pronuncia in commento concerne la demanialità o meno di detta area in seguito ad un fenomeno alluvionale; concerne, quindi, la perdita o meno della demanialità dell’area in questione, in quanto abbandonata dalle acque correnti.
All’esito del giudizio di merito, veniva affermata la natura demaniale dell’area. Pertanto l’ingiunto ricorreva in cassazione, la quale accoglie il ricorso.
La Suprema Corte, nel premettere che l’accertamento della natura demaniale di un terreno in seguito ad un fenomeno alluvionale non può certo determinarsi soltanto sulla base delle risultanze catastali e delle trascrizioni formate in epoca precedente alla realizzazione del fenomeno alluvionale, si concentra sulla norma dettata dall’art. 942 cod. civ.
L’originaria versione della norma prevedeva che “il terreno abbandonato dall’acqua corrente, che insensibilmente si ritira da una delle rive portandosi sull’altra, appartiene al proprietario della riva scoperta, senza che il confinante della riva opposta possa reclamare il terreno perduto”.
L’articolo in questione è stato poi modificato (ad opera Legge 05.01.1994, n. 37) nel senso che i terreni abbandonati dalle acque correnti “appartengono al demanio pubblico”.
La novella, quindi, esclude la c.d. sdemanializzazione dei terreni in questione.
Al riguardo la Cassazione osserva però, contrariamente a quanto invece affermato nella decisione impugnata, che la nuova disposizione è priva di efficacia retroattiva (si veda al riguardo Cass., 06.02.2007, n. 2608; Cass., SS.UU., 26.07.2002, n. 11101; Cass., 14.01.1997, n. 300).
Ciò posto, la pronuncia impugnata afferma che gli alvei dei fiumi e dei torrenti, costituiti da quei tratti di terreno sui quali l’acqua scorre fino al limite delle piene normali, rientrano nell’ambito del demanio idrico, per cui (in tal senso di vada Cass., 29.03.1976, n. 1127; Cass., SS.UU., 18.12.1998, n. 12701):
   - le sponde o rive interne -ossia quelle zone soggette ad essere sommerse dalle piene ordinarie- sono comprese nel concetto di alveo e costituiscono quindi beni demaniali;
   - le sponde e rive esterne, le quali, essendo soggette alle sole piene straordinarie, appartengono ai proprietari dei fondi rivieraschi, e sulle quali può perciò insistere un manufatto occupato da persone.
Tutto ciò considerato, la Cassazione afferma che la questione della perdita o meno della demanialità dell’area abbandonata dalle acque correnti, nella vigenza dell’art. 942 cod. civ., nel testo anteriore alla novella del 1994, va risolta nel senso che l’alveo abbandonato fisiologicamente perdeva, comunque, il suo connotato “naturale” di demanialità.
Ciò, alla luce di una lettura coordinata della norma contenuta nell’art. 942 cod. civ., nel quadro dei principi regolatori delle vicende dei beni demaniali: difatti, spiegano i Giudici di legittimità, in quel contesto normativo, la demanialità veniva estesa al terreno interessato dallo scorrimento delle acque pubbliche in considerazione dalla funzione, che esso assumeva, di supporto e contenimento del corso ordinario del fiume, per cui veniva automaticamente meno in conseguenza di fenomeni non transitori incidenti in senso terminativo su quella funzione (in tal senso Cass., 09.10.1991, n. 10607).
Peraltro, aggiunge la Cassazione richiamando l’art. 942 cit., l’abbandono della sponda di un fiume, che non abbia carattere transitorio, e che non venga determinata da attività antropica, comporta la perdita della demanialità anche quando a detto abbandono non corrisponda una perdita di terreno da parte del confinante della riva opposta, che, ai fini della rilevata perdita di funzione di supporto e di contenimento, non assume alcun rilievo (si veda in argomento Cass., 17.07.1969, n. 2640).
In conclusione, deve quindi affermarsi che a seguito della deviazione o dello spostamento del corso dell’acqua, una porzione di terreno, che prima costituiva parte integrante dell’alveo, cessa di appartenervi, di tal che anche l’ipotesi del ritiro di una sola sponda comporta la perdita della demanialità del relativo terreno, ai sensi dell’art. 942 cod. civ., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte con la Legge n. 37 del 1994 (
Corte di Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 13.06.2017 n. 14645 - Ambiente & sviluppo 8-9/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO DI RIFIUTI: “ASSOLUTA OCCASIONALITÀ”.
Rifiuti - Trasporto di materiale ferroso - Qualificazione della condotta posta in essere dal soggetto attivo - Rilevanza della “assoluta occasionalità” - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 è sufficiente per integrare il reato a tali fini fattispecie penale, ma la stessa deve costituire una “attività”, tale non essendo, in ragione proprio della testuale espressione usata dal legislatore, la condotta caratterizzata da «assoluta occasionalità» (nella specie è stata annullata con rinvio la condanna di un soggetto che era stato colto a trasportare 100 kg di materiale ferroso( tipo rame) ricavato dalla pulizia della cantina e del garage di un amico).
Tal R.M. veniva condannato dal Tribunale per il reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere trasportato 100 kg di materiale ferroso (tipo rame) in mancanza della prescritta autorizzazione.
Nel proposto ricorso, il R. premetteva che era stato incaricato di provvedere alla pulizia della cantina e del garage dell’amico C.e di essersi poi recato con gli oggetti di rame derivanti da tale attività presso un deposito di rottami per verificarne le possibilità di rivendita.
Ciò posto, deduceva violazione dell’art. 256, comma 1, e mancanza di motivazione quanto allo status soggettivo rispetto alla natura propria del reato e alla qualificazione del trasporto. Censurava in particolare che la sentenza, al fine di desumere la sussistenza della veste soggettiva richiesta, avesse affermato essere stato utilizzato un mezzo apposito di trasporto: al riguardo, la sentenza non spiegava perché la vettura usata (una Ford Fiesta) era appunto «mezzo apposito» e non invece il mezzo appositamente usato per spostarsi mentre, con riguardo agli altri elementi ordinariamente indicativi dello svolgimento di un’attività imprenditoriale, ovvero natura e provenienza dei materiali e quantità e qualità dei soggetti, nulla la sentenza aveva affermato.
La Cassazione ha ritenuto la fondatezza del ricorso con cui si contestava, in sostanza, la riconducibilità della condotta realizzata dall’imputato all’interno della previsione dell’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006.
Infatti, analizzando i requisiti che la condotta posta in essere dal soggetto attivo deve possedere per essere qualificata come “attività di gestione di rifiuti” penalmente sanzionata, la Corte ha ricordato che, pur se sia sufficiente a tali fini anche una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative tipizzate dalla fattispecie penale, la stessa deve, tuttavia, costituire una “attività”, tale non essendo, dunque, in ragione proprio della testuale espressione in tal modo usata dal legislatore, la condotta caratterizzata da assoluta occasionalità.
In particolare, la rilevanza della “assoluta occasionalità” ai fini dell’esclusione della tipicità deriva non già da una arbitraria delimitazione interpretativa della norma, bensì, appunto, dal tenore della fattispecie penale, che, punendo la “attività” di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione, concentra il disvalore d’azione su un complesso di azioni, che, dunque, non può coincidere con la condotta assolutamente occasionale.
Quanto allora alla individuazione di una tale caratteristica, idonea a sottrarre la condotta al disvalore di natura penale, la Suprema Corte ha ribadito che l’assoluta occasionalità non può essere affermata od esclusa semplicemente sulla base della natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore, ecc.) dovendo invece essere valutati indici dai quali poter desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura esclusivamente solipsistica della condotta (tra gli altri, il dato ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, la necessità di un veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, ecc.).
Secondo la Cassazione, la sentenza impugnata, pur avendo correttamente dato atto della necessità, ai fini della configurabilità del reato ascritto all’imputato, di un minimo di organizzazione della condotta (ciò che consentirebbe di escludere l’assoluta occasionalità), non aveva dato esaustiva e logica motivazione di ciò: infatti, a fronte di un trasporto incontrovertibilmente generato dalla dismissione di quanto era contenuto nel locale cantina del C., che aveva affidato a R. gli oggetti che ivi si trovavano e di cui voleva disfarsi (ovvero, di una fattispecie significativamente indicativa, in linea astratta, di assoluta occasionalità), ha innanzitutto valutato, da un lato, il quantitativo non esiguo di 100 kg (senza tuttavia considerare che lo stesso era appunto, come risultante dalla stessa sentenza, quanto già contenuto nella cantina sgombrata, a quanto pare, in un unico contesto temporale) e, dall’altro lato ha ritenuto a tal fine predisposto un mezzo apposito di trasporto senza tuttavia precisare perché, a fronte della ovvia necessità di disporre di un mezzo (atteso che, diversamente, non si sarebbe neppure in presenza di un “trasporto”), la utilizzazione della non meglio qualificata Ford Fiesta significherebbe apprestamento di un mezzo apposito.
È perciò seguito l’annullamento con rinvio al Tribunale per nuovo esame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2017 n. 24115 - Ambiente & sviluppo 7/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA DEI RIFIUTI IN FORMA AMBULANTE.
Rifiuti - Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante - Disciplina in deroga - Esclusione
Art. 266, D.Lgs. n. 152/2006; art. 6, Legge n. 210/2008
In tema di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante in genere e, nel caso dei rifiuti metallici, di attività effettuata antecedentemente all’entrata in vigore del comma1-bis dell’art. 188 D.Lgs. n. 152/2006, occorre che il detentore sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del commercio cui sia effettivamente applicabile detta disciplina e che detti rifiuti non siano qualificabili come pericolosi o non siano riconducibili, per le loro peculiarità, a categorie autonomamente disciplinate.
Nella specie, tre persone erano state condannate dalla Corte d’Appello di Palermo per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen., 6 lett. d), Legge n. 210/2008 per aver effettuato, in assenza di valido titolo abilitativo, l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti speciali pericolosi, quali componenti meccaniche intrise di olio lubrificante ed una fotocopiatrice, rifiuto di apparecchiature elettriche ed elettroniche.
Nel proposto ricorso, il L.V. rappresentava che era in possesso di tutte le autorizzazioni necessarie allo svolgimento dell’attività di commercio ambulante di rottami ferrosi (d.i.a. presentata al SUAP del Comune di Palermo, visura storica della Camera di commercio, certificato di attribuzione di partita IVA), sicché avrebbe potuto legittimamente trasportare i rottami ferrosi che formavano oggetto del suo commercio, trovando applicazione quanto disposto dall’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006.
La Suprema Corte non è stata della stessa opinione.
Invero, il Tribunale aveva preso in esame il contenuto dell’autorizzazione al commercio in possesso del L.V., dando conto della genericità dei contenuti ed escludendo che la stessa potesse ritenersi valido titolo per il trasporto dei rifiuti. Dal diretto esame del materiale fotografico agli atti, emergeva che oggetto del trasporto, oltre alla fotocopiatrice, erano “due blocchi di motore di autovettura con le relative coppe dell’olio montate, intrisi di olio minerale”, con la conseguenza che i suddetti rifiuti andavano qualificati come pericolosi e non rientravano, quindi, tra quelli oggetto dell’autorizzazione al commercio ambulante in possesso del prevenuto.
La Cassazione ha quindi ricordato i principi affermati in passato in ordine al commercio ambulante di rifiuti. Si è in particolare affermato (Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc. Lazzaro, in questa Rivista 2014, 817) che la condotta sanzionata dall’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo Decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all’esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità ed, inoltre, che la deroga prevista dall’art. 266, comma 5, per l’attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale in forma ambulante, ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall’altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio.
La Corte ha poi rilevato che, tenendo presente quanto stabilito dal D.Lgs. n 114/1998, deve farsi in primo luogo riferimento alla definizione, contenuta nell’art. 4, comma 1, lett. b) di “commercio al dettaglio”, descritto come “l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale” e che la disciplina astrattamente applicabile è quella regolata dal Titolo X, relativo al commercio al dettaglio su aree pubbliche, queste ultime definite, dall’art. 27, comma 1, lett. b), come “le strade, i canali, le piazze, comprese quelle di proprietà privata gravate da servitù di pubblico passaggio ed ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso pubblico”.
L’attività commerciale esercitabile è, inoltre, quella indicata dall’art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che può essere svolta “su qualsiasi area purché in forma itinerante” e soggetta all’autorizzazione di cui al successivo comma 4, rilasciata, in base alla normativa emanata dalla Regione, dal Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica, intende avviare l’attività. Veniva ulteriormente chiarito che il raccordo tra le disposizioni in tema di commercio e l’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006, considerato il tenore letterale delle prime, è reso particolarmente arduo, pur evidenziando che ciò non autorizza una forzata estensione dell’ambito di operatività della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 114/1998, che risulta compiutamente definita, né di quella dell’art. 266, comma 5 che, riguardando la materia dei rifiuti, richiede una lettura orientata all’osservanza dei principi generali comunitari e nazionali e, prevedendo un’esclusione dal regime generale dei rifiuti, impone sicuramente un’applicazione restrittiva.
La sentenza ha pertanto puntualizzato che l’applicazione della disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal contenuto letterale dell’art. 266, comma 5 e, segnatamente, dell’ultima parte della disposizione, laddove l’esonero dall’osservanza della disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore merceologico entro il quale il commerciante è abilitato ad operare deve essere oggetto di adeguata verifica, così come la riconducibilità del rifiuto trasportato all’attività autorizzata.
Su questa premessa, la Corte ha specificato che la sentenza sopra richiamata n. 29992/2014 aveva delimitato l’ambito di efficacia della deroga di cui all’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 alle sole ipotesi in cui sia effettivamente applicabile la disciplina sul commercio ambulante di cui al D.Lgs. n. 114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata dall’interessato ed accertata in fatto dal giudice del merito, escludendosi, conseguentemente, che l’attività di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti, per lo più, in rottami ferrosi possa rientrare nella nozione di commercio ambulante come individuata dal menzionato decreto del 1998 (cfr. Cass. n. 2872 del 17.12.2014, Massa, in questa Rivista, 2015, 598).
Inoltre, dando conto della successiva introduzione, ad opera dell’art. 30 Legge n. 221/2015, all’interno dell’art. 188 D.Lgs. n. 152/2006, del comma 1-bis, il cui ultimo periodo recita testualmente che “alla raccolta e al trasporto dei rifiuti di rame e di metalli ferrosi e non ferrosi non si applica la disciplina di cui all’articolo 266, comma 5”, la Corte ha chiarito che il reato di cui all’art. 256 è configurabile anche in relazione alle condotte non autorizzate di raccolta e trasporto di rifiuti metallici esercitate in forma ambulante, poste in essere prima dell’entrata in vigore del menzionato comma 1-bis dell’art. 188, specificando che la valutazione della rilevanza penale delle condotte anteriori alla novella richiede tuttora l’accertamento dell’esistenza e validità del titolo abilitativo al commercio e della riconducibilità del rifiuto all’attività autorizzata, mentre tale verifica non occorre per le condotte successive, avuto riguardo all’inapplicabilità “tout court” della deroga di cui al citato comma quinto dell’art. 266 (cfr. Cass. n. 23908 del 19.04.2016, P.M. in proc. Butera e altri, in questa Rivista, 2016, 594).
Alla luce di quanto richiamato, osservato che, nel caso di specie, indipendentemente dalla pericolosità o meno del rifiuto, emergeva chiaramente, dalla semplice lettura del capo di imputazione, che i rifiuti trasportati dagli imputati, trattandosi di una fotocopiatrice e di parti meccaniche di autovetture, rientravano, rispettivamente, nella categoria dei rifiuti elettrici ed elettronici (RAee), disciplinati dal D.Lgs. 14.03.2014, n. 49 e tra quelli ricompresi nelle disposizioni riguardanti i veicoli fuori uso: tali categorie particolari di rifiuti, separatamente apprezzate dal legislatore per la loro particolarità, non possono rientrare tra quelle considerate ai fini della deroga medesima, se non altro perché la loro gestione risulta disciplinata in ragione della particolarità del rifiuto, cosicché correttamente i giudici del merito avevano escluso l’operatività della deroga di cui all’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006 escludendo perciò che tali rifiuti possano essere raccolti, trasportati e commercializzati in forma ambulante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.04.2017 n. 19209 - Ambiente & sviluppo 6/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RESIDUI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Residui da demolizione - Classificazione come sottoprodotti - Esclusione
Art. 184-bis, 256, D.Lgs. n. 152/2006
I residui da demolizione non sono classificabili come sottoprodotti non rientrando la demolizione nella nozione di “processo di produzione”. In ogni caso, ai fini del rispetto dei requisiti dettati dall’art. 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006, non ricorre la certezza della riutilizzazione in un processo produttivo se il materiale non sia reimpiegato nel «successivo processo produttivo nel medesimo cantiere edile», bensì sia interrato negli scavi di fondazione di un nuovo manufatto.
La Corte d’Appello confermava la sentenza del Tribunale con la quale gli imputati erano stati condannati perché, in concorso tra loro, avevano realizzato una discarica abusiva mediante lo smaltimento di materiale proveniente da demolizione di un capannone; il Giudice di secondo grado aveva tuttavia riqualificato il fatto come violazione dell’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, anziché del comma 3.
Nel proposto ricorso per cassazione, gli imputati, dopo aver richiamato l’evoluzione normativa in tema di sottoprodotti e terre e rocce da scavo e la nuova definizione di sottoprodotto, asserivano che i materiali smaltiti nel caso di specie rientravano in questa categoria perché erano stati generati dalla demolizione di un immobile preesistente, con ricostruzione di un nuovo immobile, ed erano stati reimpiegati, con impatto ambientale nullo.
La Cassazione, nel ritenere i ricorsi infondati, ha ricordato che è stata più volte affermata la non riconducibilità dei residui da demolizione alle categorie delle materie prime secondarie o dei sottoprodotti, quando non siano destinati, fin dalla loro produzione, all’integrale riutilizzo senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale.
La Corte ha poi ribadito che i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all’abbandono, salvo che l’interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l’applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al “deposito temporaneo” o al “sottoprodotto”.
La sentenza ha quindi sostenuto che la prospettazione difensiva, quanto alla ricorrenza delle condizioni per ricondurre i materiali oggetto dell’imputazione alla categoria dei sottoprodotti (o a quella delle “materie prime secondarie”), era in parte incompleta, perché non prendeva compiutamente in considerazione i requisiti di cui alle lettere c) e d), dell’art. 184-bis e in parte smentita dalla giurisprudenza che, quanto ai requisiti delle lettere a) e b), afferma che gli stessi non possono essere ritenuti sussistenti per i residui da demolizione, non rientrando la demolizione nella nozione di “processo di produzione”.
Quanto, infine, alla certezza della riutilizzazione in un processo produttivo, la Corte ha replicato alla difesa che affermava che il materiale era stato reimpiegato nel «successivo processo produttivo nel medesimo cantiere edile», che, invece, si trattava del semplice interramento negli scavi di fondazione di parte di detti materiali (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2017 n. 16431 - Ambiente & sviluppo 6/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: IMBRATTAMENTO “COLPOSO” DI COSE ALTRUI.
Movimentazione dei rifiuti – Rifiuti di plastica trasportati dal vento – Profilo colposo dell’addebito – L’imbrattamento colposo non è previsto dalla legge come reato – Deturpamento e imbrattamento di cose altrui di cui all’art. 639, c.2, cod. pen. – Reato getto pericoloso di cose ex art. 674, cod. pen. – Qualificazione giuridica del fatto, configurabilità del reato ed esclusione.
Art. 632, 674, cod. pen.
Non integra la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. il fatto che rifiuti in plastica, trasportati dal vento, invadano una proprietà viciniore, bensì il delitto di imbrattamento di cose altrui di cui all’art. 639, comma 2, cod. pen. (nella specie, si è tuttavia ritenuto che era evidente il profilo colposo dell’addebito sicché la sentenza impugnata è stata annullata perché l’imbrattamento colposo non è previsto dalla legge come reato).
Il Tribunale condannava il legale rappresentante dell’impresa L.M. per la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. perché, nella attività di movimentazione dei rifiuti, aveva imbrattato la proprietà di un vicino attraverso i rifiuti in plastica trasportati dal vento.
La Cassazione ha ritenuto fondate le critiche sollevate dalla difesa in ordine al profilo sotto il quale è stata ravvisata la violazione della norma penale. Il Tribunale infatti aveva affermato che «la dispersione dei rifiuti che invasero in modo apprezzabile il terreno del S., per la quantità e qualità dei rifiuti era idonea a creare gli effetti dannosi richiesti dall’art. 674, cod. pen., sotto il profilo dell’imbrattamento del terreno altrui».
La Corte ha invece rilevato che l’imbrattamento delle cose è conseguenza della condotta estranea alla fattispecie dell’art. 674 cod. pen., trattandosi, invece, di evento tipico del delitto di deturpamento e imbrattamento di cose altrui di cui all’art. 639, comma 2, cod. pen. Il fatto storico è stato perciò riqualificato come delitto e poiché era evidente il profilo colposo dell’addebito, la sentenza è stata annullata perché il fatto (imbrattamento colposo) non è previsto dalla legge come reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.02.2017 n. 7166 - Ambiente & sviluppo 4/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIUTILIZZO DI MACERIE E RIFIUTI SPECIALI.
Rifiuti - Rifiuti da demolizione di fabbricato - Riutilizzazione degli stessi, unitamente ad altri rifiuti, per compattare una strada carraia - Reato
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra il reato di cui all’art. 256, D.Lgs. n. 152/2006 collocare in una strada carraia, mediante opere di compattamento eseguite con l’ausilio di mezzi meccanici, rifiuti speciali costituiti da macerie derivanti da opere di costruzione e demolizione di fabbricato frammisti a plastica, ferro, vetro.
Nella specie due soggetti erano stati condannati per avere effettuato attività di gestione di rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da macerie derivanti da opere di costruzione e demolizione di fabbricato frammisti ad altri rifiuti speciali: era, infatti, emerso che i rifiuti erano stati smaltiti sul manto della strada carraia mediante opere di compattamento eseguite con l’ausilio di mezzi meccanici.
Nel contestare con apposito ricorso tale decisione, uno dei prevenuti asseriva di avere immesso nella strada carraia macerie di demolizione provenienti dai lavori edili che aveva in corso e perciò riteneva che nessuna preventiva autorizzazione da parte della provincia occorresse per riutilizzare questi materiali.
La Suprema Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza dell’impugnazione perché il giudice di prime cure aveva posto in luce la circostanza che nella strada erano stati posizionati “veri e propri rifiuti” atteso che, unitamente alle macerie, erano presenti plastica, ferro, vetro e che, in ogni caso, le macerie collocate dall’imputato non provenivano dai lavori edili che stava eseguendo nel terreno di sua proprietà: infatti, secondo quanto riferito da un teste, l’imputato stava procedendo alla realizzazione ex novo del manufatto, mentre quelle presenti nella carraia erano macerie da demolizione da classificare pacificamente come rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.01.2017 n. 4187 - Ambiente & sviluppo 4/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: IGNORANZA DELLA NORMATIVA DI SETTORE: QUANDO È SCUSABILE.
Rifiuti - Conferimento di rottami ferrosi - Legge penale - Ignoranza - Scusabilità - Condizioni - Fattispecie
art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 5, cod. pen.
In tema di gestione abusiva di rifiuti, l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore è idonea ad escludere la colpa soltanto se indotta da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della pubblica amministrazione (nella fattispecie, l’imputata, cui era stato contestato il trasporto e conferimento di 180 quintali di rottami di vario tipo, avrebbe dovuto quanto meno informarsi presso l’autorità competente se la propria condotta necessitasse di autorizzazione, come in effetti previsto dalla normativa di settore).
Nel caso di specie si discuteva dell’attività svolta da tal N.F. che, tra il mese di novembre 2011 e il marzo 2012, benché non iscritta all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, aveva conferito in un centro di raccolta di rottami ferrosi 180 quintali di rottami di vario tipo. Il Tribunale l’aveva condannata per il reato di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., e 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006.
Nel ricorrere avverso detta sentenza, la prevenuta invocava la propria buona fede basata sulla invocata applicabilità della Circolare della Provincia di Cuneo del 03.07.2006 che, interpretando l’(allora) art. 58, comma 7-quater, D.Lgs. n. 22/1997 (oggi art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006) alla luce dell’abrogazione della norma (l’art. 121 TULPS) istitutiva del registro degli esercenti dei mestieri girovaghi, aveva escluso dagli obblighi in materia di raccolta e trasporto di rifiuti «i nomadi, coloro che esercitano mestieri girovaghi, le persone senza fissa dimora, le associazioni “no profit”, le Parrocchie e, in generale, tutti coloro che svolgono tali attività, ma che non costituiscono impresa».
La Cassazione ha respinto il ricorso ribadendo quanto sostenuto nella sentenza n. 35314 del 20.05.2016, Oggero, la cui motivazione è stata riportata per la sovrapponibilità del caso a quello scrutinato: «dev’essere qui ricordato, con le Sezioni Unite di questa Corte, che a seguito della sentenza 23.03.1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità.
Per il comune cittadino tale condizione è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto.
Ne discende, dunque, che, per chi non svolga professionalmente una attività nel settore di interesse -qual è l’imputata nella vicenda in esame-, la scusabilità dell’ignoranza della legge penale comporta necessariamente che questi assolva con il criterio dell’ordinaria diligenza -come sottolineato dalle Sezioni Unite-, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia (...)
Da ultimo, e conclusivamente sul punto, non può mancarsi di rilevare come anche al privato cittadino che intenda svolgere un’attività di gestione di rifiuti (nella specie, raccolta di rifiuti prodotti da terzi e consegna per fini di lucro degli stessi ad un operatore professionale) è infatti richiesto l’assolvimento di quella diligenza che richiede la cd. conoscenza parallela nella sfera laica o conoscenza da profano (sorta nel diritto tedesco come Parallelwertung in der Laiensphäre), nel senso che, per l’attribuibilità a titolo di colpa del fatto all’agente, occorre certamente che questi si rappresenti anche gli aspetti che fondano la rilevanza giuridica delle situazioni di fatto richiamate dalla fattispecie, e quindi è necessario che il reo abbia avuto consapevolezza -sia pure, appunto, secondo la “conoscenza parallela nella sfera laica”- che ciò che stava commerciando costituisse un bene soggetto ad un particolare regime di gestione. E, nel caso in esame, non può mettersi in dubbio che, anche senza una particolare avvedutezza, per poter commercializzare 430 kg. di rifiuti metallici occorresse quantomeno informarsi presso l’autorità se ciò poteva esser fatto del tutto liberamente o se occorresse invece una qualche forma di autorizzazione, nella specie l’iscrizione all’Albo Gestori, come previsto dalla normativa di settore, non essendosi peraltro trattato (...) della modesta gestione di un rifiuto costituito “una lattina vuota raccolta da terra” o di un episodio isolato di chi si disfi “di un armadio blindato” rivendendolo al centro di recupero”, ma di una condotta che, riferito ad un singolo conferimento, aveva riguardato quantitativi eccedenti ben quattro volte quello massimo annuale normalmente consentito dall’art. 193,comma quinto, d.lgs. n. 152 del 2006
».
La Corte ha perciò concluso nella presente vicenda che il ritenere di poter lecitamente effettuare senza autorizzazione più trasporti di rifiuti, in misura pari a 180 quintali con continuità ed in perfetta buona fede, sol perché così aveva sostenuto una circolare della Provincia e due sentenze di merito, non soddisfa il requisito dell’errore scusabile; il rimprovero, di natura alternativamente colposa, è anche (e soprattutto) quello di non aver approfondito il piano dell’indagine accontentandosi (ed in qualche modo profittando) di una circolare e di un paio di pronunce giurisdizionali per sottrarsi all’obbligo quantomeno di informarsi e/o di provare a chiedere il rilascio dell’autorizzazione o comunque l’iscrizione all’Albo.
Onde evitare che ciascun consociato si faccia misura dell’ambito di applicabilità della legge penale, è necessario che il dubbio sul precetto si trasformi in granitica certezza della liceità del proprio agire tale da escludere ogni benché minimo margine di dubbio. È altresì necessario che tale certezza sia instillata esclusivamente dall’esterno e non costituisca, invece, il frutto, ragionato o meno, di un personale convincimento. In presenza anche solo di un minimo dubbio, l’azione resta il frutto di un’opzione interiore ben precisa che tiene in conto la possibilità della natura antidoverosa dell’azione stessa (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.01.2017 n. 2996 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: EMISSIONI OLFATTIVE MOLESTE DA IMPIANTO AUTORIZZATO.
Emissioni in atmosfera - Molestia olfattiva - Reato - Immissioni nei limiti regolamentari - Irrilevanza
Art. 674 cod. pen.
Il rappresentante legale di una azienda che emette fumi, ancorché al di sotto dei limiti di legge, può essere condannato per il reato di cui all’art. 674 cod. pen. se l’attività sprigiona un odore fastidioso che mina il benessere di chi abita nelle vicinanze.
Il Tribunale condannava tale U., responsabile della gestione di un impianto di microforatura ad aghi caldi, per la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen. per avere provocato, in casi non consentiti dalla legge, emissioni di gas atte ad offendere le persone abitanti in prossimità del suddetto impianto.
La sentenza veniva impugnata sotto tre distinti profili. In primo luogo, il ricorrente deduceva l’erronea applicazione della Legge penale in relazione all’art. 674 cod. pen. e dell’allegato I alla Parte V del TUA: il Tribunale aveva erroneamente ritenuto integrato il reato in una ipotesi di emissioni olfattive, promananti da un impianto autorizzato e rispettoso dei relativi limiti d’emissione, originate da sostanze corrispondenti alle previsioni autorizzative da un punto di vista “tipologico e quantitativo”, definite come “Composti organici sotto forma di gas vapori o polveri”.
Trattandosi di composti “organici”, era ovvio che non poteva trattarsi di sostanze inodori. Pertanto, l’immissione autorizzata di determinate tipologie e quantità di sostanze volatili era comprensiva, negli stretti limiti autorizzati, anche della loro manifestazione all’olfatto, anche perché, diversamente opinando, dovrebbe irragionevolmente concludersi che l’ordinamento permetta e, all’un tempo, punisca uno stesso identico comportamento.
In secondo luogo, il ricorrente evidenziava che la sentenza individuava i limiti riportati nell’autorizzazione quale parametro per misurare la tollerabilità delle emissioni, ma, attraverso il richiamo al criterio della c.d. “stretta tollerabilità”, obliterava l’esistenza di limiti autorizzati. Invece, l’unico criterio utilizzabile, al di fuori del riferimento a regole positivamente legificate (cui sottintenderebbe l’inciso “nei casi non consentiti dalla legge”), sarebbe quello della “normale tollerabilità” di cui all’art. 844 cod. civ., che imporrebbe di valutare se sussistono accorgimenti tecnici trascurati, ovvero se, all’opposto, siano altri soggetti, come le stesse persone offese, a  non rispettare quei limiti.
Inoltre, facendo applicazione del criterio della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 cod. civ. il Tribunale avrebbe dovuto valorizzare il legittimo “preuso” del sito da parte dell’azienda, che, nel tempo, aveva adeguato le esigenze della produzione alle migliori tecniche disponibili, quantomeno ritenendo insussistente l’elemento soggettivo del reato.
Il ricorso è stato rigettato.
La sentenza in rassegna ha infatti ricordato che la stessa Sezione della Cassazione si è già pronunciata sull’argomento affermando che, anche nel caso in cui un impianto sia munito di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di produzione di “molestie olfattive” il reato di getto pericoloso di cose è, comunque, configurabile, non esistendo una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori. Di conseguenza, non può riconoscersi automatica valenza scriminante alla produzione di emissioni odorigene pur realizzata nell’ambito dell’ordinario ciclo produttivo dell’impresa, ancorché regolarmente autorizzato.
Non è stato condiviso neppure l’assunto difensivo secondo cui l’unicità e la coerenza dell’ordinamento non potrebbero consentire che da un lato sia permesso e, dall’altro, sia punito uno stesso identico comportamento, atteso che l’attività autorizzata potrebbe essere in ogni caso realizzata con modalità tali da garantire, grazie all’adozione di puntuali accorgimenti tecnici, il mancato prodursi di emissioni moleste o fastidiose.
Con riferimento alla tesi che, anche a voler ritenere astrattamente configurabile la contravvenzione, nel caso in cui ricorra un provvedimento che autorizzi determinate emissioni, nondimeno, per ritenere integrata la fattispecie in esame, si doveva far ricorso, al fine di valutare la liceità delle emissioni olfattive, al criterio della normale tollerabilità di cui all’art. 844 cod. civ., la Corte ha obiettato che discendeva dalla premessa già sviluppata, secondo cui non esiste una normativa statale che preveda disposizioni specifiche e valori limite in materia di odori, l’affermazione secondo cui il parametro alla stregua del quale valutare la legittimità dell’emissione deve essere individuato nel criterio della “stretta tollerabilità”, attesa la inidoneità di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art. 844 cod. civ., ad assicurare una protezione adeguata all’ambiente ed alla salute umana.
Infine, la Corte ha ribadito che il Tribunale aveva correttamente deciso sulla base delle sole testimonianze delle persone offese perché «la natura di reato di pericolo concreto e il peculiare criterio di valutazione della tollerabilità delle emissioni olfattive, comporta che sia sufficiente l’apprezzamento diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può logicamente trarre elementi per ritenere l’oggettiva sussistenza del reato a prescindere dal fatto che tutte le persone siano state interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non l’abbiano percepito affatto; non essendo nemmeno necessario un accertamento tecnico» (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.01.2017 n. 2240 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: REALIZZAZIONE DI TERRAPIENO CON RIFIUTI: È SMALTIMENTO.
Rifiuti - Ammasso residui di demolizioni edili su un terreno - Utilizzo dei rifiuti per realizzare un terrapieno - Attività di smaltimento - È tale
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra il reato di gestione di rifiuti, il riutilizzo di residui di demolizioni edili per la realizzazione di un terrapieno e per la stabilizzazione di una scarpata perché questa attività costituisce uno smaltimento sottoposto ad autorizzazione di legge.
P.A. e P.N. venivano condannati per avere, la seconda quale proprietaria di un fondo in Comune di Recaldone ed il primo quale usufruttuario del medesimo fondo, proceduto alla gestione di rifiuti, costituiti da residui di demolizioni edili, riutilizzandoli per la realizzazione di un terrapieno e per la stabilizzazione di una scarpata, in tal modo provvedendo al loro smaltimento in assenza delle autorizzazioni di legge; la sola P.N. era ritenuta responsabile anche per avere abbandonato sullo stesso terreno un’autovettura di sua proprietà invece che procederne alla rottamazione presso un centro a ciò autorizzato.
Procedendo all’esame delle censure formulate dai due ricorrenti, la Cassazione ha rilevato che, in primo luogo, essi deducevano l’insufficienza probatoria in ordine alla commissione dei fatti ascritti: tale doglianza, oltre ad essere inammissibile in Cassazione, era comunque destituita di fondamento avendo il Tribunale adeguatamente dimostrato che i prevenuti avevano utilizzato una rilevantissima quantità di rifiuti (pari a circa 1000 tonnellate), costituiti da residui di demolizioni edili, dei quali gli stessi avevano evidentemente consentito per lungo tempo a terzi il deposito all’interno del terreno del quale essi erano, rispettivamente, proprietaria ed usufruttuario, al fine di colmare una depressione esistente sullo stesso attraverso la realizzazione di un terrapieno.
Per la Suprema Corte la rilevantissima quantità di rifiuti depositati all’interno del fondo di pertinenza dei due imputati era sicuro indice, tanto più in quanto il fondo in questione era limitrofo alla abitazione degli imputati, del fatto che il deposito non era avvenuto nella mera negligente tolleranza dei due ricorrenti, ma era da costoro espressamente consentito dato l’utile che essi contavano di trarne, cioè il livellamento del terreno attraverso la realizzazione del terrapieno formato dall’ammasso dei detriti ivi conferiti.
La Cassazione ha invece ritenuto fondato il motivo di impugnazione avente ad oggetto la mancanza di un’autonoma rilevanza penale della condotta attribuita alla sola P.N. e consistente nello smaltimento della carcassa della vettura a lei intestata.
Infatti, «in relazione al reato contestato alla prevenuta, cioè la violazione dell’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 anche la eventuale pluralità sia di condotte realizzate fra quelle indicate dalla norma citata sia di generi di rifiuti speciali da esse implicati (tutti caratterizzati, peraltro, dalla comune appartenenza alla categoria dei rifiuti speciali non pericolosi), in quanto si tratta di fattori unificati da un unico intento ed in quanto cronologicamente ascrivibili ad un’unica complessiva volizione, non consente di sussumere le varie condotte o le varie tipologie di materiale costituenti il corpo del reato ciascuna in un’autonoma fattispecie di reato, dovendo, invece, le stesse essere unificate in un’unica contravvenzione, il cui effettivo grado di gravità sarà, peraltro, determinato, caso per caso, anche in funzione della eterogeneità e della pluralità delle condotte poste in essere nonché della entità più o meno ampia e più o meno varia del, o dei materiali oggetto di illecito trattamento».
La Corte ha perciò concluso che la condotta posta in essere dalla P., consistente nello smaltimento della carcassa della sua autovettura, non costituiva altro che una diversa modalità di realizzazione, quanto all’oggetto materiale, della più ampia attività criminosa a lei attribuita sub a) della rubrica contestata, senza che in essa fosse dato rinvenire un’autonoma rilevanza rispetto alla precedente condotta (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.01.2017 n. 1945 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ASSENZA DI LIMITI DI LEGGE E CRITERIO DELLA STRETTA TOLLERABILITÀ.
Emissioni moleste - Sostanze volatili - Creolina - Assenza di limiti di legge all’emissione - Criterio da impiegare per giudicare della liceità dell’emissione
Art. 674, cod. pen.
Tra le emissioni di gas, vapori o fumo atte ad offendere o imbrattare o molestare persone rientrano tutte le sostanze volatili che, come la creolina, emanano odori provocanti disturbo, disagio o fastidio alle persone. Non risultando stabiliti limiti di legge all’emissione di tale sostanza, il criterio da impiegare per giudicare della liceità o meno della stessa è quello della “stretta” e non della “normale” tollerabilità.
B.L. ricorreva avverso la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 674 cod. pen. contestatogli per avere versato in luogo di pubblico transito una sostanza di tipo “creolina”, lamentando l’errata applicazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato. In particolare, deduceva che, a seguito di petizioni con le quali l’imputato ed altri residenti si erano lamentati delle scarse condizioni igieniche del paese, il Comune aveva autorizzato l’uso della creolina quale disinfettante.
Censurava poi il ragionamento del Tribunale secondo cui la fattispecie era inquadrabile nella prima parte dell’art. 674 cod. pen. senza che assumesse alcun rilievo la liceità dell’emissione inquinante: a detta del ricorrente, in presenza di una regolare autorizzazione amministrativa, si realizzerebbe una sorta di inversione dell’onere probatorio a fronte del quale occorre dimostrare che l’emissione abbia comunque superato i parametri della normale tollerabilità sicché è irrilevante il disagio che il soggetto particolare e non invece la collettività intera, abbia ricevuto per effetto di un’azione di per sé già lecita.
La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.
Seppure, contrariamente a quanto argomentato dal Tribunale, la condotta contestata di utilizzo della creolina dovesse essere inquadrata nella seconda parte dell’art. 674 cod. pen. e non nella prima giacché, tra le emissioni di gas, vapori o fumo atte ad offendere o imbrattare o molestare persone rientrano tutte le sostanze volatili che, come quella di specie, emanano odori provocanti disturbo, disagio o fastidio alle persone, ciò non muta la conclusione cui è correttamente giunto il Tribunale in ordine alla illiceità dell’uso stesso: infatti, non risultando stabiliti dei limiti di legge, oltre i quali l’uso della sostanza di specie (autorizzato, a quanto sembra, sia pure in un secondo tempo dalla stessa amministrazione comunale) non potesse andare, il criterio da impiegare per giudicare della liceità o meno della stessa è quello della “stretta” e non della “normale” tollerabilità.
Le doglianze sul punto del ricorrente erano perciò infondate, mentre l’assunto difensivo circa l’occasionalità delle condotte era smentito in fatto da quanto argomentato in sentenza circa l’uso ripetuto delle sostanze (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.01.2017 n. 798 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO ABUSIVO E CONFISCA DEL VEICOLO DI TERZO.
Rifiuti - Trasporto abusivo - Confisca del veicolo utilizzato - Oneri del terzo proprietario del veicolo che invoca la restituzione delle cose sequestrate
Art. 256, 259, D.Lgs. n. 152/2006
Il terzo che invochi la restituzione del veicolo sequestrato in quanto utilizzato per trasportare rifiuti, qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto reale, è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità del diritto vantato, anche l’estraneità al reato e la buona fede, intesa come assenza di condizioni in grado di configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità dell’uso illecito del bene.
Nell’impugnare la sentenza del Tribunale che lo aveva condannato per avere eseguito un trasporto non autorizzato di rifiuti (costituiti da sedie a sdraio, lavatrici, contenitori in ferro, telai ed una scocca di un veicolo Ape 50), l’imputato lamentava la violazione dell’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 per l’errata affermazione della propria responsabilità nonostante l’occasionalità del trasporto, e la violazione dell’art. 260-ter dello stesso Decreto per l’illegittimità della confisca del veicolo utilizzato, di proprietà di un terzo, e di cui non avrebbe potuto essere disposta la confisca, essendo stato, nel frattempo, restituito alla proprietaria.
Il ricorso è stato rigettato.
In relazione al primo motivo, la Corte ha sottolineato l’irrilevanza, ai fini della configurabilità del reato, della mancanza di una veste professionale in capo all’autore del trasporto o della qualifica di imprenditore e ha sostenuto la sufficienza anche di una sola condotta tipica per poter ritenere integrato il reato.
In ordine al secondo motivo, la Corte ha osservato, prima di tutto, che la mancanza della disponibilità materiale del veicolo, restituito alla proprietaria prima della pronunzia della sentenza impugnata, che impedirebbe, ad avviso del ricorrente, di disporne la confisca (nella specie obbligatoria), non costituisce condizione per l’adottabilità del provvedimento ablatorio, non essendo ciò previsto né dall’art. 240 cod. pen. né dall’art. 259, D.Lgs. n. 152/2006, ma attiene, piuttosto, qualora il bene non sia sottoposto a vincolo, alla fase di esecuzione della confisca, per la quale occorrerà la ricerca e la materiale apprensione del bene, ma non impedisce di disporla, né la condiziona.
In merito alla prospettata estraneità del proprietario del veicolo al reato, la Cassazione ha ribadito che, al fine di evitare la confisca obbligatoria del mezzo di trasporto, il terzo estraneo al reato, individuabile in colui che non ha partecipato alla commissione dell’illecito ovvero ai profitti che ne sono derivati, ha l’onere di provare la sua buona fede, ovvero che l’uso illecito della res gli era ignoto e non è collegabile ad un suo comportamento colpevole o negligente.
Nella vicenda in esame, il Tribunale aveva escluso l’estraneità della terza proprietaria del veicolo al reato ed anche che la stessa avesse dimostrato di non aver posto in essere una condotta negligente, evidenziando come la proprietaria fosse la moglie dell’imputato e fosse a bordo del veicolo, a fianco all’imputato, allorquando il veicolo venne fermato in occasione del trasporto dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.12.2016 n. 55286 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO E SCARICO ABUSIVO: REATO ANCHE SE OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto e scarico abusivi di rifiuti originati in maniera occasionale e consequenziale ad altra attività primaria -Autore del reato- Titolare dell’impresa - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La configurabilità del reato di cui all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, prescinde dalla qualifica rivestita dall’agente, non trattandosi di un reato cosiddetto proprio, e quindi può essere commesso anche da chi si trovi a realizzare la condotta incriminata non nello svolgimento di un’attività primaria, ma in maniera occasionale e consequenziale ad altra attività principale (nella specie, i titolari di un’impresa operante nell’ambito delle costruzioni edili avevano trasportato e scaricato in un terreno di loro proprietà rifiuti costituiti da sfabbricidi, elettrodomestici in disuso e mobili deteriorati, originati dall’attività svolta).
I soci di un’impresa che avevano trasportato e raccolto in un terreno di loro proprietà rifiuti costituiti da sfabbricidi, elettrodomestici in disuso e mobili deteriorati, venivano condannati per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006.
Impugnando la sentenza, gli imputati deducevano che il reato loro contestato presupponeva lo svolgimento di un’attività organizzata di raccolta e smaltimento dei rifiuti, laddove il fatto accertato, a tutto voler concedere, riguardava un episodio isolato e non un atto di gestione di una discarica.
La Corte ha osservato che la quantità e la qualità dei rifiuti depositati presso il terreno in questione - pacificamente riconducibile ai due ricorrenti - era certamente frutto di reiterati conferimenti di materiali, verosimilmente originati dall’attività svolta dai prevenuti, operanti nell’ambito delle costruzioni edili.
La sentenza non ha accolto la tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo la quale, non svolgendo costoro stabilmente un’attività connessa alla gestione ed allo smaltimento dei rifiuti, non era possibile configurare nella loro condotta il reato contestato; infatti, secondo la costante giurisprudenza, la violazione dell’art. 256, comma 1, prescinde dalla qualifica rivestita dall’agente, non trattandosi di un reato cosiddetto proprio, essendo invece un reato comune che può, pertanto, essere commesso anche da chi si trovi a realizzare la condotta incriminata non nello svolgimento di un’attività primaria, ma in maniera occasionale e consequenziale ad altra attività principale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.12.2016 n. 52833 - Ambiente & sviluppo 3/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: REFLUI DA AUTOLAVAGGIO.
Acque - Attività di autolavaggio - Reflui prodotti - Natura di acque industriali - Sversamento su terreno - Reato
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Le acque reflue non ricollegabili al metabolismo umano o non provenienti dalla attività domestica hanno carattere industriale, per cui il relativo sversamento sul terreno integra il reato di scarico abusivo.
Il rappresentante di una società di autolavaggio veniva condannato per la contravvenzione di cui all’art. 137, D.Lgs. n. 152/2006 (così riqualificata l’originaria contestazione di cui all’art. 256, comma 1) per avere effettuato senza la prescritta autorizzazione, un versamento diretto sul nudo terreno delle acque reflue provenienti da un’attività di autolavaggio svolta dalla suddetta società: secondo quanto riferito dal teste di polizia giudiziaria, in occasione di un controllo effettuato da personale dell’Arpac era emerso che l’impianto di depurazione, costituito da diverse cisterne in cui sarebbero dovuti confluire i reflui dell’attività del predetto esercizio, presentava un tubo sottotraccia, il quale faceva, in realtà, defluire le acque accumulate verso un canale limitrofo e, in parte, sul nudo terreno; tutto ciò senza che vi fosse alcuna autorizzazione allo scarico dei reflui sul suolo.
Così accertati i fatti, il giudice di merito aveva inquadrato la fattispecie nell’alveo dell’art. 137 e, accanto al dato oggettivo dello sversamento dei reflui sul suolo, aveva ravvisato anche un profilo di colpa, consistente nel mancato apprestamento delle cautele necessarie ad evitare che gli scarichi derivanti dall’attività aziendale, pacificamente qualificabili come “rifiuto”, finissero sul nudo terreno.
Secondo il ricorrente, che aveva proposto ricorso per cassazione avverso la predetta sentenza, il giudice aveva applicato una errata nozione di “scarico”, atteso che mentre l’originaria formulazione dell’art. 74, comma 1, lett. ff), D.Lgs. n. 152/2006 qualificava come scarico “qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione”, il nuovo testo, conseguente alla modifica apportata con il D.Lgs. n. 4/2008 restringeva la relativa nozione, definendo lo scarico come “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collegamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione delle acque reflue con il corpo recettore”.
Pertanto, considerato che in occasione del sopralluogo era stato constatato che le acque dell’attività di autolavaggio refluivano nelle vasche per lo smaltimento, mentre nel tubo rinvenuto dagli accertatori erano confluite anche le acque piovane, la ricordata nozione di scarico, ad avviso del ricorrente, era inapplicabile al caso di specie.
Il ricorso è stato rigettato.
Infatti, secondo la Cassazione, diversamente da quanto opinato dal ricorrente, la fattispecie incriminatrice applicabile al caso di specie era stata correttamente rinvenuta, dal primo giudice, in quella di cui al comma 1 dell’art. 137, a mente del quale, nella versione applicabile ratione temporis alla presente vicenda processuale, viene sanzionato colui il quale “apra o comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o mantenere detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata”.
Le acque reflue provenienti dallo svolgimento dell’attività produttiva dell’autolavaggio devono essere qualificate come “industriali”.
Già sotto la vigenza della Legge n. 319/1976, si era individuato il criterio distintivo tra insediamenti civili e insediamenti produttivi sulla base dell’assimilabilità o meno dei rispettivi scarichi, per tipo e qualità dei reflui, a quelli provenienti da insediamenti abitativi.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 156/2006, l’art. 74, comma 1, lett. h), come modificato dal D.Lgs. 16.01.2008, n. 4, definisce le acque reflue industriali come quelle provenienti da edifici o installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti, qualitativamente, dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento. Secondo la giurisprudenza, nella nozione in esame rientrano perciò tutti i reflui derivanti da attività che non attengono strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività domestiche, il cui scarico è presidiato dalla mera sanzione amministrativa ex art. 133, comma 2.
Conseguentemente rientrano tra le acque reflue industriali quelle provenienti da attività artigianali e da prestazioni di servizi a condizione che le caratteristiche qualitative degli stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche e ciò indipendentemente dal grado o dalla natura dell’inquinamento.
Dunque, per determinare le acque che derivano dalle attività produttive occorre procedere a contrario, vale a dire escludere le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti dalla realtà domestica: è questo il caso degli impianti di autolavaggio, i quali hanno natura di insediamenti produttivi e non di insediamenti civili in considerazione della qualità inquinante dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei normali scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali oli minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle vernici eventualmente staccatesi da vetture usurate.
La Corte ha, dunque, concluso che lo sversamento sul suolo di tali acque, operato, senza autorizzazione, attraverso il tubo interrato rinvenuto dagli accertatori era certamente idoneo a integrare la fattispecie criminosa di che trattasi, restando del tutto irrilevante il dato relativo alla presenza degli idrocarburi che, pur rilevata in occasione del controllo, rappresentava un elemento estraneo all’ambito applicativo della fattispecie incriminatrice ritenuta applicabile nella specie (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.12.2016 n. 51889 - Ambiente & sviluppo 2/2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: TRASPORTO SENZA FORMULARIO.
Rifiuti - Trasporto senza il prescritto formulario di identificazione dei rifiuti e senza l’iscrizione all’apposito Albo Gestori Ambientali - Causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto - Applicabilità - Condizioni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 131-bis, cod. pen.
La speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. è applicabile anche alla contravvenzione di cui all’art. 256, comma 1, lett. a) D.Lgs. n. 152/2006 (contestata in relazione al trasporto di rifiuti da demolizione edile senza il prescritto formulario di identificazione dei rifiuti e senza l’iscrizione all’apposito Albo Gestori Ambientali). Infatti, anche con riferimento a tale fattispecie è possibile riscontrare un complesso di elementi connotanti la specifica vicenda nella sua dimensione storico-fattuale tali da fare apprezzare come in concreto particolarmente tenue la condotta penalmente rilevante non essendo affatto indifferente, ad esempio, che la condotta in questione afferisca o meno ad una attività di gestione di imponenti quantità di rifiuti realizzata con caratteristiche professionali o che l’agente l’abbia svolta o meno con carattere di continuità o, ancora, che si sia immediatamente attivato o meno per ristabilire l’ordine giuridico violato attraverso il conferimento del materiale in discarica.
A seguito di un casuale controllo da parte degli agenti della Polizia provinciale, tal O. era stato colto mentre, alla guida del proprio autocarro, stava effettuando il trasporto di rifiuti da demolizione edile senza aver redatto il prescritto formulario di identificazione dei rifiuti e senza essere iscritto all’apposito Albo Gestori Ambientali per il trasporto di rifiuti, previsto dall’art. 212, comma 8, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel frangente, interpellato dagli operanti, O. dichiarò di aver inteso fare, con il trasporto del materiale, “un favore ad un amico”. Dai successivi accertamenti, era emerso che, in precedenza, il conducente era stato titolare di una ditta individuale, la quale risultava essere stata iscritta nel Registro delle Imprese sino al 2003 e che, subito dopo il controllo di polizia, aveva provveduto a depositare i rifiuti presso un sito autorizzato a riceverli.
Nel corso del dibattimento, O., diversamente da quanto aveva riferito agli operanti nell’immediatezza del fatto, dichiarò che le macerie provenivano da un intervento edile svolto presso la sua abitazione e che, al momento del controllo, egli stava conferendo il materiale in una cava.
Secondo il giudice di primo grado, le condotte descritte dovevano ritenersi idonee ad integrare il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, non avendo O. ottemperato alla disposizione che prevede, per i produttori iniziali di rifiuti “non pericolosi” che effettuano operazioni di raccolta e trasporto dei propri rifiuti e per coloro che svolgono attività di trasporto di detti rifiuti per conto terzi, l’obbligo di iscriversi in un’apposita sezione dell’Albo Gestori Ambientali per il trasporto di rifiuti. Obbligo che, secondo la giurisprudenza di legittimità, sussisterebbe anche in caso di piccoli lavori edili o, comunque, di un solo trasporto occasionale e/o saltuario.
Sotto il profilo soggettivo, il giudice aveva ravvisato un profilo di colpa nella circostanza che l’imputato operasse, quantomeno di fatto, nel settore edile e che, in passato, egli avesse svolto attività di impresa in maniera professionale, come dimostrato dal dato relativo alla cancellazione della sua ditta dal Registro delle imprese artigiane nel corso del 2003; sicché avrebbe dovuto conoscere dell’esistenza del predetto obbligo di iscrizione.
Il giudice aveva, infine, ritenuto che la natura di reato di pericolo e la finalità propria della contravvenzione prevista dal T.U. ambientale non consentivano “di valutare come inoffensivo il descritto comportamento neppure sotto il profilo dell’art. 131-bis cod. pen.”.
Il prevenuto censurava la sentenza lamentando, in primo luogo, l’errata interpretazione ed applicazione dell’art. 131-bis cod. pen.: sul punto deduceva, infatti, che aveva posto in essere “un singolo, unico e sporadico episodio dovuto al trasporto di macerie derivanti dal rifacimento di una zona della propria abitazione”; sicché, sotto tale profilo, si trattava di condotta non abituale. Inoltre, l’imputato non aveva alcun precedente penale e aveva provveduto immediatamente al pagamento della sanzione amministrativa irrogatagli: elementi che connotavano il fatto in termini di una particolare tenuità e che, dunque, giustificavano la concessione della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen. In secondo luogo, il ricorrente deduceva la mancanza dell’elemento soggettivo perché il Tribunale non aveva tenuto conto del fatto che l’attività nel settore edile era stata svolta in anni ormai risalenti nel tempo e che trattavasi di attività di traslochi civili e, dunque, del tutto diversa da quella contestatagli.
Il Supremo Collegio ha concluso nel senso che il ricorso era parzialmente fondato.
Innanzitutto, i giudici romani si sono soffermati sul secondo motivo di impugnazione, attinente a profili che concernevano la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, osservando che questo era stato correttamente ravvisato nella circostanza che Olivo avesse operato, quantomeno di fatto, nel settore edile sicché era pienamente conforme alle regole che disciplinano i meccanismi di imputazione colposa del reato e, in particolare, al criterio cardine c.d. dell’homo ejusdem condicionis ac professionis, che l’imputato fosse chiamato a rispondere della mancata acquisizione di un titolo formale, quale la menzionata iscrizione nell’Albo, della cui necessità avrebbe dovuto essere pienamente a conoscenza proprio in ragione dell’attività svolta.
Passando al primo motivo di ricorso, la Corte ha ritenuto che la motivazione espressa dal giudice di merito fosse “totalmente eccentrica rispetto alla traiettoria ricostruttiva delineata dal Giudice di legittimità nella sua massima espressione nomofilattica, dal momento che la sentenza impugnata esclude arbitrariamente dall’ambito di operatività dell’istituto i reati della stessa specie di quello per cui oggi è processo, disattendendo platealmente la soluzione ermeneutica accolta dalle Sezioni Unite, qui condivisa”.
La Corte ha ricordato, infatti, che la speciale causa di non punibilità è applicabile anche alla contravvenzione contestata, in relazione alla quale l’oggetto del rimprovero penale consiste non nell’offesa al bene ambientale quanto nella violazione di un obbligo, quello della preventiva iscrizione nell’Albo Gestori Ambientali per il trasporto di rifiuti, funzionale alla possibilità di esercitare forme di controllo amministrativo sulla idoneità tecnica del soggetto alla gestione dei rifiuti.
Ciò posto, la sentenza ha rilevato che anche con riferimento alla fattispecie contravvenzionale in esame è possibile riscontrare, al di là del dato formale della omessa iscrizione, un complesso di elementi connotanti la specifica vicenda nella sua dimensione storico- attuale, tali da fare apprezzare come in concreto particolarmente tenue la condotta penalmente rilevante: non essendo affatto indifferente, ad esempio, che la condotta in questione afferisca o meno ad una attività di gestione di imponenti quantità di rifiuti realizzata con caratteristiche professionali o che l’agente l’abbia svolta o meno con carattere di continuità o, ancora, che si sia immediatamente attivato o meno per ristabilire l’ordine giuridico violato attraverso il conferimento del materiale in discarica ed il pagamento delle sanzioni amministrative ecc.
La pronuncia impugnata è stata perciò annullata, con rinvio, per nuovo esame sull’applicabilità della speciale causa di non punibilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.11.2016 n. 50751 - Ambiente & sviluppo 2/2017).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 33, co. 2, c.p.a., le sentenze di primo grado sono esecutive, salvo il ricorso allo strumento previsto dall’art. 98 c.p.a., in assenza del quale non sussiste alcuna ragione per mettere in discussione l’esecutività della sentenza di primo grado sancita dalle norme di legge ed il relativo obbligo gravante sull’amministrazione, tenuta all’esecuzione. Ne deriva che, a fronte del diniego di accertamento di sanatoria e di condono del Comune (...), gli interventi edilizi contestati dall’ente locale, per essere stati realizzati in assenza di titoli autorizzatori, sono abusivi. L’ente locale, in definitiva, non è obbligato ad attendere necessariamente l’esito del giudizio di appello, attesa la natura esecutiva della sentenza pronunciata in primo grado.
Ne consegue che i presupposti che hanno portato al diniego di sanatoria e all’adozione dell’ordinanza di demolizione non possono essere rimessi in discussione, risultando, per questo, inammissibili le censure del ricorrente nella parte in cui ripropongono doglianze avverso i suddetti provvedimenti, come avviene con riferimento al documento programmatico per la rigenerazione urbana dell’area su cui insiste il manufatto abusivo.
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Il procedimento penale è distinto da quello amministrativo. Consolidata è in tal senso la giurisprudenza nell’affermare che il profilo amministrativo e quello penalistico, entrambi connessi e conseguenti alla realizzazione di opere o manufatti abusivi, operano su distinti piani e secondo diverse cadenze temporali.
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A fronte del pregresso accertamento di abusi edilizi realizzati su area sottoposta a vincolo cimiteriale (e, dunque, in violazione del vincolo di inedificabilità ex lege), l’amministrazione comunale è tenuta ad ultimare il procedimento sanzionatorio avviato, adottando, a seguito dell’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, i provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a darvi piena attuazione.
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... per l'annullamento:
   - della nota prot. n. 29157 del 20.08.2015 della Ripartizione Tecnica, Ufficio Edilizia Privata del Comune di Bisceglie a firma del Dirigente, arch. Gi.Lo., con cui si comunica l’esecuzione di lavori in danno, per demolizione di opere abusive realizzate in Bisceglie, ...  n. 51 a carico del sig. Di Li. An., di cui alla Determina Dirigenziale n. 111 del 10.07.2015;
   - di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale con quelli impugnati nonché per l’accertamento del diritto ad ottenere la sospensione di ogni procedimento a seguito dell’ordinanza di sospensione dell’ordine di demolizione pronunciata dalla Corte di Appello di Bari, Terza Sezione Penale (proc. pen. n. 2498/2007) ed in pendenza di giudizio di appello presso il Consiglio di Stato (8773/2009) avverso la sentenza n. 1825/2008 resa sul ricorso n. 2044/2006 del TAR Puglia - Bari, Sez. III.
...
1.- Il sig. An. Di Li., con il ricorso notificato il 21.09.2015 e depositato il successivo 25.09.2015, ha impugnato la nota in epigrafe specificata, con cui il Comune di Bisceglie ha comunicato l’esecuzione di lavori in danno per la demolizione di opere abusive, realizzate sull’immobile di sua proprietà, censito al catasto al fg. 2, p.lle nn. 1533 e 1056 sub 1, sito in Strada ..., n. 51.
La comunicazione segue la determina nr. Reg. generale 799 del 10.07.2015, con cui è stata approvata la spesa per l’esecuzione dei suddetti lavori in danno, attesa la mancata esecuzione da parte del sig. Di Liddo dell’ordinanza di demolizione n. 255 del 03.07.2007.
Espone al riguardo quanto segue :
   a) che il Comune, in precedenza, ha negato la sanatoria delle opere abusive, in quanto realizzate in zona di inedificabilità assoluta per previsione del vigente PRG e per disposizione dell’art. 338 R.D. 1265/1934;
   b) che avverso il suddetto diniego è stato proposto ricorso, respinto con sentenza n. 1825/2008, pronunciata da questo TAR, avverso la quale è tuttora pendente appello innanzi al Consiglio di Stato;
   c) che le medesime opere abusive sono state oggetto di un procedimento penale e che l’ordine di demolizione impartito in tale sede è stato sospeso dalla Corte d’Appello di Bari.
I motivi di ricorso si fondano sull’asserito eccesso di potere sotto vari profili da parte dell’amministrazione comunale, principalmente per non avere tenuto conto della sospensione dei procedimenti sanzionatori in sede penale.
   2. - Con ordinanza n. 607 del 22.10.2015 è stata accolta l’istanza cautelare.
   3.- Con atto depositato il 18.11.2015 si è costituito in giudizio il Comune di Bisceglie, replicando, con memoria del 04.06.2016, alle censure del ricorrente.
   4. - Alla pubblica udienza del 7.07.2016, la causa è stata trattenuta in decisione.
   5. - Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere respinto.
Dirimenti sono le seguenti considerazioni:
5.1. – La sentenza n. 1825/2008 con cui è stato respinto il ricorso avverso il diniego di sanatoria delle opere abusive e l’ordinanza di demolizione, sebbene appellata, è allo stato esecutiva, non avendo parte ricorrente, soccombente, chiesto alcun provvedimento sospensivo nel giudizio di appello.
Come già chiarito dalla Sezione in precedente pronuncia “Ai sensi dell’art. 33, co. 2, c.p.a., le sentenze di primo grado sono esecutive, salvo il ricorso allo strumento previsto dall’art. 98 c.p.a., in assenza del quale non sussiste alcuna ragione per mettere in discussione l’esecutività della sentenza di primo grado sancita dalle norme di legge ed il relativo obbligo gravante sull’amministrazione, tenuta all’esecuzione. Ne deriva che, a fronte del diniego di accertamento di sanatoria e di condono del Comune (...), gli interventi edilizi contestati dall’ente locale, per essere stati realizzati in assenza di titoli autorizzatori, sono abusivi.
L’ente locale, in definitiva, non è obbligato ad attendere necessariamente l’esito del giudizio di appello, attesa la natura esecutiva della sentenza pronunciata in primo grado
” (TAR Bari sez. III, sent. 315 del 10.03.2016).
Ne consegue che i presupposti che hanno portato al diniego di sanatoria e all’adozione dell’ordinanza di demolizione non possono essere rimessi in discussione, risultando, per questo, inammissibili le censure del ricorrente nella parte in cui ripropongono doglianze avverso i suddetti provvedimenti, come avviene con riferimento al documento programmatico per la rigenerazione urbana dell’area su cui insiste il manufatto abusivo.
5.2. – Il procedimento penale è distinto da quello amministrativo. Consolidata è in tal senso la giurisprudenza nell’affermare che il profilo amministrativo e quello penalistico, entrambi connessi e conseguenti alla realizzazione di opere o manufatti abusivi, operano su distinti piani e secondo diverse cadenze temporali (cfr. ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 28.06.2016, n. 2865; Tar Lazio, Roma, I-quater, 13.06.2016 n. 6744 e 02.04.2015, n. 4970).
A nulla rileva, pertanto, quanto riferito dal ricorrente sul procedimento penale relativo alla realizzazione delle medesime opere.
5.3. – A fronte del pregresso accertamento di abusi edilizi realizzati su area sottoposta a vincolo cimiteriale (e, dunque, in violazione del vincolo di inedificabilità ex lege), l’amministrazione comunale è tenuta ad ultimare il procedimento sanzionatorio avviato, adottando, a seguito dell’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, i provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a darvi piena attuazione.
Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 27.07.2016 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: NO ALLA SANATORIA PARZIALE IN QUANTO CONTRASTANTE CON LA NECESSITÀ DELLA C.D. DOPPIA CONFORMITÀ.
Non è ammissibile il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria ex artt. 36 e 45 T.U. Edilizia, relativo soltanto a parte degli interventi abusivi realizzati, ovvero parziale, atteso che ciò contrasta ontologicamente con gli elementi essenziali dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale conformità sia alla disciplina vigente al momento delle realizzazione che a quella in vigore al momento dell’accertamento di conformità.
La Corte Suprema si sofferma nuovamente, con la sentenza in esame, sulla questione giuridica della c.d. sanatoria parziale, ossia sulla possibilità da parte dell’Amministrazione di rilasciare un permesso di costruire in sanatoria limitato solo a parte delle opere, oggetto dell’istanza di accertamento di conformità.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale che aveva dichiarato due soggetti responsabili del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b); gli stessi erano stati tratti a giudizio per rispondere dell’edificazione, in un medesimo fabbricato, di un ulteriore locale seminterrato, parzialmente idoneo ad uso residenziale (suddivisione in quattro vani, provvisti di finestre, predisposizione degli impianti tecnologici), nonché al piano terra di un’ulteriore superficie di mq. 37 circa non prevista in progetto, tale da determinare una palese difformità planimetrica.
La Corte d’Appello rilevava che la valenza del permesso di costruire in sanatoria ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 34 e 36, era un problema da affrontare in sede di esecuzione, anche per quanto riguarda la concreta eseguibilità rispetto alle porzioni di immobile preesistenti e legittimamente edificate. Gli imputati proponevano ricorso per cassazione deducendo che il presupposto per l’applicazione della sanzione demolitoria era la permanenza della violazione, ma se questa viene sanata in via amministrativa (mediante corresponsione, tra l’altro, di somme che a loro volta hanno carattere anche sanzionatorio) seppure in forma non estintiva del reato, l’ordine di demolizione (per la sua natura di portata amministrativa) non potrebbe essere emesso dalla P.A., né tanto più dal Giudice penale, stante la sua funzione sostitutiva. Evidenziavano che nel caso di specie difettavano i presupposti per disporre la demolizione di opere sanate, se pure con provvedimento privo di efficacia estintiva sul piano penale.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, precisando che la rilevanza penale della così detta doppia conformità, che discende dal regime del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 36, ha come riferimento le opere realizzate nella loro integralità, ed è a questa e alla situazione di fatto accertata che occorre avere riguardo per valutare la portata estintiva anche dei profili penali delle condotte realizzate.
Il Tribunale aveva dunque correttamente considerato -con motivazione fatta propria dei Giudici di appello- secondo il modello decisionale della c.d. doppia conforme che le opere abusivamente realizzate non potevano essere valutate come conformi agli strumenti urbanistici, in quanto nel permesso in sanatoria era precisato che esso veniva rilasciato per le opere di cui al piano interrato destinato a garage e a deposito, in base al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 36, e, per l’ampliamento, in base all’art. 34 T.U. cit.: da qui, dunque, la sanatoria solo parziale delle opere, priva di effetto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2016 n. 19121 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: INESISTENTE NELLA GIURISPRUDENZA CEDU UN DIRITTO ASSOLUTO ALL’INVIOLABILITÀ DEL DOMICILIO CHE PARALIZZI LA DEMOLIZIONE.
Non è desumibile dalla giurisprudenza della Cedu l’esistenza di un diritto “assoluto” all’inviolabilità del domicilio al punto tale da renderlo intangibile anche a “interferenze” legittime finalizzate a ristabilire l’ordine giuridico violato, qual è la esecuzione di un ordine di demolizione di un immobile abusivo.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, su un tema di grande attualità ed interesse nella giurisprudenza, relativo alla compatibilità tra l’ingiunzione a demolire e il diritto all’abitazione garantito dalla normativa sovranazionale (segnatamente, dall’art. 8 della Convenzione e.d.u.).
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento con cui il tribunale rigettava l’istanza di annullamento dell’ingiunzione a demolire emessa dal P.M. avente ad oggetto un immobile qualificato come abusivo nella sentenza di condanna emessa dal locale tribunale nei confronti di C.D., sentenza con cui era stata disposta la demolizione dell’immobile abusivo; il giudice, nel respingere l’istanza, non accoglieva nemmeno la subordinata richiesta di sospensione dell’ingiunzione a demolire fino alla definizione del procedimento amministrativo di competenza del comune, e in ogni caso fino al passaggio in giudicato della sentenza relativa al procedimento instaurato davanti al TAR avente ad oggetto il provvedimento di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli eredi del de cuius destinatari dell’ingiunzione a demolire, i quali sostenevano -per quanto qui di interesse- che la ordinanza fosse criticabile laddove affermava che per il soddisfacimento dell’esigenza abitativa, gli stessi ben avrebbero potuto acquistare o realizzare un manufatto non abusivo, ovvero utilizzare tramite locazione un immobile ad uso abitativo.
Sul punto, gli stessi osservavano che l’art. 47 Cost. prevede che l’inviolabilità del domicilio costituisca principio fondante della convivenza democratica, essendo del resto divenuto il diritto all’abitazione un punto fermo della giurisprudenza costituzionale; in particolare a ciò andrebbe aggiunto che detta inviolabilità è tutelata dall’art. 8 CEDU sotto il profilo del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare e del proprio domicilio, citando il noto Caso Giacomelli c. Italia del 02.11.2006, di talché quand’anche sussistesse l’interesse pubblico in ordine al ripristino di una situazione di legalità dei luoghi e, dunque, in ordine alla demolizione del manufatto abusivo di proprietà degli eredi del C.D., questo dovrebbe essere necessariamente bilanciato con il diritto di uno di essi a continuare a dimorare nel predetto immobile, non potendo egli soddisfare altrimenti il diritto all’abitazione in considerazione delle sue precarie condizioni economiche.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare -per quanto qui di interesse- osservando come, diversamente, dalla giurisprudenza della Cedu, si ricava proprio il principio opposto, avendo infatti la Corte di Strasburgo -nel noto caso Sud Fondi c. Italia del 20.01.2009 riguardante la confisca dei terreni e immobili frutto di illecita attività lottizzatoria- affermato che l’interesse dell’ordinamento è quello di abbattere l’immobile abusivamente realizzato, sottolineando i giudici europei come sia sufficiente, per ripristinare la conformità rispetto alle disposizioni urbanistiche dei lotti interessati “demolire le opere incompatibili con le disposizioni pertinenti”, anziché procedere alla confisca dei medesimi.
Proprio da tale inciso è quindi evidente, per gli Ermellini (v. anche Cass. pen., Sez. III, 21.12.2009, n. 48924, T. e altri, in CED, n. 245765), come la stessa Corte europea consideri del tutto legittimo il ricorso alla sanzione ripristinatoria della demolizione che, in quanto rivolta a ristabilire l’ordine giuridico violato, prevale sul diritto (rectius, interesse di mero fatto) all’abitazione dell’immobile abusivamente realizzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.05.2016 n. 18949 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: L’AZIONE EX ART. 2932 C.C.
La dichiarazione -in preliminare o in atto successivo e prodotto in giudizio- degli estremi del titolo edificatorio, costituisce una condizione dell’azione prevista dall’art. 2932 c.c.: infatti, l’art. 17, comma 2, L. n. 47/1985, laddove richiede tali dichiarazioni o allegazioni, a pena di nullità, per la stipulazione degli atti tra vivi aventi a oggetto diritti reali (che non siano di servitù o di garanzia) relativi ad edifici o loro parti, indirettamente influisce anche sui presupposti necessari per la pronuncia della sentenza di esecuzione in forma specifica del preliminare, la quale -avendo funzione sostitutiva di un atto negoziale dovuto- non può realizzare un effetto maggiore e diverso da quello che sarebbe stato possibile alle parti o un effetto che, comunque, eluda le norme di legge che governano, nella forma e nel contenuto, l’autonomia negoziale delle parti.
Un Tribunale rigettò la domanda d’esecuzione specifica dell’obbligo di conclusione d’un contratto di compravendita, proposta ex art. 2932 c.c. da un’immobiliare contro l’acquirente in forza del preliminare sottoscritto.
La Corte distrettuale rigettò l’appello chiarendo che nello specifico erano assenti gli estremi del permesso di costruire o in sanatoria a norma dell’art. 46, comma 1, d.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia), sicché non poteva aversi sentenza ex art. 2932 c.c.
La società attrice, soccombente nei due giudizi di merito, chiede la cassazione della sentenza, con ricorso che la S.C. respinge.
Osserva la S.C. che l’accatastamento di un immobile non è indice della sua regolarità urbanistica, poiché l’Ufficio tecnico comunale e il Catasto sono due amministrazioni diverse, con compiti distinti avendo -il primo- finalità di accertamento dell’ordinato sviluppo urbanistico in base a quanto previsto dagli strumenti urbanistici, nonché l’accertamento della salubrità dell’immobile destinato ad essere abitato o, comunque, frequentato da persone e -il catasto- finalità essenzialmente fiscali.
Né questa motivazione potrebbe essere contraddetta, o superata, dalla dichiarazione notarile annessa alla trascrizione dell’atto introduttivo del giudizio, secondo cui la trascrizione ha avuto a oggetto gli immobili descritti nella citazione e nel contratto preliminare che sono stati perfettamente identificati, perché, non solo tale dichiarazione non equivale alla quella prevista dall’art. 17, comma 2, L. n. 47/1985 ma, soprattutto, perché dal contenuto della stessa, così come descritto sinteticamente dalla ricorrente, non possono desumersi gli estremi del permesso di costruire o, comunque, del permesso in sanatoria, di cui fa parola in giudizio.
La Corte di cassazione richiama la propria costante giurisprudenza, per la quale in assenza della dichiarazione, nel preliminare o in un atto, successivamente prodotto in giudizio, degli estremi della concessione edilizia e/o della concessione in sanatoria dell’abuso edilizio, il Giudice non può pronunciare la sentenza di trasferimento coattivo di diritti reali su edifici o loro parti, prevista dall’art. 2932 c.c., perché l’art. 17, comma 2, L. n. 47/1985 (cfr.: ora l’art. 46 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380) richiede che le predette dichiarazioni o allegazioni, a pena di nullità, per la stipulazione degli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (che non siano di servitù o di garanzia), relativi ad edifici o loro parti, indirettamente influisce anche sui presupposti necessari per la pronuncia della sentenza di esecuzione in forma specifica del preliminare di una vendita immobiliare, che, avendo funzione sostitutiva di un atto negoziale dovuto, non può realizzare un effetto maggiore e diverso da quello che sarebbe stato possibile alle parti o un effetto che, comunque, eluda le norme di legge che governano, nella forma e nel contenuto, l’autonomia negoziale delle parti.
Detto limite, considerato l’interesse pubblico all’ordinata trasformazione del territorio e le peculiari caratteristiche della sentenza e l’autorità del giudicato che questa è destinata ad acquistare, incide direttamente sulle condizioni dell’azione prevista dall’art. 2932 c.c., senza alcun rilievo dell’astratta possibilità di una successiva sanatoria della nullità, e va conseguentemente rilevato d’ufficio e, anche in sede di legittimità, sempre che la soluzione della questione relativa alla sua esistenza non richieda indagini non compiute nei precedenti gradi di giudizio e siano acquisiti agli atti tutti gli elementi di fatto dai quali esso possa desumersi (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 29.04.2016 n. 8489 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: IRREGOLARITÀ EDILIZIA ED EFFETTI CIVILISTICI CADUCANTI SUL CONTRATTO.
La nullità del preliminare di vendita avente a oggetto un immobile irregolare sotto il profilo urbanistico sussiste al cospetto di un’irregolarità urbanistica grave, quale può essere l’assenza di permesso a costruire (o l’equiparata difformità totale) attesa, in ragione del combinato disposto, dagli artt. 1346 e 1418 c.c., l’impossibilità giuridica dell’oggetto, tale da giustificare legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla conclusione dell’atto definitivo di compravendita.
Un privato convenne in Tribunale il promissario venditore d’un immobile con cui aveva sottoscritto una scrittura privata per un appartamento con annesso garage, chiedendo fosse accertato l’integrale pagamento del prezzo ed emessa sentenza costitutiva di trasferimento della titolarità del bene.
Il promissario venditore si costituì eccependo la nullità del contratto per indeterminatezza dell’oggetto e, ancora, asserendo che il prezzo versato era solo un anticipo, tenuto conto del valore di mercato del bene. Era semmai controparte, promissaria acquirente, a essere inadempiente all’obbligo di corresponsione del prezzo sì che il contratto andava risolto, al più, per fatto e colpa dell’attore. In ogni caso, concluse assumendo la nullità del contratto, posto che il diritto di superficie che asseritamente trasferito non era assistito da forma scritta.
Il Tribunale accolse la domanda attrice e dichiarò trasferito il bene conteso, ritenendo che la scrittura privata avesse i requisiti di un contratto preliminare di vendita. Accertava altresì che l’abitazione era stata oggetto di concessione in sanatoria e, quanto al garage, che era stata presentata domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione (L. n. 326/2003) a nulla rilevando che la regolarizzazione urbanistica dell’immobile fosse avvenuta dopo la stipula del preliminare, sulla base della sopravvenuta disciplina del condono degli abusi edilizi.
La sentenza era appellata dal convenuto soccombente, con gravame che la Corte territoriale respinse. La vicenda è sottoposta allo scrutinio della S.C. dal convenuto, soccombente nei due gradi di merito.
La Cassazione respinge il ricorso.
Per quanto interessi questa Rivista, è ritenuto infondato il motivo con cui si ritiene che la normativa di cui all’art. 40 della L. n. 47/1985 sia estensibile anche al contratto preliminare di vendita. Ricorda la S.C. l’ormai consolidato principio per il quale la nullità prevista dal combinato disposto degli artt. 40 e 47, L. n. 47/1985, riguarda i soli contratti a effetti traslativi e non coinvolge il preliminare di vendita che abbia a oggetto un immobile abusivo. Ciò non soltanto per una ragione letterale, in quanto la norma in questione attiene solo agli atti traslativi dei diritti reali sull’immobile (e non agli atti a efficacia obbligatoria) ma per il rilievo che, successivamente al contratto preliminare, può intervenire la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al 01.09.1967, data di entrata in vigore della “legge ponte” con la conseguenza che - in queste ipotesi - rimarrebbe esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto definitivo di vendita (Cass. n. 59/2002, n. 6018/1999, n. 1501/1999, n. 8335/1997).
Il che è accaduto nella fattispecie in esame, laddove dopo la stipulazione del preliminare, è intervenuta -come non è contestato- la concessione in sanatoria per l’abitazione e, quanto al garage, era stata presentata domanda di condono con i relativi pagamenti dell’oblazione ex lege n. 326/2003, sicché -com’era consentito stipulare validamente il contratto definitivo- allo stesso modo poteva essere emessa sentenza che producesse gli effetti di questo ai sensi dell’art. 2932 c.c. (Cass. n. 2204/2013; n. 28456/2013; n. 13117/2010 n. 14489/2005).
Fermo quanto detto, il Supremo collegio si afferma che la nullità del preliminare di vendita avente a oggetto un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, può, tutt’al più, sostenersi di fronte ad una irregolarità urbanistica grave, come può essere l’assenza di permesso a costruire (o l’equiparata difformità totale), attesa, in ragione del combinato disposto, dagli artt. 1346 e 1418 c.c., l’impossibilità giuridica dell’oggetto, tale da giustificare legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla conclusione dell’atto definitivo di compravendita.
La S.C. si sofferma su di un precedente distonico rispetto alla giurisprudenza maggioritaria sopra rassegnata, costituito dalla sent. 17.10.2013, n. 23591, secondo la quale il preliminare di vendita di un immobile irregolare dal punto di vista urbanistico è nullo, per la comminatoria disposta dagli artt. 40, comma 2 e 47, L. n. 47/1985 che, sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norme imperative.
Espressamente, tuttavia, il Collegio, ritiene di doversene discostare perché l’affermazione di cui alla sentenza indicata, integra gli estremi di un obiter dictum, e la situazione esaminata dalla sentenza citata attiene a ipotesi diversa da quella in esame, posto che in quel caso l’irregolarità urbanistica riguardava un’opera abusiva non sanata.
Comunque, perché non può non esser rilevato che rimane insuperabile l’indicazione letterale di cui all’art. 40, L. n. 47/1985 laddove si afferma che la nullità riguarda esclusivamente i contratti ad effetti traslativi e il contratto preliminare è un tipico contratto ad effetti obbligatori (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 29.04.2016 n. 8483 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: CONDIZIONI PER L’OPERATIVITÀ DELLE NORME RIGUARDANTI LE OPERE IN CONGLOMERATO CEMENTIZIO ARMATO.
La realizzazione di un manufatto con struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, che non comporti la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi strutturali in metallo, non è soggetta alla normativa in materia di conglomerato cementizio armato, che concerne esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia assicurata tramite l’uso e l’applicazione di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri metalli con funzione portante.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame concerne il tema della applicabilità della normativa sulle opere in cemento armato, delimitandone il campo di applicazione.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la decisione con la quale il Tribunale aveva dichiarato la penale responsabilità di P.S. in ordine ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), artt. 64, 65, 71 e 72 del medesimo d.P.R. ed ancora artt. 93, 93 e 95 sempre del d.P.R. n. 380 del 2001, per avere egli realizzato, in assenza della prescritta concessione edilizia, su di un preesistente manufatto, una sopraelevazione della superficie di circa 30 mq con pilastri e travi in legno e con pareti perimetrali in muratura, per avere eseguito la predetta opera in assenza di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato, senza la direzione tecnica di un professionista abilitato e senza avere presentato la preventiva denunzia agli uffici competenti così violando, altresì, la normativa applicabile per le costruzioni in zona sismica. Contro la sentenza questi proponeva ricorso per cassazione, in particolare contestando il procedimento di formazione della prova.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto la tesi difensiva, tuttavia rilevando la insussistenza del reato di realizzazione da parte del prevenuto delle opere in violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64, 65, 71 e 72, in assenza di un progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato, senza che la direzione dei relativi lavori fosse stata assunta da tecnico a ciò abilitato ed in assenza della preventiva denunzia delle realizzande opere al Comune ovvero all’Ufficio provinciale del Genio civile. Le disposizioni delle quali è stata contestata la violazione, precisano i Supremi Giudici, concernono infatti esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui tenuta statica sia assicurata tramite l’uso e l’applicazione di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri metalli con funzione portante (Cass. pen., Sez. III, 17.04.2014, n. 17022), sicché le stesse apparivano, pertanto, eterogenee rispetto alla realizzazione di un manufatto che per avere una struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno e pareti perimetrali costruite in muratura, non aveva comportato la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi strutturali in metallo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.04.2016 n. 17085 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: PERIODO DI SOSPENSIONE DEL PROCESSO PER ISTANZA DI SANATORIA E RILEVANZA DELLA RICHIESTA DI PARTE SULLA PRESCRIZIONE.
Il periodo di sospensione del processo, previsto nel caso di presentazione di istanza di “accertamento di conformità”, ex art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001 (già art. 13 della L. n. 47 del 1985), deve essere considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio; ne consegue che in caso di sospensione del processo disposta su richiesta dell’imputato o del suo difensore oltre il termine previsto per la formazione del silenzio- rifiuto ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, opera la sospensione del corso della prescrizione a norma dell’art. 159, comma 1, n. 3, doc. pen.
Il tema affrontato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità di computare o meno il periodo di sospensione del termine di prescrizione nel caso in cui il processo rimanga sospeso nel caso di presentazione dell’istanza di accertamento di conformità.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d‘Appello aveva confermato la decisione con la quale il Tribunale aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato per il reato di cui all’art. 110, d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 10 e 44, c.p., per avere eseguito un intervento edilizio in assenza di valido titolo abilitativo; in particolare, si imputava al predetto la realizzazione, in difformità dalla concessione edilizia, riguardante la costruzione di civili abitazioni, negozi e box, del successivo rinnovo e della variante per completamento e modifica dell’immobile di una serie di interventi.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, osservando, in particolare, che, nel corso del giudizio di primo grado, il Tribunale non avrebbe dovuto accogliere l’istanza di sospensione del processo penale avanzata dal difensore a seguito della presentazione, all’amministrazione comunale, in data 08.05.2009, di una richiesta finalizzata all’accertamento di conformità delle opere realizzate, che aveva comportato un rinvio dal 07.06.2012 al 29.01.2014, in attesa della definizione del relativo procedimento amministrativo.
Si lamentava, dunque, del fatto che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente tenuto conto di tale periodo di sospensione, non computandolo, quindi, nel calcolo del termine massimo di prescrizione, come invece sollecitato dal pubblico ministero in udienza e dallo stesso difensore, non considerando che, all’atto della richiesta di sospensione del processo, il termine di 60 giorni previsto per il rilascio del titolo abilitativo sanante (L. n. 47 del 1985, art. 36, ora d.P.R. n. 380 del 2001, art. 45) era ormai spirato; con la conseguenza che, al più, la Corte d’Appello avrebbe potuto tenere conto, ai fini della sospensione, solo di un periodo pari a 120 giorni, che non avrebbe però impedito la declaratoria di prescrizione del reato.
Aggiungeva, poi, che non essendo stata accertata la “condonabilità astratta dell’opera”, anche sotto tale profilo non poteva ritenersi operante il periodo di sospensione calcolato dal giudice del merito e richiamava, a tale proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione in materia (Cass. pen., Sez. III, 13.07.2006, n. 40434, G., in CED, n. 236270; Cass. pen., SS.UU., 24.11.1999, n. 22, Sadini, in CED, n. 214792).
Il ricorso veniva assegnato alla Sezione competente, la quale, tenuto conto delle diverse disposizioni in materia di condono edilizio e sanatoria conseguente ad accertamento di conformità, operata una diffusa disamina dei precedenti giurisprudenziali, aveva rilevato la sussistenza di un contrasto interpretativo sulla applicabilità anche alla disciplina della sanatoria di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 36 e 45, (in precedenza, L. n. 47 del 1985, artt. 13 e 22) di effetti sulla prescrizione analoghi a quelli conseguenti dalla sospensione del processo che si determinano in caso di condono edilizio (disciplinato dalla L. n. 47 del 1985, artt. 44 e 38, ovvero dalla L. n. 724 del 1994, art. 39, o L. n. 326 del 2003, art. 32). E cioè, in caso di non condonabilità delle opere, non può ritenersi operante la sospensione del procedimento penale, indipendentemente dal fatto che il giudice l’abbia disposta o negata, dovendosi, nel primo caso, ritenere la sospensione inesistente.
Era stata conseguentemente pronunciata ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, affinché fosse precisato se il periodo di sospensione per i reati edilizi, disposta dal giudice a seguito di presentazione della istanza di concessione in sanatoria per accertamento di conformità di opere originariamente o successivamente non assentibili, fosse assoggettato o meno all’identico regime previsto per le sospensioni disposte dal giudice in relazione ad istanze avanzate dal privato in via amministrativa dirette ad ottenere il condono edilizio per opere originariamente o successivamente non condonabili.
In particolare, si richiedeva di verificare se il periodo di sospensione disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione di istanza per l’accertamento di conformità ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, debba, o meno, essere considerato, in tutto o in parte, ai fini del computo dei termini di prescrizione del reato edilizio e se, in caso di successive istanze di rinvio del processo dinnanzi al giudice penale ed all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio della concessione edilizia in sanatoria, si applichino, o meno, le disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, n. 3, c.p., per effetto di richieste di rinvio su istanze del privato.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile la tesi difensiva, dopo aver richiamato l’attenzione sulle differenze intercorrenti tra la disciplina del “condono edilizio”, di cui alle L. 28.02.1985, n. 47, L. 23.12.1994, n. 724, e L. 24.11.2003, n. 326 (quest’ultima di conversione, con modificazioni, del D.L. 30.09.2003, n. 269), e quella della “sanatoria” conseguente ad accertamento di conformità, disciplinata dall’art. 36 del T.U. dell’edilizia (d.P.R. 06.06.2001, n. 380), ha ricordato come entrambe le procedure presuppongono periodi di sospensione, diversamente disciplinati, che assumono specifico rilievo riguardo al computo del termine massimo di prescrizione del reato, pervenendo ad affermare -con particolare riferimento al caso sottoposto all’esame della S.C.- che erra quella giurisprudenza (Cass. pen., Sez. F, 09.08.2013, n. 34938, B., in CED, n. 256714), che, pur partendo da un presupposto corretto e, cioè, che la sospensione ex lege del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria, è limitato a soli sessanta giorni, giunge però a conclusioni non condivisibili laddove sembra fondare la riconosciuta illegittimità del differimento oltre il sessantesimo giorno sul presupposto che la decorrenza di detto termine comporti il silenzio-rigetto, considerando quindi ogni ulteriore rinvio (e la conseguente sospensione dei termini di prescrizione), anche se espressamente richiesto al giudice, come ingiustificato.
Una simile affermazione, puntualizzano gli Ermellini, non tiene conto del fatto che, nonostante il decorso del termine ed il significativo silenzio dell’amministrazione competente, questa non perde il potere di rilasciare comunque, in presenza dei presupposti di legge, il permesso di costruire in sanatoria, cosicché una eventuale richiesta di rinvio in previsione dell’accoglimento della domanda già presentata risulterebbe pienamente giustificato, considerato, peraltro, i vantaggiosi effetti per l’imputato che conseguono al rilascio del titolo abilitativo postumo.
La scelta dei Supremi Giudici si è quindi orientata nel senso di ritenere condivisibile l’altro orientamento (Cass. pen., Sez. III, 28.05.2014, n. 41349, Z., in CED, n. 260753), secondo cui, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della difesa e giustificato dalla pendenza del procedimento amministrativo, successivamente non perfezionatosi, di sanatoria edilizia di un immobile abusivo, l’operatività della sospensione ai fini del computo dei termini di prescrizione è stata estesa per l’intera durata del differimento.
Tale ultimo orientamento ritiene, dunque, del tutto incongrua un’interpretazione della norma “che consenta alla stessa parte che ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in mancanza dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata considerazione della sospensione della prescrizione proprio da tale rinvio derivante” (analoghe considerazioni erano state svolte, in precedenza, in Cass. pen., Sez. III, 08.05.2013, n. 26409, C., in CED, n. 255579), pur distinguendo le diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato invece disposto per impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza di sanatoria e oltre il sessantesimo giorno dall’avvio del relativo procedimento amministrativo, sia disposto d’ufficio dal giudice, in mancanza di richiesta di parte, riconoscendo, in tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli sessanta giorni (Corte di Cassazione, SS.UU. penali, sentenza 13.04.2016 n. 15427 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: IL RILASCIO DELLA “COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA” NON DETERMINA AUTOMATICAMENTE LA NON PUNIBILITÀ DEI REATI PAESAGGISTICI.
In tema di reati paesaggistici, il rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica non determina automaticamente la non punibilità dei predetti reati, in quanto compete sempre al giudice l’accertamento dei presupposti di fatto e giuridici legittimanti l’applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello della possibilità che il c.d. provvedimento di compatibilità paesaggistica abbia quale effetto “automatico” la non punibilità dei reati paesaggistici previsti dalla disciplina attualmente vigenti.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva respinto l’impugnazione proposta da P.A.M. nei confronti della sentenza del Tribunale con cui era stata condannata per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c, d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95 e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 (per avere realizzato, in zona sismica e sottoposta a vincolo archeologico, in assenza del permesso a costruire e della autorizzazione della Sovrintendenza ai beni culturali ed ambientali, e senza dare avviso all’Ufficio del Genio civile, opere edili consistite nel tamponamento di una veranda, mediante vetrate installate sui muri di parapetto e realizzazione di una parete in muratura).
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione in particolare dolendosi, per quanto qui di interesse, per l’insufficiente considerazione del parere di compatibilità ambientale espresso dalla Soprintendenza ai beni culturali ed ambientali, ed anche la mancanza di motivazione in ordine alla sua disapplicazione per carenza dei relativi presupposti di fatto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come l’emissione del provvedimento di compatibilità ambientale da parte della P.A. non elide il potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza dei presupposti del condono ambientale in termini di fatto e di diritto, e, nel caso di specie, la ricorrente, realizzando un nuovo vano, destinato ad un utilizzo abitativo, ha posto in essere un intervento che ha comportato aumento di superfici utili e volumi, con la conseguente inapplicabilità del condono ambientale, cui consegue anche l’inammissibilità del relativo motivo di ricorso, che con tali considerazioni ha omesso di confrontarsi (sull’inesistenza dell’automatismo, v. Cass. pen., Sez. III, 27.05.2008, n. 27750; conformi: Cass. pen., Sez. III, 19.09.2013, n. 44189; Id., Sez. III, 29.11.2011-13.01.2012, n. 889) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2016 n. 13730 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LE VIOLAZIONI COMMESSE IN ZONE VINCOLATE SONO SANZIONABILI ANCHE QUANDO REALIZZATE MEDIANTE OPERE NON IMMEDIATAMENTE VISIBILI.
In tema di reati paesaggistici, il reato di cui all’art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, si configura anche relativamente ad opere realizzate, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a vincolo, atteso che il citato art. 181 vieta l’esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici, e che pure attraverso tali opere si realizza una modificazione sebbene non immediatamente visibile, dell’assetto del territorio.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della rilevanza penale di interventi edilizi eseguiti in zone paesaggisticamente vincolate e, più specificamente, dell’inclusione tra gli interventi vietati di quelli non immediatamente visibili.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la condanna dell’imputato per il reato di esecuzione di un manufatto di mq. 102 in area soggetta a vincolo paesaggistico in quanto dichiarata di notevole interesse pubblico, in violazione del D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis).
Contro la sentenza l’imputato si doleva della condanna in quanto l’esecuzione di opere interne non determinava violazione delle norme a tutela del paesaggio ed il manufatto oggetto della contestazione era già stato integralmente realizzato nel 2004 e successivamente era stato solo rifinito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come le violazioni commesse in zone vincolate siano sanzionabili anche quando vengano realizzate mediante opere non immediatamente visibili.
Sul punto si registra una giurisprudenza pressoché costante della S.C. secondo cui l’autorizzazione preventiva dell’autorità preposta alla tutela del vincolo è necessaria anche per i lavori da eseguirsi nel sottosuolo delle aree qualificate quali beni paesaggistici ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Cass. pen., Sez. III, 30.03.2006, n. 11128, S., in CED, n. 233675; da ultimo: Cass. pen., Sez. III, 10.02.2015, n. 5954, C., in CED, n. 264371) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 06.04.2016 n. 13726 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: UN’ISTANZA DI CONDONO ANCORA IN FASE ISTRUTTORIA PUÒ INFICIARE L’ORDINE DI DEMOLIZIONE E COSTITUIRE VALIDO MOTIVO PER SOSPENDERLA.
In tema di condono edilizio di opere abusive, in presenza di una istanza di condono o di sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, il giudice dell’esecuzione investito della questione è tenuto ad una attenta disamina dei possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura; ne consegue, pertanto, che è illegittima l’affermazione con cui il giudice dell’esecuzione rigetti l’istanza di revoca e/o di sospensione dell’esecuzione in base all’assunto per cui un’istanza di condono ancora in fase istruttoria non inficia l’ordine di demolizione né può costituire valido motivo per sospenderla.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame concerne un tema ricorrente nell’esegesi giurisprudenziale di legittimità, rappresentato dalla individuazione dei poteri-doveri che il giudice dell’esecuzione deve attivare quando si trova dinanzi ad un’istanza di revoca e/o di sospensione dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo.
La vicenda processuale trae origine dal provvedimento reso a seguito di incidente di esecuzione, con cui il G.E. rigettava l’istanza di revoca/sospensione dell’ordine di demolizione delle opere eseguite da A.C., condannato con sentenza irrevocabile, istanza presentata dagli aventi causa di quest’ultimo.
Contro la ordinanza proponevano ricorso per Cassazione gli eredi, in particolare osservando come parte importante della consistenza dell’immobile di cui all’ingiunzione a demolire era oggetto di condono edilizio in forza di due istanze proposte ex lege n. 326 del 2003: dette pratiche non risultavano ancora essere state vagliate dal Comune di Scafati, che aveva attestato nel 2011 la congruità dei versamenti effettuati e lo stato delle istanze; il g.e. si sarebbe limitato a affermare che un’istanza di condono ancora in fase istruttoria non inficia l’ordine di demolizione né può costituire valido motivo per sospenderla.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto sul punto la tesi difensiva, ritenendo sindacabile l’affermazione del g.e. secondo cui un’istanza di condono ancora in fase istruttoria non inficia l’ordine di demolizione né può costituire valido motivo per sospenderla. Nella specie, le istanze di condono ex lege n. 326 del 2003 risultavano presentate ambedue nel 2004 e, a distanza di oltre 10 dieci anni, le stesse non erano state definite né risultavano adottati provvedimenti dell’Amministrazione incompatibili con l’esecuzione dell’ordine di demolizione, risultando solo un provvedimento risalente al 2011 in cui veniva attestata la congruità dei versamenti e la pendenza in fase istruttoria delle pratiche di condono.
Ne discende, per la Cassazione, che il g.e. risulta essersi sottratto al compito, al medesimo incombente, di accertare il possibile risultato delle due istanze di condono presentate e se esistevano o meno cause ostative al suo accoglimento. Le ultime notizie sullo stato delle pratiche di condono in questione, infatti, risalivano alla comunicazione del Comune del 2011 in cui il predetto Ente attestava la congruità dell’oblazione versata e la pendenza in fase istruttoria delle istanze predette.
Il giudice, decidendo a distanza di quasi quattro anni dalle ultime notizie, risalenti al giugno 2011, avrebbe dovuto accertare alla data della decisione (febbraio 2015) quale fosse lo stato delle predette pratiche e se sussistessero cause ostative al loro accoglimento (in giurisprudenza, sui poteri-doveri del giudice dell’esecuzione in consimili ipotesi, v.: Cass. pen., Sez. III, 23.10.2007, n. 38997, D.S., in CED, n. 237816) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2016 n. 13521 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: NECESSITA DEL P.D.C. L’OGGETTIVA E PERMANENTE DESTINAZIONE DI UN’OPERA A RICOVERO DI MEZZI ED ATTREZZI PER LA PANIFICAZIONE.
La natura precaria di un manufatto non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve risultare dalla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo anche in ipotesi di struttura priva di fondazioni e munita di ruote.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di richiedere il permesso di costruire in relazione ad un’opera ritenuta dal suo utilizzatore come essenzialmente destinata a esigenze temporanee e, dunque, connotate da precarietà.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con cui il Tribunale del riesame rigettava il ricorso avverso il decreto emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale con il quale -in relazione all’imputazione provvisoria del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b)- era stato disposto il sequestro preventivo di due strutture in ferro con copertura di lamiera coibentata aventi dimensioni di mt. 9x2,50 e mt. 9x3,50 con altezza di mt. 3,50, poggiate su ruotini in gomma ed utilizzate dall’indagato, gestore di un’attività di panificazione, per il ricovero di mezzi ed attrezzi funzionali alla predetta attività.
Contro la ordinanza aveva proposto ricorso l’indagato, in particolare sostenendo che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che il manufatto oggetto del provvedimento di sequestro fosse destinato ad un uso momentaneo per esclusiva volontà del proprietario e non per le proprie caratteristiche intrinseche. In particolare, argomentava che l’utilizzo dell’opera, come emergente dalle foto in atti e dal verbale redatto dalla Polizia Municipale, per quanto di non esigue dimensioni, non era finalizzato al ricovero di mezzi ed attrezzi per la panificazione ma solo alla temporanea messa al riparo della farina nelle giornate di pioggia: tale circostanza rendeva evidente la natura precaria del bene e l’insussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento di sequestro.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come correttamente il Tribunale non aveva riconosciuto carattere precario al manufatto in sequestro, valorizzando, alla luce delle evidenti emergenze processuali, sia le rilevanti dimensioni dell’opera che l’oggettiva e permanente destinazione della stessa a ricovero di mezzi ed attrezzi per la panificazione, sottolineando, pertanto, che l’opera era solo soggettivamente destinata ad un uso temporaneo e che costituiva circostanza irrilevante ai fini della valutazione di non precarietà l’asserita facile rimovibilità della stessa (in precedenza, nel senso che, ai fini del riscontro del connotato della precarietà e della relativa esclusione della modifica dell’assetto del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le esigenze temporanee alle quali l’opera eventualmente assolva: Cass. pen., Sez. III, 25.02.2009, n. 22054, F., in CED, n. 243710) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2016 n. 13491 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LE DEROGHE ALL’EDIFICABILITÀ IN ZONA PAESAGGISTICAMENTE VINCOLATA RIGUARDANO SOLO I VINCOLI IMPOSTI EX LEGE AD INTERE CATEGORIE DI BENI.
Non rientrano nella nozione di “aree boscate”, quindi inedificabili, quelle aree che, alla data del 06.09.1985, erano classificate come zone A e B, o come zone diverse, purché ricomprese nei piani pluriennali di attuazione, sempre che il vincolo paesaggistico non sia stato imposto con provvedimento amministrativo di carattere specifico. Ne consegue che il regime derogatorio di edificabilità previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 142, comma 2, non riguarda i vincoli paesaggistici ordinari imposti con provvedimento amministrativo, ma concerne in via esclusiva i vincoli imposti per legge ad intere categorie di beni  paesaggisticamente vincolati.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla interessante questione della individuazione delle condizioni in presenza delle quali è applicabile il regime derogatorio di edificabilità previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 142, comma 2.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per affrontare la questione segue alla sentenza con cui il Gip del Tribunale aveva prosciolto gli imputati dai reati di:
   a) abuso d’ufficio -contestato in relazione alla redazione e all’approvazione della variante generale del piano regolatore comunale, nella quale si erano qualificate quali zone B (di completamento edilizio) alcune porzioni di territorio, in violazione del D.M. n. 1444 del 1968, art. 2, che prevede, per la suddetta qualificazione, limiti di rapporto tra superficie coperta e superficie fondiaria, nonché di densità territoriale, e in violazione della L.R. dell’Umbria n. 27 del 2000, art. 15 e art. 39, comma 7, del piano territoriale di coordinamento provinciale, che fanno divieto assoluto di edificazione nelle zone coperte da boschi e qualificate come aree boscate-, il tutto al fine di procurare un ingiusto profitto ai proprietari delle varie particelle, consistente nella possibilità di realizzare fabbricati in zona boschiva, e all’amministrazione comunale, consistente nella percezione dei relativi oneri di edificabilità; con l’aggravante di aver commesso il fatto al fine di commettere gli ulteriori reati per cui si procede;
   b) per il solo responsabile dell’ufficio tecnico, anche dai reati di abusi d’ufficio e da ulteriori violazioni urbanistiche e paesaggistiche, perché, al fine di procurare un ingiusto profitto ai proprietari delle varie particelle e all’amministrazione, rilasciava una serie di permessi di costruire e autorizzazioni paesaggistiche analiticamente indicati nella stessa imputazione, nonché induceva in errore i destinatari degli stessi atti in merito alla possibilità di edificazione, a fronte della consistenza boschiva dei terreni, determinandoli alla realizzazione di opere edilizie in assenza di autorizzazione paesaggistica e permesso a costruire validi;
   c) per il solo segretario comunale, dei reati di abuso d’ufficio e ulteriori violazioni urbanistiche e paesaggistiche, per avere rilasciato permessi a costruire, inducendo in errore i destinatari degli stessi atti in merito alla possibilità di edificazione, a fronte della consistenza boschiva dei terreni, determinandoli alla realizzazione di opere edilizie in assenza di autorizzazione paesaggistica e permesso a costruire validi.
Contro la sentenza, proponeva ricorso per Cassazione il P.M., sostenendo che l’errore nel quale sarebbero caduti gli imputati concerneva non i fatti presupposto per l’applicazione delle norme, ma il contenuto e la portata delle norme, con particolare riferimento alla possibilità di riqualificare le zone del territorio. In particolare, la superficie edificata e cubatura presente in ordine alle aree in questione non consentiva l’attribuzione della qualifica di zona di completamento edilizio e la presenza del vincolo paesaggistico apposto con decreto ministeriale escludeva, in forza della normativa regionale e del piano territoriale, che si applicasse la deroga di carattere generale afferente all’edificabilità.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, confermando la sentenza di proscioglimento e dando continuità al principio di diritto, già in precedenza affermato dalla stessa Cassazione secondo cui non rientrano nella nozione di “aree boscate”, quindi inedificabili, quelle aree che, alla data del 06.09.1985, erano classificate come zone A e B, o come zone diverse, purché ricomprese nei piani pluriennali di attuazione, sempre che il vincolo paesaggistico non sia stato imposto con provvedimento amministrativo di carattere specifico (v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 04.05.2010, n. 16871, C., in CED, n. 247151) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.04.2016 n. 13475 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: IL COMPROPRIETARIO HA IL POTERE DI PORRE IL VETO ALL’ESECUZIONE DI OPERE NON ASSENTITE SULL’AREA IN COMUNIONE.
Il comproprietario ha il potere di porre il veto all’esecuzione di opere non assentite sull’area in comunione e, se questi è il coniuge del comproprietario committente dell’opera, non può non tenersi conto della stretta comunanza di interessi, che rendono il coniuge, di norma, naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di rilevanza familiare, a meno che l’interessato non provi, al contrario, che tali presupposti non ricorrano nel caso concreto, per una qualsiasi ragione.
Si inserisce in un orientamento ormai consolidato della Cassazione la sentenza qui commentata, in cui la Corte puntualizza i criteri applicabili al fine di individuare la responsabilità del proprietario in comunione legale di un immobile abusivamente realizzato.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui i giudici di merito avevano ritenuto l’imputato colpevole:
   a) del reato di cui all’art. 110 c.p. e d.P.R. n. 309 del 1990, art. 44, per aver effettuato, in qualità di comproprietaria, in assenza del prescritto titolo abitativo, in zona sismica soggetta a vincolo paesaggistico, una nuova costruzione, le cui dimensioni sono meglio indicate nel capo di imputazione;
   b) del reato di cui agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 64, commi 2 e 3, art. 71, art. 93, comma 1, art. 94, commi 1 e 4 e art. 95, per aver realizzato dette opere in conglomerato cementizio armato non preventivamente denunciate al Genio Civile, senza la preventiva autorizzazione dell’Ufficio tecnico della Regione e senza che i lavori fossero diretti da un ingegnere, architetto, geometra iscritto all’albo, in assenza del necessario progetto esecutivo redatto da tecnico abilitato;
   c) del reato di cui all’art. 110 c.p., D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 134, 141 e 181, per avere eseguito i lavori in zona sottoposta a vincolo paesaggistico e senza il rilascio della prescritta autorizzazione- Rilevavano i giudici che l’imputata ed il marito erano stati tratti a giudizio per i reati edilizi contestati e nelle more del procedimento il marito era deceduto; la stessa era stata ritenuta responsabile per i reati contestati, per averli realizzati in concorso con il coimputato deceduto, come era emerso dagli atti del procedimento, in particolare dalle testimonianze assunte.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessata, in particolare sostenendo l’errore in cui erano incorsi i giudici di merito quanto alla sua responsabilità, non essendo stati indicati gli elementi dai quali desumere che la stessa avesse preso parte alla realizzazione del manufatto, essendo unico soggetto responsabile il marito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto la tesi difensiva, così facendo applicazione di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella giurisprudenza della Cassazione.
Ed infatti, la giurisprudenza della S.C. è nel senso che l’individuazione del committente dei lavori, quale soggetto responsabile dell’abuso edilizio, può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria, come ad esempio, dalla qualità di proprietario o comproprietario, posto che solo il proprietario o altro titolare del diritto reale sul suolo o sul fabbricato su cui vengono eseguiti i lavori può assumere la veste di committente (Cass. pen., Sez. III, 24.05.2007, n. 35376, D.F., in CED, n. 237405; Id., Sez. III, 24.02.2009, n. 15926, D., in CED., n. 243467; Id., Sez. III, 10.02.2000, n. 7314, I. ed altro, in CED, n. 216971).
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva fatto applicazione dei principi sopra richiamati ed aveva correttamente ritenuto che l’imputata fosse anch’essa corresponsabile dei reati in questione, perché aveva accertato, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti che la stessa fosse stata committente dell’opera, avendo un interesse personale e diretto alla realizzazione del manufatto abusivo, che le avrebbe consentito di svolgere l’attività di stoccaggio e deposito delle merci connesse alla sua attività di commercio di materiali edilizi.
Infatti, dalle testimonianze escusse, era emerso che il capannone abusivo era stato realizzato dopo la stipula del contratto di comodato da parte della stessa imputata e tale manufatto era stato realizzato in una zona agricola con una volumetria nettamente superiore a quella prevista dal piano regolatore, ma con destinazione certamente commerciale perché connessa all’attività svolta dall’imputata e finalizzata al commercio all’ingrosso di materiali per l’edilizia (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.04.2016 n. 13231 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: ULTIMAZIONE DELL’OPERA ABUSIVA ED INDIVIDUAZIONE DEL DIES A QUO DI DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
La realizzazione di un impianto sportivo in zona agricola configura la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), atteso che la disposizione di cui alla L. n. 493 del 1993, art. 4 (ai sensi della quale gli interventi su aree destinate ad attività sportiva senza creazione di volumetria sono subordinati alla semplice denuncia di inizio attività) trova applicazione su aree già destinate ad attività sportive e che la materia è ora esclusivamente regolata dal T.U. edilizia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C. verte, in particolare, sulla necessità o meno di ottenere un preventivo permesso di costruire per la realizzazione di un impianto sportivo in zona agricola.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva respinto l’istanza proposta contro il decreto con cui il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale disponeva il sequestro preventivo di un campo di calcio o di calcetto, con “porte”, recinzione fissata stabilmente al suolo, panchine e casette di legno ad uso spogliatoio, realizzato dall’indagata in aperta campagna, in assenza del permesso di costruire con aggravio del carico urbanistico e con cambiamento di destinazione d’uso del terreno su cui le opere insistono, avente destinazione agricola, in relazione all’imputazione provvisoria per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b).
Contro la ordinanza proponeva ricorso per Cassazione l’indagata, in particolare deducendo il carattere provvisorio, privo di rilevanza edilizia, delle opere realizzate senza modificazione della morfologia del terreno, in assenza di lavori di scavo o sbancamenti e che le casette di legno, costituenti pertinenze del limitrofo Centro Riabilitativo, erano destinate a ricovero o deposito di attrezzi e non già a spogliatoi.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso dell’interessato, in particolare ricordando come non soltanto le opere difettavano del requisito della precarietà, che -com’è pacifico- va individuato in relazione alla oggettiva ed intrinseca destinazione dell’opera, essendo necessario che essa soddisfi esigenze temporanee, e non esclusivamente in relazione alle caratteristiche dei materiali utilizzati per la realizzazione (ex multis: Cass. pen., Sez. III, 25.02.2009, n. 22054; Id., Sez. III, 26.11.2014, n. 996; Id., Sez. III, 04.04.2003, n. 24898, N., in CED, n. 225380).
Difetta va anche per la Cassazione il requisito della pertinenzialità delle opere abusive, richiamando il principio, costantemente affermato dalla stessa Cassazione, per cui in materia edilizia, affinché un manufatto presenti il carattere della pertinenza, si richiede che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio principale legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia insuscettibile di destinazione autonoma e che non si ponga in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, elementi non riscontrati nel caso in esame (ex multis: Cass. pen., Sez. III, 30.05.2012, n. 25669, Z., in CED, n. 253064) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2016 n. 12920 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA REVOCA DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE SI BASA SU PRESUPPOSTI DIVERSI DALLA SOSPENSIONE DEL MEDESIMO.
In tema di esecuzione, deve distinguersi tra revoca dell’ordine di demolizione da un lato e sospensione del medesimo dall’altro, nel senso che, mentre la prima è condizionata all’intervento di atti amministrativi incompatibili con la esecuzione della demolizione, la seconda discende dal fatto che sia ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di breve tempo, questi stessi provvedimenti incompatibili vengano adottati.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata in cui i giudici di legittimità individuano gli elementi differenziali tra la revoca e la sospensione dell’ordine di demolizione dell’immobile abusivamente realizzato.
La vicenda processuale traeva origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, in funzione di Giudice dell’esecuzione, respingeva la richiesta di revoca dell’ingiunzione a demolire emessa dal P.M. presso il Tribunale, sul rilievo che l’ordine di demolizione, pur avendo natura di sanzione amministrativa, resta caratterizzato dalla natura giurisdizionale dell’organo al quale l’esercizio di tale potere-dovere è attribuito, che il momento da decorrere dal quale deve essere data esecuzione all’ordine disposto dal giudice con la sentenza di condanna è quello del passaggio in giudicato della stessa e che, infine, doveva essere esclusa l’applicabilità all’ordine di demolizione della disciplina della prescrizione di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 28.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato sostenendo, per quanto qui di interesse, l’illegittimità del rigetto in quanto l’ordine di demolizione ben avrebbe dovuto e potuto essere revocato e sospeso dal giudice dell’esecuzione ricorrendone i presupposti di legge.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha confermato la ordinanza, così facendo applicazione di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella giurisprudenza della Cassazione. In particolare, i giudici di Piazza Cavour hanno rilevato come nella fattispecie in esame il ricorrente non aveva allegato alcuna concreta circostanza riconducibile all’una o dell’altra ipotesi (revoca o sospensione), sicché la censura si appalesava prima ancora che infondata, del tutto generica, in quanto non si comprendeva a quali incompatibili “atti amministrativi che abbiano sanato o condonato la costruzione” si intendesse fare riferimento (in precedenza, sulla distinzione delle condizioni legittimanti la revoca rispetto alla sospensione dell’ordine di demolizione, v.: Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n. 24273, P.G. in proc. P., in CED, n. 247791; Id., Sez. III, 26.09.2007, n. 38997) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.03.2016 n. 12915 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: L’ESECUZIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSEGUENTE ALLA VIOLAZIONE DELLE NORME ANTISISMICHE NON SPETTA ALL’A.G. PENALE.
In caso di realizzazione di opere edilizie in difformità delle norme previste dallo stesso d.P.R. n. 380 del 2001, ma all’art. 83 ss. (ossia nella sezione intitolata “Norme per le costruzioni in zone sismiche”), o dalle fonti integrative da questo previste, la esecuzione della sanzione amministrativa della demolizione disposta dal giudice con la sentenza di condanna non spetta all’Autorità giudiziaria penale, ma compete all’ufficio tecnico della Regione o a quello del genio civile.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata nella quale i giudici di legittimità si soffermano sulla individuazione dei soggetti cui spetta eseguire l’ordine di demolizione in caso di violazione della normativa antisismica.
La vicenda processuale traeva origine dalla ordinanza con cui il Tribunale aveva respinto l’incidente di esecuzione volto ad ottenere la revoca o la sospensione dell’ingiunzione a demolire, ordinata dalla Procura presso il Tribunale. Contro la ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il P.M., in particolare sostenendo che la competenza del giudice penale a disporre l’ingiunzione sussisterebbe esclusivamente per le violazioni di cui alla L. n. 47 del 1985, mentre per le altre farebbe capo al Ministero competente o ad altro ufficio, trattandosi di sanzione amministrativa (nella specie, la competenza era appunto della Regione).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso del P.M., rilevando come la legge, che pure prevede, nell’art. 98, l’irrogazione della sanzione amministrativa demolitoria da parte dell’A.G. penale, con il decreto o la sentenza di condanna (allorquando le opere siano state eseguite in difformità alle norme prescritte dalla legge medesima), contiene anche, al successivo art. 99, precise disposizioni relative all’esecuzione delle sanzione suddetta (così come delle “prescrizioni” che siano state, eventualmente ed in alternativa, dettate dal giudice penale), attribuendo il relativo compito all’ufficio tecnico della regione o a quello del genio civile, secondo le competenze vigenti, autorità facultate ad avvalersi della forza pubblica, ponendo, altresì, le relative spese a carico del “condannato”.
E proprio ai fini di tale esecuzione il successivo art. 101 prevede la trasmissione a dette autorità della copia della sentenza o del decreto penale esecutivi, entro gg. 15 dalla intervenuta irrevocabilità o esecutività degli stessi, mentre l’art. 102 istituisce un fondo in un apposito capitolo dello stato di previsione della spesa del Ministero dei LL.PP., prevedendo, infine, le modalità di recupero delle spese di esecuzione.
A fronte di tale specifica e dettagliata disciplina, inequivocamente evidenziante la precisa scelta del legislatore di demandare all’autorità amministrativa l’esecuzione delle sanzioni de quibus, ancorché pronunziate dal giudice penale, non possono ritenersi applicabili i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di esecuzione del, pur analogo (ma non del tutto), ordine di demolizione di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 7, ultimo comma, in materia urbanistico-edilizia, ora sostituito dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, comma 9.
Infatti, osservano i Supremi Giudici, pur trattandosi, nell’uno e nell’altro caso, di provvedimenti formalmente giurisdizionali e sostanzialmente sanzionatori amministrativi, deve tuttavia osservarsi che è lo stesso d.P.R. n. 380 del 2001 a considerare la specialità delle norme riguardanti le costruzioni in zona sismica rispetto alle altre, per le quali la statuizione demolitoria pronunziata dal giudice non è accompagnata da ulteriori modalità per l’esecuzione d’ufficio.
Non a caso, a tal proposito, la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che il principio secondo il quale l’esecuzione del provvedimento adottato dal giudice, applicativo di sanzione amministrativa, deve ritenersi demandato alla giurisdizione dell’A.G. penale, ai sensi degli artt. 655 ss. c.p.p., deve ritenersi operante “salvo che la legge non disponga altrimenti in modo espresso” (così, testualmente, leggesi nella motivazione di Cass. pen., SS.UU., 24.07.1996, n. 15), P.M. in proc. Monterisi, in CED, n. 205336).
E, nella specie, la legge dispone in modo espresso, attribuendo tale esecuzione ad autorità amministrative ben individuate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.03.2016 n. 12298 - Urbanistica e appalti 6/2016).

LAVORI PUBBLICI: TERMINI PER ESPLICARE LE RISERVE D’APPALTO E CONSEGUENZE IN CASO DI VIOLAZIONE.
Ai sensi dell’art. 54, comma 3, R.D. n. 350/1895 l’appaltatore che abbia firmato con riserva il registro di contabilità, deve, nel termine di quindici giorni, esplicarla scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande di indennità e indicando, con precisione, le cifre di compenso cui crede di aver diritto e le ragioni di ciascuna domanda, posto che tardiva esplicazione non è idonea a riaprire i termini di legge e osta all’utile coltivazione della riserva stessa.
Un’impresa, appaltatrice pubblica, convenne in Tribunale un Consorzio per un’area di sviluppo industriale al fine di ottenerne la condanna al pagamento dei maggiori oneri sostenuti nell’esecuzione delle lavorazioni di viabilità, rete idrica e fognaria. Esponeva che il Consorzio, in corso d’opera, aveva apportato alcune varianti, con corrispondente incremento dei costi, e aveva disposto due sospensioni dei lavori con proroga di 407 giorni per la consegna dell’opera.
Ancora, che era rimasta senza esito la richiesta di definizione bonaria della controversia con il conseguente ricorso all’autorità giudiziaria per il riconoscimento del maggior credito indicato in venti riserve iscritte nel registro di contabilità.
Il Consorzio, nel costituirsi, eccepì la tardività di talune riserve e chiese il rigetto della domanda; in subordine, la riduzione della somma pretesa, con gli interessi legali dalla domanda ma esclusa la rivalutazione monetaria.
Il Tribunale condannava il Consorzio al pagamento di una somma minima rispetto all’iniziale domanda.
In accoglimento parziale del gravame proposto dall’impresa, la Corte d’Appello condannava il Consorzio al pagamento di una modica altra somma, con interessi e rivalutazione, compensate le spese del doppio grado.
Avverso la sentenza d’appello, l’impresa propone ricorso per Cassazione, che la S.C. respinge.
Osserva che correttamente i Giudice di merito hanno rilevato e motivato la necessità dell’immediata iscrizione della riserva, all’atto stesso della sospensione dei lavori né può prospettarsi avanti il Giudice di legittimità una contestazione sull’apprezzamento fattuale operato nelle precedenti sedi giudiziarie circa i fatti che sono a fondamento di tali riserve.
Parimenti infondata è la violazione dell’art. 54, comma 3, R.D. n. 350/1895, vigente ratione temporis, ai sensi del quale l’appaltatore, se abbia firmato con riserva il registro di contabilità, deve, nel termine di quindici giorni, esplicarla scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande di indennità ed indicando, con precisione, le cifre di compenso cui crede di aver diritto e le ragioni di ciascuna domanda. La tardiva esplicazione non è idonea a riaprire i termini di legge e osta all’utile coltivazione della riserva stessa (
Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 18.03.2016 n. 5438 - Urbanistica e appalti 7/2016).

EDILIZIA PRIVATA: MAI INVOCABILE LA BUONA FEDE PER CHI COMMETTE UN ABUSO EDILIZIO E NON SI PREMURA DI INFORMARSI ALL’UFFICIO COMPETENTE.
Nell’ipotesi di esecuzione di un intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non ricorrono gli estremi dell’esimente della buona fede allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur chiara disposizione di legge e non si sia premurato di consultare il competente ufficio per conoscere quali adempimenti egli avrebbe dovuto compiere.
Il tema preso in esame dalla Cassazione è quello della possibile applicabilità della causa di non punibilità della buona fede con riferimento ai reati edilizi.
La vicenda processuale traeva origine alla sentenza con cui il Tribunale condannava l’imputato reputandolo colpevole dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 10 e 31, art. 44, lett. b), artt. 64, 65, 71, 72, 75, 93, 94 e 95 per aver, rispettivamente, realizzato un capannone in cemento armato, senza denuncia al comune competente, senza progetto e relazione illustrativa, senza la direzione dei lavori da parte di un professionista autorizzato, in zona sismica ed in assenza del permesso.
L’impugnazione dell’imputato era respinta dalla Corte d’Appello che riconfermava la penale responsabilità, anche sotto il profilo soggettivo, rimarcando come, sulla
base del verbale di sequestro, l’immobile abusivo si presentasse appena ultimato alla data del sopralluogo, realizzato con blocchi di lapil-cemento, con copertura di putrelle e tubolari di ferro con sovrapposte lamiere grecate. Siffatto intervento edilizio era incompatibile secondo la Corte d’Appello con una condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile, tanto più che l’imputato, proprietario e residente in loco, aveva piena disponibilità, giuridica e di fatto, del fondo.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare dolendosi del fatto che la Corte d’Appello aveva trascurato di considerare l’elemento psicologico del reato, che era nella specie mancato, giacché egli non aveva avuto alcuna possibilità di venire a conoscenza della necessità del permesso di costruire.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso dell’imputato, osservando come fosse stato attentamente valutato l’elemento soggettivo, giungendosi ad affermare l’insussistenza di qualunque ipotesi di buona fede, sulla scorta di una serie di motivate ragioni (in primis, la mancata colpevole adozione delle cautele del caso, considerato che l’imputato ben avrebbe potuto avvalersi dell’opera di un professionista del ramo).
D’altronde, aggiungono i Supremi Giudici, neppure può essere, nel caso di specie, invocato un errore sul fatto che costituisce reato ex art. 42, comma 4, c.p. (rectius, art. 47 c.p.), giacché il convincimento dell’imputato, secondo cui non sarebbe occorso il permesso di costruire era meramente soggettivo e non risultava legato ad alcuna comunicazione da parte della P.A. Sul punto, infatti, è stato già in precedenza affermato dalla Cassazione che, per trovare applicazione il principio enunciato dalla Corte costituzionale con la sent. 24.03.1988, n. 364 (con la quale detta Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte in cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile) è necessario che dagli atti del processo risulti che l’agente abbia fatto tutto il possibile per uniformarsi alla legge, sicché nessun rimprovero, neppure di semplice leggerezza, gli possa essere mosso, e che, pertanto, la violazione della norma sia avvenuta per cause del tutto indipendenti dalla sua volontà (v., sul punto: Cass. pen., Sez. III, 01.03.1991, n. 2698, S., in CED, n. 186513) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.03.2016 n. 11361 - Urbanistica e appalti 6/2016).

LAVORI PUBBLICI: INDIVIDUAZIONE DEL TERMINE TEMPORALE PER ISCRIVERE RISERVE NEI REGISTRI DI CONTABILITÀ.
L’appaltatore pubblico è tenuto a iscrivere riserva contestualmente all’insorgenza e alla percezione del fatto dannoso e per i fatti produttivi di un danno continuativo, percepibile con la normale diligenza, sicché esso non è esonerato dall’obbligo di proporre tempestiva riserva in caso di ritardata consegna dei lavori, salva la decorrenza del relativo termine dal momento in cui si manifesta obiettivamente, secondo indici di media diligenza e di buona fede, la rilevanza causale del fatto rispetto al maggior onere incontrato dall’appaltatore, il quale è poi tenuto ad esplicare la riserva nelle successive registrazioni e nel conto finale.
Con atto di diffida, un’impresa appaltatrice di lavori pubblici invitò la P.A. committente a provvedere alla risoluzione amministrativa delle riserve, apposte sul secondo stato di avanzamento dei lavori e sullo stato finale dei lavori, ai sensi dell’art. 31-bis della L. n. 109/1994 (applicabile ratione temporis) significando che, in mancanza, l’atto in questione avrebbe dovuto intendersi come domanda di arbitrato, ex art. 32 della stessa legge.
La stazione appaltante comunicava “di respingere e rigettare in toto le riserve formulate dall’impresa”.
Era quindi radicato un giudizio arbitrale.
Con lodo non definitivo, il Collegio rigettava le eccezioni preliminari e pregiudiziali proposte dalla P.A. dichiarando la rituale instaurazione del giudizio e disponendo la sua prosecuzione per l’esame del merito.
Con lodo definitivo il Collegio accoglieva parzialmente la domanda dell’impresa condannando l’Ente al pagamento di una somma di circa centomila euro, per riserve iscritte. Le due decisioni erano gravate, per nullità ex art. 829 c.p.c. con ricorso che era accolto dalla Corte d’Appello: ivi il giudice dichiarava l’improcedibilità del giudizio arbitrale, per violazione degli artt. 31-bis e 32, L. n. 109/1994, e la conseguente nullità dei lodi impugnati.
Avverso tale pronuncia era radicato un ricorso per Cassazione dall’Impresa, accolto con rinvio dalla sent. n. 14971/2007.
Il giudizio avanti la Corte di rinvio si concludeva con sentenza con la quale la Corte territoriale, ritenendo rituale e procedibile il giudizio arbitrale espletato e tempestive le riserve proposte dalla ditta appaltatrice, rigettava l’appello principale proposto dalla P.A. e l’appello incidentale proposto dall’impresa.
Per la cassazione di questa sentenza di rinvio ha proposto ricorso la Stazione appaltante nei confronti degli aventi causa dell’originario appaltatore.
La S.C. accoglie il ricorso, nuovamente cassando con rinvio la sentenza impugnata.
È condivisa la dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 53 e 54, R.D. n. 350/1895, nonché l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.
In sostanza, il ricorrente deduce che la Corte di rinvio avrebbe errato nel ritenere -peraltro con motivazione del tutto inadeguata- “tempestiva” la prima riserva, seppure annotata nel registro di contabilità nel secondo stato di avanzamento dei lavori, laddove il primo era stato sottoscritto dall’impresa senza riserva alcuna.
Osservano i Giudici di legittimità che nei pubblici appalti è obbligo dell’impresa inserire una riserva nella contabilità contestualmente all’insorgenza e percezione del fatto dannoso. In relazione ai fatti produttivi di danno continuativo, la riserva va iscritta contestualmente o immediatamente dopo l’insorgenza del fatto lesivo, percepibile con la normale diligenza, mentre il “quantum” può essere successivamente indicato. Ne consegue che, ove l’appaltatore non abbia la necessità di attendere la concreta esecuzione dei lavori per avere consapevolezza del preteso maggior onere che tale fatto dannoso comporta, è tardiva la riserva formulata solo nello stato di avanzamento dei lavori successivo (Cass. n. 5540/2004; n. 10949/2014).
Deve, pertanto, ritenersi che l’appaltatore non sia esonerato dall’obbligo -che non è circoscritto agli elementi di natura strettamente contabile ma riguarda conseguentemente tutti i fatti che siano comunque idonei a produrre spesa (Cass. n. 9380/1990)- di proporre tempestiva riserva in caso di ritardata consegna dei lavori, salva la decorrenza del relativo termine dal momento in cui si manifesta obiettivamente, secondo indici di media diligenza e di buona fede, la rilevanza causale del fatto rispetto al maggior onere incontrato dall’appaltatore, il quale è poi tenuto ad esplicare la riserva nelle successive registrazioni e nel conto finale (Cass. n. 5300/1981; n. 26916/2008).
Nel caso di specie, solo dopo tre mesi dalla consegna dei lavori l’impresa comunicava alla Stazione appaltante l’impossibilità di accedere ai fondi interessati alla realizzazione dell’opera pubblica a causa dell’indisponibilità delle aree, derivante dal mancato compimento degli atti espropriativi da parte dell’ente (accesso potutosi avere solo cinque mesi dopo la consegna dei lavori). Nondimeno, il direttore dei lavori redigeva il primo stato di avanzamento dei lavori, sottoscritto senza riserve e approvato dalla Stazione appaltante.
Solo nel secondo SAL l’impresa, accanto a riserve legate alla sospensione dei lavori per ragioni metereologiche, annotava l’iniziale pretesa, che era esplicata in seguito e reiterata nello stato finale.
Chiosano i Giudici di legittimità che non può revocarsi in dubbio che l’appaltatrice era perfettamente in grado -essendo decorsi ben cinque mesi dalla consegna degli stessi- di quantificare il pregiudizio subito per effetto dell’inadempimento iniziale realizzato dall’ente appaltante, e di effettuare anche le sue determinazioni in ordine all’eventuale prosecuzione dell’appalto, atteso il carattere istantaneo (pur se suscettibile di produrre effetti continuativi) dell’inadempimento posto in essere dall’ente, per non avere il medesimo tempestivamente perfezionato le necessarie procedure espropriative.
La riserva formalizzata dopo ben otto mesi dalla consegna dei lavori, con riferimento non alla sospensione disposta dalla direzione ma a fatti che potevano (e dovevano) essere dedotti immediatamente, avendone avuto l’impresa piena e iniziale conoscenza è da reputarsi, pertanto, tardiva.
In tema di appalti pubblici, dal combinato disposto del R.D. 25.05.1895, n. 350, artt. 53, 54 e 64 (applicabile ratione temporis) si ricava la regola secondo cui sono soggette all’onere di riserva non solo tutte le possibili richieste inerenti a partite di lavori eseguite e alle contestazioni tecniche o giuridiche circa la loro quantità e qualità ma anche (e soprattutto) quelle attinenti ai pregiudizi sofferti dall’appaltatore ed ai costi aggiuntivi dovuti affrontare, sia a causa dello svolgimento (anomalo) dell’appalto, sia a causa delle carenze progettuali per le conseguenti maggiori difficoltà che le stesse hanno ingenerato sia, infine, per i comportamenti inadempienti della stazione appaltante. E invero, l’onere della riserva assolve alla funzione di consentire la tempestiva e costante evidenza di tutti i fattori che siano oggetto di contrastanti valutazioni tra le parti e perciò suscettibili di aggravare il compenso complessivo, ivi comprese le pretese di natura risarcitoria (Cass. n. 15013/2011).
È evidente pertanto, che la sottoscrizione della riserva dopo la registrazione dello stato di avanzamento dei lavori viene a vanificare la stessa ragion d’essere del sistema, fondato sulla tempestiva comunicazione all’amministrazione delle ulteriori pretese economiche dell’impresa appaltatrice (
Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.03.2016 n. 5253 - Urbanistica e appalti 6/2016).

ESPROPRIAZIONE: LIQUIDAZIONE DELL’INDENNITÀ D’ESPROPRIAZIONE AL VALORE DI MERCATO E ONERE DELLA PROVA.
La necessità di ancorare l’indennità per le aree non edificabili agli effettivi valori di mercato (per effetto della sentenza della Corte cost. n. 181/2011) presuppone che i ricorrenti provino il valore venale del bene: infatti, anche se la sussistenza dei requisiti per applicarsi quei parametri può costituire un punto fermo, è precluso al Giudice di legittimità, in difetto di attività assertiva sul punto, verificare la congruità del ristoro in concreto offerto o giudicare della pretesa ad un ristoro quantitativamente maggiore di quello ottenuto nelle sedi di merito.
Un Tribunale condannò un Comune a pagare ad alcuni privati un importo quale risarcimento del danno per la perdita della proprietà d’un loro fondo, interessato da lavori di realizzazione di una scuola media, oltre ad altra somma per il deprezzamento del residuo fondo rimasto in loro proprietà.
Dopo aver riscontrato un’ipotesi di occupazione acquisitiva (il decreto di espropriazione era stato emesso dopo la realizzazione dell’opera ed alla scadenza dei termini d’occupazione legittima), liquidava il dovuto ai sensi dell’art. 5-bis, comma 7-bis, L. n. 359/1992, in base alla natura edificatoria del fondo e al valore posseduto alla data di perfezionamento dell’illecito, determinando altresì il risarcimento per la diminuzione di valore della porzione residua in considerazione della perdita dell’attitudine edificatoria, secondo le risultanze della CTU disposta in corso di causa.
La sentenza appellata dai privati quanto alla liquidazione del risarcimento nel periodo d’occupazione illegittima della porzione residua del fondo e nella parte in cui dichiarava l’acquisto della proprietà in capo al Comune di quella parte irreversibilmente trasformata. La decisione del Tribunale era gravata in via incidentale dal Comune.
La Corte dichiarava l’inammissibilità dell’appello incidentale e della domanda volta a conseguire il danno da spossessamento per la porzione irreversibilmente trasformata, rigettando nel resto l’appello principale. La Corte infatti, pur qualificando l’intervenuta occupazione come usurpativa, considerava che la valutazione dell’area dovesse essere pur sempre operata tenendo conto della distinzione tra aree edificabili e non, mentre nello specifico il suolo occupato era destinato a edilizia scolastica: circostanza idonea a escludere la natura edificatoria del suolo, dovendosi perciò ritenere infondata la pretesa al maggior risarcimento formulata dagli appellanti principali con riferimento alla supposta natura edificabile del fondo in oggetto.
Contro tale sentenza i privati hanno proposto ricorso per Cassazione, al quale resiste il Comune.
Il ricorso è respinto.
Osservano i Supremi Giudici che per un esatto inquadramento deve anzitutto precisarsi che a seguito della domanda introdotta dai privati, per il risarcimento del danno da perdita di proprietà, del loro fondo toccato dai lavori di realizzazione dell’edificio scolastico, il Tribunale -ravvisando un’ipotesi di occupazione acquisitiva e ritenuta la natura edificatoria del fondo- liquidava il dovuto secondo il criterio dell’art. 5-bis, comma 7-bis, D.L. n. 333/1992. Con tale sentenza quindi si dichiarava l’intervenuto acquisto della proprietà in capo al Comune.
L’assunto era gravato dai privati con doglianza condivisa dalla Corte di merito, che qualificava l’occupazione come “usurpativa” per la riscontrata nullità della dichiarazione di pubblica utilità, in ragione del fatto che non erano fissati i termini di cui all’art. 13 della L. n. 2359/1865.
Osserva la S.C., con la sentenza in commento, che nonostante tale diversa qualificazione la Corte territoriale ha respinto il gravame negando che nel caso potesse riconoscersi una natura edificabile al fondo e precisando che alcun giudicato interno poteva ritenersi formato sulla natura edificatoria del bene “essendo stato contestato il criterio risarcitorio e l’ammontare del dovuto, che variano, appunto, in relazione alla natura del bene”.
Per quanto interessa la Rivista, deve essere segnalato l’argomentare con cui è respinto il terzo motivo di ricorso. Ivi è dedotta l’erroneità della statuizione per la necessità di adeguarla, in ogni caso, alla sent. n. 181/2011 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992 e, per derivazione, l’art. 40, commi 2 e 3, d.P.R. n. 327/2001.
Sotto tale profilo, osservano i Giudici di legittimità che la necessità di ancorare l’indennità per le aree non edificabili agli effettivi valori di mercato (adeguando in tal caso i valori monetari agli effetti derivanti dalla sentenza Corte cost. n. 181/2011) presuppone che i ricorrenti -che nel caso in esame hanno già ottenuto, per effetto della sentenza di primo grado, un risarcimento calcolato ex art. 5-bis, comma 7-bis, L. n. 359/1992- precisino e provino il valore venale del bene, perché non edificabile.
Infatti, anche se tale qualificazione può costituire un punto fermo, è da ritenersi precluso al Giudice di legittimità il verificare, in difetto di attività assertiva sul punto, e il giudicare la congruità del ristoro in concreto offerto, o ancora giudicare se sia possibile un ristoro quantitativamente maggiore di quello ottenuto nelle sedi di merito (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 16.03.2016 n. 5247 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: IL RESPONSABILE DELL’UFFICIO TECNICO DEL COMUNE HA UNO SPECIFICO DOVERE DI VIGILANZA SULLA CORRETTA ESECUZIONE DEI LAVORI.
Il responsabile dell’ufficio tecnico del Comune ha, in prima persona, il dovere di controllare l’esatta esecuzione dei lavori ed il rispetto della normativa urbanistico-edilizia generale e locale e di adottare i provvedimenti del caso per il ripristino dello status quo.
Interessante la questione affrontata dalla Cassazione nel caso in esame, con cui i Supremi Giudici chiariscono in maniera inequivocabile l’esistenza di una posizione di garanzia gravante in capo al responsabile dell’ufficio tecnico del Comune rispetto alla vigilanza sul regolare assetto del territorio.
La vicenda processuale traeva origine alla sentenza con cui la Corte d’Appello riformava -per quel che qui ancora interessa- la sentenza del Tribunale che aveva condannato l’imputato per il reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis nonché per il reato di abuso d’ufficio, assolvendolo dal primo per non aver commesso il fatto e dal secondo perché il fatto non sussiste.
La Corte d’Appello, dopo aver affermato che l’unica responsabile del reato ambientale doveva reputarsi la coimputata, rilevava, in ordine al reato di abuso d’ufficio ascritto all’imputato -per aver, nella qualità di responsabile dell’ufficio tecnico comunale, rilasciato alla D. un’autorizzazione per la sostituzione delle tende solari ricadenti in suolo pubblico e successivamente altra autorizzazione, per la posa temporanea di pannelli paravento, in violazione delle norme di legge e regolamentari, omettendo di astenersi, in presenza di un interesse proprio e di prossimi congiunti, comproprietari dell’immobile interessato e successivamente di esercitare i poteri di vigilanza sui lavori e di disporre la rimozione delle opere abusive- osservava che l’autorizzazione alla sostituzione delle tende preesistenti non avrebbe avuto attinenza con la violazione ambientale, cui era correlata l’imputazione, mentre la successiva autorizzazione (del tutto corretta, sotto il profilo amministrativo) non avrebbe implicato alcun obbligo di astensione dell’imputato, solo perché comproprietario dell’immobile concesso in locazione alla D., l’unica a trarne effettivo beneficio. D’altronde, nella predetta qualità, l’imputato neppure avrebbe potuto avere uno specifico dovere di vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori, spettando la stessa ad altro organo, la Polizia Municipale.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare osservando, sotto il profilo del dovere di vigilanza, che sarebbe spettato al responsabile dell’ufficio tecnico comunale proprio il dovere di vigilanza sull’attività urbanistico edilizia, come previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 27, al fine di assicurare il rispetto delle prescrizioni stabilite dagli strumenti urbanistici e delle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, tanto che, una volta accertato l’abuso, il responsabile dell’ufficio ha il dovere di ordinare la sospensione dei lavori e di adottare i provvedimenti di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
In definitiva, la Corte d’Appello aveva trascurato di considerare come il delitto di abuso d’ufficio si perfezioni anche mediante una condotta omissiva, allorquando si tratti del mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare.
La Cassazione, nell’affermare sul principio di cui in massima, ha rigettato il ricorso del P.M., tuttavia ritenendo corretta l’interpretazione fornita quanto alla sussistenza del predetto dovere di vigilanza.
Sul punto, i Supremi Giudici hanno rilevato che l’affermazione che il responsabile dell’ufficio tecnico non avesse alcun specifico dovere di vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori era erronea. Invero, il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 27 prevede testualmente: “1. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo statuto o dai regolamenti dell’ente, la vigilanza sull’attività urbanistico- edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi.
2. Il dirigente o il responsabile, quando accerti l’inizio di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed integrazioni, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla tutela di cui al R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766, nonché delle aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, il dirigente provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni competenti le quali possono eventualmente intervenire, ai fini della demolizione, anche di propria iniziativa.
3. Ferma rimanendo l’ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio o su denuncia dei cittadini, l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile dell’ufficio, ordina l’immediata sospensione dei lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori
”.
Era dunque chiaro che l’imputato aveva, in prima persona, il dovere di controllare l’esatta esecuzione dei lavori ed il rispetto della normativa urbanistico-edilizia generale e locale e di adottare i provvedimenti del caso per il ripristino dello status quo.
Trattasi di questione non del tutto pacifica nella giurisprudenza di legittimità (nel senso dell’esistenza di una posizione di garanzia: Cass. pen., Sez. III, 28.04.2004, n. 19566, D’A. e altri, in CED, n. 228888; in senso difforme, invece: Cass. pen., Sez. III, 09.03.2011, n. 9281, B., in CED, n. 249785) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.03.2016 n. 10491 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: CESSIONE DEL TITOLO EDILIZIO E TRASLAZIONE DEI RELATIVI ONERI PATRIMONIALI VERSO LA P.A..
Nel caso di cessione di un titolo edilizio, il soggetto acquirente subentra in ogni diritto e obbligazione facente capo ai venditori, e per l’effetto è tenuto al pagamento delle somme previste nella concessione edilizia e a prestare fideiussione a garanzia dei pagamenti, in sostituzione delle fideiussioni in origine prestate.
Un privato convenne, avanti il Tribunale ordinario, un’impresa edile, per accertare che la stessa era subentrata nelle obbligazioni, già gravanti in capo a sé, verso un Comune e relative al pagamento di somme dovute in forza di una concessione edilizia, oltre ad altri importi da essa derivati.
Nello specifico, l’attore sostenne di aver ottenuto un titolo edificatorio per la ristrutturazione di un edificio e che esso prevedeva il versamento di oneri di urbanizzazione da pagare in quattro rate, decorrenti dalla data di rilascio della concessione, oltre alla prestazione di fideiussione bancaria a garanzia degli oneri. La concessione, ancora, imponeva il versamento della quota di contributo sul costo di costruzione, di cui era pure previsto il pagamento rateale. L’attore assunse, ancora, di aver contratto a favore del Comune la fideiussione bancaria prevista a garanzia delle obbligazioni scaturenti dal rilascio della concessione.
Sicché l’attore  pagata ogni rata relativa a oneri d’urbanizzazione- aveva venduto il terreno e il sovrastante fabbricato all’impresa convenuta, che aveva notiziato il Comune dell’acquisto del bene assicurando altresì che sarebbe subentrata in ogni diritto, dovere e onere assunto dal venditore e chiedendo che fosse rilasciata nuova concessione edilizia direttamente ad essa impresa acquirente.
Nondimeno, l’impresa convenuta non provvide né al pagamento degli oneri, né del costo di costruzione, né prestò la fideiussione sostitutiva di quella in origine prevista in capo al proprio dante causa (odierno attore): in ragione di ciò, il Comune pretese dal privato - originario titolare - quanto dovuto per contributo nel costo di costruzione e gli interessi maturati.
Si costituì l’impresa, sostenendo che gli oneri di urbanizzazione per il rilascio dell’originaria concessione edilizia erano rimasti a carico dei venditori, come pattuito nel contratto di compravendita. La convenuta si era solo limitata, prima della vendita, a ottenere, nell’interesse proprio ma a nome dei venditori, una variante modificativa della concessione edilizia, assumendosi gli oneri relativi esclusivamente a tale variante.
Nel corso dell’istruttoria testimoniale, emerso il contrario, la convenuta con separata citazione conveniva gli attori al medesimo Tribunale e, richiamati i fatti di causa, evidenziava che per mero errore aveva versato al Comune anche una parte degli oneri di urbanizzazione e del contributo nel costo di costruzione, relativi alla prima concessione, chiedendo pertanto il rimborso delle somme versate a tale titolo.
Riuniti i due giudizi, il Tribunale dichiarava che l’impresa convenuta era subentrata in ogni diritto e obbligazione facente capo ai venditori, sicché essa era tenuta al pagamento delle somme previste nella concessione edilizia sin dal momento dell’acquisto, come del resto era tenuta a prestare fideiussione a garanzia dei pagamenti, in sostituzione delle fideiussioni in origine prestate dai privati, rigettando così anche la domanda proposta con separato atto di citazione da parte della società.
La sentenza era oggetto di appello dell’impresa, che la Corte territoriale respinse.
La questione approda all’esame della S.C., con ricorso dell’impresa soccombente nel doppio grado di merito, al quale gli intimati non resistono.
I giudici di legittimità accolgono il gravame limitatamente al primo motivo di ricorso, recante censura di nullità della sentenza in ragione dell’omessa pronuncia sul terzo motivo d’appello, relativo alla liquidazione delle spese di lite fatta dal Tribunale.
Per il resto, la Corte nomofilattica conferma le due statuizioni di merito, respingendo le censure d’indole urbanistica e edilizia.
In particolare, nel respingere il terzo motivo (contenente doglianza d’insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, laddove ha provveduto all’interpretazione della volontà delle parti), la S.C. afferma che emerge dagli atti che i privati -originari attori- ottennero una concessione edilizia con la quale il Comune autorizzava la ristrutturazione di un complesso edilizio. Alienato l’immobile alla società ricorrente ed essendo questa interessata, anziché alla ristrutturazione, alla realizzazione di una serie di villette a schiera, fu chiesta e ottenuta una variante all’originaria concessione, per la costruzione delle villette in questione. Peraltro tale variante è scaturita da una richiesta presentata da parte della stessa impresa ricorrente, sebbene ancora intestata agli originari proprietari: questo perché l’atto di trasferimento della proprietà dell’immobile è intervenuto solo in tempo successivo alla variante.
La domanda che ha generato il presente giudizio scaturisce dalla pretesa degli originari titolari del bene (attori in primo grado) di accertare che, a seguito dell’atto di trasferimento, la società acquirente doveva farsi carico non solo degli ulteriori oneri concessori e del contributo di costruzione, come determinati nella variante ma anche di quelli scaturenti dal rilascio della primigenia concessione.
La Corte d’Appello ciò ha affermato, con sentenza condiviso dalla Cassazione.
Questo, con argomenti che si fondano tanto nella lettura di più punti del contratto di compravendita, quanto nell’infondatezza della tesi -avanzata dall’impresa- per cui la variante (per essa, richiesta dagli originari proprietari) era da considerarsi una nuova concessione, sicché l’impresa stessa doveva far fronte solo agli oneri derivanti da quest’ultima.
Tale ultima argomentazione era anzitutto smentita dall’istruttoria testimoniale, le quali deponevano nel senso che l’effettiva volontà delle parti fosse quella di assicurare al costruttore acquirente la possibilità di realizzare il diverso progetto contemplato nella variante, assumendosi tutti gli oneri di natura concessoria. Era poi da disattendere, in diritto, la tesi per la quale la variante costituiva era per “nuova concessione”, atteso che la somma degli oneri di urbanizzazione e del contributo nel costo di costruzione, relativi ai provvedimenti adottati, era pari all’importo dovuto con riguardo alla volumetria scaturente dalla realizzazione delle villette a schiera, essendosi il Comune limitato, in occasione del rilascio della variante, a calcolare esclusivamente gli oneri necessari per far fronte alla complessiva volumetria scaturente dal progetto edificatorio della società ricorrente, al netto di quanto già determinato in occasione del rilascio della prima concessione.
Né poteva trascurarsi la circostanza che, non avendo i venditori compiuto alcuna attività di trasformazione urbanistica, l’obbligo di contribuzione non poteva che essere posto a carico di chi in concreto aveva compiuto tale attività, e cioè la società appellante (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 14.03.2016 n. 4947 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: COMMITTENTE RESPONSABILE DELL’ABUSO EDILIZIO ANCHE SE OTTIENE IL RILASCIO DI UN ILLEGITTIMO PERMESSO DI COSTRUIRE.
Le responsabilità gravanti ex lege sul titolare del permesso di costruire, sul committente e sul costruttore, costituenti a carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di garanzia diretta sulla quale si fonda l’addebito, di natura anche colposa, per il reato edilizio, non è esclusa dal rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o con gli strumenti urbanistici e, a maggior ragione, non lo è in caso di intervento realizzato direttamente in base a denunzia di inizio di attività, atto non pubblico proveniente dal privato e non dalla pubblica amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni che quest’ultima possa assumere al riguardo, soprattutto se l’opera realizzata costituisce attuazione del programma progettuale ed è dunque riconducibile all’ideazione del committente.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, su un tema particolare, relativo alla delimitazione della responsabilità del committente nel campo degli illeciti edilizi.
Prima di soffermarci sulla, interessante, pronuncia resa dalla S.C., è opportuno qui ricordare che ai fini dell’individuazione dei soggetti responsabili degli abusi edilizi di natura amministrativa e penale, la normativa vigente stabilisce all’art. 29 del T.U. in materia edilizia n. 380/2001, che il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo.
Tale disposizione costituisce quasi una presunzione juris tantum, stabilendo a priori i soggetti tenuti a rispondere dell’abuso; ciò anche in ragione del fatto che la disciplina concerne reati di natura contravvenzionale e non delittuosa, punibili indistintamente a titolo di dolo o colpa. I soggetti elencati nella suddetta norma sono tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e, solidalmente, alle spese per l’esecuzione in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, sempre fatto salvo che dimostrino di non essersi resi responsabili dell’illecito.
Costoro, per espressa previsione legislativa, non possono dismettere il ruolo di garanti della legalità né possono avvalersi di assunzioni di responsabilità da parte di terzi. Si tratta di una sorta di “responsabilità di posizione” dovendo, il soggetto che riveste una specifica qualifica, preoccuparsi in prima persona del rispetto della normativa urbanistico/edilizia. Tuttavia, questa “responsabilità di posizione” legislativamente prevista non trasforma gli illeciti edilizi in reati propri, in quanto i reati in materia edilizia contemplati dall’art. 44, lett. b) e c), d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) devono essere qualificati come reati comuni e non come ipotesi incriminatrici a soggettività ristretta, salvo che per i fatti commessi dal direttore dei lavori o per la fattispecie di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori impartito dall’autorità amministrativa.
Il bene tutelato da dette norme incriminatrici, ovvero la salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio, può essere, dunque, indifferentemente offeso da chiunque si renda autore di attività determinanti trasformazioni urbanistiche ed edilizie territoriali e non soltanto da quei determinati soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall’art. 29 del T.U. in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001).
In ragione di quanto argomentato, si rende necessario definire con maggiore precisione ognuna delle singole qualifiche soggettive, in particolare, per quanto qui di interesse, il committente.
Relativamente alla posizione di quest’ultimo è necessario solamente specificare che costui risponde dell’illecito penale previsto dall’art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 ove non vigili sull’osservanza, da parte dell’esecutore, della normativa edilizia, in quanto questi è titolare di una specifica posizione di garanzia derivante dalla predetta normativa.
In sostanza, la responsabilità del committente trova fondamento proprio nell’omissione di vigilanza cui questi è tenuto, in considerazione del fatto che l’opera soddisfa un suo preciso interesse (Cass. pen., Sez. III, 21.12.2011, n. 47434, R., in CED, n. 251636).
Tanto premesso, nel caso in esame, l’imputato rispondeva del reato di cui agli artt. 40, cpv., 110, c.p., 44, lett. c), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 perché, quale proprietario committente, in concorso con due pubblici ufficiali del Comune di C. d. P. (che avevano archiviato il procedimento amministrativo finalizzato all’accertamento dell’abuso edilizio, così concorrendo alla sua realizzazione), con i progettisti, i direttori dei lavori e il titolare dell’impresa esecutrice degli stessi, aveva ristrutturato, mediante soprelevazione e suddivisione di due unità immobiliari, il villino di sua proprietà, sito in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza di valido titolo edilizio essendo illegittima la D.I.A. perché in contrasto con la normativa in materia di distanze tra fabbricati (art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 e 26 delle N.T.A. del P.R.G.), posto che la soprelevazione era stata realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri rispetto al fabbricato adiacente.
L’imputato aveva contestato la sua responsabilità, ritenendo non essere responsabile del reato contestatogli. La Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima, ha dunque ribadito che il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore sono responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Nella specie, l’opera realizzata costituiva attuazione del programma progettuale ed era dunque riconducibile all’ideazione del committente. Da qui, pertanto, il rigetto della tesi difensiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.03.2016 n. 10106 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: OBBLIGO D’INFORMATIVA DI IRREGOLARITÀ EDILIZIE O URBANISTICHE IN CASO DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE.
È onere della parte venditrice di un immobile notiziare l’acquirente di eventuali irregolarità edilizie o urbanistiche, indipendentemente dalla concreta rappresentazione nel corso delle trattative della specifica finalità che spinge quest’ultimo al perfezionamento dell’operazione, posto che quest’ultimo soggetto ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la sua funzione economico-sociale e a soddisfare i bisogni che ne inducono all’acquisto, ossia a conseguire la fruibilità e la commerciabilità del bene, rispetto alla quale il certificato di abitabilità -indispensabile ai fini della piena realizzazione della funzione socio-economica del contratto di compravendita immobiliare- deve ritenersi essenziale: onde il suo rifiuto di stipulare la compravendita definitiva dell’immobile privo del suddetto certificato di abitabilità è da ritenersi giustificato.
Il promissario acquirente di un immobile convenne in Tribunale il venditore del bene, chiedendo dichiararsi la legittimità del proprio recesso dal preliminare di compravendita immobiliare e la condanna della parte convenuta, promittente alienante, alla corresponsione del doppio della caparra versata.
Il contratto riguardava un immobile che l’attrice deduceva non conforme a quello promesso in vendita.
Il Tribunale accolse le domande attrici ritenendo che, in disparte la questione della contestata presenza di alcune planimetrie dell’immobile tra i documenti, allegati al preliminare, il recesso dell’attrice fosse legittimo perché, con riferimento al bene promesso in vendita, erano emerse delle irregolarità urbanistiche e che, in definitiva, due delle tre unità abitative di cui si componeva l’immobile erano prive dei requisiti costruttivi e volumetrici idonei al conseguimento del certificato di abitabilità.
Ancora, il Tribunale rilevava che la promittente alienante aveva omesso di comunicare tali carenze e che pertanto trovava giustificazione l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1385, comma 2, c.c. La sentenza era oggetto di gravame che la Corte d’Appello respinse, evidenziando peraltro che solo all’esito dello scambio di corrispondenza intercorso tra le parti (dopo la stipulazione del preliminare e le verifiche catastali e urbanistiche) la promissaria acquirente aveva avuto modo di accertare che l’immobile non era confacente alla finalità per cui era stato acquistato. Per l’effetto, correttamente il Tribunale aveva ritenuto inadempiente la venditrice, per non aver messo a conoscenza la controparte della reale situazione dell’immobile, avendo particolare riguardo al profilo concernente l’utilizzabilità a scopo abitativo dello stesso.
Era, infatti, obbligo della promittente alienante evidenziare a controparte i limiti della fruibilità di tutti i locali costituenti l’immobile oggetto dell’affare.
La sentenza della Corte d’Appello è oggetto di ricorso per Cassazione, che la S.C. respinge.
Anzitutto, per ragioni di rito, sono disattesi i motivi poggianti sulla dedotta interpretazione delle risultanze istruttorie, qui prospettati come vizio di “omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo” nonché di violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 1385 e 1355 c.c. In proposito, la Corte di cassazione rammenta che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, tramite le risultanze di causa, è estranea all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi -violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta- è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass., SS.UU., n. 10313/2006; Cass. n. 8315/2013).
Nel merito, la S.C. respinge il ricorso osservando che l’inidoneità del bene, oggetto di compromesso, allo scopo pattuito è palese alla luce della documentazione di causa: l’edificio non si prestava allo scopo per il quale s’intendeva acquistarlo. Inoltre, rileva un inadempimento del promittente venditore che non ha posto l’altra parte a conoscenza della reale situazione urbanistica del bene -compresa l’utilizzabilità a scopo abitativo di tutte o alcune delle sue zone- in osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede delle parti, che nella fattispecie imponevano di informare l’aspirante acquirente della mancanza anche solo parziale delle caratteristiche ricercate del bene da acquisire.
Del resto, indipendentemente dalla concreta rappresentazione nel corso delle trattative dello specifica finalità che spinge il promissario acquirente al perfezionamento dell’operazione, quest’ultimo soggetto ha interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la sua funzione economico sociale e a soddisfare i bisogni che inducono all’acquisto, ossia a conseguire la fruibilità e la commerciabilità del bene, rispetto alla quale il certificato di abitabilità deve ritenersi essenziale: onde il suo rifiuto di stipulare la compravendita definitiva dell’immobile privo del suddetto certificato di abitabilità è da ritenersi giustificato (Cass. 11.05.2009, n. 10820; Cass. 19.12.2000, n. 15969).
In altri termini, come sottolineato anche dalla più autorevole dottrina, il possesso del certificato di abitabilità è indispensabile ai fini della piena realizzazione della funzione socio- economica del contratto (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 10.03.2016 n. 4717 - Urbanistica e appalti 6/2016).

APPALTI: FORMA DEL CONTRATTO DI PATROCINIO.
In tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura alle liti ai sensi dell’art. 83 c.p.c. qualora sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa: spetta al giudice di merito esaminare il fatto decisivo, costituito dall’idoneità della procura (quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza processuale) e dell’atto difensivo (redatto e sottoscritto dal difensore) a integrare la proposta e la correlativa accettazione del contratto valido sotto il profilo formale.
Un Giudice di pace, nel decidere sull’opposizione proposta da una Camera di commercio avverso il decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, su istanza di un avvocato, dichiarò il diritto di quest’ultimo ad ottenere il pagamento dei compensi professionali in dipendenza di prestazioni professionali dal medesimo rese in favore dell’Ente.
La sentenza fu riformata dal Tribunale, in sede di gravame, ritenendosi che la procura generale conferita al professionista fosse inidonea a soddisfare le prescrizioni di legge, non individuando con esattezza l’oggetto del contratto perché genericamente riferita a ogni causa di recupero crediti: per il che, ad avviso del Tribunale, difettava il necessario collegamento tra essa e l’atto defensionale.
Ricorre, per la cassazione della sentenza, il libero professionista, con ricorso che la S.C. accoglie.
È dedotta la violazione degli artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923 oltre che degli artt. 1325, 1326 ss. c.c. i quali -secondo l’insegnamento del Giudice nomofilattico- ben consentono il perfezionamento di contratto di patrocinio, in forma scritta, attraverso da un lato il rilascio di procura alle liti, generale o speciale, e, dall’altro, la redazione del singolo atto di difesa sottoscritto dal difensore, e cioè, nello specifico, degli atti con i quali il legale aveva espletato il contratto d’opera intellettuale, ricevuto per il recupero dei crediti dell’Ente.
Parimenti, si censura la considerazione del Giudice di merito per il quale la procura non individuava con esattezza l’oggetto del contratto, essendo stata genericamente riferita a tutte le cause di recupero crediti.
La S.C., nel richiamare un proprio recente arresto (Cass., Sez. VI-3, 24.02.2015, n. 3721), afferma che la doglianza inerente l’omessa considerazione che lo ius postulandi era stato espressamente conferito anche per “intraprendere azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate e dare loro impulso” e che il professionista aveva utilizzato la procura proprio per costituirsi in un processo esecutivo, coglie un deficit motivazionale che è ragionevolmente frutto di un corrispondente deficit nell’iter cognitivo del decidente, il quale ha ritenuto generica la procura senza valutarne un profilo essenziale sia in astratto, sia, quel che più conta, in concreto, in relazione, cioè, all’attività difensiva svolta e posta a base della domanda di pagamento.
Sicché, deve applicarsi il principio di diritto per il quale in tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il requisito della forma del contratto di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai sensi dell’art. 83 c.p.c., qualora sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie per le quali opera la procura stessa.
In relazione a tal principio, il giudice del merito deve esaminare il fatto decisivo, costituito dall’idoneità della predetta procura quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza processuale, e dell’atto difensivo in concreto redatto e sottoscritto dal difensore, a integrare la proposta e la correlativa accettazione di un contratto di patrocinio tra l’ente pubblico e il professionista, valido anche sotto il profilo formale.
In proposito, la Corte di Legittimità ricorda che sulla questione dell’idoneità del rilascio della procura ad lites, seguita dall’atto difensivo sottoscritto dall’avvocato, a sopperire alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio, sono già intervenute numerose pronunce, tra l’altro in giudizi tra le stesse parti, che hanno ribadito il principio appena richiamato (tra le tante, Sez. VI-3, nn. 7796; 10674; 10753; 15454; 15925 del 2015; Sez. VI-2, nn. 1628; 4235; 4236; 4359; 4360; 4361; 4362; 4363; 4364; 4363; 4365; 4366; 4367; 4560; 4561; 4562 del 2016) (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, sentenza 08.03.2016 n. 4563 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: REATI URBANISTICI E PAESAGGISTICI SONO REATI PROPRI SE RIFERITI ALLA POSIZIONE DEL DIRETTORE DEI LAVORI.
Sebbene i reati previsti in tema di realizzazione di opere edilizie in assenza delle prescritte autorizzazioni, siano esse specificamente connesse alla normativa di tutela urbanistica ovvero siano riferite a quella a garanzia del patrimonio paesaggistico ed ambientale, devono essere qualificati come reati comuni e non come reati a soggettività ristretta, va precisato che siffatto principio cessa tuttavia di avere validità per quel che concerne la posizione del direttore dei lavori, per il quale deve, viceversa, ritenersi che la specifica qualifica rivestita sia elemento necessario ai fini della integrazione del reato, trattandosi, pertanto, limitatamente a tale soggetto, di un reato proprio.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della natura giuridica dei reati in materia edilizia e paesaggistica, ossia se gli stessi possano essere ritenuti come propri ovvero che reati comuni.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza che aveva confermato la dichiarazione di penale responsabilità degli imputati -per quanto qui di interesse del direttore dei lavori- in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis per avere eseguito alcuni interventi edilizi in zona di particolare pregio paesistico, in assenza della prescritta autorizzazione.
In particolare, quanto al reato in materia di tutela del paesaggio, rilevava la Corte d’Appello che non poteva accogliersi la linea difensiva del direttore dei lavori, secondo la quale egli aveva operato solo sulla carte, come direttore dei lavori, senza avere presenziato né partecipato alla realizzazione di opere abusive.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori, in particolare sostenendo che egli, avendo svolto solo le mansioni di direttore dei lavori, ignorava la esistenza del vincolo paesaggistico, né tale esistenza poteva essere a lui opposta sulla sola base del fatto che lo stesso sarebbe stato negligente nel non informarsi, data la natura delittuosa del reato non punibile a titolo di mera colpa e che, se la sua responsabilità si fondava sulla qualifica rivestita di direttore dei lavori, nel suo caso la cessazione della permanenza del reato doveva certamente essere ancorata alla data del 21.01.2005, data di cessazione della efficacia del permesso a costruire rilasciato per le opere in questione e, pertanto, anche data di scadenza del suo incarico.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso del direttore dei lavori, in particolare osservando come appariva non adeguatamente motivata la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui, pur essendo stato correttamente rilevato che costituisce, ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, comma 2, fattore esimente la penale responsabilità del direttore dei lavori il fatto che questi abbia rinunziato all’incarico conferitogli dalla committenza dei lavori, segnalando contestualmente la irregolarità di questi, non si era, parimenti, rilevato che, essendo venuto meno l’incarico del G. di direttore dei lavori per effetto della intervenuta decadenza del permesso a costruire ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2000, art. 15 la sua responsabilità non poteva essere collegata esclusivamente al mancato rispetto dei doveri di diligenza connessi alla qualifica, non più rivestita, di direttore dei lavori (v., sulla natura di reato proprio se riferito alla posizione del direttore dei lavori: Cass. pen., Sez. III, 19.12.2007, n. 47083, T., in CED, n. 238471).
Si noti, peraltro, che, successivamente alla sentenza in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis, D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 06.07.2002, n. 137), nella parte in cui prevede “: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed”.
Con l’intervento del giudice delle leggi, quindi, ne consegue la parificazione della risposta sanzionatoria (secondo l’assetto già sperimentato dal legislatore al momento della codificazione), con la riconduzione delle condotte incidenti sui beni provvedimentali alla fattispecie incriminatrice di cui al comma 1, salvo che, al pari delle condotte incidenti sui beni tutelati per legge, si concretizzino nella realizzazione di lavori che comportino il superamento delle soglie volumetriche indicate al comma 1-bis (Corte cost., sent. 23.03.2016, n. 56) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.03.2016 n. 9134 - Urbanistica e appalti 6/2016).

EDILIZIA PRIVATA: AL FINE DEL RISPETTO DEI LIMITI DI ALTEZZA DI UN FABBRICATO IL CALCOLO VA OPERATO FACENDO RIFERIMENTO AL PIANO DI POSA DELL’EDIFICIO.
In tema di costruzione di un fabbricato ai fini del rispetto dei limiti di altezza, il relativo calcolo va operato facendo riferimento al piano di posa dell’edificio che, dovendo essere perfettamente orizzontale, deve, se il piano naturale di campagna sia inclinato e presenti livelli diversi, essere determinato calcolando la media delle misure dei vari punti del perimetro esterno della costruzione.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene ad una questione, invero non molto scandagliata dalla Cassazione, della individuazione dei criteri di calcolo per la verifica del rispetto dei limiti di altezza di un edificio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il tribunale aveva condannato C.A.M., A.L. e M.R. V. alla pena di € 2000 di ammenda avendoli riconosciuti responsabili, in concorso tra loro, dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), per avere realizzato un edificio in parziale difformità dal permesso a costruire loro rilasciato, e cit. d.P.R., artt. 93 e 95, per avere realizzato il predetto edificio senza avere preventivamente depositato gli atti progettuali presso l’ufficio competente del Genio civile.
Il Tribunale aveva rilevato che, sebbene non fosse stato acquisito agli atti del fascicolo il progetto assentito, era plausibile che l’altezza complessiva fosse stata stabilita con riferimento al piano di campagna, non potendo evidentemente essa misurarsi a partire dalla faccia superiore dell’ancora realizzando marciapiede, come, invece, ritenuto dalla difesa degli imputati, secondo la quale, peraltro il marciapiede in questione avrebbe avuto un’altezza rispetto al piano di campagna non di 10 cm ma di 38 cm, posto che, chiarisce il Tribunale, in tal modo la misura dell’altezza dell’edificio verrebbe condizionata dall’altezza del marciapiede realizzato in adiacenza, potendo la maggiore altezza del manufatto essere compensata da una maggiore altezza del marciapiede.
Contro la sentenza avevano proposto ricorso gli interessati, in particolare dolendosi del fatto che il Tribunale si fosse sostituito alla autorità amministrativa nell’affermare che il calcolo dell’altezza del manufatto in questione doveva essere fatto a partire dalla quota del piano di campagna grezzo e non, come ritenuto dal Comune, attributario delle competenze amministrative in materia di definizione delle quote urbanistiche e degli allineamenti, a partire dalla quota della superficie del costruendo marciapiede.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui in massima, ritenendo preferibile a quello del quale si erano fatti portatori gli imputati, cioè che l’altezza dell’edificio va calcolata al netto della altezza del marciapiede circostante, in quanto solo il primo criterio, assicurando la univoca oggettività del piano di impostazione del manufatto, non suscettibile di variazioni legate alle diverse scelte costruttive del marciapiede nei singoli punti in cui esso è realizzato, appare più conforme ad assicurare, sotto il profilo del decoro della edilizia urbana, il rispetto di un criterio uniforme di calcolo in maniera che si evitino difformità, sia pure contenute, nei livelli di colmo degli edifici, difformità che sarebbero legate a scelte, anche eventualmente interessate, coinvolgenti l’altezza di elementi accessori all’edificio quale potrebbe essere appunto il circostante marciapiede; ciò tanto più in un’ipotesi in cui, come nella presente fattispecie, il marciapiede ancora non era stato realizzato e nella quale, pertanto, la sua maggiore o minore altezza rispetto al piano sottostante potrebbe incidere su pregresse scelte costruttive, rendendo lecito, attraverso una sapiente modulazione dei livelli costruttivi di esso, ciò che, invece tale originariamente non era (V., in senso conforme, la remota ma sempre attuale: Cass. pen., Sez. III, 08.02.1983, n. 1272, C., in CED, n. 157387) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.03.2016 n. 9133 - Urbanistica e appalti 5/2016).

URBANISTICA: QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELLE CONVENZIONI URBANISTICHE, TEMPI E GIURISDIZIONE CIRCA LE CONTROVERSIE DA ESSE NASCENTI.
L’atto d’obbligo assunto dal privato per la costruzione di opere di urbanizzazione e la cessione di aree in esecuzione di uno strumento urbanistico particolareggiato va inquadrato nell’ambito delle intese tra privato e P.A., quale mezzo per assolvere gli impegni imposti a suo carico dalle norme edilizie, circa il quale è esperibile azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., di fronte al Giudice amministrativo, oggi ai sensi dell’art. 133 c.p.a., condizionatamente al fatto che non sia decorso il tempo previsto dalla convenzione o, in difetto, dall’art. 8, comma 5, n. 3, L. n. 765/1967, vigente ratione temporis.
Un Comune convenne in Tribunale un privato e -premettendo che con atto unilaterale d’obbligo costui si era impegnato a eseguire opere di urbanizzazione su un fondo di sua proprietà e a cedere gratuitamente alcune aree- espose che tali obblighi erano rimasti inadempiuti e chiese emettersi sentenza traslativa ex art. 2932 c.c. delle aree in questione.
Il Tribunale adito accolse la domanda ma la decisione fu riformata dalla Corte d’Appello che, con la sentenza qui impugnata, dichiarò prescritta la pretesa osservando: che le opere di urbanizzazione avrebbero dovuto essere eseguite entro dieci danni dal rilascio della relativa licenza edilizia; che tale dies a quo era certamente anteriore al giorno in cui constava che le opere erano state per la gran parte eseguite, con la definitiva impossibilità per il Comune di rilasciare la licenza stessa; che il diritto alla cessione gratuita delle aree, quale contributo per le opere di urbanizzazione secondaria, era immediatamente esigibile, già alla stipula dell’atto d’obbligo.
Per la cassazione della sentenza ricorre il Comune, con ricorso che la S.C. respinge.
Osserva la Corte di cassazione che i due motivi di gravame sono infondati, il primo, e inammissibile, il secondo. Occorre, in punto premettere che l’atto d’obbligo assunto dal privato -di cui il Comune ha lamentato l’inosservanza, chiedendo l’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c. in materia esperibile (SS.UU., n. 4683/2015)- va inquadrato in relazione al suo stesso oggetto e nell’ambito delle intese tra privato e P.A., con il quale il primo assume l’obbligo di eseguire (o comunque esegue) una determinata prestazione o di effettuare una cessione gratuita di aree, come mezzo per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e dunque, per assolvere gli “impegni” imposti a suo carico dalle norme edilizie. Ancora, che ogni questione relativa alla giurisdizione del giudice ordinario adito, a conoscere di detta controversia, è preclusa, essendosi, sul punto, formato il giudicato interno (SS.UU., n. 24883/2008).
Il contenuto di tali intese, in base all’art. 8 della L. n. 765/1967, vigente ratione temporis, è composto di una parte necessaria e non negoziabile (concernente la previsione attuativa delle opere di urbanizzazione) e di una parte disponibile (rivolta alla determinazione dei modi e dei tempi esecutivi) per i quali la norma si limita a stabilire che tale tempo non deve essere superiore ai dieci anni. Risulta dall’impugnata sentenza che, relativamente alle aree su cui dovevano essere eseguite le opere di urbanizzazione primaria, tale tempo è stato fissato dal costruttore in dieci anni a decorrere dalla data di rilascio della relativa licenza edilizia, mentre la cessione gratuita dell’area per le opere di urbanizzazione secondaria è stata dichiarata immediatamente esigibile, a semplice richiesta del Comune.
Ma, conclude la S.C., anche a voler seguire la prospettazione del ricorrente in riferimento alle aree indicate quali strade (pattuizione del termine di dieci anni per il costruttore, e successivo termine di dieci anni per la relativa richiesta del creditore) va, ad abundantiam, rilevato che a norma dell’art. 31 della L. n. 1150/1942, quale sostituito dall’art. 10, comma 1, L. n. 765/1967, l’obbligato non poteva procedere all’esecuzione delle opere di urbanizzazione del terreno in assenza di specifico titolo abilitativo edilizio, mai stata rilasciato, sicché la relativa prestazione risultava, in definitiva, inesigibile, con conseguente infondatezza della domanda (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 04.03.2016 n. 4264 - Urbanistica e appalti 5/2016).

EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE NON È SOGGETTO AL TERMINE DI PRESCRIZIONE PREVISTO PER LA PENA NÉ PER LA SANZIONE AMMINISTRATIVA.
In materia di reati concernenti le violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall’art. 173 c.p. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dalla L. n. 689 del 1981, art. 28 che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C. verte, in particolare, sulla suscettibilità dell’ordine di demolizione di declaratoria di estinzione come previsto in generale per le pene e per le sanzioni amministrative pecuniarie.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello rigettava la richiesta proposta da A.M.G. di sospensione o revoca dell’esecuzione della sentenza emessa dalla Corte stessa. I giudici rilevavano, per quanto qui di interesse, che l’ingiunzione emessa dal PG non era soggetto ai termini di prescrizione delle sanzioni penali accessorie, trattandosi di atto esecutivo di una sanzione amministrativa, essendo certa la competenza a tal fine del PG stesso.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il condannato, in particolare sostenendo che la Corte d’Appello non avesse minimamente dato conto della qualificazione dell’ordine di demolizione quale pena accessoria con natura amministrativa e peraltro rilevando che, ancorché si volesse aderire a consimile prospettazione giuridica, comunque anche la sanzione amministrativa doveva considerarsi estinta ai sensi della L. n. 689 del 1981, ex art. 28, essendo tale questione anch’essa completamente obliterata dalla motivazione dell’ordinanza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare, ponendosi in linea con una consolidata giurisprudenza di legittimità la quale afferma che in materia di reati concernenti violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione stabilita dall’art. 173 c.p. per le sanzioni penali, avendo natura di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col bene, indipendentemente dal fatto che questi sia l’autore dell’abuso (Cass. pen., Sez. III 15.12.2015, n. 49331, P.M. in proc. D., in CED, n. 265540; si noti che, in motivazione, la S.C. ha precisato che tali caratteristiche dell’ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di “pena” elaborata dalla giurisprudenza della Cedu) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.02.2016 n. 8183 - Urbanistica e appalti 5/2016).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: ANCHE LA MACROSCOPICA ILLEGITTIMITÀ DELL’ATTO COMPIUTO È ELEMENTO DI PROVA DEL DOLO INTENZIONALE NELL’ABUSO D’UFFICIO.
In tema di abuso d’ufficio, la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa, può essere desunta anche da elementi sintomatici come la macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire specificamente quel privato interessato alla singola vicenda amministrativa.
Ormai consolidata la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla questione giuridica oggetto di esame da parte dei giudici di legittimità con la sentenza qui annotata, in cui viene ad essere nuovamente affrontato il tema della individuazione degli elementi da cui è desumibile l’elemento soggettivo normativamente richiesto ai fini della punibilità del reato di abuso d’ufficio.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello, pur riformando la sentenza di primo grado dichiarando prescritti i reati, aveva confermato le statuizioni civili della sentenza che aveva riconosciuto R.G. e P.F. responsabili dei reati agli stessi ascritti, ricondotti, quanto al primo, all’egida dell’art. 323 c.p. e, quanto al secondo, alle ipotesi di reato, realizzate in concorso con M.A., di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (capo B), art. 481 c.p. in reazione al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29 (capo C) e art. 633 c.p. (capo D).
Le situazioni in fatto sottese alle dette contestazioni inerivano ai lavori di ricostruzione di un edificio, adibito a bar, andato distrutto per effetto di un incendio, lavori, questi realizzati da M.A. sotto la direzione del P., il quale aveva anche redatto la relazione tecnica allegata alla relativa DIA. Detti lavori ricadevano su suolo di proprietà demaniale e dunque non di proprietà del M. e riguardavano, infine, un manufatto abusivo, oggetto di precedente condono, negativamente esitato perché la relativa domanda era stata dichiarata improcedibile.
Da qui l’affermazione di responsabilità dei due predetti imputati, per avere il R., quale responsabile del procedimento in capo all’amministrazione competente, attestato la conformità dei lavori alla DIA; il P., per aver concorso con il M., nella violazione del citato d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 nonché nel falso di cui al capo C e nell’arbitraria occupazione del bene demaniale interessato dai citati lavori di ricostruzione, oggetto del capo D della rubrica.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione gli interessati, in particolare sostenendo, quanto alla regolarità edilizia dell’edificio distrutto, che la stessa si fondava su una pratica di condono lontana nel tempo, seguita da una attività di esercizio commerciale ivi svolta senza soluzione di continuità, sintomo esterno di regolarità edilizia del cespite.
E tanto costituiva fonte di evidenza probatoria tale da giustificare l’applicazione dell’art. 129, comma 2, c.p.p., quantomeno sotto il versante del dolo. Quanto al P., si evidenziava che l’imputato avrebbe asseverato la Dia presentata dal M. in termini non coincidenti al vero perché tratto in inganno dalle dichiarazioni del concorrente oltre che in ragione dei medesimi documenti, richiamati anche nel ricorso dell’altro imputato, che assentivano logicamente l’ipotesi della proprietà del bene in capo al detto M., anche alla luce della pregressa attività commerciale svolta presso il citato immobile, anche questa legittimante l’idea della regolarità edilizia del cespite andato distrutto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha dichiarato inammissibili i ricorsi, ritenendo che rispetto alla oggettività di tali elementi in fatto, che, in termini diacronici (la originaria natura abusiva del manufatto desumibile dalla presenza del condono e la causale della perdita di efficacia del condono stesso, legata alla assenza di un titolo legittimante) fotografavano sul piano logico, con immediatezza, i presupposti fondanti la consapevole violazione di legge realizzata nel rendere la rassegnata attestazione conformità.
Priva di rilievo era anche la rimarcata assenza del dolo specifico, trascurando i due imputati di considerare che anche sul punto la sentenza di primo grado conteneva una assorbente ed esaustiva motivazione ancorata alla macroscopicità della violazione riscontrata letta attraverso il prisma garantito rapporti di conoscenza tra imputato e terzo: ciò rendeva dunque originariamente infondato in diritto il motivo di appello con il quale si contestava il dolo solo in ragione della mancata dimostrazione di una collusione tra agente qualificato e terzo favorito, dato notoriamente inconferente avuto riguardo all’elemento soggettivo proprio dell’abuso d’ufficio (v., in termini: Cass. pen., Sez. VI, 27.08.2014, n. 36179, D., in CED, n. 260233) (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 26.02.2016 n. 8043 - Urbanistica e appalti 5/2016).

EDILIZIA PRIVATA: RESPONSABILITÀ DEL COSTRUTTORE E DEL COMMITTENTE VERSO IL PROPRIETARIO LIMITROFO PER VIOLAZIONE DI NORME EDILIZIE.
Anche nel regime anteriore alla L. n. 47/1985, l’art. 31 della legge urbanistica fondamentale prevedeva la responsabilità sia del committente che dell’assuntore dei lavori, tenuto, pertanto, a rispondere in solido con il primo ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c. verso il proprietario confinante per danni derivanti dall’esecuzione di un opera edilizia: invero, la rilevanza giuridica della “licenza” e poi “concessione” edilizia, ora “permesso di costruire”, si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente, mentre nei rapporti tra privati rileva sempre e soltanto il diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che la disciplinano, ai sensi dell’art. 871 c.c., che possono attribuire ai privati un diritto soggettivo.
Alcuni privati convennero al Tribunale civile i proprietari di un fondo limitrofo chiedendone la condanna al risarcimento per i danni derivati alla loro proprietà dalla realizzazione d’un edificio, confinante con la villetta degli attori, edificato in violazione delle distanze legali di cui agli artt. 872 ss. c.c., delle NTA e del Regolamento edilizio comunale. Il Tribunale accolse la domanda, condannando in solido i convenuti al pagamento di un’ingente somma, maggiorata di interessi e spese.
La sentenza era gravata da uno soltanto degli originari convenuti e l’appello era parzialmente accolto dalla Corte territoriale che ridusse la somma a meno del dieci per cento rispetto all’iniziale condanna. Questo -sulla scorta di quanto emerso in CTU- ritenendo fondate le doglianze degli originari attori limitatamente le violazioni al regolamento edilizio comunale quanto ad altezza dell’edificio realizzato dagli originari convenuti e all’ampiezza del cortile interno.
Per la cassazione di questa sentenza ricorrono -con separati ricorsi- gli originari attori, ai quali resistono gli originari convenuti con controricorso e ricorso incidentale. La S.C. anzitutto dichiara inammissibili i ricorsi principali successivi al primo, perché radicati oltre il termine utile per la proposizione del mezzo incidentale -in violazione del canone di unicità del processo d’impugnazione (art. 333) e ossia, nel giudizio per Cassazione, nel termine di quaranta giorni dalla notifica di cui al combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c. (Cass., SS.UU., 11219/1997; Cass. nn. 12381/1999; 11966/2000; 21829/2007)- e rigetta, per ragioni di merito prettamente civilistiche il ricorso principale, involgente censure relative alla quantificazione della condanna di dipendenza di una dedotta violazione del canone di solidarietà nell’adempimento dell’obbligazione dedotta in giudizio, questione peraltro ormai coperta da giudicato interno.
Venendo al ricorso incidentale, tempestivamente radicato, con il primo e secondo motivo -qui esaminati congiuntamente- è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 55, 61 e 63 del Regolamento edilizio oltre che degli artt. 872, 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 c.c.; dell’art. 100 c.p.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.
In buona sintesi i ricorrenti censurano l’impugnata sentenza laddove - sulla scorta degli esiti di CTU - ha ritenuto eccessiva l’altezza del fabbricato e, questo, non perché fosse più alto della misura massima prevista dall’art. 55 del Regolamento edilizio ma perché era più alto della misura indirettamente imposta dalle dimensioni del cortile (in violazione degli artt. 61 e 63 del Regolamento succitato).
L’ampiezza del cortile avrebbe, dunque, condizionato l’altezza del fabbricato in questione e il mancato accoglimento di questo profilo da parte della Corte territoriale determinerebbe vizio di sentenza, al pari del fatto che il cortile era di gran lunga inferiore alle misure poste dal Regolamento per poterlo qualificare come tale: detta area, per vero, poteva al più considerarsi una “chiostrina” (ossia un piccolo spazio interno degli edifici di abitazione, destinato ad arieggiare e illuminare scale e ambienti di servizio).
La Corte disattende gli assunti contenuti nel ricorso incidentale, così confermando integralmente la sentenza d’appello. Osserva la S.C. che le valutazioni circa la natura e la qualificazione del cortile, compiute dalla Corte territoriale sulla scorta della CTU costituiscono valutazione riservata al Giudice del merito: lo stabilire se, in concreto, una determinata area possa rientrare nell’una o nell’altra delle anzidette categorie di spazi si risolve certamente in un giudizio di fatto che sfugge al sindacato della Cassazione, quando -come nella specie- sia sorretto da congrua e corretta motivazione (Cass. n. 2571/1971).
Del pari, costituisce giudizio di fatto, demandato al merito, quello reso sulla portata e le caratteristiche di un edificio, quali risultanti da un progetto edilizio, presentato a un Comune e prodotto agli atti di causa. Comportando tali censure una richiesta di rivisitazione del giudizio di fatto, operato dalla Corte d’Appello, esse sono ritenute inammissibili in sede di legittimità.
Venendo all’incidentale, i Supremi Giudici osservano che esso pure merita accoglimento.
È ivi dedotta la violazione dell’art. 6, L. n. 47/1985; dell’art. 29, d.P.R. 380/2001; dell’art. 11 delle Preleggi; degli artt. 2043 e 2055 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo. Al definitivo, i ricorrenti incidentali lamentano che i giudici di merito abbiano ravvisato la responsabilità del costruttore per i danni sofferti dai privati sebbene l’art. 6, L. n. 47/1985 (oggi l’art. 29, d.P.R. n. 380/2001) -che pur prevede la responsabilità solidale del costruttore- non fossero ancora entrate in vigore all’epoca dei fatti, risalenti agli anni 1968-1969.
Ancora, a rafforzare la tesi, è qui dedotto il fatto che il costruttore sarebbe subentrato nell’attività edificatoria dopo il rilascio del titolo edilizio e i lavori sarebbero stati eseguiti nella piena vigenza di detto titolo, annullato solo nel 1979, a seguito di ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Nel disattendere la censura, la Cassazione osserva che anche nel regime precedente alla legge n. 47/1985, l’art. 31 della legge urbanistica (L. n. 1150/1942) prevedeva, la responsabilità sia del committente sia dell’assuntore dei lavori, tenuto, pertanto, a rispondere in solido con il primo ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c.
A nulla, in senso contrario, rileva che il modello delineato dalla L. n. 1150/1942 inerisse a lavori interamente svolti in forza di un titolo concessorio (ossia dopo la L. n. 10/1977) e non più (come nel modello delineato dalla legge urbanistica fondamentale del 1942) in forza di una “licenza edilizia”.
Sotto tale profilo, merita osservarsi come la Corte di legittimità qui affermi che la rilevanza giuridica della “licenza” e poi “concessione” edilizia, ora “permesso di costruire”, si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente, mentre nei rapporti tra privati rileva sempre e soltanto il diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che la disciplinano ai sensi dell’art. 871 c.c., che possono attribuire ai privati un diritto soggettivo, in difetto del quale nella materia in esame non può farsi luogo al risarcimento del danno, anche se non sono integrative come quelle, rilevanti nella specie, relative all’altezza degli edifici di quelle dettate dal codice civile in materia di distanze tra le costruzioni (cfr. Cass. nn. 4889/1993; 10702/1994; 10173/1998; 13170/2001; 5411/2015).
Per tali ragioni, conclude la S.C. con riferimento al caso concreto, la responsabilità solidale del costruttore per l’illecito derivante dalla violazione delle norme edilizie su indicate era configurabile anche nel regime giuridico previgente, applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis sicché la doglianza dedotta in ricorso deve essere disattesa (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 26.02.2016 n. 3811 - Urbanistica e appalti 5/2016).

EDILIZIA PRIVATA: QUALI SONO GLI ATTI TIPICI DELLA P.A. CHE CONSENTONO DI EVITARE L’ESECUZIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE?
Gli atti tipici della P.A. idonei ad evitare la esecuzione della sentenza di condanna nella parte in cui impone la demolizione della opera abusiva sono, oltre alla intervenuta demolizione dell’immobile ad opera della stessa pubblica amministrazione, la intervenuta concessione in sanatoria e la delibera del consiglio comunale che abbia dichiarato la conformità del manufatto con gli interessi pubblici urbanistici ed ambientali.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata in cui i giudici di legittimità si soffermano, da un lato, sulla individuazione degli atti amministrativi che inibiscono l’esecuzione dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo e dall’altro, sulla specificazione di quale sia l’onere incombente al condannato per poterne beneficiare.
La vicenda processuale traeva origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva dichiarato inammissibile l’istanza proposta da V.F.M.C. di revoca/sospensione dell’ordine di demolizione, in forza della sentenza di condanna della medesima per reati edilizi, emessa dal medesimo tribunale, divenuta irrevocabile, ritenendo che la circostanza che il giudice amministrativo avesse annullato l’ordinanza comunale di demolizione delle opere, non potesse avere alcuna valenza ostativa, posto che la sentenza penale avendo valenza di giudicato ha accertato che le opere erano destinate a realizzare una volumetria “intollerabile”, mentre l’incidente di esecuzione proposto mirava nella sostanza a sottoporre di nuovo la questione di merito, costituendo una impugnativa al giudicato stesso.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato, in particolare, ritenendo l’insussistenza dei presupposti per disporre la revoca in quanto con sentenza TAR era stata annullata l’ordinanza comunale che aveva disposto la rimessione in pristino dei luoghi, posto che la giurisprudenza è ormai concorde nel considerare l’ordine di demolizione sottratto alla regola del giudicato e la sentenza TAR aveva esaminato la questione della volumetria, ritenendo che, ferma restando la consistenza delle opere come accertate, le stesse sarebbero sottoposte al regime della SCIA di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22 la cui mancanza è sanzionabile con la sanzione amministrativa e non con l’ordine di demolizione.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha annullato la ordinanza, così facendo applicazione di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella giurisprudenza della Cassazione, secondo cui l’ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento, deve essere revocato quando sopravvengano atti amministrativi con esso del tutto incompatibili, mentre va sospeso qualora sia concretamente prevedibile e probabile l’emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili (fr., ex multiis, Cass. pen., Sez. III, 19.06.2013, n. 29447, R., in CED, n. 255873; Id., Sez. III, 18.05.2006, n. 17066, S., in CED, n. 234321), fermo restando il potere-dovere del giudice dell’esecuzione di verificare la legittimità dell’atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (così Cass. pen., Sez. III, 21.10.2014, n. 47402, C. ed altro, in CED, n. 260972).
Peraltro, hanno aggiunto i Supremi Giudici, è principio consolidato nella giurisprudenza della Cassazione che in tema di esecuzione non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, ma solo “un onere di allegazione, il dovere, cioè, di prospettare e indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi all’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti” (così, ex multiis, Cass. pen., Sez. I, 22.09.2010, n. 34987, D.S., in CED, n. 248276; in linea con tale assunto, in materia cfr. Sez. III, 29.05.2013, n. 25832, S. e altro, in CED, n. 256295).
Orbene, nel caso di specie l’interessato aveva adempiuto all’onere di allegazione richiesto, ma a ciò non aveva fatto seguito l’esperimento dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, che di contro aveva erroneamente ritenuto preclusivo ad ogni valutazione il giudicato della sentenza di condanna posta in esecuzione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.02.2016 n. 6433 - Urbanistica e appalti 5/2016).

EDILIZIA PRIVATA: SULL’EFFICACIA, EQUIPARABILE A LEGGE, DELL’ART. 9, D.M. N. 1444/1968 E SULLE RELATIVE CONSEGUENZE.
In tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, poiché emanato su specifica delega contenuta nell’art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n. 1150, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
I comproprietari di un immobile convennero al Tribunale civile una società immobiliare proprietaria di altro immobile multipiano, realizzato sulla particella a confine con quella di loro proprietà.
Gli attori assumevano che la convenuta, nel realizzare il proprio immobile, aveva violato le norme sulla distanza fra edifici previste dai locali strumenti urbanistici. L’assunto era contestato dall’immobiliare che -in via riconvenzionale- si doleva del fatto che fossero gli attori ad avere realizzato a confine un box in violazione delle norme sulla distanza, del quale era chiesta la rimozione.
L’adito Tribunale accertato che -rispetto all’immobile degli attori- quello della convenuta era a distanza di m. 8,705, quindi inferiore a quella prescritta di mt. 10,00, la condannava al ripristino mediante arretramento, rigettando la riconvenzionale. Avverso la succitata decisione interponeva appello l’immobiliare, al quale resistevano gli originari attori, proponendo a loro volta un appello incidentale.
La Corte di merito rigettava entrambi i gravami.
Per la cassazione della succitata decisione ricorre la società immobiliare, soccombente in doppio grado di merito.
Resistono gli originari attori, con controricorso e ricorso incidentale.
Lamenta l’immobiliare ricorrente, per la materia d’interesse di questa Rivista, la violazione dell’art. 873 c.c. e dell’art. 27 delle N.T.A. del P.R.G.C. Segnatamente, prospetta che l’art. 27 citato dopo aver previsto l’obbligo della distanza di dieci metri fra costruzioni, prevede al terzo comma quali siano le distanze minime dei fabbricati dai confini, stabilendo che negli interventi di nuova costruzione tal distanza minima “deve essere di mt. 5”, prevedendo altresì la deroga dal “rispetto delle prescrizioni contenute nel presente articolo per gli interventi di nuova costruzione sul lotto confinante con altro già edificato senza il rispetto delle prescrizioni”.
Nella sostanza, ad avviso di parte ricorrente, l’impugnata sentenza sarebbe viziata per violazione di legge e difetto motivazionale, in dipendenza della mancata applicazione della suddetta norma locale, avente valore asseritamente derogatorio di quella generale, ricavabile in punto dal D.M. n. 1444/1968.
La censura non è condivisa dalla S.C., che non manca di osservare come -con riguardo a entrambi i profili- addotti nel motivo qui in esame la Corte distrettuale abbia fatto buon governo delle norme e dei principi ermeneutici applicabili, correttamente risolvendo la questione.
La norma locale, infatti, non può rivestire alcun “valore derogatorio” e quindi non poteva consentire né rendere legittimo il denunciato intervento edilizio della parte ricorrente. È infatti ben noto che in tema di distanze fra costruzioni, l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo stato emanato su delega contenuta nell’art. 41-quinquies della legge urbanistica fondamentale (L. 17.08.1942, n. 1150), come aggiunto dall’art. 17 della L. 06.08.1967, n. 765, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (in punto, cfr. Cass., SS.UU., sent. 07.07.2011, n. 14953) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.02.2016 n. 2848 - Urbanistica e appalti 4/2016).

LAVORI PUBBLICI: TEMPI E MODI D’ISCRIZIONE DELLE RISERVE D’APPALTO.
L’onere di iscrizione delle riserve è subordinato non alla materiale disponibilità, da parte dell’imprenditore, del registro di contabilità o dell’invito da parte del committente a sottoscriverlo, bensì all’obbiettiva insorgenza di fatti ritenuti lesivi per l’impresa: sicché esso non cessa nell’ipotesi di indisponibilità, seppur momentanea, del registro di contabilità, perché in tale caso la riserva va iscritta in documenti contabili equivalenti, come il verbale di sospensione o ripresa dei lavori, o quelli contenenti stati di avanzamento, ordini di servizio o anche mediante tempestiva comunicazione alla P.A.
Un Consorzio d’imprese, aggiudicatario d’un pubblico appalto di lavori, convenne in giudizio la committenza chiedendo l’accertamento della nullità di alcune condizioni generali e speciali di contratto, in relazione all’appalto stipulato fra le parti, sostenendone la vessatorietà perché predisposte in via unilaterale dalla P.A. appaltante in violazione dell’art. 1341 c.c. In ragione di ciò, l’attore chiese la condanna della committente al pagamento delle maggiori somme dovute per effetto dell’anomala dinamica contrattuale causato da condotta esclusivamente imputabile alla convenuta.
Segnatamente, l’attore censurò le modalità d’esecuzione del contratto, stipulato a seguito di un bando di gara pubblicato su G.U.C.E. e G.U.R.I.; le varianti apportate alle tipologie di lavori indicati nei documenti contrattuali e nel bando di gara; le penali applicate per ritardo inizio e ultimazione dei lavori; il ribasso d’asta applicato anche ai nuovi prezzi concordati in violazione delle pattuizioni contrattuali; il ribasso d’asta applicato anche agli oneri per la sicurezza; il mancato pagamento di alcune lavorazioni.
Il Tribunale accolse parzialmente la domanda e -previa declaratoria di nullità delle clausole impugnate- condannò la committente al pagamento, a favore del Consorzio attore, di una cospicua somma.
La sentenza fu oggetto d’appello principale della P.A. committente e incidentale del Consorzio.
La Corte di merito accolse il primo gravame e respinse il secondo, ritenendo valide le clausole sulle quali le pretese poggiavano e la cui nullità costituiva il presupposto dell’accoglimento (parziale) in prime cure: in estrema sintesi, secondo il Giudice d’appello, il contratto era a relazione perfetta e non per adesione, sicché l’art. 1342, comma 2, c.c. era inapplicabile (con operatività di ogni clausola pattizia).
Ancora, in reiezione dell’appello incidentale, reputava infondata ogni altra domanda proposte in prime cure dal Consorzio appellato.
Per la Cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso principale il Consorzio e incidentale condizionato la Stazione appaltante.
La S.C. respinge il principale, con assorbimento dell’incidentale condizionato.
Per quanto attiene alla materia trattata da questa Rivista, la complessa vicenda interessa la dedotta violazione dell’ art. 1341 c.c.; dell’art. 2, L. n. 109/1994; dell’art. 52, R.D. n. 350/1895; degli artt. 2909 c.c. e 112 c.p.c. Il mezzo di gravame è articolato in tre distinte censure, tutte miranti a contestare l’impugnata sentenza anche sotto il profilo del vizio di motivazione, laddove la Corte territoriale ha affermato la validità delle clausole e delle condizioni di contratto, invocate dalla committente a sostegno dell’eccezione di decadenza dell’impresa dalla facoltà di opporre riserve, questione già proposta nei due gradi del giudizio di merito. In particolare, con il primo e terzo profilo di censura -esaminati congiuntamente- l’impresa ricorrente ha dedotto l’erroneità della qualificazione giuridica del contratto de quo come “a relazione perfetta” anziché “per adesione”, attesa la predisposizione unilaterale di ogni clausola da parte della Stazione appaltante, in assenza di trattative e senza quella specifica approvazione scritta che l’art. 1341 c.c. esige per la validità della clausola stessa.
La Corte di cassazione condivide la qualificazione del contratto come “a relazione perfetta” e non “per adesione”. Osserva che il richiamo della disciplina fissata in un distinto documento, effettuato dalle parti contraenti sulla premessa della piena conoscenza del medesimo e al fine dell’integrazione del rapporto negoziale nella parte in cui difetti di una diversa regolamentazione, assegna alle previsioni di quella disciplina, per il tramite di una “relatio perfecta”, il valore di clausole concordate, sicché le sottrae all’esigenza della specifica approvazione per iscritto di cui all’art. 1341 c.c. Né, in senso opposto, può rilevare l’eventuale unilateralità della predisposizione del suddetto documento che resta superata dalla circostanza che entrambi i contraenti si siano accordati per farne proprio il contenuto (Cass. nn. 9392/1992; 3479/1997; 19130/2006; 21142/2007; 26201/2010; 7197/2011).
Nel concreto, correttamente la Corte d’Appello ha accertato in fatto, con motivazione logica e adeguata -incensurabile in sede di legittimità- che le clausole delle condizioni generali e speciali di contratto erano “accettate e conosciute dal Consorzio appaltatore” in quanto richiamate nel contratto come parti integranti dello stesso, secondo il modello del contratto a relazione perfetta.
Del resto, lo stesso ricorrente, pur deducendone la genesi unilaterale a opera di controparte, non ha potuto disconoscere che i documenti (a partire dal bando pubblicato in G.U.C.E. e G.U.R.I.) erano noti all’aggiudicatario prima della stipula del contratto di appalto, tanto che furono sottoscritti per accettazione. Sicché ben può ritenersi, ad avviso della S.C., che in presenza di un rinvio recettizio, concordato tra le parti, alle clausole contenute nelle Condizioni generali e nelle Condizioni speciali, sia integrata la fattispecie del contratto per relazione perfetta e non quella del contratto per adesione. Dal che, la correttezza della valutazione del Giudice territoriale in ordine all’inapplicabilità della disciplina delle clausole vessatorie e, qual conseguenza, alla decadenza dell’appaltatore dal diritto di opporre riserve.
Con distinto profilo, la ricorrente impresa deduce che tali clausole, da cui sarebbe derivata la decadenza dal diritto di opporre riserve, quand’anche valide, sarebbero comunque inoperanti in ragione dell’omessa tenuta, da parte della Stazione appaltante, del registro di contabilità, indispensabile ai fini di formalizzare dette riserve, la cui istituzione sarebbe stata obbligatoria ex art. 52, R.D. n. 350/1895 allora vigente, ritenuta non applicabile dal Giudice d’appello.
In mancanza di tale registro, il Consorzio non sarebbe decaduto dalle maggiori pretese economiche, come viceversa eccepito dalla Stazione appaltante e ritenuto nella sentenza gravata.
Il Supremo Collegio disattende l’assunto, ricordando che dal combinato disposto degli artt. 16, 54 e 64 del R.D. n. 350/1895 e dell’art. 26, d.P.R. n. 1063/1962 si trae il principio che l’appaltatore, ove voglia contestare la contabilizzazione dei corrispettivi effettuata dalla P.A. committente o avanzare pretese atte a incidere sul compenso spettante, è tenuto a iscrivere tempestiva e puntuale riserva nel registro di contabilità o in altri idonei documenti contabili.
L’onere è subordinato dalla legge non alla materiale disponibilità, da parte dell’imprenditore, del registro di contabilità o dell’invito da parte del committente a sottoscriverlo, bensì all’obiettiva insorgenza di fatti ritenuti lesivi: se ne ha che esso non cessa neppure nell’ipotesi d’indisponibilità, seppur momentanea, del registro di contabilità, perché in tale caso l’imprenditore dovrà iscrivere la riserva in documenti contabili equivalenti, come il verbale di sospensione o ripresa dei lavori, o quelli contenenti gli stati di avanzamento, o ordini di servizio, o anche mediante tempestiva comunicazione all’Amministrazione con apposito atto scritto inviato per raccomandata (cfr. Cass. nn. 4502/1998; 19499/2010; 8242/2012) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 09.02.2016 n. 2537 - Urbanistica e appalti 4/2016).

APPALTI: IL PROVVEDIMENTO DI AGGIUDICAZIONE O LA SOTTOSCRIZIONE DEL CAPITOLATO NON SANANO IL REQUISITO DELLA FORMA SCRITTA PER I CONTRATTI CON LA P.A..
Né la sussistenza d’una precedente delibera di conferimento dell’incarico o di aggiudicazione, né la sottoscrizione del solo capitolato d’appalto -in quanto atti interni diretti a essere trasfusi e recepiti nel successivo contratto di appalto- soddisfano il requisito della forma scritta ad substantiam, che occorre per ogni contratto d’appalto concluso con la P.A..
Un’impresa convenne al Tribunale civile un’Amministrazione Comunale, domandando la risoluzione, per inadempimento, di un “contratto d’appalto” a suo dire “stipulato” per noleggio d’apparecchi di controllo della velocità stradale e chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti oltre a un importo pari al 30% delle somme incassate sui verbali di accertamento, come da previsione di contratto.
Il Tribunale accolse parzialmente la domanda, condannando il Comune al pagamento di una minor somma. Fallita l’originaria attrice, la sentenza era appellata -per quanto di soccombenza- dalla curatela che ripropose domande e difese di prime cure. Il Comune, a sua volta, avanzò appello incidentale per la parte di domanda accolta dal Tribunale, argomentando l’inesistenza di qualsiasi contratto intercorso tra le parti.
La Corte d’Appello disattendeva il gravame principale e accoglieva l’incidentale. Riteneva, infatti, che tra la “appaltatrice” e Comune non fosse intervenuto alcun contratto scritto, in violazione degli artt. 1350 c.c. nonché 16 e 17 del R.D. n. 2440/1923 che, come è noto, prescrivono obbligo di forma scritta ad substantiam per i contratti degli enti pubblici, con esenzione di quelli di fornitura e secondo l’uso del commercio (art. 17).
La statuizione è gravata con ricorso per Cassazione, che la S.C. respinge, disattendendo la tesi del Fallimento per il quale il Giudice d’appello avrebbe errato a ritenere che tra società in bonis e Comune non fosse mai intervenuto contratto scritto, per l’effetto sostenendo che non vi sarebbe stata violazione alcuna degli articoli che impongono forma scritta per i contratti con la P.A. Secondo il ricorrente, infatti, il contratto sarebbe stato rinvenibile nel capitolato d’appalto, sottoscritto dal Sindaco e dall’Impresa, a valle d’una deliberazione di Giunta Municipale.
La Corte di cassazione non manca di osservare che ogni contratto stipulato dalla P.A., anche quando essa agisca “iure privatorum” richiede forma scritta “ad substantiam” e che tale esigenza non è surrogabile dalla deliberazione dell’organo collegiale dell’ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell’incarico, dell’appalto o della fornitura: perché atto interno e preparatorio del negozio; perché privo di sottoscrizione delle parti; perché da esso non può desumersi la concreta regolazione dei rapporti e le prestazioni da eseguire, specie in ordine al compenso da corrispondere.
Sicché, il contratto privo di forma scritta “ad substantiam” -per il combinato disposto degli artt. 1350 c.c. e degli artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923- è nullo ed insuscettibile di sanatoria, dovendosi escludere ogni rilevanza a convalide o ratifiche successive, o a manifestazioni di volontà implicita o desumibile da comportamenti puramente attuativi (ex plurimis, Cass. nn. 7422/2002; 5234/2004; 19070/2006; 26826/2006; 22537/2007; 6555/2014; 5263/2015).
Ciò detto con riguardo all’inadeguatezza della delibera giuntale, non diverso discorso va fatto quanto alla sottoscrizione del mero capitolato d’appalto, trattandosi di atto interno, diretto a essere trasfuso e recepito nel successivo contratto di appalto, da stipularsi in forma scritta tra l’ente e l’appaltatore (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 08.02.2016 n. 2416 - Urbanistica e appalti 4/2016).

ESPROPRIAZIONE: DETERMINAZIONE DELLE INDENNITÀ PER LE AREE EDIFICABILI NON RESIDENZIALI.
Per la determinazione dell’indennità d’esproprio, l’adozione del criterio previsto, per le aree edificabili, dall’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992 richiede che l’immobile sia previsto, nello strumento urbanistico generale vigente, in zona edificabile anche se a fini diversi dall’edilizia residenziale privata, purché la destinazione impressa al fondo sia realizzabile anche a iniziativa privata non configurandosi, in tal caso, un vincolo conformativo della proprietà a fini pubblicistici: tale destinazione è idonea a consentire l’esplicazione dello ius aedificandi, con ricadute virtuose sulla determinazione dell’indennità in caso di esproprio e senza possibilità che su tale determinazione possano avere effetto pianificazioni anteriori e non più attuali.
Una Corte d’Appello, pronunciandosi sulla domanda di determinazione delle indennità di espropriazione e occupazione nei confronti di un interporto, liquidò in un cospicuo importo le due relative indennità.
Reiette le eccezioni sollevate dalla convenuta circa la tardività della domanda e l’applicabilità dell’art. 16, D.Lgs. n. 504/1992, osservò che il terreno in questione doveva considerarsi legalmente edificabile per effetto di una variante con la quale era stato recepito l’accordo di programma per la realizzazione dell’interporto, respingendo la tesi della controparte espropriante secondo cui, invece, si sarebbe dovuto tener conto della destinazione urbanistica anteriore alla suddetta variante e rilevando altresì che, in base allo strumento urbanistico, gli interventi sull’area potevano essere attuati anche da privati.
Alla determinazione del valore unitario la Corte di merito pervenne attraverso l’utilizzazione dei dati emergenti dalla consulenza tecnica d’ufficio disposta in quel giudizio. Quanto all’indennità di occupazione, l’eccezione di parte convenuta circa la disponibilità del bene in capo all’ente espropriato anche dopo la formale immissione nel possesso è stata rigettata, affermandosi che non erano state fornite prove adeguate a superare la presunzione della perdita della materiale disponibilità del bene, derivante dal relativo verbale.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’interporto, al quale si oppone l’espropriato mediante ricorso controricorso e ricorso incidentale.
La S.C. rigetta il ricorso principale e accoglie l’incidentale, decidendo senza rinvio l’ammontare delle somme dovute.
La ricorrente denuncia anzitutto vizi motivazionali, violazione e falsa applicazione della L. n. 865/1971 e dell’art. 5-bis L. n. 359/1992, per avere la gravata sentenza qualificato il terreno occupato, originariamente agricolo, come edificabile, valorizzando così la destinazione assegnatagli.
Osserva, a risposta, la S.C. come la censura sia inammissibile, perché essenzialmente intesa a criticare la ricognizione giuridica del terreno come operata dalla Corte territoriale.
Non possono, in sede di legittimità, avere ingresso profili di doglianza inerenti a vizi motivazionali, salve macroscopiche distonie: il problema dell’edificabilità è squisitamente giuridico e la sua verifica è attribuita al giudice sulla base dell’interpretazione del sistema normativo e della disciplina amministrativa del territorio, cui è legato il problema valutativo degli immobili espropriati.
La Corte di cassazione disattende anche l’argomentazione per cui la Corte di merito nel determinare le indennità non avrebbe potuto tener conto di un vincolo preordinato a esproprio discendente già dal precedente P.R.G. ed a un risalente accordo di programma (poi recepito nel piano particolareggiato).
Richiama, a fondamento della reiezione del mezzo, l’orientamento già espresso di recente in relazione ad analoghe fattispecie (Cass. 20.03.2014, n. 6558; Cass. 17.09.2015, n. 18239) e ricorda che ai fini della determinazione dell’indennità espropriativa, l’adozione del criterio previsto per le aree edificabili dall’art. 5-bis del D.L. n. 333/1992, richiede, quale condizione necessaria e sufficiente, che l’immobile sia previsto, nello strumento urbanistico generale, come zona edificabile, pur se a fini diversi dall’edilizia residenziale privata e a tipologia vincolata, purché la destinazione impressa al fondo sia realizzabile anche ad iniziativa privata, non configurandosi, in tal caso, un vincolo conformativo della proprietà a fini pubblicistici.
La stessa destinazione a insediamenti industriali, sia pur mediati dalla programmazione pubblicistica, è idonea a consentire l’esplicazione dello ius aedificandi, con ricadute virtuose sulla determinazione dell’indennità in caso di esproprio (Cass. 24.04.2007, n. 9891; id. 15.07.2011, n. 15658). L’esigenza di sterilizzazione del valore dall’incidenza della destinazione espropriativa, inoltre, non può far risalire a pianificazioni anteriori non più attuali (Cass. 28.11.2001, n. 15114): sicché, quel che determina la qualità del suolo è la destinazione dello strumento urbanistico vigente (Cass. 05.06.2006, n. 13199).
La Corte di Legittimità respinge anche la terza censura, inerente la determinazione dell’indennità di occupazione sulla base di un tasso di interesse pari al cinque per cento annuo: sotto tale profilo si era denunciata la violazione dell’art. 20, comma 4, L. n. 865/1971, in considerazione della difformità di tale saggio rispetto a quello legale. Come già precisato (Cass. 28.01.2011, n. 2100), con riferimento al principio affermato nella nota sent. n. 493/1998 delle Sezioni Unite, tanto detta decisione, quanto quelle successive che hanno affrontato la questione, hanno ripetutamente avvertito che l’indennità di occupazione deve essere liquidata in misura corrispondente a una percentuale di quella dovuta per l’espropriazione, che ben può corrispondere al saggio corrente degli interessi legali, e che tuttavia ciò non implica che essa debba necessariamente adeguarsi alle fluttuazioni di tale saggio nel periodo considerato, essendo quello degli interessi legali soltanto un generico criterio di valutazione lasciato al prudente apprezzamento del giudice di merito, purché fornisca congrua motivazione -nella specie neppure censurata- della scelta adottata (cfr. anche Cass. 05.09.2008, n. 22395; Cass. 19.04.2005, n. 8197).
Di contro, la S.C. accoglie il motivo incidentale con cui si denuncia la errata decurtazione dell’indennità (nella misura del 25%) in quanto ricorrerebbe un’ipotesi di intervento di riforma economico-sociale ai sensi della L. n. 244/2007. In proposito, si richiama il costante orientamento -seguente a Corte cost. n. 348/2007- del criterio indennitario di cui all’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992 e all’art. 37, commi 1 e 2, d.P.R. n. 327/2001: lo jus superveniens, costituito dall’art. 89, lett. a), L. n. 244/2007, si applica retroattivamente per i soli procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i giudizi in corso (Cass., SS.UU., 28.02.2008, n. 5265).
Nello specifico, la vicenda espropriativa si è conclusa, sotto il profilo amministrativo, con l’emanazione del decreto di espropriazione nel 2005; il giudizio di opposizione alla stima, al quale non si applica la disciplina sopra richiamata, venne intrapreso nel febbraio del 2006, ed era quindi già pendente allorché venne emanata la novella del 2007. In disparte ciò, va in ogni caso ribadito che, affinché sussista il presupposto dell’intervento di riforma economico-sociale (che giustifica la riduzione predetta) esso deve riguardare l’intera collettività o parti di essa geograficamente o socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in forza di una previsione normativa che in tal senso lo definisca (Cass. 23.02.2012, n. 2774, in tema di edilizia convenzionata; Cass. 28.01.2011, n. 2100, relativa a terreno inserito in zona p.i.p.) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 28.01.2016 n. 1623 - Urbanistica e appalti 4/2016).

LAVORI PUBBLICI: LAVORI DI SOMMA URGENZA NON SEGUITI DA APPROVAZIONE E OBBLIGAZIONI VERSO L’IMPRESA ESECUTRICE.
Qualora sia stata disposta per ragioni di somma urgenza l’immediata esecuzione di lavori ex art. 147, d.P.R. n. 554/1999 e a essa non ne abbia fatto seguito l’approvazione nei termini previsti dalla stessa norma, l’opera non per questo viene acquisita gratuitamente al patrimonio dell’ente pubblico, poiché sorge a carico di quest’ultimo un’obbligazione non ex contractu ma ex lege (art. 147, comma 5, d.P.R. n. 554/1999, norma a tutela del terzo affidatario) avente a oggetto il pagamento dei soli costi di produzione di quanto effettivamente realizzato, e in questi ultimi vanno inclusi quelli per la mano d’opera, i materiali, le spese di trasporto e la remunerazione normale dell’attività organizzativa, restando invece escluso ogni margine di compenso imputabile a profitto dell’imprenditore affidatario dei lavori.
Un Istituto Autonomo Case Popolari oppose un decreto ingiuntivo contro di essa ottenuto avanti il Tribunale Ordinario da un’impresa per il pagamento d’una somma a titolo di corrispettivo per lavori edili appaltati in via d’urgenza. A sostegno dell’opposizione, IACP sostenne la mancanza di un contratto scritto e l’illiquidità del credito, in ragione del non intervenuto collaudo delle opere. Il Tribunale rigettò l’opposizione.
La Corte d’Appello, di contro, accolse il gravame di IACP, precipuamente motivando che il contratto inter partes era nullo per carenza di forma scritta, requisito non certo soddisfatto dalla dichiarazione di somma urgenza delle opere firmata, per la P.A. committente, dal responsabile del procedimento.
Tale modello procedurale non solo era divergente dalla previsione normativa posta, per l’appalto di lavori, all’art. 147 del d.P.R. n. 554/1999, allora applicabile, che prevedeva la redazione di una perizia per giustificare tali lavori ma, addirittura, non risultava neppure regolarizzata la spesa (come viceversa prescritto dall’art. 23, comma 3, D.L. n. 66/1989, convertito con modificazioni in L. n. 144/1989, il cui contenuto è stato poi trasfuso nell’art. 35, comma 3, D.Lgs. n. 77/1995 e ora è all’art. 191, comma 3, D.Lgs. n. 267/2000 - T.U. Enti Locali) secondo cui per i lavori di somma urgenza disposti dalle amministrazioni comunali e provinciali l’ordinazione fatta a terzi deve essere regolarizzata entro trenta giorni, senza possibilità di proroga.
La violazione di un tale obbligo posto in capo alla P.A. -per la Corte di merito- poteva essere fatta valere non solo dal contraente ma anche dalla stessa Amministrazione, perché volta a evitare debiti fuori bilancio. Ove non esercitata nel termine perentorio di trenta giorni, non poteva ritenersi utilmente radicato alcun valido rapporto tra P.A. e terzo, neppure in caso di affidamenti d’urgenza.
Contro tale sentenza l’impresa ricorre per Cassazione, con ricorso che i giudici di legittimità accolgono nei limiti che si passano a esporre per quanto d’interesse di questa Rivista. Premette la S.C., a sintesi dei primi quattro motivi, che la questione accede all’individuazione della disciplina applicabile nel caso di lavori che, disposti per ragioni di somma urgenza, non siano stati seguiti da tempestiva regolarizzazione.
In ordine a ciò, osserva che la sentenza di merito non ha né affermato né escluso l’effettivo presupposto fattuale della “somma urgenza” dei lavori commissionati dal RUP dello IACP, limitandosi a ritenere inesistente il vincolo obbligatorio tra le parti, in ragione della carente forma scritta e del mancato rispetto delle previsioni di cui all’art. 147, d.P.R. n. 554/1999, in difetto di perizia giustificativa e di regolarizzazione contabile nei trenta giorni successivi.
Se pure è certa la necessità di una forma scritta - applicabile anche agli IACP quali enti pubblici non economici ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 - diverso opinare è fatto dalla S.C., rispetto al Giudice d’appello, sul procedimento di cui all’art. 147, d.P.R. n. 554/1999 per trarne effetti vincolanti per l’ente.
Se, parimenti, non è disputato che detto procedimento sia mancato -e con ciò sia mancata anche la regolarizzazione della spesa e la relativa copertura contabile- ritiene che siano controverse le conseguenze giuridiche dell’esecuzione di lavori che si collocano tra due estremi in sé pacifici, ossia la dichiarazione di somma urgenza dei lavori (firmata dal responsabile del procedimento dell’IACP) e l’infruttuoso scadere del termine di regolarizzazione della spesa.
Proprio in ragione del fatto che gli IACP siano enti pubblici non economici (ma non enti territoriali locali), la Corte di Legittimità ritiene applicabile ratione temporis l’art. 147, comma 1, d.P.R. n. 554/1999, che dispone (per quanto qui interessi) che in circostanze di somma urgenza, tali da non consentire alcun indugio che chi -fra il responsabile del procedimento e il tecnico che per primo si reca sul luogo- può disporre, contemporaneamente alla redazione del verbale di cui al precedente articolo 146, l’immediata esecuzione dei lavori nel limite di € 200.000 o di quanto indispensabile per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica incolumità, contestualmente definendo con l’affidatario il prezzo delle prestazioni ordinate.
 In difetto di preventivo accordo, la norma prevede il procedersi con il metodo previsto all’art. 136 per il quale il RUP o il tecnico incaricato compila, entro dieci giorni dall’ordine di esecuzione dei lavori, una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette, assieme al verbale di somma urgenza, alla Stazione appaltante che provvede alla copertura della spesa e all’approvazione dei lavori. Se un lavoro intrapreso per motivi di somma urgenza non riporti l’approvazione del competente organo della Stazione appaltante, si procederà - per il comma 5 di tale articolo - alla liquidazione delle spese relative alla parte dell’opera o dei lavori realizzati.
La corretta esegesi di tale norma conduce a ritenere che l’opera disposta per ragioni di somma urgenza ma poi non approvata, non per questo viene acquisita gratuitamente al patrimonio dell’ente pubblico, poiché sorge a carico di quest’ultimo un’obbligazione non ex contractu ma ex lege, avente ad oggetto il pagamento dei soli costi di produzione di quanto effettivamente realizzato. Questo, perché l’art. 147, comma 5, d.P.R. n. 554/1999 costituisce norma a tutela del terzo affidatario dei lavori, sicché non rilevano le ragioni della mancata approvazione. Deve quindi concludersi che il mancato perfezionamento della fattispecie, da qualsiasi ragione sia dipesa, non fa venir meno il diritto dell’affidatario dell’opera o dei lavori al pagamento nei limiti previsti dalla stessa norma in esame.
La S.C., infine, puntualizza cosa debba intendersi con l’espressione “pagamento dei soli costi di produzione di quanto effettivamente realizzato”, contenuta nell’art. 147, comma 5: essa comprende tutti i costi di produzione, ossia mano d’opera, materiali e spese di trasporto, remunerazione dell’attività organizzativa dell’imprenditore, restando invece escluso ogni margine di compenso imputabile a profitto (per tale intendendosi non l’ordinaria remunerazione dell’imprenditore ma l’eventuale surplus, di matrice lucrativa, tra i  costi, che tale remunerazione normale comprendono, e i ricavi) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 21.01.2016 n. 1073 - Urbanistica e appalti 4/2016).

EDILIZIA PRIVATA: NESSUNA CITTADINANZA ALLA C.D. SANATORIA CONDIZIONATA IN EDILIZIA.
Deve escludersi la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza qui esaminata, del tema della possibile ammissibilità nell’attuale disciplina edilizia della c.d. sanatoria condizionata.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza per la contravvenzione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), di condanna di C.A. ed G.A., imputati in concorso tra loro, quali comproprietari committenti, per la realizzazione, in zona sismica, classificata “E1 agricola semplice” di un immobile suddiviso in più unità immobiliari destinate a civili abitazioni.
Contro la sentenza gli stessi proponevano ricorso per cassazione, in particolare lamentando che la Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato la segnalata ingerenza del Pubblico Ministero procedente nella procedura di rilascio di un permesso di costruire in sanatoria per le opere realizzate e che avrebbe impedito di portare a loro conoscenza le condizioni cui il rilascio del titolo sarebbe stato sottoposto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come risultava dalla sentenza che il P.M., rinvenuto negli atti del procedimento, perché inviato in copia alla Procura, il parere espresso ai fini della sanatoria, aveva segnalato al dirigente dello Sportello Unico del Comune di Mercato San Severino la impossibilità del rilascio di una sanatoria sottoposta a condizioni e lo aveva invitato ad ingiungere ai responsabili la demolizione o la riduzione in pristino delle “parti dell’immobile che si ritengono non sanabili opere da realizzare, in concreto, previa autorizzazione di questa Autorità Giudiziaria”.
Tale comunicazione, rilevava la Cassazione, era senz’altro fondata su un presupposto corretto (la impossibilità di sottoporre la sanatoria a condizioni) ma giungeva a conclusioni errate laddove, nell’intimare al destinatario di porre in essere la procedura demolitoria imposta dalla legge, ne limitava sostanzialmente l’esecuzione alle sole opere non sanabili.
È infatti indubbio -proseguono i Supremi Giudici- che le opere abusive devono essere unitariamente considerate nel loro complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i singoli componenti, la cui eliminazione potrebbe consentire di ricondurre l’immobile ad una conformità con lo strumento urbanistico e la disciplina edilizia che prima non aveva. In altre parole, l’immobile realizzato era interamente abusivo e non poteva ritenersi in alcun modo sanabile stante l’evidente contrasto con lo strumento urbanistico.
Neppure la riconduzione a conformità mediante l’eliminazione di alcune parti o, come indicato nel parere dell’amministrazione comunale, la modifica della destinazione d’uso previa demolizione e la riduzione del numero dei piani avrebbero potuto determinare effetti sananti, ciò proprio per l’impossibilità di riconoscere alcuna cittadinanza giuridica in materia edilizia alla c.d. sanatoria condizionata (giurisprudenza costante: Cass. pen., Sez. III, 15.01.2015, n. 7405, B., in CED, n. 262422; Id., Sez. III, 21.10.2014, n. 47402, C. e altro, in CED, n. 260973; Id., Sez. III, 27.04.2011, n. 19587, M. e altro, in CED, n. 250477; Id., Sez. III, 24.02.2009, n. 23726, P., inedita; Id., Sez. III, 04.10.2007, n. 41567 del, P.M. in proc. R. e altro, in CED, n. 238020; Id., Sez. III, 13.11.2003, n. 48499, P.M. in proc. D., in CED, n. 226897) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.12.2015 n. 51013 - Urbanistica e appalti 4/2016).

EDILIZIA PRIVATA: ULTIMAZIONE DELL’OPERA ABUSIVA ED INDIVIDUAZIONE DEL DIES A QUO DI DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
La permanenza del reato di edificazione abusiva termina, con conseguente consumazione della fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa -volontaria o imposta- sono ultimati o vengono sospesi i lavori abusivi, ovvero, se questi sono proseguiti anche dopo l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello della emissione della sentenza di primo grado.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C. verte, in particolare, sull’individuazione del momento iniziale da cui inizia a decorrere il termine di prescrizione per l’esecuzione di un opera edilizia abusiva. La vicenda processuale trae origine dalla sentenza di appello che confermava il giudizio di colpevolezza formulato in ordine al reato di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), per aver eseguito opere in totale difformità dal permesso di costruire.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, in particolare per aver erroneamente la Corte d’Appello confermato la condanna, pur difettando ogni prova circa la realizzazione di lavori, da parte del medesimo, successivamente al 14.02.2007, allorquando egli aveva comunicato al Comune la sospensione delle opere; al riguardo, la sentenza si sarebbe espressa con affermazioni del tutto apodittiche, che non avevano tenuto conto del verbale di sopralluogo, nel quale si dava atto dell’assenza di qualsivoglia attività edilizia in corso: il reato, pertanto, si era prescritto a far data dal febbraio 2007.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso dell’interessato, in particolare ricordando come deve ritenersi “ultimato” soltanto l’edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo, ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile abusivamente realizzato, coincidente generalmente con la conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni (Cass. pen., Sez. III, 17.09.2014, n. 48002, S., in CED, n. 261153; Cass. pen., Sez. III, 27.01.2010, n. 8172, V., in CED, n. 246221).
Nel caso di specie, rilevano i Supremi Giudici, le opere erano iniziate in forza del permesso di costruire n. 9/2005 rilasciato il 13.01.2005, ed erano state poi oggetto di una comunicazione di sospensione del 14.02.2007 per asserite difficoltà economiche in capo al committente; orbene, la motivazione redatta dalla Corte d’Appello per sostenere la realizzazione di lavori abusivi anche in epoca successiva a tale data risultava, invero, illogica ed apodittica, specie alla luce dei pacifici esiti dell’accertamento del 12.04.2011, che avevano dato atto sì di un immobile allo stato rustico, privo di impianti e di opere di rifinitura, ma anche della completa assenza in loco di operai, strumenti o materiali.
In particolare, per un verso la sentenza sosteneva che “è contrario a logica oltre che ai fatti che il Q. abbia costruito -con notevole dispendio economico- e abbandonato in via definitiva il completamento dell’opera, non avendo fornito neppure una generica giustificazione di tale ipotetica condotta, anzi avendo ammesso la sospensione dei lavori per mancanza di liquidità”; quel che, però, ben poteva costituire -secondo la Cassazione- proprio quella giustificazione che il Collegio di merito affermava invece non esser stata fornita, dal che l’evidente illogicità dell’argomento.
Per altro verso, ed in modo palesemente apodittico, la pronuncia concludeva che “è logico ipotizzare che -come sovente accade- (il ricorrente, n.d.e.) abbia sospeso i lavori, come comunicato al Comune, per tale transitorio motivo, riservando di continuare a costruire, sebbene “a più riprese”, a seconda delle proprie disponibilità economiche”.
Quanto precede, peraltro, senza indicare alcun elemento di prova, alcuna risultanza istruttoria -invero necessaria- a dimostrazione del fatto che i lavori abusivi erano stati effettivamente realizzati anche dopo il 14.02.2007; sì da poter portare il dies a quo della consumazione del reato alla data dell’accertamento dei tecnici comunali (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.12.2015 n. 50449 - Urbanistica e appalti 3/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA RECINZIONE DI UN FONDO RUSTICO NON RICHIEDE IL P.D.C. SOLO QUANDO VENGA ATTUATA CON OPERE NON PERMANENTI.
In tema di reati edilizi, la recinzione di un fondo rustico non necessita del permesso di costruire solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non permanenti, mentre il provvedimento abilitativo è sempre richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione della possibilità di eseguire l’intervento di recinzione di un fondo rustico senza necessità di richiedere preventivamente il permesso di costruire.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per affrontare la questione segue alla sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell’imputato per aver recintato il fondo agricolo di circa mq. 2.000 costruendovi abusivamente un muro di cinta alto circa mt. 2,75. Contro la sentenza, proponeva ricorso per Cassazione l’imputato, dolendosi per il fatto che, come confermato dal responsabile dell’ufficio tecnico comunale, il Comune non aveva mai richiesto per tale tipo di opere il permesso di costruire, sicché, ad avviso della difesa, era stato illegittimamente disapplicato dal giudice il provvedimento autorizzativo così ottenuto.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, confermando la sentenza di condanna ed escludendo che si potesse trattare di intervento edilizio non subordinato a permesso di costruire. In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che la realizzazione di un muro di recinzione necessita del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia tale da modificare l’assetto urbanistico del territorio, così rientrando nel novero degli “interventi di nuova costruzione” di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e) (Cass. pen., Sez. III, 11.11.2014, n. 52040, in CED, n. 261521). 
In particolare, nel valutare la realizzazione di un muro di recinzione in cemento armato di dimensioni ben più modeste di quello che ci occupa, si è affermata la necessità della concessione edilizia (oggi permesso per costruire) di fronte all’erezione al confine di un fondo rustico di un muro in cemento armato, o comunque in mattoni e malta cementizia, anche alto fuori terra solo ottanta centimetri, affermandosi, invece, che la concessione non è necessaria se la recinzione è realizzata con opere non permanenti, quali ad esempio semplici paletti conficcati nel terreno e filo spinato o un muretto cosiddetto a secco (Cass. pen., Sez. III, 25.01.1988, n. 5395, in CED, n. 178306) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.12.2015 n. 50447 - Urbanistica e appalti 3/2016).

EDILIZIA PRIVATA: QUALI SONO I SOGGETTI CUI PUÒ ESSERE IMPUTATA LA RESPONSABILITÀ PENALE PER LA VIOLAZIONE DELLE NORME ANTISISMICHE?
In tema di reati antisismici, il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95, può essere commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi imposti e, quindi, anche dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia, dal direttore e dall’assuntore dei lavori.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata nella quale i giudici di legittimità si soffermano sulla individuazione dei soggetti potenzialmente responsabili delle violazioni penali in materia antisismica.
La vicenda processuale traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la condanna nei confronti di T. quale legale rappresentante di una società proprietaria di una struttura alberghiera, P. quale progettista e direttore dei lavori ed i G. quali soci amministratori della società esecutrice dei lavori, per aver realizzato innovazioni non autorizzate in un’area demaniale marittima di mq 40, destinata ad area scoperta (zona verde), con sottostante ripostiglio interrato di mq 16,67 ed in concessione al T., consistite nella realizzazione di uno sbancamento con demolizione del sottostante ripostiglio, nella demolizione di una pensilina, nella realizzazione di un unico vano interrato in cemento armato, nella realizzazione di una nuova pavimentazione dell’area scoperta con cemento armato e nella realizzazione, all’interno del vano, di due pozzetti di drenaggio collegati all’impianto di pompaggio posto nel retrostante locale.
Dette opere risultavano, in particolare, realizzate in assenza della prescritta denuncia e attestato di deposito da parte dell’amministrazione provinciale competente. Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione il T., ritenendo ascrivibile al solo committente e non anche al progettista e direttore dei lavori il reato antisismico di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 94.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95, attribuisce la responsabilità del reato a chiunque violi le disposizioni richiamate, cosicché la violazione assume la natura di reato comune, che può essere quindi realizzato dal proprietario, dal committente, dal titolare della concessione edilizia e da qualsiasi altro soggetto che abbia la disponibilità dell’immobile o dell’area su cui esso sorge, nonché da coloro che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli adempimenti di legge (Cass. pen., Sez. III, 24.05.2007, n. 35387, T., in CED, n. 237537; Id., Sez. III, 10.12.1999, n. 887, (dep. 2000), S., in CED, n. 215602; Id., Sez. III, 10.04.1997, n. 4438, B., in CED, n. 208031).
Con particolare riferimento alla figura del direttore dei lavori, si è affermato che “(...) il direttore dei lavori risponde del reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 94, essendo anch’egli destinatario del divieto di esecuzione dei lavori in assenza della autorizzazione ed in violazione delle prescrizioni tecniche contenute nei decreti ministeriali di cui agli artt. 52 e 83, del citato D.P.R., atteso che le disposizioni sulla vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche, prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad impedire l’esecuzione di opere non conformi alle norme tecniche, ha determinato una posizione di controllo su attività potenzialmente lesive in capo al direttore dei lavori” (Cass. pen., Sez. III, 15.06.2006, n. 33469, O. ed altri, n. CED, n. 235122; v. anche Cass. pen., Sez. III, 05.12.2013, n. 7775, (dep. 2014), D., in CED, n. 258854; Id., Sez. III, 20.12.2011, n. 6675 (dep. 2012), L.P., in CED, n. 252021).
A conclusioni analoghe si è pervenuti anche con specifico riguardo agli assuntori dei lavori (Cass. pen., Sez. F, 24.07.2008, n. 35298, S., in CED, n. 240665; Id., Sez. III, 24.05.2007, n. 35387, T., in CED, n. 237537; Id., Sez. III, 06.06.2003, n. 33558, M., in CED, n. 225555) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.12.2015 n. 49991 - Urbanistica e appalti 3/2016).

LAVORI PUBBLICI: VARIANTI IN CORSO D’OPERA E APPROVAZIONE DELLA P.A. COMMITTENTE.
L’omessa indicazione, nell’ordine impartito dalla Direzione Lavori, dell’approvazione da parte della P.A. committente, pur finalizzata a esplicitare la rispondenza di esso ai voleri dell’Amministrazione, non è decisiva ai fini di valutazione circa la legittimità dello stesso, non dovendo necessariamente sussistere al momento in cui esso sia stato impartito, potendo di contro tale “superiore approvazione” sopravvenire rispetto al momento d’emissione della perizia suppletiva e di variante.
Un’Amministrazione appaltò a un’impresa i lavori di costruzione dello stadio comunale e annessa pista d’atletica, con regolare contratto seguito da consegna del cantiere accettata senza riserve.
In corso d’opera il direttore dei lavori ordinò all’appaltatore, con ordine di servizio, l’esecuzione di lavori diversi da quelli previsti in capitolato d’opera e in contratto, che furono eseguiti ma non pagati dall’Ente.
Se ne ebbe la nascita d’un contenzioso giudiziale radicato dall’appaltatore e sfociato nella sentenza in commento.
A ragione del proprio diniego, il Comune asserì la mancanza di forma scritta alla variante contrattuale. Era pur vero che esso, con delibera giuntale del 1990, autorizzò il D.L. a redigere detta perizia di variante e suppletiva, e che la stessa fu poi approvata con delibera giuntale del 1991. Tuttavia, tale ultimo provvedimento fu, poco dopo, oggetto di revoca con altra delibera (in ragioni delle spese conseguenti) a propria volta revocata con altra deliberazione del 1992, che determinò la reviviscenza degli originari provvedimenti, appunto legittimanti la variante da parte del D.L. Tuttavia l’Ente finanziatore (Cassa depositi e prestiti) -informato di quest’ultima scelta- comunicò alla P.A. appaltante che la perizia non poteva essere finanziata, determinando una maggiorazione di spesa superiore al 30% rispetto all’iniziale importo delle lavorazioni: per il che, formulava al Comune una richiesta di revoca e variazione del quadro progettuale complessivo.
Al definitivo, il Comune eccepiva, da un lato, l’improcedibilità della richiesta di pagamento (posto che le opere non erano state né ultimate, né collaudate) e, dall’altro, l’illegittimità dell’ordine di servizio emesso dal D.L. in assenza dell’autorizzazione del committente al momento della propria emissione, circostanza nota allo stesso appaltatore.
Il Tribunale di Cosenza, aderendo alle difese della convenuta, respinse l’attorea domanda.
La sentenza fu oggetto di appello, parimenti respinto.
Osservò la Corte distrettuale che ai fini dello scrutinio della legittimità dell’ordine impartito dal D.L., mancando una contestuale e specifica approvazione scritta da parte del Comune (in violazione di quanto previsto dall’art. 13, comma 2, d.P.R. n. 1063/1962 e dell’art. 342, allegato F, L. n. 2248/1865, allora vigenti) e senza che dall’ordine di servizio emergesse una situazione di “assoluta o urgente necessità” delle opere, le quali -di contro- consistevano nella modifica sostanziale dell’originario originario con consistente aumento di spesa, il credito dell’appaltatore non poteva essere liquidato sia carenza dei requisiti formali (preventiva approvazione della P.A.) sia per il mancato collaudo delle opere stesse.
L’impresa ricorre, contro la definitiva statuizione in merito, avanti la Suprema Corte di cassazione, che accoglie il ricorso, cassando con rinvio al sentenza impugnata.
La ricorrente deduce, anzitutto la violazione e la falsa applicazione della legislazione sui lavori pubblici all’epoca vigente (L. n. 2248/1865; R.D. n. 350/1895; d.P.R. n. 1063/1962) oltre ai sempre attuali canoni di affidamento e di validità ed efficacia degli atti amministrativi.
Ciò, sulla base del presupposto che il Comune nel 1992 avesse revocato le precedenti deliberazioni, lasciando come pienamente valide e operanti quelle poste a base della validità della perizia di variante e suppletiva redatta dal D.L. e in forza della quale la prestazione era stata resa, con una scelta amministrativa che certo non poteva essere compressa dalla nota della Cassa depositi e prestiti attinente al finanziamento delle opere.
Giusta disposizioni di legge addotte in motivo di gravame, l’appaltatore era tenuto a eseguire gli ordini di servizio impartiti dal D.L., seppur non in origine compresi nel contratto purché muniti -come nel caso- della “superiore approvazione”, essendo del tutto inconferente, come viceversa puntualizzato dalla Corte d’Appello, sia la sussistenza delle ragioni d’urgenza che il mancato collaudo delle opere.
Ancora, la ricorrente censura l’insufficienza della motivazione, tanto con riferimento all’esclusione “apodittica” delle ragioni d’urgenza, quanto circa la mancata approvazione del finanziamento da parte della Cassa depositi e prestiti e le ragioni di come quest’ultima potesse far venir meno gli effetti della delibera comunale di riapprovazione della perizia di variante e suppletiva.
Il Supremo Collegio osserva che i due motivi di ricorso, fra loro strettamente connessi, possono essere esaminati in via congiunta siano meritevoli di accoglimento.
Infatti, si osserva, che l’esercizio dello ius variandi della P.A. nell’appalto pubblico incontra i limiti dettati (ratione temporis) dall’art. 342 ss. della L. n. 2248/1865 (allegato F) e dagli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 1063/1962. Alla luce di tali previsioni, le variazioni al progetto dell’opera pubblica possono legittimamente intervenire in tre casi, ivi specificamente nominati. Fra essi, l’ordine scritto del D.L. con “superiore approvazione” dell’Amministrazione appaltante e, ancora, il caso in cui ciò sia reputato utile o necessario, mediante l’approvazione da parte del D.L. di una perizia suppletiva.
Nel caso di specie, osserva il Giudice di Legittimità, l’impresa ricorrente invoca, al contempo, sia l’esistenza di un ordine scritto del D.L., sia l’esistenza d’una perizia di variante approvata dal Comune. La Corte di merito non ha espresso alcuna considerazione a proposito della legittimità (o meno) delle altre due ipotesi di esercizio dello ius variandi, pure avanzate e riscontrate nella stessa premessa motivazionale della decisione.
Non condivisibile, in particolare, è ritenuta l’esclusione della legittimità della prima di tali ipotesi di esercizio dello ius variandi della P.A. (inerente alla variazione prodotta dall’ordine scritto del D.L., con “superiore approvazione” del Comune, ex art. 342, comma 1, L. n. 2248/1865, all. F), perché l’omessa indicazione dei profili formali dell’approvazione da parte della P.A. nell’ordine impartito dalla Direzione Lavori, pur avendo il preciso fine di esplicitare la rispondenza di esso ai voleri dell’appaltante, non è decisivo per la legittimità dell’ordine non dovendo esso necessariamente sussistere al momento in cui il D.L. abbia impartito l’ordine scritto.
Tale specificato in precedenti sentenze della Cassazione, infatti, tal requisito può intervenire anche in momento successivo, a sanatoria dell’ordine di servizio formalmente dato. Infatti, non solo alla luce degli articoli artt. 21-octies e nonies della L n. 241/1990 (non ancora applicabili ratione temporis alla fattispecie controversa) ma sulla base dei principi che sono ad essi sottesi -previgenti in sede giurisprudenziale perché immanenti nel sistema- e applicabili al caso qui esaminato, la S.C. già in passato affermò che anche in caso di ordine non scritto opera il principio di sanatoria (Cass., Sez. I, n. 5172/1994).
È quindi errato fare riferimento alla carenza di “superiore approvazione” al momento dell’emissione della perizia, omettendo di considerare la sopravvenienza della stessa in un momento successivo, in via di autotutela per sanatoria avvenuta in un momento di poco posteriore.
Né, per il resto, può avere rilievo ai fini della valenza del rapporto contrattuale variato per effetto della perizia, l’aspetto relativo alla  mancata copertura tramite finanziamento che è questione attinente al solo rapporto di provvista tra P.A. e soggetto finanziatore, al quale è estranea l’impresa appaltatrice (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 18.12.2015 n. 25524 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: SOLO UNA S.C.I.A. PER GLI INTERVENTI DI DEMOLIZIONE E RICOSTRUZIONE CON VOLUMETRIA NON SUPERIORE A QUELLA COMPLESSIVA PREESISTENTE.
Un intervento di demolizione e ricostruzione con volumetria non superiore a quella complessiva preesistente, e dunque certamente non incidente sul carico urbanistico, quale elemento considerato dalla norma evidentemente determinante, non poteva (già prima delle ultime modifiche intervenute con il D.L. 21.06.2013, n. 69, art. 30, conv. in L. 09.08.2013, n. 98), e non può, a maggior ragione oggi -atteso che si prescinde, per gli immobili non sottoposti a vincoli, anche dalla modifica della sagoma-, non rientrare nelle ristrutturazioni edilizie “leggere”, come tali assoggettabili a mera segnalazione certificata di attività, ove siano stati rispettati gli ulteriori requisiti contemplati dall’art. 22 T.U. edilizia.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla individuazione del titolo edilizio necessario per gli interventi di demolizione e ricostruzione dei manufatti che non alterino in eccesso la volumetria preesistente.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza del Tribunale che aveva assolto P.S. dal reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), in relazione alla realizzazione in assenza di permesso di costruire di un fabbricato con blocchi di cemento prefabbricato e basamento in calcestruzzo, proscioglimento pronunciato per non essere il fatto previsto dalla legge come reato. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare sostenendo che nella fattispecie contestata, caratterizzata dalla integrale demolizione dell’edificio originario per il quale si sarebbe dovuta sostituire la copertura realizzata in fibra d’amianto con realizzazione di un nuovo manufatto con sagoma differente e volume totale inferiore al precedente, il giudice aveva erroneamente qualificato l’intervento, anziché di ristrutturazione edilizia, per il quale è necessario il permesso a costruire, come di “manutenzione straordinaria”, ritenendo applicabile la relativa norma come modificata dal cosiddetto decreto legge “sblocca Italia”; il giudice, secondo il P.M., non aveva però considerato, da un lato, la nozione di ristrutturazione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. d), e, dall’altro, il fatto che, invece, la nozione di manutenzione straordinaria riguarda l’esecuzione di un’attività di conservazione del costruito che non incide sull’uso preesistente del territorio, ovvero opere interne e singole unità immobiliari delle quali non si devono alterare i volumi e le superfici né modificare le destinazioni di uso.
La Cassazione, pur accogliendo la tesi del P.M., ha tuttavia respinto il ricorso per ragioni diverse, affermando il principio di cui in massima. In particolare, ricordano gli Ermellini, l’art. 3, comma 1, lett. d), T.U. edilizia, come modificato dal D.L. n. 69 del 2013, art. 30, comma 1, lett. a), convertito con modificazioni nella L. n. 98 del 2013, prevede che rientrino all’interno degli interventi di ristrutturazione edilizia “anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza”; sicché deve ritenersi che il legislatore, come segnalato dall’inequivoco riferimento alla “demolizione e ricostruzione” del preesistente edificio, quand’anche di uguale volumetria, abbia inteso comunque ricomprendere l’intervento in questione in quello di ristrutturazione edilizia e non già di manutenzione edilizia, non potendo ritenersi che l’ambito applicativo della disposizione, rimasta sul punto significativamente inalterata anche a seguito della modifica impressa alla L. n. 164 del 2014, art. 3, comma 1, lett. b), abbia subito riduzioni anche solo di carattere interpretativo tali da escluderne appunto la attività, tipicamente considerata, di abbattimento e ricostruzione.
E ciò, a maggior ragione, ove si consideri che il tratto essenziale degli interventi di manutenzione straordinaria continua a consistere nella finalizzazione degli stessi alla “rinnovazione e sostituzione di parti anche strutturali degli edifici”, di per sé non compatibile con una condotta, ben diversa, di abbattimento e ricostruzione dell’intero edificio. Ritenuto dunque che l’intervento posto in essere rientrava in quello di ristrutturazione edilizia, va però osservato per la Cassazione che lo stesso, per gli elementi di fatto incontroversi che lo hanno caratterizzato, ovvero, in particolare, il mancato aumento della volumetria, non richiedeva il rilascio del permesso a costruire, bensì, al momento dei fatti, di una mera d.i.a., ovvero, alla data odierna, di una s.c.i.a. (v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 16.03.2010, n. 20350, M., in CED, n. 247177; Id., Sez. III, 17.02.2010, n. 16393, C., in CED, n. 246757; Id., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260551) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.12.2015 n. 48947 - Urbanistica e appalti 3/2016).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: SUL DIBATTUTO TEMA DELLA FORMA SCRITTA PER IL CONTRATTO DI PATROCINIO DIFENSIVO.
Per gli incarichi professionali di difesa in giudizio della P.A. il requisito della forma scritta ad substantiam deve ritenersi soddisfatto con il rilascio della procura ex art. 83 c.p.c., poiché l’esercizio della rappresentanza giudiziale mediante redazione e sottoscrizione dell’atto difensivo realizza, attraverso l’incontro della volontà delle parti, l’accordo contrattuale secondo le modalità richieste ai fini dell’identificazione del contenuto negoziale e del controllo dell’autorità tutoria (in senso parzialmente difforme, cfr. Cass., Sez. I, 01.12.2015, n. 24447).
Un avvocato convenne in giudizio un’Amministrazione provinciale per sentirla condannare al pagamento degli onorari dovutigli per attività professionale prestata in un giudizio d’appello e, in subordine per ottenere l’indennizzo da ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c.
L’Amministrazione convenuta eccepì la mancanza di forma scritta dell’incarico, necessaria ad substantiam per i contratti della P.A. ex art. 16, R.D. n. 2440/1923. Il Tribunale di Potenza rigettò la domanda principale e dichiarò inammissibile quella subordinata.
Parimenti fu rigettata dalla Corte d’Appello l’impugnazione proposta dal professionista.
In particolare, la Corte escluse la possibilità di attribuire valenza di necessario “atto scritto” nella procura alle liti rilasciata dal Presidente della provincia seguente le delibere giuntali di autorizzazione dell’incarico: questo, perché essa è da ritenersi un atto unilaterale recettizio al quale avrebbe dovuto fare riscontro l’accettazione in forma scritta del professionista, non potendosi desumere tale accettazione -per fatti concludenti- dall’espletamento dell’attività professionale o da un atto difensivo sottoscritto dall’avvocato, per mancanza dei requisiti di contenuto a tal fine necessari.
Né, del resto, la mera procura alle liti è equiparabile al contenuto del contratto, mancando di alcuni elementi essenziali dello stesso, prima fra tutti la indicazione della controprestazione economica, ossia del compenso per onorari professionali.
Parimenti inammissibile, per la Corte d’Appello è la subordinata proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c., essendo insegnamento radicato quello per cui ai sensi dell’art. 23, D.L. n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989) l’effettuazione di spese da parte degli enti territoriali è subordinata ad apposita delibera di autorizzazione, in mancanza della quale il rapporto non è riferibile all’Amministrazione ma intercorre esclusivamente tra il privato e l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione. Neppure giova alla domanda l’invocata applicazione dell’art. 5 D.Lgs. n. 342/1997 che ha ammesso il riconoscimento a posteriori della legittimità dei debiti fuori bilancio ma l’ha subordinato alla specifica deliberazione, nella specie assente.
La questione approda al vaglio del Giudice di legittimità, il quale accoglie il gravame cassando con rinvio la sentenza impugnata.
Osserva la S.C. che ai fini dell’esclusione del diritto al compenso dovuto per l’attività professionale prestata in adempimento dell’incarico conferitogli dall’Ente pubblico, la sentenza di merito ha richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la stipulazione di un contratto di prestazione d’opera professionale da parte della P.A. richiede (artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923) la redazione di uno specifico documento recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo titolare del potere di rappresentanza dell’Ente pubblico verso i terzi, dal quale possa desumersi la concreta instaurazione del rapporto con le necessarie determinazioni sulle rispettive prestazioni. Tali requisiti non sono propri della delibera d’incarico (alla quale non può attribuirsi valenza di proposta contrattuale suscettibile di accettazione anche per fatti concludenti) che è atto con efficacia interna avente quale unico destinatario l’organo legittimato a manifestare all’esterno la volontà dell’ente ed è revocabile (Cass., Sez. I, nn. 6555/2014; 24679/2013; 1167/2013).
In applicazione di tale principio, la Corte di merito ha però anche escluso anche la possibilità di ricollegare la stipulazione del contratto alla procura alle liti perché essa comunque richiede un’espressa accettazione del destinatario, nella forma prescritta dalla legge, non ravvisabile nella mera condotta difensiva (ossia per fatti concludenti).
Quest’ultima affermazione -osservano i Supremi Giudici- però si pone in aperto contrasto con il principio, più volte affermato con riferimento agli incarichi professionali di difesa in giudizio dell’Amministrazione, secondo cui il requisito della forma scritta ad substantiam deve ritenersi soddisfatto con il rilascio della procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c., posto che l’esercizio della rappresentanza giudiziale mediante la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo realizza, attraverso l’incontro della volontà delle parti, l’accordo contrattuale secondo le modalità richieste ai fini dell’identificazione del contenuto negoziale e del controllo dell’autorità tutoria.
Se è vero, infatti, che la procura ad litem, quale negozio unilaterale di conferimento della rappresentanza in giudizio, si differenzia dal sottostante contratto di patrocinio, avente natura di negozio bilaterale finalizzato all’attribuzione dell’incarico professionale, è anche vero, però, che quando la procura, rilasciata per iscritto dal cliente ai sensi dell’art. 83 cit., sia accettata dal legale attraverso il concreto esercizio del potere rappresentativo emergente dalla sottoscrizione degli atti difensivi (citazione, ricorso o comparsa), il collegamento necessario, funzionale e di contenuto, tra questi ultimi e la prima consente di ritenere concluso il contratto di patrocinio, sussistendone tutti i requisiti, dall’incontro di volontà tra le parti alla funzione economico- sociale del negozio, all’oggetto ed alla forma che rende possibile l’assoggettamento al controllo (Cass., Sez. VI, nn. 3721/2015; n. 2266/2012; Sez. II, n. 8500/2004).
Né può rilevare, in senso contrario, la mancanza di qualsiasi riferimento all’ammontare del corrispettivo: l’attribuzione dello jus postulandi, abilitando il procuratore a scegliere, anche negli sviluppi della causa, la condotta processuale più rispondente agli interessi del rappresentato, è di per sé sufficiente anche a determinare, il contenuto dell’attività richiesta, indipendentemente dalla mancata indicazione degli atti da compiere, la cui individuazione è rimessa al difensore, nell’esercizio della discrezionalità tecnica che gli spetta nell’impostazione della lite, ferma restando la riserva alla parte degli atti che comportino disposizione del diritto controverso (Cass., Sez. III, n. 5905/2006; Cass., Sez. II, n. 722/1995).
Alla mancata determinazione del compenso può del resto sopperirsi attraverso il riferimento alle tariffe forensi la cui applicabilità, in assenza di uno specifico accordo tra le parti, è sufficiente ad escludere l’incertezza in ordine alla controprestazione dovuta dalla Amministrazione, quantificabile solo in via approssimativa al momento della stipulazione del contratto, in quanto correlata al compimento degli atti difensivi resi necessari dall’evoluzione del giudizio, e proprio per tale motivo idonea a giustificare la previsione della copertura finanziaria mediante generica imputazione al capitolo di bilancio riguardante le spese processuali (Cass. SS.UU., n. 11098/2002; Sez. I, n. 11859/1999) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 09.12.2015 n. 24859 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: COSTITUISCE REATO LA RICOSTRUZIONE DI UN “RUDERE” SENZA IL PREVENTIVO RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Integra il reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), la ricostruzione di un “rudere” senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o con permesso di costruire illecito o rilasciato in violazione del parametro di legalità urbanistica ed edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo intendersi per quest’ultimo un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia perché non è applicabile il D.L. n. 69 del 2013, art. 30 (conv. in L. n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella specie vincolate, l’esistenza dei connotati essenziali di un edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa, l’accertamento della preesistente consistenza dell’immobile in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché, in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente struttura.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello, assai controverso soprattutto in passato, della individuazione del titolo edilizio necessario per la ricostruzione di un c.d. rudere.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con la quale il tribunale della libertà aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari che aveva sottoposto a vincolo un manufatto insistente su terreno sito nel comune di (omissis) per i reati di cui all’art. 323 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), essendo emerso, secondo la prospettazione accusatoria, che il Comune aveva rilasciato in favore della ricorrente il permesso di costruire n. 1 del 2010 (corredato di autorizzazione paesaggistica in relazione al vincolo ambientale ivi esistente e di attestazione di deposito del progetto presso l’ufficio del genio civile ai fini dell’esecuzione dei lavori in zona sismica) con cui era stato assentito il restauro ed il risanamento conservativo di un fabbricato sito in zona agricola ed il successivo 07.12.2011 era stata assentita una variante al predetto titolo abilitativo in relazione alla sistemazione esterna dell’area.
Il giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro ritenendo sussistente a carico degli indagati il fumus del reato di cui al cit. d.P.R., art. 44, lett. c), ed il fondato pericolo che la libera disponibilità dell’immobile potesse agevolare la prosecuzione dei lavori con conseguente aggravamento degli effetti della condotta criminosa, trattandosi di opera non ultimata.
Contro la sentenza, per quanto qui di interesse, proponeva ricorso per cassazione l’indagata dal momento che gli elementi di prova forniti dalla difesa permettevano di ritenere sussistente ictu oculi una ipotesi di “ristrutturazione leggera” essendo state rispettate le condizioni fissate dalla L. n. 98 del 2013, art. 30, attesa l’agevole rilevabilità della preesistente consistenza dell’immobile nonché della sua sagoma. Avendo la difesa fornito documentazione che attestava in termini di certezza la preesistenza del fabbricato (atto di vendita del manufatto denominato “fabbricato ex mulino”), la preesistente consistenza ed il rispetto la sagoma precedente attraverso elementi certi e verificabili (misura dell’immobile al catasto e foto ante operam, nonché perizia giurata del consulente tecnico), ne conseguiva un difetto di motivazione da parte del giudice del riesame che avrebbe motivato in maniera del tutto apodittica in ordine a quanto provato dalla ricorrente circa l’insussistenza delle ipotesi di reato contestate.
In altri termini, considerati i documenti forniti dalla difesa, il tribunale cautelare avrebbe omesso di prendere in considerazione la documentazione storica dell’immobile dalla quale era facilmente desumibile la preesistente consistenza di esso, con la conseguenza che la motivazione del provvedimento impugnato deve ritenersi del tutto apparente.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, osservando come ricada in zona agricola, con la conseguenza che il lotto minimo richiesto dalla L.R. Lazio n. 38 del 1999, art. 55, comma 6, per l’esecuzione in zona agricola di una nuova costruzione, è pari a 30.000 m2 e che dagli accertamenti effettuati dagli operanti era risultato che la indagata è proprietaria di terreni, di cui al manufatto oggetto di intervento, aventi una superficie totale di 10.422 m2 e dunque inferiore al predetto lotto minimo, sicché correttamente era è stato ritenuto sussistente il fumus commissi delicti in relazione alla contravvenzione contestata alla indagata (in precedenza, sull’argomento: Cass. pen., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260552) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48232 - Urbanistica e appalti 3/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA TRASFORMAZIONE DI UN TERRAZZINO CON OPERE STABILI NON HA NATURA PRECARIA ED È SOGGETTA A PERMESSO DI COSTRUIRE.
La trasformazione di un terrazzino in veranda, mediante collocazione di una struttura in alluminio, vetri e copertura in materiale coibentato, con conseguente creazione di un ambiente diviso in due da una tramezzatura in cartongesso e contiguo ad un appartamento già esistente con rimozione degli infissi dalla loro originaria collocazione, non ha natura precaria né costituisce intervento di manutenzione straordinaria o di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire (o, nella regione Sicilia, a concessione edilizia).
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sull’individuazione delle condizioni e dei requisiti in presenza dei quali la realizzazione di una veranda ottenuta mediante trasformazione di un terrazzino richiede il preventivo rilascio di un titolo abilitativo edilizio.
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte d’Appello, in accoglimento del solo appello proposto dal Procuratore Generale, aveva riformato la sentenza resa dal tribunale che aveva condannato l’imputato per il reato previsto dall’art. 81 cpv. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), per avere realizzato, senza il prescritto permesso a costruire, le seguenti opere edilizie comportanti trasformazione edilizia del territorio comunale: un ampliamento della superficie di mq 10 circa, mediante collocazione di una struttura in alluminio e vetri e copertura in materiale coibentato.
Tale ambiente è risultato diviso in due da una tramezzatura in cartongesso ed era contiguo all’appartamento già esistente in quanto erano stati rimossi gli infissi dalla loro collocazione originaria. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo come errata era la conclusione cui è pervenuta la Corte d’Appello quando aveva affermato che, se anche tale veranda fosse stata preesistente (e lo era), tali lavori sarebbero stati da qualificare come rimozione e ricostruzione di una preesistente opera abusiva, come tale necessitante del permesso di costruire, facendo in tal modo dipendere il concetto tecnico di manutenzione straordinaria ovvero di ricostruzione dalla precedente liceità o meno del manufatto.
Obiettava l’imputato che, se così fosse, l’elemento distintivo tra i lavori di manutenzione straordinaria ovvero di ristrutturazione disciplinati dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 e gli interventi di nuova costruzione individuati dal cit. d.P.R., art. 10 sarebbe rappresentato dalla abusività o meno delle opere precedenti, violando in tal modo la ratio del provvedimento legislativo, che invece prescinde del tutto da tale circostanza.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, ribadendo che la trasformazione di un balcone o di una terrazza, anche di modesta superficie, in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il reato previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (Cass. pen., Sez. III, 15.01.2014, n. 1483, S., in CED, n. 258295; Id., Sez. III, 23.01.2003, n. 3160, M., in CED, n. 223295; Id., Sez. III, 28.10.2004, n. 45588, P.M. in proc. D’A., in CED, n. 230419; Id., Sez. III, 26.04.2007, n. 35011, C., in CED, n. 237532; Id., Sez. III, 13.01.2000, n. 3879, S., in CED, n. 216221) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.12.2015 n. 48221 - Urbanistica e appalti 3/2016).

EDILIZIA PRIVATA: INDICAZIONE UNILATERALE DEL COMPROPRIETARIO DI UNO SPAZIO COMUNE DA DESTINARSI A PARCHEGGIO DELLA PROPRIA UNITÀ IMMOBILIARE, AI FINI DEL RILASCIO DEL TITOLO EDILIZIO.
Ai fini del rilascio di una concessione edilizia l’indicazione fatta da un solo comproprietario, senza accordo con i rimanenti, di un’area comune come zona destinata a parcheggio destinato in via esclusiva alla propria unità immobiliare non rileva agli effetti dell’art. 41-sexies della legge urbanistica n. 1150/1942 (modificato dalla L. n. 122/1989) per il valido rilascio del titolo abilitativo edilizio, perché lede il diritto del comproprietario pretermesso.
Un privato convenne in giudizio altri privati chiedendo -sul presupposto che gli stessi avessero commesso violazioni edilizie in un immobile- la condanna dei convenuti al ripristino e al risarcimento dei danni. Il Tribunale rigettava la domanda.
La Corte d’Appello, pronunciandosi sul gravame, lo rigettava.
La questione è quindi sottoposta al vaglio della Corte di cassazione, che accoglie il ricorso cassando la sentenza con rinvio. Il Giudice di Legittimità condivide la censura che attiene alla violazione e falsa applicazione dell’art. 41-sexies della legge urbanistica (n. 1150/1942) come novellato dall’art. 2, comma 1, L. n. 122/1989; oltre che degli artt. 1102 e 1108 c.c. Questo perché è stata indicata nella richiesta di titolo edificatorio -necessaria ai sensi della L. n. 122 cit.- un’area da adibire a parcheggio che è in comproprietà, senza tuttavia aversi il consenso del comproprietario.
In buona sintesi il ricorrente domanda alla S.C. se costituisca atto eccedente l’ordinaria amministrazione l’indicazione, da parte di uno solo dei comproprietari, di un’area in comunione come area destinata a parcheggio ex art. 41-sexies legge urbanistica (modificato dalla L. n. 122/1989, c.d. legge Tognoli), per il quale “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”, ai fini del rilascio della concessione edilizia. Il Supremo Collegio condivide l’assunto affermando che il comproprietario di un’area in comunione non può, in mancanza di accordo con tutti i rimanenti comproprietari, indicare -a fini edificatori- come area destinata a parcheggio la medesima area in comunione, poiché ciò lede il diritto del comproprietario ricorrente, pretermesso nell’indicazione di destinazione dell’area in comunione.
Ciò è ancor più vero alla luce del contenuto dell’art. 41-sexies, comma 2, legge urbanistica n. 1150/1942 (come aggiunto dall’art. 12, comma 9, L. n. 246/2005) per il quale “gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati … da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari”. Questo, in violazione del principio generale per cui l’atto amministrativo è emesso con salvezza del diritto dei terzi.
La Corte di cassazione, in aggiunta, osserva che non può portare a difforme conclusione l’assunto -contenuto nella sentenza gravata- per il quale alla stregua della disciplina generale sulla comunione, non sia ravvisabile alcuna violazione nell’indicazione da parte di due comproprietari di una parte dell’area comune a parcheggio salva l’ipotesi che vi sia un’occupazione stabile del suolo comune con lesione di altri diritti.
In proposito, la S.C. afferma il principio che un’area comune, in quanto tale, non è suscettibile di uso particolarmente intenso ed individualistico e esorbitante dall’ordinario da parte di uno solo dei comproprietari specie quando l’indicazione a fini edificatori dell’area comune a parcheggio -in assenza della concorde volontà di tutti i comproprietari- incida in modo che non può ritenersi irrilevante sulla stessa natura comune del bene. Del resto, l’indicazione (anche in parte) a parcheggio di un’area comune grava in ogni caso la medesima di un vicolo che andrebbe apposto, perpetuandosi la comunione, solo col consenso unanime dei comproprietari (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 02.12.2015 n. 24519 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: NON ESCLUDE LA NECESSITÀ DEL TITOLO ABILITATIVO LA CIRCOSTANZA CHE IL MANUFATTO SIA CONFORME AL REGOLAMENTO EDILIZIO.
L’asserita conformità della operazione rispetto a quanto previsto da una norma contenuta nel Regolamento edilizio non esclude la necessità del titolo abilitativo richiesto dalla legge, atteso che un’attività che è prevista come illegittima da una disposizione legislativa statale non può certamente degradare in attività consentita per effetto di una disposizione avente rango normativo inferiore alla precedente.
Ne consegue che la attività di ristrutturazione edilizia con variazione di destinazione d’uso che comporti il cambio di categoria edilizia derivante dalla realizzazione di nuove opere edili necessita di permesso a costruire, per come derivante dalla previsione legislativa contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c).

La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla disciplina edilizia e, più specificamente, sull’annosa questione dei rapporti intercorrenti tra normativa primaria e normativa secondaria e sull’incidenza di quest’ultima rispetto alla liceità dell’opera edilizia.
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva parzialmente riformato la sentenza del tribunale pronunciata nei confronti di due imputati cui era stata contestata, in concorso fra loro, la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b), in relazione all’art. 10, comma 1, lett. a), dello stesso d.P.R., per avere realizzato su di un terreno di loro proprietà, in assenza del titolo abilitativo, la ristrutturazione di un immobile preesistente con il suo ampliamento e la variazione di destinazione d’uso da rurale ad abitativo.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli interessati, in particolare sostenendo, per quanto qui di interesse, che il regolamento edilizio del Comune consentiva il cambiamento della destinazione ad uso residenziale degli annessi con destinazione non agricola e, nel caso in esame, il manufatto preesistente non poteva considerarsi rurale in quanto mai destinato a tale scopo, poiché servente un altro immobile ove gli imputati avevano, oltre che le residenze, la sede della loro impresa edile, il che, peraltro, giustificava la presenza sul posto di attrezzi e macchinari destinati a tale impresa, senza che ciò implicasse la attualità dello svolgimento dei lavori edili.
La Cassazione ha rigettato il ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato come non poteva svolgere una qualche efficacia scriminante l’asserita conformità della operazione rispetto a quanto previsto dal ricordato art. 6 del Regolamento edilizio: non va, infatti, dimenticato, precisano gli Ermellini, che un’attività che sia prevista come illegittima da una disposizione legislativa statale non può certamente degradare in attività consentita per effetto di una disposizione avente rango normativo inferiore alla precedente (in precedenza, v.: Cass. pen., Sez. III, 28.01.2015, n. 3953; Id., Sez. III, 26.09.2014, n. 39897) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.12.2015 n. 47310 - Urbanistica e appalti 3/2016).

URBANISTICA: È LOTTIZZAZIONE ABUSIVA FRAZIONARE E PREDISPORRE UN TERRENO AGRICOLO PER REALIZZARE PIÙ EDIFICI A DESTINAZIONE RESIDENZIALE.
Integra il reato di lottizzazione abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con l’originaria vocazione dell’area.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata, di una questione assai ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, in particolare riguardante l’individuazione delle condizioni e dei limiti in presenza dei quali può integrarsi l’illecito lottizzatorio.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla ordinanza con cui il tribunale rigettava l’istanza presentata nell’interesse di G.Z., G.P. e G. E., confermando il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. presso il medesimo tribunale avente ad oggetto le particelle n. 349 e 351 censite nel Foglio 35 del Comune di (omissis), su cui era stato edificato un immobile, ipotizzando a carico degli indagati la sussistenza del reato di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 30, comma 1, e art. 44, lett. c), D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 146 e 181, per aver concorso, quali acquirenti delle predette particelle, con gli originari proprietari del terreno, con i tecnici incaricati dei frazionamenti e con i dirigenti degli uffici tecnici comunali firmatari dei permessi di costruire, predisponendo e realizzando in (omissis), una trasformazione urbanistica del territorio mediante il frazionamento, l’acquisto e la vendita di una serie di lotti di terreno censiti ai fogli di mappa 35 e 46 del Catasto dei terreni di (omissis), sia attraverso l’edificazione materiale, su detti lotti e su altri non precedentemente frazionati, di manufatti destinati univocamente, per caratteristiche costruttive degli immobili e delle opere di urbanizzazione realizzate, per i materiali utilizzati e per la predisposizione di arredi e finiture di pregio, a residenza estiva e/o seconda casa, in violazione di una serie di disposizioni meglio descritte nel capo di imputazione cautelare; ancora, con riferimento agli odierni ricorrenti, per aver realizzato in un’area, originariamente di proprietà di E. F., censita in catasto alle predette particelle, una villa per residenza estiva con annessa piscina, in totale difformità dal p.d.c. n. 171/2011 e dalla s.c.i.a. n. 12/2012, difformità consistite nella realizzazione di apposita apertura, poi chiusa con materiale in cartongesso, tra zona ad abitazione e zona a deposito agricolo, così determinando una continuità tra di essi e una univoca destinazione ad abitazione, anche in considerazione dell’utilizzazione nella zona a deposito agricolo degli stessi valori funzionali, tecnici ed impiantistici della zona ad abitazione e della realizzazione di spazi, rifiniture (porte, armadio a muro) ed impiantistica (numero di prese e punti luce) simili ad una stanza da letto dell’abitazione, nonché  di due bagni al loro esclusivo servizio, con la predisposizione di water, bidet, lavandino e doccia.
Contro l’ordinanza proponevano ricorso per cassazione i due indagati, in particolare dolendosi, per quanto qui di interesse, che il tribunale del riesame:
   a) non avrebbe spiegato come e quando i due indagati abbiano posto in essere la condotta penalmente rilevante di lottizzazione abusiva;
   b) nulla avrebbe detto in ordine all’incidenza effettiva e concreta che avrebbero avuto i lavori incriminati sul preesistente assetto territoriale a seguito dei lavori su esso eseguiti dai due attuali ricorrenti né perché la zona su cui esso insiste non sarebbe adeguatamente urbanizzata per accogliere lo stesso nella sua apparente nuova dimensione;
   c) censurabile sarebbe la motivazione del tribunale del riesame in particolare laddove afferma che “al di là dell’autonomia dell’immobile dei ricorrenti per la presenza di un pozzo artesiano e di un bombolone per la fornitura di gpl, è sufficiente segnalare la necessità di dotare la zona di illuminazione, di impianto fognario, di adeguato sistema di viabilità, ecc.”, ciò in quanto non avrebbe indicato quali sarebbero le opere di urbanizzazione cui far fronte a seguito dei lavori posti in essere sul proprio lotto dagli indagati, avendole solo ipotizzate, ciò in quanto il tribunale del riesame ha considerato solo la più vasta area in cui si inserisce il singolo lotto in questione, tant’è che secondo i giudici del riesame ciò che denoterebbe l’illecito lottizzatorio non sarebbero le singole opere realizzate nel lotto dai due indagati, quanto piuttosto il complesso di interventi fatti sulla più ampia area che comprende il loro lotto;
   d) proprio per tale ultima ragione, i giudici del riesame avrebbero dovuto svolgere una più accurata valutazione della sfera soggettiva dei due indagati, dovendosi dimostrare una loro compartecipazione per lo meno in termini di colpa, all’attività lottizzatoria e non limitata alle singole opere da questi poste in essere sul loro singolo lotto di terreno, esame che sarebbe mancato nel provvedimento impugnato che sarebbe giunto a conclusioni contraddittorie non potendosi apprezzare alcun genere di valutazione circa il rimprovero da muovere agli attuali indagati;
   e) difetterebbe, ancora, pur dopo le risultanze della ct. dell’ing. S. (unico elemento di novità indicato dai giudici del riesame) una valutazione delle posizioni inerenti i due attuali ricorrenti, circa la reale natura della loro condotta ed il rispettivo grado di colpevolezza sull’intera opera di lottizzazione, non essendo dato comprendere da quale circostanza sia ricavabile che i due indagati sapessero o dovessero sapere di concorrere ad una complessiva attività di lottizzazione;
   f) i giudici del riesame non avrebbero ancora considerato che ai due indagati non poteva essere mosso alcun rimprovero di colpa, essendo gli stessi acquirenti di un singolo lotto non derivante da precedente frazionamento, non residenti in zona ma a centinaia di chilometri di distanza, i quali si sarebbero avvalsi a tecnici esperti e alla pubblica autorità, non potendo quindi attribuirsi agli stessi alcuna colpa per non aver adempiuto ai doveri d informazione e conoscenza richiesti dall’ordinaria diligenza e di non avere assunto le necessarie informazioni sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla compatibilità dell’intervento con gli strumenti urbanistici, avvalendosi sempre di tecnici che avrebbero dovuto compensare la loro ignoranza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, osservando, per quanto qui di interesse, come l’area in questione, oggetto di sequestro, è stata investita da opere edilizie da parte degli stessi tecnici progettisti, direttori dei lavori, ditte esecutrici, nell’ambito di un’operazione evidentemente unitaria, che ha previsto per tutti gli interessati la presentazione di richieste di permesso di costruire e di successive varianti in corso d’opera per modifiche degli spazi interni, nonché richieste di cambio di destinazione d’uso per la trasformazione delle vasche di raccolta dell’acqua in piscine, con la surrettizia trasformazione dei vani a destinazione agricola in vani residenziali, in totale difformità dai permessi di costruire rilasciati, donde l’evidente configurabilità dell’illecito lottizzatorio.
In particolare, il terreno edificatorio acquistato dai due indagati insisteva su un’area oggetto di preliminari frazionamenti di aree agricole più ampie, tutte censite nel Foglio 35 del Catasto comunale, frazionamenti che avevano determinato la creazione di lotti di dimensioni difficilmente compatibili con attività agricole, posto che si trattava di area ricadente in zona omogenea E del programma di fabbricazione del Comune, destinata ad usi agricoli, precisamente in zona agricola di tipo B2, nella quale sono consentite solo costruzioni a servizio diretto dell’agricoltura o costruzioni adibite alla conservazione o trasformazione dei prodotti agricoli, annesse ad aziende agricole che lavorano prevalentemente prodotti propri ovvero svolte in cooperazione, ed all’esercizio di macchine agricole.
Da qui, dunque, l’indubbia sussistenza del fumus del reato (in precedenza, in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 19.04.2011, n. 15605, M. e altri, in CED, n. 250151) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.11.2015 n. 46536 - Urbanistica e appalti 3/2016).

ESPROPRIAZIONE: EFFETTI DELL’ATTO DI CESSIONE VOLONTARIA DI UN IMMOBILE SENZA DETERMINAZIONE DEL PREZZO.
La cessione volontaria di un immobile, se priva dei criteri per la determinazione del prezzo, costituisce espressione d’autonomia negoziale a norma dell’art. 1322 c.c., il cui esercizio preclude al privato di proporre tanto la domanda di conguaglio, quanto quella di rideterminazione del prezzo, riferito al valore venale, ex art. 39, L. n. 2359/1865, previa declaratoria di nullità di quello pattuito.
Un privato convenne in giudizio un Istituto provinciale per l’edilizia abitativa premettendo che, in attuazione di quanto previsto in una delibera di Giunta provinciale, l’Ente convenuto avesse approvato un piano per realizzare quindici alloggi e che in esso rientrasse anche un immobile di sua proprietà, ceduto al convenuto in esecuzione d’una convenzione per effetto della quale vi era possibilità di riacquistare, a prezzo prestabilito in atto, una parte dell’immobile ristrutturato. L’attore lamentò che l’Ente avesse disatteso tale obbligo di cessione alle condizioni concordate, sostenendosi di contro -da parte dell’Ente- ciò essere divenuto impossibile per effetto di una legge sopravvenuta.
In ragione di questo, il privato chiese la declaratoria di nullità della clausola determinativa del prezzo della cessione e la sua sostituzione con quanto previsto dalle norme imperative in tema d’indennità d’espropriazione e, in subordine, la declaratoria di nullità delle convenzioni per difetto di causa o la loro risoluzione per il venir meno del relativo presupposto.
Il Tribunale rigettò le domande, con decisione confermata dalla Corte d’Appello.
La Corte di merito affermò che la procedura speciale (art. 82, legge provinciale di Trento n. 16/1983) qui applicata non era equiparabile alla cessione volontaria prevista dalla legislazione in materia espropriativa, in assenza del subprocedimento di determinazione dell’indennità: per l’effetto, il contratto stipulato tra le parti a trattativa privata costituiva una compravendita di diritto comune, con la conseguenza che non era possibile la chiesta sostituzione automatica dei criteri legali, nel frattempo intervenuti, a quelli pattuiti.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorre il privato, con ricorso che la S.C. parimenti rigetta.
Merita osservarsi, a commento della sentenza, come la S.C. disattenda la censura -mossa dal ricorrente alla sentenza gravata- per cui la mancanza del sub-procedimento di determinazione dell’indennità di esproprio comporterebbe la conseguenza che il contratto traslativo dell’immobile, intercorso fra le parti, costituisca una compravendita di diritto privato. In proposito i Supremi Giudici rilevano la correttezza della statuizione resa in sede d’appello, posto che ogni diversa prospettazione, come sollevata dal ricorrente, non solo è contraria al dettato normativo (che disciplina in modo rigido l’intero procedimento espropriativo) ma anche ai canoni costituzionali di legalità, imparzialità e tutela del terzo, che devono, sempre, improntare l’attività della P.A.
Del resto, osserva la sentenza, anche la cessione volontaria che non indichi i criteri di determinazione del prezzo costituisce espressione d’autonomia negoziale a norma dell’art. 1322 c.c., il cui esercizio preclude al privato di proporre tanto la domanda di conguaglio, quanto quella di rideterminazione del prezzo (riferito al valore venale, ex art. 39 della L. n. 2359/1865), previa declaratoria di nullità di quello pattuito (Cass. n. 10952/2014).
Ancora, il Collegio aggiunge che, pur essendo rivolta a conseguire l’interesse collettivo generale, l’attività negoziale della P.A., per tutto quel che riguarda la disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono, rimane assoggettata ai principi ed alle regole del diritto comune: in primo luogo a quella secondo cui formatasi la volontà contrattuale secondo la disciplina dettata nella convenzione recepita o nella normativa richiamata, l’intero rapporto è retto e deve svolgersi secondo quella disciplina (Cass. n. 7779/2012) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 23.11.2015 n. 23866 - Urbanistica e appalti 2/2016).

INCARICHI PROGETTUALI: NECESSITÀ DI FORMA SCRITTA PER IL CONFERIMENTO DI INCARICHI DI PROGETTAZIONE, INAMMISSIBILITÀ DI UNA DOMANDA RESIDUALE DI ARRICCHIMENTO INDEBITO A FAVORE DELL’AZIONE TIPICA EX ART. 191 T.U. ENTI LOCALI.
In tema di spese degli enti locali, effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui agli artt. 23, commi 3 e 4, D.L. 02.03.1989, n. 66 (conv. con modificazioni in L. 24.04.1989, n. 144, e riprodotto, senza sostanziali modifiche, prima dall’art. 35, D.Lgs. n. 77/1995, e poi dall’art. 191, D.Lgs. n. 267/2000) l’insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del corrispettivo, direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, determina l’impossibilità di esperire nei confronti del Comune l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del necessario requisito della sussidiarietà.
Un progettista convenne avanti il Tribunale Ordinario un’Amministrazione comunale, chiedendo che fosse accertata la redazione di un progetto da parte dell’attore, con declaratoria del diritto alla corresponsione del compenso e condanna al relativo pagamento. In subordine, l’attore chiese accertarsi e dichiararsi che la redazione del progetto fosse ben eseguita e accettata dall’Ente, con la condanna del Comune ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Il Tribunale rigettava le domande attrici.
Proponeva appello il privato, che la Corte territoriale rigettava.
A sostegno di questa decisione la Corte distrettuale osservò che l’incarico professionale era stato - per ammissione attorea - affidato oralmente, sicché doveva affermarsi la nullità del titolo azionato, per mancanza di un requisito essenziale ex artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923 e, ancora, che l’azione residuale di indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c. non era possibile sussistendo nello specifico un’azione tipica a tutela di una parte nei confronti dell’altra.
La questione approda in Cassazione, con ricorso del privato che la Suprema Corte respinge.
Anzitutto, ricordando che la mancanza di forma scritta determina la nullità del contratto di conferimento d’incarico tra P.A. e progettista, per contrarietà a norme imperative.
Né, in senso contrario, può opinarsi che il ricorrente non fosse un professionista esterno all’Ente ma, all’epoca, incardinato in esso qual responsabile dell’Ufficio tecnico comunale, seppure a tempo determinato e con compenso mensile a fattura. Questo, benché l’incarico di progettazione fosse stato conferito dalla Giunta direttamente all’UTC, del quale il ricorrente era per vero responsabile, tuttavia essendo l’attività di progettazione estranea ai compiti di quell’ufficio.
Pertanto, se detta attività non rientrava tra quelle dell’UTC, l’incarico di cui si discute doveva conferirsi, prescindendo dalla circostanza che il professionista ne fosse responsabile, con contratto redatto a pena di nullità in forma scritta, nel rispetto della generale regola di cui all’art. 16, R.D. n. 2440/1923, secondo un insegnamento (Cass. n. 15296 del 06.07.2007) per il quale tale disposizione opera qualora il contratto d’opera professionale sia stipulato con la P.A. che agisca secondo regole di diritto privato.
Con riferimento alla domanda ex art. 2041 c.c., proposta in via subordinata, la Suprema Corte osserva che essa, per la propria natura residuale, non è di possibile introduzione nel presente giudizio, essendo esperibile l’azione nei confronti dell’amministratore o del funzionario con il quale il privato aveva concluso il contratto “verbale” di incarico, in rappresentanza del Comune. Questo, in applicazione del disposto dell’art. 23, D.L. n. 66/1989. Il Comune, quindi, non può ritenersi vincolato a un contratto concluso senza l’osservanza della procedura di legge e la previa deliberazione delle spese, sicché detto sinallagma -stipulato al di fuori delle condizioni previste dalla legge- non vincolava l’Ente ma l’amministratore o il funzionario responsabile dell’acquisizione del servizio, cui andava diretta l’azione di recupero della subita diminuzione patrimoniale (Cass. 29.07.2009, n. 17550).
E, proprio in considerazione del fatto che nel caso in esame era possibile l’azione diretta di recupero della subita diminuzione patrimoniale nei confronti dell’amministratore o del funzionario responsabile dell’acquisizione del servizio, era doveroso da parte del  ricorrente procedersi per quella via (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.11.2015 n. 23503 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA RIMESSIONE IN PRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI NON ESTINGUE IL REATO EDILIZIO MA SOLO LA CONTRAVVENZIONE PAESAGGISTICA.
La rimessione in pristino stato delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, pur se accompagnata dalla successiva demolizione del manufatto abusivo, non estingue il reato edilizio ma, esclusivamente, la contravvenzione paesaggistica prevista dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1; ne consegue che non è applicabile analogicamente all’art. 44 in esame la disciplina dettata in materia di reati paesaggistici dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies, la quale ha una funzione premiale, diretta ad incentivare il recupero degli illeciti minori e a far riacquistare alla zona vincolata il suo originario pregio estetico.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata, della possibilità estensione applicativa della causa estintiva del reato paesaggistico, rappresentata dalla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, ai reati edilizi.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello confermava la pronuncia emessa dal Tribunale nei confronti di D.R.G. e A.F., con la quale questi erano stati ritenuti responsabili dei reati di cui all’art. 110 c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c); agli stessi -nelle rispettive qualità di committente e direttore dei lavori- era contestata l’esecuzione di opere in difformità del permesso di costruire ed in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.
Gli stessi erano stati invece assolti da ulteriori imputazioni perché il fatto non sussiste, e prosciolti da quella di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71, per l’avvenuta rimessione in pristino.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione i due imputati, in particolare sostenendo che la Corte d’Appello aveva confermato la condanna disattendendo le risultanze processuali relative alla s.c.i.a. in variante, ed alla natura “leggera” di questa.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, osservando come i ricorsi si limitassero a censure generiche e fumose, con le quali richiamavano, in senso contrario, talune asserite emergenze istruttorie, delle quali, quindi, si sarebbe dovuto tener conto (“La Corte dimentica ogni assunto difensivo svolto sulla s.c.i.a. in variante, sul fatto che trattasi di variante leggera, che la Ma.Li.A. ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie e che la variante era stata chiesta in corso d’opera essendo oggi l’immobile ancora allo stato rustico”).
Ma, all’evidenza, per i Supremi Giudici, si tratta di argomentazioni del tutto prive di pregio (in precedenza, sull’argomento: Cass. Pen., Sez. III, 06.05.2014, n. 37168, A., in CED n. 259943; Cass. Pen., Sez. III, 12.05.2011, n. 25026, S., in CED n. 250675) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.11.2015 n. 45269 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: RAPPORTI FRA JUS AEDIFICANDI E DIRITTO DI PROPRIETÀ - NATURA DI OBBLIGAZIONE PROPTER REM DEGLI ONERI DI URBANIZZAZIONE.
La subordinazione dello jus aedificandi a un provvedimento della P.A. (cd. titolo abilitativo edilizio) non inerisce in via immediata al diritto di proprietà, limitandosi a stabilire i limiti e a verificare i presupposti per l’esercizio di quel diritto, attuando il principio costituzionale della funzione sociale della proprietà mediante imposizione di un contributo al proprietario: in questo senso, l’assunzione, da parte del proprietario del fondo, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione è un’obbligazione “propter rem”, sicché dette opere devono essere eseguite da coloro che sono proprietari al momento del rilascio della concessione edilizia, o dai loro aventi causa, i quali ben possono essere soggetti diversi da quelli che stipularono una Convenzione urbanistica.
Una società immobiliare proprietaria di un terreno edificabile aveva stipulato con un Comune una Convenzione di Lottizzazione nel 1986. Avendo già realizzato, in attuazione della Convenzione, gran parte della volumetria ammessa, adempiendo agli obblighi onerosi dalla stessa previsti, era residuata una volumetria edificabile di circa 47.000 mc su una superficie di 10.120 mq.
In seguito a un procedimento di esecuzione immobiliare, tale area era stata venduta all’asta e assegnata, con decreto di trasferimento del Giudice dell’Esecuzione assunto in data 23.04.2002 ad altra società immobiliare acquirente la quale - con successivo atto di compravendita - ne aveva trasferita la proprietà ad un’altra società terza.
L’immobiliare che in origine aveva sottoscritto la Convenzione convenne le due società sopravvenute nella proprietà del terreno contestando che, unitamente alla proprietà dell’area, fosse stato trasferito anche lo ius aedificandi connesso e conseguente al Piano di Lottizzazione. Chiedeva, così, che fosse accertato e riconosciuto che i diritti volumetrici nascenti dalla convenzione erano tuttora di sua competenza e che, per l’effetto, l’atto con il terreno era da ultimo pervenuto nella disponibilità dell’attuale proprietaria costituiva una vendita di cosa altrui ex art. 1478 c.c. In via subordinata, instava ex art. 2041 c.c., per la condanna della Leonardo a indennizzare l’attrice di tutte le somme sborsate e di tutti gli oneri sopportati per ottenere, in sede di convenzione di lottizzazione, lo ius aedificandi pari a mc. 47.000.
Il Tribunale rigettava la domanda, non condividendo la tesi dell’attrice secondo cui, avendo sostenuto i costi derivanti dal Piano di Lottizzazione dell’intera area, solo ad essa spetterebbe la titolarità dello ius aedificandi, anche rispetto alla porzione di terreno che sottoposta a vendita forzata e quindi trasferita.
Osserva il giudice di prime cure che il diritto di edificare costituisce, dal punto di vista privatistico, uno dei corollari del diritto di proprietà, indipendentemente dai rilievi pubblicistici che attengono al governo del territorio. La sentenza era oggetto d’appello, che la Corte di merito respinse.
Nel confermare che lo ius aedificandi è corollario del diritto di proprietà, si osservò che in senso contrario non potevano trarsi argomenti dalla disciplina relativa al diritto di superficie, stante la tipicità dei diritti reali, e neppure dall’art. 1, comma 21, L. n. 380/2004 posto che la medesima legge in seguito precisa che in caso di accoglimento dell’istanza presentata ex art. 21, la traslazione del diritto di edificare su area diversa comporta la contestuale cessione al comune, a titolo gratuito, dell’area (originaria) interessata dal vincolo sopravvenuto.
Il decreto del G.E., chiosò la Corte d’appello, aveva trasferito l’area comprensiva di ogni sua caratteristica, compresa la volumetria edificabile a essa pertinente (sia pure residua rispetto a quella prevista in relazione all’intero, originario comparto edificatorio), atteso che il terreno era stato trasferito nello stato di fatto e diritto in cui si trovava: che fosse stata trasferita anche la particolare capacità edificatoria, sia pure nella parte residua, lo si desumeva sia dall’avvenuto richiamo al certificato di destinazione urbanistica rilasciato dal Comune, sia dal valore di mercato attribuito all’area, secondo quanto in proposito chiarito dal C.T.U., il quale aveva tenuto conto dell’avvenuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e del possibile rilascio della concessione edilizia.
La circostanza che nel successivo atto di vendita fra le due sopravvenute proprietarie fosse specificato che la vendita comprendeva anche i diritti volumetrici derivanti dalla prima Convenzione non era altro che una precisazione: ogni questione relativa alle modalità di determinazione del prezzo di vendita all’incanto del terreno ed alla sua quantificazione da parte del CTU avrebbe potuto e dovuto essere svolta esclusivamente in sede esecutiva, certo non nella presente.
Quanto alla subordinata ex art. 2041 c.c. la Corte respinse la domanda perché l’attribuzione patrimoniale non era affatto priva di giusta causa, essendo l’acquisto dell’area intervenuto in forza d’un ben preciso titolo, peraltro di formazione giudiziale (per effetto della vendita all’incanto), e, per di più, al prezzo di mercato indicato da un imparziale CTU.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, che la Suprema Corte rigetta.
Osservano i Supremi Giudici che già con le sentenze della Corte Cost. n. 5/1980 e n. 127/1983 si è escluso che -in base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia del territorio e condizionato l’edificabilità dei suoli al rilascio di concessione- lo ius aedificandi inerisca in via immediata al diritto di proprietà, potendo l’edificabilità delle aree essere stabilita solo con provvedimento della P.A.
L’istituto della concessione edilizia, introdotto con la L. n. 10/1977, non ha però scisso lo jus aedificandi dal diritto di proprietà, limitandosi a stabilire i limiti all’esercizio di quel diritto, in relazione alla funzione sociale della proprietà e nel rispetto del parametro costituzionale. L’imposizione di un contributo al proprietario, da corrispondere al Comune, s’inquadra nell’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale e politica, sicché la partecipazione agli oneri di urbanizzazione non è illegittima se si mantiene nei limiti della ragionevolezza.
Per i suoli destinati all’edilizia residenziale privata, l’edificazione avviene, per lo più, su domanda del proprietario dell’area il quale, alle condizioni di legge, ha diritto ad ottenere il titolo edificatorio: infatti il titolo legittimante per il rilascio della concessione edilizia (L. n. 77 del 2010, art. 4) e ora del permesso di costruire (T.U. n. 380 del 2001, art. 11) è anzitutto la proprietà.
Ma il diritto di costruire non trova fonte nel provvedimento amministrativo che si limita a verificare i presupposti per l’esercizio del diritto secondo quanto prescritto dalle norme di legge e dagli strumenti urbanistici. Né a difforme conclusione può portare l’art. 23, L. n. 1150/1942 in tema di comparto edificatorio, previsto dall’art. 870 c.c., che è un mezzo di attuazione del piano regolatore particolareggiato e rende possibile l’edificazione privata attraverso la formazione di consorzi tra proprietari rappresentanti almeno i tre quarti del valore dell’intero comparto, nonché l’espropriazione delle aree appartenenti ai proprietari non aderenti: essa, all’art. 28 prevede, in caso di mancanza di piano particolareggiato, l’autorizzazione ad edificare da parte del Comune.
La ricostruzione della disciplina urbanistica relativa al diritto di costruire non è contraddetta dalle successive norme che, in effetti, hanno preso in considerazione la categoria dei diritti edificatori e la possibilità di trasferimento della capacità edificatoria in modo autonomo dal diritto di proprietà.
D’altro canto, osserva la S.C., la L. n. 308/2004 (art. 1, comma 21) prevede che qualora, per effetto di vincoli sopravvenuti e diversi da quelli di natura urbanistica, non sia più esercitabile il diritto di edificare che sia stato già assentito, è facoltà del titolare del diritto chiedere di esercitare lo stesso su altra area del territorio comunale, di cui abbia acquisito la disponibilità a fini edificatori. Il successivo comma 22 dispone che in caso d’accoglimento dell’istanza in tal senso presentata, la traslazione del diritto di edificale su area diversa comporta la contestuale cessione al Comune, a titolo gratuito, dell’area interessata dal vincolo sopravvenuto.
In effetti, come previsto anche dalla L. n. 244/2007 (art. 1, comma 258) si tratta di norme dettate per attuare la c.d. perequazione urbanistica -secondo modalità previste dall’Amministrazione negli strumenti urbanistici- consentendo alla P.A. di ottenere la cessione gratuita di area destinata alla realizzazione di interessi pubblici senza procedere a espropriazione ma dando in corrispettivo la traslazione dei diritti edificatori su altra area di proprietà del cedente.
Ma, conclude la Suprema Corte, nella specie non è decisivo il riferimento ai diritti edificatori, posto che il proprietario dell’area in oggetto (la ricorrente, che ha subito l’espropriazione immobiliare a seguito di un procedimento esecutivo) non era rimasto titolare dei diritti edificatori ossia della capacità edificatoria del terreno nel momento in cui la proprietà dello stesso era stata trasferita, atteso che in assenza di una diversa regolamentazione la volumetria edificabile era trasferita con il diritto di proprietà di cui essa rappresentava una componente ex art. 832 c.c.: in altri termini, con l’atto d’aggiudicazione è stata trasferita la piena proprietà del bene pignorato secondo quanto previsto dall’art. 2912 c.c.
Sotto un ultimo profilo, la Corte di Legittimità respinge il terzo motivo di ricorso, osservando che l’assunzione, da parte del proprietario del fondo, degli oneri relativi a opere di urbanizzazione costituisce un’obbligazione propter rem, dovendo dette opere essere eseguite da coloro che sono proprietari al momento del rilascio della concessione edilizia, i quali ben possono essere soggetti diversi da quelli che stipularono la convenzione, per avere da questi acquistato una parte del suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di) lotti (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.11.2015 n. 23130 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA: PER ESEGUIRE CON S.C.I.A. GLI INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA È NECESSARIO ACCERTARNE LA PREESISTENTE CONSISTENZA.
L’utilizzazione del termine “consistenza”, da parte del legislatore, nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.); ne consegue che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma, dovendosi, altresì, aggiungere che detta verifica non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma deve, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
La S.P. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione, oggetto di attenzione nella legislazione più recente, della realizzabilità in forma semplificata di interventi edilizi di ristrutturazione edilizia. La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva confermato la responsabilità penale di M.V., C.G. e P.O. in ordine al reato di cui all’art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c) per avere, in concorso tra loro, il C. quale proprietario committente, il P. quale direttore dei lavori ed il M. quale responsabile della ditta esecutrice dei lavori, realizzato, su area soggetta a vincolo paesaggistico, opere edilizie in variazione essenziale rispetto a quanto assentito con il permesso di costruire n. 42/2010, rilasciato dal Comune, consistenti in un vano delle dimensioni esterne di m. 3,50 x 2,30 in conci di tufo, privo di copertura, addossato lungo il prospetto sud a due ambienti preesistenti e ricostruiti.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo che i giudici del merito avrebbero erroneamente ritenuto l’illegittimità del permesso di costruire e quella del successivo permesso in sanatoria in considerazione dell’impossibilità dell’intervento su un manufatto consistente in rudere e rilevando che, avuto riguardo alle modifiche apportate al testo unico dell’edilizia ad opera del D.L. n. 69 del 2013, sussistevano i presupposti per la realizzazione dell’intervento, essendosi dimostrata, nel corso del giudizio di merito, la possibilità di individuare la preesistente consistenza dell’edificio.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno rigettato il ricorso, in particolare precisando che con gli interventi modificativi apportati dal citato D.L. n. 69 del 2013 (noto anche come “decreto del fare”), si è notevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l’obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente”.
A tale proposito, la giurisprudenza della Cassazione ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l’obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell’edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della s.c.i.a. se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell’edificio (Cass. Pen., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260551).
Va richiamata l’attenzione anche sul fatto che detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (Cass. Pen., Sez. III, 22.01.2014, n. 5912, M. e altri, in CED, n. 258597; Id., Sez. III, 25.062015, n. 26713, P., inedita).
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso, posto che correttamente i giudici del merito avevano stigmatizzato la singolarità del procedimento autorizzatorio che aveva riguardato l’intervento edilizio realizzato dai ricorrenti laddove, in presenza di un manufatto ormai in condizioni di rudere, si era, con unico provvedimento, autorizzato il ripristino e, successivamente, la ristrutturazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.11.2015 n. 45147 - Urbanistica e appalti 2/2016).

ESPROPRIAZIONE: EFFETTI DELLA SOPRAVVENUTA REVOCA DELLA DICHIARAZIONE DI P.U. SULL’INDENNITÀ CORRISPOSTA E SUL BENE OCCUPATO.
In caso di revoca della dichiarazione di p.u. dopo la percezione dell’indennità di esproprio da parte del privato e sia avvenuta la presa di possesso del bene da parte dell’espropriante, ogni successivo atto che a ciò si ricollega diventa inefficace in forza del suddetto provvedimento terminativo della procedura espropriativa, sicché la somma anticipata all’espropriando resta priva di causa e ingiustificata, al pari della protratta occupazione del bene da parte del soggetto espropriante, divenuta priva di causa, con l’effetto che entrambi sono obbligati alle rispettive restituzioni, secondo le regole ordinarie.
Il Ministero della Difesa convenne avanti il Tribunale civile alcuni privati per sentir dichiarare l’inefficacia dell’accordo stipulato con il loro dante causa, con cui era stata concordata e corrisposta un’indennità d’esproprio per alcuni terreni e, per l’effetto, sentir condannare i convenuti alla restituzione della somma da essi percetta in attuazione del predetto accordo.
Di questi terreni era stata, a suo tempo, ordinata l’occupazione d’urgenza al fine di realizzare l’ampliamento di un aeroporto nel quale era prevista l’installazione di una base NATO: opera dichiarata di pubblica utilità con d.P.R. n. 27/1989. Nel prosieguo, gli organi della Nato annullarono il progetto sicché il Ministero ordinò la cessazione delle attività espropriative, che non si erano concluse, non essendo stato emesso il decreto di esproprio, e, con d.P.R. n. 817/1993 fu revocata la dichiarazione di p.u. per ragioni di interesse pubblico.
In ragione di questo, venne intimato ai proprietari di rientrare in possesso dei beni e di restituire l’indennità percepita, così rimasta priva di giustificazione causale.
Sulla scorta di tali premesse fattuali, il Tribunale dichiarò l’inefficacia dell’accordo sull’indennità d’esproprio; condannando i privati a restituire l’indennità maggiorata d’interessi legali dal giorno della domanda giudiziale; ordinò alla P.A. il rilascio dei terreni e condannò il Ministero a pagare alcune somme a titolo risarcitorio.
Il gravame del Ministero fu parzialmente accolto dalla Corte d’appello. Per quanto qui rilevi, la Corte rigettò l’eccezione di difetto di giurisdizione ordinaria sollevata dai privati; qualificò la pattuizione originaria come un accordo bonario sul quantum dell’indennità di esproprio (e non una cessione volontaria) avente efficacia esclusivamente endo-procedimentale e perciò inidoneo a produrre effetti traslativi della proprietà del bene e a far sorgere nei privati il diritto all’emissione del decreto di esproprio, con la conseguenza che il medesimo accordo era diventato inefficace poiché il procedimento ablativo non era concluso ed erano sorti a carico delle parti reciproci obblighi restitutori.
La Corte, così determinò le somme dovute ai privati a titolo d’indennità di occupazione legittima e di risarcimento dei danni recati ai terreni e a un fabbricato nel periodo dall’immissione in possesso alla data di cessazione degli effetti della dichiarazione di p.u., nonché a titolo di risarcimento dei danni per il successivo periodo in cui il Ministero aveva trattenuto i beni senza titolo, avendo intimato ai privati di riprenderli solo in seguito, con offerta reale. Di contro, per il periodo successivo, ad avviso della Corte territoriale i privati non avevano diritto a risarcimenti, avendo illegittimamente resistito alla richiesta di rientrare nel possesso dei beni ed essendo venuta meno l’imputabilità al Ministero dell’inadempimento all’obbligo restitutorio.
La sentenza di merito è oggetto di gravame da parte dei privati, al quale resiste il Ministero proponendo a sua volta ricorso incidentale.
Il Supremo collegio respinge entrambi i ricorsi, così confermando la statuizione resa al definitivo grado di merito.
In disparte i motivi dichiarati inammissibili, la sentenza afferma -in merito agli interessi oggetto di domanda- che qualora sia sopravvenuta la revoca della dichiarazione di pubblica utilità dopo la percezione dell’indennità di esproprio da parte del proprietario espropriando per effetto di un “accordo amichevole” e sia avvenuta la presa di possesso del bene da parte dell’espropriante (in virtù di occupazione d’urgenza), ogni successivo atto che a ciò si ricollega diventa inefficace in forza del suddetto provvedimento terminativo della procedura espropriativa. Per l’effetto, la somma anticipata all’espropriando diventa priva di causa e ingiustificata al pari della protrazione dell’occupazione del bene da parte del soggetto espropriante (divenuta priva di causa) con l’effetto che entrambi sono obbligati alle rispettive restituzioni, secondo le regole ordinarie.
La restituzione della somma ricevuta dal privato a titolo d’indennità di espropriazione è retta dalle regole ordinarie sulla ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c., applicabile anche nel caso di sopravvenienza della causa che renda indebito il pagamento (Cass., Sez. Un., nn. 5624 e 14886/2009).
In ordine al parallelo aspetto della decorrenza di tali interessi, la S.C. qui afferma la necessità di superare un orientamento (Cass. n. 4745/2005; n. 1581/2004; n. 13424/2015) dovendosi invece dare seguito all’indirizzo (inaugurato da Cass. n. 7586/2011 e seguito incidentalmente da Cass. n. 16657/2014) secondo il quale, in tema di ripetizione d’indebito oggettivo, l’espressione “domanda” di cui all’art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale ma anche ad atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell’art. 1219 c.c., dovendosi considerare l’accipiens (in buona fede) quale debitore e non come possessore, con conseguente applicazione dei principi generali in materia di obbligazioni e non di quelli inerenti la tutela del possesso ex art. 1148 c.c. (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 09.11.2015 n. 22852 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA - VARI: L’INCARICATO DELLA VENDITA DELL’IMMOBILE E TITOLARE DI UNA PROCURA A VENDERE PUÒ ESSERE RITENUTO RESPONSABILE DEL REATO EDILIZIO.
In tema di violazioni edilizie, ai fini della consumazione dei reati in materia edilizia non è necessario il diritto di proprietà o la titolarità di diritti reali sull’immobile o sull’area di sedime, ciò perché committenza o autori diretti delle opere abusive non necessitano, in sede penale, di qualifiche formali o situazioni giuridiche soggettive riconosciute in altri rami dell’ordinamento e ad esse preesistenti.
Ne consegue che si può essere committenti o autori materiali delle opere senza essere proprietari del bene o senza avere con esso un rapporto giuridicamente qualificato, trattandosi, del resto, di fenomeno che il legislatore ben conosce e disciplina (artt. 936 e 937 c.c.), atteso che ciò che conta è la disponibilità materiale del bene di proprietà altrui oggetto di intervento.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C. verte, in particolare, su una questione invero abbastanza inusuale in giurisprudenza, relativa alla responsabilità per abusi edilizi di soggetto non proprietario dell’immobile.
La vicenda processuale trae origine dalla impugnazione della sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la condanna per il reato continuato di cui all’art. 81 cpv. c.p., D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1, (capo A) e art. 44, lett. c), (capo B) e d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 93, 94 e 95 (capo C), per la realizzazione, in zona sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico, della chiusura di un terrazzo mediante una struttura portante in ferro e copertura di pannelli di lamierino coibentato, chiusa su tutti i lati con infissi e vetrate ad ante scorrevoli, senza permesso di costruire, senza l’autorizzazione dell’autorità preposta al vincolo, senza darne preavviso scritto agli uffici comunali e senza autorizzazione della Regione.
Ricorrendo in Cassazione, l’imputato si doleva per l’affermazione della sua responsabilità, unicamente dedotta dal fatto che egli fosse stato incaricato della vendita dell’immobile e titolare di una procura a vendere; in sostanza, l’imputato sosteneva che si trattasse di un elemento indiziario sfornito delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza con altri elementi di prova e che non poteva, pertanto, essere valutato alla stregua di una prova piena, non essendo egli proprietario dell’immobile, non vi abitava, la procura era stata rilasciata nel 2008, le opere abusive erano di recente fattura.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, osservando come fosse stato obiettivamente dimostrato come l’imputato fosse l’unico soggetto ad avere la materiale detenzione del fabbricato, in forza di una procura a vendere rimasta non eseguita dal lontano 2002, rilasciatagli dal proprietario residente negli USA e, quindi, come tale, non in grado, per effetto della distanza dai luoghi di interesse per il procedimento, di curare gli adempimenti connessi alla gestione dell’immobile di sua proprietà e persino le attività di committenza funzionali alla abusiva edificazione di un manufatto di non irrilevanti proporzioni, quale quello per cui è processo. 
I Giudici avevano poi sostenuto in modo netto che l’imputato aveva la disponibilità esclusiva dell’immobile in forza di una procura speciale a vendere e, oltretutto, a fronte di un dato certo (la disponibilità dell’immobile da parte dell’imputato in base ad un titolo esistente) non era compito dell’accusa dimostrare un fatto negativo (l’assenza del proprietario), essendo onere della difesa provare il contrario (fatto positivo). Sulla questione non constano precedenti in termini (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.10.2015 n. 43608 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: QUALI SONO GLI INDICI IN BASE AI QUALI VALUTARE L’ATTRIBUIBILITÀ DEL REATO URBANISTICO AL PROPRIETARIO EXTRANEUS?
Ai fini della configurabilità della responsabilità del proprietario del fondo sul quale risulti essere stato realizzato un manufatto abusivo, gli indici da prendere in considerazione, in via esemplificativa, sono i seguenti:
   a) il dato della piena disponibilità, giuridica e di fatto, del suolo;
   b) l’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (in applicazione del principio del “cui prodest”);
   c) i rapporti di parentela o di affinità tra esecutore dell’opera abusiva e proprietario; d) l’eventuale presenza “in loco” di quest’ultimo;
   d) l’espletamento di attività di materiale vigilanza dell’esecuzione dei lavori;
   e) l’eventuale presentazione di istanza di condono edilizio e di permesso in sanatoria;
   f) il regime patrimoniale dei coniugi;
   g) la nomina di custode in caso di sequestro del cantiere e la correlata accettazione dell’incarico.
Si tratta, in ultima analisi, di una valutazione globale di tutte quelle situazioni e comportamenti, sia positivi che negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove di una compartecipazione, anche solo morale, all’esecuzione delle opere da parte del proprietario.

La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata, del tema, abbastanza ricorrente nella giurisprudenza di legittimità, della individuazione degli elementi “indiziari” o “probatori” che consentono di attribuire una responsabilità per la realizzazione di un abuso edilizio al proprietario non committente.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello, nei confronti di una donna, imputata dei reati di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. b); L. n. 1086 del 1971, artt. 13 e 14 e L. n. 64 del 1974, artt. 17 e 20 nonché del reato di violazione dei sigilli (art. 349 cpv. c.p.). Contro la sentenza la stessa proponeva ricorso per cassazione, in particolare dolendosi dell’attribuibilità di tutti i reati e rilevandosi come, a fronte di specifiche contestazioni da parte della difesa circa l’effettiva sua partecipazione alla commissione dei reati, la Corte d’Appello non aveva dato alcuna risposta limitandosi al richiamo della sentenza di primo grado ed, in particolare, disattendendo la tesi della mera connivenza non punibile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto sul punto il ricorso, in particolare osservando che anche il proprietario “estraneo” (privo, cioè, delle qualifiche soggettive specificate al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29 riferito al committente, al titolare del permesso di costruire ed al direttore dei lavori) può essere ritenuto responsabile del reato edilizio, a condizione che risulti un suo contributo soggettivo, anche di tipo morale, all’altrui abusiva edificazione da valutarsi secondo le regole generali sul concorso di persone nel reato.
I giudici di Piazza Cavour hanno, quindi, elencato i richiamati indici sulla cui base è possibile attribuire la responsabilità al non proprietario (v., nella giurisprudenza: Cass. pen., Sez. III, 08.10.2004, n. 216, F., in CED Cass., n. 230660; Cass. pen., Sez. III, 12.04.2005, n. 21121, R., in CED Cass., n. 231954; Cass. pen., Sez. III, 11.11.2014, n. 5204, L. ed altro, in CED Cass., n. 261522).
A tali criteri ermeneutici si era attenuta la Corte d’appello che, oltre a richiamare la sentenza di primo grado, aveva soprattutto, valorizzato un dato oggettivo rappresentato dalla nomina dell’imputata a custode del cantiere e della relativa accettazione dell’incarico in ben due occasioni (la prima volta all’atto dell’apposizione dei sigilli e la seconda volta dopo il sopralluogo che ne aveva accertato la violazione) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 28.10.2015 n. 43378 - Urbanistica e appalti 1/2016).

CONSIGLIERI COMUNALI: LEGITTIMA LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DI UN CONSIGLIERE COMUNALE PER DANNO ALL’IMMAGINE PATITO DAL COMUNE A SEGUITO DELL’ABUSO D’UFFICIO DEL SINDACO.
È risarcibile il “danno all’immagine” ad organi del Comune in un’amministrazione locale in cui la gestione della cosa pubblica sia stata caratterizzata da violazioni di norme penali.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata, del tema, invero non molto diffuso nella giurisprudenza di legittimità, della possibilità per i consiglieri comunali di costituirsi parte civile nel processo penale intentato nei confronti di un amministratore locale per comportamenti illeciti commessi nella gestione delle pratiche edilizie.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della questione segue alla sentenza della Corte d’Appello che aveva riformato la decisione emessa dal Tribunale di Latina dichiarando non doversi procedere in ordine ai reati di cui ai capi A (art. 323 c.p., imputato F.), B (artt. 110 e 323 c.p., imputati CH. e C.), C (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), imputati F., C. e CH.) e D (art. 110 c.p. e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, imputati C. e CH.) della rubrica perché estinti per prescrizione, rideterminando la pena per il residuo reato di cui al capo E (artt. 110 e 81 cpv c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis imputati CH. e C.), rispetto al quale confermava l’ordine di demolizione e rimessione in pristino, nonché condannando gli appellanti alla rifusione delle spese del grado sostenute dalle parti civili costituite.
Le condotte contestate riguardavano la realizzazione di alcuni interventi edilizi in zona a destinazione agricola e soggetta a vincolo paesaggistico, che si ritenevano realizzati in forza di titoli abilitativi rilasciati in spregio alla legge, configurandosi così anche il delitto di abuso d’ufficio. Contro la sentenza, proponevano ricorso per cassazione gli amministratori locali, in particolare lamentando che la Corte d’Appello avrebbe omesso di pronunciarsi circa la richiesta di declaratoria di nullità dell’ordinanza dibattimentale con la quale era stata ammessa la costituzione di parte civile, la quale non indicava, così come la sentenza di primo grado, il nesso di causalità tra i fatti contestati ed il pregiudizio subito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto sul punto il ricorso osservando come, in relazione alla questione concernente la costituzione di parte civile dei consiglieri comunali di minoranza ed il riconosciuto diritto al risarcimento del danno nel giudizio di merito, in generale le condotte accertate in capo ad un sindaco sono idonee a determinare un vulnus alla immagine dell’ente locale, avente una sua ricaduta anche sul consiglio comunale e, di riflesso, sui singoli consiglieri, considerato che il danno può manifestarsi, in alcuni suoi profili, anche successivamente alla consumazione del reato, nel momento della divulgazione della notizia della sua realizzazione (v., in termini: Cass. pen., Sez. VI, n. 2963/05 del 04.10.2004, A., in CED Cass., n. 231031).
Nella fattispecie in esame, invece, il Tribunale aveva osservato, ribadendo quanto già affermato nell’ordinanza con la quale aveva ammesso la costituzione di parte civile dei consiglieri comunali di minoranza, denuncianti, che un danno all’immagine era ravvisabile quale conseguenza delle illecite condotte degli imputati nell’esercizio di poteri pubblici di amministrazione, tutela e controllo dell’ordinato sviluppo del territorio e delle sue risorse paesaggistico-ambientali, aggravato dalla risonanza mediatica di notizie amministrative che rappresentavano l’amministrazione locale malamente gestita.
Tali affermazioni erano state ribadite dalla Corte d’appello, che aveva affermato non la sussistenza della potenzialità di un danno, bensì quella di un danno effettivo senza però fornire adeguata motivazione sulle ragioni di tale convincimento. Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso per colmare detto vuoto motivazionale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.10.2015 n. 43102 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA: IN PRESENZA DI INTERVENTI EDILIZI IN ZONA VINCOLATA È INDIFFERENTE DISTINGUERE TRA INTERVENTI ESEGUITI IN DIFFORMITÀ TOTALE O PARZIALE E QUELLI IN VARIAZIONE ESSENZIALE.
In presenza di interventi edilizi in zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro qualificazione giuridica è indifferente la distinzione tra interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero in variazione essenziale, in quanto il d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 32, comma 3, prevede espressamente che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali difformità totali.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di distinguere, ai fini della qualificazione giuridica, tra le diverse tipologie di interventi edilizi ove gli stessi siano eseguiti in zona paesaggisticamente vincolata.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato quella emessa dal tribunale con la quale gli imputati erano stati condannati per il reato (capo a) previsto dal d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c), perché -il B. della sua qualità di committente dei lavori, il P. della sua qualità di direttore dei lavori e l’E.C. nella sua qualità di esecutore dei lavori- realizzavano presso un immobile alcune opere in difformità dal permesso di costruire e su area sottoposta a vincolo ambientale (nella specie, traslazione della rampa carrabile ed arretramento del muro di sostegno e diverso andamento dello stesso rispetto al muro di fascia preesistente) nonché del reato (capo b) previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis), perché, nelle qualità sopraindicate, eseguivano le predette operazioni su beni immobili che per loro caratteristiche paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse pubblico con D.M. 28.01.1949, in assenza di autorizzazione paesaggistica ambientale.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli imputati, in particolare sostenendo l’evidente travisamento del fatto compiuto dal tribunale nella parte motiva della propria pronuncia nel senso che gli stessi erano stati tratti a giudizio per rispondere del delitto previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-bis, con riferimento alla creazione di due opere in difformità rispetto al permesso di costruire su area sottoposta a vincolo ambientale (e più precisamente era stata loro contestata la traslazione della rampa carrabile assentita e l’arretramento del muro con diverso andamento dello stesso rispetto al muro di fascia preesistente), laddove il tribunale, pur a fronte di tali chiare e dettagliate contestazioni, aveva invece più volte posto l’accento, nella parte motiva della propria pronuncia, sulla palese violazione della norma di cui sopra con specifico riferimento alla presunta realizzazione di “un macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa” che aveva determinato, secondo le valutazioni del giudice di prima istanza “un evidente e diverso impatto ambientale (si vedano le fotografie) che doveva essere preventivamente sottoposto al vaglio dell’autorità competente”.
A fronte dell’argomentazione difensiva in forza della quale l’intervento edilizio parzialmente difforme rispetto al permesso di costruire si era reso necessario a causa di un errore di progettazione dell’opera, circostanza certamente non volta a negare la difformità dalla stessa ma solo ed unicamente a porre l’accento sulla inidoneità di tale variazione edilizio-costruttiva a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma contestata, ovverosia il paesaggio, la Corte d’Appello aveva completamente stravolto tale deduzione ripristinando l’automatismo argomentativo fatto proprio dal giudice di primo grado, ovverosia quello in forza del quale per la configurabilità del reato fosse sufficiente ogni variazione rispetto al titolo edilizio.
La Cassazione, respingendo il ricorso degli imputati, ha affermato il principio di cui in massima, evidenziando come la Corte d’Appello aveva correttamente osservato che -al di là dalla realizzazione del “macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa” in ordine al quale ha ritenuto configurabile un parziale equivoco motivazionale da parte del primo giudice- le contestazioni incorporate nel capo di imputazione (che infatti non faceva cenno a vuoti strutturali) erano state riscontrate come effettivamente realizzate (peraltro anche ammesse) e quindi correttamente addebitate agli imputati sul fondamentale rilievo che le opere “difformi” investivano immobili che, per le loro caratteristiche paesaggistiche, erano stati dichiarati di notevole interesse pubblico, con la conseguenza che tutti gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, dovevano considerarsi come variazioni essenziali e quindi quali opere eseguite in difformità totale, attesa la natura di pericolo del reato contestato al capo b), per la configurabilità del quale non è necessario un effettivo pregiudizio per l’ambiente.
Né l’errore progettuale autorizzava gli imputati ad eseguire le opere difformi, dovendosi interrompere la fase esecutiva, depositare la richiesta di variante progettuale e attendere determinazioni degli organi competenti sulla tutela del territorio e del paesaggio.
La Corte d’Appello aveva quindi ritenuto -in conformità, del resto, a quanto sostenuto anche dal primo giudice- che i reati contestati fossero integrati nei loro elementi costitutivi per il solo fatto della realizzazione delle opere difformi indicate nel capo di imputazione e che quindi non aveva alcun rilievo (e, per tale ragione, la Corte d’Appello aveva parlato di un parziale equivoco motivazionale) l’ulteriore effetto, accennato dal tribunale, che era conseguito dalle difformità contestate, ossia la realizzazione di un macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa (in precedenza, in senso conforme al principio di cui in massima v.: Cass. Pen., Sez. III, 06.05.2014, n. 37169, L., in CED, n. 260181; Cass. Pen., Sez. III, 15.01.2014, n. 1486, P.M. in proc. A. e altri, in CED, n. 258297; Cass. Pen., Sez. III, 17.02.2010, n. 16392, S. ed altro, in CED n. 246960) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.10.2015 n. 42978 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA CASSAZIONE DELIMITA, DOPO IL C.D. DECRETO DEL FARE, LA NOZIONE DI INTERVENTI DI RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
Nel concetto di “interventi di restauro o di risanamento conservativi” per i quali non occorre il permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le preesistenti strutture, alle quali apportano o un consolidamento o un rinnovo di elementi costitutivi, anche attraverso l’inserimento di nuovi, occorrendo però, che complessivamente siano rispettate tipologia, forma e struttura dell’edificio medesimo.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sul concetto di “interventi di restauro o di risanamento conservativi” per i quali non occorre il permesso di costruire, affrontandola dopo le modifiche apportate alla normativa urbanistica dal c.d. decreto del fare.
La vicenda processuale segue alla sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva confermato la pronuncia con la quale il tribunale aveva condannatogli imputati per i reati di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b) e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e, segnatamente, per avere il primo, quale proprietario committente, il secondo, quale geometra progettista e direttore dei lavori, eseguito -in assenza di permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica- lavori di ristrutturazione comportanti notevoli modifiche ed ampliamento dell’immobile preesistente.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori, essendo nelle more deceduto il proprietario, in particolare sostenendo che la sentenza era erronea laddove aveva ritenuto che gli interventi in questione, secondo la disciplina urbanistica ed edilizia, fossero “estranei al concetto di interventi di restauro o di risanamento conservativo”.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, ricordando che per la disciplina urbanistica ed edilizia, ivi compresa quella di cui alla L. 21.12.2001, n. 443, art. 1, comma 6 e al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 3, art. 1 e art. 10, comma 1, (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia d’ora in poi T.U.E.), integra l’ipotesi di ristrutturazione edilizia ai sensi della L. 05.08.1978, n. 457, art. 31, con conseguente necessità della concessione (ora permesso di costruire) la realizzazione di un organismo edilizio in parte diverso dal precedente, sull’ovvio rilievo che non è subordinato al preventivo rilascio del provvedimento “concessorio” solo l’intervento che non comporti aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti o delle superfici.
Nel vigore della normativa antecedente il “c.d. decreto del fare” (L. 09.08.2013, n. 98) erano menzionate anche le modifiche delle sagome, espunte dall’ambito di operatività della norma (art. 10 T.U.E.), che elenca gli interventi subordinati al rilascio del permesso di costruire. 
Secondo quanto emerso dal sopralluogo e dalla consulenza all’uopo disposta dal pubblico ministero, si accertava invece che gli interventi edilizi realizzati consistevano: in rilevanti lavori di sbancamento di roccia, con incremento dell’area di scavo ed ampliamento della superficie e della volumetria del piano interrato, originariamente costituito da una sola piccola cantina, così trasformando il vecchio immobile in una costruzione su due livelli, con altezza complessiva superiore (m. 5,50 in luogo dei precedenti 4,90); lavori di modifica del prospetto, consistiti in parziale chiusura della finestra centrale del prospetto nord, aumento delle dimensioni di un’apertura del prospetto sud, parziale apertura di finestre sul prospetto ovest e realizzazione di una intercapedine di dimensioni notevolmente maggiori di quelle previste dal progetto (mq 60 in luogo di mq 21), risolvendosi l’intervento, con tutta evidenza, in lavori del tutto estranei al concetto di “interventi di restauro o di risanamento conservativi”.
In precedenza, nel senso che la ristrutturazione edilizia, poiché non vincolata al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell’edificio, differisce sia dalla manutenzione straordinaria, che non può comportare aumento della superficie utile o del numero delle unità immobiliari, o, ancora, modifica della sagoma o mutamento della destinazione d’uso, sia dal restauro e risanamento conservativo, che non può modificare in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e consente soltanto variazioni d’uso “compatibili” con l’edificio conservato, v. Cass. Pen., Sez. III, 28.05.2010, n. 20350, M., in CED, n. 247178; Cass. Pen., Sez. III, 26.11.2014, n. 49221, Pmt ed altro, in CED n. 261216) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.10.2015 n. 42963 - Urbanistica e appalti 2/2016).

EDILIZIA PRIVATA: C’È AGGRAVAMENTO DEL CARICO URBANISTICO ANCHE SE L’IMMOBILE ULTIMATO E CONFORME ALLE DESTINAZIONI DI ZONA È VOLUMETRICAMENTE CONSISTENTE.
L’incidenza sul carico urbanistico che giustifica il sequestro preventivo di un manufatto ultimato si configura anche nel caso in cui lo stesso, seppure utilizzato in conformità alle destinazioni di zona, presenti una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un incremento della esigenza di strutture e di opere collettive correlate.
Altra decisione mensile in rassegna meritevole di segnalazione è quella con cui la Corte Suprema, sempre occupandosi di una questione in tema di rapporti tra il sequestro preventivo di un immobile ultimato e i presupposti di configurabilità del c.d. periculum in mora, si sofferma a specificare quanto può ritenersi sussistente un aggravio del carico urbanistico.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il tribunale del riesame aveva rigettato l’appello, presentato nell’interesse di B.A. ed V.A., avverso il provvedimento con il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva respinto la richiesta di revoca del sequestro preventivo di un immobile, disposto in relazione ai reati di a cui agli artt. 323 e 483 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare osservando che l’opera era ultimata e mancava ogni aggravio del carico urbanistico, avuto riguardo alla circostanza che l’immobile aveva destinazione a deposito, coincidente con quella assentibile nella zona.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso, in particolare osservando come fosse priva di fondamento la tesi per la quale -premesso che la natura del manufatto consistente in un deposito, edificio compreso tra quelli ammessi in zona- non vi sarebbe alcuna negativa incidenza sul carico urbanistico, perché detto manufatto, benché eccedente la volumetria realizzabile, avrebbe un impatto addirittura inferiore a quello determinato da un impianto di trasformazione di prodotti.
Ed invero, il Tribunale aveva posto in evidenza, richiamando anche la giurisprudenza di legittimità, che l’immobile in questione era, per destinazione e cubatura, oltre che per la collocazione in area sottoposta a vincolo paesaggistico, negativamente incidente sul carico urbanistico per le mutate esigenze di opere ed infrastrutture determinate dal maggior flusso di persone e merci. Detta conclusione, per gli Ermellini, risulta corretta.
Invero, deve rilevarsi come, anche a voler considerare l’immobile sequestrato come pienamente compatibile con la destinazione di zona, la realizzazione di una volumetria che supera di oltre 1000 metri cubi, quella assentibile comporterebbe necessariamente una incidenza negativa sul carico urbanistico, atteso che, anche se il manufatto fosse utilizzato quale deposito per attività agricole, ne risulterebbe notevolmente incrementata la capacità di stoccaggio dei prodotti e la superficie utilizzabile, con tutte le conseguenze in termini di presenza umana, circolazione di mezzi di trasporto, esigenze di infrastrutture che un così considerevole incremento volumetrico determinerebbe (in precedenza, sulla nozione di carico urbanistico: Cass. pen., Sez. III, n. 36104 del 22.09.2011, P.M. in proc. A., in CED Cass., n. 251251; Cass. pen., Sez. III, n. 6599/12 del 24.11.2011, S., in CED Cass., n. 252016) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2015 n. 42717 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: IN QUALI CASI NON È NECESSARIA L’ATTUAZIONE DEL PIANO PARTICOLAREGGIATO PER IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE?
Salva l’ipotesi di illegittimità dello stesso piano regolatore, allorché un piano attuativo non sia previsto come obbligatorio dallo strumento urbanistico generale, la valutazione della necessità di esso è rimessa all’ente territoriale, donde il giudice non può sindacare l’operato dell’ente e ritenere necessario uno strumento attuativo quando esso non sia ritenuto necessario dal Comune.
Ne consegue che non è necessaria l’attuazione del piano particolareggiato per il rilascio del permesso di costruire nel caso in cui la zona sia sufficientemente urbanizzata ed il Piano regolatore non richieda in maniera espressa ed indefettibile la esistenza ed efficacia di detto piano.

La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sui rapporti tra piano regolatore e piano attuativo previsto come non obbligatorio dallo strumento urbanistico, delimitando i poteri del giudice nell’esercitare il sindacato sull’operato dell’Amministrazione.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il tribunale della libertà aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal gip; il vincolo era stato disposto su un vasto appezzamento di terra allo scopo di impedire il protrarsi del delitto di lottizzazione abusiva [d.P.R. 06.06.2001, n. 380 art. 30 e art. 44, comma 1, lett. c)] o, comunque, l’aggravarsi delle conseguenze del reato ipotizzato.
Contro la ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare denunciando che il tribunale cautelare, pur ammettendo che l’indagato aveva provveduto alla realizzazione delle condotte fognarie ed idriche a proprie spese, aveva affermato che tali opere risultavano ad esclusivo servizio della singola particella anziché dell’intero comparto edificatorio come invece dovrebbe essere per le opere di urbanizzazione primaria propriamente dette.
Tali affermazioni, secondo l’indagato, non erano affatto condivisibili e, oltre a infrangere le specifiche norme previste dal testo unico dell’urbanistica, inficiavano la motivazione circa le disposizioni contenute nell’art. 62 norme tecniche attuazione del PRG del comune di B. che rendono legittima la condotta lottizzatoria contestata, ammettendo gli interventi diretti dei privati in zona classificata B3 dal PRG senza necessità di previa adozione di piani attuativi.
La Cassazione ha accolto ricorso e, nell’affermare il principio di cui in massima, ha osservato come la norma ex art. 62 NTA non prevede, in siffatta zona, l’obbligo di un piano di lottizzazione convenzionata ma soltanto riserva la facoltà discrezionale del consiglio comunale, senza alcuna obbligatorietà, di richiedere la predisposizione di un qualunque “strumento attuativo”, facoltà che non sarebbe stata esercitata dal Comune di B. in relazione ai permessi a costruire richiesti ed ottenuti dall’indagato, con la conseguenza che in alcuna occasione è stato imposto il piano attuativo nei casi in cui si è edificato nelle zone omogenee B3, tant’è che, a breve distanza dal fabbricato sequestrato, come documentato dalla planimetria in atti, sorgono altri manufatti in relazione ai quali non è stata contestata alcuna lottizzazione abusiva.
Peraltro, il piano regolatore non è stato considerato illegittimo e dunque l’intervento edilizio dell’indagato sarebbe del tutto regolare e conforme allo strumento urbanistico vigente. Sul punto, dal testo del provvedimento impugnato, non risultava che il tribunale della libertà avesse assunto una precisa posizione sul punto, né evidenziato se e come la questione sia stata affrontata e risolta dai nuovi accertamenti tecnici disposti dal pubblico ministero a confronto con quelli pure allegati dall’indagato alla procedura cautelare, con la conseguenza che sussisteva il lamentato difetto assoluto di motivazione.
In precedenza, nel senso di cui al principio affermato in massima v., Cass. pen., Sez. III, n. 286 del 09.01.2004, P.M. in proc. A. ed altro, in CED Cass., n. 226831) (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2015 n. 42705 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA DEMOLIZIONE DELLE SCALE INTERNE CHE NON MODIFICANO LA VOLUMETRIA O LA DESTINAZIONE D’USO È ATTIVITÀ DI MANUTENZIONE STRAORDINARIA.
La demolizione delle scale interne che interessino l’interno del fabbricato senza modificare la volumetria o la destinazione d’uso costituisce attività di manutenzione straordinaria e non è soggetta a p.d.c.; deve, peraltro, tenersi conto del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, come da ultimo novellato dal D.L. n. 133 del 2014, conv. con modd. in L. 11.11.2014, n. 164, che, ai commi 1, 2 e 2-bis, individua gli interventi soggetti a SCIA, tra i quali può rientrare anche quello oggetto di esame.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame, sulla questione della rilevanza della recente disciplina dettata dalla normativa emergenziale del 2014 in materia edilizia, segnatamente, sugli interventi edilizi sottoposti a semplice SCIA.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con la quale il Tribunale aveva rigettato l’istanza di riesame proposta nell’interesse di un’indagata avente ad oggetto l’impugnazione del decreto di sequestro preventivo emesso dal GIP di due immobili di sua proprietà, procedendosi per il reato di cui all’art. 110 c.p., art. 44 T.U. Edilizia. Contro l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagata, in particolare sostenendo che, quand’anche si fosse trattato di zona vincolata, la circostanza appariva irrilevante in base alla giurisprudenza di legittimità (in particolare, Cass. pen., Sez. III, n. 24236 del 24.06.2010, M. e altro, in CED Cass., n. 247687), non rientrando l’intervento nelle “varianti leggere”, trattandosi di intervento eseguito all’interno dell’immobile.
La Corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, ricordando che la circostanza della presentazione della SCIA successiva al sopralluogo avente ad oggetto la demolizione e ricostruzione della rampa di scale non poteva dirsi irrilevante agli effetti del fumus; ed, infatti, osservano i Supremi Giudici, a parte che la demolizione delle scale interne che interessino l’interno del fabbricato senza modificare la volumetria o la destinazione d’uso costituisce attività di manutenzione straordinaria e non è soggetta a p.d.c. (Cass. pen., Sez. III, n. 6957 del 16.06.1988, M., in CED Cass., n. 178589), doveva tenersi conto del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, come da ultimo novellato dal D.L. n. 133 del 2014, conv. con mod. in L. 11.11.2014, n. 164, che, ai commi 1, 2 e 2-bis, individua gli interventi soggetti a SCIA, tra i quali risulterebbe rientrare anche quello oggetto di esame, in relazione al quale poteva anche non discendere la configurabilità del fumus dell’ipotizzato reato, trovando applicazione l’art. 37 T.U. Edilizia che esclude l’applicazione delle sanzioni penali cui all’art. 44 T.U. edil. prevedendo solo l’irrogazione di sanzioni pecuniarie amministrative.
Appariva quindi assolutamente necessario verificare non solo se la scala, unitamente agli altri lavori denunciati con la SCIA rendesse comunque legittima la procedura di SCIA seguita, ma anche -circostanza rimasta non sufficiente chiarita- a quali dei due manufatti la scala si riferisse (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2015 n. 42704 - Urbanistica e appalti 1/2016).

EDILIZIA PRIVATA: LA MERA PROPOSIZIONE DI UN’ISTANZA DI SANATORIA NON COMPORTA LA REVOCA E NEPPURE LA SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE.
La mera proposizione di un’istanza di sanatoria non comporta la revoca e neppure la sospensione dell’ordine di demolizione, laddove non sia prevedibile un esito favorevole in tempi ragionevoli dell’istanza, con la conseguenza che sia la presentazione della domanda di sanatoria e sia il suo prevedibile e rapido esito positivo costituiscono circostanze che devono essere quantomeno allegate ed il relativo onere, quanto al sollecito esito della domanda, incombe sull’interessato.
La Corte di cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza in esame, su una ricorrente questione emergente nella prassi giurisprudenziale di legittimità, riguardante la rilevanza della proposizione di un’istanza di sanatoria rispetto ad un ordine di demolizione impartito da una sentenza passata in giudicato.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione aveva rigettato la richiesta di revoca o sospensione dell’esecuzione dell’ordine di demolizione delle opere realizzate dalla ricorrente, condannata con sentenza irrevocabile. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’interessata, in particolare sostenendo che la revoca dell’ordine di demolizione può essere disposta, oltre che nel caso in cui vi siano provvedimenti amministrativi o giurisdizionali incompatibili con la demolizione stessa, anche qualora sia pendente un procedimento di sanatoria, in forza del quale può giustificarsi la sospensione dell’ingiunzione di demolizione, in vista del suo conseguimento.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ricordato che, in tema di reati edilizi, il giudice dell’esecuzione, investito della richiesta di revoca o di sospensione dell’ordine di demolizione delle opere abusive di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, in conseguenza della presentazione di una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a esaminare i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento amministrativo e, in particolare: a) il prevedibile risultato dell’istanza e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo accoglimento; b) la durata necessaria per la definizione della procedura, che può determinare la sospensione dell’esecuzione solo nel caso di un suo rapido esaurimento (ex multis: Cass. pen., Sez. III, n. 47263 del 25.09.2014, R., in CED Cass., n. 261212).
È dunque pacifico, hanno concluso i Supremi Giudici, che la mera proposizione di un’istanza di sanatoria non comporta la revoca e neppure la sospensione dell’ordine di demolizione, laddove non sia prevedibile un esito favorevole in tempi ragionevoli dell’istanza, con la conseguenza che sia la presentazione della domanda di sanatoria e sia il suo prevedibile e rapido esito positivo costituiscono circostanze che devono essere quantomeno allegate ed il relativo onere quanto al sollecito esito della domanda incombe sull’interessato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.10.2015 n. 42702 - Urbanistica e appalti 1/2016).

AMBIENTE-ECOLOGIARISARCIMENTO DEL DANNO AMBIENTALE, AZIONE CIVILE, PRESCRIZIONE.
Rimborso delle spese per la rimessione in pristino e la bonifica, risarcimento del danno ambientale, medesimi termini di prescrizione, danno ambientale, termine decennale di prescrizione decorrente dalla condanna penale anche solo generica.
Artt. 2947 e 2953 cod. civ.; art. 18, legge 08.07.1986, n. 349
Con riferimento alla domanda di rimborso delle spese per la rimessione in pristino e la bonifica dei terreni inquinati e la domanda avente ad oggetto il risarcimento del danno ambientale non è condivisibile il principio per cui al medesimo illecito dovrebbero essere applicati termini di prescrizione diversi.
Ciò posto, con riferimento al diritto al risarcimento del danno ambientale, va affermata l'applicabilità del termine decennale di prescrizione qualora sia stata emessa in sede penale condanna anche solo generica del responsabile al risarcimento dei danni in favore del danneggiato costituitosi parte civile; termine che decorre dalla data in cui la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile.

Il Ministero dell'Ambiente conveniva in giudizio un’impresa chiedendone la condanna al pagamento di una somma di denaro quale rimborso delle spese di messa in sicurezza, rimozione, trasporto e smaltimento di materiali inquinanti, oltre al danno per non avere potuto attingere alle falde freatiche, a seguito di comportamenti imputabili ai convenuti.
All’esito della fase di merito, la controversia approdava in Cassazione, alla quale l’impresa ricorrente esponeva quanto segue:
   1. la domanda di rimborso delle spese per la rimessione in pristino e la bonifica dei terreni inquinati è domanda diversa ed autonoma rispetto a quella avente ad oggetto il risarcimento del danno ambientale, con la conseguenza che, per la domanda relativa al rimborso delle spese, il termine di prescrizione non può farsi decorrere del passaggio in giudicato della sentenza penale di appello (nella specie il giudice penale aveva emesso condanna per danno ambientale, senza disporre in ordine al rimborso delle spese di ripristino);
   2. il diritto al risarcimento del danno ambientale è soggetto al termine di prescrizione di cinque anni (e pertanto, pur calcolando la decorrenza del termine dalla data del passaggio in giudicato della sentenza penale, la domanda andava nella specie dichiarata tardiva).
La Suprema Corte respinge il ricorso.
Quanto al primo motivo di ricorso, la Corte non ritiene condivisibile il principio per cui al medesimo illecito dovrebbero essere applicati termini di prescrizione diversi in relazione alla natura dei danni che ne sono conseguiti.
Difatti, spiegano i Giudici di legittimità in termini generali, “il termine di prescrizione si riferisce alla fattispecie illecita, non ai relativi effetti, che possono essere i più disparati”, con la conseguenza che “una volta accertato l'illecito, sia le spese di ripristino del bene danneggiato, sia i danni conseguenti al deprezzamento, o all'impossibilità di utilizzazione o di commercializzazione del bene stesso, sia ogni altra conseguenza dannosa, costituiscono voci risarcitorie suscettibili di essere fatte valere in giudizio e soggette alla medesima disciplina, soprattutto per quanto concerne i termini di prescrizione”.
Con particolare riferimento, poi, alla disciplina dei danni ambientali, la legge 08.07.1986, n. 349, art. 18 non dispone alcunché di diverso dai principi sopra riportati, sancendo invece espressamente, in piena conformità con i principi generali in tema di responsabilità civile, che il responsabile dell'illecito è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati, sia per equivalente in denaro (in base ai principi di cui agli artt. 2056, 1223, 1226 cod. civ. e ss.), sia anche in forma specifica (ex art. 2058 cod. civ.).
Quanto al secondo motivo di ricorso, la Cassazione conferma l'applicabilità anche all'illecito civile del termine decennale di prescrizione, ai sensi dell’art. 2953 cod. civ., qualora sia stata emessa in sede penale condanna anche solo generica del responsabile al risarcimento dei danni in favore del danneggiato costituitosi parte civile; termine che decorre dalla data in cui la sentenza di condanna sia divenuta irrevocabile.
Difatti, in conformità con l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile n. 8154/2003, Cassazione civile n. 4054/2009 e Cassazione civile n. 6070/2012), va osservato che “la pronuncia di condanna generica, pur difettando dell'attitudine all'esecuzione forzata, costituisce una statuizione autonoma contenente l'accertamento dell'obbligo risarcitorio, strumentale rispetto alla successiva determinazione del quantum" (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 07.04.2015 n. 6901 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAIMMISSIONI RUMOROSE PROVENIENTI DA PARCO COMUNALE, GIURISDIZIONE.
Immissioni rumorose provenienti da una struttura gestita da una società in convenzione con il comune, tutela dei diritti soggettivi lesi, giurisdizione del giudice ordinario.
Artt. 844 e 2043 cod. civ.; art. 133, comma 1, lett. r) e s), D.Lgs. n. 104/2010
La domanda volta ad ottenere, ex art. 844 cod. civ., la cessazione delle immissioni provenienti da una struttura gestita da una società in convenzione con il comune, nonché il risarcimento dei danni subiti ex art. 2043 cod. civ., rientra nella giurisdizione del giudice ordinario; rientrano invece nella giurisdizione amministrativa soltanto le controversie che hanno ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri.
Alcuni proprietari di immobili destinati ad abitazione convenivano innanzi al Tribunale una Società per ottenere, ex art. 844 cod. civ., la cessazione delle immissioni acustiche provenienti dal Parco gestito da detta Società, in regime di convenzione con il Comune.
Il tribunale adito, accogliendo un'eccezione del Comune, dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario sul rilievo che la domanda comportava una valutazione, sia pure incidentale, delle scelte operate dal Comune nella gestione del proprio territorio e nell'organizzazione dei pubblici servizi.
In particolare, il Tribunale esponeva la seguente tesi:
   - gli attori hanno svolto "un'azione reale", con la quale hanno chiesto la cessazione di ogni attività e un'azione personale per il risarcimento dei danni arrecati dalle immissioni rumorose;
   - i danni lamentati deriverebbero dalle concrete modalità di gestione del servizio e dall'atteggiamento del Comune che rifiutava di intervenire perché le attività svolte erano state autorizzate;
   - le parti convenute avevano dato vita ad una convenzione per la gestione del parco finalizzata alla socializzazione dei giovani adolescenti;
   - la natura del procedimento, il carattere pubblico degli interessi coinvolti, le scelte discrezionali operate dalla P.A., il ricorso a strumenti anche autoritativi e l'incidenza del progetto sul territorio riconducono la controversia, a norma dell’art. 34, D.Lgs. n. 80 del 1998, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
La causa veniva riassunta dinnanzi al TAR il quale sollevava d'ufficio regolamento di giurisdizione innanzi alla Corte di Cassazione, ritenendo, diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale, che la stessa spettasse al giudice ordinario.
La Suprema Corte dichiara la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo, rientrando la causa in quella del giudice ordinario.
I Giudici di legittimità osservano che va applicato il principio (si veda al riguardo Cassazione civile, sez. un., n. 4614/2011) secondo cui ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo rientrano nella giurisdizione amministrativa soltanto le controversie che abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di legittimità di provvedimenti amministrativi che siano espressione di pubblici poteri.
Ciò considerato, nel caso di specie, la Cassazione rileva che:
   - che le domande proposte dai cittadini proprietari degli immobili vicini al parco in questione non hanno di mira la legittimità dei provvedimenti con i quali è stata concessa in uso alla convenuta la gestione delle strutture poste all'interno del Parco, né le scelte amministrative sull'uso del territorio o l'illegittimo esercizio di poteri autoritativi;
   - gli attori, di contro, hanno chiaramente lamentato gli effetti lesivi delle modalità di esercizio delle attività (autorizzate) svolte all'interno del parco, dolendosi, in particolare, dei danni arrecati da immissioni intollerabili connesse all'uso degli impianti ivi esistenti;
   - in particolare, gli attori hanno chiesto ex artt. 844 e 2043 cod. civ. l'ordine di cessazione dell'attività lesiva nonché il risarcimento dei danni.
Da ciò, osserva la Cassazione, discende la carenza di giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto detta domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell'amministrazione, ma un'attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere (si veda al riguardo Cassazione civile, sez. un. n. 20571/2013): la domanda attorea è volta alla sola tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni.
Da ultimo, la Cassazione precisa che anche il codice del processo amministrativo [art. 133, comma 1, lett. r) e s)], laddove stabilisce la giurisdizione esclusiva in materia di esercizio di industrie insalubri o pericolose o danno all'ambiente, presuppone sempre che l’azione abbia “ad oggetto i provvedimenti relativi alla disciplina delle relative attività e non le conseguenze della errata o illecita esplicazione delle attività esecutive”.
Pertanto, va ribadito che “l'inosservanza da parte della P.A. delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche per ottenerne la condanna ad un facere" (si veda al riguardo Cassazione civile, sez. un., n. 22116/2014 e anche Cassazione civile n. 67/2014) (Corte di Cassazione, Sezz. un. civili, ordinanza 13.02.2015 n. 2886 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATADEROGA AL REGIME ORDINARIO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Deroga al regime ordinario - Onere probatorio
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Quella delle terre e rocce da scavo è una disciplina che prevede l'applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore, con la conseguenza che l'onere di dimostrare l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge incombe su colui che l'invoca.
Nella fattispecie, la condotta contestata a M., T., G. e C. consisteva del deposito incontrollato, su terreno di proprietà comunale, di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi (terre e rocce, CER 170504 e materiale di risulta contenente amianto, CER 170605) provenienti dalla bonifica di una vecchia fornace ubicata ad alcuni chilometri di distanza: in particolare, il M. aveva effettuato materialmente il deposito su incarico del Te., amministratore della A.A. s.r.l., della quale era dipendente, ed il G. su incarico del C., titolare dell'omonima impresa.
Avverso la pronuncia della Corte di appello, gli imputati proponevano separati ricorsi per cassazione. Il M. deduceva la violazione di legge rilevando che l'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 punisce il reato di abbandono di rifiuti in quanto commesso da titolari di imprese e di enti, mentre egli era un mero dipendente della società amministrata dal coimputato, sicché i giudici di merito avrebbero dovuto escludere la sua responsabilità. Il T. formulava censure di contenuto identico a quella ora riportata, mentre il G. e il C. deducevano che, avuto riguardo alla natura del materiale scaricato, era applicabile l'art. 186 risultando, dalle dichiarazioni testimoniali del responsabile dell'Ufficio Tecnico Comunale, che le terre e rocce dovevano essere depositate solo temporaneamente per poi in cantiere».
I ricorsi sono stati dichiarati inammissibili.
Quanto al motivo di ricorso del M. (il non rivestire la qualifica di titolare di impresa o responsabile di ente, che sola comporta l'applicazione della sanzione penale), la Corte ha osservato che, per ciò che riguarda il dipendente, questi risponde del reato quando abbia causato l'evento o abbia contribuito alla commissione della condotta stessa. Nel caso in esame, il M. aveva materialmente effettuato le condotte di abbandono di rifiuti su incarico del coimputato T., suo datore di lavoro e titolare dell'impresa dalla quale egli dipendeva e pertanto l'affermazione di responsabilità era stata correttamente affermata.
Quanto all’applicabilità della disciplina derogatoria prevista per la gestione delle terre e rocce da scavo, la Corte ha osservato che la disciplina vigente all'epoca dei fatti per cui è processo prevedeva che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, potessero essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati a determinate condizioni; in mancanza anche di una sola di tali condizioni, erano applicabili le disposizioni generali sulla gestione dei rifiuti.
Come emerge chiaramente dalle disposizioni in materia, quella delle terre e rocce da scavo è una disciplina che prevede l'applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore, con la conseguenza che l'onere di dimostrare l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge incombe comunque su colui che l'invoca.
La Corte ha quindi osservato che era stato fatto buon uso del principio sopra richiamato, ritenendo non dimostrata la sussistenza di tutte le condizioni di legge per l'applicazione dell'art. 186; peraltro, diversamente da quanto affermato dai ricorrenti, la sussistenza delle condizioni di applicabilità della disciplina sulle terre e rocce da scavo non poteva certo ritenersi dimostrata dalle dichiarazioni di un teste e dal fatto che il materiale depositato venisse definito vegetale», in quanto la normativa all'epoca vigente richiedeva la coesistenza di varie e complesse condizioni che, nella fattispecie, avuto riguardo alla ricostruzione dei fatti effettuata dai giudici del merito, non risultavano neppure astrattamente ipotizzabili (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.02.2015 n. 5178 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIASCARICO REFLUI INDUSTRIALI IN FOGNATURA.
Acque - Reflui derivanti da attività di lavorazione marmi - Scarico in fognatura - Necessità dell’autorizzazione.
Artt. 124 e 137, D.Lgs. n. 152/2006
Deve munirsi di autorizzazione la società, esercente l'attività di lavorazione di marmi, che voglia effettuare in fognatura lo scarico dei reflui derivanti dal processo di lavorazione contenenti residui polverosi del marmo.
Il Tribunale di Varese dichiarava C.R. responsabile dei reati di cui agli artt. 137, comma 1, in relazione all'art. 124 D.Lgs. n. 152/2006 perché in qualità di amministratore unico dell'omonima società, esercente l'attività di lavorazione di marmi, effettuava recapito in fognatura di acque reflue derivanti dal processo di lavorazione contenenti residui polverosi del marmo senza la prescritta autorizzazione.
Il giudice fondava la responsabilità del soggetto sulla base di due sopralluoghi effettuati rispettivamente dall'ARPA e dall'Ufficio tecnico del Comune: durante il primo sopralluogo, si era accertato che le acque reflue provenienti dalla lavorazione del marmo unitamente a quelle domestiche venivano riversate nella fognatura comunale senza alcun preventivo trattamento; che nel cortile antistante la ditta si trovava un impianto di decantazione non funzionante perché non collegato al ciclo aziendale né allacciato alle utenze elettriche ed idrauliche; che sui terreni antistanti l'azienda erano depositate ingenti quantità di marmi e di rifiuti non pericolosi derivanti dalle lavorazioni aziendali quali pezzi di marmo, materiali lapidei ed altri scarti di lavorazione, mentre i rifiuti inerti e le polveri di marmo, invece di essere smaltiti a norma di legge, venivano impiegati come materiale di riempimento e livellamento di limitrofe aeree boschive, alcune delle quali, peraltro, neppure di proprietà del C.
Durante il secondo sopralluogo, si era accertato che nell'area di pertinenza dell'edificio adibito alla lavorazione dei marmi era presente un macchinario per il taglio di blocchi di pietra senza dispositivi per la raccolta delle acque del processo che venivano recapitate in una vasca di raccolta e deposito dei fanghi allacciata alla fognatura comunale; che sui terreni antistanti la ditta, alcuni di proprietà di terzi, continuavano ad essere presenti lastre e blocchi di pietra e di marmo unitamente a scarti dell'attività di lavorazione del marmo ed a residui di attività edilizia come, tra l'altro, dei sanitari; che non sussisteva, agli atti del Comune di Cuveglio, alcuna richiesta o autorizzazione al recapito degli scarichi della ditta nella fognatura comunale, essendo stato rilasciato un mero nulla osta all'esercizio dell'attività produttiva.
Il ricorso per cassazione dell’imputato è stato respinto in quanto l'impugnata sentenza aveva spiegato in maniera del tutto logica e non contraddittoria che la ditta scaricava nella fognatura comunale, cui era allacciata, insieme con le acque domestiche anche le acque reflue industriali senza alcun preventivo trattamento, visto che al momento del sopralluogo l'impianto di decantazione era presente, ma non attivo perché non collettato.
In tale situazione, era chiaro che la ditta in questione non potesse avere alcuna autorizzazione allo scarico delle acque in fognatura né si poteva ritenere equiparabile alla specifica autorizzazione imposta dalla legge quella relativa all'esercizio dell'attività di lavorazione dei marmi rilasciata alla C.s.r.l. in data 12.09.2006.
Senza fondamento, infine, era la tesi dell'imputato che asseriva di essere legittimato ad effettuare gli scarichi in fognatura perché la frase "gli scarichi in fognatura comunale dovranno avvenire nel rispetto dei limiti previsti dal vigente regolamento dell'ente gestore" non significava che l'impresa fosse automaticamente autorizzata ad effettuare gli scarichi, ma soltanto che la stessa, una volta ottenuta l'autorizzazione, comunque doveva effettuare lo scarico nel rispetto dei limiti di legge (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.01.2015 n. 3379 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARACCOLTA.
Rifiuti - Nozione di raccolta - Obbligo di autorizzazione - Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La nozione normativa di raccolta dei rifiuti presenta natura complessa, comprensiva di ogni comportamento univoco e idoneo a culminare nell'accorpamento e nel trasporto dei rifiuti, risultando così estesa anche alla cernita e alla preparazione dei materiali in vista del successivo prelevamento.
Anche la raccolta di rifiuti, se eseguita al di fuori delle prescrizioni amministrative previste dalla legge, al pari delle altre condotte sanzionate dall'art. 256, D.Lgs. n. 152/2006, assume rilevanza penale perché tutte le attività di gestione dei rifiuti sono soggette al controllo della pubblica amministrazione volto ad assicurare che le varie fasi siano compiute senza arrecare pregiudizio alla salute o all’ambiente.

Nella specie, il tribunale di Massa accertava che nell'ex cava di pietra arenaria di proprietà della L.s.r.l. erano stati rinvenuti diversi cumuli di rifiuti speciali non pericolosi: un primo cumulo, costituito da terre e rocce di scavo, frammiste a detriti edili, cemento armato, fili di ferro, cavi elettrici e tubi di plastica, per una volumetria stimata in diverse centinaia di metri cubi; un secondo cumulo, costituito invece da conglomerato bituminoso di varia pezzatura, per una volumetria stimata di decine di metri cubi.
La ditta L.s.r.l. non risultava in possesso delle autorizzazioni necessarie alla raccolta/stoccaggio dei rifiuti sopra descritti. Da successivi accertamenti, era altresì risultato che la L.s.r.l. aveva proceduto allo smaltimento di terre e rocce da scavo e di detriti edili, provenienti dall'ex fabbricato ospedaliero di Fivizzano, in forza di contratto di appalto stipulato con la S.s.p.a.
Lo smaltimento era avvenuto mediante il recupero dei rifiuti da parte della ditta L.s.r.l., con propri mezzi e il successivo conferimento degli stessi alla ditta L.s.r.l., soggetto quest'ultimo munito delle necessarie autorizzazioni. Il terreno veniva sgombrato dalla ditta dell'imputato man a mano che la S.s.p.a. realizzava le palificazioni per costruire la nuova struttura. La procedura di smaltimento, così predisposta tra le due imprese, subiva una modifica quando la S.s.p.a., dovendo procedere con le palificazioni, aveva chiesto al L. di proseguire con una certa urgenza allo sgombero di un'area che quest'ultimo, non avendo consultato il progetto edilizio, non aveva compreso dovesse essere prontamente sgomberata. Dinanzi a tale sopravvenuta circostanza, il L. preferiva procedere velocemente alla liberazione dell'area interessata, accumulando provvisoriamente i detriti presso un terreno di sua proprietà, peraltro limitrofo all'area in corso di ristrutturazione (l'ex cava L.), anziché procedere con l'usuale conferimento alla ditta L.S.
Sulla base di queste circostanze, il Giudice del merito aveva tratto il convincimento che il comportamento del ricorrente non avesse dato luogo alla formazione di una discarica, bensì ad un'attività di raccolta non autorizzata in quanto l'impresa L.s.r.l. non possedeva le autorizzazioni previste dal D.Lgs. n. 152/2006 per il legittimo svolgimento dell'attività di recupero/raccolta dei rifiuti. Per l’effetto, il Tribunale condannava L. per il reato di raccolta non autorizzata di rifiuti, così diversamente qualificato il reato originariamente contestato di aver realizzato su un terreno di sua proprietà una discarica non autorizzata di rifiuti non pericolosi.
Il prevenuto adiva la Cassazione deducendo la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione sul rilievo che, avendo il Tribunale escluso la formazione di una discarica abusiva ed avendo invece ritenuto la temporaneità dell'attività di deposito, lo aveva nonostante ciò condannato: così facendo, il Tribunale aveva dapprima ammesso la temporaneità del deposito e poi sostenuto la configurabilità della contravvenzione prevista dall'art. 256 dando vita ad un'affermazione manifestamente illogica e contraddittoria.
Secondo la Corte Suprema il ricorso era manifestamente infondato.
Infatti il ricorrente inutilmente sosteneva di aver realizzato un deposito temporaneo, perciò non punibile, in quanto non aveva considerato che il Tribunale aveva, da un lato, escluso anche la sola teorica possibilità che la condotta fosse riconducibile alla fattispecie del deposito temporaneo sul fondamentale rilievo che il L. non aveva raccolto e trasportato rifiuti propri, bensì rifiuti prodotti da terzi e dall’altro lato aveva pronunciato la condanna per aver l'imputato proceduto ad una raccolta non autorizzata di rifiuti sulla base di elementi neppure contestati dal ricorrente.
La Cassazione in proposito ha ribadito che la nozione normativa di raccolta dei rifiuti presenta natura complessa, comprensiva di ogni comportamento univoco e idoneo a culminare nell'accorpamento e nel trasporto dei rifiuti, risultando così estesa anche alla cernita ed alla preparazione dei materiali in vista del successivo prelevamento.
La Corte ha perciò concluso che anche la raccolta di rifiuti, se eseguita, come nella specie, al di fuori delle prescrizioni amministrative previste dalla legge, al pari delle altre condotte sanzionate dall'art. 256, assume rilevanza penale perché tutte le attività di gestione dei rifiuti sono soggette al controllo della pubblica amministrazione volto ad assicurare che le varie fasi siano compiute senza arrecare pregiudizio alla salute o all’ambiente (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2015 n. 3204 - Ambiente & sviluppo 5/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIASOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Sottoprodotti - Onere della prova - Incombe sull'interessato
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Ai fini della qualificazione come sottoprodotto dei residui derivanti dalla propria attività, incombe sull'interessato  l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato concertezza, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo.
Pertanto, quando non è dimostrato che i materiali abbandonati siano certamente destinati, sin dalla loro produzione, all'integrale riutilizzo senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale, integra il reato previsto dall'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 l'abbandono incontrollato di residui da demolizione.

Nel caso in esame il tribunale, riqualificato il fatto come deposito incontrollato di rifiuti ai sensi del comma 2 dell'art. 256 D.Lgs. n. 152/2006, condannava tal G. per aver, nella qualità di legale rappresentante della "P.s.r.l.", spianato rifiuti all'interno dell’area aziendale in assenza di qualsivoglia autorizzazione.
Era infatti emerso che presso lo stabilimento della ditta P.s.r.l. erano stati accumulati vari rifiuti, costituiti da frammenti di mattoni in calcestruzzo vibrocompresso e fango derivante sia dall'impianto di filtro pressa e sia dal taglio dei predetti mattoni, depositati sul terreno della P.s.r.l. che non possedeva alcun registro di carico/scarico, né alcuna autorizzazione al loro stoccaggio.
Nel ricorrere per cassazione, il prevenuto deduceva che il tribunale aveva errato nel ritenere che i materiali rinvenuti e allocati all'interno dell'azienda, nelle immediate vicinanze dei macchinari, e in attesa di essere consegnati, rientrassero nel novero dei rifiuti, trattandosi invece di sottoprodotti, dei quali la P.s.r.l. non aveva alcuna intenzione di disfarsi, trattandosi di veri e propri beni, aventi un valore economico determinato, in virtù del loro certo utilizzo nel medesimo ciclo di produzione, previa frantumazione dei soli frammenti.
Del resto, il riutilizzo dei sottoprodotti, per essere certo, non necessariamente deve essere anche immediato in quanto, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità, non è prescritta una necessaria contestualità tra produzione e riutilizzo del sottoprodotto.
I giudici romani hanno respinto il ricorso osservando che il Tribunale era giunto ad affermare la penale responsabilità del ricorrente sul rilievo che il materiale rinvenuto fosse da considerare alla stregua di un accatastamento di rifiuti di dimensioni non certo ridottissime, tale, cioè, da non poter essere ritenuto semplicemente temporaneo o occasionale e ciò sia perché non era stato rivenuto alcun tipo di dispositivo idoneo al loro contenimento e/o alla loro etichettatura; sia perché i rifiuti erano ammassati alla rinfusa ed in più parti del terreno; sia perché non era stata rilasciata alcun tipo di autorizzazione al loro smaltimento e sia perché non era stato rinvenuto alcun tipo di macchinario idoneo al loro recupero e/o riutilizzazione (un dipendente della società, sentito come teste, aveva infatti riferito che la ditta aveva semplicemente l'intenzione di munirsi di un macchinario necessario al predetto scopo, ma che la stessa non ne era ancora fornita).
L'obiezione del ricorrente, secondo la quale i materiali dovevano ritenersi sottoprodotti in quanto beni da riutilizzare nel processo produttivo, a giudizio della Cassazione non solo era è smentita dalle inequivoche acquisizioni processuali, ma non era supportata da alcun elemento idoneo a consentire una verifica dell'allegazione difensiva, risolvendosi la stessa in una versione del tutto assertiva, mancando quindi la prova di una riutilizzazione nel ciclo produttivo "certa" ed "effettiva" dei materiali rinvenuti, ed essendo del tutto evidente come il Tribunale avesse correttamente escluso che una mera dichiarazione di intenti in tal senso potesse ritenersi idonea a fondare la prova di una loro riutilizzazione.
D’altra parte, incombe sull'interessato, l'onere di fornire la prova che un determinato materiale sia destinato con certezza, e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo e il Tribunale più volte aveva ricordato come la riutilizzazione dei frammenti di mattoni, rivenuti nel terreno retrostante la ditta P., fosse emersa come mera eventualità.
La Corte ha perciò concluso che quando non è dimostrato che i materiali abbandonati siano certamente destinati, sin dalla loro produzione, all'integrale riutilizzo senza trasformazioni preliminari o compromissione della qualità ambientale, integra il reato previsto dall'art. 256 l'abbandono incontrollato di residui da demolizione, che vanno qualificati pertanto come rifiuti speciali e non sottoprodotti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.01.2015 n. 3202 - Ambiente & sviluppo 5/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAMATERIALI DA SCAVO.
Rifiuti - Materiali da scavo - Applicabilità della deroga nel concorso di tutte le condizioni di cui alla vigente disciplina - Onere della prova gravante su chi invoca il regime di favore
Artt. 186 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
I materiali da scavo di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), D.M. n. 161/2012, prodotti nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti e che non provengono da attività o opere soggette a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale sono sottoposti al regime di cui all'art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006 se il produttore dimostra il concorso delle condizioni previste dall'art. 41-bis D.L. n. 69/2013 convertito, con modifiche, nella legge n. 98/2013.
Nella specie il Tribunale di Rovereto condannava i legali rappresentanti di un’impresa di costruzione per la realizzazione di un deposito incontrollato, presso i piazzali della propria azienda, di rifiuti provenienti dalla propria impresa nonché da un’altra ditta.
Il Tribunale aveva, tra l’altro, rilevato che nessuna delle condizioni richieste dall'art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 era soddisfatta, per cui trovava applicazione la disciplina sui rifiuti. Nell’atto di impugnazione, i ricorrenti deducevano che i materiali costituissero un sottoprodotto riutilizzabile e che il loro riutilizzo in altro sito costituisse un mero illecito amministrativo, sanabile con una semplice comunicazione di cambio di destinazione.
La Cassazione non è stata dello stesso avviso.
Ha prima di tutto osservato che all'epoca dei fatti (fino all'ottobre 2011, come risultava dal capo di imputazione), la disciplina delle terre e rocce da scavo era contenuta nell'art. 186, D.Lgs. n. 152/2006, norma caratterizzata da una complessa articolazione.
In questo caso veniva in rilievo la disciplina dell'utilizzo diretto di tali materiali in deroga alla disciplina sui rifiuti subordinata alla prova positiva, gravante sull'imputato, della loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente compatibile; non era sufficiente, quindi, che le terre e rocce non fossero inquinate perché si applicasse la normativa ad esse inerenti.
Orbene, nella specie, il giudice di merito, oltre a ritenere che nessuna delle condizioni richieste dall'art. 186 era soddisfatta, aveva osservato che, anche volendo applicare le disposizioni del D.M. 10.08.2012, n. 161 - la cui entrata in vigore aveva comportato per espressa previsione legislativa l'abolizione dell'art. 186 - pur sempre doveva escludersi che si trattasse di sottoprodotti perché l'art. 4, comma 1, citato decreto aveva specificato i requisiti in base ai quali i materiali da scavo sono da considerarsi sottoprodotti.
La Cassazione ha poi ricordato che la legge n. 98/2013 (cd. "Decreto del fare”) ha introdotto rilevanti modifiche alla normativa di riferimento in materia di gestione dei materiali da scavo. In particolare è prevista (art. 41, comma 2, che ha novellato l'art. 184-bis attraverso l'introduzione del comma 2-bis) l'applicazione del regolamento n. 161/2012 per i materiali da scavo che provengono da attività o opere soggette a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale.
In tutti gli altri casi, indipendentemente dalla volumetria del materiale scavato, trova applicazione l'art. 41-bis secondo cui la sottoposizione dei materiali da scavo al regime dei sottoprodotti è ammessa qualora il produttore dimostri il rispetto di una serie di condizioni (certezza di destinazione di utilizzo, rispetto soglie contaminazione, assenza di rischi per la salute, assenza di preventivi trattamenti, ad eccezione della normale pratica industriale), attestata attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 da presentare all'Arpa territorialmente competente.
Nel caso di cui alla riportata sentenza, si era in presenza di materiale trasportato e non risultava autocertificato il rispetto delle citate prescrizioni, sicché era irrilevante la tesi del ricorrente che faceva leva su una presenza di limo del tutto regolare (per la vicinanza del lago) e sull’ipotizzabilità di un mero illecito amministrativo in mancanza della prova della sussistenza delle condizioni richieste ai fini dell’inclusione dei materiali nella categoria dei sottoprodotti.
La Cassazione ha perciò confermato la sentenza di merito enunciando il seguente principio di diritto: i materiali da scavo di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), del regolamento di cui al D.M. n. 161/2012, prodotti nel corso di attività e interventi autorizzati in base alle norme vigenti e che non provengono da attività o opere soggette a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale sono sottoposti al regime di cui all'art. 184-bis D.Lgs. n. 152/2006 se il produttore dimostra il concorso delle condizioni previste dall'art. 41-bis D.L. n. 69/2013 convertito, con modifiche, nella legge n. 98/2013 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.01.2015 n. 2440 - Ambiente & sviluppo 5/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAGESTIONE ILLECITA.
Rifiuti - Gestione illecita - Titolare di impresa - Responsabilità personale per omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti - Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di illecita gestione dei rifiuti va attribuito a chiunque sia coinvolto, a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione dei rifiuti ed è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere materialmente la condotta vietata.
Mo.Ga. veniva condannato per aver eseguito varie operazioni di smaltimento tramite tombamento di rifiuti speciali non pericolosi composti da terra e rocce da scavo miste con materiali da demolizioni, tombamenti avvenuti come sottofondo lungo il tracciato di una realizzanda pista ciclabile.
La Corte suprema ha respinto il ricorso in cui, tra l’altro, si lamentava che il Tribunale aveva addebitato la responsabilità del fatto all’imputato a titolo di omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti della ditta della quale lo stesso Mo. era legale rappresentante.
Secondo i giudici romani, la responsabilità per il reato di illecita gestione dei rifiuti va attribuita a chiunque sia coinvolto, a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione non soltanto dei rifiuti ma anche degli stessi "beni da cui originano i rifiuti", così ribadendosi il principio di lizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti.
Il reato previsto dall'art. 256, inoltre, è ascrivibile al titolare dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta vietata.
Nel caso in esame, il fatto che il M. non si trovasse in cantiere il giorno del controllo non assumeva alcuna rilevanza in quanto l'imprenditore soggiace all'obbligo di vigilanza sull'operato dei suoi dipendenti tanto più che nessuna delega specifica a tale fine era stata attribuita ad uno dei dipendenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.01.2015 n. 1716 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RISARCIMENTO DEL DANNO.
Soggetto danneggiato esercente di attività di impresa ma non proprietario o titolare di diritti reali o personali di godimento sul bene, diritto al risarcimento del danno
Artt. 844 e 2043 cod. civ.
La tutela risarcitoria contro danni e molestie assiste, in certa misura, anche chi eserciti sul bene, pur senza titolo, il pacifico godimento; pertanto, proposta dal gestore di un’attività commerciale, oltre che domanda ex art. 844 cod. civ., anche quella di risarcimento dei danni, qualora risulti provata l'intollerabilità delle immissioni, nonché l'effettivo esercizio nel luogo dell'attività commerciale in questione, pur se il giudice escluda la legittimazione ad agire ai sensi dell'art. 844 cod. civ., va accertata la sussistenza degli estremi per riconoscere il diritto al risarcimento dei danni in base ai principi generali in tema di illecito civile.
Un gestore di un un'enoteca con bar e ristorante conveniva davanti al Tribunale la s.p.a. Poste Italiane, lamentando che dai bocchettoni dell'aria condizionata siti nell'ufficio postale contiguo ai suoi locali provenivano intollerabili immissioni di aria calda, che investivano alcuni tavoli esterni ed interni ai suoi locali, allontanando la clientela.
Domandava, in particolare, la condanna della convenuta:
   - a modificare l'impianto;
   - a risarcire i danni arrecati (quantificati nella specie in euro 529.200,00).
All’esito del giudizio di merito, la Corte d’Appello, in riforma della pronuncia di primo grado, riteneva che l’attore non aveva fornito la prova, con riferimento al locale in questione, di essere titolare di un rapporto locatizio o di altro diritto personale di godimento. Di conseguenza, respingeva tutte le domande.
L’originario attore ricorreva allora in cassazione.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso.
I Giudici di legittimità osservano innanzitutto che:
   - il ricorrente risulta avere effettivamente proposto, oltre che domanda giudiziale ai sensi dell'art. 844 cod. civ., anche domanda di risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.;
   - il medesimo ricorrente era pienamente legittimato a proporre tale domanda, pur non essendo proprietario né titolare di altro diritto reale con riferimento al locale in questione;
   - risultano acquisite al giudizio le prove dell'intollerabilità delle immissioni di calore provenienti dai locali delle Poste;
   - pertanto, l'illiceità del comportamento della società convenuta risultava ad ogni modo provata;
   - risultavano agli atti anche le prove dell'effettivo esercizio nel luogo dell'attività di ristorazione dell’attore originario (con la titolarità da parte del medesimo di regolare autorizzazione all'uso del suolo pubblico antistante il locale).
Di conseguenza, spiega la Cassazione, ammesso e non concesso che potesse essere esclusa la legittimazione dell’attore ad agire i sensi dell'art. 844 cod. civ., per mancanza di prova del titolo in base al quale occupava gli spazi destinati alla sua attività imprenditoriale, la Corte di appello avrebbe dovuto accertare se ricorrevano gli estremi per riconoscere al medesimo il diritto al risarcimento dei danni in base ai principi generali in tema di illecito civile.
Non è invece condivisibile subordinare, come fatto dalla Corte di appello, il diritto al risarcimento dei danni alla formale titolarità di un contratto di locazione o di affitto.
Sul punto la Suprema Corte precisa quanto segue:
1. con riferimento al caso di specie:
   - i danni di cui l’originario attore ha chiesto il risarcimento riguardavano l'esercizio dell'attività di impresa e le perdite di introiti conseguenti al fastidio che le immissioni provenienti dal vicino locale delle Poste provocavano alla clientela;
   - l’attore, invece, non ha chiesto danni riguardanti un ipotetico danneggiamento delle strutture murarie o dei locali, nella loro fisicità;
   - pertanto, il soggetto danneggiato e titolare del diritto al risarcimento era l'esercente l'attività di impresa, anche non necessariamente proprietario o titolare di diritti reali o personali di godimento sui muri;
2. quanto alla tutela risarcitoria contro danni e molestie:
   - essa assiste, in certa misura, anche il mero possessore o detentore del bene, e comunque chi ne eserciti, pur senza titolo, il pacifico godimento;
   - unico limite a detta tutela va ravvisato nell'esigenza di evitare che la tutela della situazione di fatto vada a scapito del titolare della situazione di diritto (si veda in tal senso Cassazione civile n. 15458/2011 e Cassazione civile n. 1053/1981).
In conclusione, dunque, anche ammesso che, affermato dalla Corte di appello, debba ritenersi mancante la prova che l’attore fosse titolare di un regolare contratto di locazione dei muri:
   - il giudice del merito avrebbe dovuto accertare se esso svolgesse o meno nel luogo in questione una lecita attività commerciale (avendo nel caso di specie ivi la sua sede legale);
   - in caso positivo, lo stesso giudice avrebbe dovuto riconoscere al medesimo soggetto il diritto alla tutela risarcitoria nei confronti di chiunque avesse illegittimamente pregiudicato l'esercizio di tale attività;
   - per accedere a detta tutela risarcitoria, difatti, resta ferma unicamente la necessità che l’attore dimostri la sussistenza degli altri presupposti richiesti a tal fine dalla legge, fra cui, in particolare, la prova dei danni.
Pertanto, la Cassazione annulla, con rinvio, la sentenza impugnata, affinché la Corte d’appello decida la controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 13.01.2015 n. 288 - Ambiente & sviluppo 6/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: DANNO NON PATRIMONIALE.
Immissioni di rumore - Intollerabilità - Risarcimento del danno non patrimoniale - Diritto al riposo notturno - Lesione - Prova per presunzioni.
Artt. 844, 2043 e 2059 cod. civ.
In tema di risarcimento del danno da immissioni di rumore, accertata l'effettiva intollerabilità delle stesse, la prova del danno conseguente alla significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti, quali in particolare il diritto al riposo notturno, può anche essere raggiunta sulla base di elementi presuntivi.
Veniva chiesto al Tribunale di accertare l'intollerabilità delle immissioni di rumore (schiamazzi e diffusione di musica ad alto volume fino a notte inoltrata) prodotte dall’attività di Piano-Bar, domandando che venisse inibita la prosecuzione dell'attività di disturbo, nonché che i convenuti fossero condannati al risarcimento dei danni provocati.
Il Tribunale ha accolto le domande e la decisione è stata confermata in appello.
Con ricorso per cassazione si denunciava la violazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ., sul rilievo che la Corte di appello aveva statuito la condanna al risarcimento dei danni sulla base del solo accertamento dell'effettiva sussistenza di immissioni intollerabili, senza previamente accertare se da tali immissioni siano effettivamente derivati alle intimate danni risarcibili.
In tal modo, si sostiene con il ricorso per cassazione, si sarebbero sostanzialmente ravvisati i danni non patrimoniali in re ipsa, in contrasto con il consolidato principio giurisprudenziale per cui anche i danni morali ed esistenziali debbono rigorosamente essere dimostrati nella loro consistenza ed entità, per dare diritto al risarcimento. La Cassazione giudica il motivo infondato, osservando che la sentenza impugnata ha accertato l'esistenza dei danni sulla base di elementi presuntivi. Difatti, la Corte d’appello:
   - ha ritenuto che le immissioni sonore "clamorosamente eccedenti la normale tollerabilità (come accertato dalla ASL e successivamente tramite CTU)" si sono prodotte per almeno tre anni nelle abitazioni degli attori, in ore serali e notturne;
   - da ciò ha dedotto come sia stata determinata "una significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti ...., quali in particolare il diritto al riposo notturno, inevitabilmente pregiudicato (se non addirittura impedito) dalla musica ad alto volume e dagli schiamazzi ...";
   - ha accertato altresì che l'entità del danno non è da ritenere futile, né è consistita "in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari.
La Cassazione aggiunge poi che la giurisprudenza circa la necessità di fornire la prova specifica del danno da immissioni sonore (Cass. civ., sez. III, 10.12.2009, n. 25820), si riferisce solo ai casi in cui il danneggiato faccia valere un vero e proprio danno alla salute (cioè un danno biologico, calcolabile in punti di invalidità e risarcibile in termini particolarmente rigorosi, sulla base di specifiche tabelle).
Nella specie, invece, i danneggiati hanno dedotto “l'indebito, grave pregiudizio arrecato per almeno tre anni al riposo notturno, alla serenità e all'equilibrio della mente, ed alla vivibilità delle loro case, condizioni tutte che il rumore e il frastuono protraentisi per ore mettono seriamente e ingiustamente a repentaglio e di cui può ritenersi acquisita la prova anche per presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza” (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 19.12.2014 n. 26899 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: VERSAMENTO PERICOLOSO DI COSE.
Emissioni - Fuoriuscita di liquami da una fossa settica - Cose atte a offendere e molestare le persone - Reato - Condotta commissiva o omissiva - Fattispecie
Art. 674 cod. pen.
Il reato di getto o versamento pericoloso di cose (prima parte dell'art. 674 cod. pen.) è configurabile sia in forma omissiva sia in forma commissiva mediante omissione (cosiddetto reato omissivo improprio) ogniqualvolta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che aveva l'obbligo giuridico di evitarlo (fattispecie relativa a fuoriuscita di liquami da una fossa settica).
La proprietaria di un ristorante pizzeria, che non aveva realizzato un idoneo impianto di scarico che generava fuoriuscita di liquami da una fossa settica, veniva condannata per il reato di cui all'art. 674 cod. pen. per aver versato in luogo privato, ma di comune uso, liquidi maleodoranti atti a imbrattare l'area comune e a molestare gli altri proprietari.
Avverso tale pronuncia la predetta proponeva ricorso lamentando che l'affermazione di penale responsabilità sarebbe stata basata dal giudice del merito sul mancato adempimento di quanto stabilito dal giudice civile in sede di ricorso ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. e di ciò che aveva ordinato l'Ufficio Idrico del Comune.
Aggiungeva che la ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato mal si conciliava con il fatto che, in attesa della decisione del Tribunale civile in ordine alla sussistenza o meno di una servitù di scarico, si era provveduto a incaricare periodicamente una ditta di rimuovere i liquami al fine di scongiurarne la fuoriuscita.
Dalla sentenza del Tribunale risultava che l'emissione di odori nauseabondi era stata avvertita dalla parte civile, che risiede in un appartamento ubicato accanto al ristorante-pizzeria dell'imputata, in occasione di alcune cene e che, effettuando una verifica, si era constatato che i reflui erano tracimati dalla fossa settica destinata a raccoglierli, causando odori nauseabondi che, in un'occasione, avevano provocato anche un malore ad un ospite.
Il Tribunale aveva poi osservato, con riferimento ai mancati adempimenti a quanto disposto in via d'urgenza dal giudice civile e dall'Ufficio idrico del Comune, che gli stessi erano dimostrati proprio dalla documentazione prodotta dall'imputata, dalla quale emergeva l’effettuazione di periodiche rimozioni di fanghi in luogo di più incisivi interventi, circostanza, quest'ultima, pacificamente riconosciuta anche in ricorso.
Su queste premesse, la Cassazione ha sostenuto che, diversamente da quanto affermato nell'atto di impugnazione, l'accertamento sulla sussistenza del reato era stata effettuata sulla base di plurimi elementi acquisiti nel corso dell'istruzione dibattimentale, valutati dal giudice del merito con argomentazioni coerenti e logiche.
Secondo la Corte suprema, la sentenza era corretta anche con riferimento all'elemento soggettivo del reato. L'ipotesi contravvenzionale in esame è qualificata come reato di pericolo, cosicché per la sua configurazione è necessaria esclusivamente l'astratta attitudine delle cose gettate o versate a cagionare effetti dannosi ed è sufficiente la colpa, configurabile in tutti i casi in cui venga riscontrata l'attivazione di impianti pericolosi ovvero venga accertata la colposa omissione di cautele atte a impedire il verificarsi della situazione di pericolo.
Nella fattispecie, il giudice del merito aveva correttamente attribuito la fuoriuscita dei liquami ad una negligente o nulla manutenzione della fossa settica ed alla deliberata scelta di non adempiere alle più incisive cautele dettate dal giudice civile in via di urgenza e dall'amministrazione comunale.
Così facendo, il Tribunale si era correttamente allineato alla giurisprudenza di legittimità in cui ricorre l’affermazione che il reato di getto o versamento pericoloso di cose, previsto nella prima parte dell'art. 674 cod. pen., è configurabile sia in forma omissiva sia in forma commissiva mediante omissione (cosiddetto reato omissivo improprio) ogniqualvolta il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che aveva l'obbligo giuridico di evitarlo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.11.2014 n. 49213 - Ambiente & sviluppo 5/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATASPIANAMENTO DI INERTI DA DEMOLIZIONI.
Rifiuti - Inerti da demolizioni - Spianamento su terreno dei rifiuti - Reato - Deposito permanente.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'attività di spianamento su terreno di rifiuti rientra nella più estesa nozione di gestione di rifiuti non autorizzata ed in particolare di "deposito permanente".
Il Tribunale condannava per il reato di cui all'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 il titolare di una ditta di escavazione e movimento terra che aveva abbandonato e spianato materiale inerte proveniente da demolizioni su un terreno di terzi.
La Cassazione, adita dal prevenuto, ha confermato la condanna ricordando che già in passato la stessa Corte suprema aveva sostenuto che l’attività di spianamento del terreno e di livellamento costituiscono manifestazione esterna di una gestione di discarica o possono costituirla.
Infatti, nella gestione di una discarica, segnatamente nella fase iniziale, ben possono rientrare la recinzione, lo spianamento dei rifiuti con loro interramento totale o parziale, il livellamento del terreno. Ciò non integra un allargamento indebito della nozione di "gestione" della discarica abusiva, ma vi rientra a pieno titolo.
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva accertato che l'imputato, con un mezzo meccanico, stava eseguendo sul terreno di un terzo lo spianamento dei detriti derivanti da demolizione (nella sua deposizione il teste di PG aveva parlato di "spianamento di detriti consistenti in blocchetti di cemento non frantumati, contenenti ferro, verosimilmente risultanti da pregressa attività di demolizione").
Le critiche mosse dal ricorrente alla decisione si risolvevano perciò in una inammissibile rivisitazione delle circostanze di fatto e comunque evidenziavano aspetti secondari rispetto al nucleo essenziale della questione rappresentato dall'inclusione della attività di spianamento dei rifiuti nel concetto di gestione di rifiuti non autorizzata ed in particolare di "deposito permanente" (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2014 n. 48020 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ELEMENTI RIVELATORI DI UN’IMPRESA.
Rifiuti - Abbandono - Reato commesso dal titolare di un’impresa - Elementi indicatori dell’impresa di fatto
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il reato di cui all’art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 è configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che abbandoni rifiuti nell'ambito di una attività economica esercitata anche di fatto, indipendentemente da una qualificazione formale sua o dell'attività medesima, così dovendosi intendere il "titolare di impresa o responsabile di ente" menzionato dalla norma.
L'individuazione in concreto dell'attività imprenditoriale di fatto è valutazione di merito che compete al giudice della cognizione che, a tal fine, potrà e dovrà tener conto di elementi rivelatori della stessa quali: a) l'utilizzo di mezzi e modalità che eccedano quelli normalmente nella disponibilità del privato; b) la natura e la provenienza dei materiali; c) la quantità e qualità dei soggetti che hanno posto in essere la condotta.

Il titolare di impresa, esecutrice delle opere di demolizione di una preesistente tettoia, veniva condannato per il reato 256, comma 2, e 255, comma 3, perché aveva abbandonato, mediante interramento, rifiuti di varia natura su un'area di proprietà della moglie e perché aveva omesso di rimuovere detti rifiuti, come disposto con ordinanza del Comune di Lonato.
Nel proporre ricorso per Cassazione, l’imputato deduceva che i giudici erroneamente avevano ritenuto che non avesse operato in veste di privato cittadino, bensì di titolare di impresa, e quindi di imprenditore nell'esercizio delle proprie funzioni. Secondo il ricorrente, per distinguere un'attività imprenditoriale da quella compiuta dal privato era necessario prendere in esame tutte le circostanze che in diritto la rendono tale, come l'agire in presenza di un preciso contratto che regoli la prestazione d'opera, oppure il rinvenimento di un'autorizzazione a compiere determinati lavori.
Qualsiasi altra riflessione circa aspetti diversi dell'attività, come valutare il tipo di strumenti impiegati, oppure i soggetti coinvolti, era irrilevante ed inadatta a fungere da criterio discriminante tra l'agire in veste di imprenditore o di privato, dato che gli imprenditori possono utilizzare mezzi di privati nell'esercizio delle loro funzioni e i privati impiegare mezzi aziendali per scopi prettamente personali.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
La Cassazione ha infatti ritenuto che fosse corretta la conclusione dei giudici di merito che, in replica alla tesi difensiva della movimentazione di rifiuti di provenienza "domestica", avevano evidenziato che i rifiuti rinvenuti non erano relativi solo alla demolizione della tettoia, ma costituivano il residuo anche di altre attività, come dimostrava eloquentemente il rinvenimento, tra l'altro, di ruote di autocarro, di serramenti in legno, di reti metalliche; che il P. aveva effettuato le demolizione in questione servendosi dei mezzi aziendali (e in particolare di un escavatore), nonché di due dipendenti (a proposito dei quali, non era certo credibile che lavorassero a titolo di gratuito favore, visto che tra l'altro si trattava di un giorno feriale).
L'uso dei beni aziendali e la collaborazione dei dipendenti rendeva evidente che, nel caso in esame, l'attività di illecito interro dei rifiuti era avvenuta nell'ambito di un'attività imprenditoriale.
Andava perciò logicamente escluso che l'imputato avesse agito privatamente dovendosi ritenere (in particolare per l'esorbitanza dei rifiuti interrati rispetto al manufatto dichiaratamente demolito) che egli avesse agito nell'ambito dell'attività imprenditoriale, sicché correttamente era stata ritenuta a suo carico l'ipotesi di reato di cui all'art. 256, comma 2.
Il Collegio ha ricordato che il reato in esame può essere commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa provenienza e ha escluso che, nella individuazione del titolare d'impresa o del responsabile dell'ente, debba farsi riferimento alla formale investitura, assumendo rilievo, invece, la funzione in concreto svolta.
A questo riguardo, la Corte ha chiarito che l'individuazione in concreto dell'attività imprenditoriale «di fatto» è valutazione di merito che compete al giudice della cognizione che, a tal fine, potrà e dovrà tener conto, com'è avvenuto nel caso di specie, di elementi rivelatori della stessa quali: a) l'utilizzo di mezzi e modalità che eccedano quelli normalmente nella disponibilità del privato; b) la natura e la provenienza dei materiali; c) la quantità e qualità dei soggetti che hanno posto in essere la condotta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.11.2014 n. 47662 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA DI RIFIUTI SOLIDI URBANI.
Rifiuti - Raccolta di rifiuti solidi urbani - Violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione - Riferimento alla popolazione complessivamente servita e non agli abitanti dei singoli comuni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
In tema di gestione dei rifiuti, integra il reato di cui all'art. 256, commi 1 e 4, D.Lgs. n. 152/2006 la raccolta di rifiuti solidi urbani in violazione delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni o in mancanza dei requisiti richiesti per le iscrizioni o comunicazioni, tra i quali è compreso anche il rispetto del limite numerico della "popolazione complessivamente servita" individuato nella classe di appartenenza del gestore, che deve intendersi riferito alla somma complessiva dei residenti nei comuni serviti e non al numero di abitanti di ciascun comune.
Un soggetto, iscritto nell'apposito Albo alla categoria 5, classe A, per la gestione dei rifiuti nell'ambito di una popolazione inferiore a 20.000 persone, aveva però effettuato la raccolta per tre comuni per un territorio che comprendeva complessivamente 27.256 persone e per questo fatto veniva condannato per il reato di cui all’art. 256, commi 1 e 4.
L'imputato proponeva ricorso per cassazione lamentando che il giudice di merito aveva ritenuto che il fatto integrasse un reato formale di pericolo, per la cui configurabilità era sufficiente la mera inosservanza delle prescrizioni, non essendo richiesto che la condotta fosse anche idonea a configurare una situazione di concreto pregiudizio per il bene giuridico protetto sicché aveva ritenuto irrilevante che il ricorrente disponesse dì mezzi e spazi adeguati alla raccolta dei rifiuti in concreto effettuata (tanto che il 5 gennaio 2011 venne accolta l'istanza di elevazione della classe di iscrizione nella categoria 1, classe D, di cui al D.M. n. 406 del 1998, artt. 8 e 9).
Eccepiva inoltre che non ricorreva la violazione dell’art. 256, comma 4, in quanto la società, all'epoca dei fatti, era titolare della prescritta autorizzazione che operava esclusivamente un distinguo per classi numeriche di "abitanti": questa dicitura, diversa da quella di "popolazione", confermava la tesi difensiva della legittimità della condotta essendo l'autorizzazione da intendersi riferita non alla complessiva popolazione trattata (quella dei tre comuni indicati nella contestazione), ma al numero di abitanti per ogni singolo comune con cui si sottoscrive il relativo contratto di raccolta di RSU.
Il supremo Collegio ha ritenuto infondata la tesi difensiva dell’erronea interpretazione del D.M. 28.04.1998, n. 406.
L’art. 8, comma 1, lett. a), di tale decreto ministeriale dispone infatti che è richiesta l'iscrizione all'albo delle imprese che effettuano la gestione dei rifiuti nella categoria 1, per l'ipotesi di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e assimilati. A sua volta, l'art. 9 del medesimo decreto prevede che la categoria 1, di cui al detto art. 8, comma 1, lett. a), è suddivisa in sei classi "a seconda che la popolazione complessivamente servita sia", in particolare, per la classe d) "inferiore a 50.000 abitanti e superiore o uguale a 20.000 abitanti"; e per la classe e) "inferiore a 20.000 abitanti e superiore o uguale a 5.000 abitanti".
Secondo la Corte era dunque evidente, sulla base di un’esegesi letterale, del resto corrispondente a quella sistematica ed alla ratio della disposizione, che questa, con l'espressione "popolazione complessivamente servita", avesse riguardo al totale degli abitanti di tutti i comuni per i quali viene effettuata la raccolta e non al numero di abitanti del singolo comune.
Del resto, quest'ultima interpretazione non avrebbe alcun senso perché la finalità della disposizione è chiaramente quella di assicurare che l'impresa che svolge il servizio disponga, nel complesso, dei mezzi e delle strutture sufficienti ad assicurarlo regolarmente, mentre non si comprende quale finalità avrebbe una norma che ponesse un limite per i singoli enti serviti, consentendo all'impresa di svolgere la raccolta per un numero indeterminato di abitanti, senza alcun preventivo controllo delle necessarie capacità. Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, la norma, del tutto razionalmente, richiede proprio che sia previsto "a monte" il numero complessivo della popolazione per la quale potrà essere svolto il servizio, indipendentemente dalla circostanza (irrilevante) del numero degli enti locali in cui questa è suddivisa.
Nella specie, il ricorrente all'epoca dei fatti era iscritto nella classe E), e quindi non poteva svolgere il servizio di raccolta per una popolazione complessivamente servita superiore a 20.000 abitanti, mentre solo successivamente ottenne l'iscrizione nella classe D) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.10.2014 n. 43429 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIARESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Realizzazione e gestione di discarica ad opera di terzi - Proprietario del fondo - Responsabilità in quanto tale - Esclusione
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, mancando una norma che stabilisca tale obbligo giuridico; la responsabilità del proprietario sussiste solo quando compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Non soddisfatto della sentenza con cui il tribunale lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 (per aver, quale comproprietario di un fondo, effettuato un'attività di raccolta, trasporto, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti da demolizione mescolati a terra, ghiaia, pezzi di asfalto, blocchi di cemento, mattoni, tondini in ferro e piastrelle) l’imputato adiva la Cassazione censurando la sentenza che aveva ritenuto la sua responsabilità in quanto tenuto a vigilare che i soggetti, cui aveva affidato i lavori edili, osservassero le norme ambientali in tema di formazione di un deposito incontrollato.
Il ricorrente non condivideva tale argomentazione in quanto il tribunale non aveva preso in considerazione alcuni elementi e cioè l'esistenza di un accordo tra il ricorrente e la società Sc.Co. s.r.l., cui erano stati affidati i lavori, con cui il Ca. aveva preteso che il materiale da utilizzare fosse accompagnato dall'analisi dei terreni (ciò che denotava l'esercizio del potere di vigilanza del medesimo); la qualifica sostanziale di committente del ricorrente che ne avrebbe escluso la responsabilità; infine, il fatto che egli aveva provveduto alla nomina di un direttore dei lavori, ossia di un soggetto che doveva verificare che tutte le operazioni materiali venissero svolte in maniera regolare.
Con un secondo motivo, il ricorrente ribadiva la contestazione alla ritenuta partecipazione concorsuale al reato ascrittogli sostenendo di non aver alcun obbligo di vigilanza e di denuncia in relazione alla violazione della normativa sui rifiuti, atteso che la normativa ambientale (il riferimento era all'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006) attribuisce al proprietario dell'area solo l'obbligo di rimozione, avvio a recupero e smaltimento, ma non una posizione finalizzata ad impedire la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo altrui.
I motivi di ricorso, trattati congiuntamente, attesa l'omogeneità dei profili di doglianza mossi all'impugnata sentenza, sono stati ritenuti fondati dalla Cassazione.
La sentenza impugnata, infatti, fondava la responsabilità del prevenuto sull'esistenza di un obbligo di vigilanza quale proprietario dell'area su cui i rifiuti erano stati illecitamente gestiti dai soggetti ai quali il medesimo aveva affidato i lavori di movimentazione, sbancamento, etc..
L'obbligo di vigilanza, tuttavia, era fondato sulla non corretta esegesi di una decisione della stessa Corte suprema (Sez. III, n. 47432 del 05.11.2003, Bellesini ed altri, Ced 226868, secondo cui la responsabilità per la attività di gestione non autorizzata può scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione), attinente non alla responsabilità del proprietario dell'area, ma del titolare di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni.
Anche, il riferimento ad una culpa in vigilando non era pertinente perché riguardava la responsabilità del titolare di un'azienda nel caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti ad opera dei dipendenti e non di soggetti terzi, come nel caso di specie.
La Corte ha chiarito, da un lato, che non era configurabile un obbligo di controllo a carico del proprietario del fondo, in quanto gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti medesimi. Dall’altro lato, che era pacifico che, in difetto di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti, non era configurabile una responsabilità "di posizione" del proprietario dell'area.
Infatti, come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite e da successive decisioni, il proprietario di un terreno non risponde dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata, anche in caso di mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti, salvo che non compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
La sentenza è stata perciò annullata con rinvio ad altro giudice del tribunale per accertare l'esistenza o meno di elementi in virtù dei quali la condotta del ricorrente fosse rivelatrice di una sua partecipazione al reato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40528 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAPROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti da parte di terzi - Proprietario del fondo - Responsabilità in quanto tale - Esclusione - Comportamenti attivi
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 40, cod. pen.
Il proprietario di un terreno non risponde, in quanto tale, dei reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, occorrendo invece che il proprietario compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Il comproprietario di un fondo, dichiarato colpevole per aver effettuato un'attività di raccolta, trasporto, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti da demolizione mescolati a terra, ghiaia, pezzi di asfalto, blocchi di cemento, mattoni, tondini in ferro e piastrelle, impugnava la sentenza di condanna obiettando in primo luogo che il giudice lo aveva ritenuto responsabile in quanto tenuto a vigilare, quale comproprietario dell'area interessata dall'illecita gestione dei rifiuti, che i soggetti, a cui aveva affidato i lavori, osservassero le norme ambientali in tema di formazione di un deposito incontrollato; in secondo luogo, che il giudice lo aveva ritenuto responsabile in virtù di una posizione di garanzia da questi assunta in forza dei contratti stipulati per la realizzazione dei lavori preso la sua proprietà nonché per essere questi tenuto a vigilare quale proprietario del terreno su cui vennero rinvenuti i materiali indicati.
Il ricorso è stato accolto perché la sentenza, nel fondare la responsabilità del ricorrente sull'esistenza di un obbligo di vigilanza del medesimo quale proprietario dell'area su cui i rifiuti erano stati illecitamente gestiti dai soggetti ai quali il medesimo aveva affidato i lavori di movimentazione, sbancamento, etc., si basava sulla non corretta esegesi di una decisione della Cassazione
(1) secondo cui la responsabilità per la attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda.
Questa decisione, ha osservato la Corte, attiene non alla responsabilità del proprietario dell'area, ma del titolare di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni. Parimenti, il riferimento ad un'ipotesi di culpa in vigilando, riguardava la responsabilità del titolare di un'azienda nel caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti ad opera dei dipendenti di una società di capitale, e non di soggetti terzi, come nel caso di specie, rispetto ai quali non sussisteva alcun rapporto di formale dipendenza. Inoltre, non era configurabile un obbligo di controllo a carico del proprietario in quanto gli obblighi di corretta gestione e smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei detentori dei rifiuti.
La sentenza ha perciò ribadito che, in difetto di elementi di diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti, non è configurabile una responsabilità "di posizione" del proprietario dell'area come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione
(2) secondo cui i reati di realizzazione e gestione di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati permanenti, che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva; ne consegue che essi non possono consistere nel mero mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione attiva e in base alla sola consapevolezza della loro esistenza.
E’ stato così sostenuto che il proprietario di un terreno non risponde della realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata, anche nel caso di mancata attivazione per la rimozione dei rifiuti, salvo che non compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
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Note:
(1) Cass., sez. III, n. 47432 del 05.11.2003, Bellesini ed altri, ced. 226868.
(2) Cass., n. 12753 del 05.10.1994, Zaccarelli, ced. 199385
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.10.2014 n. 40528 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

AMBIENTE-ECOLOGIAORDINANZE DI SGOMBERO.
Rifiuti - Ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti - Inosservanza - Responsabilità del destinatario del provvedimento
Art. 14, D.Lgs. n. 22/1997; art. 192, D.Lgs. n. 152/2006; art. 650, cod. pen.
La sanzione per la violazione dell'ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi di cui all'art. 14, D.Lgs. n. 22/1997 (oggi sostituito dall’art. 192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006), va applicata a chiunque non ottemperi a tale provvedimento, con la conseguenza che compete al proprietario del terreno, al fine di evitare di rendersi responsabile dell'inottemperanza in questione, l'onere di provare l'assenza di una propria responsabilità nell'abbandono dei rifiuti, onde determinare la disapplicazione dell'atto da parte del giudice penale.
Il Tribunale di Teramo, condannava M.I., ed altri soggetti non ricorrenti, per il reato di cui all'art. 650 cod. pen., per non aver ottemperato all'ordinanza n. 144 emessa il 21.10.2009, per ragioni di igiene, dal sindaco di (omissis).
Nel ricorso per cassazione, l'imputato, destinatario dell'ordinanza sindacale, in quanto proprietario di una porzione di un’area più vasta (composta anche da terreni appartenenti ad altri soggetti imputati dello stesso reato) sulla quale era stata accertata la presenza di una discarica di rifiuti di vario genere dei quali era stata ordinata, in via d'urgenza, la rimozione, deduceva che, già in sede di interrogatorio, aveva affermato di non ricordare che la suddetta ordinanza gli fosse stata mai notificata.
Di conseguenza, il Tribunale erroneamente aveva ritenuto, sulla scorta della documentazione prodotta dal PM solo all'udienza di discussione, che l'ordinanza sindacale gli sarebbe stata regolarmente notificata.
Né poteva fondatamente sostenersi che il M. avesse avuto comunque notizia dell'ordinanza, essendosi recato sulla località con un geometra per constatare l'eventuale presenza di rifiuti sul terreno, e ciò in quanto tale sopralluogo era stato effettuato nel mese di marzo, ossia dopo l'esercizio dell'azione penale nei confronti dell'imputato.
Il ricorrente evidenziava ancora:
   a) che il sopralluogo effettuato per verificare l'avvenuta ottemperanza all'ordinanza, era stato eseguito da agenti della polizia municipale diversi da quelli che avevano accertato la presenza dei rifiuti e l'esistenza della discarica, e che quindi non potevano accertare se, quanto presente sul terreno, corrispondesse effettivamente a quanto trovato in occasione del primo sopralluogo;
   b) che mancava una prova certa (rilievo catastale) che consentisse di affermare che il terreno sul quale era stata accertata la presenza dei rifiuti, corrispondesse effettivamente alle particelle di proprietà del M., che le aveva acquistate anni prima, ad una vendita fallimentare, lasciandole incolte (tant'è che il connesso procedimento penale promosso nei suoi confronti per costituzione di un deposito non autorizzato di rifiuti speciali era stato archiviato) sicché, senza un positivo accertamento in tal senso, l'autorità comunale non avrebbe potuto pretendere dall'imputato di bonificare l'area, invadendo i terreni di terze persone;
   c) che la presenza dei rifiuti di cui trattasi, in quanto provenienti da attività edilizia, doveva farsi risalire allo svolgimento di attività edificatoria alla quale il M., residente altrove, era totalmente estraneo.
Il ricorso è stato respinto.
Quanto alla prima questione, la Corte ha, infatti, rilevato che dall'esame degli atti risultava che l'ordinanza sindacale n. 144/2009 era stata notificata al Ma. in data 11.11.2009, ai sensi dell'art. 139 cod. proc. civ., sicché l'imputato non poteva fondatamente invocare, a giustificazione della sua condotta omissiva, la non conoscenza del provvedimento.
Quanto alla seconda doglianza, acclarato che il Ma. risultava il destinatario formale della ordinanza sindacale nonché proprietario di uno dei terreni ove era stata riscontrata dall'Autorità comunale la presenza dei rifiuti, la Corte ha ritenuto non deducibile, in quanto priva di adeguato riscontro probatorio, la tesi secondo cui i rifiuti di cui trattasi non insistessero sulla porzione di terreno di sua proprietà.
Quando alla obiezione che l’imputato non era il responsabile della condotta di abbandono, la Cassazione ha sostenuto che spettava a lui, per evitare di dovere rispondere della inottemperanza dell'ordine sindacale (di cui non era stato chiesto l'annullamento in via amministrativa), di provare l'assenza di una propria responsabilità nell'abbandono, al fine di ottenere -quantomeno- la disapplicazione della ordinanza illegittima (per carenza dei presupposti soggettivi), mentre onere dell'accusa era solo quello di provare l'esistenza della ordinanza sindacale (assistita da presunzione di legittimità) e l'inottemperanza dei suoi destinatari.
Il ricorrente invece solo nel giudizio di Cassazione aveva dedotto che il procedimento promosso nei suoi confronti (e degli altri proprietari) per il reato di deposito non autorizzato di rifiuti speciali era stato archiviato, per la mancata identificazione in modo certo del responsabile del reato, ma, a prescindere dalla novità della deduzione, non aveva offerto alcun elemento dimostrativo dell'effettività di tale assunto (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 08.09.2014 n. 37254 - Ambiente & sviluppo 4/2015).

CONDOMINIO: Cause di nullità ed annullabilità delle delibere assembleari.
Devono qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
Devono, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite civili con la sentenza 07.03.2005 n. 4806, risolvendo un precedente contrasto esistente in dottrina e giurisprudenza, chiarendo, pertanto, che la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale comporta non la nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, che se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, 3° comma, c.c. -decorrente per i condomini assenti dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione- è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio.
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5. Prima di procedere all'esame del contrasto, è opportuno effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione dell'orientamento della Corte e della dottrina in tema di nullità e annullabilità delle delibere dell'assemblea condominiale.
5.1.
La Corte, in generale, ha affermato che sono da ritenersi nulle le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea o alla formazione della volontà della prescritta maggioranza; quelle con maggioranze inferiori alle prescritte; le delibere prive degli elementi essenziali; quelle adottate con maggioranza inesistente, apparente o inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale; le delibere con oggetto impossibile o illecito, a volte specificandolo come oggetto contrario all'ordine pubblico, o alla morale, o al buon costume; le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea; le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini; le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
5.2.
Nell'ambito della categoria delle delibere contrarie alla legge o al regolamento condominiale, la Corte ha affermato che sono da ritenersi annullabili quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell'assemblea; quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione; le delibere viziate da eccesso di potere o da incompetenza, che invadono cioè il campo riservato all'amministratore; le delibere che violano norme che chiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
6. Secondo la dottrina sono nulle le delibere affette da un vizio sostanziale, annullabili quelle inficiate da un vizio di forma.
6.1. In particolare, premesso che l'art. 1137 c.c. ha un'ampia portata ma non si riferisce a quelle decisioni assembleari che sono senza effetto alcuno in forza di principi generali indiscutibili, e perciò attaccabili in ogni tempo da chiunque vi abbia interesse, alcuni autori ritengono nulle le delibere prive dei requisiti essenziali, in quanto prese da assemblee non regolarmente costituite (anche perché non sono stati invitati tutti i condomini) o con maggioranze inesistenti o apparenti; ovvero quelle aventi un oggetto impossibile o illecito; quelle esorbitanti dalla sfera dei compiti dell'assemblea; quelle che ledono i diritti di ciascun condomino sulle cose e servizi comuni o sul proprio piano o appartamento. Considerano annullabili le delibere affette da vizi formali, prese in violazioni di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti al procedimento di convocazione e di informazione dell'assemblea.
6.2. Altri autori, operando un accostamento con i principi generali e le disposizioni dettate in tema di delibere societarie, ritengono nulle le delibere aventi ad oggetto materie sottratte alla competenza della assemblea, la ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli legali, contenuto illecito o impossibile, la menomazione dei diritti spettanti a ciascun condomino, e quelle contrarie a norme imperative. Sono, invece, annullabili le delibere assunte a seguito di un procedimento viziato, ovvero inficiate da eccesso di potere perché invadono il campo riservato alla competenza dell'amministratore.
7. Il denunciato contrasto è sintetizzabile nei seguenti termini.
7.1. Sull'omessa comunicazione dell'avviso, sino al 2000 è rimasto fermo il principio, affermato dalla Corte in numerose pronunce (v. fra le tante: Cass. 01.10.1999, n. 10886; 19.08.1998, n. 8199; 12.06.1997, n. 5267; 27.06.1992, n. 8074; 09.12.1987, n. 9109; 15.11.1977, n. 4984; 16.04.1973, n. 1079; 12.11.1970, n. 2368), della nullità della delibera. In alcune sentenze, la sanzione della nullità è espressamente ricondotta alla difettosa costituzione dell'organo deliberante, risultando irrilevante l'incidenza o meno del voto sulle prescritte maggioranze (Cass. 12.02.1993, n. 1780; 15.11.1977, n. 4984). In altre la nullità è ricondotta all'esigenza che tutti i condomini siano preventivamente informati della convocazione dell'assemblea, così da poter essere partecipi del procedimento di formazione della delibera stessa, con la conseguenza che non determinano la nullità le mere irregolarità, quali la convocazione ad opera di persona non qualificata (Cass. 02.03.1987, n. 2184) o l'incompletezza dell'ordine del giorno (Cass. 21.09.1977, n. 4035) che danno luogo alla sola annullabilità. A volte la nullità è fatta discendere espressamente dall'art. 1136, sesto comma, c.c..
7.2. A partire dal 2000, cambiando orientamento, la Corte (Cass. 05.01.2000, n. 31; 05.02.2000, n. 1292; 01.08.2003, n. 11739) afferma che la mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale ad un condomino determina la semplice annullabilità della delibera. Il mutamento di indirizzo della Corte trae argomento:
   a) dal combinato disposto degli artt. 1105, terzo comma, e 1109 c.c., in base al quale la mancata preventiva informazione dei partecipanti alla comunione determina semplicemente l'impugnabilità, nel termine di decadenza di trenta giorni, delle deliberazioni assunte da parte dei componenti della minoranza dissenziente;
   b) dal parallelismo e dall'identità di ratio (individuata nell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici, messa a rischio dalla possibilità di dedurre in ogni tempo la nullità) esistente tra la disciplina in materia di società di capitali (artt. 2377, 2379 c.c., logicamente prima della riforma introdotta col D.Lgs. 17.01.2003 n. 6, di cui si dirà in seguito) e quella in materia condominiale (art. 1137 c.c.) in tema di delibere dell'assemblea (dei soci, nel primo caso, e dei condomini, nel secondo), la prima delle quali espressamente limita le ipotesi di nullità delle delibere assunte dall'assemblea dei soci ai soli casi dell'"impossibilità" e dell'"illiceità" dell'oggetto.
7.3. In particolare, i vizi dell'oggetto come causa di nullità sono ricollegati con i confini posti in materia di condominio al metodo collegiale e al principio di maggioranza. Secondo la Corte "tanto la impossibilità giuridica, quanto la illiceità dell'oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea, considerato che la prima consiste nella inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto stabilito in concreto, e che la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, alle quali l'assemblea non può derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai singoli dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle convenzioni". Di conseguenza la formula dell'art. 1137 c. c. deve interpretarsi nel senso che per "deliberazioni contrarie alla legge" s'intendono le delibere assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prestabilite dall'art. 1136 (ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.).
Inoltre, "mentre le cause di nullità afferenti all'oggetto raffigurano le uniche cause di invalidità riconducibili alla "sostanza" degli atti, alle quali l'ordinamento riconosce rilevanza" e costituendo vizi gravi non sono soggette a termine per l'impugnazione; invece "sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva per gestire le cose comuni" e, attinendo al procedimento di formazione, producono un vizio non grave che, se non fatto valere nei termini prescritti, non inficia gli atti.
Le diverse cause di invalidità sono state, quindi, ricondotte al tipo di interesse leso: interessi sostanziali inerenti all'oggetto delle delibere, per la nullità; strumentali, in quanto connessi con le regole procedimentali relative alla formazione degli atti, per l'annullabilità.
8. Con riferimento al verbale delle delibere dell'assemblea dei condomini, un vero e proprio contrasto giurisprudenziale non sembra emergere, registrandosi soltanto alcune puntualizzazioni e specificazioni.
8.1. Infatti, la Corte, in alcune pronunce (v. ex plurimis: Cass. 22.05.1999, n. 5014; 19.10.1998, n. 10329) ha espressamente affermato l'annullabilità ex art. 1137 c.c. della delibera il cui verbale contiene delle omissioni, precisando che la redazione del verbale costituisce una delle prescrizioni di forma che devono essere osservate al pari delle altre formalità richieste dal procedimento collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, etc.), la cui inosservanza comporta l'impugnabilità della delibera, in quanto non presa in conformità della legge.
8.2. Principio che si ritrova implicitamente alla base di altre pronunce, dove la Corte ha affermato l'annullabilità delle deliberazioni assembleari nel caso in cui non siano individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, ed i valori delle rispettive quote millesimali (Cass. 22.01.2000, n. 697; 29.01.1999, n. 810).
8.3. E' stato pure affermato che la sottoscrizione del presidente subentrato in luogo di quello che all'inizio ha presieduto concreta una irregolarità formale, comportante annullabilità (Cass. 29.10.1973, n. 2812); e in generale, la stessa redazione per iscritto del verbale, prescritta dall'art. 1136, ultimo comma, c.c., non è prevista a pena di nullità, tranne il caso in cui la delibera incida su diritti immobiliari (Cass. 16.07.1980, n. 4615).
9. Parimenti per quanto riguarda le delibere in materia di ripartizione delle spese (se si esclude l'isolata e risalente pronuncia n. 1726 del 04.07.1966) non sembra sussistere contrasto nella giurisprudenza, atteso che la Corte -a partire del 1980- ha costantemente distinto, sulla base di un medesimo criterio, le ipotesi di nullità (v. Cass. 09.08.1996, n. 7359; 15.03.1995, n. 3042; 03.05.1993, n. 5125; 19.11.1992, n. 12375; 05.12.1988, n. 6578; 21.05.1987, n. 4627; 05.10.1983, n. 5793; 05.05.1980, n. 29289) da quelle di annullabilità (cfr. Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n. 6403; 01.02.1993 n. 1213; 05.08.1988, n. 4851; 08.09.1986, n. 5458), in molti casi facendo espresso riferimento all'art. 1123 c.c. .
9.1. In particolare, partendo dal rilievo che le attribuzioni all'assemblea ex art. 1135 c. c. sono circoscritte alla verificazione ed all'applicazione in concreto dei criteri stabiliti dalla legge e non comprendono il potere di introdurre deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe, venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo condomino di concorrere nelle spese per le cose comuni dell'edificio condominiale in misura non superiore a quelle dovute per legge, possono conseguire soltanto ad una convenzione cui egli aderisca, la Corte (cfr. Cass. 09.08.1996, n. 7359; 15.03.1995, n. 3042; 3.5.1993, n. 5125; 19.11.1992, n. 12375) ha affermato la nullità della delibera che modifichi i suddetti criteri di spesa (sia nell'ipotesi di individuazione dei criteri di ripartizione ai sensi dell'art. 1123 c.c., sia nell'ipotesi di cambiamento dei criteri già fissati in precedenza).
9.2. Conseguentemente la Corte ha riconosciuto l'annullabilità della delibera nel caso di violazione dei criteri già stabiliti quando vengono in concreto ripartite le spese medesime (Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n. 6403; 01.02.1993 n. 1213).
10. Il contrasto, che come evidenziato riguarda essenzialmente l'omessa comunicazione dell'avviso di convocazione, ex art. 66, 3° comma, disp. att. c.c., ha visto divisa anche la dottrina, la quale ha assunto posizioni di segno diverso sia rispetto all'utilizzo degli artt. 1105 e 1109 c.c., sia rispetto al parallelismo e identità di ratio con la disciplina in materia di società di capitali.
10.1. Alcuni autori dubitano della pertinenza del richiamo all'art. 1105, comma 3, c.c. in tema di comunione: l'omessa informazione preventiva sull'oggetto della deliberazione non può, infatti, essere assimilata senz'altro all'omessa convocazione. Ciò per la decisiva considerazione che il principio maggioritario in tanto può operare in quanto tutti gli aventi diritto siano posti in condizione di intervenire in assemblea, partecipare alla discussione e alla votazione. Nei riguardi del condomino non convocato la riunione assembleare e le relative deliberazioni sarebbero res inter alios acta. Né può dirsi, sotto altro profilo, che la convocazione di un condomino attenga, comunque, solo al procedimento da osservare per la formazione della volontà assembleare, determinando l'omissione un error in procedendo.
10.2. Secondo altri autori è stato individuato un riscontro normativo direttamente afferente al vizio di convocazione ed espressamente regolato come annullabilità in un settore non distante dal regime condominiale. Inoltre, il richiamo risulta utile per la sua diretta attinenza alla ricostruzione della disciplina codicistica del metodo collegiale: nella comunione, come nel condominio, le decisioni comuni vengono assunte in collegio e l'obbligo di informativa sulle materie oggetto di discussione è finalizzato al successivo svolgimento dell'assemblea, di cui l'art. 1105 c.c. prescrive in definitiva la convocazione; in tal senso è di rilievo l'azione di annullabilità prevista dall'art. 1109 c.c. quale rimedio idoneo contro le decisioni illegittime della maggioranza, poiché nel condominio il metodo collegiale riveste la medesima rilevanza che nella comunione ordinaria, ove pure è posto a tutela dei diritti delle minoranze.
10.3. Quanto al parallelismo e identità di ratio con la disciplina in materia societaria, un orientamento dottrinario distingue tra la "mancata convocazione di alcuni" soltanto dei soci e "mancata convocazione dei soci" (ovvero mancata convocazione dell'assemblea) non seguita da assemblea totalitaria, ritenendo che, mentre in quest'ultimo caso ricorre un'ipotesi di nullità radicale (rectius di inesistenza), nel primo, invece, una situazione di semplice annullabilità, ai sensi dell'art. 2377 c.c.. Peraltro, in generale, si è affermato che il richiamo alla disciplina della società per azioni non sembra corretto, essendo il condominio pervaso dalla logica proprietaria a differenza della materia societaria, dove l'interesse del gruppo trova spesso maggiore tutela dell'interesse del singolo sacrificato in funzione dello scopo comune.
10.4. Altro orientamento dottrinario, al contrario, ritiene condivisibile il parallelismo con la disciplina societaria, avuto riguardo alle invocate esigenze di certezza nei rapporti tra i condomini e tra il condominio e terzi. Vi è chi sostiene che nel condominio (differentemente dalla disciplina positiva dei contratti e di quella in materia di società) l'art. 1137 c.c. assoggetterebbe ad un unico regime decadenziale le violazioni della legge e del regolamento, senza possibilità di distinzione tra annullabilità e nullità.
Non manca chi, partendo da una rilettura dell'art. 1139 c.c., che per quanto non espressamente previsto in materia di condominio rinvia alle norme sulla comunione, e dal presupposto che tale norma non è di chiusura (altrimenti sarebbe "di clausura"), ma consente un rinvio interno fra sistemi laddove sussistano elementi di sufficiente omogeneità, condividendo le cosiddette concezioni miste del condominio, giunge a condividere la concezione della "complessità sistematica", che vede nel condominio "un sistema di sistemi" e dunque "un istituto giuridico che trova la sua consistenza nell'avvalersi di regole già proprie di altri istituti, quali quelli attinenti ai rapporti fra parti di proprietà individuale e parti comuni, quelle relative all'assemblea, quelle infine che si riferiscono all'amministratore". E, quindi, con riferimento alla modalità di convocazione e gestione dell'assemblea, sono da ritenersi in considerazione, secondo ritenersi in considerazione, secondo l'autore, anche le norme del codice dettate per la società per azioni.
11.
Ritengono le Sezioni Unite, al fine di risolvere la questione di diritto e definire il contrasto, che debba privilegiarsi l'interpretazione secondo la quale la mancata comunicazione dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale, anche ad un solo dei condomini, comporta non la nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, in base alle seguenti considerazioni.
11.1. Conviene premettere che in tema di condominio negli edifici, il codice non contempla la nullità.
L'art. 1137 c.c., al comma 2, espressamente stabilisce che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare ricorso all'autorità giudiziaria: al comma 3° aggiunge che il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data di deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti.
Il breve termine di decadenza e la individuazione delle persone legittimate (ben poche) alla impugnazione dimostrano essere contemplata una ipotesi di annullabilità, posto che sia in tema di negozio (artt. 1441 e 1442 c.c.), sia in tema di delibere societarie (art. 2377, comma 2°, c.c.), il termine per la impugnazione e le persone legittimate a proporre l'azione contrassegnano le ipotesi di annullabilità; al contrario, per le ipotesi di nullità, tanto in tema di negozio (art. 1421 e 1422 c.c.) quanto in tema di delibere societarie (art. 2379 c.c.) l'azione di nullità non è soggetta a termine e, allo stesso tempo, è legittimato ad esercitarla chiunque vi ha interesse, inoltre la nullità può essere rilevata d'ufficio dal giudice.
11.2. Dottrina e giurisprudenza ravvisano l'essenza della nullità nella mancanza o nella grave anomalia di qualche elemento intrinseco dell'atto, tale da non consentire la rispondenza alla figura tipica individuata dall'ordinamento.
La nullità è considerata lo strumento con cui la legge nega fondamento a quelle manifestazioni di volontà attraverso le quali si realizza un contrasto con lo schema legale e con gli interessi generali dell'ordinamento. Di conseguenza, attraverso la sanzione della nullità, l'ordinamento, esprimendo un giudizio di meritevolezza, nega la propria tutela a programmazioni che non rispondono a valori fondamentali.
11.3. L' art. 1418 c.c. elenca una serie di ipotesi in cui il contratto, per gli specifici vizi in esso previsti -la mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso indicato dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti stabiliti dall'art. 1346- viene espressamente sanzionato con la nullità. Altre norme, poi, prevedono tale sanzione ora nello stesso codice civile, ora in leggi specifiche (cfr. art. 1418, 3° comma).
11.4. Alcune norme di legge vietano il compimento di determinati negozi, senza però stabilire la specifica sanzione in caso di inosservanza del relativo divieto. Si parla in tali ipotesi di nullità cd. virtuale, argomentandosi dal 1° comma dell'art. 1418 c.c, il quale dispone che "il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente". Ciò vuol dire che se la legge dispone diversamente, ossia una diversa sanzione (ad esempio, l'annullabilità), sarà questa sanzione a doversi applicare; se, però, non è prevista una sanzione per la violazione di una precisa norma imperativa, dovrà applicarsi quella della nullità, in quanto ciò è detto proprio nel 1° comma dell'art. 1418.
11.5. Regole esattamente inverse, invece, valgono in materia testamentaria, societaria e del lavoro: in tali ambiti, infatti, è l'annullabilità ad essere virtuale, in quanto le ipotesi di nullità sono specificamente limitate a singole e particolari ipotesi (per il testamento cfr. l'art. 606 c.c.; per le società di capitali l'art. 2332 c.c.; per il rapporto di lavoro l'art. 2126 c.c.).
12. In materia di condominio, la nullità non prevista è piuttosto una creazione della dottrina e della giurisprudenza per impedire l'efficacia definitiva delle delibere mancanti degli elementi costitutivi (o lesive dei diritti individuali): per la verità, fissare l'efficacia definitiva di una delibera gravemente viziata per difetto di tempestiva impugnazione non sembra giusto.
In assenza di specifica previsione normativa, sembra logico doversi ammettere la nullità soltanto nei casi più gravi.
12.1. Al riguardo, nell'ambito del condominio negli edifici acquista rilevanza la distinzione tra momento costitutivo e momento di gestione. Invero, l'espressione "condominio negli edifici" designa tanto il diritto individuale sulle cose, gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato, quanto l'organizzazione degli stessi proprietari, cui è affidata la gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel momento costitutivo, che riflette l'insorgenza del diritto individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio, con conseguente rilevanza della volontà individuale di ogni singolo partecipante, onde il principio è quello dell'autonomia, che si avvale dello strumento negoziale, certamente sono più gravi di quelli verificabili nel momento di gestione, che riguarda l'organizzazione del condominio per quanto attiene le sole cose comuni, dove vige il metodo collegiale e il principio maggioritario, che comportano la subordinazione della volontà dei singoli al volere dei più.
12.2. Come sopra accennato a favore della nullità della delibera per la mancata convocazione di un solo condomino, si adducono due argomenti. Anzitutto, la lettera dell'art. 1136, comma 6°, c.c., secondo cui l'assemblea non può deliberare se non consta che tutti i condomini sono stati invitati alla riunione, mediante comunicazione di cui all'art. 66, 3° comma, disp. att. c.c.. Donde l'inferenza che, in mancanza della convocazione anche di un solo condomino, non sussisterebbe il potere dell'assemblea di deliberare. Il principio maggioritario -si aggiunge- in tanto può operare in quanto tutti i condomini siano stati posti in condizioni di intervenire in assemblea, di partecipare alla discussione e alla votazione. D'altra parte, si conclude, la convocazione non attiene al solo procedimento, perché nei confronti del non convocato il procedimento non inizia e quindi non può verificarsi alcun errore in procedendo: la convocazione attiene alla sostanza della applicazione del principio maggioritario.
12.3. Gli argomenti non persuadono e nel sistema si rinvengono considerazioni contrarie di maggior peso.
Premesso che il procedimento di convocazione è unico e non si frantuma in tanti procedimenti quanti sono i singoli condomini da convocare, la lettera dell'art. 1136, comma 6°, c.c. non raffigura un ostacolo insormontabile; la norma può essere intesa, con riferimento alla funzione, nel senso che la proposizione secondo cui l'assemblea non può "validamente" deliberare se tutti i condomini non sono stati convocati, deve intendersi nel senso che, in difetto di convocazione di un condomino, la delibera non è definitivamente valida, essendo suscettibile di impugnazione (nel prescritto termine di trenta giorni).
12.4. La delibera approvata con il principio maggioritario non va confusa con la statuizione assunta con il negozio plurilaterale. Mentre il negozio plurilaterale non è valido, se non vi partecipano tutte le parti necessarie, contrassegno precipuo del principio maggioritario è la imputazione all'intero collegio di quello che è il volere della maggioranza; quindi riconoscere l'efficacia della deliberazione sulla base delle maggioranze prescritte e non necessariamente sul fondamento della volontà di tutti i partecipanti. Se in base al metodo collegiale e al principio maggioritario si vincolano anche tutti i condomini assenti o dissenzienti non deve menar scandalo la mancata convocazione di un condomino il quale, peraltro, non resta privo di tutela, poiché può impugnare quando la delibera gli viene comunicata.
12.5. Rileva poi la portata del collegato disposto degli artt. 1105, comma 3°, e 1109 n. 2 e p. ult., c.c., che, in tema di comunione, stabilisce l'impugnazione della delibera entro il termine di decadenza di trenta giorni nel caso di omessa preventiva informazione a tutti i partecipanti. E' pur vero che l'art. 1105 c.c. parla di preventiva informazione e non di convocazione. La terminologia differente si spiega con la considerazione che nella comunione non è prevista l'assemblea, ma la semplice riunione dei comproprietari interessati. Tuttavia la sostanza della norma è che il difetto di informazione -certamente assimilabile alla omessa convocazione- non configura una causa di nullità, ma di semplice annullabilità. Da qui risulta ragionevole dubitare che l'art. 1136, comma 6°, c.c., disciplinando la stessa fattispecie e usando un formula consimile, alla mancata convocazione di un condomino ricolleghi non la annullabilità ma la conseguenza più grave della nullità.
13. A queste considerazioni specifiche conviene aggiungere argomenti desunti dalla teoria degli atti giuridici.
Come sopra detto, in generale, si considera nullo l'atto quando manca ovvero è gravemente viziato un elemento costitutivo, previsto secondo la configurazione normativa. Pertanto, a causa dell'assenza ovvero del grave vizio dell'elemento considerato essenziale, l'atto si considera inidoneo a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il diritto ricollega al tipo legale, in conformità con la sua funzione economico-sociale. Per contro, si considera annullabile l'atto in presenza di carenze o di vizi ritenuti meno gravi, secondo la valutazione compiuta dall'ordinamento. Annullabile è, dunque, l'atto che non mancando degli elementi essenziali del tipo presenta vizi non gravi, che lo rendono idoneo a dare vita ad una situazione giuridica precaria, che può essere rimossa.
13.1. In tema di deliberazioni delle società di capitali, come è noto, le cause di nullità sono circoscritte (art. 2379 c.c.), in funzione della certezza dei rapporti societari, i quali riguardano un numero cospicuo di persone. Le stesse esigenze di certezza dei rapporti si rinvengono in tema di condominio negli edifici, dove i rapporti riguardano i condomini, che raffigurano un numero di persone maggiore di quelle che al singolo contratto sono interessate.
Pertanto, appare corretto e coerente con i principi limitare le cause di nullità ai vizi afferenti alla sostanza degli atti, vale a dire alla impossibilità o alla illiceità dell'oggetto. Tanto la impossibilità giuridica quanto l'illiceità dell'oggetto derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea, posto che la prima consiste nella inidoneità degli interessi contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto stabilito in concreto, e la seconda si identifica con la violazione delle norme imperative, dalle quali l'assemblea non può derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai condomini dalla legge, dagli atti di acquisto o dalle convenzioni.
13.2. La formula dell'art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel senso che per le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio si intendono le delibere assunte dall'assemblea senza l'osservanza delle forme prescritte dall'art. 1136 c.c. per la convocazione, la costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.. Sono inficiate da un vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla formazione della volontà collettiva per gestire le cose comuni. Pertanto, se gli stessi condomini interessati ritengono che dal provvedimento approvato senza l'osservanza delle forme prescritte non derivi loro un danno, manca il loro interesse a chiedere l'annullamento. Il difetto di impugnazione in termine può assumere significato di personale successiva adesione alla delibera.
13.3. Sul punto è opportuno soffermarsi brevemente. Per la verità, la configurazione della mancata convocazione del condomino come vizio procedimentale, da cui ha origine la semplice annullabilità, non significa privare della tutela il condomino non convocato. Invero, essendogli riconosciuto il potere di impugnare nel termine di trenta giorni dalla comunicazione, egli ha modo di far valere le sue ragioni. Peraltro, la configurazione proposta esclude il rischio che le delibere assembleari possano essere impugnate anche dopo il trascorrere di un lunghissimo tempo, sol perché un requisito formale non è stato osservato, con conseguenze gravissime sulla gestione del condominio.
14. Un ultimo argomento proviene dal nuovo assetto dell'art. 2739 c.c. stabilito dalla riforma societaria.
14.1. In attuazione dei principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 366/2001, il D.Lgs. 17.01.2003, n. 6, nel regolare le assemblee della società per azioni, ha dettato nuove norme sui vizi delle deliberazioni, modificando gli artt. 2377, 2378 e 2379 c.c. e aggiungendo due nuovi articoli, 2739-bis e 2739-ter, oltre l'art. 2734-bis. Il nuovo sistema ha innovato, in primo luogo, il regime di invalidità degli atti, sotto il duplice profilo della causa e degli effetti, in entrambe le fattispecie di annullabilità e nullità. In secondo luogo, ha modificato il procedimento di impugnazione delle delibere invalide, in coerenza con le nuove norme sul processo in materia di diritto societario, e affiancando all'azione reale una speciale azione personale e risarcitoria dei danni causati dalla deliberazione viziata.
14.2. Nel sistema adottato, la regola generale, come nel precedente assetto, è quella secondo cui la violazione di legge o di statuto induce la annullabilità. Invece, la nullità consegue ad una serie di violazioni particolarmente gravi della legge, e la relativa disciplina, anziché richiamare -come faceva il vecchio art. 2379- le regole generali sulla nullità dei contratti, di cui agli artt. 1421, 1422 e 1423 c. c., contiene disposizioni particolari e introduce nuove ipotesi. Le ipotesi di nullità sono tre (art. 2379) e per ciascuna è dettata una disciplina intesa al contenimento della fattispecie e delle sue conseguenze; la disciplina comune consiste nella impugnabilità da parte di chiunque vi abbia interesse nel termine di tre anni (con l'eccezione di ipotesi particolari) e alla rilevabilità d'ufficio, nei casi e nei termini previsti.
14.3. Secondo i primi commenti la riforma avrebbe privilegiato l'interesse della società alla stabilità delle delibere e l'esigenza del mercato alla stabilità dei rapporti giuridici, senza pregiudicare peraltro l'interesse dei singoli soci a non subire dei pregiudizi per l'illegalità delle delibere sociali.
15. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi espressi,
queste Sezioni Unite ritengono che debbano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o sevizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all'oggetto.
Debbano, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.

16.
Il contrasto giurisprudenziale, pertanto, va risolto affermandosi che la mancata comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea condominiale comporta non la nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, che se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, 3° comma, c.c. -decorrente per i condomini assenti dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione- è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti al condominio.
17. Il principio comporta, quindi, il rigetto del primo motivo di ricorso.
18. Anche il secondo motivo è da rigettare, perché (come sopra detto)
questa Corte ha costantemente affermato l'annullabilità ex art. 1137 c.c. della delibera il cui verbale contiene delle omissioni, anche relative alla mancata individuazione dei singoli condomini assenzienti, dissenzienti, assenti e al valore delle rispettive quote (Cass. 22.01.2000, n. 697; 29.01.1999, n. 810).
19. Infine pure il terzo motivo è infondato, perché la delibera ha riguardato non la determinazione e fissazione dei criteri legali ovvero convenzionali per la ripartizione delle spese, ma, nell'ambito di tali prefissati criteri, la ripartizione in concreto tra i condomini delle spese relative a lavori straordinari ritenuti afferenti a beni comuni (posti auto e vano ascensore) e tassa di occupazione di suolo.
E' stato sempre riconosciuto che
la delibera, assunta nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'art. 1135, n. 2 e 3, c.c. relativa alla ripartizione in concreto delle spese condominiali, ove adottata in violazione dei criteri già stabiliti, deve considerarsi annullabile, non incidendo sui criteri generali da adottare nel rispetto dell'art. 1123 c.c., e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza (trenta giorni) previsto dall'art. 1137, comma ultimo c.c. (v. Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n. 6403; 01.02.1993, n. 1213) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, sentenza 07.03.2005 n. 4806).

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