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AGGIORNAMENTO AL 23.04.2019 |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza amministrativa ha stabilito alcune
condizioni in presenza della quali si ritiene legittima la
cessione di cubatura. Le suddette condizioni in sintesi
attengono a:
- ubicazione degli immobili nella stessa zona omogenea;
- contiguità degli immobili per gli effetti urbanistici cioè
ubicati della medesima zona e aventi la medesima
destinazione residenziale;
- identità delle opere di urbanizzazione, realizzate per l’intera
zona, poste al servizio del fondo cedente e del fondo
beneficiario della cubatura;
- non alterazione del carico urbanistico della zona, e immutata
densità territoriale complessiva, a seguito della
ridistribuzione della volumetria tra i due fondi.
La contiguità viene intesa come una effettiva e
significativa vicinanza,
che tuttavia non implica necessariamente che gli immobili
siano confinanti. La contiguità va intesa in senso giuridico
piuttosto che fisico.
Nel concorso di tutte le altre sopra dette condizioni, non è
di per sé causa ostativa della cessione di cubatura la sola
mancanza di contiguità fisica dei fondi e la circostanza che
tra essi si frappongano altri lotti (nel caso deciso dalla
citata sentenza Cons. St. n. 1398/2016, i fondi sono stati
ritenuti contigui per gli effetti urbanistici, sebbene posti
ad distanza di 140 metri tra di loro con frapposti altri
quattro lotti).
A tale giurisprudenza il Collegio ritiene di aderire,
ritenendo non convincente l’opposta tesi che valuta solo
l’assenza di contiguità svincolata dagli altri elementi
suddetti (così Cons. St., VI, 14.04.2016 n. 1515, riferita
peraltro a un caso in cui vi era una distanza di 300 metri
tra i due fondi), o che ritiene ostativa l’assenza di
contiguità quando una specifica norma del regolamento
edilizio richieda che i fondi siano confinanti al fine
dell’asservimento.
---------------
... per la riforma della
sentenza 26.03.2015 n. 885
del Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
sezione staccata di Catania (Sezione Prima), resa tra le
parti.
...
5. Con il primo motivo dell’appello si critica la
sentenza gravata perché avrebbe erroneamente ritenuto
sussistenti i presupposti che considerano i due fondi
contigui al fine della cessione di cubatura.
5.1. Il mezzo è infondato.
La giurisprudenza amministrativa ha stabilito alcune
condizioni in presenza della quali si ritiene legittima la
cessione di cubatura. Le suddette condizioni in sintesi
attengono a:
- ubicazione degli immobili nella stessa zona omogenea;
- contiguità degli immobili per gli effetti urbanistici cioè
ubicati della medesima zona e aventi la medesima
destinazione residenziale;
- identità delle opere di urbanizzazione, realizzate per l’intera
zona, poste al servizio del fondo cedente e del fondo
beneficiario della cubatura;
- non alterazione del carico urbanistico della zona, e immutata
densità territoriale complessiva, a seguito della
ridistribuzione della volumetria tra i due fondi (Cons. St.,
VI, 08.04.2016 n. 1398; v. inoltre Cons. St., VI, 21.11.2016
n. 4861).
La contiguità viene intesa come una effettiva e
significativa vicinanza (Cons. St., V, 23.03.2004 n. 1525),
che tuttavia non implica necessariamente che gli immobili
siano confinanti. La contiguità va intesa in senso giuridico
piuttosto che fisico.
Nel concorso di tutte le altre sopra dette condizioni, non è
di per sé causa ostativa della cessione di cubatura la sola
mancanza di contiguità fisica dei fondi e la circostanza che
tra essi si frappongano altri lotti (nel caso deciso dalla
citata sentenza Cons. St. n. 1398/2016, i fondi sono stati
ritenuti contigui per gli effetti urbanistici, sebbene posti
ad distanza di 140 metri tra di loro con frapposti altri
quattro lotti).
A tale giurisprudenza il Collegio ritiene di aderire,
ritenendo non convincente l’opposta tesi che valuta solo
l’assenza di contiguità svincolata dagli altri elementi
suddetti (così Cons. St., VI, 14.04.2016 n. 1515, riferita
peraltro a un caso in cui vi era una distanza di 300 metri
tra i due fondi), o che ritiene ostativa l’assenza di
contiguità quando una specifica norma del regolamento
edilizio richieda che i fondi siano confinanti al fine
dell’asservimento (così Cons. St., V, 20.08.2013 n. 4195).
5.2. Nel caso di specie il Tar ha accertato la sussistenza
delle condizioni sopra richiamate e si è collocato, con la
sua decisione, sulla scia della sopra citata e qui condivisa
giurisprudenza del Consiglio di Stato con l’ulteriore
sottolineatura che i fondi in qui in esame distano l’uno
dall’altro 128 mt.
Il primo motivo della appello è quindi infondato (CGARS,
sentenza non definitiva 08.04.2019 n. 314 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Sezione, conformemente ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, ha già avuto occasione di affermare come
il concetto di contiguità non debba intendersi nel senso
della adiacenza, ossia della mera continuità fisica tra
tutte le particelle catastali interessate, bensì come effettiva e significativa
vicinanza e prossimità tra i fondi asserviti per raggiungere
la cubatura desiderata, secondo una nozione di tale
requisito che, in ossequio ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, guarda non alla mera condizione fisica
bensì giuridica dei fondi e, dunque, al loro inserimento in
uno stesso contesto territoriale, rappresentato nel caso di
specie da tutte le aree ricomprese nel medesimo foglio 4 del
N.C.E.U. in cui figurano le particelle interessate, con
conseguente irrilevanza del solo dato numerico della
distanza lineare tra i fondi medesimi, su cui, invece,
sostanzialmente si concentrano le argomentazioni di parte
ricorrente.
Ugualmente non appare determinante la circostanza che tra i
terreni considerati vi siano strade e diversi lotti, alcuni
dei quali edificati, dovendosi guardare alle caratteristiche
dell’intero e più ampio ambito territoriale in cui l’area
cedente e l’area ricevente sono inserite.
---------------
Con ricorso notificato il 21.03.2013 e depositato il 29
dello stesso mese, le ricorrenti –proprietarie, ciascuna per
i propri diritti, di un immobile sito nel Comune di Giardini
di Naxos, via ... n. 67, consistente in un terreno distinto
nel N.C.E.U. al foglio 4, particella 1622, su cui insiste un
fabbricato per civile abitazione ove le stesse risiedono–
impugnavano la concessione edilizia in epigrafe con cui il
Comune resistente aveva autorizzato Vi. e Ca.Pa. a
realizzare sul fabbricato già costruito a più riprese sul
terreno di proprietà di quest’ultimi, distinto nel N.C.E.U.
al foglio 4, particelle 1979, 1977 e 1975, confinante e
fronteggiante quello delle ricorrenti, un ulteriore
intervento volto all’esecuzione di “lavori di ampliamento
in sopraelevazione”.
Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di impugnazione:
1. Illegittimità della cessione/trasferimento di volumetria per
violazione del principio di contiguità/vicinanza dei fondi;
Eccesso di potere per errore dei presupposti; Violazione
delle prescrizioni del P.R.G. del Comune di Giardini di
Naxos in tema di densità edilizia fondiaria;
...
3. Passando, quindi, all’esame del merito della causa, il
ricorso è infondato e non può, dunque, essere accolto.
Con il primo motivo di doglianza sostiene parte
ricorrente che la distanza tra i due punti più vicini
dell’area asservita e di quella asservente sarebbe pari a
ben 128 metri lineari (in tal senso la relazione tecnica
giurata a firma dell’ing. Fa., allegata al ricorso) e le
aree medesime sarebbero separate da più strade e diversi
lotti, alcuni liberi ed alcuni edificati, come da stralcio
catastale (anch’esso in atti), con conseguente illegittimità
della concessione impugnata, per mancata contiguità dei
fondi interessati dalla cessione di cubatura.
Osserva al riguardo il Collegio come risulti dalla
documentazione versata in atti non solo un’omogeneità
urbanistica dell’area cedente e di quella ricevente,
entrambe ricomprese nella medesima zona territoriale “B2” di
cui al vigente P.R.G. del Comune di Giardini di Naxos
(circostanza non contestata dalla ricorrente e, viepiù,
avvalorata dallo stralcio di tale P.R.G. versato in atti),
bensì un’uniformità in senso sostanziale dell’area
territoriale nel cui ambito tali terreni si trovano, tale da
far ritenere sussistente il requisito della contiguità dei
fondi, di cui, invece, le ricorrenti lamentano il difetto.
La Sezione, conformemente ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, ha già avuto occasione di affermare come
il concetto di contiguità non debba intendersi nel senso
della adiacenza, ossia della mera continuità fisica tra
tutte le particelle catastali interessate (in tal senso,
sentenza n. 4113/2010), bensì come effettiva e significativa
vicinanza e prossimità tra i fondi asserviti per raggiungere
la cubatura desiderata, secondo una nozione di tale
requisito che, in ossequio ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, guarda non alla mera condizione fisica
bensì giuridica dei fondi e, dunque, al loro inserimento in
uno stesso contesto territoriale, rappresentato nel caso di
specie da tutte le aree ricomprese nel medesimo foglio 4 del
N.C.E.U. in cui figurano le particelle interessate, con
conseguente irrilevanza del solo dato numerico della
distanza lineare tra i fondi medesimi, su cui, invece,
sostanzialmente si concentrano le argomentazioni di parte
ricorrente.
Ugualmente non appare determinante la circostanza che tra i
terreni considerati vi siano strade e diversi lotti, alcuni
dei quali edificati, dovendosi guardare alle caratteristiche
dell’intero e più ampio ambito territoriale in cui l’area
cedente e l’area ricevente sono inserite.
Il Collegio -nel ritenere, dunque, che la legittimità della
cessione di cubatura debba essere valutata caso per caso, in
relazione alla realtà effettuale dei luoghi ed al carico di
edificazione di detto ambito territoriale- è dell’avviso che
nel caso di specie l’asservimento della potenzialità
edificatoria delle particelle 1979, 1977 e 1975 alla
particella 666 non alteri l’ordinato ed armonioso assetto
dell’abitato, non risultando superato nei limiti massimi
l’indice di densità territoriale da rapportarsi sia
all’intera superficie sottoposta alla medesima vocazione
urbanistica sia alla concreta insistenza di costruzioni (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 26.03.2015 n. 885 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Soggetto tenuto al pagamento del contributo straordinario
per concessioni edilizie in deroga in caso di procedimento
SUAP.
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Edilizia - Concessioni in deroga – Contributo
straordinario – Soggetto obbligato - Procedimento SUAP –
Individuazione.
Il contributo straordinario pari
almeno al 50% del maggior valore acquistato dal suolo nel
caso di permesso di costruire rilasciato in deroga al p.r.g.
(art. 16 comma 4, lett. d) ter, T.U. edilizia) va
corrisposto anche in caso di varianti in deroga per attività
produttive, nonostante le norme sul c.d procedimento SUAP
non lo richiamino espressamente (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che: la previsione dell’obbligo di
contribuzione di cui all’art. 16, comma 4, lett. d-ter,
d.P.R. n. 380 del 2001, sebbene –come visto– di carattere
straordinario, presenta nella materia edilizia
un’applicazione generalizzata; del resto, nella disciplina
dell’art. 8, d.P.R. n. 160 del 2010 risulta assente una
espressa previsione in ordine all’esclusione
dell’applicabilità al procedimento Suap del prelievo
contributivo, necessaria al fine di ritenere integrato il
criterio di specialità; così come, la medesima disciplina,
piuttosto che introdurre una normativa derogatoria in
materia di obbligo contributivo, non fa che limitarsi a
disciplinare una modalità particolare per la presentazione
della domanda e per l’espletamento del relativo procedimento
di rilascio del titolo edilizio, con previsioni agevolative
ai fini dell’implementazione e dello sviluppo delle attività
produttive; ad ogni modo, non risulta neppure ipotizzabile
una previsione di esonero totale dal contributo
straordinario, atteso che la riserva di cui al comma 4-bis
dell’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001 (“fatte salve le
diverse disposizioni”), facendo riferimento solo a “quanto
previsto al secondo periodo della lett. d-ter del comma 4”,
riconosce alle legislazioni regionali ed agli strumenti
urbanistici generali comunali un ambito di operatività
limitato ai contenuti indicati in tale disposizione,
individuabili esclusivamente nella percentuale di
ripartizione, nelle modalità di versamento del contributo
perequativo e nelle finalità di utilizzo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.04.2019 n. 2382 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
1. Con ricorso dinanzi al Tar Veneto (R.G. n.
1330/2017), la società Ga. s.p.a., impugnava, chiedendone
l’annullamento, il provvedimento del Comune di Mirano del
31.07.2017 con il quale il dirigente del Servizio edilizia
privata convenzionata dell’Area 2 comunicava che il rilascio
del permesso di costruire per l’ampliamento di un fabbricato
industriale in viale ... 27 era subordinato al pagamento di
un contributo ai sensi dell’art.
16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. 06.06.2001 n. 380 di
euro 346.828,40.
Chiedeva inoltre disporsi l’accertamento della non debenza
di tale contributo, nonché la condanna al risarcimento del
danno derivato dal ritardo nel rilascio di detto permesso di
costruire.
2. Il Tar Veneto, Sezione II, dopo aver invitato il Comune
-con ordinanza del 16.02.2018- a depositare in giudizio la
perizia di stima del 31.07.2017 con la quale era stato
determinato il maggior valore dell’area ai fini della
applicazione dell’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n.
380/2001, ha respinto –con
sentenza 11.04.2018 n. 382- il ricorso ritenendo
che la richiesta del contributo in tal modo calcolato
sarebbe stata giustificata dal fatto che l’intervento
edilizio richiesto comportava una variante urbanistica.
Secondo il Tribunale, in particolare, l’art. 16, comma 4,
lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001 fa riferimento ad ogni
ipotesi di variante urbanistica, quindi anche a quelle
approvate con la procedura dello sportello unico.
6. L’appello è infondato e deve pertanto essere respinto.
7. Con l’unico motivo di appello viene sostanzialmente
riproposta la censura avanzata dalla società nel primo grado
di giudizio, con cui si sostiene che l’intervento edilizio
richiesto ed assentito dal Comune non dovrebbe essere
assoggettato al contributo straordinario perequativo di cui
all’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001 in
quanto il titolo che lo assisteva era stato rilasciato ai
sensi del dell’art. 7 d.P.R. 07.09.2010, n. 160, norma
speciale che non prevede la possibilità di procedere alla
richiesta in questione.
In particolare, ad avviso dell’appellante, l’intervento
richiesto sfuggirebbe all’applicazione del d.P.R. n.
380/2001, in quanto il decreto n. 160/2010, avendo un ambito
di applicazione più ristretto rispetto a quello del decreto
n. 380/2001 che disciplina l’attività edilizia in generale,
costituirebbe normativa speciale (e sopravvenuta). Pertanto,
nel caso di specie l’intervento non sarebbe assoggettabile
al pagamento del contributo richiesto, in quanto, il d.P.R.
n. 160/2010, unica normativa applicabile, non prevede alcuna
corresponsione di contributo in sede di rilascio del titolo
abilitante la realizzazione dell’intervento produttivo,
nemmeno ove esso si ponga in variante allo strumento
urbanistico vigente.
7.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
7.2. Premettendo una breve ricostruzione dei fatti posti
alla base del provvedimento impugnato, si rammenta che:
i) in data 28.11.2012 la società Ga. s.p.a. presentava al Comune di
Mirano domanda per l’avvio della procedura SUAP (Sportello
Unico per le Attività Produttive), ai sensi degli artt. 7 e
segg. d.P.R. 07.09.2010 n. 160, al fine di ottenere il
provvedimento conclusivo del procedimento unico in variante
allo strumento urbanistico per la realizzazione di un
ampliamento del fabbricato industriale sito in viale Venezia
n. 27 adibito all’attività produttiva svolta dalla stessa;
ii) nella conferenza di servizi decisoria, tenutasi il 27.06.2013 e
conclusasi l’11.07.2013, veniva rilasciato il parere
favorevole alla approvazione del progetto comportante la
variante urbanistica allo strumento urbanistico con annessa
convenzione; variante che, con deliberazione n. 53 del
18.07.2013, veniva approvata dal Consiglio Comunale;
iii) con nota del 30.05.2016 l’Amministrazione comunicava l’avvio
del procedimento di decadenza della variante urbanistica
approvata con la predetta deliberazione del Consiglio
Comunale;
iv) con nota inviata il 21.12.2016 il Comune faceva presente di
ritenere che il rilascio del provvedimento conclusivo del
procedimento unico dovesse essere accompagnato dalla
corresponsione di un contributo straordinario ai sensi
dell’art. 16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. 06.06.2001, n.
380 commisurato all’aumento del valore del terreno;
v) con provvedimento del 31.07.2017 il dirigente del
Servizio edilizia privata convenzionata dell’Area 2 del
Comune di Mirano subordinava il rilascio del permesso di
costruire al pagamento di detto contributo, per un importo
che, in base al maggior valore dell’immobile conseguito
dalla variante urbanistica, ammonta ad euro 346.828,40,
nonché alla sottoscrizione di convenzione urbanistica.
7.3. Ciò considerato, il Collegio rammenta che,
ai sensi
dell’art. 16 (“Contributo per il rilascio del permesso di
costruire”), del d.P.R. n. 380/2001, “Salvo quanto
disposto dall'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso
di costruire comporta la corresponsione di un contributo
commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione
nonché al costo di costruzione”.
È pertanto previsto, ai fini del rilascio del titolo, il
pagamento obbligatorio di un contributo, comunemente
ritenuto un corrispettivo di natura non tributaria a titolo
di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme di benefici che la nuova costruzione
consegue ovvero una compartecipazione del privato alla spesa
pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 30.08.2018, n.
12; Cons. Stato, Sez. IV, 27.02.2018, n. 1187).
Va dato atto, peraltro, che secondo la previsione del quarto
comma del medesimo articolo: “l'incidenza degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria è stabilita con
deliberazione del consiglio comunale in base alle tabelle
parametriche che la regione definisce per classi di comuni
in relazione: … d-ter) alla valutazione del maggior valore
generato da interventi su aree o immobili in variante
urbanistica, in deroga o con cambio di destinazione d'uso.
Tale maggior valore, calcolato dall'amministrazione
comunale, è suddiviso in misura non inferiore al 50 per
cento tra il comune e la parte privata ed è erogato da
quest'ultima al comune stesso sotto forma di contributo
straordinario, che attesta l'interesse pubblico, in
versamento finanziario, vincolato a specifico centro di
costo per la realizzazione di opere pubbliche e servizi da
realizzare nel contesto in cui ricade l'intervento, cessione
di aree o immobili da destinare a servizi di pubblica
utilità, edilizia residenziale sociale od opere pubbliche”.
Viene in tal modo previsto, più che un criterio di calcolo
degli oneri di urbanizzazione “ordinari”, un
ulteriore onere rapportato all’aumento di valore che le aree
e gli immobili hanno conseguito per effetto di varianti
urbanistiche, deroghe o mutamenti di destinazione d’uso. Si
tratta, pertanto, di un “contributo straordinario”
diverso ed aggiuntivo rispetto agli oneri di urbanizzazione,
che va ad aggiungersi nei casi in cui a monte
dell’intervento vi sia stata una determinata scelta
pianificatoria di natura eccezionale.
Peraltro, con riferimento a quanto previsto dal secondo
periodo della citata lettera d-ter, il comma 4-bis prevede
altresì che “sono fatte salve le diverse disposizioni
delle legislazioni regionali e degli strumenti urbanistici
generali comunali”.
Ai sensi del quinto comma, infine, “Nel caso di mancata
definizione delle tabelle parametriche da parte della
regione e fino alla definizione delle tabelle stesse, i
comuni provvedono, in via provvisoria, con deliberazione del
consiglio comunale, secondo i parametri di cui al comma 4,
fermo restando quanto previsto dal comma 4-bis”.
7.3.1. Parallelamente, occorre considerare che, ai sensi
dell'articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25.06.2008, n.
112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008,
n. 133, è stato adottato il d.P.R. 07.09.2010, n. 160 “regolamento
per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo
sportello unico per le attività produttive” che,
all’art. 8 (rubricato “Raccordi procedimentali con
strumenti urbanistici”), prevede la possibilità per
l'interessato, nei comuni in cui lo strumento urbanistico
non individua aree destinate all'insediamento di impianti
produttivi o individua aree insufficienti (fatta salva
l'applicazione della relativa disciplina regionale), di
richiedere al responsabile del SUAP la convocazione di
apposita conferenza di servizi.
Si prevede altresì che, nel caso in cui l’esito della
conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento
urbanistico, ed ove sussista l'assenso della Regione
espresso in quella sede, il verbale viene sottoposto alla
votazione del Consiglio comunale per l’approvazione.
7.4. Alla luce di tale compendio normativo, risulta al
Collegio che il Comune di Mirano abbia fatto corretta
applicazione della richiamata disciplina, dovendo escludersi
che l’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010 costituisca norma
speciale derogatoria e pertanto che, essendo quest’ultima
priva di una previsione in merito alla esistenza
dell’obbligo contributivo, sia intenzionalmente diretta ad
impedirne la vigenza. Invero:
a) la previsione dell’obbligo di contribuzione di cui all’art. 16,
comma 4, lett. d-ter, d.P.R. n. 380/01, sebbene –come visto–
di carattere straordinario, presenta nella materia edilizia
un’applicazione generalizzata;
b) del resto, nella disciplina dell’art. 8 del d.P.R. n. 160/2010,
invocata dall’appellante, risulta assente una espressa
previsione in ordine all’esclusione dell’applicabilità al
procedimento Suap del prelievo contributivo, necessaria al
fine di ritenere integrato il criterio di specialità;
c) così come, la medesima disciplina, piuttosto che introdurre una
normativa derogatoria in materia di obbligo contributivo,
non fa che limitarsi a disciplinare una modalità particolare
per la presentazione della domanda e per l’espletamento del
relativo procedimento di rilascio del titolo edilizio, con
previsioni agevolative ai fini dell’implementazione e dello
sviluppo delle attività produttive;
d) ad ogni modo, non risulta neppure ipotizzabile una previsione di
esonero totale dal contributo straordinario, atteso che la
riserva di cui al comma 4-bis dell’art. 16 d.PR. n. 380/2001
(“fatte salve le diverse disposizioni”), facendo
riferimento solo a “quanto previsto al secondo periodo
della lett. d-ter del comma 4”, riconosce alle
legislazioni regionali ed agli strumenti urbanistici
generali comunali un ambito di operatività limitato ai
contenuti indicati in tale disposizione, individuabili
esclusivamente nella percentuale di ripartizione, nelle
modalità di versamento del contributo perequativo e nelle
finalità di utilizzo.
7.5. Deve pertanto concludersi che al rilascio del permesso
di costruire, intervenuto in seguito all’approvazione della
variante urbanistica SUAP, trova applicazione, anche nella
Regione Veneto, l’obbligo di pagamento del contributo
straordinario generato dal maggior valore dell’area. L’art.
16, comma 4, lett. d-ter), d.P.R. n. 380/2001, invero, trova
applicazione indistintamente per tutti i procedimenti che
comportano un maggior valore generato dall’area da
interventi su aree o immobili in variante urbanistica, non
facendo eccezione quello tenuto mediante attivazione del
procedimento SUAP.
7.5.1. Del resto, in questo senso depone anche il tenore
della circolare regionale Veneto n. 1 del 20.01.2015 (“procedure
urbanistiche semplificate di sportello unico per le attività
produttive e disposizioni in materia urbanistica, di
edilizia residenziale pubblica”, in B.U.R. n. 13 del
03.02.2015), esplicativa della l.r. Veneto n. 55/2012 in
materia di SUAP, secondo cui anche in ipotesi di permesso a
costruire rilasciato dal SUAP in variante al PRG su area da
trasformarsi da agricola in destinazione produttiva, occorre
condizionare il rilascio alla sottoscrizione della
convenzione e dell’ottemperanza a tutte le condizioni e
prescrizioni nella stessa fissate, “nonché della corretta
corresponsione del pagamento del contributo di costruzione
ex art. 16 del DPR 380/2001 secondo gli importi e le
modalità fissati dal Comune”.
8. In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello
deve essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comma 4, lett. d-ter),
dell'art. 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 fa riferimento ad
ogni ipotesi di variante urbanistica ossia anche alle
varianti approvate con la procedura dello sportello unico (suap).
---------------
... per l'annullamento:
1) del provvedimento 31.07.2017 con il quale il Dirigente del
Servizio Edilizia Privata Convenzionata dell'Area 2 del
Comune di Mirano ha comunicato che il rilascio del permesso
di costruire per l'ampliamento di un fabbricato industriale
in viale ... 27 era subordinato al pagamento di un
contributo ai sensi dell'art. 16, comma 4, lett. d)-ter, DPR
06.06.2001 n. 380 di Euro 346.828,40;
2) accertamento della non debenza del contributo di cui sub. 1) per
il rilascio del permesso di costruire;
3) risarcimento del danno derivato dal ritardo nel rilascio del
permesso di costruire di cui sub. 1).
...
Parte ricorrente ha impugnato il provvedimento che subordina
il rilascio del permesso di costruire al pagamento
dell’importo del contributo di costruzione determinato in
base al maggior valore dell'immobile derivante dalla
variante urbanistica ai sensi dell'art. 16, comma 4, lett.
d-ter), DPR 06.06.2001 n. 380 di Euro 346.828,40.
Il ricorso è infondato, essendo il contributo richiesto in
relazione ad intervento in variante urbanistica. Il comune
di Mirano ha fatto corretta applicazione del quarto comma,
lettera d-ter, dell'art. 16 del d.p.r. n. 380 del 2001 che
fa riferimento ad ogni ipotesi di variante urbanistica ossia
anche alle varianti approvate con la procedura dello
sportello unico, come nel caso di specie. È stato
correttamente richiesto un contributo straordinario nella
misura del 50 per cento dell'aumento di valore dell'area.
Ne consegue anche l'infondatezza della domanda risarcitoria (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 11.04.2018 n. 382 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
APPALTI:
Sulla censura circa il
mancato utilizzo di una centrale di committenza o di
un’aggregazione ex art. 37, comma 3, del Dlgs. 50/2016 sul
presupposto che, in relazione al valore della gara, il
Comune dovrebbe essere considerato una stazione appaltante
priva dei requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del
Dlgs. 50/2016.
Per quanto riguarda i requisiti di
qualificazione di cui all’art. 38 del Dlgs. 50/2016, finché
non sarà approvata la disciplina attuativa di tale norma non
vi sono i presupposti per formulare un giudizio di
inadeguatezza della stazione appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale,
previa iscrizione nell’anagrafe unica dell’ANAC, può bandire
e gestire come autonoma stazione appaltante tutte le
procedure di gara a cui sia interessato, senza che questo
possa mettere a rischio l’aggiudicazione.
Occorre infatti sottolineare che la violazione del principio
di aggregazione e centralizzazione delle committenze, anche
nei casi previsti dall’art. 37, comma 4, del Dlgs. 50/2016,
non è sanzionabile con l’annullamento dell’intera procedura
di gara in mancanza di parametri precostituiti che
consentano di misurare la sproporzione tra la complessità
della procedura e le competenze tecniche della stazione
appaltante.
Questi parametri potranno essere forniti solo dal decreto
che individuerà i requisiti tecnico-organizzativi di cui
all’art. 38, comma 2, del Dlgs. 50/2016 per l’iscrizione
nell’elenco delle stazioni appaltanti qualificate.
---------------
1. Il Comune di Remedello ha pubblicato all’albo pretorio
on-line dal 27.04.2018 al 15.06.2018 un avviso esplorativo
per sollecitare manifestazioni di interesse alla
partecipazione a una procedura negoziata ex art. 36, comma
2-b, del Dlgs. 18.04.2016 n. 50 per la concessione
trentennale della gestione della farmacia comunale.
2. Nel suddetto avviso, il valore annuo della concessione è
stato indicato in € 154.000 (IVA esclusa). È stato inoltre
precisato che il Comune intende incamerare una parte di
questo valore mediante un triplice prelievo: (a) sotto forma
di contributo una tantum al momento dell’aggiudicazione (€
40.000); (b) con un canone annuo indicizzato (€ 2.000); (c)
con un canone annuo di gestione in percentuale sul volume di
affari annuo della farmacia, nella misura indicata
nell’offerta e comunque non inferiore allo 0,5% (oltre
all’IVA) che costituisce la base di gara.
3. Come puntualmente ricordato nell’avviso esplorativo, la
società titolare dell’unica farmacia privata esistente nel
territorio comunale aveva impugnato l’istituzione della
farmacia comunale davanti al TAR Brescia, il quale con
sentenza n. 313 del 06.03.2017 ha respinto il ricorso. È
pendente l’appello in Consiglio di Stato (RG 4305/2017), ma
senza sospensione della sentenza di primo grado.
4. In esito alla gara, condotta con il criterio dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, il Comune, con
determinazione del responsabile dell’Area Finanziaria n. 148
del 29.08.2018, ha disposto l’aggiudicazione della
concessione a favore della controinteressata Mo.Fa. srl,
unico soggetto a rispondere alla lettera di invito su tre
che avevano manifestato interesse.
5. Contro l’aggiudicazione, e contro tutti gli atti di gara,
ha proposto impugnazione ancora una volta la società
titolare dell’unica farmacia privata esistente nel
territorio comunale. Oltre all’annullamento degli atti
impugnati è stato chiesto il risarcimento del danno.
6. Le censure sono sintetizzabili come segue:
...
(ii) mancato utilizzo di una centrale di committenza o di
un’aggregazione ex art. 37, comma 3, del Dlgs. 50/2016, sul
presupposto che, in relazione al valore della gara, il
Comune dovrebbe essere considerato una stazione appaltante
priva dei requisiti di qualificazione di cui all’art. 38 del
Dlgs. 50/2016;
...
Sulla qualificazione della stazione appaltante
22. Per quanto riguarda i requisiti di qualificazione di
cui all’art.
38 del Dlgs. 50/2016, finché non sarà approvata
la disciplina attuativa di tale norma non vi sono i
presupposti per formulare un giudizio di inadeguatezza della
stazione appaltante.
Di conseguenza, nel periodo transitorio ogni ente locale,
previa iscrizione nell’anagrafe unica dell’ANAC, può bandire
e gestire come autonoma stazione appaltante tutte le
procedure di gara a cui sia interessato, senza che questo
possa mettere a rischio l’aggiudicazione.
23. Occorre infatti sottolineare che la violazione del
principio di aggregazione e centralizzazione delle
committenze, anche nei casi previsti dall’art.
37, comma 4, del Dlgs. 50/2016, non è
sanzionabile con l’annullamento dell’intera procedura di
gara in mancanza di parametri precostituiti che consentano
di misurare la sproporzione tra la complessità della
procedura e le competenze tecniche della stazione
appaltante.
Questi parametri potranno essere forniti solo dal decreto
che individuerà i requisiti tecnico-organizzativi di cui
all’art.
38, comma 2, del Dlgs. 50/2016 per l’iscrizione
nell’elenco delle stazioni appaltanti qualificate (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.03.2019 n. 266 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio rileva come
nelle controversie attinenti alla determinazione e alla
liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione l'azione volta alla declaratoria del
diritto dell'interessato alla restituzione delle somme
indebitamente versate può essere proposta a prescindere
dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene
negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento
di un rapporto obbligatorio pecuniario sottratto ai termini
di decadenza previsti per l’impugnazione del provvedimento
amministrativo.
---------------
Il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione per le opere oggetto di una concessione in
variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due
titoli edilizi assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al momento del
rilascio del titolo originario.
Per la concessione in variante, però, la quota percentuale
della parte del contributo commisurato al costo di
costruzione delle opere ad essa riferite deve essere
calcolata con riferimento alle norme vigenti al momento del
rilascio della variante stessa e, come detto, limitatamente
alle opere che ne costituiscono oggetto, escludendo cioè
quelle già considerate (e quantificate) al momento del
rilascio della concessione originaria.
Con la concessione in variante il Comune deve quindi
determinare, in via di conguaglio gli oneri e il
corrispondente contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle
sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo
parametro vigente al momento del rilascio del titolo in
variante.
Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi
come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla
società ricorrente.
---------------
... per l'annullamento
dell'ingiunzione di pagamento prot. 13731 del 13.05.2015 con
la quale il Comune di Campobasso ha intimato alla ricorrente
di pagare la somma integrativa di euro 141.968,10 a titolo
di rate di oneri di urbanizzazione, monetizzazione degli
standard, sanzioni per ritardato pagamento e interessi
legali, preavvertendo che in caso di mancata percezione
della suddetta somma procederà alla riscossione coattiva
della stessa, di ogni atto presupposto, connesso e/o
conseguente nonché per la condanna del Comune di Campobasso
alla restituzione delle somme corrisposte dalla ricorrente
in eccedenza rispetto a quanto dovuto a titolo di oneri di
urbanizzazione costo di costruzione e monetizzazione degli
standard afferenti l'intervento edilizio approvato con il
permesso di costruire n. 61 del 07.06.2010, poi modificato con
plurime varianti.
...
La Ed.Ed.Im. srl otteneva, in data 07.06.2010, il
permesso di costruire n. 61/2010 per la realizzazione di un
fabbricato destinato ad attività ricettiva–residence in
Campobasso alla via ....
Successivamente con permesso di costruire n. 32 del
02.02.2011, SCIA prot. n. 17267 del 10.08.2012, SCIA prot.
24551 del 10.9.2014 e permesso di costruire n. 100 del
18.09.2014 venivano autorizzate una serie di varianti al fine
di procedere al cambio di destinazione d’uso dell’intero
edificio in residenziale, ad eccezione di parte del primo
piano che manteneva la destinazione turistica; si procedeva,
poi, alla modifica della sistemazione esterna del fabbricato
e di alcuni impianti ed elementi interni.
Da ultimo, con
permesso di costruire n. 100 del 18.09.2014 il Comune
accordava la modifica del sottotetto ed il suo recupero a
fini residenziali.
A questo punto, con il provvedimento n. 22416 del
26.10.2012, il Comune disponeva che per il cambio di
destinazione d’uso assentito con la predetta SCIA la
ricorrente doveva corrispondere una quota integrativa degli
oneri di urbanizzazione pari ad euro 35.776,92 ed una quota
di costo di costruzione pari ad euro 587,57.
Successivamente, con il provvedimento prot. n. 13731 del
13.05.2015 il Comune ingiungeva alla ricorrente il pagamento
della somma di euro 141.968,10 a titolo di ratei per oneri
di urbanizzazione e monetizzazione standard non pagati,
oltre a sanzioni ed interessi.
...
Il ricorso è fondato per le considerazioni che seguono.
Come già sopra rilevato, la presente controversia si
incentra sull’assunto della società ricorrente secondo cui
gli oneri già corrisposti per la destinazione ricettivo-alberghiera dell’immobile sarebbero superiori a quelli
dovuti per la nuova destinazione residenziale ottenuta
grazie alle previsioni del c.d. piano casa sicché non vi
sarebbe alcuna somma ulteriore da versare quanto piuttosto
un credito restitutorio per la differenza versata in
eccedenza.
Più nel dettaglio, a seguito del cambio di destinazione
d’uso del fabbricato da ricettivo-alberghiero a
residenziale, il Comune aveva erroneamente rideterminato in
eccesso sia il costo di costruzione che gli oneri di
urbanizzazione dovuti; anche la monetizzazione degli
standard era stata determinata in maniera errata in quanto
il Comune non aveva considerato né le aree già vincolate
dalla ricorrente né gli standard già previsti dal PRG per la
zona di intervento; non le era stato, infine, consentito di
cedere, ove occorrenti, le ulteriori aree nella sua
disponibilità.
Il Comune, all’opposto, riteneva dovuti gli oneri di
urbanizzazione e il costo di costruzione per il cambio di
destinazione d’uso, senza possibilità di compensazioni con
quanto precedentemente corrisposto, a motivo della natura
speciale e derogatoria del c.d. piano casa.
Più nel dettaglio, per il cambio di destinazione d’uso del
fabbricato sarebbe stato correttamente applicato il
coefficiente relativo al mutamento di destinazione d’uso
(euro 21,22 mq) in luogo di quello relativo a nove
costruzioni per una superficie da calcolarsi correttamente
in 1,686 mq. Anche l’importo richiesto per la monetizzazione
degli standard sarebbe corretto atteso che l’edificio di cui
è causa ricade in zona modificata da verde pubblico a zona a
servizi generali cittadini che, una volta utilizzata per la
costruzione di abitazioni private, cesserebbe la funzione di
supporto al PRG; inoltre, a fronte della nuova destinazione
residenziale –abitativa dovrebbero necessariamente essere
reperite e cedute le aree a standard alla collettività ai
sensi dell’art 3 del D.M. n. 1444/1968.
Ciò premesso, il Collegio, nel ribadire quanto già rilevato
con propria sentenza non definitiva circa l’infondatezza
delle eccezioni preliminari sollevate dal Comune, rileva
come nelle controversie attinenti alla determinazione e alla
liquidazione del contributo per oneri di urbanizzazione e
costo di costruzione l'azione volta alla declaratoria del
diritto dell'interessato alla restituzione delle somme
indebitamente versate può essere proposta a prescindere
dall'impugnazione o dall'esistenza dell'atto con cui viene
negato il rimborso, trattandosi di giudizio di accertamento
di un rapporto obbligatorio pecuniario sottratto ai termini
di decadenza previsti per l’impugnazione del provvedimento
amministrativo (TAR L’Aquila, sez. I, 29.12.2017 n. 610).
Nel merito, giova, invece, rammentare che, ai sensi
dell’art. 16 del d.P.R. n. 380/2001 e salvo quanto disposto
all'articolo 17, comma 3, il rilascio del permesso di
costruire comporta normalmente la corresponsione di un
contributo commisurato all’incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, secondo le
modalità indicate nel suddetto articolo.
La quota di contributo relativa agli oneri di urbanizzazione
va, inoltre, corrisposta al Comune all'atto del rilascio del
permesso di costruire e, su richiesta dell’interessato, può
essere rateizzata.
La legge regionale Molise 11.12.2009 n. 30, infine,
prevede all’art. 9, co. 3, che è dovuto per intero il
contributo per gli oneri di urbanizzazione per gli
interventi di mutamento di destinazione d'uso di cui
all'articolo 2, commi 9 e 10, ed all'articolo 3, comma 6.
Da tale disposizione l’amministrazione resistente parrebbe
trarre la conclusione che quanto già versato per gli oneri
di urbanizzazione non debba essere computato e debba,
invece, essere calcolato per intero il costo di costruzione
e gli oneri di urbanizzazione delle varianti, senza tener
conto di quanto già pagato per il progetto originario; parte
ricorrente ritiene invece che l’importo da versare non possa
prescindere dal conguaglio con quanto già versato, con
conseguente diritto alla ripetizione in caso di conguaglio
positivo.
Tra le due impostazioni il Tribunale ritiene che quest’ultima
sia quella corretta.
Il Collegio aderisce infatti
all’impostazione giurisprudenziale preferibile secondo cui
<<il contributo per oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione per le opere oggetto di una concessione in
variante dev’essere calcolato sommando le opere dei due
titoli edilizi assentiti (concessione originaria e
variante), scomputando quanto già pagato al momento del
rilascio del titolo originario. Per la concessione in
variante, però, la quota percentuale della parte del
contributo commisurato al costo di costruzione delle opere
ad essa riferite deve essere calcolata con riferimento alle
norme vigenti al momento del rilascio della variante stessa
e, come detto, limitatamente alle opere che ne costituiscono
oggetto, escludendo cioè quelle già considerate (e
quantificate) al momento del rilascio della concessione
originaria. Con la concessione in variante il Comune deve
quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il
corrispondente contributo non in relazione all'intero
complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle
sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la
concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo
parametro vigente al momento del rilascio del titolo in
variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da
quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già
versata dalla società ricorrente>> (cfr. TAR Sardegna, sez.
II, 28.11.2013, n. 780).
Diversamente argomentando, ritenendo cioè che per effetto
delle varianti richieste ed ottenute a norma del Piano casa,
la ricorrente avrebbe dovuto pagare nuovamente e per intero
tutti gli oneri di urbanizzazione senza computare quelli già
corrisposti, significherebbe riconoscere alla previsione
della legge regionale una portata sanzionatoria che essa
invece obiettivamente non presenta, come confermato
dall’art. 1 della legge della Regione Molise 11.12.2009, n. 30 a mente del quale: <<La Regione promuove misure
straordinarie per il sostegno del settore edilizio,
attraverso interventi finalizzati al miglioramento della
qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostruire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente, promuovere
l'edilizia economica per le giovani coppie e le categorie
svantaggiate e meno abbienti e l'edilizia scolastica nonché
per migliorare le caratteristiche architettoniche,
energetiche, tecnologiche e di sicurezza dei fabbricati>>.
Le disposizioni premiali di cui alla citata normativa hanno
carattere straordinario e rispondono alla dichiarata
finalità di riqualificare il patrimonio edilizio e
contrastare la grave crisi economica e di tutelare i livelli
occupazionali attraverso il rilancio delle attività
edilizie, da attuare sui singoli edifici, in deroga agli
strumenti urbanistici vigenti, in relazione ad un arco di
tempo limitato, con casi di esclusione ben determinati (cfr.
TAR Campania, sez. II, n. 1502/2013).
Stando così le cose una previsione che imponesse a chi
intenda giovarsi della premialità prevista dalla legge di
pagare nella sostanza due volte i medesimi oneri di
urbanizzazione, si porrebbe in aperto contrasto con la
finalità agevolativa e non sanzionatoria sottesa
all’intervento normativo in considerazione.
Ne consegue che, in accoglimento di quanto prospettato da
parte ricorrente, gli oneri di urbanizzazione e il costo di
costruzione corrisposti al Comune devono essere computati
nel calcolo dei corrispondenti oneri dovuti per il cambio di
destinazione d’uso e, ove eccedenti rispetto a quanto dovuto
per la destinazione d’uso residenziale abitativa, devono in
parte qua essere restituiti alla ricorrente. In merito, la
ricorrente ritiene correttamente dovuti oneri di
urbanizzazione per un importo complessivo di euro 104.018,68
a fronte della somma di euro 136.703,69 indebitamente pagata
all’Amministrazione invocando, quindi, il diritto alla
restituzione di quanto pagato in eccesso per euro 32.688,01.
La ricorrente chiede, infine, la restituzione delle sanzioni
e degli interessi pretesi indebitamente dal Comune in
relazione ad una somma che il Comune avrebbe dovuto
restituire per l’eccedenza anziché indebitamente pretendere.
Sul punto, il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi
dalle risultante della relazione di verificazione all’uopo
depositata dalla quale è emerso che la somma
complessivamente dovuta dalla ricorrente, tenendo conto
delle varianti introdotte al progetto originario, con
particolare riferimento al parziale cambio di destinazione
d’uso da ricettivo-alberghiero in residenziale-abitativo
disposto con SCIA prot. 17267/2012, ammonta ad euro
146,453,82 (di cui euro 105.912,21 per oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria ed euro 40.541,61 per
costo di costruzione): dal che deriva che, essendo stati già
versati euro 194.853, 42, comprensivi di euro 4.924,26 per
oneri di urbanizzazione ex SCIA n. 17267/2012, la somma in
eccesso corrisposta dalla Ed.Ed. ammonta ad euro
48.399,60.
Pertanto in questi termini il ricorso deve essere accolto e,
per l’effetto, deve dichiararsi il diritto di parte
ricorrente a vedersi restituita la somma versata in eccesso
sia a titolo di oneri di urbanizzazione che a titolo costo
di costruzione; il Comune di Campobasso deve, quindi, essere
condannato alla restituzione, in favore di parte ricorrente,
della somma di euro 48.399,60 corrispondente a quanto
versato a titolo di oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione non dovuti cui andranno aggiunte le ulteriori
rate che nelle more del giudizio la ricorrente abbia versato
ove debitamente comprovate e documentate.
Parimenti, il Comune dovrà restituire quanto indebitamente
corrisposto dalla ricorrente a titolo di sanzioni ed
interessi legali non essendo questi più dovuti in presenza
di una somma dalla stessa versata in eccedenza. Il tutto
dovrà, infine, essere maggiorato degli interessi legali e
rivalutazione monetaria dalla data del versamento sino al
soddisfo (TAR Molise,
sentenza 14.03.2019 n. 107 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Trasferimento
coattivo di opere di urbanizzazione.
Il TAR Brescia,
accertato il diritto del Comune al
trasferimento della proprietà di opere di
urbanizzazione che una convenzione
urbanistica prevedeva che fossero realizzate
dal soggetto lottizzante, a scomputo degli
oneri di costruzione, e preso atto
dell’inadempimento della lottizzante
all’assolvimento delle obbligazioni dedotte
in Convenzione, accoglie la domanda proposta
ex art. 2932 c.c. determinando il
trasferimento coattivo delle aree in
questione e ordina al competente
Conservatore dei registri immobiliari di
procedere alle trascrizione stessa, nei
confronti di quale che sia il soggetto
risultante come proprietario e, quindi,
anche degli attuali proprietari dei fondi
che ne abbiano medio tempore acquisito la
proprietà, trattandosi di un’obbligazione
reale
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 07.03.2019 n. 227 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Il ricorso, così proposto, merita
accoglimento.
Preliminarmente, però, il Collegio ritiene
di dover affermare la propria giurisdizione.
Da tempo, ormai, la giurisprudenza ha
chiarito, infatti, come “Le
convezioni o gli atti d’obbligo stipulati
fra Comune e privati destinatari di
concessioni edilizie non hanno specifica
autonomia come fonte negoziale di
regolamento dei contrapposti interessi, con
la conseguenza che le controversie ad esse
relative, rientrando nel campo urbanistico,
sono devolute alla giurisdizione esclusiva
del giudice amministrativo di cui all’art.
16 della legge n. 10/1977
(cfr. Cass. SS.UU. Civili 20/4/2007 n. 9360)”.
Ancora più chiaramente, il giudice
amministrativo d’appello ha affermato il
principio secondo cui “Qualora
si discuta in ordine a inadempimenti di
obblighi convenzionali di natura edilizio-
urbanistica assunti in esecuzione di
obblighi che per legge hanno finalità di
pubblico interesse, è indubbio che dette
convenzioni si inseriscano in un modulo
procedimentale di diritto pubblico, tale per
cui le controversie che intervengono in
subiecta materia appartengono
necessariamente alla giurisdizione
amministrativa
(cfr. Cons. Stato Sez. IV 22/01/2010 n. 214;
Cons. Stato Sez. V 05/04/2011 n. 5711 e, da
ultimo, Cons. Stato, 1069/2019)”.
Deve, dunque, ritenersi che rientrino nella
giurisdizione del giudice amministrativo sia
la domanda di accertamento del diritto del
Comune di Valbrembo alla cessione gratuita
delle aree per urbanizzazioni, nonché quella
di pronuncia di una sentenza ex art. 2932
c.c., traslativa della proprietà, in quanto
trattasi di domande connesse all’adempimento
di obblighi collegati a una convenzione
strettamente inerente all’esercizio delle
funzioni autoritative avutosi con il
precedente rilascio delle concessioni
edilizie.
Quanto alla legittimazione passiva del
soggetto intimato, si deve dare conto di
come la società Pa. sia subentrata negli
obblighi sottoscritti dai primi soggetti
lottizzanti (la società SI. In.Im. s.r.l. e
il sig. Fu.Vi.) assumendosi l’obbligo di
eseguire gli impegni derivanti dalla
convenzione di lottizzazione.
A tale proposito, la
giurisprudenza ha chiarito come la natura
reale dell'obbligazione in esame riguardi
sia i soggetti che stipulano la convenzione,
che quelli che richiedono la concessione e
quelli che realizzano l'edificazione ed i
loro aventi causa
(da ultimo Cass. civile, Sez. II,
27.08.2002, n. 12571).
Ne consegue che, accertato il diritto del
Comune al trasferimento della proprietà
delle opere di urbanizzazione che la
convenzione urbanistica prevedeva che
fossero realizzate dal soggetto lottizzante,
a scomputo degli oneri di costruzione e
preso atto dell’inadempimento dell’intimata
Società all’assolvimento delle obbligazioni
dedotte in Convenzione, deve accogliersi
anche la domanda proposta ex art. 2932 c.c
(ammissibile in ipotesi di inadempimento
agli obblighi assunti in virtù di una
convenzione urbanistica - ex multis
TAR Emilia Romagna, Bologna, Sez. I,
24.10.2016, n. 873) determinando il
trasferimento coattivo delle aree in
questione come identificate nella
planimetria catastale rappresentante il
documento n. 13 del Comune ricorrente,
previa redazione del tipo di frazionamento,
se necessario per poter, in concreto,
procedere alla trascrizione.
Va quindi ordinato al competente
Conservatore dei registri immobiliari di
procedere alle trascrizione stessa, nei
confronti di quale che sia il soggetto
risultante come proprietario e, quindi,
anche degli attuali proprietari dei fondi
che ne abbiano acquisito la proprietà a
seguito della cancellazione della società
intimata dichiarata all’udienza pubblica,
con esonero da ogni sua responsabilità al
riguardo.
La sentenza produrrà, quindi, effetti nei
confronti della società intimata, se ancora
risultante quale proprietaria degli
immobili, ovvero di chiunque altro sia
subentrato nella proprietà stessa,
trattandosi di un’obbligazione reale, che
non può estinguersi con l’eventuale
estinzione del soggetto proprietario. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA
PRIVATA: Certificato
edilizio errato, il Comune paga per l'errore del funzionario.
Il rilascio, da parte dell'ufficio tecnico comunale, di un certificato
attestante una situazione urbanistica non rispondente al Piano regolatore
generale, è un fatto illecito imputabile a colpa del funzionario incaricato,
e quindi riconducibile all'ente locale. L'errata attestazione determina una
violazione dell'affidamento ingenerato nel privato nella correttezza
dell'atto amministrativo e comporta il risarcimento del danno in favore del
privato.
Questo è quanto affermato dal TRIBUNALE di Frosinone nella sentenza n.
803/2018.
La vicenda - La
controversia prende le mosse da un errore commesso da un funzionario del
Comune di Frosinone il quale, su richiesta dei futuri acquirenti di un
terreno, rilasciava il certificato di destinazione urbanistica dell'area
confondendo la zona F (servizi collettivi) con la zona CE (agricola).
In seguito, i richiedenti acquistavano tale terreno al fine di costruirvi
un'abitazione compatibile con la presunta destinazione urbanistica.
Tuttavia, al momento della richiesta dell'autorizzazione sismica, un diverso
funzionario del Comune riteneva improcedibile l'istanza di concessione
edilizia, in quanto l'area interessata incideva su una zona dedicata
all'ampliamento dell'eliporto adiacente.
Gli acquirenti citavano così in giudizio l'ente locale chiedendo il
risarcimento dei danni da essi subiti proprio a causa dell'errato
certificato, comprensivi delle spese inutilmente sostenute correlate alla
non edificabilità dell'area. Dal canto suo, il Comune si difendeva
sostenendo che l'errore del suo funzionario non poteva essere considerato
causalmente determinante, in quanto gli stessi acquirenti avrebbero dovuto
tenere un comportamento più diligente nell'acquisto dei terreni.
La decisione - Il
Tribunale accoglie la domanda degli acquirenti riconoscendo il fatto
illecito del Comune, ovvero il rilascio di un certificato attestante
erroneamente la vocazione edificatoria dei terreni, circostanza che ha
determinato gli acquirenti a comprare il terreno e a dare luogo a tutti gli
adempimenti necessari per edificare su di esso. Tale atto è senz'altro
imputabile a colpa del funzionario, e quindi alla stessa Amministrazione,
con conseguente «violazione dell'affidamento ingenerato nel privato
dell'atto amministrativo».
Circa la quantificazione del danno poi, precisa il giudice, questo va
calcolato, anche equitativamente, avuto riguardo ai costi affrontati dagli
acquirenti per l'edificazione, quali spese per notaio e architetto,
eziologicamente riconducibili all'errata trasposizione nei certificati di
una «connotazione non rispondente alla realtà»
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 29.03.2019). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
La non conformità
dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola
l'emanazione, alle disposizioni legislative statali e
regionali in materia urbanistico edilizia ed alle previsioni
degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto
se l'atto sia illecito e, cioè, frutto di attività
criminosa, ma anche nell'ipotesi in cui l'emanazione
dell'atto medesimo sia espressamente vietata in mancanza
delle condizioni previste dalla legge o nel caso di mancato
rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere.
E' dunque evidente che, nel caso in cui il provvedimento
amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che
ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in
tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di
legge per la sua emissione.
A maggior ragione, tale
situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia
conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto
pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha
conseguito.
---------------
4. Anche il secondo motivo di ricorso risulta
infondato.
Va, a tale proposito, ribadito quanto già ricordato in
precedenza e, cioè, che la non conformità dell'atto
amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione,
alle disposizioni legislative statali e regionali in materia
urbanistico edilizia ed alle previsioni degli strumenti
urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto sia
illecito e, cioè, frutto di attività criminosa, ma anche
nell'ipotesi in cui l'emanazione dell'atto medesimo sia
espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste
dalla legge o nel caso di mancato rispetto delle norme che
regolano l'esercizio del potere (Sez. 3, n. 37847 del
14/05/2013, Sonni, Rv. 25697101, cit.; Sez. 3, n. 40425 del
28/09/2006, Consiglio, Rv. 23703801, cit.).
E' dunque evidente che, nel caso in cui il provvedimento
amministrativo sia palesemente illegittimo, non può che
ritenersi sostanzialmente mancante, in quanto l'atto, in
tali casi, è emanato in totale assenza dei presupposti di
legge per la sua emissione. A maggior ragione, tale
situazione si verifica quando detto titolo abilitativo sia
conseguenza di attività criminosa da parte del soggetto
pubblico che lo ha adottato o di quello privato che lo ha
conseguito.
Appare dunque corretta la contestazione dell'art. 44, lett.
b), d.RR. 380/2001, risultando invece non applicabile la
residuale ipotesi di cui alla lettera a) del medesimo
articolo, cui fanno riferimento i ricorrenti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Con
riferimento al contenuto dell'art. 6 dell'ormai abrogata
legge 47/1985, riprodotto nell'art. 29 del d.P.R. 380/2001,
vi è un dovere, per chi si appresta ad eseguire
un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dal
titolo abilitativo, ma anche quanto stabilito dalla
normativa urbanistica e di piano e che detta norma ha posto
delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato
anche il contenuto.
Da ciò consegue che il titolare del permesso di costruire,
il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti
da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito
il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in
contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con
l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto
amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice
penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a
conferire al comportamento incriminato significato "lesivo"
del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di
costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di
scardinare il principio di tassatività.
---------------
La sola veste di progettista non consente, di per se,
di ravvisare il concorso nel reato, in quanto la fase di
redazione di un progetto, anche se difforme dalla normativa
vigente, va tenuta distinta da quella di direzione dei
lavori, e non può configurarsi un nesso di causalità tra
la redazione del progetto e l'attività di attuazione dello
stesso, soltanto per la quale sussiste rilevanza penale, ed
alla quale il progettista deve avere fornito un
apporto concreto ed ulteriore rispetto alla mera redazione
del progetto.
---------------
5.1 È dunque sulla
base di tale situazione di fatto che la Corte territoriale
ha ritenuto la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato, richiamando opportunamente la giurisprudenza di
questa Corte, la quale ha avuto modo di affermare,
riferendosi al contenuto dell'art. 6 dell'ormai abrogata
legge 47/1985, riprodotto nell'art. 29 del d.P.R. 380/2001,
che vi è un dovere, per chi si appresta ad eseguire
un'opera, di osservare, non solo quanto prescritto dal
titolo abilitativo, ma anche quanto stabilito dalla
normativa urbanistica e di piano e che detta norma ha posto
delle specifiche posizioni di garanzia, di cui ha precisato
anche il contenuto.
Da ciò consegue, secondo detta
giurisprudenza, che il titolare del permesso di costruire,
il committente e l'esecutore non possono considerarsi esenti
da responsabilità per il semplice fatto di avere conseguito
il titolo abilitativo se questo è stato rilasciato in
contrasto con la legge o gli strumenti urbanistici, con
l'ulteriore precisazione che non ogni vizio dell'atto
amministrativo o civile potrà essere rilevato dal giudice
penale, ma soltanto quello la cui presenza contribuisca a
conferire al comportamento incriminato significato "lesivo"
del bene giuridico tutelato, ovviamente evitando di
costruire beni giuridici ad hoc al fine proprio di
scardinare il principio di tassatività (Sez. 3, n. 27261 del
08/06/2010, P.M. in proc. Caleprico e altri, Rv. 24807001.
Conf. Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, Torzini, Rv.
26629101).
Si tratta, anche in questo caso, di principi che il Collegio
condivide e che evidenziano, alla luce dei dati fattuali
valorizzati dai giudici del merito, la infondatezza del
motivo di ricorso.
...
13.1 Nell'unico
motivo di ricorso il ricorrente osserva, sostanzialmente,
che la sua posizione di mero progettista avrebbe dovuto
indurre la Corte di appello ad escludere ogni responsabilità
per i reati contestati, essendosi egli limitato alla
redazione di un elaborato progettuale contenente una
valutazione sulla fattibilità dell'opera, rispetto alla
quale l'ultima decisione è rimessa alla competente
amministrazione comunale.
Va rilevato, a tale proposito, come questa Corte abbia già
avuto modo di osservare che la sola veste di progettista non
consente, di per se, di ravvisare il concorso nel reato, in
quanto la fase di redazione di un progetto, anche se
difforme dalla normativa vigente, va tenuta distinta da
quella di direzione dei lavori, e non può configurarsi un
nesso di causalità tra la redazione del progetto e
l'attività di attuazione dello stesso, soltanto per la quale
sussiste rilevanza penale, ed alla quale il progettista deve
avere fornito un apporto concreto ed ulteriore rispetto alla
mera redazione del progetto (Sez. 3, n. 8420 del 12/12/2002,
Ridolfi, Rv. 224166. Conf. Sez. 3, n. 47271 del 22/09/2016,
Ayma, non massimata).
Si tratta, ad avviso del Collegio, di un principio
pienamente condivisibile, rispetto al quale le conclusioni
della Corte di appello non si pongono in contrasto, avendo i
giudici del gravame chiaramente specificato che il
ricorrente, oltre alla mera redazione del progetto, aveva
interloquito con il tecnico comunale, aveva elaborato i
calcoli relativi agli indici fondiari, effettuato la
valutazione relativa all'impatto paesistico e quella
riguardante il patrimonio edilizio esistente, riconoscendo
in ciò un decisivo contributo causale al rilascio del titolo
edilizio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'articolo 31 d.RR. 380/2001 prevede, al nono comma, che il
giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui
all'articolo 44, ordini la demolizione delle opere se ancora
non sia stata altrimenti eseguita. Si tratta della medesima
disposizione già contenuta nell'art. 7 della legge n. 47 del
1985, rispetto alla quale va riconosciuta piena continuità
normativa.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione
amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce
esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non
residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità
amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso.
All'omissione può direttamente porsi rimedio in questa
sede di legittimità, emettendo direttamente il provvedimento
dovuto in quanto obbligatorio ex lege ed estraneo alla
discrezionalità del giudice di merito.
---------------
18. Ricorso del
Procuratore generale presso la Corte di appello
Il ricorso è fondato.
18.1 La Corte territoriale, pur subordinando la sospensione
condizionale della pena nei confronti di Fe.ME. alla
demolizione dell'intervento abusivo, ha comunque omesso di
ordinare la demolizione delle opere medesime come stabilito
dalla legge.
L'articolo 31 d.RR. 380/2001 prevede, al nono comma, che il
giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui
all'articolo 44, ordini la demolizione delle opere se ancora
non sia stata altrimenti eseguita. Si tratta della medesima
disposizione già contenuta nell'art. 7 della legge n. 47 del
1985, rispetto alla quale va riconosciuta piena continuità
normativa.
L'ordine giudiziale di demolizione ha natura di sanzione
amministrativa di tipo ablatorio, che costituisce
esplicitazione di un potere sanzionatorio autonomo e non
residuale o sostitutivo rispetto a quello dell'autorità
amministrativa, assolvendo ad una autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso (così, Sez. 3, n.
37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232172).
18.2 All'omissione può direttamente porsi rimedio in questa
sede di legittimità, emettendo direttamente il provvedimento
dovuto in quanto obbligatorio ex lege ed estraneo
alla discrezionalità del giudice di merito (v., ex pl., Sez.
3, n. 35386 del 24/05/2007, Sannino, Rv. 237536; Sez. 3,
Sentenza n. 3467 del 08/11/1999, Santori, Rv. 216378; Sez.
3, Sentenza n. 768 del 24/02/1999, Scognamiglio, Rv.
213669).
Conseguentemente, la sentenza impugnata deve essere
annullata senza rinvio sul punto con riferimento all'omesso
ordine di demolizione delle opere abusive, impartendo
l'ordine medesimo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31282). |
UTILITA' |
SICUREZZA LAVORO: D.lgs.
09.04.2008, n. 81 - Testo coordinato con il D.Lgs. 03.08.2009, n. 106 -
TESTO UNICO SULLA SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO (aprile 2019 -
tratto da www.ispettorato.gov.it). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
18.04.2019 n. 95 "Disposizioni urgenti per il rilancio del settore dei
contratti pubblici, per l’accelerazione degli interventi infrastrutturali,
di rigenerazione urbana e di ricostruzione a seguito di eventi sismici" (D.L.
18.04.2019 n. 32) (segui i lavori parlamentari di conversione in
legge:
Atto
Senato n. 1248).
---------------
Di particolare interesse, si leggano:
● Art. 1. Modifiche al codice
dei contratti pubblici
● Art. 2. Disposizioni sulle procedure di
affidamento in caso di crisi di impresa
● Art. 3. Disposizioni in materia di semplificazione della
disciplina degli interventi strutturali in zone sismiche
● Art. 5. Norme in materia di rigenerazione urbana |
VARI:
G.U. 18.04.2019 n. 95 "Disposizioni in materia di azione di classe" (Legge
12.04.2019 n. 31). |
LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO:
G.U. 13.04.2019 n. 88 "Approvazione del Piano nazionale per la
mitigazione del rischio idrogeologico, il ripristino e la tutela della
risorsa ambientale" (D.P.C.M.
20.02.2019). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 13.04.2019 n. 88 "Istituzione della Cabina di regia Strategia Italia" (D.P.C.M.
15.02.2019). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'11.04.2019, "Assegnazione
dei contributi per l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli
o associati, in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in
zone sismiche (l.r. 33/2015, art. 2, c. 1) relativi all’annualità 2019 –
Definizione dei criteri e delle modalità per la liquidazione dei contributi
e assunzione degli impegni di spesa per un importo pari ad € 599.500,00" (decreto
D.U.O. 08.04.2019 n. 4863). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO
IMPIEGO - VARI: G.U.
09.04.2019 n. 84, suppl. ord. n. 16, "Ripubblicazione
del testo del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, coordinato con la legge di
conversione 28.03.2019, n. 26, recante: «Disposizioni urgenti
in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 15 dell'08.04.2019, "Determinazione
dei criteri di gestione obbligatori e delle buone condizioni agronomiche ed
ambientali, ai sensi del regolamento (UE) n. 1306/2013. modifiche e
integrazioni alla d.g.r. X/3351 del 01.04.2015 e smi. Regime di
condizionalità per l’anno 2019" (deliberazione
G.R. 01.04.2019 n. 1462). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
05.04.2019 n. 81 "Attività antincendio boschivo per il 2019.
Raccomandazioni operative per un più efficace contrasto agli incendi
boschivi, di interfaccia ed ai rischi conseguenti" (P.C.M.,
nota 01.04.2019). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 14 del 02.04.2019, "Disciplina e regimi
amministrativi degli scarichi di acque reflue domestiche e di acque reflue
urbane, disciplina dei controlli degli scarichi e delle modalità di
approvazione dei progetti degli impianti di trattamento delle acque reflue
urbane, in attuazione dell’articolo 52, commi 1, lettere a) e f-bis), e 3,
nonché dell’articolo 55, comma 20, della legge regionale 12.12.2003, n. 26
(Disciplina dei servizi locali di interesse economico generale. Norme in
materia di gestione dei rifiuti, di energia, di utilizzo del sottosuolo e di
risorse idriche)"
(regolamento
regionale 29.03.2019 n. 6). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 dell'01.04.2019, "Secondo
aggiornamento 2019 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 27.03.2019 n. 4179). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
29.03.2019 n. 75 "Testo
del decreto-legge 28.01.2019, n. 4, coordinato con la legge di conversione
28.03.2019, n. 26, recante: «Disposizioni urgenti in materia
di reddito di cittadinanza e di pensioni»". |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2019, "Contributi per
l’esercizio delle funzioni trasferite ai comuni, singoli o associati, in
materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche (l.r.
33/2015, art. 2, c. 1), relativi all’annualità 2019" (deliberazione
G.R. 25.03.2019 n. 1441). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 29.03.2019, "Linee di
indirizzo per il soccorso, recupero, trasporto e smaltimento della fauna
selvatica omeoterma sul territorio regionale" (deliberazione
G.R. 18.03.2019 n. 1389). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 13 del 26.03.2019, "Regolamento
regionale concernente i criteri organizzativi generali, le caratteristiche
dei veicoli, delle uniformi, degli strumenti di autotutela, dei simboli
distintivi di grado e delle tessere personali di riconoscimento in dotazione
ai corpi e ai servizi della polizia locale in attuazione dell’articolo 24,
comma 1, della legge regionale 01.04.2015, n. 6 «Disciplina regionale dei
servizi di polizia locale e promozione di politiche integrate di sicurezza
urbana»" (regolamento
regionale 22.03.2019 n. 5). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
20.03.2019 n. 67 "Modifiche ed integrazioni al decreto 24.05.2002,
recante: «Norme di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed
esercizio degli impianti di distribuzione stradale di gas naturale per
autotrazione»" (Ministero dell'Interno,
decreto 12.03.2019). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 12 del 19.03.2019, "Approvazione
della modulistica per la concessione/affitto delle alpi/malghe di proprietà
pubblica" (decreto
D.S. 13.03.2019 n. 3341). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 11 del 15.03.2019, "Modifiche agli
articoli 2, 5, 11, 18 e 22, nonché all’allegato B del regolamento regionale
27.07.2009, n. 2 «Contributi alle unioni di comuni lombarde, in attuazione
dell’articolo 20 della legge regionale 27.06.2008, n. 19 (Riordino delle
comunità montane della Lombardia, disciplina delle unioni di comuni lombarde
e sostegno all’esercizio associato di funzioni e servizi comunali)»" (regolamento
regionale 13.03.2019 n. 4). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 15.03.2019, "Aggiornamento
dei criteri approvati con decreto n. 53 dell’08.01.2018 per l’accertamento
delle infrazioni e l’irrogazione delle sanzioni, di cui all’art. 27 della
legge regionale n. 24/2006 e s.m.i., conseguenti alla trasgressione delle
disposizioni per la redazione degli attestati di prestazione energetica
degli edifici, in attuazione della d.g.r. 5900 del 28.11.2016" (decreto
D.U.O. 12.03.2019 n. 3254). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 11 del 15.03.2019, "Registro delle
Unioni di comuni lombarde. 1° aggiornamento 2019 (in attuazione della d.g.r.
27.03.2015, n. 3304)" (decreto
D.S. 07.03.2019 n. 3017). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Radon - Rilevazione 2019 - Adozione nei Regolamenti Edilizi
Comunali del DDG n. 12678 del 12.12.2011 "Linee guida per la prevenzione
delle esposizioni al gas RADON in ambienti indoor" (Regione
Lombardia,
nota 15.04.2019 n. 14725 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Dichiarazione “O.R.SO.” per gli impianti di trattamento rifiuti.
Rifiuti gestiti nell’anno 2019 (ANCE
di Bergamo,
circolare 12.04.2019 n. 95). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Pagamento del diritto annuale di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori
Ambientali e per le imprese che recuperano rifiuti in procedura semplificata (ANCE
di Bergamo,
circolare 12.04.2019 n. 94). |
APPALTI:
Oggetto: Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza – D.Lgs. 14/2019
(ANCE di Bergamo,
circolare 22.03.2019 n. 85). |
SICUREZZA
LAVORO:
Oggetto: Dispositivi di Protezione Individuale – Adeguamento al
Regolamento UE (ANCE di Bergamo,
circolare 22.03.2019 n. 80). |
APPALTI:
Oggetto: Norme Tecniche per le Costruzioni, pubblicata la Circolare
ministeriale n. 7 del 21/01/2019 (ANCE di Bergamo,
circolare 22.03.2019 n. 79). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del consumo di suolo –
Approvata l’integrazione del Piano Territoriale Regionale (ANCE di
Bergamo,
circolare 22.03.2019 n. 78). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
passaggio in giudicato della sentenza n. 361/2013 emessa dal TAR Lombardia,
sez. Brescia (Collegio Provinciale Geometri e Geometri Laureati di
Bergamo,
circolare 25.02.2019 n. 4/2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Oggetto:
Integrazione del PTR ai sensi della LR 31/2014 – approvata dal Consiglio
Regionale il 19/12/2018
(Consulta Regionale Geometri e Geometri Laureati della Lombardia,
nota 07.02.2019). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI: A.
Zama e L. Pispero,
Legittima la
clausola di gradimento nei contratti di appalto (01.04.2019
- link a www.filodiritto.com). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento
sugli incarichi di posizione organizzativa - Aggiornamento al CCNL
21/05/2018 - Criteri generali di conferimento e Sistema di graduazione della
retribuzione di posizione - Istruzioni tecniche, linee guida, note e
modulistica (ANCI, aprile 2019). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: F.
Donegani,
Abusi edilizi e nullità degli atti: il punto delle Sezioni Unite
(29.03.2019 - link a www.dirittopa.it).
---------------
Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, sentenza n. 8230 del
22.03.2019
Componendo il contrasto emerso sulla natura da attribuire alla nullità degli
atti giuridici tra vivi aventi ad oggetto immobili abusivi, le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione precisano che -a fronte della dichiarazione
dell'alienante degli estremi del titolo- il contratto è valido a prescindere
dalla conformità o difformità della costruzione rispetto al titolo
menzionato. (...continua). |
APPALTI: V.
Salamone,
Il sistema della documentazione antimafia normativa e giurisprudenza
(27.03.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario:
●
Capitolo 1 - La tipologia della documentazione antimafia.
1.1 Le Fonti; 1.2 Finalità; 1.3 La dualità della documentazione antimafia;
1.4 La comunicazione; 1.5 L’informazione; 1.6 L’istituto della white list;
1.7 La banca dati nazionale unica della documentazione antimafia; 1.8 La
competenza prefettizia; 1.9 Il c.d. sistema pattizio delle misure antimafia:
i protocolli di legalità.
●
Capitolo 2 - Il contenuto delle informative ed il ruolo della
giurisprudenza.
2.1 La funzione svolta nel sistema dalle informative antimafia; 2.2 Il
principio civilistico del “più probabile che non”; 2.3 Le figure
sintomatiche di infiltrazioni e condizionamenti; 2.4 Il quadro indiziario
dell’infiltrazione mafiosa; 2.5 Le situazioni rilevanti; 2.6 La casistica;
2.7 I provvedimenti del giudice penale; 2.8 Gli atti relativi
all’applicazione delle misure di prevenzione; 2.9 I rapporti parentali; 2.10
I contatti ed i rapporti di frequentazione; 2.11 Le vicende anomale nella
formale struttura dell’impresa; 2.12 La condivisione del sistema di
illegalità; 2.13 La valutazione non atomistica delle circostanze; 2.14
Orientamenti (in parte) divergenti.
●
Capitolo 3 - Procedimento e contenzioso.
3.1 Documentazione antimafia e procedimento amministrativo: peculiarità; 3.2
Il contenuto motivazionale dell’informativa; 3.3 L’efficacia temporale; 3.4
Disciplina processuale; 3.5 Risarcimento danni per adozione di informativa
antimafia annullata in sede giurisdizionale.
●
Capitolo 4 - Gli effetti della documentazione antimafia.
4.1 Informativa antimafia ed effetti sui contratti e sui rapporti in corso
nel codice antimafia; 4.2 La disciplina degli effetti nei due codici dei
contratti; 4.3 Interdittive antimafia e raggruppamenti temporanei di
imprese; 4.4 L’estensione di efficacia delle interdittive ad opera dell’art.
89-bis del codice antimafia: le attività private soggette a potestà
autorizzatoria; 4.5 Incapacità ad intrattenere rapporti con la P.A..
●
Capitolo 5 - La disciplina in tema di commissariamento delle imprese.
5.1 L'articolo 32 del decreto legge 24.06.2014 n. 90; 5.2 I presupposti per
le misure straordinarie; 5.3 Competenza territoriale del Prefetto e
procedimento; 5.4 La tipologia dei provvedimenti adottabili; 5.5 La
cessazione degli effetti delle misure straordinarie; 5.6 I rapporti con la
disciplina del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231; 5.7 La casistica
giurisprudenziale.
●
Capitolo 6 - L’amministrazione ed il controllo giudiziario (artt. 34 e
34-bis codice antimafia).
6.1. Le ragioni della disciplina innovativa della legge del 17.10.2017, n.
161; 6.2 L’amministrazione giudiziaria; 6.3 Il controllo giudiziario; 6.4 La
prima giurisprudenza applicativa; 6.5 Il rapporto tra il controllo
giudiziario e l’efficacia dell‘interdittiva antimafia.
●
Capitolo 7 - La compatibilità del sistema con i principi costituzionali e
dei trattati che tutelano i diritti fondamentali.
7.1 La compatibilità con i principi costituzionali e con la disciplina dei
trattati internazionali che tutelano i diritti fondamentali; 7.2 La
giurisprudenza CEDU attinente; 7.3 Quadro riassuntivo. |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Tarantino,
Anche i
balconi sono rilevanti nella distanza tra gli edifici condominiali
(19.03.2019 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
L. Spallino,
Manufatti interrati e sanatoria paesaggistica (15.03.2019
- link a www.dirittopa.it).
---------------
TAR Umbria, sentenza 08.01.2019 n. 15
Per il TAR Umbria un volume interrato non è ammesso all'accertamento di
compatibilità paesaggistica in quanto l'articolo 167, comma 4 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio preclude il rilascio di autorizzazioni in
sanatoria quando siano stati realizzati volumi di qualsiasi natura.
(...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: G.
D. Nuzzo,
La nullità per l'immobile privo di titolo edilizio non si applica al
preliminare di vendita La nullità per violazione dell'art. 40, L. n. 47/1985
è riferita agli atti di trasferimento ad efficacia reale
(15.03.2019 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Il
decalogo del Notariato sulle nuove tutele per gli acquirenti di immobili in
costruzione
(14.03.2019 - link a www.notariato.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
G. D. Nuzzo,
Le distanze
previste per i muri con vedute si applicano anche in presenza di balconi
aggettanti. Anche la presenza di balconi legittima l'applicazione del DM n.
1444/1968 (26.02.2019 - link a www.condominioweb.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: M.
Iaselli,
Danno erariale
(21.02.2019 - link a www.altalex.com). |
APPALTI -
ENTI LOCALI - INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE - LAVORI PUBBLICI - PATRIMONIO
PUBBLICO IMPIEGO: Principi
di vigilanza e controllo dell’Organo di revisione degli Enti locali
(Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili,
febbraio 2019).
---------------
Indice
●
Documento n. 1 - Organo di revisione: composizione,
funzionamento, programmazione e organizzazione dell’attività di revisione
1.1. COMPOSIZIONE
1.2. ACCETTAZIONE
1.3. COMPENSO
1.4. NOMINA
1.5. DURATA
1.6. INCOMPATIBILITÀ E INELEGGIBILITÀ
1.7. INSEDIAMENTO E AVVIO DELL’ATTIVITA’ DI REVISIONE
1.8. COMPORTAMENTO ETICO-PROFESSIONALE
1.9. FUNZIONAMENTO
1.9.1. Collegialità e monocraticità
1.9.2. Funzionamento
1.9.3. Carte di lavoro
1.9.4. Accesso e informativa del responsabile del servizio
finanziario
1.9.5. Votazione
1.9.6. Assenza
1.9.7. Conclusione dell’incarico
1.9.8. Partecipazione
1.10. FUNZIONI
1.11. FASI DELLA REVISIONE
1.12. PROCEDURE DI REVISIONE
1.12.1. Il campionamento di revisione
1.12.2. Le regole di campionamento
1.12.3. Il rischio di campionamento
1.12.4. La determinazione dei livelli di significatività
1.12.4.1. Metodo di campionamento
1.12.4.2. Il campionamento per attributi nei test
di conformità
1.12.4.3. Il campionamento monetario nei test di
dettaglio
1.12.5. La proiezione degli errori
●
Documento n. 2 - Funzioni dell’Organo di revisione: attività
di collaborazione, pareri obbligatori e vigilanza
2.1. ATTIVITÀ DI COLLABORAZIONE
2.2. PARERI OBBLIGATORI
2.2.1. Strumenti di programmazione economico-finanziaria
2.3. PROPOSTE DI RICONOSCIMENTO DI DEBITI FUORI BILANCIO E TRANSAZIONI
2.4. TRANSAZIONI
2.5. PARERE SULLE VARIAZIONI DI BILANCIO
2.6. PARERE SULLA SALVAGUARDIA DEGLI EQUILIBRI
2.7. MODALITÀ DI GESTIONE DEI SERVIZI E PROPOSTE DI COSTITUZIONE O DI
PARTECIPAZIONE AD ORGANISMI ESTERNI
2.8. PROPOSTE DI REGOLAMENTO DI CONTABILITÀ, ECONOMATO-PROVVEDITORATO,
PATRIMONIO E DI APPLICAZIONE DEI TRIBUTI LOCALI
2.9. ULTERIORI PARERI OBBLIGATORI
2.9.1. Parere su riaccertamento ordinario dei residui
- Regole da rispettare per il riaccertamento
- Eccezioni per i residui passivi
- Riclassificazione dei residui
- Analisi dei residui mantenuti
- Presupposti per il mantenimento dei residui
- Eliminazione di un residuo passivo finanziato con entrata a destinazione
vincolata
- Le variazioni sul bilancio dell’esercizio precedente
- Impegni di spesa non esigibili nell’esercizio
- Le variazioni sul bilancio dell’esercizio in corso
2.9.2. Parere sul DUP e aggiornamento al DUP
2.9.3. Parere sul piano di rientro del disavanzo di amministrazione
2.9.4. Parere sul piano di riequilibrio finanziario
2.9.4.1. Il piano di riequilibrio: contenuto ed
effetti
2.9.4.2. Check list per il raggiungimento
dell’obiettivo di riequilibrio pluriennale
2.9.4.3. I controlli dell’organo di revisione
2.9.5. Parere su variazioni bilancio in esercizio provvisorio per
utilizzo avanzo vincolato
2.9.6. Parere sulla proposta di miglioramento su beni di terzi
2.10. FUNZIONE DI VIGILANZA
2.10.1. Certificazione bilancio di previsione e rendiconto
2.10.2. Spese di rappresentanza
2.10.3. Attestazione sulla relazione di fine mandato
2.10.4. Ulteriori vincoli di finanza pubblica in materia di
contenimento della spesa
2.10.4.1. Piano triennale di contenimento della
spesa di funzionamento (art. 2, commi 594–598, della legge 244/2007)
2.10.4.2. Riduzioni costi degli apparati
amministrativi (art. 6 del D.L. n. 78/2010)
2.10.4.3. Riduzione spese per incarichi di studio
e consulenza (art. 6, comma 7, del D.L. 78/2010, art. 5, comma 9, del D.L.
95/2012)
2.10.4.4. Riduzione spese per relazioni
pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza (art. 6, comma 8,
del D.L. 78/2010)
2.10.4.5. Divieto di effettuare spese per
sponsorizzazioni (art. 6, comma 9, del D.L. 78/2010)
2.10.4.6. Riduzione spese per missioni (art. 6,
comma 12, del D.L. 78/2010)
2.10.4.7. Riduzione spese per formazione (art. 6,
comma 13, del D.L. 78/2010)
2.10.4.8. Riduzione spese per acquisto e gestione
autovetture (art. 6, comma 14, del D.L. 78/2010; art. 5, comma 2, del D.L.
95/2012)
2.10.4.9. Limiti acquisto beni immobili (art. 12
del D.L. 98/2011)
2.10.4.10. Limiti spesa informatica (art. 1,
commi da 512 a 516, Legge n. 208/2015)
2.10.4.11. Gli incentivi per funzioni tecniche
●
Documento n. 3 - Controlli sugli atti di programmazione e sul
bilancio di previsione
3.1 INTRODUZIONE
3.2. LA PROGRAMMAZIONE E IL DOCUMENTO UNICO DI PROGRAMMAZIONE
3.2.1. I controlli sul documento unico di programmazione
3.3. I CONTROLLI GENERALI SUL BILANCIO DI PREVISIONE
3.4. I CONTROLLI SPECIFICI SUL BILANCIO DI PREVISIONE
3.4.1. Equilibri di bilancio, anche con riferimento agli esercizi
precedenti
3.4.2. Verifica della coerenza interna, esterna e della veridicità
3.4.3. Valutazione della manovra sulle entrate e sulle spese
3.4.4. Ulteriori verifiche
3.5. OBBLIGHI SUCCESSIVI
●
Documento n. 4 - Controlli di regolarità
amministrativo-contabile sulle entrate e sulle spese
4.1. CRITERI APPLICATIVI
4.2. LA VIGILANZA SULLA REGOLARITÀ CONTABILE, FINANZIARIA ED ECONOMICA DELLA
GESTIONE
4.3. LE VERIFICHE SULLA GESTIONE DELLE ENTRATE
4.4. LE VERIFICHE SULLA GESTIONE DELLE SPESE
4.4.1. Le verifiche sugli atti
4.4.2. Le verifiche specifiche sui pagamenti
4.5. LE VERIFICHE SULLA TEMPESTIVITÀ DEI PAGAMENTI
4.6. I CONTROLLI SULL’UTILIZZO DEI BENI DI PROPRIETÀ DELL’ENTE LOCALE
4.7. LE IPOTESI DI IRREGOLARITÀ
●
Documento n. 5 - Controlli sul rendiconto
5.1. INTRODUZIONE
5.2. COMPLETEZZA DELLA DOCUMENTAZIONE
5.3. I CONTROLLI SUL RENDICONTO
5.3.1. I controlli di corrispondenza e di rispetto di regole e
principi contabili
5.3.2. I controlli per attestare la corrispondenza dei risultati
5.3.3. I controlli sul fondo cassa
5.3.4. I controlli sull’anticipazione di tesoreria e sull’utilizzo
delle entrate vincolate
5.3.5. I controlli sul risultato di amministrazione
5.3.6. I controlli sugli accantonamenti
5.3.7. I controlli per gli enti in disavanzo
5.3.8. La relazione sulla gestione
5.3.9. I parametri di deficitarietà strutturale
5.4. IL RENDICONTO CONSOLIDATO
5.5. CONTROLLI SU EFFICIENZA ED ECONOMICITÀ DELLA GESTIONE
5.6. OBBLIGHI SUCCESSIVI
●
Documento n. 6 - Controlli sui vincoli di assunzione e sulle
spese di personale
6.1. INTRODUZIONE
6.2. VERIFICHE DEI VINCOLI DELLA SPESA DI PERSONALE
6.3. VERIFICHE DELLE SPESE PER RAPPORTI DI LAVORO FLESSIBILE
6.4. VERIFICHE DELLE RISORSE DESTINATE AL TRATTAMENTO ECONOMICO ACCESSORIO
6.5. VERIFICHE IN MATERIA DI TURN OVER
6.6. CONFORMITÀ NORMATIVA ED ECONOMICO-FINANZIARIA FONDI CONTRATTAZIONE
DECENTRATA
6.7. ALTRE VERIFICHE SULLE SPESE DI PERSONALE
●
Documento n. 7 - Controlli sull’indebitamento
7.1. PROPOSTE DI RICORSO ALL’INDEBITAMENTO
7.2. LIMITI ALLA FACOLTÀ DI INDEBITAMENTO
7.3. SPESE DI INVESTIMENTO
7.3.1. Ripiano delle perdite
7.3.2. Violazione del dettato costituzionale
7.4. LE OPERAZIONI DI INDEBITAMENTO E QUELLE CHE NON COSTITUISCONO
INDEBITAMENTO
7.4.1. Durata
7.4.2. Rinegoziazione e conversione dei mutui
7.4.3. Tempi di utilizzo dei finanziamenti
7.4.4. Utilizzo economie da mutui
7.4.5. Leasing
7.4.5.1. Leasing in costruendo
7.4.6. Contratto di disponibilità
7.5. MONITORAGGIO SULL’INDEBITAMENTO
7.6. LETTERA DI PATRONAGE
7.7. AUMENTO LIMITE ANTICIPAZIONE DI TESORERIA E ANTICIPAZIONE DI LIQUIDITA’
2019
7.8. PROPOSTE SULL’UTILIZZO DI STRUMENTI DI FINANZA INNOVATIVA
7.8.1. Partenariato pubblico-privato
7.8.2. Contratti relativi a strumenti finanziari derivati
●
Documento n. 8 - Controlli sugli agenti contabili e verifiche
di cassa
8.1. DEFINIZIONE E CONFIGURAZIONE DEGLI AGENTI CONTABILI
8.2. OBBLIGHI E ADEMPIMENTI DEGLI AGENTI CONTABILI
8.3. VERIFICHE DELL’ORGANO DI REVISIONE
8.4. CONTROLLI GENERALI
8.4.1. Il quadro di riferimento
8.4.2. La disciplina regolamentare
8.4.3. L’anagrafe degli agenti contabili
8.4.4. La rendicontazione giurisdizionale
8.5. CONTROLLI SPECIFICI
8.5.1. La gestione del tesoriere
8.5.2. La gestione economale (e degli altri agenti del pagamento)
8.5.3. La gestione degli agenti dell’entrata
8.5.4. La gestione dei consegnatari dei beni
●
Documento n. 9 - Controlli sulla gestione
economico-patrimoniale, conto economico e stato patrimoniale
9.1. INTRODUZIONE
9.2. SCHEMA DI CONTO ECONOMICO
9.3. IL MODELLO DI STATO PATRIMONIALE
9.3.1. L’inventario
9.4. CONTROLLI GENERALI
9.5. CONTROLLI SPECIFICI
9.5.1. Controlli specifici sul Conto Economico
9.5.2. Controlli specifici sullo Stato patrimoniale
9.6. SCRITTURE DI ASSESTAMENTO
9.7. CONTI D’ORDINE
●
Documento n. 10 - Controlli sugli organismi partecipati
10.1. L’ORGANO DI REVISIONE NEGLI ENTI LOCALI PARTECIPANTI: INQUADRAMENTO
GENERALE
10.2. GLI ORGANISMI PARTECIPATI
10.3. ACQUISIZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE, VERIFICHE PRELIMINARI E VERIFICHE
PERIODICHE CHE COINVOLGONO GLI EQUILIBRI DI BILANCIO DELL’ENTE LOCALE
10.3.1. Verifiche preliminari
10.3.2. Controlli sul modello di governance
10.3.3. Verifiche periodiche sugli equilibri finanziari dell’ente
10.3.4. Verifica saldi reciproci tra ente e Organismi partecipati
10.4. FLUSSI INFORMATIVI TRA L’ORGANO DI REVISIONE E GLI ORGANI DI CONTROLLO
DEGLI ORGANISMI PARTECIPATI
10.5. ACQUISTO DI PARTECIPAZIONI E COSTITUZIONE DI ORGANISMI PARTECIPATI
10.5.1. Gestione dei servizi da parte dell’ente locale
10.5.2. Acquisto di partecipazioni e costituzione di organismi
partecipati: inquadramento generale
10.5.3. Acquisizione di partecipazioni e costituzione di aziende
speciali e istituzioni
10.5.4. Acquisizione di partecipazioni e costituzione di società a
partecipazione pubblica
10.5.5. Le attività realizzabili e le finalità perseguibili
mediante le società a partecipazione pubblica
10.6. ALIENAZIONE DI UNA PARTECIPAZIONE IN UNA SOCIETÀ PUBBLICA
10.7. VERIFICHE PRELIMINARI E PERIODICHE SPECIFICHE SULLE AZIENDE SPECIALI E
LE ISTITUZIONI
10.8. VERIFICHE PRELIMINARI SPECIFICHE SULLE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE
PUBBLICA
10.8.1. La revisione straordinaria delle partecipazioni pubbliche
10.8.2. Gli statuti delle società a controllo pubblico
10.8.3. La gestione del personale
10.9. VERIFICHE PERIODICHE SPECIFICHE SULLE SOCIETÀ A PARTECIPAZIONE
PUBBLICA
10.9.1. La razionalizzazione periodica delle partecipazioni
societarie pubbliche
10.9.2. Le società in house
10.9.3. Le società a partecipazione mista pubblico-privata
10.9.4. Controlli in caso di crisi d’impresa
10.9.5. Verifiche sull’organo amministrativo e di controllo delle
società a controllo pubblico
10.10. CONTROLLI IN MATERIA DI TRASPARENZA E ANTICORRUZIONE
10.10.1. Controlli sugli adempimenti comunicativi dell’ente locale
10.10.2. Controlli sugli adempimenti degli Organismi partecipati
●
Documento n. 11 - Controlli sugli adempimenti fiscali
11.1. INTRODUZIONE
11.2. CONTROLLI DI CARATTERE GENERALE
11.3. VERIFICHE DEGLI ADEMPIMENTI DEL SOSTITUTO D’IMPOSTA
11.4. VERIFICHE DEGLI ADEMPIMENTI AI FINI IVA
11.4.1. La soggettività passiva dell’ente locale: inquadramento
generale
11.4.2. Le verifiche IVA preliminari
11.4.3. Le verifiche IVA periodiche
11.4.4. Le verifiche IVA di corrispondenza
11.4.5. Le altre verifiche IVA complementari
11.5. VERIFICA DEGLI ADEMPIMENTI AI FINI IRAP
11.5.1. Le verifiche IRAP preliminari
11.5.2. Le verifiche IRAP periodiche
11.6. FACOLTÀ DEL RILASCIO DEL VISTO DI CONFORMITÀ
11.7. OBBLIGO DELLA SOTTOSCRIZIONE DELLA DICHIARAZIONE IVA/IRAP E DEL
MODELLO 770
●
Documento n. 12 - Controlli sul bilancio consolidato
12.1. INQUADRAMENTO GENERALE
12.2. LA PROCEDURA
12.2.1. Il Gruppo Amministrazione Pubblica (GAP) e l’area di
consolidamento
12.3. LE DIRETTIVE DELL’ENTE CAPOGRUPPO
12.4. L’ELIMINAZIONE DELLE OPERAZIONI INFRAGRUPPO
12.5. I CONTROLLI DA SVOLGERE SUL BILANCIO CONSOLIDATO
12.6. LA RELAZIONE SULLA GESTIONE CONSOLIDATA
12.7. LA RELAZIONE DELL’ORGANO DI REVISIONE
12.8. MANCATA REDAZIONE DEL BILANCIO CONSOLIDATO E TRASMISSIONE ALLA BDAP |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA:
A. Moscatelli, Il
proprietario di un locale a piano terra del fabbricato condominiale può
realizzare una canna fumaria che si appoggi alle parti comuni?
L'uso paritario della cosa comune deve essere compatibile con la previsione
della utilizzazione che in concreto faranno gli altri condomini della stessa
cosa
(30.01.2019 -
link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA: F.
Donegani,
Preavviso di diniego: necessario per il rigetto dell'istanza di sanatoria
(28.01.2019 -
link a www.dirittopa.it).
----------------
Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.01.2019 n. 484
Il Consiglio di Stato evidenzia che la mancata comunicazione di motivi
ostativi all'accoglimento dell'istanza di permesso di costruire in
sanatoria, ai sensi dell'art. 10-bis L. n. 241/1990, integra una violazione
procedimentale che invalida il provvedimento finale di diniego al rilascio
della sanatoria, non potendosi fare ricorso alla "sanatoria processuale" di
cui all'art. 21-octies, co. 2, L. n. 241/1990. (...continua). |
VARI: M.
E Bagnato,
Cellulari e danni alla salute: i Ministeri dovranno informare sull’uso
corretto - TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 18/01/2019 n. 500
(22.01.2019 - link a www.altalex.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L.
Spallino,
Ricorso giurisdizionale: è valida la notifica a pec iscritta nell'elenco
Indice PA (09.01.2019 -
link a www.dirittopa.it).
----------------
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.12.2018 n. 7026
Il Consiglio di Stato ribalta il consolidato orientamento giurisprudenziale
secondo il quale, in difetto di iscrizione dell'indirizzo pec al registro
PP.AA. formato dal Ministero della Giustizia, la notifica del ricorso
giurisdizionale deve essere eseguita solo con le modalità cartacee a nulla
rilevando l'iscrizione nell'Elenco Indice PA. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA: L.
Spallino,
Finanziaria 2019: auto elettriche e ibride in aree pedonali e zone a
traffico limitato? (06.01.2019 -
link a www.dirittopa.it).
---------------
Legge 30.12.2018, n. 145, articolo 1, comma 103
La Manovra finanziaria 2019 (legge n. 145 del 2018, pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale serie generale n. 302 del 31.12.2018 S.O. n. 62) contiene
una serie di misure per il settore dei trasporti, a partire dal bonus/malus
ecologico per l’acquisto di nuovi veicoli. (...continua). |
APPALTI: A.
Narcisi,
Autotutela doverosa e art. 21-nonies della l. n. 241/1990: il parere
motivato dell’Autorità Nazionale Anticorruzione e l’obbligo di conformazione
della stazione appaltante
(De Iustitia n. 4/2018-
tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. La discrezionalità nell’annullamento
d’ufficio ex art. 21-nonies della l. n. 241/1990. 3. Annullamento d’ufficio
doveroso: abusi edilizi, risparmi finanziari, violazione del diritto
comunitario. L’Adunanza Plenaria n. 8/2017 sull’annullamento d’ufficio dei
titoli edilizi in sanatoria. 4. Dalle raccomandazioni vincolanti alla
legittimazione processuale dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. 5. Il
parere motivato dell’A.N.A.C. e l’attività successiva della stazione
appaltante: una nuova ipotesi di autotutela doverosa? 6. Corollari: oggetto
della valutazione della stazione appaltante, estensione della cognizione del
giudice amministrativo e tutela dei terzi. 7. Considerazioni conclusive:
l’annullamento d’ufficio della stazione appaltante come forma di “autotutela
speciale”. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Pedone, G.D.P.R.:
il nuovo Regolamento Privacy 2018
(De Iustitia n. 3/2018- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Evoluzione storica del diritto alla
protezione dei dati personali. 3. Il regolamento europeo 679/2016: prime
criticità. 3.1. Le novità apportate dal GDPR. 3.2. Profili di continuità con
il codice della privacy: abrogazione o no. 4. Uno sguardo al contenuto. 4.1.
IL DPO. 5. conclusioni. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
C. Boccia,
Il nuovo Codice dell’Amministrazione digitale e l’apporto del Consiglio di
Stato - C. Contessa,
Il Codice dell’Amministrazione digitale: la modernizzazione della P.A. e gli
impulsi degli Ordinamenti sovranazionali (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
F. Ratto Trabucco,
I dinieghi grossolani per l’accesso ai documenti amministrativi: esperienze
applicative nell’epoca della trasparenza (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2018).
----------------
Sommario: 1. Il diritto di accesso ai documenti amministrativi fra
dinieghi grossolani e pretestuosi - 2. L’epoca della trasparenza fra
informazioni al consumatore, diritto di accesso documentale e civico nonché
mancata responsabilità del pubblico dipendente per diniego abnorme. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
E. De Giovanni,
Il Codice dell’Amministrazione digitale: genesi, evoluzione, principi
costituzionali e linee generali (Rassegna Avvocatura dello
Stato n. 3/2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
G. Natale,
Sistemi integrati di composizione delle liti delle Pubbliche amministrazioni
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO:
M. Gerardo,
Il rimborso delle spese di patrocinio legale nei giudizi di responsabilità
nei confronti di dipendenti pubblici ai sensi dell’art. 18 del D.L.
25.03.1997 n. 67 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2018).
---------------
Sommario: 1. aspetti generali - 2. Disciplina normativa - 3. ratio
dell’art. 18 del d.l. 02.03.1997, n. 67 - 4. Natura giuridica della pretesa
al rimborso delle spese e termini della sua azionabilità - 5. Giurisdizione
sulla pretesa al rimborso delle spese di lite - 6. Natura giuridica ed
ambito del giudizio di congruità del parere espresso dall'avvocatura dello
Stato - 7. Contesto nel quale germina la spesa che dà diritto al rimborso -
8. Condizioni del diritto al rimborso: a) giudizio promosso nei confronti
del (e non dal) dipendente pubblico, nel quale non è parte l’amministrazione
di appartenenza - 9. (Segue) B) il titolare della pretesa deve avere la
qualifica di dipendente di amministrazione statale - 10. (Segue) C)
connessione dei fatti contestati con l'espletamento del servizio o con
l'assolvimento di obblighi istituzionali - 11. (Segue) D) sentenza o
provvedimento che abbia escluso la responsabilità - 12. (Segue) D) sentenza
o provvedimento che abbia escluso la responsabilità: i) all’esito di
giudizio di responsabilità civile verso terzi - 13. (Segue) D) sentenza o
provvedimento che abbia escluso la responsabilità: ii) all’esito di giudizio
di responsabilità penale - 14. (Segue) D) sentenza o provvedimento che abbia
escluso la responsabilità: iii) all’esito di giudizio di responsabilità
amministrativa - 15. (Segue) assenza di conflitto di interesse? - 16.
anticipazione del rimborso - 17. modalità di liquidazione. |
APPALTI:
C. Colelli,
La Corte di Giustizia UE si pronuncia sulla legittimazione all’impugnazione
del bando da parte di operatori economici che non hanno partecipato alla
gara - Corte di Giustizia dell’unione europea, Sez. III, sentenza
28.11.2018, C-328/17 (Rassegna Avvocatura dello Stato n.
3/2018). |
EDILIZIA
PRIVATA:
F. Muccio,
Procedura semplificata di autorizzazione di impianti di produzione di
energie rinnovabili -c.d. “minieolico”- e tutela indiretta delle aree
c.d. contermini a beni paesaggistici vincolati - Nota a Consiglio di stato,
Sez. IV, sentenza 04.09.2018 n. 5181 (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 3/2018). |
QUESITI & PARERI |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: Regolamento
incentivi sponsorizzazioni.
Domanda
Chi approva il Regolamento per la disciplina delle sponsorizzazioni, in cui
si prevede anche un incentivo per i dipendenti, così come previsto dall’art.
67, comma 3, lettera a) del CCNL 21/05/2018?
Risposta
Il Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), approvato con il decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267, fa risalire la competenza esclusiva del
Consiglio comunale nell’approvazione dei regolamenti comunali, così come
previsto all’art. 42, comma 2, lettera a). Il potere regolamentare dei
comuni risulta disciplinato anche nell’art. 7 del medesimo TUEL.
Gli unici regolamenti che sono di competenza della Giunta sono i Regolamenti
per l’Organizzazione Uffici e Servizi (ROUS), così come espressamente
previsto dall’art. 48, comma 3, del TUEL.
Anche in questo caso, tra l’altro, la Giunta deve disciplinare
l’organizzazione degli uffici e servizi, sulla base di criteri generali,
propedeuticamente emanati dal Consiglio (ancora art. 48, co. 3, TUEL). Le
materie che si possono disciplinare all’interno del ROUS sono analiticamente
indicate nell’art. 89, comma 2, del TUEL e, con tutta evidenza, non vi è
prevista la disciplina delle sponsorizzazioni, la cui fonte normativa va
rinvenuta nell’art. 19 del Codice dei contratti (d.lgs. 18.04.2016, n. 50);
nell’articolo 119 del TUEL e, prima ancora, nell’articolo 43, della legge
27.12.1997, n. 449.
All’interno di tali regolamenti, gli enti, possono anche prevedere la
possibilità di riconoscere delle incentivazioni di carattere economico nei
confronti del proprio personale dipendente (dirigenti e non dirigenti), come
previsto nei vari contratti nazionali del comparto.
Il parere dell’ANCI, citato nel quesito, si riferisce ad un comune che,
nell’anno 2007, aveva disciplinato l’“Approvazione dei criteri per la
disciplina e la gestione delle sponsorizzazioni”, con deliberazione di
Giunta.
L’escamatoge [1]
di chiamarli “criteri”, anziché regolamento, a nostro modesto parere,
rientra tra le varie e multiformi “tecniche elusive”, applicate negli
enti per sottrarre alla competenza del Consiglio (massimo organo di
indirizzo e controllo politico-amministrativo), la possibilità di poter
esaminare e votare un regolamento di carattere generale, nel quale sono
previste anche delle ricadute economiche per il personale.
A completamento informativo, si fa presente che gli ispettori del MEF-RGS,
nello loro verifiche amministrative-contabili presso i comuni, verificano
sempre che le somme previste nella parte variabile del fondo, relative ai
proventi delle sponsorizzazioni, siano precedute dall’approvazione di un
regolamento in Consiglio comunale.
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[1] Trovata ingegnosa, trucco, sotterfugio messo in atto con abilità e
astuzia, spesso al limite della disonestà, per risolvere una situazione
compromessa o uscire da una posizione difficile (17.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: La
costituzione del seggio di gara.
Domanda
Abbiamo avviato una serie di appalti (alcuni da aggiudicare con il criterio
del minor prezzo altri con il sistema dell’offerta economicamente più
vantaggiosa) e vorremmo sperimentare –circostanza nuova per la nostra
stazione appaltante– l’istituzione di un seggio di gara per l’apertura (pur
telematica) dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e delle
offerte.
Ci sono regole particolari per la costituzione del seggio o la stazione
appaltante è costretta a darsi uno specifico regolamento?
Risposta
La costituzione di uno specifico seggio di gara, effettivamente, diventerà
momento di rilievo con le cc.dd. commissioni (esclusivamente) tecniche
ovvero le commissioni scelte dall’albo dei commissari a gestione ANAC (in
vigore dal 16 aprile salvo ulteriori posposizioni).
Le commissioni scelte in questo modo –ed ad onor del vero già oggi– hanno la
funzione c.d. aggiudicatrice ovvero quella di valutare le offerte e “proporre”
l’assegnazione dell’appalto (con rinvio degli atti al RUP per la
predisposizione della proposta di aggiudicazione ed i controlli di rito).
Questo, evidentemente, nel caso di appalto da aggiudicarsi con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Nell’appalto da aggiudicarsi con il criterio del minor prezzo, come noto,
l’intero procedimento potrebbe essere condotto da un seggio di gara
presieduto dal RUP.
In relazione alle “regole” per la costituzione di un seggio di gara
–nel primo caso– destinato ad una verifica formale della documentazione (ed
evidentemente alla sola apertura delle offerte), cos’ì come nel secondo caso
dell’affidamento al minor prezzo, non risultano dal codice regole
particolari.
Ciò impone al RUP ovviamente una previa verifica di eventuali regolamenti
interni (che magari dispongano indicazione specifiche) e/o in leggi della
regione di appartenza (ad esempio, per la regione Sardegna, la nuova legge
8/2019, l’articolo 37, comma 5, puntualizza che la commissione di gara possa
svolgere anche le funzioni di verifica formale sulla documentazione ai fini
dell’ammissione/esclusione dalla gara).
Disposizioni potrebbero essere fornite al RUP anche nell’ordine di servizio
di nomina (ed attribuzione delle funzioni).
In difetto si ritiene che il responsabile unico del procedimento non possa
esimersi dalla scelta di personale adeguato nell’individuazione del seggio.
A titolo esemplificativo, potrebbe procedere direttamente con due testimoni
(due dipendenti).
Sulla nomina, nella prassi, vi sono diverse modalità operative. In certe
situazioni il responsabile del servizio (che potrebbe “attribuire”
tale prerogativa al RUP) procede con la formalizzazione dell’atto di nomina.
Ciò, a ben vedere, può essere (o meglio dovrebbe essere) già chiarito nel
bando di gara o l’atto omologo.
Sulla competenza/esperienza, è chiaro che deve trattarsi di soggetti in
grado di comprendere eventuali problematiche ed essere di ausilio reale per
il RUP che potrebbe essere obbligato ad attivare le forme di soccorso
istruttorio (specificativo e integrativo).
Tale aspetto, come si diceva, potrebbe essere semplicemente sintentizzato
nel bando con riferimento che le verifiche in parola verranno effettuate
attraverso apposito seggio di gara (magari specificando le competenze) (16.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Gli
obblighi di trasparenza nei piccoli comuni.
Domanda
Il nostro comune è un piccolo
ente, con pochi dipendenti che a stento riescono a garantire i servizi
essenziali. Il decreto trasparenza consta di oltre 270 adempimenti. Ci sono
delle agevolazioni in considerazione di difficoltà oggettive? Possiamo fare
a meno di pubblicare qualcosa?
Risposta
Il decreto Trasparenza (decreto legislativo 14.03.2013, n. 33), entrato in
vigore nell’aprile del 2013, sfortunatamente non gradua gli obblighi in
funzione della dimensione e delle caratteristiche dell’ente, imponendo gli
stessi obblighi sia a metropoli come Roma capitale che al comune di
Moncenisio (29 abitanti), collocato in Piemonte.
Anche su sollecitazione di varie parti politiche, il decreto ha avuto
un’importante semplificazione con il d.lgs. 97/2016 che ha visto la
riduzione di molti obblighi e l’abrogazione di alcuni articoli.
Forte era l’aspettativa dei piccoli enti in seguito dell’introduzione
dell’art. 3, comma 1-ter, del d.lgs. 33/2013, da parte d.lgs. 97/2016,
secondo cui l’Autorità Nazionale Anticorruzione può, con il Piano Nazionale
Anticorruzione, prevedere misure di semplificazione per i comuni con
popolazione inferiore a 15.000 abitanti.
Forte è stata anche la delusione nel leggere nell’ Aggiornamento 2018 al
Piano Nazionale Anticorruzione (Delibera Anac n. 1074 del 21.11.2018 ) che
la semplificazione si riduceva a:
• possibilità di adottare un unico Piano Anticorruzione per tutti i
comuni appartenenti ad un’Unione;
• possibilità di nomina di un unico Responsabile della prevenzione
della corruzione e della trasparenza (RPCT) per i predetti enti;
• possibilità di assolvere l’obbligo di pubblicazione dei documenti
anche mediante un link ad altro sito istituzionale ove i dati e le
informazioni siano già pubblicati;
• esenzione per gli amministratori di enti con popolazione fino a
15 mila abitanti dalla pubblicazione delle dichiarazioni reddituali e
patrimoniali (art. 14, comma 1, lettera f), d.lgs 33).
Su questo solco si muove l’Autorità nazionale nella delibera 124 del
13.02.2019, in cui obbliga un piccolo comune italiano alla pubblicazione di
tutti i dati, pena la segnalazione all’ufficio per i procedimenti
disciplinari, all’organismo indipendente di valutazione, alla Corte dei
Conti e l’irrogazione delle sanzioni previste dall’articolo 47, del decreto
trasparenza.
A nulla valgono infatti le giustificazioni addotte dal sindaco del comune
interessato, con riferimento alla scarsa dotazione di personale (“privo
di segretario comunale titolare, con cinque dipendenti, di cui due part-time,
due operai e tre impiegati negli uffici”) e di risorse finanziarie (“la
situazione economica vicina al disavanzo, ha costretto a scelte di bilancio
dolorose, dunque a rimandare l’attivazione del sito fino al reperimento di
risorse di bilancio”) .
La “clemenza” dell’ANAC si manifesta nel tempo atteso prima di
emettere il provvedimento d’ordine (un anno dal primo invito “bonario”),
non potendo sottrarsi agli obblighi di vigilanza ed irrogazione delle
sanzioni che la legge gli impone (16.04.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Ordinanza
sindacale di rimozione manto di copertura in lastre tipo eternit di
fabbricati industriali.
Ai sensi della L. n. 257/1992 (Norme relative alla
cessazione dell’impiego dell’amianto), qualora sugli edifici si renda
necessaria la rimozione dell’amianto, al ricorrere delle circostanze ivi
previste, “il costo delle operazioni di rimozione dell’amianto è a carico
dei proprietari degli immobili” (art. 12, c. 3).
La L.R. n. 45/2017 ha previsto che “L’Amministrazione regionale è
autorizzata a concedere contributi per la realizzazione degli interventi
sostitutivi di rimozione dell’amianto da edifici o manufatti di proprietà
privata, nel caso di inottemperanza all’ordinanza contingibile e urgente
emessa dal Sindaco nei confronti dei proprietari degli edifici e dei
manufatti interessati”. In attuazione di tale disposizione è stato emanato
il DPReg. n. 45/2019.
Il Comune riferisce di voler avviare il procedimento per la rimozione del
manto di copertura in lastre tipo eternit di due fabbricati ad uso
industriale, a seguito delle risultanze del sopralluogo effettuato dall’AAS
competente per territorio per la verifica dello stato di conservazione di
detta copertura.
Il Comune precisa che i privati proprietari dei fabbricati hanno concesso
nel 2014, con atto pubblico, un diritto di superficie sulla “porzione
immobiliare ad uso lastrico solare, costituente il piano copertura” ad
una Società, che, in forza del contratto, avrebbe dovuto rimuovere le lastre
tipo eternit ivi presenti e costruirvi e mantenervi quattro impianti
fotovoltaici e quant’altro necessario per lo svolgimento dell’attività di
produzione di energia elettrica.
Nel 2016 la Società è stata dichiarata fallita dal Tribunale competente ed
il diritto di superficie è entrato nella procedura fallimentare
[1].
In tale contesto, il Comune chiede a chi vada notificata l’ordinanza di
rimozione del manto di copertura con lastre tipo eternit dei fabbricati
industriali di cui si tratta.
Si premette che l’attività di consulenza svolta da questo Servizio consta
nel fornire elementi giuridici in generale sulle questioni poste, che
possano essere di ausilio agli enti locali per la soluzione, in autonomia,
dei casi concreti, senza alcuna ingerenza nella valutazione degli atti
inerenti alle singole fattispecie.
Per cui, preso atto dell’intenzione dell’Ente di far rimuover le coperture
in eternit degli immobili di cui si tratta, a seguito della verifica
compiuta dall’AAS competente, con riferimento al quesito posto circa i
soggetti cui notificare l’ordinanza di rimozione, si formulano alcune
riflessioni, che l’Ente potrà utilizzare per addivenire alla soluzione più
opportuna del caso di interesse.
Secondo la normativa di settore, di cui alla L. 27.03.1992, n. 257, “Norme
relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”, qualora sugli
edifici si renda necessaria la rimozione dell’amianto al ricorrere delle
circostanze ivi previste [2],
“il costo delle operazioni di rimozione dell’amianto è a carico dei
proprietari degli immobili” (art. 12, c. 3).
La normativa richiamata, da prendere a riferimento da parte del Comune per
il procedimento di rimozione dell’amianto, individua espressamente nei
proprietari i soggetti tenuti a sostenerne i costi, a prescindere dai
rapporti di natura contrattuale che questi possano aver instaurato con altri
privati in relazione agli immobili e da cui siano sorti altri diritti sugli
stessi.
Non vi è, invero, nell’art. 12 della L. n. 257/1992, alcun riferimento, per
quanto concerne l’imputazione dei costi della rimozione dell’amianto, a
soggetti titolari –sugli immobili di cui si tratta– di altri diritti diversi
dal diritto di proprietà.
Sembra dunque potersi ritenere –venendo al caso di specie– che l’ordinanza
sindacale di rimozione del manto di copertura in lastre eternit dei
fabbricati industriali vada notificata –ai sensi della normativa di settore
richiamata– ai proprietari di detti immobili, a prescindere dalle vicende
giuridiche che li hanno interessati, in particolare dai rapporti inter
partes tra i proprietari e la ditta concessionaria del diritto di
superficie sul lastrico solare, che potranno essere da questi risolti nelle
opportune sedi.
Con riferimento alla posizione del Comune –cui l’attività di consulenza di
questo Servizio è rivolta– si informa che la L.R. 28.12.2017, n. 45 (Legge
di stabilità 2018), ha previsto, all’art. 4, comma 27, che “L’Amministrazione
regionale è autorizzata a concedere contributi ai Comuni per la
realizzazione degli interventi sostitutivi di rimozione dell’amianto da
edifici o manufatti di proprietà privata, nel caso di inottemperanza
all’ordinanza contingibile e urgente emessa dal Sindaco nei confronti dei
proprietari degli edifici e dei manufatti interessati”
[3].
---------------
[1] Peraltro, il curatore fallimentare ha comunicato di essere stato
autorizzato dal comitato dei creditori e con il visto del Giudice Delegato
alla rinuncia alla liquidazione del diritto di superficie del manto di
copertura di cui è questione, ai sensi dell’art. 104-ter, della legge
fallimentare (R.D. n. 267/1942).
Viene altresì detto nel quesito che il diritto di superficie di cui si
tratta è stato fatto oggetto nel 2015 di espropriazione immobiliare. In
proposito, il Comune ha riferito che la procedura esecutiva nei confronti
della Società è ancora in corso, ma il legale della ditta esecutrice ha
fatto sapere che la sua assistita rinuncerà all’espropriazione immobiliare
del diritto di superficie.
[2] Come osserva la Corte di Cassazione, la L. n. 257/1992 –posta a tutela
dell’ambiente e della salut –ha vietato per il futuro la commercializzazione
e l’utilizzazione di materiali costruttivi in fibrocemento, ma non ha
imposto la rimozione generalizzata di tali materiali nelle costruzioni già
esistenti al momento della sua entrata in vigore, prevedendo rispetto a tali
costruzioni l’obbligo dei proprietari degli immobili di comunicare agli
organi sanitari locali la presenza di amianto fioccato o friabile negli
edifici (art. 12).
[3] In attuazione di tale disposizione, è stato emanato il DPReg.
28.03.2019, n. 54, recante: “Regolamento per la concessione dei contributi
di cui all’articolo 4, comma 27 della legge regionale 28.12.2017, n. 45
(Legge di stabilità 2018) per la realizzazione da parte dei Comuni, di
interventi sostitutivi di rimozione dell’amianto da edifici o manufatti di
proprietà privata, nel caso di inottemperanza di ordinanze contingibili e
urgenti”. Il Regolamento è pubblicato nel BUR Friuli Venezia Giulia n. 15
del 10.04.2019 (15.04.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Risposta ai quesiti espressi in merito all’applicazione del
contributo straordinario (ex art. 16 DPR 380/2001) ai sensi della D.A.L. 20.12.2018 n. 186
(Regione Emilia Romagna,
nota 12.04.2019 n. 371904 di
prot.).
----------------
Al riguardo, si leggano anche:
●
deliberazione Assemblea Legislativa 20.12.2018 n. 186 recante «Disciplina
del contributo di costruzione ai sensi del titolo III della legge regionale
30.07.2013, n. 15 in attuazione degli articoli 16 e 19 del D.P.R.
06.06.2001, n. 380. “Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia”»;
● le
slide di approfondimento;
●
Contributo di costruzione, cosa cambia. |
CONSIGLIERI COMUNALI: Incompatibilità
di un amministratore locale.
Non integra la causa di incompatibilità di cui all’art.
63, co. 1, num. 2), TUEL la stipulazione da parte di un amministratore
comunale di un contratto di locazione con l’Ente presso cui svolge il
proprio mandato elettivo, qualora le obbligazioni nascenti dal contratto
concluso siano stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed
escludano da parte del Comune il controllo e la valutazione delle
prestazioni.
Il Comune chiede un parere in merito all’esistenza di una causa di
incompatibilità per un amministratore locale, titolare di un’impresa
individuale, che, in quanto risultante migliore offerente nella gara indetta
dall’Ente avente ad oggetto “la locazione dell’immobile, da adibire a
punto di ristoro […] e delle aree adiacenti attrezzate ad uso pic-nic”,
dovrebbe stipulare con l’Ente il relativo contratto.
Con riferimento alla questione posta si ritiene debba essere preso in
considerazione l’articolo 63, comma 1, num. 2), TUEL ai sensi del quale non
può ricoprire la carica di consigliere comunale “colui che, come […]
titolare […] ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni
di diritti, somministrazioni o appalti, nell’interesse del comune”.
In via preliminare si ricorda come un esame delle eventuali cause di
incompatibilità o ineleggibilità che possono investire gli amministratori
locali deve essere effettuato in chiave di stretta interpretazione,
rifuggendo da qualsiasi tipo di estensione analogica delle stesse, atteso
che le cause ostative all’espletamento del mandato elettivo incidono
direttamente sul diritto di elettorato passivo, alla luce della riserva di
legge in materia posta dall’articolo 51 della Costituzione.
Dal tenore letterale della disposizione sopra citata segue che la
sussistenza dell’incompatibilità in riferimento richiede, quanto al
requisito oggettivo, lo svolgimento di un servizio nell’interesse del
comune.
Nel termine servizi si comprende “qualsiasi rapporto intercorrente con
l’ente locale che a causa della sua durata e della costanza delle
prestazioni effettuate, sia in grado di determinare conflitto di interessi.
[…] Contenuto dei servizi è una prestazione di fare, senza elaborazione
della materia, diretta a produrre una utilità, sia essa ad esecuzione
prolungata, continuativa o periodica” [1].
La Cassazione [2]
ha osservato come «la circostanza che il legislatore abbia utilizzato il
termine “servizi” al plurale e senza ulteriori specificazioni e/o
qualificazioni, se non quella che deve trattarsi di “servizi nell’interesse
del comune”, legittima l’interprete a comprendere in esso qualsiasi tipo di
“servizio” svolto nell’interesse del comune». E, ancora
«l'espressione "servizi" non allude soltanto ai "servizi pubblici" locali,
ivi compresi i c.d. "servizi sociali", come sono tradizionalmente intesi
-gestiti in proprio dall'ente locale o affidati alla gestione di altri
soggetti, pubblici o privati, ad es., mediante concessione o convenzione;
relativamente ai quali ultimi, pertanto, non v'è dubbio che il soggetto
concessionario o affidatario dei servizi medesimi possa versare,
sussistendone le condizioni di legge, nella situazione di incompatibilità di
interessi de qua- ma comprende, appunto, qualsiasi tipo di servizio svolto
nell'interesse del comune».
Si è, altresì, affermato che «la formulazione assai ampia della
disposizione in esame (“servizi nell’interesse del comune”) è giustificata
dalla sua ratio: il legislatore, infatti, intende comprendere in essa –nel
modo più ampio possibile, appunto– tutte le ipotesi, in cui la
“partecipazione”, nel senso dianzi precisato, in servizi imputabili al
comune –e, per ciò stesso, di interesse generale– possa dar luogo,
nell’esercizio della carica del “partecipante”, eletto amministratore
locale, ad un conflitto tra interesse particolare di questo soggetto e
quello generale dell’ente locale».
Da ultimo, l’indicata sentenza afferma, anche, che «la “partecipazione”
soggettivamente qualificata ivi prevista, in tanto è rilevante, in quanto
dia luogo ad un conflitto di interessi, anche potenziale, che sia in
concreto ravvisabile, caso per caso, alla luce della disciplina particolare
che regola il servizio e la partecipazione ad esso».
Preme, al riguardo, sottolineare che la norma è, in generale, finalizzata ad
evitare che la medesima persona fisica rivesta contestualmente la carica di
amministratore di un comune e la qualità di titolare, amministratore,
dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento di un soggetto
che si trovi in rapporti giuridici con l’ente locale, caratterizzati da una
prestazione da effettuare all’ente o nel suo interesse, atteso che tale
situazione potrebbe determinare l’insorgere di una posizione di conflitto di
interessi.
La giurisprudenza, sottolineando che la ratio dell’incompatibilità
risiede nell’esigenza di evitare che il medesimo soggetto venga coinvolto in
due sfere di interessi potenzialmente in contrasto, ha evidenziato come tale
esigenza ricorra in tutte le ipotesi in cui, per effetto di tale rapporto e
dell’assunzione della carica elettiva, il soggetto venga a trovarsi,
contemporaneamente, nella posizione di controllore e in quella di
controllato.
[3]
Con riferimento alla fattispecie in essere risulta pertanto determinante
valutare se, analizzando le clausole contenute nel bando di gara,
l’effettiva consistenza dei beni dedotti in contratto ed ogni altra
circostanza del caso concreto anche in base alle intenzioni delle parti,
possa ritenersi integrata, anche solo potenzialmente, quella posizione di
conflitto di interessi in capo all’amministratore interessato che
giustificherebbe l’insorgenza dell’indicata causa di incompatibilità
[4].
Indipendentemente dal nomen iuris utilizzato per qualificare il
contratto, qualora lo stesso avesse natura sostanziale di affitto di
azienda[5] più facilmente potrebbe essere ricondotto alla nozione di “servizio
svolto nell’interesse del comune”; quanto alla locazione essa di regola
non integra la causa di incompatibilità in riferimento in quanto, come
affermato dalla giurisprudenza, “le relative obbligazioni [sono]
stabilite sin dal momento del sorgere del rapporto, [ed] escludono da parte
del Comune il controllo e la valutazione delle prestazioni”
[6].
Nel ricordare che compete al consiglio comunale la valutazione
dell’eventuale sussistenza della causa di incompatibilità del componente
l’organo elettivo [7],
segue che lo stesso dovrà operare un’attenta lettura delle clausole
contrattuali e delle ulteriori condizioni caratterizzanti il contratto al
fine di accertare se ricorrano o meno i presupposti per l’applicabilità
della causa di incompatibilità di cui all’articolo 63, comma 1, num. 2),
TUEL.
Ciò -si ribadisce- a prescindere dal nomen iuris utilizzato per
identificare la tipologia contrattuale oggetto di futura stipulazione e
tenuto conto altresì del fatto che nemmeno la natura di locazione (anziché
di affitto di azienda) del contratto può risultare di per se stessa decisiva
per la soluzione della questione che ci occupa. Infatti, anche qualora si
potesse ritenere di configurare la fattispecie come locazione commerciale
[8], ciò che sarebbe
determinante ai fini dell’esclusione della causa di incompatibilità è, alla
luce dell’orientamento giurisprudenziale succitato, che le relative
obbligazioni siano prestabilite sin dal momento del sorgere del rapporto ed
escludano il controllo e la valutazione delle prestazioni da parte del
Comune nonché potenziali conflitti [9].
In ultimo si rileva che, ai fini dell’accertamento della sussistenza
dell’indicata causa di incompatibilità, è compito del Comune interrogarsi
altresì circa lo scopo che intende perseguire con la conclusione del
contratto in riferimento: in particolare valutando se vi sia sottesa la
realizzazione di un interesse generale dell’Amministrazione comunale quale
la valorizzazione turistica dell’area.
Al riguardo si segnala la norma di cui all’articolo 2 del bando di gara
nella parte in cui dispone che “il locatario dovrà destinare l’immobile
esclusivamente per una attività di somministrazione di alimenti e bevande ed
i terreni (area pic-nic) per attività finalizzate alla fruizione turistica
dell’area delle Grotte di […]” nonché l’articolo 11 dello stesso nella
parte in cui individua una serie di criteri qualitativi di valutazione delle
offerte tra i quali si citano i seguenti: “C) impegno a svolgere attività
correlate all’offerta turistica (quali ad esempio: Organizzazione di eventi,
manifestazioni, ecc.) […]; E) Migliore esperienza in attività turistiche […]”.
L’eventuale riconoscimento di tale finalità potrebbe infatti sottendere che
l’affittuario/locatario “ha parte […] in servizi […] nell’interesse del
comune”; da ciò conseguirebbe una situazione di potenziale conflitto di
interesse con l’amministrazione comunale.
---------------
[1] E. Maggiora, “Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità
nell’ente locale”, Giuffrè editore, 1999, pag. 146.
[2] Cassazione civile, sez. I, sentenza del 16.01.2004, n. 550.
[3] Corte d’Appello di Napoli, sentenza del 07.02.2003, n. 477.
[4] Non risultano, invece, vincolanti le espressioni terminologiche
utilizzate (locazione piuttosto che affitto) le quali recedono rispetto
all’effettiva consistenza delle prescrizioni contenute nel bando di gara e
degli altri elementi indicati.
[5] In generale, si parla di affitto quando il contratto ha per oggetto il
godimento di una cosa produttiva (art. 1615, cod. civ.), mentre la locazione
è il contratto col quale una parte (locatore) si obbliga a far godere
all’altra (conduttore) una cosa mobile o immobile per un dato tempo verso un
determinato corrispettivo (art. 1571, cod. civ.).
Secondo consolidata giurisprudenza (fra le altre, Cassazione civile,
sentenza dell’11.06.2007, n. 13683; più di recente, sempre nello stesso
senso, si veda Cassazione civile, sez. III, sentenza del 16.10.2017, n.
24276), “costituisce affitto di azienda e non locazione di immobile con
pertinenze un contratto in cui i beni ceduti siano considerati, non nella
loro individualità, ma nel loro complesso, in un rapporto, quindi, di
interdipendenza e complementarietà con gli altri elementi, in ragione del
fine economico perseguito dall'imprenditore. La differenza tra locazione di
immobile (eventualmente con pertinenze) e affitto di azienda, infatti,
consiste nel fatto che, nella prima ipotesi, l'immobile concesso in
godimento viene considerato specificamente, nella economia del contratto,
come l'oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza
effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri
elementi i quali, siano essi legati materialmente o meno all'immobile,
assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all'immobile
funzionalmente. Diversamente, nell'affitto di azienda, l'immobile non viene
considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi
costitutivi del complesso dei beni mobili e immobili, legati tra di loro da
un vincolo di interdipendenza e di complementarietà per il conseguimento di
un determinato fine produttivo, sicché l'oggetto del contratto è costituito
dall'anzidetto complesso unitario”.
[6] Corte d’appello Reggio Calabria, 23.01.1958. Si cita anche la sentenza
della Cassazione civile, sez. I, dell’11.08.1972, n. 2674 che ha ritenuto
non concretare l’insorgenza della causa di incompatibilità la stipulazione
di un “contratto di concessione di affitto di una cava comunale, poiché le
obbligazioni nascenti dal contratto ed in esso prestabilite escludono
potenziali conflitti”. Entrambe le massime sono tratte da E. Maggiora,
“Ineleggibilità, incompatibilità, incandidabilità nell’ente locale”, pag.
151, citato in nota 3.
[7] È, infatti, principio di carattere generale del nostro ordinamento che
gli organi elettivi debbano esaminare i titoli di ammissione dei propri
componenti. Così come, in sede di esame della condizione degli eletti (art.
41 del D.Lgs. 267/2000), è attribuito al consiglio comunale il potere-dovere
di controllare se nei confronti dei propri membri esistano condizioni
ostative all’esercizio delle funzioni, qualora venga successivamente
attivato il procedimento di contestazione di una causa di incompatibilità, a
norma dell’art. 69 del D.Lgs. 267/2000, spetta al consiglio, al fine di
valutare la sussistenza di detta causa, esaminare le osservazioni difensive
formulate dall’amministratore e, di conseguenza, adottare gli atti che siano
ritenuti necessari.
[8] Si rileva che la prescrizione di cui all’articolo 5 del bando di gara
(rubricato “Durata dell’affidamento ed importo a base di gara”) fissa la
durata del contratto da stipularsi in tre anni, eventualmente rinnovabili
per un ulteriore triennio. Al riguardo, si segnala in via collaborativa che
un tale arco temporale risulta in contrasto con la norma di cui all’articolo
27 della legge 27.07.1978, n. 392 (“Disciplina delle locazioni di immobili
urbani”) la quale, al comma 1, recita: “La durata delle locazioni e
sublocazioni di immobili urbani non può essere inferiore a sei anni se gli
immobili sono adibiti ad una delle attività appresso indicate industriali,
commerciali e artigianali di interesse turistico, quali agenzie di viaggio e
turismo, impianti sportivi e ricreativi, aziende di soggiorno ed altri
organismi di promozione turistica e simili”.
[9] Particolare attenzione si ritiene debba essere posta all’articolo 11 del
bando di gara nella parte in cui dispone che: “L’aggiudicatario si impegna:
[…] a presentare annualmente al Comune un prospetto con l’indicazione delle
giornate di apertura, dichiarandosi consapevole che il Comune effettuerà dei
controlli e che dall’esito dei medesimi verrà valutato il rispetto delle
condizioni offerte. Qualora tali condizioni non risultassero garantite potrà
essere avviata la procedura per la risoluzione del contratto”. Il precedente
articolo 7 del bando, infatti, prevede che l’aggiudicazione avvenga a favore
dell’offerta complessiva finale più vantaggiosa sulla base di una serie di
elementi di cui alcuni aventi natura qualitativa, il rispetto dei quali è
rimesso al controllo dell’ente locale (11.04.2019
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ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Risoluzione
unilaterale.
Domanda
È obbligatorio procedere alla risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro
al compimento dei 65 anni di età del dipendente, limite ordinamentale per
gli enti pubblici ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. d), della Legge
70/1975?
Risposta
Al compimento dei 65 anni di età occorre appurare l’anzianità contributiva
del dipendente anche tenendo conto delle contribuzioni presenti in altre
casse pensionistiche ed eventualmente non ricongiunte.
Il primo controllo da effettuare è verificare se il dipendente al 31.12.2011
aveva raggiunto requisito a pensione di cui alla Legge 247/2007 (Pre-Fornero):
– anzianità contributiva pari a 40 anni (39 anni, 11 mesi e 16
giorni);
– quota 96 (60 anni e 6 mesi di età con 35 anni e 6 mesi di
contributi).
In caso positivo occorre collocare a riposo d’ufficio il dipendente.
Se il dipendente non ha raggiunto nessuno dei requisiti sopra esposti alla
data del 31.12.2011, l’Amministrazione lo accompagna al primo traguardo
utile che dovrà verificarsi al raggiungimento del diritto a pensione
anticipata oppure pensione di vecchiaia (11.04.2019
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APPALTI: Contributo
ANAC e soccorso istruttorio.
Domanda
In sede di apertura della documentazione amministrativa relativa ad una
procedura aperta sopra soglia comunitaria per l’affidamento di servizi, il
seggio di gara rileva che l’operatore non ha allegato prova dell’avvenuto
pagamento del contributo ANAC, è possibile attivare il soccorso istruttorio?
Risposta
La questione del mancato pagamento del contributo ANAC presenta profili di
incertezza, in particolare per le differenti posizioni assunte dalla
giurisprudenza sull’argomento, alcune anche poco condivisibili in ragione
della rigidità dell’applicazione e interpretazione della previsione
legislativa, soprattutto a seguito del nuovo contesto normativo in materia
di contratti pubblici, avente ad oggetto ogni forma di approvvigionamento
(lavori, forniture e servizi), nonché alla natura stessa dell’Autorità
Nazionale Anticorruzione.
Ci si riferisce in particolare alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. V,
n. 3950/2018, dove il Supremo Consesso ha ritenuto in primo luogo e
principalmente che la l. 23.12.2005 n. 266 pone tra l’altro al comma 67 “l’obbligo
di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale
condizione di ammissibilità dell’offerta nell’ambito delle procedure
finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche” e che detta
previsione legislativa appare comune una tipica espressione del brocardo “in
claris non fit interpretatio” con la conseguenza che il versamento di
tale contributo è caratteristica delle gare in materia di aggiudicazione
della realizzazione di opere pubbliche, mentre nel caso si trattava
dell’affidamento del servizio di accertamento e riscossione dell’imposta
comunale sulle pubblicità e dei diritti sulle pubbliche affissioni.
Consentendo di fatto il soccorso istruttorio, analogamente ad altre
pronunce, in quanto nella lex specialis non era stato espressamente
indicato l’obbligo di versamento del contributo ANAC, a pena di esclusione.
Diverso il caso in cui la stazione appaltante si sia vincolata riportando la
disciplina del bando tipo n. 1 ANAC, che al punto 12 prevede il pagamento
del contributo a pena di esclusione, ai sensi dell’art. 1, comma 67, della
l. 266/2005, con possibilità di attivare il soccorso istruttorio a norma
dell’art. 83, comma 9, del Codice, a condizione che il pagamento sia stato
già effettuato prima della scadenza del termine di presentazione
dell’offerta, in quanto considerato dall’Autorità come condizione di
ammissibilità dell’offerta stessa.
Nel caso riportato nel quesito ci si riferisce ad una gara sopra soglia
comunitaria, rispetto alla quale si ipotizza (salvo esclusioni di legge) che
la Stazione appaltante abbia utilizzato il disciplinare di gara di cui al
bando tipo n. 1, con possibilità quindi di attivare il soccorso istruttorio
al solo fine di consentire l’allegazione tardiva dell’attestazione di
pagamento effettuata entro i termini di scadenza per la presentazione delle
offerte (TAR Puglia, sez. I, n. 106/2018).
Considerato l’impatto che una tale disciplina comporta sulle procedure di
gara appare opportuno cercare di regolamentare con chiarezza, anche sotto
soglia il versamento del contributo ANAC, e ciò al fine di evitare problemi
applicativi e consentire trattamenti unovici (10.04.2019
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ENTI LOCALI: Elenco
dei contributi erogati nell’anno precedente.
Domanda
Ci è stato detto che è stato abrogato l’obbligo di pubblicare l’Albo dei
beneficiari di provvidenze di natura economica, previsto dall’articolo 1,
del d.P.R. 118/2000. Quali altri obblighi abbiamo in materia di contributi?
Risposta
Si conferma che l’obbligo previsto dall’articolo 1, del decreto Presidente
della Repubblica 07.04.2000, n. 118, è stato effettivamente abrogato
dall’art. 43, comma 2, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97.
Come avviene di sovente, però, nella legislazione italiana, ciò che scompare
da una parte, risorge magari sotto altro nome– in un altro
provvedimento.
Nel caso di specie, per scovare la resurrezione normativa, occorre fare
riferimento all’articolo 27, comma 2, del decreto legislativo 14.03.2013, n.
33 (cd: decreto Trasparenza), il quale testualmente prevede:
2. Le informazioni di cui al comma 1 sono riportate, nell’ambito della
sezione «Amministrazione trasparente» e secondo modalità di facile
consultazione, in formato tabellare aperto che ne consente l’esportazione,
il trattamento e il riutilizzo ai sensi dell’art. 7, e devono essere
organizzate annualmente in unico elenco per singola amministrazione.
Con una operazione meramente terminologica, il legislatore nazionale ha
abrogato l’Albo, sostituendolo con l’Elenco, prevedendo, comunque, in capo
alle amministrazioni di essere massimamente trasparenti –non solo
pubblicando ogni singolo atto di concessione, approvato durante l’anno– ma
riassumendo il totale delle loro attività erogatorie in un elenco (in
formato tabella aperto) dei soggetti beneficiari degli atti di concessione
di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari alle imprese e di
attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati di importo superiore a mille euro, in ogni anno solare.
Di norma, la tempistica di compilazione e pubblicazione dell’elenco dei
beneficiari, viene prevista nel regolamento comunale (obbligatorio),
adottato ai sensi dell’articolo 12, della legge 07.08.1990, n. 241.
L’obbligo viene, poi, assolto pubblicando l’elenco nella sezione
Amministrazione trasparente > Sovvenzioni, contributi, sussidi vantaggi
economici > Atti di concessione, per la durata di anni cinque, contati dal
1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di
pubblicazione.
A completamento informativo, si fa presente che non pochi comuni, nella
sezione Trasparenza del loro Piano Anticorruzione, hanno previsto di
pubblicare, non solo i contributi superiori a 1.000 euro (come previsto
dalla legge), ma anche quelli di importo inferiore, mentre altri, sempre in
applicazione al concetto di accessibilità totale (articolo 1, d.lgs.
33/2013), hanno stabilito di comporre l’elenco, distinguendo i contributi in
base ai vari campi di intervento.
A mero titolo esemplificativo e non esaustivo, le materie potrebbero essere
le seguenti:
• contributi a enti ed associazioni;
• contributi in ambito culturale, turistico e pubblica istruzione;
• contributi in ambito sportivo;
• contributi per eventi e manifestazioni;
• contributi per situazioni di salute e disagio economico-sociale.
Per tale ultima categoria (contributi per salute e povertà), occorre
prestare la massima attenzione alle disposizioni contenute nell’articolo 26,
comma 4, del decreto Trasparenza, laddove si specifica, testualmente, che:
4. È esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche
destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo, qualora da tali
dati sia possibile ricavare informazioni relative allo stato di salute
ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati.
Per garantire efficacemente la tutela dei dati personali di tali categorie
di beneficiari, il Garante Privacy italiano ha più volte specificato che
occorre sostituire i dati identificativi (cognome e nome, ad esempio) con
dei codici sostitutivi del tipo: Utente Codice 001/2019. La stessa
precauzione di tutela, ovviamente, dovrà essere preservata nella
compilazione dell’elenco dei beneficiari, che si effettua annualmente (09.04.2019
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ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Non
autorizzazione stipula CCDI.
Domanda
Può l’organo di governo non condividere l’ipotesi di Contratto integrativo
e, quindi, non autorizzare il presidente della delegazione trattante di
parte pubblica alla sottoscrizione del contratto definitivo?
Risposta
Il CCNL prevede una precisa procedura per la stipulazione del contratto
decentrato integrativo, che si articola nelle fasi sotto riportate:
• Nomina delegazione di parte pubblica
• Direttive dell’organo politico: spetta al competente organo di
direzione politica (giunta o altro analogo organo, in relazione alla
tipologia degli enti del comparto), necessariamente ed in via preventiva, la
formulazione delle direttive alla delegazione trattante, per definirne gli
obiettivi strategici ed i vincoli anche di ordine finanziario.
• Prima convocazione per l’avvio del negoziato
• Svolgimento delle trattative
• Firma dell’Ipotesi di contratto decentrato integrativo
• Verifica della compatibilità degli oneri finanziari: tale
controllo, di competenza dell’organo di revisione, è finalizzato non solo
alla verifica della compatibilità degli oneri delle clausole del contratto
decentrato con i vincoli posti dal contratto nazionale e dal bilancio
dell’ente, ma anche del rispetto delle disposizioni inderogabili di norme di
legge che incidono sulla misura e sulla corresponsione dei trattamenti
accessori.
• Esame dell’organo di direzione politica: Il presidente della
delegazione di parte pubblica trasmette l’Ipotesi di accordo e le relative
relazioni (illustrativa e tecnico-finanziaria), corredate del parere
positivo dell’organo di controllo, all’organo di direzione politica per la
necessaria verifica, sulla base di una propria e autonoma valutazione di
merito, di alcuni specifici contenuti dell’ipotesi di contratto integrativo:
a) corrispondenza alle indicazioni delle direttive, con particolare
riferimento al raggiungimento dei risultati ed obiettivi ivi espressamente
indicati;
b) conformità dei contenuti contrattuali anche agli obiettivi ed ai
programmi generali dell’ente;
c) convergenza con le linee di politica sindacale e del personale perseguite
dall’ente;
d) utilizzo efficiente, efficace ed economico delle risorse disponibili;
e) adeguamento del contratto integrativo alla soluzione di problemi
organizzativi e funzionali dell’ente;
f) coerenza dei costi del contratto integrativo con le indicazioni di
carattere finanziario contenute nelle direttive e compatibilità degli stessi
con i vincoli di bilancio e con le altre norme contrattuali in materia di
quantificazione delle risorse;
g) rispetto delle disposizioni inderogabili che incidono sulla misura e
sulla corresponsione dei trattamenti accessori;
• Sottoscrizione definitiva del contratto decentrato integrativo
• Adempimenti successivi alla sottoscrizione definitiva: invio del
contratto decentrato sottoscritto definitivamente all’ARAN e al CNEL.
Quindi, di fatto, poiché l’ipotesi prima di diventare “definitiva”
torna all’organo di governo, sarà sempre possibile, da parte di quest’ultimo
indicare di non procedere alla stipula. Ovviamente, dovranno essere
individuate precise motivazioni nel rispetto dei principi di correttezza e
buona fede, più volt invocati dal CCNL 21.05.2018 (04.04.2019
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APPALTI: L’articolazione
di un ufficio di supporto per il RUP.
Domanda
Il Comune intende costituire uno specifico ufficio di supporto al RUP al
fine di creare dipendenti specializzati nei procedimenti di gara. Vorremmo
avere un chiarimento sulla corretta articolazione di questa struttura e
capire se nel caso –come il nostro– in cui il RUP non coincida con il
responsabile del servizio possa effettivamente coordinare un gruppo lavoro e
nominare, se del caso, anche specifici responsabili di procedimento.
Risposta
La possibilità di costituire uno specifico ufficio/servizio di supporto al
RUP è una delle ipotesi effettivamente declinate nell’art. 31 al comma 9 in
cui (testualmente) si dispone che “La stazione appaltante, allo scopo di
migliorare la qualità della progettazione e della programmazione
complessiva, può, nell’ambito della propria autonomia organizzativa e nel
rispetto dei limiti previsti dalla vigente normativa, istituire una
struttura stabile a supporto dei RUP, anche alle dirette dipendenze del
vertice della pubblica amministrazione di riferimento. Con la medesima
finalità, nell’ambito della formazione obbligatoria, organizza attività
formativa specifica per tutti i dipendenti che hanno i requisiti di
inquadramento idonei al conferimento dell’incarico di RUP, anche in materia
di metodi e strumenti elettronici specifici quali quelli di modellazione per
l’edilizia e le infrastrutture”.
E’ evidente che anche al di là della disposizione normativa, la stazione
appaltante può strutturare articolazioni come meglio ritiene opportuno (il
riferimento ai vincoli normativi deve essere inteso alle limitazioni
assunzionali, ovviamente, visto che non si può pensare che una disposizione
simile abiliti ad assunzioni senza rispetto dei limiti fissati dal
legislatore).
Dalla norma, però, emerge in modo abbastanza chiaro che tale struttura non
può essere posta alle “dipendenze” del RUP, soprattutto nel caso in
cui, come quello descritto, il responsabile unico del procedimento non
coincida con il dirigente/responsabile del servizio dotato di poteri
gestionali.
Pertanto, la struttura può essere articolata come ufficio “servente”
e di collaborazione rispetto ai compiti del RUP e questi ha limitati margini
(per le finalità della procedura di affidamento) di coordinamento.
A titolo esemplificativo, si può ritenere che nell’ambito dell’organico
assegnato con l’ufficio possa costituire il seggio di gara, possa far
predisporre atti istruttori di cui rimane, però, il responsabile finale (si
pensi all’adozione dei provvedimenti di ammissione ed esclusione).
Funzioni, appunto di supporto, fermo restando che l’ufficio risulta alle
dipendenze del vertice amministrativo a cui fa l’area organizzativa in cui
lo stesso si trova incardinato.
Altra questione molto importante, restando in tema, è che se il RUP è un
funzionario non può attribuire la nomina di responsabili di procedimento a
sua volta considerato che tali prerogative appartengono al soggetto posto a
capo dell’unità organizzativa (servizio, settore, area etc.) che, come
detto, dispone di poteri dirigenziali/gestionali.
Ciò emerge sia dalla legge 241/1990 (art. 5) ed in certi casi anche dalla
legislazione regionale (si pensi alla legge 8/2018 della regione Sardegna,
art. 35, comma 6) in cui si chiarisce espressamente che la competenza sulla
nomina dei responsabili di procedimento è del dirigente (03.04.2019
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APPALTI: Pubblicazione
di atti e documenti per interventi straordinari di emergenza.
Domanda
Il nostro comune ha subito i danni del terremoto ed è inserito nella lista
dei 140 comuni del “cratere”, colpiti e danneggiati dal sisma del
Centro Italia. Essendo soggetti a interventi straordinari di emergenza, cosa
occorre pubblicare e per quanto?
Risposta
Nel Decreto Trasparenza (d.lgs. 14.03.2013, n. 33), la materia viene
trattata all’interno dell’articolo 42, rubricato “Obblighi di
pubblicazione concernenti gli interventi straordinari e di emergenza che
comportano deroghe alla legislazione vigente”.
In particolare, gli obblighi di pubblicità e trasparenza (comma 1)
riguardano:
a) i provvedimenti adottati, con la indicazione espressa delle
norme di legge eventualmente derogate e dei motivi della deroga, nonché
l’indicazione di eventuali atti amministrativi o giurisdizionali
intervenuti;
b) i termini temporali eventualmente fissati per l’esercizio dei
poteri di adozione dei provvedimenti straordinari;
c) il costo previsto degli interventi e il costo effettivo
sostenuto dall’amministrazione.
Il successivo comma 1-bis, aggiunto dall’art. 10, comma 3, del d.l.
14.08.2013, n. 93, convertito in legge 15.10.2013, n. 119, prevede che i
Commissari delegati, di cui all’art. 5, della legge 225/1992
[1], svolgono direttamente
le funzioni di responsabili per la prevenzione della corruzione e
trasparenza (RPCT).
Chiarito il quadro normativo, per la definizione degli atti, documenti e
informazioni da pubblicare nel sito web del comune, nella sezione
Amministrazione trasparente, occorre rifarsi al cosiddetto Albero della
Trasparenza, previsto nell’Allegato 1, della delibera ANAC n. 1310, del
28.12.2016.
Per tale sottosezione di Livello 1, gli obblighi sono quelli analiticamente
indicati nel comma 1, dell’art. 42, sopra citato, prevedendo di assolvere
agli obblighi mediante il ricorso al formato tabellare aperto.
L’aggiornamento dei dati pubblicati deve avvenire “tempestivamente” e
la durata di pubblicazione è prevista in cinque anni, contati dal 1° gennaio
dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione e
comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti (ex art. 8,
d.lgs. 33/2013).
---------------
[1] Legge 24.02.1992, n. 225, recante “Istituzione del Servizio nazionale
della protezione civile”; articolo 5 – Stato di emergenza e potere di
ordinanza (02.04.2019
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ENTI LOCALI: Le
variazioni di bilancio adottate in via d’urgenza dalla giunta e
l’acquisizione del parere dell’organo di revisione.
Domanda
Il nuovo revisore, da poco in carica presso il mio Ente, sostiene che sulle
variazioni di bilancio adottate in via d’urgenza dalla giunta comunale sia
necessaria la preventiva espressione del suo parere. In passato lo abbiamo
sempre acquisito sulla sola proposta di ratifica consiliare. Qual è il
comportamento corretto?
Risposta
Le variazioni oggetto del quesito sono quelle previste dall’art. 175, comma
4, del TUEL che possono essere adottate dall’organo esecutivo in via
d’urgenza opportunamente motivata, salvo ratifica, a pena di decadenza, da
parte dell’organo consiliare entro i sessanta giorni seguenti e comunque
entro il 31 dicembre dell’anno in corso, qualora a tale data non sia scaduto
il predetto termine. Il successivo comma 5 dispone che in caso di mancata o
parziale ratifica del provvedimento di variazione adottato dalla giunta, il
consiglio è tenuto ad adottare nei successivi trenta giorni, e comunque
sempre entro il 31 dicembre dell’esercizio in corso, i provvedimenti
ritenuti necessari nei riguardi dei rapporti eventualmente sorti sulla base
della deliberazione non ratificata, o ratificata solo parzialmente.
Sul tema del parere dell’organo di revisione è di recente intervenuto il
Cndcec (Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti
contabili) con un proprio
documento del febbraio scorso. Esso giunge alla conclusione per
cui il parere dell’organo di revisione deve essere espresso sulla proposta
di variazione al bilancio da adottarsi da parte della giunta per motivi
d’urgenza.
Non è corretta la prassi, anche se in uso presso molti enti, di acquisire il
parere sulla sola proposta di deliberazione consiliare di ratifica, spesso
con la giustificazione che l’urgenza di deliberare (da parte della giunta)
non ha consentito di acquisire in via preventiva il parere dell’organo di
revisione. Questo modus operandi è altresì suffragato da una vecchia
risoluzione del Ministero dell’Interno risalente addirittura al 1995.
Tuttavia si ritiene pienamente condivisibile l’orientamento del Cndcec,
anche alla luce delle conseguenze che si verrebbero a creare qualora,
acquisendo il parere solo in sede di ratifica consiliare, questo fosse
negativo. E’ pur vero che siamo in presenza di un parere non vincolante,
sebbene obbligatorio; tuttavia l’adozione di una delibera di variazione in
presenza di un parere contrario dell’organo di revisione, pur adeguatamente
motivata nelle ragioni che ne determinano comunque l’adozione, è una scelta
da evitare accuratamente.
Va infine evidenziato che altro comportamento diffuso è quella di adottare
variazioni di giunta in via d’urgenza quando quest’ultima in realtà non
sussiste o non è adeguatamente motivata nell’atto stesso o, infine, riguarda
anche la variazione di poste che non nulla hanno di urgente. L’organo di
revisione è chiamato a verificare la reale sussistenza delle ragioni
dell’urgenza per ogni variazione coinvolta, prendendone atto nel formulare
il proprio parere. E ciò proprio al fine di evitare il consolidarsi della
prassi per cui la loro adozione da parte della giunta non rappresenta più
un’eccezione, bensì una regola.
Comportamento, quest’ultimo, che di fatto esautorerebbe il consiglio
comunale di una sua competenza, così come individuata dall’art. 42, comma 2,
lett. b), del TUEL. Il Cndcec precisa inoltre che nel caso di mancata
definizione dei rapporti sorti sulla base della variazione di giunta non
ratificata dal consiglio comunale, i relativi oneri non possono essere
inseriti nel rendiconto della gestione e dovrà pertanto essere attivata la
procedura amministrativa di riconoscimento e finanziamento del debito fuori
bilancio che ne deriva.
Quindi in conclusione: si acquisisca il parere del revisore sulla proposta
di variazione di giunta, per la quale le ragioni d’urgenza devono sussistere
realmente e per ogni posta coinvolta, inoltre le motivazioni di ognuna
devono essere puntualmente riportate nella premessa dell’atto deliberativo
stesso (01.04.2019
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Comma
557 e limiti lavoro flessibile.
Domanda
Il cosiddetto “scavalco di eccedenza” di cui all’art. 1, comma 557,
della legge 311/2004 è da ricomprendere tra le limitazioni sul lavoro
flessibile?
Risposta
Occorre evidenziare che già la Sezione delle Autonomie con la citata
deliberazione n. 23/2016/QMIG ha chiarito che «se l’Ente decide di
utilizzare autonomamente la prestazione di un dipendente a tempo pieno
presso altro ente locale al di fuori del suo ordinario orario di lavoro, la
prestazione aggiuntiva andrà ad inquadrarsi all’interno di un nuovo rapporto
di lavoro autonomo o subordinato a tempo parziale, i cui oneri dovranno
essere computati ai fini del rispetto dei limiti di spesa imposti dall’art.
9, comma 28, per la quota di costo aggiuntivo».
Quindi l’assunzione de qua, al di fuori dell’ordinario orario di
lavoro del dipendente utilizzato, soggiace al limite di spesa del lavoro
flessibile che ha dei parametri temporali di riferimento ben definiti. Il
riferimento è la spesa sostenuta per le medesime finalità nell’anno 2009 o,
per le amministrazioni che nel 2009 non abbiano sostenuto spese per lavoro
flessibile, il limite è computato con riferimento alla media sostenuta per
la stessa finalità nel triennio 2007–2009.
Il limite di cui al predetto comma 28, dell’art. 9, D.L. n. 78/2010, conv.
Legge n. 122/2010, è stato più volte confermato dal legislatore (vedasi ad
esempio modifiche art. 11, comma 4-bis, D.L. n. 90/2014) con il precipuo
fine di ridurre il fenomeno del precariato.
Occorre dunque distinguere tale limite, riferito all’utilizzo di forme di
lavoro flessibile con l’imputazione al fondo delle risorse decentrate del
salario accessorio in godimento al soggetto utilizzato parzialmente.
L’Aran, in un parere piuttosto risalente, n. 104-33C1, in risposta alla
domanda rivolta da un ente per sapere se anche la quota dell’indennità di
comparto del personale a tempo determinato debba essere a carico delle
risorse decentrate stabili, o se potesse essere posta a carico del bilancio,
ha chiarito che il personale a tempo determinato è destinatario delle stesse
regole del CCNL previste per il personale a tempo indeterminato. Pertanto
anche in caso di personale utilizzato ai sensi della Legge n. 311/2004 vale
il criterio dell’imputazione del salario accessorio al fondo delle risorse
decentrate (28.03.2019
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APPALTI: Il
contenuto del provvedimento di esclusione.
Domanda
In relazione all’adozione di alcuni atti di esclusione, come RUP mi sono
posto il problema del contenuto dei provvedimenti da pubblicare per
eventuali lesioni e/o contrasti con privacy e riservatezza. Ma, in tema, in
relazione a quanto precisato dall’articolo 29 quali cautele occorre
adottare? E’ possibile procedere con la pubblicazione del solo verbale di
gara?
Risposta
La questione posta dal RUP, e quindi dal soggetto direttamente interessato
circa l’adozione dei provvedimenti di esclusione (per ANAC e giurisprudenza,
come noto, il soggetto competente all’adozione dei provvedimenti in parola,
così come per le ammissioni, è il responsabile unico del procedimento a
prescindere dalla circostanza che coincida o meno con la figura del
dirigente/responsabile del servizio), afferisce ad eventuali limiti/vincoli
da rispettare in relazione al contenuto del provvedimento da pubblicare
(anche) nella sezione trasparenza della stazione appaltante ai sensi e per
gli effetti dell’articolo 29 del codice dei contratti.
È bene rammentare che l’obbligo in parola (appunto contenuto nell’articolo
29 del codice) dispone l’obbligo per il RUP di pubblicare “nei successivi
due giorni dalla data di adozione dei relativi atti, il provvedimento che
determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”.
Lo scopo, come noto, è quello di contingentare il termine di impugnazione
(di trenta giorni dalla pubblicazione sempre che questa risulti esaustiva) –
esaustività che, a sommesso parere, può anche essere meglio realizzata con
la comunicazione ex art. 76 da fare via PEC al diretto interessato (sempre
fatto salvo che non si dimostri una piena conoscenza del contenuto avvenuta
in altro modo).
Pertanto, la disposizione nulla precisa circa il contenuto riferendosi,
addirittura, ad una sorta di provvedimento “complessivo” sulle
esclusioni (quindi avvenute durante la procedura). È prassi, ad esempio, di
molte stazioni appaltanti di pubblicare i verbali di gara che contengono i
riferimenti in argomento.
La norma, però, parla di provvedimento ed è tale solamente quello adottato
dal RUP (e magari dal responsabile del servizio se ciò risulti chiaramente
esplicitato nel bando di gara ma sempre con il coinvolgimento del
responsabile unico del procedimento).
In sostanza, oggetto di comunicazione è il provvedimento vero e proprio che
poi viene inviato ai sensi dell’articolo 76 del codice dei contratti.
L’operatore che partecipa alla gara è ben consapevole che i propri “dati”
e/o situazione e/o dichiarazioni sono tranquillamente e normalmente
accessibili.
Non solo la circostanza per cui il provvedimento di esclusione deve
obbligatoriamente essere pubblicato (a pena di penalizzare la stazione
appaltante circa la prerogativa del termine breve) rende lo stesso
provvedimento oggetto di possibile accesso civico senza alcuna formalità se
non il rispetto su eventuali scorretti trattamenti.
Per effetto di ciò, il provvedimento deve limitarsi a riportare il contenuto
chiaro ed indispensabile con la specificazione della circostanza che
determina l’esclusione (con contestuale comunicazione via PEC ai sensi
dell’articolo 76 del codice dei contratti). Come detto, per far decorrere
con successo il termine breve, dovrà essere esaustivo e rendere
immediatamente comprensibili le ragioni dell’estromissione dal procedimento
(27.03.2019
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PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: La
presenza del RPCT nel Nucleo di valutazione.
Domanda
Siamo un comune con meno di 15.000 abitanti e dobbiamo rinnovare la
composizione del Nucleo di Valutazione, attraverso una modifica al
Regolamento di Organizzazione degli Uffici e Servizi.
A un corso ci è stato detto che sarebbe bene non prevedere la presenza
Segretario comunale, che è anche RPCT, in tale organismo. Sapete dirci
qualcosa a riguardo?
Risposta
Con le modifiche apportate alla legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190),
dall’art. 41, comma 1, lettera h), del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, sono state
meglio precisate le funzioni e i compiti dell’Organismo di Valutazione (OIV)
o altra struttura analoga presente negli enti locali (il Nucleo di
valutazione), nell’ambito del più vasto quadro di interventi di prevenzione
della corruzione.
Con le nuove disposizioni compete all’OIV o NdV:
• validare la relazione sulle performance (art. 10, d.lgs.
150/2009), dove sono riportati i risultati raggiunti rispetto a quelli
programmati e alle risorse, anche per gli obiettivi sulla prevenzione della
corruzione e trasparenza;
• verificare la coerenza tra gli obiettivi di trasparenza e quelli
indicati nel Piano della performance;
• attestare l’assolvimento, da parte degli enti, degli obblighi di
trasparenza (griglie annuali);
• verificare che i PTPCT siano coerenti con gli obiettivi di
programmazione strategico-gestionale;
• esaminare la Relazione annuale del RPCT, recante i risultati
dell’attività svolta in materia di prevenzione della corruzione e
trasparenza. Per tale verifica l’OIV può chiedere al RPCT informazioni e
documenti aggiuntivi;
• l’ANAC, nell’ambito della propria attività di vigilanza può
coinvolgere l’OIV, per acquisire ulteriori informazioni sulla trasparenza.
Come si può notare, sono molte le occasioni, durante l’anno, in cui il
Nucleo di valutazione, deve valutare gli atti e i documenti prodotti dal
Responsabile della Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (RPCT),
tenendo conto che, negli enti locali, di norma, il ruolo di RPCT coincide
con quello di segretario comunale [1].
Proprio per evitare possibili situazioni di conflitto d’interesse è
certamente buona cosa evitare, quanto più possibile, che il segretario
comunale, se è anche RPCT, faccia parte del Nucleo di Valutazione.
Tale precauzione è stata, da ultimo, ribadita dall’ANAC nell’Aggiornamento
2018, del Piano Nazionale Anticorruzione, approvato con delibera n. 1074 del
21.11.2018 (in vigore dal 05.01.2019).
Nella Parte IV della citata delibera, rubricata “Semplificazioni per i
piccoli comuni”, Paragrafo 4 – Le nuove proposte di semplificazione
[2], viene ribadito il
principio che l’ANAC “ritiene non compatibile prevedere nella
composizione del Nucleo di Valutazione, la figura del RPCT, in quanto
verrebbe meno l’indefettibile separazione di ruoli in ambito di prevenzione
del rischio corruzione che la norma riconosce a soggetti distinti ed
autonomi, ognuno con responsabilità e funzioni diverse Il Responsabile si
troverebbe nella veste di controllore e controllato, in quanto, in qualità
di componente del Nucleo di valutazione è tenuto ad attestare l’assolvimento
degli obblighi di pubblicazione, mentre in qualità di Responsabile anche per
la trasparenza è tenuto a svolgere stabilmente un’attività di controllo
proprio sull’adempimento dei suddetti obblighi da parte dell’amministrazione.”
Nello stesso documento l’ANAC, introduce una sorta di deroga per i piccoli
comuni (quelli sotto 5.000 abitanti), prevedendo testualmente: “Tenuto
conto delle difficoltà applicative che i piccoli comuni, in particolare,
possono incontrare nel tenere distinte le funzioni di RPCT e di componente
del nucleo di valutazione, l’Autorità auspica, comunque, che anche i piccoli
comuni, laddove possibile, trovino soluzioni compatibili con l’esigenza di
mantenere separati i due ruoli. Laddove non sia possibile mantenere distinti
i due ruoli, circostanza da evidenziare con apposita motivazione, il ricorso
all’astensione è possibile solo laddove il Nucleo di valutazione abbia
carattere collegiale e il RPCT non ricopra il ruolo di Presidente”.
Premesso quanto sopra e rispondendo allo specifico quesito, alla luce delle
normative sopra meglio richiamate e degli orientamenti dell’Autorità
Anticorruzione, si consiglia di non prevedere la figura del segretario
comunale all’interno del Nucleo di valutazione, considerando valida e
logica, tale indicazione, anche nei piccoli comuni con popolazione sotto i
5.000 abitanti.
---------------
[1] Articolo 1, comma 7, legge 190/2012, come modificato dall’art. 41,
comma 1, lett. f), d.lgs. 97/2016.
[2] Pagina 154 (26.03.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI:
Concessione di contributi a favore di associazioni e di società sportive.
Posto che l’art. 12 della L. 241/1990 si limita a
dettare i princìpi generali in materia di contributi, ponendo in capo alle
pubbliche amministrazioni il compito di stabilire, con atto di valenza
generale, i criteri e le modalità da osservare per l’adozione dei
provvedimenti di concessione dei benefici, spetta al singolo ente
determinarsi in proposito, tenendo conto delle indicazioni fornite dalla
Corte dei conti la quale rileva, in particolare, che la facoltà degli enti
territoriali di attribuire benefici patrimoniali a soggetti privati rimane
comunque subordinata ai limiti imposti da disposizioni di legge dirette al
contenimento della spesa pubblica ed alle prescrizioni richieste dai
princìpi contabili per garantire la corretta gestione delle risorse
pubbliche.
Il Comune chiede chiarimenti in merito all’erogazione di contributi
economici a favore di associazioni non lucrative e di società sportive
[1]
presenti sul relativo territorio.
In particolare, l’Ente locale chiede di conoscere:
1) se, per normativa generale, al fine di erogare i contributi
concessi [2], sia necessario acquisire i bilanci delle associazioni e delle
società sportive, onde verificare che i consuntivi chiudano con un disavanzo
di gestione, oppure se sia possibile contribuire alle attività poste in
essere da detti soggetti indipendentemente dai loro risultati economici;
2) se vi sia autonomia regolamentare del Comune di disciplinare la
materia prevedendo la liquidazione a rendiconto di contributi a soggetti
giuridici per attività svolte a favore del territorio quand’anche i
rendiconti gestionali di tali soggetti presentino un avanzo di
amministrazione (in relazione a tutta l’attività istituzionale oppure alla
singola iniziativa patrocinata e sostenuta dal Comune).
Sentito il Servizio finanza locale si esprimono le seguenti considerazioni.
La materia oggetto di trattazione trova la propria disciplina generale
nell’art. 12 della legge 07.08.1990, n. 241, il quale sancisce che «La
concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti
pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle
amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti,
dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono
attenersi.» (comma 1), prescrivendo poi che «L’effettiva osservanza» di tali
criteri e modalità «deve risultare dai singoli provvedimenti» di concessione
dei benefici (comma 2) [3].
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa rileva che:
- la norma riveste carattere di principio generale dell’ordinamento
giuridico ed in particolare della materia che governa tutti i contributi
pubblici, la cui attribuzione deve essere almeno regolata da norme
programmatorie che definiscano un livello minimo delle attività da
finanziare [4];
- ai fini dell’adozione di provvedimenti volti a concedere
sovvenzioni, contributi, sussidi, ecc., le pubbliche amministrazioni si
devono attenere ai criteri e alle modalità stabiliti con proprio
regolamento, poiché sia la predeterminazione di detti criteri, sia la
dimostrazione del loro rispetto in sede di concessione dei benefici mirano
ad assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa [5] e si atteggiano a
principio generale, in forza del quale l’attività di erogazione della
pubblica amministrazione deve in ogni caso rispondere a elementi
oggettivi [6];
- la predeterminazione dei criteri concernenti la destinazione di
sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili finanziari e vantaggi economici,
oltre a costituire corollario del principio generale di trasparenza,
rappresenta la declinazione in via amministrativa delle finalità
(politico-sociali o politico-economiche) che l’intervento pubblico intende
perseguire [7].
Ciò posto, si ritiene utile rammentare il consolidato orientamento della
Corte dei conti secondo il quale, in base alle norme ed ai princìpi della
contabilità pubblica, non è rinvenibile alcuna disposizione che impedisca
all’ente locale di effettuare attribuzioni patrimoniali a terzi, ove queste
siano necessarie per conseguire i propri fini istituzionali. Se, infatti,
l’azione è intrapresa al fine di soddisfare esigenze della collettività
rientranti nelle finalità perseguite dal Comune il finanziamento, anche se
apparentemente a fondo perso, non può equivalere ad un depauperamento del
patrimonio comunale, in considerazione dell’utilità che l’ente o la
collettività ricevono dallo svolgimento del servizio pubblico o di interesse
pubblico effettuato dal soggetto che riceve il contributo [8].
Va, al contempo, evidenziato che la Corte dei conti, pur esprimendosi su
fattispecie diverse da quella in esame, che ha comunque ricondotto alla più
ampia problematica dei limiti dei finanziamenti comunali a soggetti privati,
sancisce che:
- i Comuni, sulla base della loro autonoma discrezionalità e
«secondo i principi della sana e corretta amministrazione», possono
deliberare contributi a favore di enti che, pur non essendo affidatari di
servizi, svolgono un’attività che viene ritenuta utile per i propri
cittadini [9];
- in ogni caso, l’attribuzione di benefici pubblici deve risultare
«conforme al principio di congruità della spesa», presupponente una
valutazione comparativa degli interessi complessivi dell’ente locale
[10];
- la facoltà degli enti territoriali di attribuire benefici
patrimoniali a soggetti privati, in ragione dell’interesse pubblico
indirettamente perseguito, ammessa in via generale [11], rimane tuttavia
«subordinata ai limiti imposti da disposizioni di legge dirette al
contenimento della spesa pubblica ed alle prescrizioni richieste dai princìpi contabili per garantire la corretta gestione delle risorse
pubbliche» [12].
Un tanto premesso in via generale, occorre dar atto che non si sono
rinvenute indicazioni giurisprudenziali né interpretative circa le
specifiche questioni poste da codesto Comune.
Ciò nonostante, si ritiene utile segnalare le considerazioni svolte dalla
Corte dei conti che, pur esprimendosi in relazione ad alcune particolari
fattispecie, enuncia princìpi di carattere generale.
Riscontrando il quesito volto a stabilire se sia sufficiente che
l’erogazione del contributo comunale a sostegno di iniziative concretanti
forme di esercizio della c.d. “sussidiarietà orizzontale” venga preceduta da
una verifica contabile relativa alla sola iniziativa oggetto di
finanziamento o se, viceversa, l’ente locale debba acquisire il bilancio
relativo all’intera attività del soggetto interessato, contenente l’insieme
delle entrate e delle spese realizzate dallo stesso per il complesso della
propria attività, la Corte [13] chiarisce, anzitutto, che «nell’impianto
motivazionale delle determinazioni che conducono l’ente pubblico ad
accordare specifiche forme di contribuzione ad iniziative “sussidiarie” deve
risultare sia “il fine pubblico perseguito” sia “la rispondenza delle
modalità in concreto adottate al raggiungimento della finalità sociale”».
La Corte afferma che «Tale valutazione non può che passare tramite
un’analisi, oltre che della specifica iniziativa, anche della complessiva
attività dell’ente privato –nel senso dell’attitudine del medesimo soggetto
a svolgere un’attività intrinsecamente idonea al raggiungimento della
finalità sociale in concreto perseguita–, ente che peraltro […] viene
comunque a giovarsi nella sua totalità di una compartecipazione pubblica,
dato che questa inevitabilmente esplica effetti anche sulle modalità di
mantenimento della struttura organizzativa interna dell’ente,
necessariamente “strumentale”, in quest’ottica, all’espletamento della
specifica attività resa in sussidiarietà orizzontale».
Da ciò, secondo il Collegio contabile, discende «l’opportunità di una
disamina dei complessivi bilanci dell’ente sussidiato […] salvo che –per la
specificità del caso concreto ovvero per la peculiare commisurazione nella
fattispecie del contributo pubblico (ad esempio limitato alle sole cc.dd.
“spese vive” sostenute e rendicontate da enti ictu oculi idonei allo
svolgimento in sussidiarietà di pubbliche funzioni)– un tale controllo si
palesi inutile».
In altra circostanza, concernente la concessione di un contributo comunale
straordinario ad un’associazione sportiva dilettantistica, giudicata fonte
di danno erariale, la Corte dei conti [14] fa riferimento alla necessità di
osservare le «elementari regole di buona amministrazione e di ragionevolezza
dell’agire da parte dei pubblici poteri» e afferma espressamente che
«l’interesse pubblico è soddisfatto quando le risorse della collettività
sono impiegate razionalmente, mentre non ritiene ragionevole che le scarse
risorse disponibili siano affidate alla gestione di un soggetto che tiene
una contabilità non trasparente […]».
Va poi dato atto che, nella prassi degli enti locali di questo territorio
regionale, largamente diffuse sono le previsioni regolamentari che, con
riferimento alla concessione tanto di contributi annuali per attività di
carattere continuativo, quanto di contributi ad hoc per specifiche
iniziative, prevedono l’accertamento delle eventuali ulteriori entrate
percepite dai soggetti interessati, al fine di stabilire l’entità dei
benefici concedibili (entro il limite delle somme effettivamente rimaste a
carico del richiedente il contributo) e degli importi da recuperare, qualora
essi siano stati liquidati in eccesso. [15]
In conclusione, si ritiene di poter affermare che, posto che l’art. 12 della
L. 241/1990 si limita a dettare i princìpi generali in materia di
contributi, ponendo in capo alle pubbliche amministrazioni il compito di
stabilire, con atto di valenza generale, i criteri e le modalità da
osservare per l’adozione dei provvedimenti di concessione dei benefici,
spetta al singolo ente determinarsi in proposito, tenendo conto delle
indicazioni fornite dalla giurisprudenza contabile sopra riportate.
---------------
[1] Trattasi di società e associazioni sportive dilettantistiche senza
scopo di lucro.
[2] A seguito di procedura regolamentata.
[3] Per un’accurata analisi dell’istituto vedasi L. De Rentiis L’erogazione
di contributi, sussidi e/o provvidenze da parte degli Enti Locali in favore
di soggetti terzi, in Azienditalia n. 6/2017, pag. 557 e ss.
[4] Consiglio di Stato – Sez. V, sentenze 17.03.2015, n. 1373 e 23.03.2015,
n. 1552.
[5] La finalità viene perseguita anche dall’art. 26 del decreto legislativo
14.03.2013, n. 33 e dall’art. 1, commi 125-129, della legge 04.08.2017, n.
124.
L’art. 26 del D.Lgs. 33/2013 dopo aver prescritto che le pubbliche
amministrazioni sono tenute a pubblicare sia gli atti con i quali sono
determinati i criteri e le modalità cui esse devono attenersi per la
concessione dei benefici di cui all’art. 12 della L. 241/1990, sia gli atti
di concessione dei benefici medesimi di importo superiore a mille euro,
sancisce che la pubblicazione costituisce condizione legale di efficacia dei
provvedimenti di concessione e dispone che la mancata, incompleta o
ritardata pubblicazione rilevata d’ufficio dagli organi di controllo è
rilevabile anche dal destinatario della prevista concessione o attribuzione
e da chiunque altro abbia interesse, anche ai fini del risarcimento del
danno da ritardo da parte dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 30 del
decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
L’art. 1 della L. 124/2017 stabilisce che (oltre ad altri soggetti) le
associazioni, le Onlus e le fondazioni che intrattengono rapporti economici
con le pubbliche amministrazioni, nonché con società controllate di diritto
o di fatto direttamente o indirettamente da pubbliche amministrazioni, sono
tenute a pubblicare entro il 28 febbraio di ogni anno, nei propri siti o
portali digitali, le informazioni relative a sovvenzioni, contributi,
incarichi retribuiti e comunque a vantaggi economici di qualunque genere
ricevuti dai predetti soggetti nell’anno precedente (comma 125), tranne
qualora l’importo del beneficio sia inferiore a 10.000 euro (comma 127).
[6] TAR Puglia–Lecce, Sez. II, sentenza 25.10.2011, n. 1842.
[7] TAR Lombardia–Milano, Sez. III, sentenza 05.05.2014, n. 1142.
[8] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 9/2006, n. 10/2006, n. 18/2006, n.
26/2007, n. 35/2007, n. 59/2007, n. 39/2008, n. 75/2008, n. 1138/2009, n.
1/2010, n. 981/2010, n. 530/2011, n. 262/2012, n. 218/2014, n. 248/2014, n.
262/2014, n. 79/2015, n. 121/2015 e n. 362/2017.
[9] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 226/2013.
[10] Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 248/2014, cit. e n. 79/2015, cit.
[11] È invece preclusa, all’ente locale, la possibilità di concedere
contributi per ripianare le passività di una fondazione (Corte dei conti –
Sez. reg. contr. Lombardia, pareri n. 1138/2009, n. 1/2010, n. 979/2010;
Sez. reg. contr. Piemonte, parere n. 201/2017).
[12] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 121/2015, cit.
[13] Sez. reg. contr. Lombardia, parere n. 333/2014.
[14] Sez. giurisd. Regione Lombardia, sentenza 15.03.2011, n. 145.
[15] Si segnalano, in particolare, i regolamenti adottati dai Comuni di
Trieste (v. artt. 16 e 17), Udine (v. artt. 12 e 17), Gorizia (v. art. 18),
Pordenone (v. art. 20), Sacile (v. art. 18), Tolmezzo (v. art. 13) (25.03.2019
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APPALTI:
Intervento sostitutivo della stazione appaltante per inadempienza
contibutiva e retributiva dell'impresa affidataria del contratto di appalto
- art. 30, D.Lgs. n. 50/2016.
Il D.Lgs. n. 50/2016 disciplina l’istituto
dell’intervento sostitutivo della stazione appaltante in termini di obbligo
sia in caso di inadempienza contributiva dell’appaltatore certificata dal
DURC in relazione al personale impiegato nell’esecuzione del contratto –come
già stabiliva il previgente D.P.R. n. 207/2010– sia nell’ipotesi di
inadempienza retributiva dell’appaltatore stesso e con riferimento al
medesimo personale, in quest’ultimo caso innovando rispetto alla previgente
disciplina che invece attribuiva alla stazione appaltante la facoltà di
procedere al pagamento in via sostitutiva delle retribuzioni.
Allo stato della vigente normativa, qualora venga accertata l’irregolarità
contributiva dell’impresa affidataria ed altresì il ritardo nel pagamento
delle retribuzioni, appare ragionevole ritenere che la stazione appaltante
provveda ai versamenti in via sostitutiva agli enti previdenziali e
assicurativi ed ai lavoratori attraverso una ripartizione pro quota delle
somme dovute all’esecutore del contratto.
L’Ente riferisce che la Società affidataria di un appalto di servizi
stipulato nel 2017 non risulta in regola con il versamento dei contributi
previdenziali –come attestato dal documento unico di regolarità
contributiva (DURC) da ultimo acquisito nel dicembre 2018– ed inoltre da
qualche tempo non paga regolarmente la retribuzione ai propri dipendenti che
esercitano l’attività lavorativa per l’esecuzione del contratto di appalto
in questione.
L’Ente ha chiesto alla Società appaltatrice e agli Enti previdenziali di
conoscere l’entità delle retribuzioni non corrisposte ai lavoratori
impiegati nell’appalto di cui si tratta, nonché delle somme dovute agli enti
previdenziali sempre relativamente ai lavoratori impiegati nell’esecuzione
di detto contratto.
La Società appaltatrice ha riscontrato la richiesta fornendo i cedolini paga
dei dipendenti interessati e chiedendo di procedere nei loro confronti
all’intervento sostitutivo ai sensi dell’art. 30, D.Lgs. n. 50/2016, mentre
l’INPS ha precisato che i dati richiesti sono di esclusiva competenza della
Società e che l’“Istituto può solo comunicare l’entità dei debiti
certificati da durc negativo”.
L’Ente chiede dunque come procedere secondo legge, ed in particolare se
possano essere pagati in via sostitutiva, utilizzando le somme dovute
all’appaltatore, in via prioritaria gli stipendi dovuti ai dipendenti
interessati impiegati nell’appalto di cui si tratta e in via residuale i
contributi previdenziali, per le somme rimanenti.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione
centrale, si esprime quanto segue.
L’intervento sostitutivo della stazione appaltante a fronte
dell’inadempienza contributiva e retributiva dell’esecutore del contratto
pubblico è disciplinato dall’art. 30, commi 5 e 6, D.Lgs. n. 50/2016, norme
statali
[1]
in ordine alle quali questo Servizio può esprimere solo in via collaborativa alcune considerazioni, che possano essere di supporto all’Ente
per l’individuazione in autonomia della soluzione da adottare nel caso
concreto.
L’articolo 30, comma 5, D.Lgs. n. 50/2016 prevede che, in caso di
inadempienza contributiva risultante dal DURC relativo a personale
dipendente dell’affidatario o del subappaltatore o dei soggetti titolari di
subappalti e cottimi, impiegato nell’esecuzione del contratto, la stazione
appaltante trattiene l’importo corrispondente all’inadempienza per il
successivo versamento diretto ai competenti enti previdenziali e
assicurativi.
Il successivo comma 6 del medesimo articolo 30 dispone che in caso di
ritardo nel pagamento delle retribuzioni dovute al personale di cui al comma
5 –per quanto qui rileva, dipendente dell’affidatario dell’appalto,
impiegato nell’esecuzione del contratto– il responsabile unico del
procedimento invita per iscritto l’impresa inadempiente a provvedervi entro
i successivi quindici giorni. Ove non sia stata contestata formalmente e
motivatamente la fondatezza della richiesta entro il termine assegnato, la
stazione appaltante paga anche in corso d’opera direttamente ai lavoratori
le retribuzioni arretrate, detraendo il relativo importo dalle somme dovute
all’affidatario del contratto.
Al riguardo si rileva che l’obbligo dell’intervento sostitutivo, in presenza
di DURC irregolare, era stato già introdotto dal previgente art. 4, comma 2,
D.P.R. n. 207/2010.
Per quanto concerne, invece, l’istituto dell’intervento sostitutivo in caso
di inadempienza retributiva, si osserva che lo stesso è fissato come obbligo
dall’art. 30, c. 6, D.Lgs. n. 50/2016, mentre era facoltativo nella
previgente disciplina di cui all’art. 5, D.P.R. n. 207/2010
[2].
Venendo al quesito dell’Ente sulla possibilità di pagare prioritariamente in
via sostitutiva le retribuzioni dei dipendenti e di versare l’importo
residuo agli enti previdenziali e assicurativi, si osserva che il nuovo
codice degli appalti, nel rendere obbligatorio anche l’intervento
sostitutivo per l’inadempienza retributiva, oltre a quello relativo
all’inadempienza contributiva, non specifica le modalità di attuazione del
meccanismo sostitutivo, nell’ipotesi in cui siano riscontrate
contemporaneamente entrambe le tipologie di inadempimento.
Sotto l’egida del previgente D.P.R. n. 207/2010 veniva naturale ritenere la
priorità del pagamento in via sostitutiva dei contributi agli enti
previdenziali e assicurativi, proprio sulla base della disciplina
dell’istituto dell’intervento sostitutivo, recata dal d.p.r. in parola, in
termini di obbligo in caso di inadempienza contributiva (art. 4, D.P.R. n.
207/2010) e di facoltà nell’ipotesi dell’inadempienza retributiva (art. 5,
D.P.R. n. 207/2010)
[3].
Allo stato della vigente normativa, invece, esprimendosi le disposizioni di
cui all’art. 30, commi 5 e 6, in termini di obbligatorietà degli interventi
sostitutivi ivi previsti –senza indicare alcuna priorità in relazione
all’una o all’altra tipologia di crediti (contributivi e retributivi) in
questione, rispettivamente vantati dagli istituti previdenziali e
assicurativi e dal personale dipendente– qualora venga accertata
l’irregolarità contributiva dell’impresa affidataria ed altresì il ritardo
nel pagamento delle retribuzioni, appare ragionevole ritenere che la
stazione appaltante provveda ai versamenti in via sostitutiva agli enti
previdenziali e assicurativi ed ai lavoratori attraverso una ripartizione
pro quota delle somme dovute all’esecutore del contratto.
A quest’ultimo riguardo, si precisa che i contributi e le retribuzioni sono
quelli riferiti ai lavoratori impiegati nell’esecuzione del contratto di
appalto tra la stazione appaltante e la Società affidataria, in capo alla
quale è stata riscontrata l’irregolarità contributiva e retributiva, come si
evince dalla formulazione testuale dei commi 5 e 6 dell’art. 30 del Codice
dei contratti pubblici, che espressamente riferiscono l’intervento
sostitutivo al “personale dipendente dell’affidatario o del subappaltatore …
impiegato nell’esecuzione del contratto”
[4].
---------------
[1] La cui interpretazione spetta esclusivamente agli uffici statali
competenti.
[2] Cfr., in dottrina, Antonio Pazzaglia, Le verifiche preliminari della
P.A. con particolare riferimento al d.lgs. 18.04.2016 n. 50 (nuovo codice
dei contratti pubblici) e alla disciplina di semplificazione sul DURC
dettata dal D.M. 30.01.2015, su ITALIAPPALTI.IT, 09.12.2016. L’autore
osserva, altresì, che mentre la verifica della regolarità contributiva e
fiscale è obbligatoria, la verifica della regolarità retributiva è meramente
eventuale dipendendo da un fatto (la conoscenza del ritardo) accessibile non
già attraverso l’interrogazione di banche dati predeterminate, quanto invece
attraverso l’acquisizione di informazioni altrimenti reperite, ad esempio su
segnalazione dei dipendenti (o anche dei sindacati, n.d.r.).
[3] Cfr. il
parere prot. n. 23035/2014 di questo Servizio
V. anche Confederazione delle province e dei comuni del nord (Co.Nord),
risposta al
quesito 24.03.2014 su "Intervento sostitutivo contratti pubblici"
[4] In tal senso, osserva, infatti, la dottrina, secondo cui l’art. 30 del
D.lgs. n. 50/2016 “delimita il campo di operatività del meccanismo
sostitutivo descritto alle sole ipotesi di inadempienza relative al
personale dipendente dell’affidatario o del sub-affidatario impiegato
nell’esecuzione del contratto” (Cfr. Antonio Pazzaglia, articolo cit.) (22.03.2019
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APPALTI: Terna
dei subappaltatori e mancato possesso dei requisiti.
Domanda
In una gara di servizi sopra soglia comunitaria il mancato possesso dei
requisiti di cui all’art. 80 del codice, ad eccezione di quelli previsti dal
comma 4 del medesimo articolo, in capo ai subappaltatori indicati nella
terna comporta l’esclusione del concorrente alla gara?
Risposta
La terna dei subappaltatori, una delle questioni rientranti nella procedura
di infrazione della Commissione Europea per mancanza di conformità di alcuni
istituti giuridici italiani rispetto alle direttive comunitarie in materia
di contratti pubblici, ha da sempre creato problemi applicativi evidenti in
sede di procedura di gara. L’art. 105, co. 6, del codice testualmente recita
“è obbligatoria l’indicazione della terna di subappaltatori in sede di
offerta, qualora gli appalti di lavori, servizi e forniture siano di importo
pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 35, o indipendentemente
dall’importo a base di gara, riguardino le attività maggiormente esposte a
rischio di infiltrazione mafiosa, come individuate dal comma 53
dell’articolo 1 della legge n. 190/2012 [1]».
L’indicazione nominativa della terna in sede di gara comporta il possesso, e
la successiva verifica, dei requisiti di qualificazione e di moralità di cui
all’art. 80 in capo ai subappaltatori, già nella fase di selezione del
contraente, tanto che il concorrente deve anticipare anche per i soggetti
della terna il rispettivo DGUE/dichiarazioni integrative, con possibile
esclusione dello stesso ai sensi dell’art. 80, cc. 1 e 5, del codice, per
difetto dei requisiti del subappaltatore (senza possibilità di sostituzione
a differenza delle disposizioni comunitarie).
L’Autorità nel bando tipo n. 1, quale schema di disciplinare di gara
standardizzato e vincolante per le gare sopra soglia con il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, rivedendo la posizione dedicata
al subappalto, ha previsto che l’omessa dichiarazione della terna o
l’indicazione di un numero di subappaltatori inferiore non costituisce
motivo di esclusione, ma comporta il divieto di subappaltare (sembrerebbe
non sanabile con il soccorso istruttorio). Prosegue stabilendo che il
mancato possesso dei requisiti di cui all’art. 80 del Codice, ad eccezione
di quelli previsti nel comma 4 del medesimo articolo, in capo ad uno dei
subappaltatori indicati nella terna comporta l’esclusione del concorrente
dalla gara.
Per dare una corretta lettura a quest’ultimo passaggio viene in aiuto la
giurisprudenza, Tar Sicilia, Palermo, sentenza n. 1096 del 17.05.2018, dove
in presenza di una terna con un solo subappaltore qualificato, condividendo
il parere del Consiglio di Stato n. 2286 del 03.11.2016, fatto proprio anche
dall’ANAC nella delibera n. 487 del 3.05.2017, ha precisato che occorre dare
un’interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 80, commi 1 e 5, del
d.lgs. n. 50 del 18.04.2016, avente ad oggetto le cause di esclusione dalle
gare di appalto.
Ciò posto, ha affermato che “quando è fornita una terna di possibili
subappaltatori, è sufficiente ad evitare l’esclusione del concorrente che
almeno uno dei subappaltatori abbia i requisiti e sia qualificato per
eseguire la prestazione da subappaltare, ovvero che il concorrente dichiari
di rinunciare al subappalto, avendo in proprio i requisiti per eseguire le
prestazioni”.
---------------
[1] Le attività definite maggiormente esposte a rischio di infiltrazione
mafiosa sono: a) trasporto di materiali a discarica per conto di terzi; b)
trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di
terzi; c) estrazione, fornitura e trasporto di terra e materiali inerti; d)
confezionamento, fornitura e trasporto di calcestruzzo e di bitume; e) noli
a freddo di macchinari; f) fornitura di ferro lavorato; g) noli a caldo; h)
autotrasporti per conto di terzi; i) guardiania dei cantieri (20.03.2019
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La
rotazione straordinaria, tra obbligo normativo e scelta di opportunità.
Domanda
Un dipendente del Comune, responsabile di procedimento nel Settore appalti e
gare, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato nell’ambito di un
procedimento penale per corruzione in atti di gara.
Pur non essendo ancora intervenuto il rinvio a giudizio, è obbligatorio per
l’ Amministrazione rimuovere il dipendente dall’incarico svolto, o resta una
scelta di mera opportunità?
Risposta
Il 07.02.2019 è stata pubblicata sul sito dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione, per la fase di consultazione e ricezione di osservazioni, la
“bozza di delibera in materia di applicazione della misura della
rotazione straordinaria di cui all’art. 16, comma 1, lettera l-quater, del
d.lgs. n. 165 del 2001”. Le disposizioni ivi contenute, ancorché non
ancora efficaci, offrono interessanti spunti per rispondere al quesito, il
cui tema giuridico sotteso, oltre ad essere disciplinato dal Testo unico per
il pubblico impiego, trova oggi ampia trattazione –come chiaramente
descritto da ANAC– all’interno del Piano Nazionale Anticorruzione 2013 e dei
successivi aggiornamenti 2016, 2017 e 2018.
Ai sensi del predetto articolo, i dirigenti di uffici dirigenziali generali,
comunque denominati, “provvedono al monitoraggio delle attività
nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione svolte
nell’ufficio a cui sono preposti, disponendo, con provvedimento motivato, la
rotazione del personale nei casi di avvio di procedimenti penali o
disciplinari per condotte di natura corruttiva.”
E’ previsto, pertanto, l’obbligo per l’amministrazione di assegnare il
personale sospettato di “condotte di natura corruttiva” che abbiano o
meno rilevanza penale, ad altro servizio. Nella logica del sistema
anticorruzione della legge Severino (legge 06.11.2012, n. 190), si tratta di
una misura di natura non sanzionatoria dal carattere cautelare e preventivo,
finalizzata a garantire che, negli ambiti dove si sono verificati i fatti
oggetto del procedimento penale o disciplinare, siano attivate idonee misure
di prevenzione del rischio corruttivo, al fine di tutelare l’immagine di
imparzialità dell’amministrazione.
La rotazione straordinaria della fase di avvio del procedimento penale, è da
tenere ben distinta dall’istituto del “trasferimento ad altro ufficio”
di cui all’art. 3, comma 1 della legge 27.03.2001, n. 97 recante “Norme
sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti
del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni”; la disposizione prevede, infatti, che quando nei
confronti di un dipendente “è disposto il giudizio per alcuni dei delitti
previsti dagli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter e 320 del
codice penale e dall’articolo 3 della legge 09.12.1941, n. 1383,
l’amministrazione di appartenenza lo trasferisce ad un ufficio diverso da
quello in cui prestava servizio al momento del fatto, con attribuzione di
funzioni corrispondenti, per inquadramento, mansioni e prospettive di
carriera, a quelle svolte in precedenza”.
Pertanto, in caso di formale rinvio a giudizio i dipendenti accusati di una
serie specifica di reati, devono essere trasferiti ad ufficio diverso da
quelli in cui prestavano servizio.
A livello normativo emergono, quindi, due sostanziali differenza tra i
suddetti istituti:
1. la “rotazione straordinaria” è strumento utilizzabile in
prima battuta già al momento della conoscenza dell’iscrizione nel registro
degli indagati, di cui all’art. 335 c.p.p., mentre il “trasferimento a
seguito di rinvio a giudizio” segue, per l’appunto, il formale atto del
giudice per le indagini preliminari;
2. nel caso del “trasferimento a seguito di rinvio a giudizio”,
diversamente da quanto accade per la “rotazione straordinaria” –dove
vi è un generico rinvio a “condotte di tipo corruttivo”– il
legislatore individua, quale presupposto per l’applicazione della misura,
specifiche fattispecie di reato, sebbene in numero ridotto rispetto
all’intera gamma di reati previsti dal Titolo II Capo I del Libro secondo
del Codice Penale.
A ciò aggiungasi, tuttavia, in relazione all’ambito oggettivo di
applicazione della “rotazione straordinaria”, che ANAC nel documento
in consultazione –rivedendo una posizione precedentemente assunta (PNA 2016
e Aggiornamento 2018 al PNA)– ha stabilito che “l’elencazione dei reati
(delitti rilevanti previsti dagli articoli 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale), di cui all’art. 7 della legge n. 69 del 2015, per “fatti di
corruzione” possa essere adottata anche ai fini della individuazione delle
“condotte di natura corruttiva” che impongono la misura della rotazione
straordinaria”.
Ne discende che:
a) per i reati previsti dai richiamati articoli del codice penale
(tra gli altri concussione, corruzione per un atto contrario ai doveri di
ufficio, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o
promettere utilità), è da ritenersi obbligatoria l’adozione di un
provvedimento motivato, con il quale viene valutata la condotta “corruttiva”
del dipendente ed eventualmente disposta la rotazione straordinaria;
b) per gli altri reati contro la pubblica amministrazione, di cui
al Capo I, Titolo II, Libro secondo del Codice Penale (delitti rilevanti nel
d.lgs. 08.04.2013, n. 39 in materia di incompatibilità e inconferibilità e
d.lgs. 31.12.2012, n. 235 in materia di incandidabilità), la rotazione è
solo facoltativa, restando in capo all’amministrazione la valutazione circa
la gravità del delitto.
Alla luce del sopra descritto quadro normativo è possibile fornire risposta
al quesito indicando i passaggi che dovranno essere posti in essere
dall’Amministrazione, tenendo anche conto che a breve diverranno efficaci le
direttive ANAC, ora in consultazione:
1. verificare nello specifico se “la condotta corruttiva”
per cui è stato iscritto nel registro degli indagati il dipendente integri,
in astratto, una delle fattispecie di cui agli artt. 317, 338, 319, 319-ter,
319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice
penale;
2. in caso di esito positivo –come pare dedursi nel caso di specie,
avendo il responsabile del procedimento in astratto commesso il reato, ex
art. 319 c.p. “corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio”–
predisporre obbligatoriamente il provvedimento di rotazione straordinaria,
adeguatamente motivato (deve essere stabilito che la condotta corruttiva
imputata può pregiudicare l’immagine di imparzialità dell’amminsitrazione),
con il quale viene individuato il diverso ufficio al quale il dipendente
viene trasferito.
3. trattandosi di provvedimento temporaneo, fissare il termine di
efficacia in massimo cinque anni (come suggerito da ANAC tramite rinvio alla
legge 97/2001) e comunque nell’eventuale rinvio a giudizio del dipendente;
momento in cui l’amministrazione potrà nuovamente disporre il trasferimento,
o limitarsi a confermare quello già disposto (19.03.2019
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Obblighi di pubblicazione nella sezione "Amministrazione trasparente".
1) Per quanto concerne gli obblighi di
pubblicazione degli atti di concessione di benefici economici, l’art. 26,
D.Lgs. n. 33/2013, esclude espressamente la pubblicazione dei dati
identificativi delle persone fisiche destinatarie, qualora gli atti oggetto
di pubblicazione possano rivelare informazioni relative allo stato di salute
ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli interessati. In
tal caso, tale divieto non vale ad escludere la pubblicazione del relativo
provvedimento, ma si traduce in un obbligo di oscuramento dei suddetti dati
personali.
2) Per quanto riguarda l’obbligo di pubblicazione dei dati relativi
ai pagamenti, di cui all’art. 4-bis, D.Lgs. n. 33/2013, l’ANAC (delibera
28.12.2016, n. 1310), nel rilevare l’esigenza che il legislatore intervenga
per chiarire il contenuto effettivo dei dati sui pagamenti, ha ritenuto
opportuno limitare la pubblicazione, in una prima fase, alle tipologie di
spesa a più alta necessità di monitoraggio, in quanto attinenti alle aree di
rischio a rilevanza esterna: incarichi di consulenza, enti controllati,
contratti pubblici di acquisizione di beni e servizi.
Il Comune pone la questione della corretta applicazione delle norme in tema
di obblighi di pubblicazione ai fini di trasparenza, con particolare
riferimento ad una serie di atti di concessione di vantaggi economici a
persone fisiche e ai dati relativi ai propri pagamenti, di cui agli
articoli, rispettivamente 26, 27 e 4-bis del D.Lgs. n. 33/2013.
Un tanto, avuto riguardo al divieto di pubblicare dati indentificativi delle
persone fisiche
[1]
destinatarie dei provvedimenti di attribuzione di
vantaggi economici, qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni
relative allo stato di salute ovvero alla situazione di disagio
economico-sociale degli interessati, stabilito dall’art. 26, c. 4, D.Lgs. n.
33/2013.
Il Comune chiede inoltre un parere su come si concilino gli obblighi di
pubblicazione di cui al D.Lgs. n. 33/2013 con la normativa relativa alla
protezione dei dati personali di cui al Regolamento (UE) n. 679/2016.
Si precisa che il servizio di consulenza svolto da questo Servizio consiste
nel fornire elementi giuridici generali sulle questioni poste dagli enti,
che siano di supporto all’individuazione, in autonomia, delle soluzioni da
applicare ai casi concreti.
Pertanto, in questa sede si esprimeranno delle considerazioni generali sugli
obblighi di pubblicazione previsti dal decreto trasparenza, specificamente
di quelli riferiti agli atti di concessione di vantaggi economici e ai dati
relativi ai pagamenti, avuto riguardo alle norme per la protezione dei dati
personali. Considerazioni che l’Ente potrà utilizzare per assumere la
decisione più opportuna in merito alla pubblicazione dei singoli atti, al
cui riguardo si formuleranno alcune riflessioni in via collaborativa.
L’art. 26, c. 2, D.Lgs. n. 33/2013, stabilisce l’obbligo di pubblicazione
degli atti di concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi, ausili
finanziari e vantaggi economici erogati in favore di soggetti pubblici o
privati di importo superiore a mille euro.
Il successivo art. 27 stabilisce le informazioni che devono essere
pubblicate, tra cui: il nome del soggetto beneficiario, l’importo del
vantaggio, il titolo giuridico dell’attribuzione, la modalità seguita per
l’individuazione del beneficiario (comma 1). Dette informazioni sono
riportate nell’ambito della sezione “Amministrazione trasparente” (comma 2).
Peraltro, l’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, esclude espressamente la
pubblicazione dei dati identificativi delle persone fisiche destinatarie dei
provvedimenti di concessione dei benefici economici, qualora gli atti e i
documenti da pubblicarsi siano idonei a disvelare informazioni relative allo
stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati
[2].
Per quanto concerne lo stato di salute, si evidenzia che l’operatività di
detto limite è già sancita nel Capo I, Principi generali, del decreto
trasparenza: l’art. 4 “Limiti alla trasparenza” del decreto medesimo prevede
infatti che “Restano fermi i limiti …relativi alla diffusione dei dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale” (comma 6)
[3].
Si sottolinea che i dati idonei a rivelare lo stato di salute sono dati
sensibili, oggi denominati “categorie particolari di dati personali”
dall’art. 9 del Regolamento (UE) n. 679/2016
[4]. In proposito, il Presidente
dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in una nota del
27.11.2018 (doc web 9065601) ha affermato che l’art. 9 in argomento
prevede un generale divieto di trattamento dei dati sensibili e
successivamente una deroga per il trattamento degli stessi necessario per
motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione e
degli Stati membri e secondo i parametri ivi previsti.
Con specifico riferimento ai limiti alla diffusione di notizie concernenti
lo stato di salute, il Garante per la protezione dei dati personali ha
chiarito che è vietata la diffusione di qualsiasi dato o informazione da cui
si possa desumere lo stato di malattia o l’esistenza di patologie dei
soggetti interessati, compreso qualsiasi riferimento alle condizioni di
invalidità, disabilità o handicap fisici
[5].
Analogamente, è vietato riportare dati o informazioni da cui si può desumere
la condizione di indigenza o di disagio sociale in cui versano gli
interessati.
Il Garante osserva che spetta agli enti interessati valutare, caso per caso,
quando le informazioni contenute nei provvedimenti rivelino l’esistenza di
una situazione di disagio economico o sociale in cui versa il destinatario
del beneficio e non procedere, di conseguenza, alla pubblicazione dei dati
identificativi del beneficiario o delle altre informazioni che possano
consentirne l’identificazione.
Inoltre, per gli obblighi di pubblicazione nei siti istituzionali della p.a.
previsti dalla normativa vigente per finalità di trasparenza vale il
principio per cui la pubblicazione deve avvenire nel rispetto dei limiti
alla trasparenza posti dalle norme sulla protezione dei dati personali
[6].
In questi termini si pone la questione posta dall’Ente circa la
conciliazione degli obblighi di cui al D.Lgs. n. 33/2013 con la normativa
relativa alla protezione dei dati personali di cui al Regolamento (UE) n.
679/2016.
L’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di
trasparenza, anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto
normativo, deve avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili al
trattamento dei dati personali, oggi contenuti nell’art. 5 del Regolamento
(UE) 2016/679.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e
limitazione a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati
personali sono trattati («minimizzazione dei dati»), di cui all’art. 5, par.
1, lett. c), e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il
conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o
rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le
quali sono trattati (art. 5, par. 1, lett. d).
Sul piano dell’ordinamento interno, viene in considerazione l’art. 4, c. 4,
D.Lgs. n. 33/2013, secondo cui «Nei casi in cui norme di legge o di
regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche
amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non
pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle
specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione»
[7].
A tal proposito, il Garante ha affermato che non risulta giustificato
diffondere, tra l’altro, dati quali, ad esempio, l’indirizzo di abitazione o
la residenza, il codice fiscale di persone fisiche, le coordinate bancarie
dove sono accreditati i contributi o i benefici economici (codici IBAN), la
ripartizione degli assegnatari secondo le fasce dell’indicatore della
situazione economica equivalente-Isee, l’indicazione di analitiche
situazioni reddituali, di condizioni di bisogno o di peculiari situazioni
abitative
[8].
Un tanto esposto in generale, in via del tutto collaborativa si esprimono
alcune considerazioni con riferimento alle tipologie di provvedimenti
elencate dall’Ente.
Per quanto concerne gli atti di concessione di vantaggi economici, si fa
osservare innanzitutto che il tenore testuale dell’art. 26, c. 4, D.Lgs. n.
33/2013, vale ad escludere la pubblicazione dei dati identificativi delle
persone fisiche destinatarie di benefici economici da cui è possibile
ricavare informazioni relative allo stato di salute e alla situazione di
disagio economico-sociale, non anche quella del relativo provvedimento;
pertanto, la fattispecie –osserva la dottrina– “si traduce in definitiva
in un obbligo di mascheramento” di detti dati
[9].
E dunque detti atti andranno pubblicati adottando tutti gli accorgimenti
necessari al fine di rispettare il divieto di cui all’art. 26, c. 4,
richiamato
[10].
Inoltre, al fine di meglio comprendere l’operatività dell’obbligo di
pubblicazione di cui agli artt. 26 e 27, si fa osservare che il Garante ha
affermato che detta normativa prevede la pubblicazione obbligatoria dei soli
nominativi
[11]
dei soggetti destinatari di un contributo di natura economica
superiore ai mille euro, con esclusione della diffusione di dati
identificativi delle persone destinatarie dei contributi da cui è possibile
ricavare informazioni relative alla situazione di disagio economico (e allo
stato di salute n.d.r.)
[12].
E in virtù di questo principio, il Garante –a seguito di segnalazione per
la pubblicazione di graduatorie relative alla concessione di contributi per
interventi di risparmio energetico su unità abitative private– ha ribadito
il contenuto degli obblighi di trasparenza di cui agli artt. 26 e 27 nel
senso di prevedere la pubblicazione sul sito web istituzionale di dati
personali dei soggetti destinatari degli atti di sovvenzioni economiche
superiori a mille euro.
Ha ritenuto, invece, illegittima la pubblicazione delle graduatorie nella
parte in cui rendono pubblici dati personali diversi da quelli indicati agli
artt. 26 e 27 richiamati, e precisamente dei soggetti collocati nelle
predette graduatorie che non risultano destinatari del contributo economico
perché la relativa istanza è stata respinta o è ancora in fase istruttoria,
nonché dei soggetti la cui collocazione in graduatoria –formata in base
all’ISEE dei partecipanti, dando priorità ai soggetti che si trovano in
condizioni di disagio economico– potrebbe essere idonea a rivelare una
situazione di disagio economico
[13].
Venendo alle tipologie di provvedimenti esemplificate dall’Ente, le
considerazioni del Garante sui limiti alla diffusione delle informazioni
sullo stato di salute portano a ritenere che gli atti di concessione di
contributi aventi natura assistenziale, a sostegno del reddito e delle
condizioni di invalidità, disabilità o handicap fisici e/o psichici
[14],
andranno pubblicati oscurando i nominativi (e naturalmente gli altri dati
identificativi) dei destinatari, proprio in considerazione della loro
destinazione, che appare idonea a rivelare informazioni relative allo stato
di salute e alla situazione di disagio economico-sociale
[15].
Lo stesso si può dire per i contributi per ridurre la spesa dei canoni di
locazione (art. 11, L. n. 431/1998; art. 6, L.R. n. 6/2003) espressamente
previsti per i “soggetti non abbienti”, che andranno pubblicati oscurando i
dati personali dei destinatari, in quanto trattasi di atti che in relazione
al contenuto del titolo giuridico legittimante sono idonei a disvelare
situazioni di disagio economico degli interessati.
Per quanto concerne gli atti di concessione di contributi a sostegno della
natalità e della famiglia, cui il Comune riferisce l’accesso sulla base di
determinati requisiti, quali ad es. l’indicatore ISEE, si osserva che,
secondo le indicazioni del Garante, “restano fermi gli obblighi di
trasparenza previsti dagli artt. 26 e 27 del d.lgs. n. 33/2013 che prevedono
la pubblicazione nel sito web istituzionale di dati personali dei soggetti
destinatari” di contributi economici
[16].
Mentre, sempre avuto riguardo alle indicazioni del Garante, qualora siano
state formate graduatorie di ordine di priorità degli aventi diritto sulla
base del reddito –l’Ente non specifica un tanto– andranno oscurati dagli
elenchi pubblicati i dati personali dei soggetti la cui collocazione (nei
primi posti) potrebbe rivelare situazioni di disagio economico.
A questo riguardo, solo l’Ente può fare valutazioni concrete nei singoli
casi.
Si esprimono infine delle considerazioni sull’obbligo di pubblicazione dei
dati relativi ai pagamenti, previsto dall’art. 4-bis, D.Lgs. n. 33/2013, di
cui l’Ente chiede chiarimenti avuto riguardo alla protezione dei dati
personali. L’art. 4-bis è stato inserito dall’art. 5 del D.Lgs. n. 97/2016,
al fine di potenziare la trasparenza sulla spesa pubblica, e pone l’obbligo
in capo a ciascuna amministrazione di pubblicare sul proprio sito
istituzionale, in una parte chiaramente identificabile della sezione
“Amministrazione trasparente”, i dati sui propri pagamenti, in modo da
permetterne la consultazione in relazione alla tipologia di spesa sostenuta,
all’ambito temporale di riferimento, ai beneficiari.
Con riferimento a detto nuovo obbligo di pubblicazione, si riportano le
indicazioni fornite dall’ANAC nella delibera 28.12.2016, n. 1310
[17],
ove l’Autorità ha peraltro rilevato l’esigenza che il legislatore intervenga
per chiarire il contenuto effettivo dei dati sui pagamenti in parola.
In particolare, l’ANAC, in considerazione dell’esigenza di semplificare la
pubblicazione dei dati dei pagamenti, ha ritenuto opportuno in quella sede
di limitarla, in una prima fase, alle tipologie di spesa a più alta
necessità di monitoraggio, in quanto attinenti alle aree di rischio a
rilevanza esterna: incarichi di consulenza, enti controllati, contratti
pubblici di acquisizione di beni e servizi.
Rimane fermo che per tutti gli obblighi di pubblicazione per finalità di
trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa valgono, come detto
sopra, i principi di minimizzazione dei dati personali di cui all’art. 5 del
Regolamento (UE) n. 679/2016 e all’art. 4, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013, come
chiarito dall’ANAC
[18], che in generale sulle cautele da adottare per la
protezione dei dati personali rinvia alle Linee guida del Garante n.
243/2014
[19].
---------------
[1] Per quanto concerne i dati identificativi delle persone fisiche, si
riporta il contenuto dell’art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento (UE) 27.04.2016, n. 679 relativo alla protezione delle persone fisiche con
riguardo al trattamento dei dati personali, applicabile dal 25.05.2018
in tutti gli Stati membri dell’Unione europea, secondo cui per “dato
personale” si intende “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica
identificata o identificabile (“interessato”); si considera identificabile
la persona fisica che può essere identificata, direttamente o
indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il
nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un
identificativo on-line o a uno o più elementi caratteristici della sua
identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o
sociale”.
[2] V. Benedetto Ponti, La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14.03.2013, Maggioli, 2013, p. 89.
[3] Cfr. in proposito, Garante per la protezione dei dati personali,
provvedimento 15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di
trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti
amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web
da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, parte I, par. 2; parte II,
par. 1.
[4] Ai sensi dell’art. 9, par. 1, del Regolamento (UE) n. 679/2016, i dati
sensibili, oggi “categorie particolari di dati personali”, sono i dati che
rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni
religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, i dati genetici, i dati
biometrici, i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o
all’orientamento sessuale della persona”.
[5] A titolo esemplificativo delle informazioni di cui è vietata la
diffusione, il Garante cita l’indicazione:
- della disposizione sulla base della quale ha avuto luogo
l’erogazione del beneficio economico se da essa è possibile ricavare
informazioni sullo stato di salute di una persona (come l’indicazione
“erogazione ai sensi della legge 104/1992 che è la “Legge-quadro per
l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone
handicappate”);
- dei titoli dell’erogazione dei benefici (es. attribuzione di
borse di studio a “soggetto portatore di handicap”, o riconoscimento di
buono sociale a favore di “anziano non autosufficiente” o con l’indicazione,
insieme, al dato anagrafico, delle specifiche patologie sofferte dal
beneficiario);
- delle modalità e dei criteri di attribuzione del beneficio
economico (es. punteggi attribuiti con l’indicazione degli “indici di
autosufficienza nelle attività della vita quotidiana”);
- della destinazione dei contributi erogati (es. contributo per
“ricovero in struttura sanitaria” o per “assistenza sanitaria”).
Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n. 243/2014
cit., parte I, par. 9.e.
[6] Cfr. Linee guida n. 243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
Detti principi valgono anche per gli obblighi di pubblicazione per altre
finalità di pubblicità dell’azione amministrativa (Cfr. Linee guida citate:
Introduzione; parte I, par. 2; parte I, par. 9. e.; parte II, par. 1).
[7] Cfr. ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione
(approvato con delibera 21.11.2018, n. 1074), Parte generale, par. 7.
L’ANAC, in generale sulle cautele da adottare per la protezione dei dati
personali, rinvia alle Linee guida del Garante n. 243/2014, secondo cui è
consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione in atti e
documenti da pubblicare sia realmente necessaria e proporzionata alla
finalità di trasparenza perseguita nel caso concreto. Di conseguenza, i dati
personali che esulano da tale finalità non devono essere inseriti negli atti
e nei documenti oggetto di pubblicazione on line. In caso contrario, occorre
provvedere, comunque, all’oscuramento delle informazioni che risultino
eccedenti o non pertinenti (Linee guida, parte I, par. 2).
[8] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n.
243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
[9] Cfr. Benedetto Ponti, La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14.03.2013, cit., p. 89.
[10] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs.n.
33/2013, 13.6.
[11] Sui dati identificativi eccedenti che non è giustificato diffondere e
che vanno dunque oscurati, si richiama quanto detto sopra (v. nota 8).
[12] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 18.05.2016, n. 228.
[13] Cfr. provvedimento del Garante n. 228/2016 cit.
Nello stesso senso: provvedimento del Garante 12.04.2018, n. 2013, ove
il Garante –a seguito di segnalazione relativa alla pubblicazione della
graduatoria di soggetti aventi diritto a esenzioni o riduzioni della tassa
sui rifiuti (Tari)– ha ritenuto illegittima la pubblicazione di dette
graduatorie, che identificano i soggetti aventi diritto all’esenzione o alla
riduzione della Tari, perché si trovano, rispettivamente, in una condizione
di disagio economico-sociale o in uno stato di invalidità civile.
[14] L’Ente a titolo di esempio cita i contributi socio assistenziali, di
assistenza al reddito, di abbattimento delle barriere architettoniche, i
contributi ANMIL.
[15] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, Linee guida n.
243/2014 citate, parte I, par. 9. e.
[16] Provvedimento del Garante n. 228/2016 cit.
[17] Delibera 28.12.2016, n. 1310, recante: “Prime linee guida recanti
indicazioni sull’attuazione degli obblighi di pubblicità, trasparenza e
diffusione di informazioni contenute nel D.Lgs. n. 33/2013 come modificato
dal D.Lgs. n. 97/2016”, par. 6.1.
[18] ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione cit.
[19] In relazione alla riflessione posta dall’Ente se l’obbligo di
pubblicazione di cui all’art. 4-bis in argomento vada conciliato con il
divieto di pubblicare i dati identificativi delle persone fisiche di cui
all’art. 26, c. 4, D.Lgs. n. 33/2013 –previsto espressamente per gli atti
di concessione di benefici economici e connesso alla diffusione di
informazioni relative allo stato di salute o a situazioni di disagio
economico-sociale– la stessa potrà essere valutata nel momento in cui verrà
chiarito quale sia il contenuto dei dati sui pagamenti. Nelle more di tali
chiarimenti, in via meramente collaborativa si è dell’avviso che l’obbligo
previsto dall’art. 4-bis non possa comportare la pubblicazione di dati
idonei a rivelare informazioni relative allo stato di salute ovvero alla
situazione di disagio economico-sociale degli interessati (28.02.2019
- link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Omessa denuncia degli abusi edilizi, il dirigente comunale
non ha responsabilità oggettiva.
Non risponde automaticamente del reato
di omessa denuncia, disciplinato dall'articolo 361 del
codice penale -nel caso di un abuso edilizio- il
responsabile dell'ufficio tecnico del comune che a seguito
della presentazione di un permesso di costruire in
sanatoria, non abbia trasmesso la notizia all'autorità
giudiziaria.
È infatti necessario dimostrare anche la «sussistenza
dell'elemento soggettivo» del reato –vale a dire l'effettiva
conoscenza della notitia criminis- «non potendosi ipotizzare
una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione
amministrativa esercitata all'interno della struttura
burocratica comunale».
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RITENUTO IN FATTO
1. Salvatore Caudullo, per mezzo del difensore, propone
ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di
Catania che, in parziale riforma della decisione del
Tribunale di Catania, per quel che in questa sede rileva, ha
rideterminato la pena in euro 340 di multa in ordine al
reato di cui all'ad 361 cod. pen. (capo G), in quanto, quale
Capo dell'Ufficio Tecnico del Comune di Bronte, essendo
venuto a conoscenza della commissione di abusi edilizi da
parte di Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi. (stesse persone con cui era
stato chiamato, a titolo di omissione ex art. 40, comma
secondo, cod. pen., a rispondere del concorso nella
realizzazione dei reati di cui ai capi da A) a F) relativi a
contravvenzioni in materia edilizia, urbanistica, sismica ed
ambientale), i quali avevano presentato una istanza di
permesso di costruire in sanatoria per poter realizzare un
immobile, ometteva di darne comunicazione all'autorità
giudiziaria, fatto commesso in Bronte in data antecedente al
08.06.2011.
2. Il ricorrente deduce difetto di motivazione, travisamento
della prova e violazione degli artt. 36, 42, 43 e 361 cod.
pen.
La Corte territoriale non avrebbe adeguatamente apprezzato
il dato normativo, le risultanze processuali, per come
ricostruite dall'esame dei testi e dell'imputato, oltre che
la documentazione acquisita e fornita dalla difesa.
Sa.Ca. -si osserva- era coordinatore di ben otto servizi,
tra i quali quello di Urbanistica e Repressione Abusivismo
Edilizio, settori a loro volta retti da altri (Sa. e Gr.)
cui competeva l'istruttoria delle pratiche assegnate.
La prassi prevedeva che tutte le pratiche di richiesta di
sanatoria ex artt. 12 e 13 L. 47/1985 (art. 36 d.P.R.
06.06.2001, n. 380) non fossero inoltrate all'Autorità
Giudiziaria, obbligo di comunicazione che incombeva sul solo
personale di Polizia Giudiziaria,
Il ricorrente evidenzia l'assoluta buona fede del Ca. che,
quale capo dell'Ufficio Tecnico, si era limitato a
coordinare i vari servizi demandando ai singoli responsabili
le relative decisioni, circostanza che impone di ritenere
insussistente l'elemento soggettivo quantomeno ex art. 533
cod. proc. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato, così imponendosi l'annullamento
senza rinvio della sentenza impugnata.
2. L'accusa mossa a Sa.Ca., quale dirigente dell'Ufficio
tecnico comunale (originariamente in concorso con il
responsabile del servizio di polizia giudiziaria ed
amministrativa, tenente Gi.Sa.), è quella di aver omesso di
trasmettere all'autorità giudiziaria la denuncia in ordine
alla commissione di reati edilizi ed ambientali da parte di
Th.Co., Vi.Sa. e Da.Gi., a cagione della presentazione, da
parte di costoro, dell'istanza di permesso di costruire in
sanatoria per la realizzazione di un immobile.
In particolare, è stato ritenuto che la pratica relativa
all'immobile in questione, affidata al geometra An.Sa., era
stata istruita dall'ufficio tecnico di cui il ricorrente era
responsabile ed inserita esclusivamente nella comunicazione
quindicinale inviata all'Assessorato Territorio ed Ambiente
della Regione.
Da tanto è stato desunta la sussistenza del dolo generico in
capo al ricorrente che aveva giustificato la condotta
dell'Ufficio, di cui evidenziava la articolata consistenza,
sulla base della prassi all'epoca vigente a mente della
quale la comunicazione in ordine a tutte le istanze in
sanatoria non venivano inviate immediatamente all'autorità
giudiziaria, ma ciò avveniva solo al momento della richiesta
di agibilità o abitabilità degli immobili ovvero all'esito
della conclusa istruttoria.
3. Deve premettersi che l'elemento
soggettivo del reato di omissione di denuncia consiste nella
consapevolezza e volontarietà dell'omissione allorché
risulti sussistente il presupposto da cui deriva il dovere
di trasmettere la notizia di reato all'autorità giudiziaria,
ovvero la conoscenza, da parte del pubblico ufficiale, del
fatto costituente reato a causa e nell'esercizio delle sue
funzioni.
È, invece, estraneo alla nozione del dolo
di omissione il motivo che porta il soggetto, su cui grava
l'obbligo di informazione, ad astenersi dal trasmettere la
notizia di reato; sicché è irrilevante che il pubblico
ufficiale ritenga che l'informativa della "notitia
criminis" di cui sia venuto a conoscenza, competa ad
altro pubblico ufficiale ovvero supponga che l'informativa
medesima sia stata da questi già fornita. Infatti, l'errore
in cui l'obbligato può incorrere, al riguardo, non esclude
la volontarietà dell'omissione, ma concerne semmai la sua
legittimità ed è, pertanto, penalmente inscusabile
(Sez. 6, n. 1407 del 05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6,
n. 9701 del 23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014).
Risulta, inoltre, pacifico il principio a
mente del quale si realizza l'omessa denuncia penalmente
rilevante ex art. 361 cod. pen., quando il pubblico
ufficiale è in grado di individuare gli elementi ed
acquisire ogni altro dato utile per la formazione della
denuncia stessa (Sez.
6, n. 49833 del 03/07/2018, Pesci, Rv. 274310).
4. Tanto premesso deve rilevarsi che, nonostante specifica
censura anche proposta in sede di gravame, nessuna emergenza
consente di ritenere che, a prescindere dalla (certamente
irrilevante) invocata prassi da parte del ricorrente, lo
stesso fosse consapevole dell'esistenza di una "notitia
criminis". tenuto conto delle innumerevoli istanze di
sanatoria pervenute presso l'ufficio dal medesimo diretto e
trasmesse per l'istruttoria al funzionario responsabile di
altro settore.
Il ricorrente, infatti, aveva fatto presente la complessa
articolazione degli uffici che gli erano stati affidati, con
particolare riferimento alle tre posizioni organizzative di
cui era responsabile, rimarcando come il servizio
urbanistico, interno all'area tecnica, era da Ca.
coordinato, così da limitarsi a sottoscrivere i
provvedimenti finali all'esito dell'esame della pratica
svolta dal pubblico ufficiale incaricato (penultima pagina
sentenza del Tribunale). Circostanza anche ribadita nei
motivi di appello, ove, oltre ad ipotizzare in capo ad altri
soggetti l'obbligo di denuncia, emergenza non pertinente in
quanto non idonea a far venir meno la responsabilità in capo
al pubblico funzionario (in tal senso v. Sez. 6, n. 1407 del
05/11/1998, dep. 1999, Pirari F, Rv. 212551), si era
rappresentato che il fascicolo in questione era stato
assegnato agli uffici competenti per la relativa
istruttoria.
Nonostante, quindi, plurimi siano stati i rilievi tesi ad
evidenziare una assenza di conoscenza della pratica relativa
all'immobile oggetto di sanatoria ed in ordine al quale il
ricorrente aveva fornito risposte esclusivamente circa i
compiti assegnati al proprio ufficio, i Giudici di merito
hanno ritenuto Sa.Ca. responsabile sulla base della sola
posizione apicale ricoperta all'interno della struttura
burocratica comunale e senza individuare alcun effettivo
elemento idoneo a far ritenere che fosse consapevole della
consistenza, anche solo generica, della specifica istanza.
Questa Corte ha da tempo avuto modo di evidenziare che
non risponde di omessa denuncia di reato, ai sensi
dell'art. 361, comma primo cod. pen., il sindaco che ometta
di portare a conoscenza dell'autorità giudiziaria il
contenuto delle domande di sanatoria per abusi edilizi
pervenute all'amministrazione comunale, o ne ritardi la
trasmissione informale, richiesta dall'A.G., prescindendo
dal loro vaglio, anche ai fini specifici dell'accertamento
di fatti costituenti reato
(Sez. 6, n. 5499 del 09/05/1985, Di Giovanna, Rv. 169537),
principio tranquillamente esportabile in capo al
Dirigente dell'Ufficio tecnico cui oggi compete
l'accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380.
Tanto non implica che il dirigente di tale
servizio non possa rendersi astrattamente responsabile del
delitto di omessa denuncia di un fatto di reato di cui sia
venuto a conoscenza in ragione dell'espletamento della
funzione, e ciò a maggior ragione quando vengono coinvolti
interessi connessi alla salvaguardia del territorio alla cui
tutela il pubblico ufficiale è preposto.
Ma non è possibile che tale obbligo/dovere di denuncia si
estenda sino a ricomprendere le molteplici evenienze che
involgono il campo d'azione dell'esercizio della funzione
amministrativa e senza in concreto accertare se la notizia
di reato sia stata realmente apprezzata dal soggetto agente
al fine di valutarne il necessario elemento soggettivo del
dolo omissivo richiesto dalla fattispecie di cui all'art.
361 cod. pen.
Né può ritenersi che nel caso sottoposto a scrutinio si
tratti di valutare la sussistenza di un eventuale errore in
ordine alla sola consistenza della notizia di reato di cui
l'agente sia venuto a conoscenza, errore chiaramente
inescusabile in quanto non idoneo ad escludere la
volontarietà dell'omissione (v. Sez. 6, n. 1407 del
05/11/1998, Pirari, Rv. 212551; sez. 6, n. 9701 del
23/09/1996, Gobbi, Rv. 206014, cui sopra è cenno), quanto,
piuttosto, la mancata conoscenza della concreta notizia di
reato e, conseguentemente, l'ambito su cui va a ricadere
l'elemento soggettivo dell'agente che necessita di specifico
accertamento, nel concreto omesso.
Questa Corte, seppure con rifermento all'esame del solo
elemento oggettivo, ha avuto modo di precisare che
non integra il reato di cui all'art. 361 cod. pen.
la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla
segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile
rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti
all'interno del proprio ufficio, al fine di verificare
l'effettiva sussistenza di una "notitia criminis", e
non di elementi di mero sospetto
(Sez. 6, n. 12021 del 06/02/2014, Kutufà, Rv. 258339).
Principio di diritto che impone, a maggior
ragione, di ritenere logicamente necessario il previo
accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo
sull'esistenza della notitia criminís, non potendosi
ipotizzare una responsabilità in capo al pubblico ufficiale
responsabile in base alla sola funzione amministrativa
esercitata all'interno della struttura burocratica comunale.
5. Da quanto sopra consegue l'annullamento senza rinvio
della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce
reato (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 16.04.2019 n. 16577). |
APPALTI:
Accertamento della natura di “consorzio stabile” di un
concorrente ad una gara pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Consorzi
stabili – Individuazione - Espresse indicazioni
nominalistiche della natura nell’atto costitutivo –
Irrilevanza ex se.
La natura di “consorzio stabile” di
un concorrente ad una gara pubblica deve essere accertata
sulla scorta di una ricostruzione sostanzialistica dei suoi
tratti identificativi, così come delineati dall’art. 45,
comma 2, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, con la conseguenza
che è irrilevante l’assenza nell’atto costitutivo di
espresse indicazioni nominalistiche della sua natura così
come di formali manifestazioni di volontà delle imprese
consorziate dirette alla costituzione di un consorzio
stabile (1).
---------------
(1) Ha chiarito
Cons. St., sez. V, 06.12.2016, n. 5152 che “quanto
all’essenza dell’istituzione di una comune struttura
d’impresa va ricordato che per pacifico orientamento della
giurisprudenza tale aspetto non comporta, l’uso del verbo
‘istituire’ in luogo di ‘costituire’ ne è la significativa
riprova, "un’autonoma struttura d’impresa né che la
decisione delle imprese di operare in modo congiunto debba
essere formalizzata in un apposito atto" (Cons. St., sez. V,
15.10.2010, n. 7524). Quel che conta invero, è la
possibilità di individuare l’avvenuta creazione di un
complesso strutturale ed organizzativo compatibile con il
modello giuridico-formale di riferimento".
Sulla base di tale presupposto e con riferimento al caso di
specie la Sezione ha concluso nel senso che analizzando il
contenuto dell’atto costitutivo del concorrente, esso rechi
la definizione di un modello organizzativo del tutto
coerente con lo schema normativo di riferimento, ricorrendo
di quest’ultimo: 1) il requisito numerico (“formati da
non meno di tre consorziati”); 2) temporale (“per un
periodo di tempo non inferiore a cinque anni”), essendo
stabilita dall’atto costitutivo la durata di 25 anni; 3)
teleologico (“abbiano stabilito di operare in modo
congiunto nel settore dei contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture”); e 4) strutturale (“istituendo
a tal fine una comune struttura di impresa”).
Ha ancora ricordato la Sezione che “elemento essenziale
per attribuire al consorzio la qualifica di consorzio
stabile il c.d. elemento teleologico, ossia l’astratta
idoneità del consorzio, esplicitamente consacrata nello
statuto consortile, di operare con un’autonoma struttura di
impresa, capace di eseguire, anche in proprio, ovvero senza
l’ausilio necessario delle strutture imprenditoriali delle
consorziate, le prestazioni previste nel contratto” (Cons.
St., sez. V, 23.08.2018, n. 5036, nonché, più
recentemente e di questa stessa Sezione,
04.02.2019, n. 865).
Deve infatti osservarsi che, anche alla luce della
giurisprudenza citata, rilievo discriminante, ai fini della
riconoscibilità di un “consorzio stabile”, deve
attribuirsi alla sussistenza di un “complesso dei beni
organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”,
secondo la nozione civilistica di “azienda”.
Ebbene, è un dato acquisito, sul piano interpretativo, che
ciò che connota l’impresa non è la disponibilità materiale
dei mezzi e delle attrezzature necessarie allo svolgimento
dell’attività produttiva, quanto piuttosto la disponibilità
giuridica degli stessi, intesa come un complesso di rapporti
giuridici che consentono all’imprenditore di disporre dei
mezzi necessari all’esercizio dell’impresa, nonché la
capacità dell’imprenditore medesimo di organizzarli in modo
da asservirli ad una nuova funzione produttiva, diversa da
quella delle imprese da cui quei mezzi siano eventualmente “prestati”:
capacità che viene meno –a leggere attentamente la citata
giurisprudenza– quando il consorzio operi avvalendosi della
struttura imprenditoriale tout court delle imprese
consorziate, replicandone la funzione produttiva, ma non
quando esso attinga al patrimonio di queste ultime ai fini
della costituzione di un nuovo assetto produttivo, di cui
esso abbia la diretta responsabilità organizzativa
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 16.04.2019, n. 2493 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impugnabilità del verbale d’inottemperanza all’ordine di
demolizione.
---------------
●
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Inadempimento
ingiunzione – Verbale accertamento – Non è impugnabile
●
Giurisdizione – Edilizia – Abusi - Verbale di dissequestro –
Impugnazione – Giurisdizione giudice ordinario.
●
Il verbale di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione
non è autonomamente impugnabile posta la sua natura di atto
meramente ricognitivo privo di valore provvedimentale e di
efficacia lesiva.
●
Il
verbale con cui la Polizia municipale dà atto della
restituzione del bene dissequestrato al Sindaco del Comune,
in esecuzione della sentenza penale di condanna, è privo di
valore provvedimentale, non essendo collegabile ad un potere
amministrativo la cui cognizione è devoluta al giudice G.A.
in base all’art. 7 c.p.a., cosicché nei confronti
dell’attività ad esso sottesa la tutela dell’interessato è
esperibile davanti al Giudice ordinario (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che dalla regola secondo cui
l’acquisizione opera di diritto alla scadenza del termine
per demolire (art. 31, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001)
discende che il trasferimento della proprietà –in cui si
concreta l’acquisizione– è un effetto diretto ed automatico
della legge in quanto l'effetto ablatorio si verifica ope
legis alla inutile scadenza del termine fissato per
ottemperare all'ingiunzione di demolire.
Pertanto il verbale della Polizia Municipale, con il quale
viene accertata l'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione non ha contenuto dispositivo, limitandosi alla
mera rilevazione in via ricognitiva e vincolata di una
situazione di fatto, con valore endoprocedimentale
strumentale alle successive determinazioni di competenza
degli organi di amministrazione attiva dell'ente locale,
fermo restando che la notifica di un atto dichiarativo
dell’accertamento dell’inottemperanza è necessario ai fini
dell’immissione in possesso e della trascrizione nei
registri immobiliari (art. 31, comma 4, d.P.R. n. 380 del
2001; cfr. Cons. St., sez. VI, 08.05.2014, n. 2368; Cass.
pen. sez. III, 28.11.2007, n. 4962; Cons. St., sez. IV,
15.12.2017, n. 5914).
Detto principio è stato riaffermato dalla giurisprudenza,
affermando che “il verbale di accertamento di
inottemperanza redatto dalla Polizia Municipale non è atto
suscettibile di autonoma impugnazione, poiché, limitandosi a
rappresentare l'attuale stato dei luoghi rispetto
all'ingiunzione precedentemente spedita, costituisce un atto
endoprocedimentale avente contenuto di accertamento ed
esplicante una funzione meramente preparatoria e
strumentale, occorrendo che la competente autorità
amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso un
formale atto produttivo degli effetti previsti dall'art. 31,
comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001” (Cons. St., sez. IV,
26.06.2018, n. 4248).
Ne consegue che ogni doglianza avverso l’oggetto stesso
dell’acquisizione –comprendendovi la sua materiale
possibilità– ed i confini dell’acquisto della proprietà in
capo all’Ente pubblico debbono essere fatti valere nei
confronti del successivo atto dell’Autorità che, facendo
proprio l’esito dell’accertamento, ne fa discendere gli
effetti di legge (cfr. la sentenza appena citata: “eventuali
doglianze relative all’oggetto e alla consistenza della
successiva misura acquisitiva non possono che essere
proposte in sede di impugnazione di quest’ultimo
provvedimento che, come detto, non risulta essere stato
adottato”).
Giova soggiungere che tale atto è comunque impugnabile
unicamente per vizi propri, ferma restando l’inammissibilità
e la tardività di contestazioni riferibili all’ordinanza di
demolizione
(TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.04.2019 n. 2083 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Come ripetutamente affermato nella giurisprudenza, anche
di questa Sezione, al verbale di accertamento
dell’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere
riconnesso valore provvedimentale ed efficacia lesiva,
cosicché lo stesso non è autonomamente impugnabile (cfr.,
per tutte, la sentenza dell’08/11/2018 n. 6493: “il
verbale ha natura meramente ricognitiva del decorso del
tempo e della mancata spontanea esecuzione del
provvedimento, senza che quindi allo stesso possano
riconnettersi contenuto dispositivo ed autonoma portata
lesiva" (orientamento pacifico; cfr., per tutte, la
sentenza della Sezione del 06/02/2017 n. 749: “il verbale
di accertamento di infrazione redatto dal Corpo di Polizia
Municipale non è direttamente impugnabile, trattandosi di
atto a carattere endoprocedimentale, inidoneo a produrre
alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la
quale viene incisa solo a seguito e per l’effetto
dell’emanazione del provvedimento conclusivo del
procedimento amministrativo, costituito dall’ordinanza,
unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione (TAR
Trentino Aldo Adige, Trento, 10.12.2007, n. 183; anche TAR
Campania, sez. III, 15.01.2013, n. 28)”; conf.,
02/01/2018 n. 5, cit.; cfr., altresì, la sentenza della
Sezione del 14/09/2017 n. 4375: “Il verbale, in altri
termini, non costituisce un provvedimento amministrativo che
possa mutare la posizione giuridica dell'interessato, avendo
soltanto lo scopo di rappresentare con fede privilegiata
-qualora, com’è nel caso di specie, sia compilato da
pubblici funzionari- la realtà come esistente in un certo
momento storico ed in un determinato luogo (cfr. ex multis,
TAR Napoli, sez. VI, 02.12.2016, n. 5566)”; conf., da
ultimo, 07/06/2018 n. 3763)”; cfr. altresì, di recente,
01/03/2019 n. 1160).
Neppure ha valore di provvedimento amministrativo il
susseguente verbale con cui la Polizia municipale ha
ordinato la restituzione del bene dissequestrato al Sindaco
del Comune, in esecuzione della sentenza penale di condanna.
Peraltro, esso non è collegabile a un potere amministrativo
la cui cognizione è devoluta al G.A. in base all’art. 7
c.p.a., cosicché nei confronti dell’attività ad esso sottesa
la tutela dell’interessato è esperibile innanzi al Giudice
ordinario [cfr. la sentenza di questa Sezione del 04/04/2018
n. 2161, in tema di atti connessi alla procedura di
attuazione della sentenza penale di condanna: “Deve,
dunque, confermarsi che gli atti e i provvedimenti
inscindibilmente ascrivibili alla fase di esecuzione di un
ordine di demolizione impartito con la sentenza recante
condanna penale per i reati di violazione della normativa
urbanistico-edilizia, sub specie di sanzione accessoria a
contenuto amministrativo, sono devoluti alla cognizione del
giudice ordinario in veste di giudice dell'esecuzione penale
(cfr. anche TAR Napoli, sez. VI, 03.08.2016, n. 4018 in
materia di ordinanza di sgombero)”].
Le suesposte conclusioni non mutano con riferimento a quanto
illustrato dal ricorrente nella memoria finale, con cui è
stato ribadito, sulla scorta della giurisprudenza invocata,
che l’effetto acquisitivo non si sarebbe prodotto nella
specie (non essendo decorso il termine per ottemperare alla
demolizione, in pendenza di sequestro penale).
Dalla regola secondo cui l’acquisizione opera di diritto
alla scadenza del termine per demolire (art. 31, terzo
comma, del D.P.R. n. 380 del 2001) discende che il
trasferimento della proprietà –in cui si concreta
l’acquisizione– è un effetto diretto ed automatico della
legge in quanto l'effetto ablatorio si verifica ope legis
alla inutile scadenza del termine fissato per ottemperare
all'ingiunzione di demolire.
Pertanto il verbale della Polizia Municipale con il quale
viene accertata l'inottemperanza all'ordinanza di
demolizione non ha contenuto dispositivo, limitandosi alla
mera rilevazione in via ricognitiva e vincolata di una
situazione di fatto, con valore endoprocedimentale
strumentale alle successive determinazioni di competenza
degli organi di amministrazione attiva dell'ente locale,
fermo restando che la notifica di un atto dichiarativo
dell’accertamento dell’inottemperanza è necessario ai fini
dell’immissione in possesso e della trascrizione nei
registri immobiliari (art. 31 cit., quarto comma; cfr. Cons.
St., sez. VI, 08/05/2014, n. 2368; Cass. pen. sez. III,
28/11/2007, n. 4962; Cons. St., sez. IV, 15/12/2017, n.
5914).
Detto principio è stato riaffermato nella giurisprudenza di
questa Sezione, con cui è stato precisato che “il verbale
di accertamento di inottemperanza redatto dalla Polizia
Municipale non è atto suscettibile di autonoma impugnazione,
poiché, limitandosi a rappresentare l'attuale stato dei
luoghi rispetto all'ingiunzione precedentemente spedita,
costituisce un atto endoprocedimentale avente contenuto di
accertamento ed esplicante una funzione meramente
preparatoria e strumentale, occorrendo che la competente
autorità amministrativa ne faccia proprio l'esito attraverso
un formale atto produttivo degli effetti previsti dall'art.
31, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001” (sentenza del
26/06/2018 n. 4248).
Ne consegue che ogni doglianza avverso l’oggetto stesso
dell’acquisizione –comprendendovi la sua materiale
possibilità– ed i confini dell’acquisto della proprietà in
capo all’Ente pubblico debbono essere fatti valere nei
confronti del successivo atto dell’Autorità che, facendo
proprio l’esito dell’accertamento, ne fa discendere gli
effetti di legge (cfr. la sentenza appena citata: “eventuali
doglianze relative all’oggetto e alla consistenza della
successiva misura acquisitiva non possono che essere
proposte in sede di impugnazione di quest’ultimo
provvedimento che, come detto, non risulta essere stato
adottato”).
Giova soggiungere che tale atto è comunque impugnabile
unicamente per vizi propri, ferma restando l’inammissibilità
e la tardività di contestazioni riferibili all’ordinanza di
demolizione.
Quanto al verbale, occorre infine precisare che la
qualificazione dell’atto va operata dal Giudice e sono
indifferenti le espressioni in esso adoperate e, in
particolare (come nella specie), l’indicazione della sua
idoneità a costituire titolo per la trascrizione (cfr. la
sentenza della Sezione del 10/04/2018 n. 2309: “Né la
natura del verbale impugnato può mutare per effetto
dell’avviso ivi contenuto in ordine all’impugnabilità
dell’atto ed agli effetti relativi alla trascrizione ed
all’immissione nel possesso. Infatti –come chiarito da
questa Sezione con la sentenza 30.01.2018, n. 661- l’atto ed
i suoi effetti vanno qualificati ed individuati dal giudice
in base alla legge e non possono dipendere da un’impropria
ed erronea iniziativa dello stesso verbalizzante tendente ad
assegnare al proprio atto una funzione diversa da quella
meramente preparatoria e strumentale del formale
accertamento da parte dell’organo di amministrazione attiva”).
In altri termini, il verbale non ha valore di provvedimento
e non produce l’effetto acquisitivo, determinato ope
legis e i cui effetti discendono dall’emanazione di un
formale atto dichiarativo, avverso il quale è esperibile la
tutela dell’interessato.
Per le considerazioni che precedono, il ricorso va dunque
dichiarato inammissibile. |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi e Ordine di demolizione: aerofotogrammetrie
valide solo se inequivocabili.
Come è ormai noto, l'utilizzo delle
aerofotogrammetrie storiche costituisce prova documentale
pienamente utilizzabile anche in sede penale. Concetto
valido, però, solo se i fotogrammi forniscono con esattezza
le informazioni necessarie ai fini della decisione.
Lo ha chiarito la VI Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza 10.04.2019 n. 2363
con la quale ha accolto il ricorso presentato per
l'annullamento di una sentenza di primo grado concernente la
sospensione dei lavori di montaggio di una veranda, il
diniego di condono e l'ordine di demolizione.
I fatti
L'appello ai giudici di Palazzo Spada riguarda una
precedente sentenza di primo grado che aveva rigettato il
ricorso presentato per l’annullamento di una determinazione
dirigenziale che aveva disposto l’immediata sospensione
della realizzazione di una veranda di 20 metri quadri circa
sul terrazzo al livello, con muratura, infissi in alluminio,
vetri con copertura in pannelli coibentati e tegole,
nell’abitazione del ricorrente.
Con nota del 26.07.2005 la ricorrente aveva asserito che le
opere contestate sarebbero state eseguite molto tempo prima
ed oggetto di specifica istanza di condono edilizio del
10.12.2004 presentata ai sensi della legge 24.11.2003, n.
326. Era tuttavia seguito un ordine di demolizione, peraltro
impugnato con motivi aggiunti, nei quali l’appellante aveva
altresì denunciato l’illegittimità della determinazione
dirigenziale di rigetto dell’istanza di condono del
10.12.2004, presentata in ordine all’avvenuta realizzazione
della veranda. Con ulteriori motivi aggiunti la ricorrente
lamentava l’illegittimità della determinazione dirigenziale
del 18.07.2013 di ingiunzione della demolizione della
veranda.
L’appellante lamentava che la reiezione della domanda di
condono sarebbe stata disposta per la mancata realizzazione
delle opere abusive entro il 31.03.2003, sul rilievo che
dall’esame delle aerofotogrammetrie (scattate nel mese di
luglio 2003 e del 13.06.2004) le opere edilizie ancora non
risultavano eseguite e che l’amministrazione si sarebbe
limitata a ricavare tale elemento di fatto da una sentenza
del Tribunale penale del 29.11.2007, non passata in
giudicato.
Con la sentenza appellata, il ricorso era stato rigettato,
assumendosi che dalle risultanze aerofotografiche sarebbe
emerso che “gli abusi per i quali era stata inoltrata
istanza di condono … non erano ancora presenti a luglio 2003
… Né parte ricorrente, su un piano squisitamente probatorio,
ha comprovato la realizzazione della veranda su cui è stato
espresso il diniego sulla relativa domanda di condono
edilizio prima della scadenza del predetto termine del
31.03.2003”.
La sentenza del Consiglio di Stato
All'appello in secondo grado seguiva un'ordinanza del
Consiglio di Stato che disponeva una CTU per verificare se
dalle aerofotogrammetrie utilizzate e richiamate in sentenza
-ma la cui “lettura” era stata fatta oggetto di
espressa e specifica contestazione ad opera dell’appellante-
potesse trarsi il convincimento dell’inesistenza del
manufatto alla data di dichiarata realizzazione delle
stesse.
Il CTU depositava la propria relazione nella quale, tra le
altre cose, affermava che "è impossibile esprimersi con
scientifica certezza sulla esistenza o meno di una veranda
di così esigua consistenza (mq 20,7) attraverso la semplice
osservazione monoscopica di una fotografia aerea: per
rendere leggibile un manufatto di tali ridotte dimensioni
andrebbero effettuati generosi ingrandimenti che però
sgranano l’immagine rendendola dunque di cattiva
definizione, di difficile lettura e di scarsa attendibilità”.
Secondo Palazzo Spada, se lo stesso CTU riconosce
l’impossibilità di stabilire con esattezza la data di
ultimazione del manufatto in questione, deve attribuirsi
preferibilmente rilevanza all’autodichiarazione che la
ricorrente aveva rilasciato nella domanda di condono,
contenente l’attestazione che la veranda sarebbe stata
realizzata entro il 31.03.2003. Conclusione avvalorata dalla
circostanza che vi è un minimo scarto, di appena quattro
mesi, tra la data dichiarata dall’interessata sotto la
propria penale responsabilità, e quella individuata
approssimativamente dal CTU, oltretutto con un significativo
beneficio del dubbio dovuto ad intuibili ragioni tecniche,
peraltro riconosciute e fatte proprie dallo stesso perito.
Con queste motivazioni il Consiglio di Stato ha accolto
l'appello e, in riforma della sentenza appellata, accolto
anche il ricorso di primo grado (commento tratto da
www.lavoripubblici.it - Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2019 n. 2363 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sopravvenienza di fatti favorevoli all’imprenditore
destinatario di interdittiva antimafia.
---------------
Informativa antimafia – Aggiornamenti - Sopravvenienza di
fatti favorevoli – Valutazione – Limiti.
Il “venir meno delle circostanze
rilevanti” di cui all’art. 91, comma 5, d.lgs. n. 159 del
2011 non dipende dal mero trascorrere del tempo, in sé, ma
dal sopraggiungere di obiettivi elementi diversi o contrari
che ne facciano venir meno la portata sintomatica o perché
ne controbilanciano, smentiscono e in ogni caso superano la
valenza sintomatica, o perché rendono remoto, e certamente
non più attuale, il pericolo (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar sul piano letterale, la clausola rebus
sic stantibus prevista dall’art. 86, comma 2, d.lgs. n.
159 del 2011 comporta che in caso di sopravvenienza di fatti
favorevoli all’imprenditore (ad es. in relazione ai casi di
modificazioni degli assetti societari e gestionali
dell’impresa, in ipotesi capaci di modificare la valutazione
alla base dell’informativa) l’Amministrazione verifichi
nuovamente se persistano ragioni di sicurezza e di ordine
pubblico tali da prevalere sull’iniziativa e sulla libertà
di impresa del soggetto inciso.
Va tuttavia sottolineato che, in caso di ripetute e
strumentali reiterazioni di domande dirette ad ottenere un
provvedimento di ritiro o di revoca di un’interdittiva in
corso di validità, collegate alla affermata rilevanza di
sopravvenienze e fatti nuovi asseriti come favorevoli al
soggetto inciso, la Prefettura può limitarsi:
- a verificare se la domanda sia accompagnata da un fatto realmente
nuovo, perché sopravvenuto ovvero non conosciuto, che possa
essere ritenuto effettivamente incidente sulla fattispecie
(es. effettiva cessione dell’impresa a soggetto del tutto
estraneo al rischio di condizionamento o infiltrazione da
parte della delinquenza organizzata);
- a valutare quindi se possano ritenersi venute meno quelle ragioni
di sicurezza e di ordine pubblico in precedenza ritenute
prevalenti sull’iniziativa e sulla libertà di impresa del
soggetto inciso.
In caso di esito negativo di detta verifica, la Prefettura
può semplicemente limitarsi a prendere atto della
inesistenza di profili nuovi e, di conseguenza, adottare un
atto di natura meramente confermativa; ciò a maggior ragione
in presenza di sentenze di conferma della legittimità dei
precedenti provvedimenti
(Consiglio di Stato Sez. III,
sentenza 09.04.2019 n. 2324 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È pacifico in giurisprudenza il principio secondo
cui “l’onere di provare la data di realizzazione
dell’immobile abusivo spetta a colui che ha commesso
l’abuso.
Solo l’interessato infatti può fornire inconfutabili atti,
documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione
di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro
il potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria
dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria.
---------------
1. È materia del contendere la legittimità del diniego
emesso dal Comune di Deruta del 10.11.2011, prot. 14379,
sulla domanda di accertamento di conformità proposta dagli
odierni ricorrenti per il mutamento della destinazione d’uso
di alcuni locali ubicati al piano terra dell’immobile
principale e del fabbricato adiacente, utilizzati ad uso
artigianale, nonché per la realizzazione di alcune tettoie e
di due piccoli manufatti, l’uno destinato a magazzino e
ricovero animali domestici e l’altro a collegare il corpo di
fabbrica principale ed il manufatto di pertinenza.
2. Con il primo motivo di ricorso si sostiene che “contrariamente
a quanto affermato dal Comune, il manufatto in muratura
adibito a ricovero animali effettivamente è stato costruito
in data anteriore al 7.7.1967 e, pertanto, non necessitava
di alcun titolo abilitativo”.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. È pacifico in giurisprudenza il principio secondo cui “l’onere
di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo
spetta a colui che ha commesso l’abuso. Solo l’interessato
infatti può fornire inconfutabili atti, documenti ed
elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione di un
manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il
potere dell’Amministrazione di negare la sanatoria
dell’abuso e il suo dovere di irrogare la sanzione
demolitoria” (Cons. St., sez. VI, 10.09.2018, n. 5301).
2.3. Nel caso di specie il rilievo aerofotogrammetrico
datato maggio 1972 e la documentazione catastale datata
02.01.1976, non consentono di accertare che l’immobile in
questione si stato effettivamente costruito anteriormente al
07.07.1967. Ne consegue la piena legittimità del diniego
opposto dall’Amministrazione comunale, il quale è stato
emanato previa verifica istruttoria ed accertamenti
d’ufficio circa l’asserita edificazione del manufatto in
data anteriore al 1967.
2.4. Né a diverse conclusioni può condurre la perizia di
parte ricorrente, anch’essa insuscettibile di attestare con
precisione la data di costruzione dell’immobile (TAR Umbria,
sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto concerne la distanza tra i fabbricati,
è sufficiente rilevarne l’inderogabilità a prescindere
dall’assenso tra i proprietari dei fabbricati stessi,
coerentemente al principio secondo cui “la disposizione
contenuta nell’articolo 9 del Dm n. 1444 del 1968, che
prescrive la distanza di dieci metri che deve sussistere tra
edifici antistanti, ha carattere inderogabile, poiché si
tratta di norma imperativa, la quale predetermina in via
generale e astratta le distanze tra le costruzioni, in
considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni
di igiene e di sicurezza; tali distanze sono coerenti con il
perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile”.
---------------
1. È materia del contendere la legittimità del diniego
emesso dal Comune di Deruta del 10.11.2011, prot. 14379,
sulla domanda di accertamento di conformità proposta dagli
odierni ricorrenti per il mutamento della destinazione d’uso
di alcuni locali ubicati al piano terra dell’immobile
principale e del fabbricato adiacente, utilizzati ad uso
artigianale, nonché per la realizzazione di alcune tettoie e
di due piccoli manufatti, l’uno destinato a magazzino e
ricovero animali domestici e l’altro a collegare il corpo di
fabbrica principale ed il manufatto di pertinenza.
...
3. Con il secondo motivo si lamenta che il preavviso
di rigetto invocherebbe indifferentemente per ogni manufatto
tanto l’art. 23 del Regolamento regionale 03.11.2008 n. 9,
quanto il successivo art. 24 (disciplinanti,
rispettivamente, le distanze tra edifici e le distanze
rispetto ai confini) con conseguente impossibilità di
ricostruire l’iter logico-argomentativo seguito dal Comune
per negare la sanatoria.
3.1. La doglianza non coglie nel segno e va disattesa.
3.2. Osserva infatti il Collegio che per quanto riguarda la
distanza dai confini non risulta l’autorizzazione scritta
dei proprietari vicini a derogare alle distanze, a nulla
rilevando l’affermazione in senso contrario di parte
ricorrente, su cui ricade invero l’obbligo, “nel corso
del procedimento, produrre l’assenso dei vicini alla deroga
alla distanza stessa” (cfr., ex multis, TAR
Veneto, sez. II, 09.03.2007, n. 715).
3.3. Per quanto concerne, invece, la distanza tra i
fabbricati, è sufficiente rilevarne l’inderogabilità a
prescindere dall’assenso tra i proprietari dei fabbricati
stessi, coerentemente al principio secondo cui “la
disposizione contenuta nell’articolo 9 del Dm n. 1444 del
1968, che prescrive la distanza di dieci metri che deve
sussistere tra edifici antistanti, ha carattere
inderogabile, poiché si tratta di norma imperativa, la quale
predetermina in via generale e astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza; tali distanze
sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e
non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari
degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è
invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in
tema di distanze, dal codice civile” (cfr., Cons. St.,
sez. IV, 14.09.2017, n. 4337) (Cons. St., sez. VI,
13.03.2017, n. 1155) (TAR Umbria,
sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come
una tettoia, che ne alteri la sagoma.
---------------
3.4. Destituito di fondamento è anche l’assunto secondo cui
la tettoia a sbalzo non potrebbe considerarsi quale edificio
assoggettato al rispetto dell’art. 23 del Regolamento
regionale in tema di distanze tra edifici, avendo la
giurisprudenza chiarito che “ai fini edilizi manca la
natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume,
su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già
occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma”
(Cons. St., sez. VI, 13.03.2017, n. 1155) (TAR Umbria,
sentenza 09.04.2019 n. 191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione con i motivi aggiunti della mancata esclusione
del concorrente aggiudicatario.
---------------
Processo amministrativo - Rito appalti - Esclusione
concorrente aggiudicatario - Dedotta con motivi aggiunti da
concorrente che ha impugnato la propria esclusione giudicata
legittima - Possibilità
Sussiste la legittimazione e
l’interesse in capo al ricorrente, originariamente escluso,
e la cui esclusione sia stata ritenuta dal giudice immune
dalle censure dedotte, a far valere con motivi aggiunti la
mancata esclusione della ditta aggiudicataria, al fine di
ottenere la riedizione della gara (1).
---------------
(1) Con la sentenza in epigrafe, il Tar, ponendosi consapevolmente
in controtendenza rispetto ad una consolidata giurisprudenza
amministrativa (Tar Lazio, sez. III, 24.07.2018, n. 8370. v.
inoltre ex multis Cons. St., n. 1461 del 2018; Tar
Lazio, sez. I-bis, 15.05.2017, n. 5775), ha ritenuto
sussistente la legittimazione ad agire di una impresa che,
con il ricorso originario, aveva impugnato la propria
esclusione dalla gara, ad impugnare con motivi aggiunti la
mancata esclusione della aggiudicataria, al fine di ottenere
la rinnovazione della gara, nonostante il ricorso avverso
l’esclusione fosse stato ritenuto infondato.
La questione è stata decisa tenendo conto dell’evoluzione
giurisprudenziale formatasi sulla base dei noti
pronunciamenti della Corte di giustizia UE in materia di
rapporti tra ricorso incidentale escludente e ricorso
principale, ritenendola speculare ma sostanzialmente
identica a quella esaminata nelle note sentenze della Corte
di giustizia Fastweb (Corte di giustizia UE, Sez. X,
04.07.2013, C-100/12) e Puligenica (Corte di giustizia UE,
Grande Sezione 05.04.2016 in causa C-689/13).
Si è fatto inoltre riferimento alla sentenza della Corte di
giustizia UE, sez. VIII, resa il 10.05.2017 nella causa
C-131/16 (Archus) in cui è stato affermato che la direttiva
92/13 deve essere interpretata nel senso che, nel caso in
cui una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico
abbia dato luogo alla presentazione di due offerte e
all'adozione, da parte dell'amministrazione aggiudicatrice,
di due determinazioni che contemporaneamente rigettano
l'offerta di uno degli offerenti ed aggiudicano l'appalto
all'altro, l'offerente escluso, che ha presentato un ricorso
avverso le due determinazioni, deve poter chiedere
l'esclusione dell'offerta dell'aggiudicatario, in modo che
la nozione di "un determinato appalto", ai sensi
dell'articolo 1, paragrafo 3, della Direttiva 92/13 possa
ricomprendere l'eventuale avvio di una nuova procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico.
La soluzione adottata dal collegio si è posta inoltre in
continuità con quanto affermato dalla sentenza della Corte
di Cassazione civile sez. un., 29/12/2017, n. 31226, resa in
una fattispecie totalmente sovrapponibile a quella in esame,
in cui la Corte ha affermato “che contrasta con il
diritto dell'Unione una norma nazionale che, con riferimento
a ricorsi simmetricamente escludenti (secondo la definizione
risultante dalla già richiamata sentenza dell'Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato n. 9 del 2014) relativi a
una procedura di appalto pubblico con due soli concorrenti,
consenta al giudice di non esaminare nel merito le censure
rivolte da un concorrente avverso l'ammissione del (e la
conseguente aggiudicazione al) secondo concorrente quale
effetto dell'accoglimento del ricorso di quest'ultimo
avverso l'ammissione del primo.
L'unica condizione è che le contestazioni incrociate siano
mosse nell'ambito di un unico processo e che l'esclusione
del concorrente non sia già divenuta definitiva, anche a
seguito di rigetto della relativa impugnazione con decisione
passata in giudicato, prima della proposizione del ricorso.”
Secondo la Corte infatti non è rilevante la questione che si
tratti di due ricorsi incrociati o di un unico ricorso,
corredato da motivi aggiunti, in quanto il punto nodale
della questione riguarda “il carattere simmetrico delle
ragioni di esclusione dalla gara”.
In questo quadro, il Tar Lazio ha ritenuto che,
conformemente a quanto affermato dalla Corte di Cassazione,
nonostante non si ravvisino nel caso in esame due ricorsi
incrociati, si verta comunque in un caso di “carattere
simmetrico delle ragioni di esclusione dalla gara”,
trattandosi di una fattispecie speculare ma sostanzialmente
identica a quella relativa al ricorso incidentale
escludente.
Pertanto, il Tar ha riconosciuto sussistenti,
nel caso di specie, tanto l’interesse che la legittimazione
ad agire in relazione all’interesse strumentale alla
ripetizione della gara, interesse riconosciuto nella
sentenza Archus come idoneo “a radicare l'interesse del
ricorrente a contestare l'aggiudicazione.” (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 08.04.2019 n. 4517 -
commento tratto da e link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' fondata la censura con la quale si deduce la violazione del disposto
dell’art. 192, comma 3, T.U.A. e del disposto dell’art. 7 l.
241/1990, norma generale applicabile a qualsivoglia tipo di
procedimento amministrativo, con la sola eccezione di quelli
espressamente indicati nell’art. 13 l. 241/1990 (secondo cui
“Le disposizioni contenute nel presente capo non si
applicano nei confronti dell'attività della pubblica
amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione. 2. Dette disposizioni
non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i
quali restano parimenti ferme le particolari norme che li
regolano, nonché ai procedimenti previsti dal decreto-legge
15.01.1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge
15.03.1991, n. 82, e successive modificazioni, e dal decreto
legislativo 29.03.1993, n. 119, e successive modificazioni”)
e con la possibilità di omettere la comunicazione di avvio
del procedimento solo ove sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, ovvero, secondo quanto ritenuto dalla
giurisprudenza, ove ricorra un’urgenza qualificata che va
debitamente esternata dalla P.A..
Infatti l’urgenza qualificata che, ai sensi dell'art. 7
della L. n. 241 del 1990, consente all'amministrazione di
derogare all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento,
non può che attenere al singolo procedimento e trovare
giustificazione nelle esigenze proprie e peculiari dello
stesso.
Pertanto l'amministrazione, se ritenga esistenti i
presupposti di celerità che legittimano l'omissione della
comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare
contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza che
consente di bypassare la comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
Per contro alcuna motivazione vi è nell’ordinanza gravata
-peraltro in alcun modo qualificabile quale ordinanza
contingibile ed urgente in assenza di qualsivoglia
riferimento normativo e del richiamo sostanziale relativo
alla ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed
urgenza- in ordine alle ragioni di omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, che non poteva in
alcun modo essere bypassata atteso che nella materia
ambientale il contradditorio procedimentale si impone con
ancora maggiore rigore, stante il disposto dell’art. 192
comma 3 T.U.A. che richiede il previo accertamento in
contradditorio dei profili di responsabilità.
Detta norma deve invero ritenersi applicabile pure
allorquando, come nella specie, l’ordinanza venga adottata
anche ai sensi dell’art. 14 del codice della strada.
In merito è stato affermato che "La sanzione consistente
nell'ordine di bonifica, decontaminazione e risanamento
igienico del sito, ex art. dell'art. 192, comma 3, del D.Lgs.
n. 152 del 2006, non può essere direttamente (melius, in
modo automatico, secondo il parametro della responsabilità
oggettiva) irrogata all'A.N.A.S. senza un previo
accertamento ed una coerente affermazione del titolo di
responsabilità. E' vero che la previsione dell'art. 14 del
codice della strada, incentrando nel gestore del servizio
stradale tutte le competenze relative alla corretta
manutenzione, pulizia e gestione del tratto stradale, con le
annesse pertinenze, potrebbe costituire il parametro
normativo per l'individuazione del profilo della colpa ai
sensi dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, ma ciò non
può avvenire al di fuori di un accertamento in
contraddittorio, non essendo ravvisabile una responsabilità
da posizione del proprietario, ovvero, nella specie, del
concessionario”.
---------------
Come noto l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 non è norma
sostanziale che legittima l’amministrazione a bypassare la
dovuta comunicazione di avvio del procedimento, ma norma
processuale, applicabile dal giudice che consente di non
annullare il provvedimento viziato per la violazione
dell’art. 7 l. 241/1990, solo allorquando ritenga all’esito
del giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Invero, “L'art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del
1990 è una norma di carattere processuale applicabile anche
ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata
in vigore della legge n. 15/2005, in quanto, sancendo la non
annullabilità del provvedimento, il legislatore ha inteso
escludere la possibilità che esso (comunque illegittimo) e i
suoi effetti vengano eliminati dal giudice amministrativo,
senza spingersi ad affermare che l'atto non sarebbe più
qualificabile, sul piano sostanziale, come annullabile”.
Ciò senza tralasciare di considerare che nella specifica
materia ambientale, stante il rigore procedimentale
richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A. ai fini
dell’accertamento della responsabilità, il disposto
dell’art. 21-octies comma 2 l. 241/1990 presenta carattere
recessivo.
---------------
1. Con atto notificato via PEC in data 09.07.2018 e
depositato il successivo 10 luglio l’Agenzia del Demanio -
Direzione Regionale Campania ha impugnato l’ordinanza n. 20
del 17.05.2018 emessa dal Sindaco del Comune di Frignano, ex
art. 192 T.U.A. e 14 C.d.S. (d.lgs. 285/1992) notificata in
data 17.05.2018, con cui si ordinava al legale
rappresentante del Consorzio Generale di Bonifica Inferiore
del Volturno e al legale rappresentante dell’Agenzia del
Demanio della Regione Campania “di provvedere a loro cure
e spese, entro 15 giorni dalla notifica della presente, alla
rimozione e smaltimento, previa selezione, dei rifiuti
abbandonati nell’area pertinenziale ricadente sul territorio
di Frignano, nei modi di legge e precisamente ricadenti al
N.C.T. al foglio 1, particelle 144, 112, 118, 98 e 121”
nonché “al ripristino dello stato dei luoghi ed al
ripristino della sbarra posta all’inizio della strada, al
fine di prevenire l’abbandono incontrollato dei rifiuti e
l’incendio degli stessi” e “di esercitare una
funzione di protezione e custodia delle aree di loro
proprietà, finalizzata ad evitare che la stessa possa essere
adibita a discarica abusiva dei rifiuti per la salvaguardia
dell’ambiente”.
...
5. Ed invero il ricorso è manifestamente fondato, quanto
meno in riferimento alla censura articolata nel secondo
motivo, con il quale si deduce la violazione del disposto
dell’art. 192, comma 3, T.U.A. e del disposto dell’art. 7 l.
241/1990, norma generale applicabile a qualsivoglia tipo di
procedimento amministrativo, con la sola eccezione di quelli
espressamente indicati nell’art. 13 l. 241/1990 (secondo cui
“Le disposizioni contenute nel presente capo non si
applicano nei confronti dell'attività della pubblica
amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e di
programmazione, per i quali restano ferme le particolari
norme che ne regolano la formazione. 2. Dette disposizioni
non si applicano altresì ai procedimenti tributari per i
quali restano parimenti ferme le particolari norme che li
regolano, nonché ai procedimenti previsti dal decreto-legge
15.01.1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge
15.03.1991, n. 82, e successive modificazioni, e dal decreto
legislativo 29.03.1993, n. 119, e successive modificazioni”)
e con la possibilità di omettere la comunicazione di avvio
del procedimento solo ove sussistano ragioni di impedimento
derivanti da particolari esigenze di celerità del
procedimento, ovvero, secondo quanto ritenuto dalla
giurisprudenza, ove ricorra un’urgenza qualificata che va
debitamente esternata dalla P.A..
Infatti l’urgenza qualificata che, ai sensi dell'art. 7
della L. n. 241 del 1990, consente all'amministrazione di
derogare all'obbligo di comunicare l'avvio del procedimento,
non può che attenere al singolo procedimento e trovare
giustificazione nelle esigenze proprie e peculiari dello
stesso. Pertanto l'amministrazione, se ritenga esistenti i
presupposti di celerità che legittimano l'omissione della
comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare
contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza che
consente di bypassare la comunicazione di avvio del
procedimento (ex multis TAR Lazio-Latina, Sez. I,
19/04/2018, n. 221).
Per contro alcuna motivazione vi è nell’ordinanza gravata
-peraltro in alcun modo qualificabile quale ordinanza
contingibile ed urgente in assenza di qualsivoglia
riferimento normativo e del richiamo sostanziale relativo
alla ricorrenza dei presupposti di contingibilità ed
urgenza- in ordine alle ragioni di omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, che non poteva in
alcun modo essere bypassata atteso che nella materia
ambientale il contradditorio procedimentale si impone con
ancora maggiore rigore, stante il disposto dell’art. 192,
comma 3, T.U.A. che richiede il previo accertamento in
contradditorio dei profili di responsabilità; detta norma
deve invero ritenersi applicabile pure allorquando, come
nella specie, l’ordinanza venga adottata anche ai sensi
dell’art. 14 del codice della strada (ex multis la
recentissima sentenza Cons. Stato Sez. V, 14/03/2019, n.
1684- Riforma TAR Puglia-Lecce, Sez. I n. 2975/2009 secondo
cui “La sanzione consistente nell'ordine di bonifica,
decontaminazione e risanamento igienico del sito, ex art.
dell'art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, non può
essere direttamente (melius, in modo automatico, secondo il
parametro della responsabilità oggettiva) irrogata
all'A.N.A.S. senza un previo accertamento ed una coerente
affermazione del titolo di responsabilità. E' vero che la
previsione dell'art. 14 del codice della strada, incentrando
nel gestore del servizio stradale tutte le competenze
relative alla corretta manutenzione, pulizia e gestione del
tratto stradale, con le annesse pertinenze, potrebbe
costituire il parametro normativo per l'individuazione del
profilo della colpa ai sensi dell'art. 192 del D.Lgs. n. 152
del 2006, ma ciò non può avvenire al di fuori di un
accertamento in contraddittorio, non essendo ravvisabile una
responsabilità da posizione del proprietario, ovvero, nella
specie, del concessionario”).
5.1. Né nell’ipotesi di specie, non essendosi tra l’altro
l’Amministrazione costituita e non avendo pertanto
provveduto come suo onere a dimostrare che il contenuto del
provvedimento avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato, può farsi applicazione del disposto
sanante di cui all’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990
seconda parte.
Ed invero come noto l’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 non è
norma sostanziale che legittima l’amministrazione a bypassare la dovuta comunicazione di avvio del procedimento,
ma norma processuale, applicabile dal giudice che consente
di non annullare il provvedimento viziato per la violazione
dell’art. 7 l. 241/1990, solo allorquando ritenga all’esito
del giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato (ex
multis Cons. Stato Sez. VI Sent., 17/01/2011, n. 256
secondo cui “L'art. 21-octies, comma 2, della legge n.
241 del 1990 è una norma di carattere processuale
applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti
alla data di entrata in vigore della legge n. 15/2005, in
quanto, sancendo la non annullabilità del provvedimento, il
legislatore ha inteso escludere la possibilità che esso
(comunque illegittimo) e i suoi effetti vengano eliminati
dal giudice amministrativo, senza spingersi ad affermare che
l'atto non sarebbe più qualificabile, sul piano sostanziale,
come annullabile”).
Ciò senza tralasciare di considerare che nella specifica
materia ambientale, stante il rigore procedimentale
richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A. ai fini
dell’accertamento della responsabilità, il disposto
dell’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990 presenta carattere
recessivo (ex multis in tal senso TAR Salerno, sez.
I, 02.03.2016, n. 488).
6. Detto vizio presenta carattere assorbente in ragione
della circostanza che lo stesso determina necessariamente,
in sede di eventuale riesercizio del potere, la regressione
procedimentale stante la necessità di assicurare il rispetto
del disposto dell’art. 7 l. 241/1990 e del quid pluris
richiesto dall’art. 192, comma 3, T.U.A., con la conseguenza
che l’Amministrazione non potrà riesercitare il potere se
non previo accertamento in contradditorio degli eventuali
profili di responsabilità.
7. Il ricorso va dunque accolto, con conseguente
annullamento dell’atto gravato (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 05.04.2019 n. 1914 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Chi presenta istanza di autorizzazione "ad
aedificandum" ha l'onere di accludere dati, documenti e
misurazioni idonei a dare esatta contezza della situazione
dei luoghi con la conseguenza che, ove invece fornisca dati
incompleti, non rispondenti alla superficie e al volume
impegnati dalla progettata edificazione e comunque tali da
fornire una errata rappresentazione dello stato dei luoghi,
l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela
e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato.
Pertanto, in materia di affidamento d'ufficio dei titoli
edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia
stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei
luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione
sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse
della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
---------------
Se è vero che la legittimazione a chiedere il permesso di
costruire spetta non solo al proprietario ma anche al
titolare di un diritto reale su cosa altrui o di un diritto
personale di godimento, è altrettanto vero che quest’ultimo
soggetto dev’essere stato autorizzato dal proprietario a
realizzare le opere oggetto del permesso di costruire.
---------------
La prima censura risulta infondata anche secondo il
profilo della tardività: come correttamente eccepito dal
Comune, nel caso di specie l’operato dell’amministrazione è
stato fuorviato dall’erronea o falsa rappresentazione dello
stato di fatto posta in essere dal privato al momento della
richiesta del titolo edilizio. Come è stato accertato,
infatti, la stradina non era cieca e poteva essere ben
utilizzata anche da soggetti diversi dai proprietari del
Condominio Ma.Va..
Pertanto, è da escludere l’esistenza di un affidamento
meritevole di tutela: come stabilito in giurisprudenza, “Chi
presenta istanza di autorizzazione "ad aedificandum" ha
l'onere di accludere dati, documenti e misurazioni idonei a
dare esatta contezza della situazione dei luoghi con la
conseguenza che, ove invece fornisca dati incompleti, non
rispondenti alla superficie e al volume impegnati dalla
progettata edificazione e comunque tali da fornire una
errata rappresentazione dello stato dei luoghi,
l'Amministrazione legittimamente interviene sul piano dell'autotutela
e annulla d'ufficio il titolo abilitativo già rilasciato.
Pertanto, in materia di affidamento d'ufficio dei titoli
edilizi, nei casi in cui l'operato dell'Amministrazione sia
stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei
luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione
sull'interesse pubblico, che va individuato nell'interesse
della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”
(TAR Campania Salerno Sez. II, 04/02/2019, n. 217).
Deve ritenersi infondata anche la seconda censura.
Come eccepito dal Comune, se è vero che la legittimazione a
chiedere il permesso di costruire spetta non solo al
proprietario ma anche al titolare di un diritto reale su
cosa altrui o di un diritto personale di godimento, è
altrettanto vero che quest’ultimo soggetto dev’essere stato
autorizzato dal proprietario a realizzare le opere oggetto
del permesso di costruire (tra le tante, TAR Campania Napoli
Sez. IV, 10.11.2017, n. 5329).
E, nel caso di specie, la stradina appartiene alla Regione,
che non risulta aver mai autorizzato l’istallazione della
sbarra di chiusura. Pertanto, la parte ricorrente era priva
di legittimazione a chiedere il permesso di costruire (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 05.04.2019 n. 1912 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E' illegittima la deliberazione consiliare di
diniego della presentata istanza di approvazione di un piano
di lottizzazione laddove:
1) è mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge n.
241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla
doverosa fase partecipativa;
2) dalla preterizione di una
fase partecipativa del procedimento è derivato il difetto di
istruttoria del provvedimento impugnato;
3) il rilievo di
una necessità di apportare correzioni e modifiche allo
schema di convenzione avrebbe dovuto indurre il Comune a
proporre le correzioni e le modifiche, non già a decidere di
non approvare la lottizzazione;
4) vi è contraddizione tra
il premesso accertamento della conformità dell’intervento al
P.R.G. e la conclusione di non approvarlo;
5) è comunque
mancato il soccorso istruttorio da parte del responsabile
del procedimento, ex art. 6 legge n. 241/1990;
6) viene
posto a carico dei ricorrenti un presunto onere di spostare
la condotta del gas cittadino, benché tale onere faccia
carico al Comune stesso o alla ditta che gestisce il
servizio della distribuzione del gas, non certo ai
lottizzanti.
---------------
In effetti, è mancato un preavviso di diniego, ex art.
10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il
procedimento alla doverosa fase partecipativa. Tale vizio
formale, in quanto non ovviabile, inficia il procedimento.
Trattandosi di provvedimento non vincolato bensì altamente
discrezionale, non si può invocare, nel caso di specie,
l’applicazione dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990,
poiché il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato,
in effetti, avrebbe potuto essere diverso e
l'Amministrazione resistente non ha provato l’impossibilità
che l'eventuale apporto infra-procedimentale dei ricorrenti
potesse fornire contributi utili, né che in concreto il
contenuto del provvedimento fosse del tutto e
irrimediabilmente necessitato.
L’omissione della fase partecipativa del procedimento ha, in
effetti, determinato un difetto di istruttoria e di
motivazione del provvedimento impugnato, peraltro confermato
dalla palese contraddizione tra il premesso accertamento
della conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica
e la conclusione dispositiva di non approvare l’intervento
stesso.
È condivisibile il rilievo che sulla questione sarebbe stato
opportuno un confronto coi lottizzanti al fine di permettere
loro di proporre soluzioni diverse e meno costose. Al
contrario, tale opportunità non è stata offerta e ciò
comporta l’illegittimità del procedimento e del
provvedimento.
---------------
Com’è noto, il piano di lottizzazione è uno strumento
urbanistico a iniziativa prevalentemente privata, frutto di
scelte concordate tra l'autorità urbanistica, i proprietari
e gli imprenditori interessati.
Il Consiglio di Stato ha più
volte chiarito come sulla base del modello urbanistico
prefigurato dall'art. 28 della legge 17.08.1942, n.
1150, la pretesa in argomento sia, a tutti gli effetti,
ascrivibile a un rapporto di diritto pubblico. Del resto, in
materia di lottizzazioni, l’iter conduce alla stipula della
convenzione di lottizzazione, ossia di un atto qualificato
tra gli accordi procedimentali di cui all’art. 11 della
legge n. 241/1990.
In particolare, la detta normativa
contiene un istituto di carattere particolare, che permette
all’Amministrazione procedente di concludere accordi con il
soggetto interessato, che andranno a integrare o a
sostituire alcune disposizioni contenute nel provvedimento
finale. Tale disciplina, contenuta nell’articolo 11, dispone
che “l’Amministrazione procedente può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel
perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli
interessati al fine di determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale ovvero in
sostituzione di questo”.
Al fine di favorire gli accordi e
di evitare ulteriori pregiudizi nei confronti dei terzi, il
responsabile del procedimento deve disporre un calendario di
incontri ai quali invitare i soggetti destinatari del
provvedimento e gli eventuali controinteressati.
Conseguentemente, “Ciò che si realizza nel caso di specie,
come si è già affermato, è solo la partecipazione attiva
dell'interessato alla fase decisionale, in modo che,
attraverso la diretta rappresentazione (anche in questa
fase) della propria posizione di interesse legittimo, quest'ultimo
riesca ad ottenere una tutela maggiore ed una migliore "parametrazione"
della discrezionalità, derivante proprio dal confronto
rispetto ad una valutazione e scelta unilateralmente
assunti”.
---------------
Peraltro, l'atto di approvazione del piano di lottizzazione,
provvedimento amministrativo discrezionale in materia
urbanistica (avente a oggetto un piano proposto da privati
e, dunque, parzialmente sostitutivo di procedimento) si
configura contestualmente quale atto di approvazione dello
schema di convenzione di lottizzazione.
Come noto, il potere
comunale di pianificazione è connotato da ampia
discrezionalità, ma il suo esercizio è subordinato
all'obbligo di effettuare un’adeguata, preventiva attività
istruttoria in relazione alla portata degli interessi
pubblici e privati coinvolti, in sostanza le scelte
urbanistiche, ancorché caratterizzate da discrezionalità,
devono rivelarsi, alla stregua del sindacato giurisdizionale
sulle stesse esercitabile, esenti da vizi di illogicità e
irrazionalità e le stesse devono essere supportate, sia pure
con riferimento alle linee-guida che accompagnano la
redazione degli strumenti urbanistici, da idonea
motivazione.
Per comprendere
l’applicabilità alla fattispecie di siffatti principi, è
sufficiente analizzare il dato normativo, ossia l’ultimo
comma dell’art. 28 della legge n. 1150/1942, il quale
recita: “Il progetto di lottizzazione approvato con le
modificazioni che l'Autorità comunale abbia ritenuto di
apportare è notificato per mezzo del messo comunale ai
proprietari della aree fabbricabili con invito a dichiarare,
entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino”.
Dunque,
l’Amministrazione avrebbe dovuto comunicare eventuali
modifiche al piano di lottizzazione prima di negarne in toto
l’approvazione. Tale impostazione condivisa dal Consiglio di
Stato corrisponde allo schema generale dell'attività
convenzionale della pubblica Amministrazione, come
desumibile dall'art. 11 citato, nonché agli obblighi derivanti dall’art.
6 della medesima legge.
Facendo concreta applicazione di
tali principi al caso di specie, è evidente come il fine di
pubblico interesse, rappresentato dall'ordinato sviluppo del
territorio, avrebbe potuto coniugarsi con l’interesse dei
privati, valorizzando l’esercizio del potere discrezionale
dell’Amministrazione nel modo più adeguato al caso concreto.
---------------
Va affrontato, ora, il tema dell’incompatibilità del piano
di lottizzazione proposto con la presenza di
un’infrastruttura preesistente su quell’area
(la condotta del gas cittadino).
La deliberazione gravata ha
deciso di non approvare il piano di lottizzazione dei
ricorrenti, principalmente per la carenza in esso del
tracciamento della condotta ad alta pressione del gas che
attraversa l’intera area da lottizzare. Sul punto, il
verificatore tecnico, all’uopo incaricato da questo Tar,
ha così concluso: “il progetto di lottizzazione, così come
proposto all’approvazione, non può essere realizzato in
quanto non tiene conto che i luoghi sono interessati anche
dalla condotta del gas e si pone in contrasto con la
normativa di cui al citato D.M. 17.04.2008”.
Ha aggiunto,
tuttavia, che “l’area è comunque utilizzabile con alcuni
condizionamenti dovuti alla presenza della condotta”, sì da
consentire lo sfruttamento dell’intera potenzialità
edificatoria o almeno di buona parte di essa. Il
verificatore ha, dunque, dato seguito ai quesiti posti,
concludendo per la possibilità di sfruttare la potenzialità
edificatoria prevista dallo strumento urbanistico vigente,
affermando l’utilizzabilità dell’area.
Il diniego recisamente opposto dall’Amministrazione –in
luogo di una più congrua e ragionevole proposta modificativa
del piano- non trova, pertanto, alcun fondamento fattuale e
giuridico. L’istruttoria espletata ha confermato la
possibilità di approvare il piano di lottizzazione, previe
le necessarie modifiche relative alle distanze, dovute alla
presenza della condotta del gas.
Invero, il potere di soccorso istruttorio, ex art. 6, comma
1, lett. b), della legge n. 241/1990, che riconosce al
responsabile del procedimento amministrativo la facoltà di
chiedere la rettifica di istanze erronee o incomplete,
costituisce un istituto generale che soddisfa l’esigenza di
consentire la massima partecipazione e orienta l'azione
amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti
posseduti, attenuando la rigidità delle forme.
Pertanto, il Comune avrebbe potuto e dovuto sollevare
per tempo il problema delle distanze di sicurezza dalla
condotta del gas, interloquendo coi ricorrenti, nel rispetto
della legge n. 241/1990. Viceversa, nel caso di specie, nel
corso dell’iter procedimentale, l'Amministrazione non ha
sollevato il problema delle distanze dalla condotta del gas
e lo ha fatto soltanto con il provvedimento conclusivo del
procedimento.
Se la questione fosse stata tempestivamente
posta, sarebbe stato possibile per i proponenti il piano di
lottizzazione, eventualmente anche in contraddittorio col
gestore del servizio, prospettare soluzioni diverse e meno
onerose rispetto al proposto spostamento dell’impianto che,
per molte ragioni, non può porsi a carico dei ricorrenti.
Come emerso dalla verificazione, la presenza della condotta
non costituisce totale e irresolubile impedimento
all’attuazione del progetto. Sarebbe stato sufficiente
apportare alcune variazioni progettuali per attuare il
rispetto delle distanze.
Dal tenore della motivazione del provvedimento impugnato
emerge, invero, anche un profilo di sviamento di potere.
Il
Comune, con il tentativo di imporre ai lottizzanti lo
spostamento della condotta del gas, prova a gravare i
medesimi di un onere che avrebbe dovuto far carico
all’Amministrazione stessa. Si intravvede sullo sfondo di
tale tentativo comunale la pregressa vicenda relativa allo
spostamento della cabina del gas, quale descritta nella
narrativa in fatto dell’impugnata delibera, vicenda che
risale al 2005: lo spostamento della cabina incombeva alla
ditta realizzatrice dell’impianto ma il Comune non ebbe a
pretenderlo né fece nulla per ottenerlo, sicché ha poi
ritenuto di farne carico ai lottizzanti. È evidente lo
sconfinamento dai limiti oggettivo causali della
fattispecie.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale, lo sviamento, come figura sintomatica
dell’eccesso di potere, ricorre quando il pubblico potere
viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate
dalla legge, con la norma attributiva dello stesso, ovvero
quando l'atto posto in essere sia stato determinato da un
interesse diverso da quello pubblico.
Una
volta dimostrato che il fine di una determinata azione
amministrativa non è quello di legge, ma altro e diverso,
evidentemente il potere discrezionale, come potere in
principio vincolato nel fine, si appalesa illegittimo.
Ricorre lo sviamento di potere quando il pubblico potere
viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate
dal legislatore con la norma attributiva dello stesso,
ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato
da un interesse diverso da quello pubblico.
Pertanto la delibera n. 4/2011 è illegittima anche
perché affetta da sviamento di potere, atteso che non
fornisce la intellegibile contezza delle ragioni per cui la
prevista realizzazione di un insediamento residenziale debba
onerare i privati della delocalizzazione parziale di una
rete infrastrutturale pubblica.
---------------
I - I ricorrenti, comproprietari di un terreno sito in agro
del Comune di Petacciato, indicato in catasto al foglio 19,
particelle 436, 569 e 571, ubicato in area P.e.e.p.,
chiedevano in data 12.11.2008 l'approvazione di un piano di
lottizzazione a iniziativa privata da localizzarsi sulle
aree di proprietà.
Benché tale proposta riportasse unanimi
pareri favorevoli e fosse redatta in conformità al vigente
P.R.G. (come riconosciuto dallo stesso Comune nella delibera
impugnata), il Comune adottava, dopo molti solleciti, la
delibera consiliare n. 4/2011.
Con detto provvedimento il
Consiglio comunale di Petacciato stabiliva di non approvare
la lottizzazione per i seguenti motivi:
a) si rende
necessario apportare correzioni e modifiche allo schema di
convenzione;
b) nelle premesse si rilevano errori di
superfici e relative destinazioni;
c) all'art. 5, il termine
di sette anni per la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria risulta eccessivo;
d) manca un
riferimento al Codice degli appalti;
e) nell'elenco delle
opere di urbanizzazione manca la rete del gas;
f) gli
articoli 5-bis , 6, 7 e 7-bis non trovano attinenza e
riscontro nella convenzione stessa;
g) all'art. 13 manca la
dicitura "e agli oneri di urbanizzazione secondaria";
h)
l'art. 15 va sostituito come segue: “ogni controversia
relativa alla presente convenzione sarà rimessa alla
competenza del foro territorialmente competente rinunciando
espressamente sin d'ora al ricorso all'arbitrato”;
i) negli
elaborati grafici, nella relazione tecnica e nello schema di
convenzione proposto non viene riportato lo spostamento
della condotta esistente del gas ad alta pressione che
attraversa l'intera area che si intende lottizzare;
l) in
ogni caso l'approvazione del piano di lottizzazione è
subordinato alla formale assunzione di impegno da parte
della ditta lottizzante allo spostamento della condotta
esistente del gas ad alta pressione che attraversa l'intera
area lottizzata.
...
II – Il ricorso è ammissibile e fondato.
III – Il Comune eccepisce l’inammissibilità del gravame sul
presupposto che l’atto impugnato abbia carattere meramente
endoprocedimentale e non definitivo, quindi non sia
autonomamente lesivo degli interessi dei ricorrenti. Ciò è
contraddetto dal dato testuale del provvedimento, atteso che
il dispositivo dell’impugnata delibera di C.C. n. 4/2011
afferma che il Consiglio comunale “delibera di non
approvare, per le motivazioni di cui in narrativa, il piano
di lottizzazione…”.
Si tratta, dunque, di un vero e proprio
diniego. Inoltre, va rilevato che, dal 2011 ad oggi, nessun
ulteriore provvedimento è stato adottato dal Comune in
ordine alla proposta lottizzazione, la qual cosa dà conferma
del fatto che il provvedimento impugnato non sia un mero
atto interno, bensì un diniego definitivo di lottizzazione,
ovvero un atto dotato di autonoma lesività.
Per quel che riguarda l’eccepita mancata impugnazione del
Piano di edilizia economica e popolare (P.e.e.p.) e dei
permessi di costruire rilasciati alla società Co.la.co, la
quale ha realizzato lottizzazioni nella stessa zona, va
rilevato che sia il Piano sia i detti permessi edilizi, in
via di principio, non dovrebbero interferire con l’interesse
dei ricorrenti a realizzare sulle aree di loro proprietà
l’intervento proposto per la lottizzazione, se solo si
considera che lo stesso Comune riconosce la conformità
dell’intervento proposto dai ricorrenti alla vigente
pianificazione urbanistica che -a quanto consta– non ha
subito variazioni significative dal 2011 ad oggi.
Se poi, di
fatto, gli interventi edilizi realizzati dalla ditta Co.la.co hanno ridotto al di sotto degli standard minimi, in
quel comparto, le aree da destinare a servizi e
urbanizzazioni, ciò può essere avvenuto in ragione o di una
errata pianificazione comunale oppure di un’anomala
esuberanza delle realizzazioni edilizie della ditta Co.la.co,
delle cui conseguenze il Comune non può oggi far carico ai
ricorrenti.
Da ciò consegue l’ammissibilità del ricorso, sotto il
profilo dell’interesse.
IV – I ricorrenti formulano le seguenti censure:
1) è
mancato un preavviso di diniego, ex art. 10-bis della legge
n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il procedimento alla
doverosa fase partecipativa;
2) dalla preterizione di una
fase partecipativa del procedimento è derivato il difetto di
istruttoria del provvedimento impugnato;
3) il rilievo di
una necessità di apportare correzioni e modifiche allo
schema di convenzione avrebbe dovuto indurre il Comune a
proporre le correzioni e le modifiche, non già a decidere di
non approvare la lottizzazione;
4) vi è contraddizione tra
il premesso accertamento della conformità dell’intervento al
P.R.G. e la conclusione di non approvarlo;
5) è comunque
mancato il soccorso istruttorio da parte del responsabile
del procedimento, ex art. 6 legge n. 241/1990;
6) viene
posto a carico dei ricorrenti un presunto onere di spostare
la condotta del gas cittadino, benché tale onere faccia
carico al Comune stesso o alla ditta che gestisce il
servizio della distribuzione del gas, non certo ai
lottizzanti.
V – I motivi del ricorso, anche alla luce delle risultanze
della disposta verificazione istruttoria, sono tutti
attendibili.
VI – In effetti, è mancato un preavviso di diniego, ex art.
10-bis della legge n. 241/1990, la qual cosa ha sottratto il
procedimento alla doverosa fase partecipativa. Tale vizio
formale, in quanto non ovviabile, inficia il procedimento.
Trattandosi di provvedimento non vincolato bensì altamente
discrezionale, non si può invocare, nel caso di specie,
l’applicazione dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990,
poiché il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato,
in effetti, avrebbe potuto essere diverso e
l'Amministrazione resistente non ha provato l’impossibilità
che l'eventuale apporto infra-procedimentale dei ricorrenti
potesse fornire contributi utili, né che in concreto il
contenuto del provvedimento fosse del tutto e
irrimediabilmente necessitato (cfr.: Cons. Stato VI,
01.02.2019, n. 811).
L’omissione della fase partecipativa del procedimento ha, in
effetti, determinato un difetto di istruttoria e di
motivazione del provvedimento impugnato, peraltro confermato
dalla palese contraddizione tra il premesso accertamento
della conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica
e la conclusione dispositiva di non approvare l’intervento
stesso.
È condivisibile il rilievo che sulla questione sarebbe stato
opportuno un confronto coi lottizzanti al fine di permettere
loro di proporre soluzioni diverse e meno costose. Al
contrario, tale opportunità non è stata offerta e ciò
comporta l’illegittimità del procedimento e del
provvedimento (cfr.: Tar Lazio-Latina I, 26.04.2018, n. 226).
Com’è noto, il piano di lottizzazione è uno strumento
urbanistico a iniziativa prevalentemente privata, frutto di
scelte concordate tra l'autorità urbanistica, i proprietari
e gli imprenditori interessati.
Il Consiglio di Stato ha più
volte chiarito come sulla base del modello urbanistico
prefigurato dall'art. 28 della legge 17.08.1942, n.
1150, la pretesa in argomento sia, a tutti gli effetti,
ascrivibile a un rapporto di diritto pubblico. Del resto, in
materia di lottizzazioni, l’iter conduce alla stipula della
convenzione di lottizzazione, ossia di un atto qualificato
tra gli accordi procedimentali di cui all’art. 11 della
legge n. 241/1990.
In particolare, la detta normativa
contiene un istituto di carattere particolare, che permette
all’Amministrazione procedente di concludere accordi con il
soggetto interessato, che andranno a integrare o a
sostituire alcune disposizioni contenute nel provvedimento
finale. Tale disciplina, contenuta nell’articolo 11, dispone
che “l’Amministrazione procedente può concludere, senza
pregiudizio dei diritti dei terzi, e in ogni caso nel
perseguimento del pubblico interesse, accordi con gli
interessati al fine di determinare il contenuto
discrezionale del provvedimento finale ovvero in
sostituzione di questo”.
Al fine di favorire gli accordi e
di evitare ulteriori pregiudizi nei confronti dei terzi, il
responsabile del procedimento deve disporre un calendario di
incontri ai quali invitare i soggetti destinatari del
provvedimento e gli eventuali controinteressati.
Conseguentemente, “Ciò che si realizza nel caso di specie,
come si è già affermato, è solo la partecipazione attiva
dell'interessato alla fase decisionale, in modo che,
attraverso la diretta rappresentazione (anche in questa
fase) della propria posizione di interesse legittimo, quest'ultimo
riesca ad ottenere una tutela maggiore ed una migliore "parametrazione"
della discrezionalità, derivante proprio dal confronto
rispetto ad una valutazione e scelta unilateralmente
assunti” (cfr.: Cons. Stato IV, 15.05.2017, n. 2256).
Peraltro, l'atto di approvazione del piano di lottizzazione,
provvedimento amministrativo discrezionale in materia
urbanistica (avente a oggetto un piano proposto da privati
e, dunque, parzialmente sostitutivo di procedimento) si
configura contestualmente quale atto di approvazione dello
schema di convenzione di lottizzazione. Come noto, il potere
comunale di pianificazione è connotato da ampia
discrezionalità, ma il suo esercizio è subordinato
all'obbligo di effettuare un’adeguata, preventiva attività
istruttoria in relazione alla portata degli interessi
pubblici e privati coinvolti, in sostanza le scelte
urbanistiche, ancorché caratterizzate da discrezionalità,
devono rivelarsi, alla stregua del sindacato giurisdizionale
sulle stesse esercitabile, esenti da vizi di illogicità e
irrazionalità e le stesse devono essere supportate, sia pure
con riferimento alle linee-guida che accompagnano la
redazione degli strumenti urbanistici, da idonea motivazione
(cfr.: Cons. Stato IV, 18.04.2014, n. 1989; Tar Abruzzo-L'Aquila I, 28.10.2014 n. 735).
Per comprendere
l’applicabilità alla fattispecie di siffatti principi, è
sufficiente analizzare il dato normativo, ossia l’ultimo
comma dell’art. 28 della legge n. 1150/1942, il quale
recita: “Il progetto di lottizzazione approvato con le
modificazioni che l'Autorità comunale abbia ritenuto di
apportare è notificato per mezzo del messo comunale ai
proprietari della aree fabbricabili con invito a dichiarare,
entro trenta giorni dalla notifica, se l'accettino”.
Dunque,
l’Amministrazione avrebbe dovuto comunicare eventuali
modifiche al piano di lottizzazione prima di negarne in toto
l’approvazione. Tale impostazione condivisa dal Consiglio di
Stato corrisponde allo schema generale dell'attività
convenzionale della pubblica Amministrazione, come
desumibile dall'art. 11 citato (cfr.: Cons. Stato IV,
15.05.2017, n. 2256), nonché agli obblighi derivanti dall’art.
6 della medesima legge. Facendo concreta applicazione di
tali principi al caso di specie, è evidente come il fine di
pubblico interesse, rappresentato dall'ordinato sviluppo del
territorio, avrebbe potuto coniugarsi con l’interesse dei
privati, valorizzando l’esercizio del potere discrezionale
dell’Amministrazione nel modo più adeguato al caso concreto.
VII – Ciò premesso, va affrontato il tema
dell’incompatibilità del piano di lottizzazione proposto con
la presenza di un’infrastruttura preesistente su quell’area
(la condotta del gas cittadino).
La deliberazione gravata ha
deciso di non approvare il piano di lottizzazione dei
ricorrenti, principalmente per la carenza in esso del
tracciamento della condotta ad alta pressione del gas che
attraversa l’intera area da lottizzare. Sul punto, il
verificatore tecnico, all’uopo incaricato da questo Tar,
ha così concluso: “il progetto di lottizzazione, così come
proposto all’approvazione, non può essere realizzato in
quanto non tiene conto che i luoghi sono interessati anche
dalla condotta del gas e si pone in contrasto con la
normativa di cui al citato D.M. 17.04.2008”.
Ha aggiunto,
tuttavia, che “l’area è comunque utilizzabile con alcuni
condizionamenti dovuti alla presenza della condotta”, sì da
consentire lo sfruttamento dell’intera potenzialità
edificatoria o almeno di buona parte di essa. Il
verificatore ha, dunque, dato seguito ai quesiti posti,
concludendo per la possibilità di sfruttare la potenzialità
edificatoria prevista dallo strumento urbanistico vigente,
affermando l’utilizzabilità dell’area.
Il diniego recisamente opposto dall’Amministrazione –in
luogo di una più congrua e ragionevole proposta modificativa
del piano- non trova, pertanto, alcun fondamento fattuale e
giuridico. L’istruttoria espletata ha confermato la
possibilità di approvare il piano di lottizzazione, previe
le necessarie modifiche relative alle distanze, dovute alla
presenza della condotta del gas.
Invero, il potere di
soccorso istruttorio, ex art. 6, comma 1, lett. b), della
legge n. 241/1990, che riconosce al responsabile del
procedimento amministrativo la facoltà di chiedere la
rettifica di istanze erronee o incomplete, costituisce un
istituto generale che soddisfa l’esigenza di consentire la
massima partecipazione e orienta l'azione amministrativa
sulla concreta verifica dei requisiti posseduti, attenuando
la rigidità delle forme (cfr. Cons. Stato IV, 12.01.2017 n.
50).
Pertanto, il Comune avrebbe potuto e dovuto sollevare
per tempo il problema delle distanze di sicurezza dalla
condotta del gas, interloquendo coi ricorrenti, nel rispetto
della legge n. 241/1990. Viceversa, nel caso di specie, nel
corso dell’iter procedimentale, l'Amministrazione non ha
sollevato il problema delle distanze dalla condotta del gas
e lo ha fatto soltanto con il provvedimento conclusivo del
procedimento.
Se la questione fosse stata tempestivamente
posta, sarebbe stato possibile per i proponenti il piano di
lottizzazione, eventualmente anche in contraddittorio col
gestore del servizio, prospettare soluzioni diverse e meno
onerose rispetto al proposto spostamento dell’impianto che,
per molte ragioni, non può porsi a carico dei ricorrenti.
Come emerso dalla verificazione, la presenza della condotta
non costituisce totale e irresolubile impedimento
all’attuazione del progetto. Sarebbe stato sufficiente
apportare alcune variazioni progettuali per attuare il
rispetto delle distanze.
Dal tenore della motivazione del provvedimento impugnato
emerge, invero, anche un profilo di sviamento di potere.
Il
Comune, con il tentativo di imporre ai lottizzanti lo
spostamento della condotta del gas, prova a gravare i
medesimi di un onere che avrebbe dovuto far carico
all’Amministrazione stessa. Si intravvede sullo sfondo di
tale tentativo comunale la pregressa vicenda relativa allo
spostamento della cabina del gas, quale descritta nella
narrativa in fatto dell’impugnata delibera, vicenda che
risale al 2005: lo spostamento della cabina incombeva alla
ditta realizzatrice dell’impianto ma il Comune non ebbe a
pretenderlo né fece nulla per ottenerlo, sicché ha poi
ritenuto di farne carico ai lottizzanti. È evidente lo
sconfinamento dai limiti oggettivo causali della
fattispecie.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale (ex multis, Cons. Stato, IV, 08.01.2013 n.
32), lo sviamento, come figura sintomatica dell’eccesso di
potere, ricorre quando il pubblico potere viene esercitato
per finalità diverse da quelle enunciate dalla legge, con la
norma attributiva dello stesso, ovvero quando l'atto posto
in essere sia stato determinato da un interesse diverso da
quello pubblico (cfr.: Cons. Stato V, 05.06.2018 n. 3401).
Una
volta dimostrato che il fine di una determinata azione
amministrativa non è quello di legge, ma altro e diverso,
evidentemente il potere discrezionale, come potere in
principio vincolato nel fine, si appalesa illegittimo.
Ricorre lo sviamento di potere quando il pubblico potere
viene esercitato per finalità diverse da quelle enunciate
dal legislatore con la norma attributiva dello stesso,
ovvero quando l'atto posto in essere sia stato determinato
da un interesse diverso da quello pubblico (cfr.: Cons.
Stato V 05.06.2018, n. 3401; Tar Friuli-Trieste I 03.08.2018
n. 272).
Pertanto la delibera n. 4/2011 è illegittima anche
perché affetta da sviamento di potere, atteso che non
fornisce la intellegibile contezza delle ragioni per cui la
prevista realizzazione di un insediamento residenziale debba
onerare i privati della delocalizzazione parziale di una
rete infrastrutturale pubblica.
VIII – In conclusione, il ricorso deve essere accolto. Le
spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate
come da dispositivo (TAR Molise,
sentenza 05.04.2019 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Campeggio - Lottizzazione abusiva - Allestimenti e servizi
finalizzati ad un soggiorno occasionale e limitato nel tempo
- Artt. 30, 44, 64, 65, 71, 72, 83, 93 e 95 d.P.R. n.
380/2001 - Giurisprudenza.
La struttura di natura "campeggistica"
presuppone allestimenti e servizi finalizzati ad un
soggiorno occasionale e limitato nel tempo in quanto
previsto dalla legge in funzione di turisti in prevalenza
provvisti di propri mezzi mobili di pernottamento, con la
conseguenza che laddove l'area destinata ad essa venga
radicalmente mutata per la presenza di opere stabili,
strutture abitative e servizi in grado di snaturarne le
caratteristiche originarie, deve ritenersi integrato il
reato di lottizzazione abusiva
(Cass., Sez. 3, n. 29731 del 04/06/2013, Soldera e altro;
Sez. fer., n. 31921 del 24/07/2012, Spaccialbelli).
...
Reati urbanistici - Confisca dei terreni e delle opere
abusivamente lottizzati - Conferimento di un diverso assetto
del territorio.
L'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380
del 2001 prevede la confisca tanto "dei terreni abusivamente
lottizzati" quanto "delle opere abusivamente costruite",
cosicché la misura appare contemplata indipendentemente
dalla edificazione, essendo terreni lottizzati anche quelli
oggetto di lottizzazione meramente negoziale e non
consistendo necessariamente le opere in edifici propriamente
detti ben potendo rientrare in tale concetto, ad esempio,
gli interventi di urbanizzazione primaria (come fognature,
rete idrica, elettrica, strade di collegamento etc.), e
potendo l'intervento lottizzatorio, pur in presenza di
edifici, non essere limitato all'area di sedime degli
stessi, ma comprendere anche altre aree che, essendo in
qualche modo asservite, direttamente o indirettamente, agli
edifici stessi, rientrino nel complesso di attività
univocamente finalizzate al conferimento di un diverso
assetto del territorio.
...
Lottizzazione abusiva - Operazione di frazionamento -
Sanzione - Proporzionalità della confisca - Terzi in buona
fede.
In materia urbanistica, i "terreni
lottizzati" ovvero "rientranti nel generale progetto
lottizzatorio" vanno identificati in quelli che risultano
oggetto di un'operazione di frazionamento preordinata ad
agevolarne l'utilizzazione a scopo edilizio. Ove esista,
pertanto, un preventivo frazionamento, va confiscata tutta
l'area interessata da tale frazionamento, nonché dalla
previsione delle relative infrastrutture ed opere di
urbanizzazione, indipendentemente dall'attività di
edificazione posta concretamente in essere.
Nell'ipotesi, invece, in cui non sia stato predisposto un
frazionamento fondiario e tuttavia si sia conferito, di
fatto, un diverso assetto ad una porzione di territorio
comunale, la confisca va limitata a quella porzione
territoriale effettivamente interessata dalla vendita di
lotti separati, dalla edificazione e dalla realizzazione di
infrastrutture.
Al fine di valutare la proporzionalità della confisca, vanno
considerate: la possibilità di adottare misure meno
restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle
disposizioni pertinenti o l'annullamento del progetto di
lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante
dal fatto che può comprendere indifferentemente aree
edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi;
il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto
meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in
questione, ha espressamente affermato che l'applicazione
automatica della confisca in caso di lottizzazione abusiva
prevista —salvo che per i terzi in buona fede— dalla legge
italiana sarebbe in contrasto con detto principio di
proporzionalità, in quanto non consente al giudice di
valutare quali siano gli strumenti più adatti alle
circostanze specifiche del caso di specie e, più in
generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i
diritti degli interessati colpiti dalla sanzione.
Dunque, si potrà parlare di confisca legittima ove limitata
ai beni immobili direttamente interessati dall'attività
lottizzatoria e ad essa funzionali mentre dovrà concludersi
in senso opposto, e dunque di misura non rispettosa dei
criteri di proporzionalità, se applicata a terreni non
direttamente interessati dall'attività lottizzatoria
(Sez. 3, n. 8350 del 23/01/2019, Alessandrini e altri) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2019 n. 14743 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La mancanza del permesso di costruire per l'aumento delle
unità immobiliari non è più penalmente sanzionata.
In virtù dell'art.
17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133
(recante, Misure urgenti
per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), conv., con
modiff., in l. 11.11.2014 n. 164,
il
solo aumento delle unità
immobiliari -che, peraltro, di regola già rileva per far
ritenere che l'organismo che subisca un tale intervento sia
"in tutto o in parte diverso dal precedente"-
non determina più, dunque, la necessità di munirsi del
previo permesso di
costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle
richiamate ipotesi di
lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi
sia una modifica della
volumetria complessiva o dei prospetti.
---------------
Deve affermarsi il principio secondo
cui, la modifica
dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001,
operata con art. 17, comma
1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con
modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di
ristrutturazione edilizia
subordinati a permesso di costruire quelli che comportino
aumento di unità
immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di
tali ipotesi al reato di
costruzione sine titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett.
b), d.P.R. 380 del 2001 e
deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell'art. 2,
quarto comma, cod.
pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice
del precetto.
---------------
1. Con riguardo ai dedotti profili di violazione di legge
e/o illogicità della
motivazione da tutti i ricorrenti dedotti in relazione alla
sussistenza dell'elemento
oggettivo e/o dell'elemento soggettivo della contravvenzione
contestata al capo
a), i ricorsi sono fondati.
Pur tenendo conto del rinvio
disposto su richiesta di uno
dei difensori nel giudizio di secondo grado dal 24.11.2017 al 30.01.2018 -che ha determinato la sospensione del corso della
prescrizione per 67
giorni- il reato, contestato come commesso il 18.03.2013, è tuttavia
certamente prescritto per decorso del termine massimo
quinquennale.
In
conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore
generale, la sentenza
impugnata deve pertanto essere sul punto annullata senza
rinvio perché il reato
è estinto per prescrizione, con conseguente assorbimento di
tutti restanti motivi
proposti dai ricorrenti Ca., Bo. e Ma. e di quelli
proposti dal ricorrente
Ga. relativi al medesimo reato di cui al capo a).
1.1. Ed invero, la sentenza impugnata ha ritenuto
sussistente tale
contravvenzione, che addebita agli imputati, nelle diverse
qualità indicate, di
aver eseguito in assenza di permesso di costruire lavori di
ristrutturazione di un
immobile «comportanti la suddivisione in quattro unità
immobiliari, la
demolizione dei solai del sottotetto finalizzata alla
realizzazione di nuovi volumi
abitabili nel vano sottotetto, lavori non rientranti in un
intervento di risanamento
conservativo, in relazione al quale era stata presentata la
S.C.I.A.».
Senza
considerare il profilo dell'esecuzione di nuovi volumi
abitabili -ritenuto dal
giudice di primo grado e contestato con specifici motivi
d'appello da taluno degli
imputati (in particolare da Massimo Caroti)- la sentenza
impugnata si limita a
rilevare come la s.c.i.a. presentata per l'esecuzione dei
lavori non fosse
sufficiente sul rilievo che la trasformazione del bene da
una a quattro unità
immobiliari non possa essere ricondotta alla riduttiva
nozione del risanamento
conservativo ma costituisca ristrutturazione edilizia, con
conseguente necessità
di richiedere il permesso di costruire.
La conclusione, rileva il Collegio, è certamente errata in
diritto, poiché,
pur potendosi convenire sulla qualificazione giuridica
dell'intervento in termini di
ristrutturazione edilizia piuttosto che di risanamento
conservativo -tenendo
conto che si è trattato di un insieme sistematico di opere
che ha indubbiamente
portato ad un organismo edilizio diverso dal precedente, sia
per la
trasformazione di un appartamento in quattro distinte unità
abitative, sia per la
modifica di elementi costitutivi (quali il ribassamento dei
solai) e l'inserimento di
nuovi impianti (funzionali al godimento delle plurime unità
realizzate)- non per
ciò solo sarebbe stato necessario il permesso di costruire.
La Corte territoriale, di fatti, ha trascurato di
considerare che non tutti gli interventi di ristrutturazione
edilizia sono soggetti al previo rilascio del menzionato
titolo, sì che l'esecuzione
dei lavori in assenza del medesimo integra il reato di cui
all'art. 44, comma 1,
lett. b), d.P.R. 380 del 2001.
Rispetto alla definizione di ristrutturazione edilizia data
dall'art. 3, comma
1, lett. d) di tale decreto, il successivo art. 10, comma 1,
lett. c), nel testo oggi
vigente, assoggetta al regime del permesso di costruire -salve le ipotesi, che
nella specie non ricorrono, della modifica della
destinazione d'uso nei centri
storici o delle modificazioni della sagoma di immobili
vincolati- soltanto quegli
interventi che «portino ad un organismo edilizio in tutto o
in parte diverso dal
precedente e che comportino modifiche della volumetria
complessiva degli edifici
o dei prospetti».
Si tratta degli interventi definiti di
ristrutturazione edilizia c.d.
"pesante" che, a differenza delle residuali ipotesi
rientranti nella categoria -per
la cui realizzazione è sufficiente la s.c.i.a. in forza
della residuale previsione di
cui all'art. 22, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001-
sono assoggettati al
previo rilascio del permesso di costruire con conseguente
realizzazione della
fattispecie penale contestata nel caso di assenza del
titolo. Se, per contro, si
tratti di ristrutturazione edilizia "leggera" per cui è
sufficiente la s.c.i.a.,
quand'anche non fosse stata corretta la qualificazione dei
lavori in termini di
risanamento conservativo data dai richiedenti, il fatto non
integrerebbe gli
estremi del reato contestato.
1.2. La Corte territoriale è probabilmente incorsa in errore
per aver fatto
applicazione dell'originario testo dell'art. 10, comma 1,
lett. c), d.P.R. 380 del
2001, che, tra l'altro, qualificava come ristrutturazioni
edilizie pesanti anche gli
interventi sopra descritti che comportino «aumento delle
unità immobiliari»,
sicché la motivazione della sentenza impugnata si è limitata
a tale rilievo per
ritenere la sussistenza del reato senza ulteriormente
valutare se vi fosse stato
aumento di volumetria, come invece aveva fatto il giudice di
primo grado, pur
con giudizio fatto oggetto di specifiche censure che il
giudice d'appello non ha
esaminato.
In quella parte, la disposizione è stata tuttavia
modificata dall'art.
17, comma 1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133
(recante, Misure urgenti
per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere
pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l'emergenza del
dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività
produttive), conv., con
modiff., in l. 11.11.2014, n. 164, che, interpolando
la norma definitoria
della ristrutturazione edilizia c.d. "pesante", ha eliminato
il citato riferimento allo
"aumento delle unità immobiliari" (oltre a quello, parimenti
contenuto
nell'originaria disposizione, "delle superfici utili").
Il
solo aumento delle unità
immobiliari -che, peraltro, di regola già rileva per far
ritenere che l'organismo che subisca un tale intervento sia
"in tutto o in parte diverso dal precedente"-
non determina più, dunque, la necessità di munirsi del
previo permesso di
costruire, essendo al proposito necessario (al di là delle
richiamate ipotesi di
lavori nei centri storici o su immobili vincolati) che vi
sia una modifica della
volumetria complessiva o dei prospetti. Questo accertamento
è tuttavia mancato
da parte del giudice d'appello.
1.3. Occorre, ancora, rilevare, come la citata "novella" che
ha modificato
l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001 -pur
intervenuta
successivamente alla consumazione del reato- sia
retroattivamente applicabile
ai sensi dell'art. 2, quarto comma, cod. pen.
Nel sanzionare penalmente l'esecuzione di lavori in assenza
del permesso
di costruire, di fatti, la norma incriminatrice di cui
all'art. 44, comma 1, lett. b),
d.P.R. 380 del 2001 richiama implicitamente proprio l'art.
10, comma 1, del
testo unico (rubricato interventi subordinati a permesso di
costruire), che vale
dunque ad integrare il precetto penale nella sua essenziale
struttura,
individuando le opere che necessitano di tale titolo
abilitativo.
Va pertanto
applicato il principio secondo cui, in tema di successione
di leggi penali, la
modificazione della norma extrapenale richiamata dalla
disposizione
incriminatrice esclude la punibilità del fatto
precedentemente commesso se tale
norma è integratrice di quella penale (Sez. U, n. 2451 del
27/09/2007, dep.
2008, Magera, Rv. 238197; Sez. 3, n. 15481 del 11/01/2011,
Guttà e a., Rv.
250119; Sez. 3, n. 28681 del 27/01/2017, Peverelli, Rv.
270335).
Nel caso di
specie, di fatti, non v'è dubbio che il citato art. 10,
comma 1, lett. c), d.P.R. 380
del 2001 integri il precetto penale di cui al successivo
art. 44, comma 1, lett. b),
incidendo sulla struttura essenziale del reato e quindi
sulla fattispecie tipica, sì
che il principio di retroattività della norma favorevole,
affermato dall'art. 2,
comma quarto, cod. pen., si applica anche in caso di
successione nel tempo di
norme extrapenali integratrici aventi tali caratteristiche (cfr.
Sez. 5, n. 11905 del
16/11/2015, dep. 2016, Branchi e aa., Rv. 266474; Sez. 2, n.
46669 del
23/11/2011, De Masi e aa., Rv. 252194).
1.4. In conclusione, deve affermarsi il principio secondo
cui, la modifica
dell'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380 del 2001,
operata con art. 17, comma
1, lett. d), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con
modiff., nella l. 11.11.2014, n. 164, che ha escluso dagli interventi di
ristrutturazione edilizia
subordinati a permesso di costruire quelli che comportino
aumento di unità
immobiliari o di superfici utili, osta alla riconduzione di
tali ipotesi al reato di
costruzione sine titulo di cui all'art. 44, comma 1, lett.
b), d.P.R. 380 del 2001 e
deve trovare applicazione retroattiva, ai sensi dell'art. 2,
quarto comma, cod.
pen., quale norma extrapenale più favorevole integratrice
del precetto (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.04.2019 n. 14725). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le dichiarazioni di terzi non costituiscono
evidenze idonee a ritenere assolto l’onere della prova sui
presupposti del condono, gravante sul proprietario.
Sul punto, va evidenziato che, secondo un orientamento della
giurisprudenza amministrativa, “nessun rilievo, ai fini
amministrativi e processuali, possono avere le dichiarazioni
sostitutive rese da soggetti terzi, in quanto il requisito
dell’anteriorità della data di realizzazione degli abusi
rispetto al termine fissato dalla legge va dimostrato con
adeguata documentazione e non può essere supplito con
dichiarazioni non suscettibili in alcun modo di essere
verificate”.
Pertanto, aderendo a tale orientamento alcun rilievo possono
assumere le dichiarazioni dei terzi.
---------------
La conclusione non muta ove si aderisca al diverso
orientamento che ammette la possibilità di ricorrente alle
dichiarazioni dei terzi, pur precisando come sia da
escludere che “una mera dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà possa rappresentare una prova esaustiva della data
di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità
amministrativa il compito di fornire la dimostrazione
dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella
dichiarata dall'interessato”.
Secondo tale orientamento, “di fronte a circostanze che, pur
senza assurgere al rango di prova, sollevano il ragionevole
dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori postuma
rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata nella
domanda di condono, il richiedente non è liberato dall'onere
di fornire congrui elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza sull'epoca di realizzazione
del manufatto, in difetto dei quali, resta integro il potere
dell'amministrazione di negare la sanatoria”.
---------------
6. Il primo motivo di ricorso è infondato.
6.1. La censura si incentra sull’invalidità dei
provvedimenti per derivazione dalla ritenuta illegittimità
del diniego di condono. Provvedimento impugnato dinanzi a
questo Tribunale (R.G. 903 del 2010) e definito con sentenza
sfavorevole alla parte ricorrente della quarta sezione
(27.09.2018, n. 2162).
Tale pronuncia ritiene il diniego integrativo della
motivazione del precedente atto già oggetto del giudizio
deciso dalla sentenza del TAR per la Lombardia, sede di
Milano, sez. II, n. 2060 del 01.04. 2009, che respinge il
ricorso. Pronuncia transitata in rem iudicatam dopo
la declaratoria di improcedibilità dell’appello per
sopravvenuta carenza di interesse da parte del Consiglio di
Stato (sez. IV, 27.04.2012, n. 2464).
6.2. La sentenza n. 2162 del 2018 di questo Tribunale
ritiene, inoltre, che il ricorso sia infondato ritenendo le
dichiarazioni prodotte inattendibili. Giudizio formulato in
considerazione di quanto esposto nella motivazione dell’atto
e, in particolare, nella parte relativa alla discrasia delle
dimensioni della struttura prefabbricata tra il dato
realmente accertato e la dichiarazione resa sul punto.
Inoltre, il Tribunale osserva che l’accertamento comunale ha
natura oggettiva e non viene inficiato da “dichiarazioni
di terzi riferite a fatti verificatisi almeno 6 anni prima”.
6.3. Osserva il Collegio come l’accertamento eseguito dal
Comune risulta suffragato da dati oggettivi e, pertanto, non
sussiste quello stato di incertezza rispetto alla difformità
tra situazione rappresentata nella domanda di condono e
situazione realmente esistente. Lo afferma la sentenza n.
2060 del 2009 di questo Tribunale, transitata in rem
iudicatam e, come tale, idonea a fondare un accertamento
vincolante.
6.4. Tale accertamento è contestato dai ricorrenti in forza
di dichiarazioni di terzi che, tuttavia, non costituiscono
evidenze idonee a ritenere assolto l’onere della prova sui
presupposti del condono, gravante sul proprietario (cfr.,
ex multis, TAR per la Lombardia, sez. II, 26.09.2018, n.
2137).
Sul punto, va evidenziato che, secondo un orientamento della
giurisprudenza amministrativa, “nessun rilievo, ai fini
amministrativi e processuali, possono avere le dichiarazioni
sostitutive rese da soggetti terzi, in quanto il requisito
dell’anteriorità della data di realizzazione degli abusi
rispetto al termine fissato dalla legge va dimostrato con
adeguata documentazione e non può essere supplito con
dichiarazioni non suscettibili in alcun modo di essere
verificate” (Consiglio di Stato, sez. VI, 04.03.2019, n.
1476). Pertanto, aderendo a tale orientamento alcun rilievo
possono assumere le dichiarazioni dei terzi.
6.5. La conclusione non muta ove si aderisca al diverso
orientamento che ammette la possibilità di ricorrente alle
dichiarazioni dei terzi, pur precisando come sia da
escludere che “una mera dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà possa rappresentare una prova esaustiva della
data di ultimazione dei lavori abusivi in grado di invertire
l'onere della prova, facendo ricadere sull'autorità
amministrativa il compito di fornire la dimostrazione
dell'ultimazione dei lavori in una data successiva a quella
dichiarata dall'interessato” (cfr., Consiglio di Stato,
sez. IV, 30.03.2018, n. 2020).
Secondo tale orientamento, “di fronte a circostanze che,
pur senza assurgere al rango di prova, sollevano il
ragionevole dubbio in ordine ad una ultimazione dei lavori
postuma rispetto a quella prevista dalla legge e dichiarata
nella domanda di condono, il richiedente non è liberato
dall'onere di fornire congrui elementi probatori che siano
in grado di radicare la ragionevole certezza sull'epoca di
realizzazione del manufatto, in difetto dei quali, resta
integro il potere dell'amministrazione di negare la
sanatoria” (TAR per la Campania – sede di Napoli, sez.
II, 27.11.2018, n. 6869).
Nel caso di specie, si tratta di tre dichiarazioni
predeterminate e sottoscritte da tre cittadini che non
contengono, tuttavia, riscontri che consentano di ritenere
attendibili le testimonianze e a smentire l’accertamento
effettuato dal Comune. I dichiaranti omettono di indicare le
ragioni per cui sarebbero a conoscenza della circostanza e
quali siano gli elementi che rendano certa la loro
dichiarazione. Aspetti che assumono particolare rilievo
anche in considerazione del tempo trascorso tra le
dichiarazioni (tutte rese nel maggio del 2009) e i fatti
oggetto delle stesse (relativi a tre anni prima)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 746 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il provvedimento che dispone l’acquisizione al patrimonio in
caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione è di
competenza del Dirigente comunale o, comunque, del
responsabile dell’ufficio preposto e non del Consiglio
comunale.
Il provvedimento che dispone l’acquisizione al patrimonio in
caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione è, in
primo luogo, atto di natura sanzionatoria.
Lo conferma la costante giurisprudenza amministrativa
prendendo le mosse dalla sentenza n. 345 del 1991 della
Corte Costituzionale che chiarisce come l'acquisizione
gratuita dell'area non sia una misura strumentale per
consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una
sanzione accessoria di questa, ma costituisca una sanzione
autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione. La
natura sanzionatoria del provvedimento impone, pertanto, di
ricondurre lo stesso nell’alveo dei provvedimenti
sanzionatori di competenza del Dirigente comunale ex
articolo 107, comma 3, lettera g), d.lgs. 276/2000.
Va poi considerato che risulta dirimente la previsione di
cui all’articolo 31, comma 2, del D.P.R. 380 del 2001 che
assegna “al dirigente o [a]l responsabile del competente
ufficio comunale”, l’obbligo di accertare l'esecuzione di
interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal
medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate ai
sensi dell'articolo 32, e di ingiungere al proprietario e al
responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del successivo comma 3.
La disposizione contenuta in tale comma disciplina
l’acquisizione al patrimonio comunale stabilendo che tale
sanzione sia consequenziale all’inottemperanza all’ordine di
demolizione e al mancato ripristino dello stato dei luoghi
intimato dal Dirigente o dal responsabile dell’ufficio.
Pertanto, la consequenzialità tra ordinanza di demolizione e
sanzione dell’acquisizione conduce a ritenere che la
competenza all’adozione di tali provvedimenti debba essere
radicata in capo al medesimo soggetto.
Consegue, a quanto esposto al precedente punto,
l’illegittimità del provvedimento impugnato trattandosi di
accertamento di competenza del Dirigente comunale o,
comunque, del responsabile dell’ufficio preposto e non del
Consiglio comunale.
---------------
7. Con il secondo
motivo la società deduce il difetto di competenza del
Consiglio comunale a determinare l’area oggetto di
acquisizione in caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione.
7.1. Il motivo è fondato.
7.2. Diversamente da quanto dedotto dal Comune resistente
(che riconduce il provvedimento nell’alveo dell’articolo 42,
comma 2, lettera l), del d.lgs. 267/2000), il provvedimento
che dispone l’acquisizione al patrimonio in caso di
inottemperanza all’ordinanza di demolizione è, in primo
luogo, atto di natura sanzionatoria.
Lo conferma la costante giurisprudenza amministrativa
prendendo le mosse dalla sentenza n. 345 del 1991 della
Corte Costituzionale che chiarisce come l'acquisizione
gratuita dell'area non sia una misura strumentale per
consentire al Comune di eseguire la demolizione, né una
sanzione accessoria di questa, ma costituisca una sanzione
autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione (cfr.,
ex multis, TAR per la Campania – sede di Napoli, sez.
IV, 26.09.2019, n. 1084). La natura sanzionatoria del
provvedimento impone, pertanto, di ricondurre lo stesso
nell’alveo dei provvedimenti sanzionatori di competenza del
Dirigente comunale ex articolo 107, comma 3, lettera g),
d.lgs. 276/2000.
Va poi considerato che risulta dirimente la previsione di
cui all’articolo 31, comma 2, del D.P.R. 380 del 2001 che
assegna “al dirigente o [a]l responsabile del competente
ufficio comunale”, l’obbligo di accertare l'esecuzione
di interventi in assenza di permesso, in totale difformità
dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali, determinate
ai sensi dell'articolo 32, e di ingiungere al proprietario e
al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione,
indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di
diritto, ai sensi del successivo comma 3.
La disposizione contenuta in tale comma disciplina
l’acquisizione al patrimonio comunale stabilendo che tale
sanzione sia consequenziale all’inottemperanza all’ordine di
demolizione e al mancato ripristino dello stato dei luoghi
intimato dal Dirigente o dal responsabile dell’ufficio.
Pertanto, la consequenzialità tra ordinanza di demolizione e
sanzione dell’acquisizione conduce a ritenere che la
competenza all’adozione di tali provvedimenti debba essere
radicata in capo al medesimo soggetto.
7.3. Consegue a quanto esposto al precedente punto
l’illegittimità del provvedimento impugnato trattandosi di
accertamento di competenza del Dirigente comunale o,
comunque, del responsabile dell’ufficio preposto e non del
Consiglio comunale.
7.4. Dall’accoglimento del motivo inerente il difetto di
competenza all’adozione dell’atto discende l’assorbimento
obbligato degli ulteriori due motivi articolati dalla parte
e relativi anch’essi al provvedimento di acquisizione
(Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 27.04.2015, n. 5)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.04.2019 n. 746 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
revoca
dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui
all'art. 31 d.P.R. n.
380/2001, postula una sopravvenuta incompatibilità con atti
amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione
o ne abbiano sanato l'abusività, fermo restando il
potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità del
provvedimento sotto il duplice
profilo della sussistenza dei presupposti per la sua
emanazione e dei requisiti di
forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto
esercizio del potere di
rilascio.
Né l'acquisizione
dell'immobile al patrimonio del Comune è ostativa
all'esecuzione della
demolizione, posto che, sino a quando non sia intervenuta
una delibera dell'ente
locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi
pubblici al mantenimento
delle opere abusive, è sempre possibile per il condannato
chiedere al Comune
stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a
propria cura e spese
e, per il
pubblico ministero,
procedere a spese del condannato.
---------------
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con
la sentenza di condanna per reato edilizio non è estinto
dalla morte del reo sopravvenuta alla irrevocabilità della
sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione
amministrativa accessoria.
Per
altro verso, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla
disciplina della
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, avendo natura
di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio,
priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso.
Essa non è neppure
soggetta alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981,
n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
---------------
6.2. Manifestamente infondato è il secondo motivo, posto che la
revoca
dell'ordine di demolizione delle opere abusive, di cui
all'art. 31 d.P.R. n.
380/2001, postula una sopravvenuta incompatibilità con atti
amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione
o ne abbiano sanato l'abusività, fermo restando il
potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità del
provvedimento sotto il duplice
profilo della sussistenza dei presupposti per la sua
emanazione e dei requisiti di
forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto
esercizio del potere di
rilascio (Sez. 3, sent. n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e a.,
Rv. 260972; Sez. 3,
n. 3456/2013 del 21/11/2012, dep. 2013, Oliva, Rv. 254426).
Né l'acquisizione
dell'immobile al patrimonio del Comune è ostativa
all'esecuzione della
demolizione, posto che, sino a quando non sia intervenuta
una delibera dell'ente
locale che dichiari l'esistenza di prevalenti interessi
pubblici al mantenimento
delle opere abusive, è sempre possibile per il condannato
chiedere al Comune
stesso l'autorizzazione a procedere alla demolizione a
propria cura e spese (Sez.
3, n. 39471 del 18/07/2017, Pellerito, Rv. 272502; Sez. 3,
n. 4962 del
28/11/2007, dep. 2008, Mancini e aa., Rv. 238803) e, per il
pubblico ministero,
procedere a spese del condannato (Sez. 3, n. 42698 del
07/07/2015, Marche,
Rv. 265495).
6.3. Quanto all'ultimo motivo, del pari manifestamente
infondato, va
osservato che nella giurisprudenza di legittimità è
consolidato il principio -di cui
il giudice di merito ha fatto corretta applicazione- giusta
il quale l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza
di condanna per
reato edilizio non è estinto dalla morte del reo
sopravvenuta alla irrevocabilità
della sentenza, non avendo natura penale ma di sanzione
amministrativa
accessoria (Sez. 3, n. 30406 del 08/04/2016, Federico, Rv.
267333; Sez. 3, n.
3861 del 18/01/2011, Baldinucci e aa., Rv. 249317).
Per
altro verso, l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo non è sottoposto alla
disciplina della
prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, avendo natura
di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio,
priva di finalità punitive e
con effetti che ricadono sul soggetto che è in rapporto col
bene indipendentemente dal fatto che questi sia l'autore
dell'abuso (Sez. 3, n. 49331
del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540).
Essa non è neppure
soggetta alla
prescrizione stabilita dall'art. 28 legge 24.11.1981,
n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (Sez.
3, n. 36387 del
07/07/2015, Fornnisano, Rv. 265540; Sez. 3, n. 19742 del
14/04/2011, Mercurio
e a., Rv. 250336).
La conclusione, del resto, non comporta conseguenze
irragionevoli o
altrimenti foriere di insinuare dubbi di legittimità
costituzionale anche in
relazione alla disciplina convenzionale invocata in ricorso.
Si è infatti affermato
che è manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale, per
violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del
d.P.R. n. 380/2001 per
mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine
di demolizione del
manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in
quanto le
caratteristiche di detta sanzione amministrativa -che, come
si è già precisato,
assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso,
configura un obbligo di fare
per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità
punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con
il bene, anche se non
è l'autore dell'abuso- non consentono di ritenerla "pena"
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da
escludere sia la
irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a
quella delle sanzioni
penali soggette a prescrizione, sia una violazione del
parametro interposto di cui
all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu,
Rv. 267977) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.04.2019 n. 14602). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lotto urbanisticamente unitario oggetto di uno o più
interventi edilizi – Volumetria residua – Decurtamento di
quella in precedenza realizzata – Successivi frazionamenti
catastali – Irrilevanza – Edificio preesistente realizzato
in epoca anteriore all’adozione del primo PRG di un Comune –
Asservimento cd. pertinenziale – Limiti di volumetria
imposti dalla normativa urbanistica – Vincolo ope legis –
Vincolo di asservimento di fonte negoziale.
- un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di
essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
(nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non
solo la superficie libera e il volume ad essa
corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa,
dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle
proprietà private medio tempore intervenuti: pertanto,
quando un’area edificabile viene successivamente frazionata
in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile
nell’intera area permane invariata, sicché, qualora siano
già state realizzate sul lotto originario una o più
costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a
disposizione solo la volumetria che eventualmente residua
tenuto conto di quanto originariamente costruito;
- in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia
già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua, o la superficie coperta residua, va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo;
- l’istituto dell’asservimento in senso tecnico si è configurato in
seguito all’entrata in vigore del d.m. n. 1444/1968, con il
quale sono stati introdotti nell’ordinamento, in attuazione
dei precetti recati dall’art. 17 l. n. 765/1967
(introduttivo dell’art. 41-quinquies l. n. 1150/1942),
limiti inderogabili di densità edilizia;
- in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore
all’adozione del primo piano regolatore generale di un
comune, con il quale per la prima volta nel territorio
comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia
–territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e
fondiaria (riferito al singolo lotto)–, in assenza di limiti
di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento
in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un
vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla
destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio
dell’edificio realizzato, in termini di complementarietà
funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato
reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e
delle relazioni che intrattengono con l’ambiente
circostante;
- qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il
relativo vincolo sull’area discende ope legis, senza
necessità di strumenti negoziali privatistici (atto
d’obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che
devono invece sussistere quando il proprietario di un
terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario
limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella
che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando
siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel
senso che i proprietari di più terreni li asservino
unitariamente alla realizzazione di un unico progetto;
- dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio
attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto,
determinandone la cubatura assentibile in relazione ai
limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo
di asservimento per cui, una volta esaurite le predette
potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad
un regime di inedificabilità che discende ope legis
dall’intervenuta utilizzazione del lotto medesimo.
---------------
6.1.2.4. Il sopra riportato quadro normativo recepisce,
sostanzialmente, i principi di diritto urbanistico-edilizio
di origine giurisprudenziale, secondo cui:
- un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di
essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
(nuovo) permesso di costruire, dovendosi considerare non
solo la superficie libera e il volume ad essa
corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto in seguito catastalmente divisa,
dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle
proprietà private medio tempore intervenuti:
pertanto, quando un’area edificabile viene successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile nell’intera area permane invariata, sicché,
qualora siano già state realizzate sul lotto originario una
o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui
detto lotto sia stato successivamente frazionato, hanno a
disposizione solo la volumetria che eventualmente residua
tenuto conto di quanto originariamente costruito (v. Cons.
Stato, Sez. IV, 01.07.2015, n. 3251, con ulteriori richiami
giurisprudenziali);
- in altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia
già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua, o la superficie coperta residua, va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo (v. Consiglio di Stato, Sez. IV,
22.05.2012, n. 2941);
- l’istituto dell’asservimento in senso tecnico si è configurato in
seguito all’entrata in vigore del d.m. n. 1444/1968, con il
quale sono stati introdotti nell’ordinamento, in attuazione
dei precetti recati dall’art. 17 l. n. 765/1967
(introduttivo dell’art. 41-quinquies l. n. 1150/1942),
limiti inderogabili di densità edilizia (v. Cons. Stato, Ad.
plen. 23.04.2009, n. 3);
- in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore
all’adozione del primo piano regolatore generale di un
comune, con il quale per la prima volta nel territorio
comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia
–territoriale (riferito a ciascuna zona omogenea) e
fondiaria (riferito al singolo lotto)–, in assenza di limiti
di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento
in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un
vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla
destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio
dell’edificio realizzato, in termini di complementarietà
funzionale, dovendosi in tal caso aver riguardo al dato
reale costituito dagli immobili preesistenti su detta area e
delle relazioni che intrattengono con l’ambiente circostante
(v. Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3; Cons. Stato,
Sez. VI, 23.02.2016, n. 732; Cons. Stato, Sez. IV,
13.11.2018, n. 6397);
- qualora la normativa urbanistica imponga limiti di volumetria, il
relativo vincolo sull’area discende ope legis, senza
necessità di strumenti negoziali privatistici (atto
d’obbligo, trascrizione, cessione di cubatura, ecc.), che
devono invece sussistere quando il proprietario di un
terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario
limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella
che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure quando
siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel
senso che i proprietari di più terreni li asservino
unitariamente alla realizzazione di un unico progetto (v.
Cons. Stato., Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766);
- dal provvedimento edilizio abilitativo, il cui rilascio
attualizza le potenzialità edificatorie di un lotto,
determinandone la cubatura assentibile in relazione ai
limiti imposti dalla normativa urbanistica, sorge un vincolo
di asservimento per cui, una volta esaurite le predette
potenzialità, le restanti parti del lotto sono sottoposte ad
un regime di inedificabilità che discende ope legis
dall’intervenuta utilizzazione del lotto medesimo (v. Cons.
Stato, Ad. Plen., 23.04.2009, n. 3) (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 03.04.2019 n. 2215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Interdittiva antimafia per vicinanza a personale collegata
alla criminalità organizzata.
---------------
●
Informativa antimafia – Presupposti – Vicinanza a soggetto
collegato alla criminalità organizzata – condanna successiva
all’incontro – Irrilevanza ex se.
●
Informativa antimafia – Presupposti – Società ritenuta
vicino alla criminalità organizzata – Società che non ha mai
vinto gare di appalto – Irrilevanza ex se.
●
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva antimafia non rileva
che all’epoca degli accertati “incontri” tra il destinatario
della misura preventiva e soggetto vicino alla criminalità
organizzata quest’ultimo ancora non avessero subito
condanne, e ciò in quanto la data della pronuncia di
condanna non cristallizza il momento in cui la persona si è
avvicinata al sodalizio di stampo mafioso.
●
Ai fini dell'adozione dell'interdittiva antimafia
non rileva che la società colpita dalla misura preventiva
non abbia mai vinto una gara pubblica atteso che proprio la
regolarità dell’operatività ordinaria potrebbe costituire un
ulteriore schermo volto ad evitare le attenzioni delle forze
di contrasto al fenomeno criminale, garantendosi al contempo
una fonte di reddito ‘pulito’ in quanto pienamente
giustificato” (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la criminalità organizzata ormai si
insinua nell’economia con plurime strategie per controllare
il settore degli appalti pubblici; non può quindi escludersi
l’utilizzo di una società “pulita” per spalleggiare
in sede di gara altra impresa, anch’essa infiltrata dalla
malavita organizzata (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 03.04.2019 n. 2211 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004, una
volta depurata delle sue parti incidentali, si esprime così:
“1. Sono beni culturali le cose immobili (…) appartenenti
(…) compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti,
che presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico.”.
Nel contesto della proposizione, le parole “che presentano”
possono all’evidenza logicamente corrispondere alle
seguenti: “a condizione che presentino” ovvero “sempre che
presentino”.
In sintesi, sulla base della norma richiamata i beni
immobili non sono di per se stessi ‘beni culturali’ per il
solo motivo di appartenere a ‘enti ecclesiastici civilmente
riconosciuti’.
Per divenire detti beni giuridicamente tali (ossia beni
culturali) occorre qualcosa di più.
---------------
Nel congegno del codice dei beni culturali e del paesaggio,
l’appartenenza di un immobile ad un novero qualificato di
soggetti ne può far sì presumere (ma soltanto presumere) ope
legis un particolare interesse (artistico, storico,
archeologico o etnoantropologico) di rilievo pubblico.
Ma poi, perché detto interesse possa dirsi effettivamente
sussistente (ossia ‘accertato’, giacché appositamente
‘verificato’ dall’Autorità competente), occorre ancora che:
- per un verso, la ‘esecuzione’ dell’immobile (per stare al caso di
specie) risalga ‘ad oltre settanta anni’;
- per altro verso, che, appunto, venga concretamente effettuata la
‘verifica’ da parte dei ‘competenti organi del Ministero’ di
settore.
---------------
7. Segue –per esigenze logiche– la necessità di osservare
che l’art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004 recita così: “1.
Sono beni culturali le cose immobili e mobili appartenenti
allo Stato, alle regioni, agli altri enti pubblici
territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico
e a persone giuridiche private senza fine di lucro, ivi
compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, che
presentano interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico.”.
Per quanto qui maggiormente interessa, la disposizione
richiamata, una volta depurata delle sue parti incidentali,
si esprime così: “1. Sono beni culturali le cose immobili
(…) appartenenti (…) compresi gli enti ecclesiastici
civilmente riconosciuti, che presentano interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico.”.
Nel contesto della proposizione, le parole “che
presentano” possono all’evidenza logicamente
corrispondere alle seguenti: “a condizione che presentino”
ovvero “sempre che presentino”.
In sintesi, sulla base della norma richiamata i beni
immobili non sono di per se stessi ‘beni culturali’
per il solo motivo di appartenere a ‘enti ecclesiastici
civilmente riconosciuti’.
Per divenire detti beni giuridicamente tali (ossia beni
culturali) occorre qualcosa di più.
7.1. Se ne ha conferma leggendo l’art. 12 del d.lgs. n.
42/2004 (non a caso rubricato “Verifica dell’interesse
culturale” e collocato nella Parte seconda del testo
legislativo, dedicato ai “beni culturali”).
Il suo co. 1 dispone che: “Le cose indicate all’articolo
10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la
cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, sono
sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a
quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma
2.”
Va subito incidentalmente ricordato che i settanta anni
menzionati in questa disposizione erano, invece, cinquanta
nella versione originale e ante novelle del codice dei beni
culturali e del paesaggio (analogamente, peraltro, nell’art.
10, co. 5, del testo legislativo).
Poi, il co. 2 del citato art. 12 prevede che: “I
competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta
formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata
dai relativi dati conoscitivi, verificano la sussistenza
dell’interesse artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base
di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero
medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione.”.
Orbene, è sufficientemente evidente che, nel congegno del
codice in questione, l’appartenenza di un immobile ad un
novero qualificato di soggetti ne può far sì presumere (ma
soltanto presumere) ope legis un particolare
interesse (artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico) di rilievo pubblico.
Ma poi, perché detto interesse possa dirsi effettivamente
sussistente (ossia ‘accertato’, giacché appositamente
‘verificato’ dall’Autorità competente), occorre
ancora che:
- per un verso, la ‘esecuzione’ dell’immobile (per stare al
caso di specie) risalga ‘ad oltre settanta anni’ (ma
solo cinquanta all’epoca dei fatti per cui è causa);
- per altro verso, che, appunto, venga concretamente effettuata la
‘verifica’ da parte dei ‘competenti organi del
Ministero’ di settore.
7.2. Vale inoltre sottolineare subito che è soltanto l’art.
164 del codice in questione, rubricato “Violazioni in
atti giuridici”, a stabilire che: “1. Le alienazioni,
le convenzioni e gli atti giuridici in genere, compiuti
contro i divieti stabiliti dalle disposizioni del Titolo I
della Parte seconda, o senza l'osservanza delle condizioni e
modalità da esse prescritte, sono nulli.
2. Resta salva la facoltà del Ministero di esercitare la
prelazione ai sensi dell'articolo 61, comma 2.”.
Questa norma, all’interno del codice, è però collocata al di
fuori della sua Parte seconda e pertanto essa non rientra
nel perimetro applicativo della disposizione di cui all’art.
12, co. 1, del d.lgs. n. 42/2004, lì dove essa recita che
“Le cose indicate all’articolo 10, comma 1, (…) sono
sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a
quando non sia stata effettuata la verifica (…)” di cui
sopra s’è detto.
In altri termini, la sanzione della nullità delle
alienazioni dei beni in discorso non scatta –pur sussistendo
il presupposto dato dalla ricordata ‘appartenenza’ di
un immobile ad un soggetto qualificato ai sensi del codice–
fino al momento nel quale il Ministero non abbia effettuato,
positivamente, la verifica di cui sopra s’è parlato.
Va poi aggiunto, per completezza, che l’eventualità prevista
dall’art. 164, co. 2, del codice non rileva nella presente
fattispecie in ragione del fatto –non controverso tra le
parti– che nessun ente pubblico è risultato interessato ad
esercitare prelazione nei riguardi dell’immobile per cui è
causa (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.04.2019 n. 2205 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Concordato con continuità aziendale e partecipazione a gara
di appalto in RTI.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara - Concordato con continuità aziendale - Non è
causa di esclusione.
Ai sensi dell'art. 80, comma 5,
lett. b), del Codice dei contratti pubblici. non rientra tra
le cause di esclusione dalla gara la procedura di concordato
con continuità aziendale cui è sottoposta la società
concorrente (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che secondo una recente interpretazione
l’omologazione del concordato chiude la procedura
concordataria a norma dell’art. 181, r.d. n. 267 del 1942; a
seguito di tale provvedimento l’imprenditore ritorna in
bonis e, pertanto, non vi è ragione di limitarne
l’attività. L'art. 181 prevede genericamente che "la
procedura di concordato preventivo si chiude... con
l'omologazione" senza operare alcuna distinzione,
pertanto, intervenuto il decreto di omologazione del
Tribunale l'impresa non è più "in stato" di
concordato né sarebbe più "in corso" la relativa
procedura. Ne segue che non operano i divieti di legge con
riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare e
neppure sussistono gli obblighi documentali che sarebbero
esigibili limitatamente alle imprese che siano "in stato"
o "in corso" di concordato (Cons.
St., sez. V, 29.05.2018, n. 3225).
In senso contrario, è stato stabilito che la chiusura del
concordato la quale, ai sensi dell'art. 181 della legge
fallimentare, fa seguito alla definitività del decreto o
della sentenza di omologazione, pur determinando la
cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto,
durante il corso della procedura, dall'art. 167 non comporta
(salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia
stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al
debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio.
Questo infatti resta vincolato all'attuazione degli obblighi
da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il
Commissario Giudiziale è tenuto a sorvegliare l'adempimento
secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto)
di omologazione. Ne segue che la fase di esecuzione, nella
quale si estrinseca l'adempimento del concordato, non può
ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase
procedimentale che l'ha preceduta (Cass., sez. I, ord.,
10.01.2018, n. 380) e non vi sarebbe quindi ragione per non
ritenere operanti anche in tale fase i divieti di legge con
riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare.
Ciò chiarito, ha aggiunto il Tar che la questione deve
essere risolta non indagando gli aspetti civilistici che
regolamentano l’impresa ammessa al concordato preventivo con
continuità aziendale, bensì a partire dal dato testuale
normativo.
Le cause di esclusione dalle procedure per l’affidamento dei
contratti pubblici, sotto il profilo (della mancanza) dei
necessari requisiti soggettivi, sono stabilite dall’art. 80
del Codice dei contratti pubblici. Per quanto rileva nella
presente sede, la disposizione di cui al comma 5, lett. b)
del medesimo statuisce che devono essere escluse dalla
partecipazione alle gare d’appalto, tra le altre, le imprese
che si trovino in stato di concordato preventivo “salvo
il caso di concordato con continuità aziendale” e “fermo
restando quanto previsto dall’articolo 110” del medesimo
Codice. La norma quindi esclude dal proprio ambito di
applicazione e, con ciò, dal novero delle circostanze
espulsive la procedura di concordato con continuità
aziendale.
Si manifesta quindi un contrasto tra questa disposizione e
quella contenuta nella legge fallimentare, secondo cui alle
imprese ammesse al concordato con continuità aziendale è
interdetto partecipare alle gare d’appalto quali mandatarie
di un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il conflitto tra le norme può essere risolto secondo il
criterio cronologico.
La disposizione della legge fallimentare, come sopra citato,
è venuta alla luce con il d.l. 23.06.2012, n. 83, convertito
nella l. 07.08.2012, n. 134.
La norma di cui all’art. 80, comma 5, lett. b), del Codice
dei contratti pubblici è invece venuta alla luce con il
d.lgs. n. 50 del 2016 e, quindi, successivamente alla prima.
Questa pertanto, in base al criterio cronologico di
soluzione dei conflitti tra norme, deve ritenersi
implicitamente abrogata.
La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. b),
d.lgs. n. 50 del 2016 ha innovato rispetto a quanto
prevedeva il previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che
all’art. 38, comma 1, lett. a), comminava l’esclusione alle
imprese che si trovassero in stato di concordato preventivo,
senza effettuare alcuna distinzione.
La differenza tra il precedente e l’attuale Codice dei
contratti pubblici va interpretato quale indice della
volontà legislativa di ammettere alle gare per l’affidamento
dei contratti pubblici le imprese che si trovino in
concordato preventivo con continuità aziendale, salva
restando la necessità di autorizzazione del giudice delegato
(elemento che non è in discussione nella presente
controversia): in tali termini può essere interpretato il
rimando effettuato dal citato articolo 80, comma 5, lett.
b), del Codice dei contratti pubblici al proprio art. 110 il
quale, al comma 3, prevede che “il curatore del
fallimento, autorizzato all'esercizio provvisorio, ovvero
l'impresa ammessa al concordato con continuità aziendale, su
autorizzazione del giudice delegato… possono: a) partecipare
a procedure di affidamento di concessioni e appalti di
lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di
subappalto; b) eseguire i contratti già stipulati
dall'impresa fallita o ammessa al concordato con continuità
aziendale”
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 03.04.2019 n. 491 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
4. Venendo alla trattazione della censura nel merito, il
Collegio è consapevole dell’esistenza di diversi
orientamenti sulla questione proposte dalla ricorrente. Essa
lamenta la mancata applicazione, da parte della stazione
appaltante, della norma di cui all’articolo 186-bis, comma
sesto, R.d. n. 267/1942 secondo cui l’impresa in concordato
con continuità aziendale può concorrere nelle gare per
pubblici appalti purché non rivesta la qualità di
mandataria, come la controinteressata nel caso di specie.
L’articolo 186-bis, e con esso l’istituto del concordato con
continuità aziendale, è stato inserito nella legge
fallimentare dall’articolo 33, comma 1, lett. h), del
decreto legge 23.06.2012, n. 83 convertito nella legge
07.08.2012, n. 134.
Secondo una recente interpretazione l’omologazione del
concordato, che è avvenuta nel caso di specie con decreto
del Tribunale di Genova 24.11.2014, chiude la procedura
concordataria a norma dell’art. 181 R.d. n. 267/1942; a
seguito di tale provvedimento l’imprenditore ritorna in
bonis e, pertanto, non vi è ragione di limitarne
l’attività. L'art. 181 prevede genericamente che "la
procedura di concordato preventivo si chiude... con
l'omologazione" senza operare alcuna distinzione,
pertanto, intervenuto il decreto di omologazione del
Tribunale l'impresa non è più "in stato" di
concordato né sarebbe più "in corso" la relativa
procedura. Ne segue che non operano i divieti di legge con
riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare e
neppure sussistono gli obblighi documentali che sarebbero
esigibili limitatamente alle imprese che siano "in stato"
o "in corso" di concordato (C.d.S. V, 29.05.2018 n.
3225).
In senso contrario, è stato stabilito che la chiusura del
concordato la quale, ai sensi dell'art. 181 della legge
fallimentare, fa seguito alla definitività del decreto o
della sentenza di omologazione, pur determinando la
cessazione del regime di amministrazione dei beni previsto,
durante il corso della procedura, dall'art. 167 non comporta
(salvo che alla data dell'omologazione il concordato sia
stato già interamente eseguito) l'acquisizione in capo al
debitore della piena disponibilità del proprio patrimonio.
Questo infatti resta vincolato all'attuazione degli obblighi
da lui assunti con la proposta omologata, dei quali il
Commissario Giudiziale è tenuto a sorvegliare l'adempimento
secondo le modalità stabilite nella sentenza (o nel decreto)
di omologazione. Ne segue che la fase di esecuzione, nella
quale si estrinseca l'adempimento del concordato, non può
ritenersi scissa, e come a sé stante, rispetto alla fase
procedimentale che l'ha preceduta (Cass. I, ord.za
10.01.2018 n. 380) e non vi sarebbe quindi ragione per non
ritenere operanti anche in tale fase i divieti di legge con
riferimento alla partecipazione alle pubbliche gare.
Ritiene il Collegio che la questione debba essere risolta
non indagando gli aspetti civilistici che regolamentano
l’impresa ammessa al concordato preventivo con continuità
aziendale, bensì a partire dal dato testuale normativo.
Le cause di esclusione dalle procedure per l’affidamento dei
contratti pubblici, sotto il profilo (della mancanza) dei
necessari requisiti soggettivi, sono stabilite dall’articolo
80 del Codice dei contratti pubblici. Per quanto rileva
nella presente sede, la disposizione di cui al comma 5,
lett. b), del medesimo statuisce che devono essere escluse
dalla partecipazione alle gare d’appalto, tra le altre, le
imprese che si trovino in stato di concordato preventivo “salvo
il caso di concordato con continuità aziendale” e “fermo
restando quanto previsto dall’articolo 110” del medesimo
Codice. La norma quindi esclude dal proprio ambito di
applicazione e, con ciò, dal novero delle circostanze
espulsive la procedura di concordato con continuità
aziendale.
Si manifesta quindi un contrasto tra questa disposizione e
quella contenuta nella legge fallimentare, secondo cui alle
imprese ammesse al concordato con continuità aziendale è
interdetto partecipare alle gare d’appalto quali mandatarie
di un raggruppamento temporaneo di imprese.
Il conflitto tra le norme può essere risolto secondo il
criterio cronologico.
La disposizione della legge fallimentare, come sopra citato,
è venuta alla luce con il decreto legge 23.06.2012, n. 83
convertito nella legge 07.08.2012, n. 134.
La norma di cui all’articolo 80, comma 5, lett. b), del
Codice dei contratti pubblici è invece venuta alla luce con
il d.lgs. n. 50/2016 e, quindi, successivamente alla prima.
Questa pertanto, in base al criterio cronologico di
soluzione dei conflitti tra norme, deve ritenersi
implicitamente abrogata.
La disposizione di cui al citato art. 80, comma 5, lett. b)
d.lgs. n. 50/2016 ha innovato rispetto a quanto prevedeva il
previgente d.lgs. 12.04.2006, n. 163 che all’articolo 38,
comma 1, lett. a), comminava l’esclusione alle imprese che
si trovassero in stato di concordato preventivo, senza
effettuare alcuna distinzione. La differenza tra il
precedente e l’attuale Codice dei contratti pubblici va
interpretato quale indice della volontà legislativa di
ammettere alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici
le imprese che si trovino in concordato preventivo con
continuità aziendale, salva restando la necessità di
autorizzazione del giudice delegato (elemento che non è in
discussione nella presente controversia): in tali termini
può essere interpretato il rimando effettuato dal citato
articolo 80, comma 5, lett. b) del Codice dei contratti
pubblici al proprio articolo 110 il quale, al comma 3,
prevede che “il curatore del fallimento, autorizzato
all'esercizio provvisorio, ovvero l'impresa ammessa al
concordato con continuità aziendale, su autorizzazione del
giudice delegato… possono:
a) partecipare a procedure di affidamento di concessioni e appalti
di lavori, forniture e servizi ovvero essere affidatario di
subappalto;
b) eseguire i contratti già stipulati dall'impresa fallita o
ammessa al concordato con continuità aziendale”.
La sentenza del Consiglio di Stato 03.01.2019, n. 69, citata
dal procuratore della ricorrente in udienza a sostegno delle
proprie ragioni, è inconferente rispetto al caso di specie
poiché afferma la necessità, per l’impresa ammessa al
concordato preventivo, di ottenere una preventiva
autorizzazione giudiziaria a partecipare alle gare per
l’affidamento dei contratti pubblici (che può essere anche
contenuta nel decreto di omologazione): questo elemento non
è in discussione nel caso di specie.
Sono poi irrilevanti eventuali inadempimenti della
controinteressata al piano concordatario, finché non sia
stata giudiziariamente dichiarata la risoluzione del
concordato. Le ragioni del piano di riparto presentato dalla
controinteressata il 28.12.2018 non possono essere oggetto
di cognizione nella presente sede e devono essere valutate
in sede concordataria, come essa correttamente pretende;
diversamente opinando si verificherebbe una sovrapposizione
tra il Giudice Amministrativo e il Giudice Fallimentare con
uno straripamento di potere giurisdizionale a danno di
quest’ultimo.
Per tali ragioni, il primo motivo di gravame deve essere
respinto. |
APPALTI:
Esclusione dalla gara conseguente ad accertamento della non
spettanza di una agevolazione.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Accertamento della non spettanza di una
agevolazione - Avvisi di accertamento – Conseguenza.
Gli atti comunque denominati con cui
si accerti, da parte dell’amministrazione tributaria, la non
spettanza di una agevolazione rientrano nella categoria
giuridica degli “avvisi di accertamento”, dovendo, però, al
contempo rilevarsi che tali particolari atti, ove
esauriscano il proprio contenuto ricostruttivo nella sola
negazione del credito dichiarato dal contribuente,
tradiscono una dimensione giuridica non autosufficiente ai
fini dell’esclusione da una gara pubblica, per potere
esprimere appieno una compiuta pretesa impositiva, di
ulteriori passaggi valutativi che, nel modello legale di
riferimento, vengono affidati ad ulteriori e successivi
provvedimenti secondo lo schema della fattispecie a
formazione progressiva (1).
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(1)
Ha chiarito la Sezione che l’effetto di accertamento che si
riconnette alla revoca del credito di imposta non può dirsi
completo in quanto non è ancora espressione di una pretesa
tributaria compiutamente e definitivamente stabilita,
occorrendo in vista del relativo recupero accertare l’entità
del dovuto in ragione anche delle modalità e dei tempi di
concreto utilizzo del credito.
Tanto è evincibile già dalla piana lettura dell’art. 8, d.m.
311 del 03.08.1998 che, a valle della revoca parziale o
totale del credito d’imposta operata dal Centro di servizio
delle imposte dirette e indirette di Pescara (comma 1), fa
seguire un distinto e successivo snodo procedimentale avente
ad oggetto il recupero delle somme versate in meno o del
maggior credito riportato, nonché l'applicazione delle
sanzioni connesse alle singole violazioni, affidandone il
relativo incombente all’ufficio delle entrate competente in
ragione del domicilio fiscale dell'impresa.
E’ pur vero che, in siffatte evenienze, la pretesa
tributaria confluita nell’atto di recupero non integra una
pretesa completamente nuova rispetto a quella originaria
(Cass. civ., sez. V, 12.02.2013, n. 3343) e, pertanto,
l’atto di recupero può essere impugnato solo per vizi
propri, però è di tutta evidenza che solo a tale ulteriore
manifestazione provvedimentale si correla –per effetto della
definizione degli elementi costitutivi di siffatta pretesa–
la liquidazione dell’importo dovuto e la indicazione
dell’ammontare dei relativi accessori (interessi e
sanzioni), con conseguente emersione solo in questa fase di
un’obbligazione tributaria contenutisticamente determinata.
Ed, invero, sebbene gli avvisi di recupero non costituiscano
accertamenti di imponibili o maggiori imponibili, tuttavia
essi contribuiscono a definire, attraverso il
disconoscimento del credito di imposta, l'entità della somma
concretamente dovuta dal contribuente, cosicché anche tali
avvisi implicano accertamenti della debenza del tributo
(Cass. civ., sez. V, 07.07.2017, n. 16761).
Ed è nella suddetta ottica che il legislatore, all’art. 1,
comma 421, l. n. 311 del 30.12.2004 ha previsto che “…per
la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto
o in parte, anche in compensazione ai sensi dell'articolo 17
del decreto legislativo 09.07.1997, n. 241, e successive
modificazioni, nonché per il recupero delle relative
sanzioni e interessi l'Agenzia delle entrate può emanare
apposito atto di recupero motivato da notificare al
contribuente con le modalità previste dall'articolo 60 del
citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del
1973”.
Ciò a conferma della valenza provvedimentale dell’atto di
recupero che si ascrive alla stessa logica e riflette la
stessa natura degli avvisi di accertamento in quanto ad esso
si riconnette, come già sopra anticipato, la condivisione
dei tratti tipici caratterizzanti l’esercizio della funzione
impositiva che implica l’accertamento del credito da
recuperare e dei relativi accessori.
Tale atto è, dunque, un provvedimento equiparabile nella sua
natura impositiva all’avviso di accertamento e non ha natura
di mera esecuzione, costituendo anzi il titolo per procedere
ad attività di riscossione che, a norma del comma 422
dell’art. 1, l. n. 311 del 2004, resta possibile solo “in
caso di mancato pagamento, in tutto o in parte, delle somme
dovute entro il termine assegnato dall'ufficio, comunque non
inferiore a sessanta giorni”.
Manca, in definitiva, una pretesa tributaria “compiutamente”
e definitivamente stabilita (importo da recuperare,
interessi e sanzioni) e, come tale, divenuta esigibile.
Quanto fin qui evidenziato impedisce, in apice, di
configurare una violazione grave e definitivamente accertata
ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 80, comma 4,
d.lgs. n. 50 del 2016: ed, invero, per concretare la detta
fattispecie occorre, anzitutto, che sia partecipata al
contribuente una pretesa creditoria di natura tributaria
recante un credito certo e definito nel suo ammontare ed il
conseguente inadempimento del contribuente. Secondo
l’orientamento espresso da questo Consiglio di Stato (Cons.
St. n. 59 del 2018 e
n. 856 del 2018) “costituiscono violazioni
definitivamente accertate quelle relative all’obbligo di
pagamento di debiti per imposte e tasse certi, scaduti ed
esigibili”.
Si è ancora di recente precisato che, in sede di gara
pubblica, ai fini del possesso dei requisiti previsti
dall'art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, la definitività
dell'accertamento tributario decorre non dalla notifica
della cartella esattoriale -in sé, semplice atto con cui
l'agente della riscossione chiede il pagamento di una somma
di denaro per conto di un ente creditore, dopo aver
informato il debitore che il detto ente ha provveduto
all'iscrizione a ruolo di quanto indicato in un precedente
avviso di accertamento- bensì dalla comunicazione di quest'ultimo;
la cartella di pagamento (che infatti non è atto del
titolare della pretesa tributaria, ma del soggetto
incaricato della riscossione) costituisce solo uno strumento
in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura
sostanziale, cioè non possiede alcuna autonomia che consenta
di impugnarla prescindendo dagli atti in cui l'obbligazione
è stata enunciata, laddove è l'avviso di accertamento l'atto
mediante il quale l'ente impositore notifica formalmente la
pretesa tributaria al contribuente, a seguito di un'attività
di controllo sostanziale (Cons. St., sez. V, 12.02.2018, n.
856; id. 14.12.2018, n. 7058; id. 03.04.2018, n. 2049).
Tanto, però, è a dirsi quando l’accertamento rifletta con
compiutezza i contenuti dell’obbligazione tributaria,
indicando il debito di imposta (recte il credito da
recuperare) ed i relativi accessori, evenienza qui non in
rilievo, non essendo nemmeno noto –prima dell’emissione
dell’atto di recupero- l’ammontare delle somme concretamente
dovute, evenienza questa da cui non è possibile invece
prescindere come fatto palese anche dalla piana lettura
dell’ultimo periodo di cui all’articolo 80, comma IV, a
mente del quale Il presente comma non si applica quando
l'operatore economico ha ottemperato ai suoi obblighi
pagando o impegnandosi in modo vincolante a pagare le
imposte o i contributi previdenziali dovuti, compresi
eventuali interessi o multe, purché il pagamento o l'impegno
siano stati formalizzati prima della scadenza del termine
per la presentazione delle domande.
E’, in definitiva, di tutta evidenza, alla stregua di una
lettura sistemica delle disposizioni compendiate nel comma 4
dell’art. 80, che, per potere operare la clausola espulsiva
connessa ad infrazioni di natura tributaria, è necessario,
da un lato, che il relativo credito sia già definito quanto
a sorta principale ed “eventuali interessi o multe” e
che, ciò nondimeno, la parte sia, comunque, rimasta
colpevolmente inadempiente (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 02.04.2019 n. 2183 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Risarcimento danni per illegittima esclusione da gara
pubblica.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Illegittima esclusione dalla gara –
Quantificazione – Criterio.
Il danno risarcibile connesso ad una
procedura di gara dalla quale la concorrente stata esclusa
non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate
dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo, id est
l’interesse appunto a non subire indebite interferenze
nell’esercizio della libertà negoziale (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che mentre i danni da mancata
aggiudicazione sono parametrati al c.d. interesse positivo e
consistono nell'utile netto ritraibile dal contratto, oltre
che nei pregiudizi di tipo curriculare e all'immagine
commerciale della società, ingiustamente privata di una
commessa pubblica, nel caso di responsabilità
precontrattuale i danni sono limitati al solo interesse
negativo, ravvisabile nel caso delle procedure ad evidenza
pubblica nelle spese inutilmente sopportate per parteciparvi
e nella perdita di occasioni di guadagno alternative (Cons.
St., sez. V, 03.01.2019, n. 69; id.
27.03.2017, n. 1364; id.,
sez. IV, 20.02.2014, n. 790; id.,
V, 06.03.2013, n. 1357).
La Sezione ritiene che correttamente è stato, dunque,
escluso, in primo grado, il danno curriculare dal novero
delle voci risarcibili.
Del pari, condivisibile e meritevole di conferma deve
ritenersi l’approdo decisorio cui è giunto il giudice di
prime cure nella parte in cui ha rilevato la mancanza di
conferenti elementi di prova a sostegno della lamentata
perdita di chances.
Era, invero, onere della parte deducente comprovare,
quantomeno con un principio di prova, le possibili,
alternative occasioni di guadagno cui l'operatore leso
avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso
dell'amministrazione, indicandole e comprovandone la
concreta praticabilità, essendo di tutta evidenza come
siffatte evenienze, ricadendo comunque nella sfera di
signoria dell’interessato, avrebbero dovuto essere allegate
e circostanziate onde renderne obiettiva evidenza in vista
del conseguimento del rivendicato ristoro sostitutivo (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 02.04.2019 n. 2181 -
commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Con riguardo alla legittimazione a presentare la
domanda di sanatoria, la giurisprudenza precisa che “In caso di
pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda
di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in
sanatoria di interventi già realizzati- dovrà
necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti
vantanti un diritto di proprietà sull'immobile, potendosi
ritenere d'altra parte legittimato alla presentazione della
domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente
nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene
consenta di supporre l'esistenza di una sorta di cd. pactum
fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari”.
Va anche detto che “potenziale responsabile dell'abuso
edilizio e, quindi, legittimato (ex art. 36 DPR 380/2001) a
presentare istanza di sanatoria può essere non solo il
proprietario o altro soggetto che vanti, sull'area, un
diritto reale o obbligatorio, ma anche soggetti che, in
relazione al loro rapporto privilegiato o comunque
qualificato con il bene, possano avere avuto la possibilità
di realizzare l'abuso”.
---------------
Con ricorso notificato a mezzo servizio postale il 16/18.01.2018 e depositato il successivo giorno 31, la
società GE.CO.P. a r.l., titolare del supermercato (media
struttura di vendita al dettaglio di prodotti alimentari)
sito nel Comune di Piedimonte San Germano, ha impugnato il
provvedimento descritto in epigrafe, con cui il Comune di
Piedimonte San Germano ha respinto la SCIA presentata dalla
ricorrente in data 01.08.2017 per la sanatoria delle opere
indicate nei verbali di accertamento prot. 9060 del
24.09.2015 e prot. 10359 del 30.10.2015, e annullato in
autotutela l’eventuale atto di assenso formatosi.
2) In particolare, l’Amministrazione contesta il
posizionamento sull’area pertinenziale al fabbricato a
destinazione commerciale delle seguenti opere:
- struttura metallica coperta con lastre di plexiglas ad uso
ricovero carrelli avente dimensioni in pianta di ml
2,28 x 4,35;
- soppalco in ferro avente dimensioni in pianta di ml.
5,10 x 1,08 x alt. 1,63;
- ventola di raffreddamento impianti, avente le dimensioni
di ml. 5,10 x 0,55 x alt. 2,22;
- posizionamento a terra di n. 2 motori aventi le dimensioni
in pianta di ml. 1,38 x 0,75 x alt. 1,32.
...
6) Il ricorso è fondato.
7) Il Comune di Piedimonte San Germano ha respinto la SCIA
in sanatoria presentata in data 01.08.2017 per una tettoietta
per ricovero carrelli di circa 10 mq su pianta, un soppalco
in ferro di circa 5 mq x alt. 1,63, una ventola di
raffreddamento impianti, di circa mq 2,50 x alt. 2,22 e n. 2
motori aventi le dimensioni in pianta di circa mq 1,03 x
alt. 1,32, ritenendo che tali opere non sarebbero
configurabili come volumi tecnici ai sensi dell’art. 5, lett.
f), delle NTA del PRG e non sarebbero assentibile in ragione
della esistenza sull’area di vincolo paesaggistico e della
opposizione di alcuni comproprietari.
Tuttavia, le motivazioni addotte dall’Amministrazione per
giustificare il diniego sono tutte destituite di fondamento.
8) Con riguardo alla legittimazione a presentare la domanda
di sanatoria, la giurisprudenza precisa che “In caso di
pluralità di proprietari del medesimo immobile, la domanda
di rilascio di titolo edilizio -sia esso o meno titolo in
sanatoria di interventi già realizzati- dovrà
necessariamente provenire congiuntamente da tutti i soggetti
vantanti un diritto di proprietà sull'immobile, potendosi
ritenere d'altra parte legittimato alla presentazione della
domanda il singolo comproprietario solo ed esclusivamente
nel caso in cui la situazione di fatto esistente sul bene
consenta di supporre l'esistenza di una sorta di cd. pactum
fiduciae intercorrente tra i vari comproprietari” (Consiglio
di Stato sez. IV, 07/09/2016, n. 3823).
Nel caso di specie, è noto al Collegio (cfr. ric. Rg. 739/17
deciso nella medesima camera di consiglio) che la ricorrente
aveva stipulato contratto di locazione in data 15.01.1996 che
le conferiva l’uso esclusivo del supermarket e dell’area pertinenziale esterna, nonché l’autorizzava a eseguire ogni
intervento edile (anche esterno al fabbricato) funzionale
all’attività commerciale (cfr. art. 6). Pertanto, è evidente
che la GE.CO.P., era implicitamente legittimata dagli altri
comproprietari del compendio a presentare richiesta dei
titoli edilizi necessari per la realizzazione delle opere,
come quelle in argomento, funzionali all’attività
commerciale.
Inoltre, va detto che con sentenza n. 860/13 del 23.10.2013,
immediatamente esecutiva ai sensi dell’art. 282 c.p.c., il
Tribunale di Cassino aveva assegnato in via esclusiva ai
soci della società ricorrente la proprietà dell’area sulla
quale è collocata la passerella.
La sentenza, peraltro, nelle more del giudizio è diventata
definitiva a seguito della pronuncia della Corte di Appello
di Roma n. 5144 del 24.07.2018 che ha dichiarato l’estinzione
del giudizio.
In ogni caso, va anche detto che “potenziale responsabile
dell'abuso edilizio e, quindi, legittimato (ex art. 36 DPR
380/2001 e art. 49 l.reg. n. 16 del 2008) a presentare
istanza di sanatoria può essere non solo il proprietario o
altro soggetto che vanti, sull'area, un diritto reale o
obbligatorio, ma anche soggetti che, in relazione al loro
rapporto privilegiato o comunque qualificato con il bene,
possano avere avuto la possibilità di realizzare l'abuso”
(TAR Genova, sez. I , 26/02/2015, n. 235) (TAR Lazio-Latina,
sentenza 02.04.2019 n. 218 - link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs.
n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del
suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità
oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo
di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione
delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e
preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti.
Per
accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli
organi preposti al controllo svolgano approfonditi
accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati,
di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a
carico dei proprietari delle aree.
---------------
1. Con il ricorso in esame è contestata la legittimità
dell’ordinanza sindacale n. 3 dell’08.01.2018, recante
l’ordine rivolto al sig. Fr.Bo., ai sensi e per gli effetti
dell’art. 192, commi 1 e 3, del Decreto Legislativo n. 152
del 03.04.2006, di provvedere entro trenta giorni alla messa
in sicurezza, rimozione e smaltimento di rifiuti sversati
nella stradina interpoderale di accesso al proprio fondo,
sito in Gricignano di Aversa.
2. A fondamento del gravame viene dedotto un unico
articolato motivo con cui ci si duole della violazione e
falsa applicazione di legge -segnatamente dell'art. 192,
comma 3, del d.lgs. n. 152/2006 e dell’artt. 3 e ss. della
legge n. 241/1990- nonché dell’eccesso di potere per carenza
di istruttoria, difetto di motivazione ed errore sui
presupposti.
In tesi del ricorrente -questo in estrema sintesi il
contenuto delle doglianze- il provvedimento impugnato
sarebbe palesemente illegittimo per non aver
l’Amministrazione procedente dato conto in motivazione dei
presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche poste alla
base della decisione, essendogli stato imputato l’onere
della rimozione dei rifiuti sversati da terzi, prescindendo
da ogni tipo di accertamento di responsabilità a titolo di
dolo o colpa a suo carico, peraltro in assenza della
necessaria partecipazione dei proprietari allo svolgimento
del sopralluogo, contrariamente a quanto disposto dall'art.
192, comma 3, che sancisce che gli accertamenti siano
effettuati "in contraddittorio con i soggetti interessati".
...
5. Il ricorso è fondato.
6. Deve anzitutto osservarsi che l’ordinanza gravata è
riconducibile, conformemente al contenuto ed al fine cui è
diretta, all’ordinario potere d’intervento attribuito al
Sindaco dall’art. 192 del Codice dell’Ambiente, in caso di
accertato abbandono o deposito incontrollato di rifiuti.
6.1 In forza dell’espresso disposto dell’art. 192 del D.Lgs.
n. 152 del 2006, il proprietario risponde della bonifica del
suolo di sua proprietà non a titolo di responsabilità
oggettiva ma soltanto ove responsabile quanto meno a titolo
di colpa, anche omissiva, per non aver approntato l’adozione
delle cautele volte a custodire adeguatamente la proprietà e
preservarla dall’abusivo abbandono dei rifiuti. Per
accertare la rimproverabilità della condotta occorre che gli
organi preposti al controllo svolgano approfonditi
accertamenti in contraddittorio con i soggetti interessati,
di talché, in mancanza, non possono porsi incombenti a
carico dei proprietari delle aree (ex multis, C.d.S.
sez. V, 17.07.2014, n. 3786; TAR Campania, Napoli, sez. V,
03.10.2018, n. 5783; TAR Puglia, Bari, sez. I, 24.03.2017,
n. 287 e 30.08.2016, n. 1089).
6.2 Così qualificata l’ordinanza de qua ed
individuati i presupposti per la sua adozione, va rimarcato
che, nel caso di specie, la stessa non è stata preceduta da
adeguata istruttoria, di talché non può dirsi accertato
l’elemento soggettivo della responsabilità.
Invero, è
mancato lo svolgimento di specifici accertamenti in
contraddittorio con l’interessato da parte dei soggetti
preposti al controllo prima di imporre l’obbligo di
rimozione, smaltimento o avvio al recupero dei rifiuti, che,
in subiecta materia, si aggiunge all’onere di
comunicazione di avvio del procedimento, ponendosi quale
specifico dovere dell'Amministrazione e presupposto per
l’adozione della relativa ordinanza, in funzione
dell’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o
quantomeno della colpa, che, come visto, deve sorreggere la
condotta omissiva secondo l’interpretazione fornita dalla
richiamata giurisprudenza.
6.3 Peraltro, nemmeno risulta adeguatamente valutata
dall’amministrazione la circostanza che sia stata apposta
una sbarra per impedire l’accesso alla proprietà del
ricorrente dalla stradina interpoderale; circostanza che
invece attesta l’adozione di misure volte all'adempimento
dell’obbligo di diligenza nella custodia del bene,
risultando affatto plausibile che la stessa sia stata
spostata ed oltrepassata furtivamente al momento dello
sversamento.
7. In conclusione il ricorso è accolto nei termini di cui in
motivazione, con conseguente annullamento dell’ordinanza
sindacale gravata, salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Autorità amministrativa (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 01.04.2019 n. 1802 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Le circolari
amministrative (sulla cui natura è nota la varietà delle
opinioni dottrinarie e giurisprudenziali, varietà dovuta
peraltro alla molteplicità delle fattispecie che vengono
riunite sotto quest’unica denominazione, come riconosce
esplicitamente l’art. 26 della legge 07.08.1990, n. 241)
costituiscono atti interni, diretti agli organi ed agli
uffici periferici, al fine di disciplinarne l'attività e
vincolano, conseguentemente, i comportamenti degli organi
operativi sottordinati, ma non i soggetti destinatari
estranei all’Amministrazione.
Le circolari, invero, non possono né contenere disposizioni
derogative di norme di legge, né essere considerate alla
stregua di norme regolamentari vere e proprie (che, come
tali vincolano tutti i soggetti dell'ordinamento), essendo
dotate di efficacia esclusivamente interna.
In sintesi, le circolari amministrative non hanno valore
normativo o provvedimentale e anche la giurisprudenza di
legittimità costantemente afferma che l’interpretazione
ministeriale, sia essa contenuta in circolari o in
risoluzioni, non vincola né le parti né i giudici, né infine
costituisce fonte di diritto.
---------------
Va peraltro evidenziato che la circostanza che
l’interpretazione avversata dal Comune ricorrente è
racchiusa in circolari del Ministero dell’Interno (che sono
state, per l’appunto, espressamente impugnate) è del tutto
irrilevante ai fini di interesse.
E’ noto, invero, che le circolari amministrative (sulla cui
natura è nota la varietà delle opinioni dottrinarie e
giurisprudenziali, varietà dovuta peraltro alla molteplicità
delle fattispecie che vengono riunite sotto quest’unica
denominazione, come riconosce esplicitamente l’art. 26 della
legge 07.08.1990, n. 241) costituiscono atti interni,
diretti agli organi ed agli uffici periferici, al fine di
disciplinarne l'attività e vincolano, conseguentemente, i
comportamenti degli organi operativi sottordinati, ma non i
soggetti destinatari estranei all’Amministrazione (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 17.11.2015, n. 5231; Cons. Stato, sez.
IV, 12.06.2012, n. 3457).
Le circolari, invero, non possono né contenere disposizioni
derogative di norme di legge, né essere considerate alla
stregua di norme regolamentari vere e proprie (che, come
tali vincolano tutti i soggetti dell'ordinamento), essendo
dotate di efficacia esclusivamente interna (arg. ex Cass.
civ., Sez. Un., 02.11.2007, n. 23031).
In sintesi, le circolari amministrative non hanno valore
normativo o provvedimentale (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
04.12.2017, n. 5664; Cons. Stato, sez. IV, 28.01.2016, n.
310) e anche la giurisprudenza di legittimità costantemente
afferma che l’interpretazione ministeriale, sia essa
contenuta in circolari o in risoluzioni, non vincola né le
parti né i giudici, né infine costituisce fonte di diritto
(Cass. civ., sez. lav., 05.10.2018, n. 24585; Cass. civ.,
sez. lav., 12.04.2017, n. 9400) (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 01.04.2019 n. 397 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione in zona agricola di abitazioni destinate
ai dipendenti degli imprenditori agricoli è consentita
dall’art. 59, comma 1, della LR 12/2005 della Lombardia. Tali abitazioni si
aggiungono a quelle destinate alle esigenze personali degli
imprenditori e dei rispettivi familiari, e dunque
costituiscono un potenziale moltiplicatore degli
insediamenti abitativi in zona agricola, con relativo
consumo di suolo.
Occorre pertanto applicare anche agli alloggi dei
dipendenti i requisiti previsti dall’art. 60, comma 2-b, della
LR 12/2005, il quale subordina il permesso di costruire
all'accertamento da parte degli uffici comunali
dell'effettiva esistenza e del funzionamento dell'azienda
agricola. È infatti evidente il rischio di comportamenti
opportunistici, qualora mancasse un controllo sulla reale
esigenza per l’azienda agricola di assumere e di ospitare
stabilmente dei dipendenti.
---------------
Il punto è dunque dimostrare che l’azienda agricola, per
il suo attuale funzionamento o in relazione a investimenti
già effettuati, ha la necessità di dare alloggio ai
lavoratori.
L’alloggio, per diventare il motivo che
legittima la richiesta del titolo edilizio, deve essere
molto più di un semplice beneficio contrattato con un
potenziale lavoratore. Il consumo di suolo coinvolge
interessi urbanistici e ambientali di natura pubblica, e non
può dipendere da accordi tra privati su aspetti della
retribuzione.
È necessaria invece la prova che non è
possibile, per ragioni produttive, rinunciare alla presenza
continuativa di uno o più dipendenti all’interno
dell’azienda agricola per la maggior parte dell’anno, con
proiezione pluriennale, e che non è ragionevole aspettarsi
di reperire manodopera sul mercato del lavoro senza offrire
la disponibilità dell’alloggio.
---------------
... per l'annullamento:
- del permesso di costruire n. 856/2016, rilasciato il 28.06.2016, riguardante una nuova costruzione destinata ai
dipendenti dell’azienda agricola dei ricorrenti, nella parte
in cui subordina l’edificazione a una verifica da parte del
Comune sulla regolarità del contratto di lavoro;
- della nota del responsabile del procedimento di data 11.07.2016, che, con riferimento al permesso di costruire n.
856/2016, sospende per un massimo di 60 giorni i termini ex
art. 15 del DPR 06.06.2001 n. 380, in considerazione
della rinuncia all’incarico da parte del progettista, del
direttore dei lavori e del responsabile della sicurezza;
...
Sugli alloggi per i dipendenti
8. La realizzazione in zona agricola di abitazioni destinate
ai dipendenti degli imprenditori agricoli è consentita
dall’art. 59, comma 1, della LR 12/2005. Tali abitazioni si
aggiungono a quelle destinate alle esigenze personali degli
imprenditori e dei rispettivi familiari, e dunque
costituiscono un potenziale moltiplicatore degli
insediamenti abitativi in zona agricola, con relativo
consumo di suolo.
9. Occorre pertanto applicare anche agli alloggi dei
dipendenti i requisiti previsti dall’art. 60, comma 2-b, della
LR 12/2005, il quale subordina il permesso di costruire
all'accertamento da parte degli uffici comunali
dell'effettiva esistenza e del funzionamento dell'azienda
agricola. È infatti evidente il rischio di comportamenti
opportunistici, qualora mancasse un controllo sulla reale
esigenza per l’azienda agricola di assumere e di ospitare
stabilmente dei dipendenti.
10. Il punto è dunque dimostrare che l’azienda agricola, per
il suo attuale funzionamento o in relazione a investimenti
già effettuati, ha la necessità di dare alloggio ai
lavoratori.
L’alloggio, per diventare il motivo che
legittima la richiesta del titolo edilizio, deve essere
molto più di un semplice beneficio contrattato con un
potenziale lavoratore. Il consumo di suolo coinvolge
interessi urbanistici e ambientali di natura pubblica, e non
può dipendere da accordi tra privati su aspetti della
retribuzione. È necessaria invece la prova che non è
possibile, per ragioni produttive, rinunciare alla presenza
continuativa di uno o più dipendenti all’interno
dell’azienda agricola per la maggior parte dell’anno, con
proiezione pluriennale, e che non è ragionevole aspettarsi
di reperire manodopera sul mercato del lavoro senza offrire
la disponibilità dell’alloggio.
11. La relazione dell’ing. Bo. allegata dai ricorrenti
non contiene indicazioni specifiche su questi problemi.
Correttamente, quindi, il Comune ha stabilito di non
autorizzare immediatamente la nuova edificazione
residenziale sulla base della semplice prospettazione di un
evento futuro, quale l’assunzione di un dipendente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 01.04.2019 n. 297 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Va disattesa la tesi secondo cui sulle istanze di
proroga del termine di ultimazione dei lavori si possa
formare il silenzio-assenso.
Ed invero, l’art. 15 DPR n. 380/2001 statuisce che:
- dopo il decorso del termine di ultimazione dei lavori il
permesso di costruire “decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga”, specificando che “la proroga può
essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori” (comma 2);
- “la proroga dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei
lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano
essere iniziati o conclusi per iniziative
dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi
poi infondate” (comma 2-bis, inserito dall’art. 17, comma 1,
lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014);
- “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti
previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già
iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio” (comma 4).
---------------
La pronuncia dell’Amministrazione sulla domanda di proroga
dell’efficacia del permesso di costruire è di natura
discrezionale, in quanto, come desumibile anche dal verbo “può” usato nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001,
presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal
privato e il loro apprezzamento in termini di evento
oggettivamente impeditivo dell’avvio dell’edificazione, sicché non può formarsi il
silenzio-assenso sulle predette istanze di proroga.
Peraltro, la proroga di efficacia del permesso di costruire,
oltre ad assicurare al titolare dell’autorizzazione edilizia
la certezza del titolo, garantisce la certezza temporale
dell’attività di trasformazione edilizia del territorio
comunale e l’effettiva vigenza delle nuove norme
urbanistiche approvate successivamente al rilascio del
permesso di costruire, consentendo all’Amministrazione di
valutare l’oggettiva sussistenza delle cause, contemplate
dal citato art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, e/o di fatti
sopravvenuti estranei alla volontà e/o responsabilità del
richiedente, come la mole dell’opera da realizzare e/o
particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive, che
hanno impedito il completamento della costruzione ed il
tempo necessario occorrente per l’ultimazione dei lavori
oppure l’effettiva sussistenza delle fattispecie giuridiche
del factum principis e/o della forza maggiore, che hanno
reso oggettivamente impossibile il rispetto dei termini
stabiliti dal permesso di costruire. Sul punto è stato
statuito che:
● la crisi
economica del settore dell’edilizia non può giustificare il
mancato rispetto da parte del titolare del permesso di
costruire dell’obbligo di osservare i tempi di inizio e
completamento dei lavori e non è una valida ragione
opponibile all’inutile decorso di tali termini;
● la proroga di
efficacia del permesso di costruire non può essere
giustificata da motivi di carattere economico e/o
familiari.
Ne consegue che il suddetto art. 15, comma 2, DPR n.
380/2001, nella parte in cui specifica le ragioni che
consentono la proroga dei termini di efficacia del permesso
di costruire, deve essere interpretato restrittivamente,
giacché tale norma costituisce una deroga alla disciplina
generale dettata al fine di evitare che una edificazione
autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico
venga realizzata quando il mutato regime non lo consente
più.
Il suddetto comma 4 dell’art. 15 DPR n. 380/2001, è bene
ribadirlo, stabilisce espressamente che “il permesso decade
con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e
vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio”.
---------------
Nel merito, l’impugnazione con ricorso introduttivo del
provvedimento prot. n. 353 dell’08.01.2018 risulta infondata,
in quanto va disattesa la tesi del ricorrente, secondo cui
sulle suddette istanze di proroga del termine del 26.10.2013
di ultimazione dei lavori, autorizzati con il permesso di
costruire del 26.10.2010, si sarebbe formato il silenzio-assenso.
Ed invero, l’art. 15 DPR n. 380/2001 statuisce che:
- dopo il decorso del termine di ultimazione dei lavori il
permesso di costruire “decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga”, specificando che “la proroga può
essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti
sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del
permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari caratteristiche
tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive
emerse successivamente all'inizio dei lavori” (comma 2);
- “la proroga dei termini per l’inizio e l’ultimazione dei
lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano
essere iniziati o conclusi per iniziative
dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi
poi infondate” (comma 2-bis, inserito dall’art. 17, comma 1,
lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L. n. 164/2014);
- “il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti
previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già
iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio” (comma 4).
Può prescindersi dal contrasto giurisprudenziale se la
decadenza ex art. 15 DPR n. 380/2001 operi anche in assenza
di un apposito atto amministrativo di tipo ricognitivo (cfr.
C.d.S. Sez. IV Sent. n. 1520 del 15.04.2016; TAR Catanzaro Sez. II Sent. n. 1790 del 24.10.2018; TAR Lecce Sez. III
Sent. n. 131 dell’01.02.2018; TAR Salerno Sez. I Sent. n. 448
del 24.02.2016; TAR Catania Sez. I Sent. n. 528 del
16.02.2015; TAR Palermo Sez. II Sent. n. 746 del 14.03.2014;
TAR Lazio Sez. II-bis Sent. n. 5370 del 28.06.2005; TAR Bari Sez. II Sent. n. 668 del 21.02.2005), seguito da questo
Tribunale (cfr. TAR Basilicata Sent. n. 140 del 07.02.2017),
oppure risulti necessaria una formale dichiarazione
dell’effetto verificatosi direttamente ex se all’esito di un
apposito procedimento (cfr. C.d.S. Sez. VI Sent. n. 5285 del
15.11.2017; C.d.S. Sez. V Sent. n. 3612 del 26.06.2000; TAR
Lazio Sez. II-quater Sent. n. 9746 del 05.10.2018; TAR Lecce Sez. III Sent. n. 1454 del 21.09.2016), in quanto con il
provvedimento impugnato è stata anche dichiarata
l’inefficacia del citato permesso di costruire del
26.10.2010.
D’altronde, la pronuncia dell’Amministrazione sulla domanda
di proroga dell’efficacia del permesso di costruire è di
natura discrezionale, in quanto, come desumibile anche dal
verbo “può” usato nell’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001,
presuppone l’accertamento delle circostanze dedotte dal
privato e il loro apprezzamento in termini di evento
oggettivamente impeditivo dell’avvio dell’edificazione (cfr.
TAR Lecce Sez. I Sent. n. 603 del 10.04.2018; TAR Napoli Sez.
IV Sent. n. 1276 del 26.02.2018), sicché non può formarsi il
silenzio-assenso sulle predette istanze di proroga.
Peraltro, la proroga di efficacia del permesso di costruire,
oltre ad assicurare al titolare dell’autorizzazione edilizia
la certezza del titolo, garantisce la certezza temporale
dell’attività di trasformazione edilizia del territorio
comunale e l’effettiva vigenza delle nuove norme
urbanistiche approvate successivamente al rilascio del
permesso di costruire, consentendo all’Amministrazione di
valutare l’oggettiva sussistenza delle cause, contemplate
dal citato art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, e/o di fatti
sopravvenuti estranei alla volontà e/o responsabilità del
richiedente, come la mole dell’opera da realizzare e/o
particolari sue caratteristiche tecnico-costruttive, che
hanno impedito il completamento della costruzione ed il
tempo necessario occorrente per l’ultimazione dei lavori
oppure l’effettiva sussistenza delle fattispecie giuridiche
del factum principis e/o della forza maggiore, che hanno
reso oggettivamente impossibile il rispetto dei termini
stabiliti dal permesso di costruire (sul punto cfr. C.d.S. Sez. IV Sent. n. 1520 del 15.04.2016, secondo cui la crisi
economica del settore dell’edilizia non può giustificare il
mancato rispetto da parte del titolare del permesso di
costruire dell’obbligo di osservare i tempi di inizio e
completamento dei lavori e non è una valida ragione
opponibile all’inutile decorso di tali termini; TAR Veneto Sez. II Sent. n. 652 del
05.07.2017, secondo cui la proroga di
efficacia del permesso di costruire non può essere
giustificata da motivi di carattere economico e/o
familiari).
Ne consegue che il suddetto art. 15, comma 2, DPR n.
380/2001, nella parte in cui specifica le ragioni che
consentono la proroga dei termini di efficacia del permesso
di costruire, deve essere interpretato restrittivamente,
giacché tale norma costituisce una deroga alla disciplina
generale dettata al fine di evitare che una edificazione
autorizzata nel vigore di un determinato regime urbanistico
venga realizzata quando il mutato regime non lo consente
più.
Il suddetto comma 4 dell’art. 15 DPR n. 380/2001, è bene
ribadirlo, stabilisce espressamente che “il permesso decade
con l’entrata in vigore di contrastanti previsioni
urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e
vengano completati entro il termine di tre anni dalla data
di inizio”.
In ogni caso, deve affermarsi l’insussistenza dei
presupposti per ottenere la prima proroga, richiesta dal
ricorrente con la nota del 10/11.10.2013, concernente lo
spostamento del termine per l’esecuzione dei lavori dal
26.10.2013 al 26.10.2015.
Il ricorrente richiama in tale nota l’art. 30, comma 3,
primo periodo, D.L. n. 69/2013 conv. nella L. n. 98/2013, il
quale prevede che, “salva diversa disciplina regionale,
previa comunicazione del soggetto interessato, sono
prorogati di due anni i termini di inizio e di ultimazione
dei lavori di cui all’art. 15 DPR n. 380/2001, come indicati
nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi
antecedentemente all’entrata in vigore del presente decreto,
purché i suddetti termini non siano già decorsi al momento
della comunicazione dell’interessato e sempre che i titoli
abilitativi non risultino in contrasto, al momento della
comunicazione dell'interessato, con nuovi strumenti
urbanistici approvati o adottati”.
Nel caso di specie ricorre proprio quest’ultima circostanza
impeditiva della proroga ex lege, perché al momento della
presentazione dell’istanza di proroga del ricorrente del
10/11.10.2013 era già entrato in vigore il Regolamento
Urbanistico ex art. 16 L.R. n. 23/1999, approvato con Del.
C.C. n. 39 del 30.8.2012, recante nuove disposizioni
urbanistiche, contrastanti con il permesso di costruire del
26.10.2010.
Anche le successive istanze di proroga del 13.10.2015 e del
20/21.10.2016 risultano carenti dei presupposti, stabiliti
dall’art. 15, comma 2, DPR n. 380/2001, in quanto l’inerzia
e/o la mancata realizzazione da parte del ricorrente del
fabbricato, autorizzato con il rilascio del permesso di
costruire del 26.10.2010, entro il termine del 26.10.2013,
non risulta giustificata da “fatti sopravvenuti, estranei
alla volontà del titolare del permesso, oppure in
considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle
sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di
difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente
all'inizio dei lavori”.
Né sussiste la fattispecie giuridica del factum principis
e/o della forza maggiore, con riferimento alla quale il
comma 2-bis dell’art. 15 DPR n. 380/2001, inserito dall’art.
17, comma 1, lett. f, n. 2, D.L. n. 133/2014 conv. nella L.
n. 164/2014, prevede l’obbligo di concedere la proroga dei
termini di efficacia del permesso di costruire, limitandola,
però, alla fattispecie delle “iniziative
dell’Amministrazione o dell’Autorità Giudiziaria rivelatesi
poi infondate”, in quanto con l’Ordinanza contingibile ed
urgente ex art. 54 D.Lg.vo n. 267/2000 n. 20 dell’11.1.2012,
invocata dal ricorrente, il Sindaco di Lavello gli aveva
ingiunto di realizzare opere di messa in sicurezza, che sono
state realizzate soltanto nel 2016.
Mentre, per quanto riguarda la parte dell’impugnato
provvedimento prot. n. 353 dell’08.01.2018, che ha respinto in
maniera definitiva la SCIA del 27.10.2016, va precisato che,
anche se tale provvedimento dovesse essere qualificato come
annullamento della predetta SCIA del 27.10.2016, in ogni
caso non sussisterebbe la violazione del presupposto del
“termine ragionevole”, sancito dall’art. 21-nonies L. n.
241/1990 per l’esercizio del potere di autotutela, perché il
Responsabile del Settore Servizi al Territorio del Comune di
Lavello prima con le note del 29.12.2016 e del 30.12.2016
aveva sospeso “i lavori inerenti alla SCIA” ed aveva
“archiviato con esito negativo” la pratica e poi, dopo la
presentazione, in data 30.12.2016 ed in data 06.09.2017, da
parte del ricorrente di documentazione integrativa ed
ulteriori elaborati progettuali, con le successive note del
14.02.2017 e del 06.10.2017 aveva evidenziato il mancato
rispetto della L.R. 25/2009 (TAR Basilicata,
sentenza 30.03.2019 n. 328 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste alcun
dover di comunicazione dell’avvio del procedimento sanzionatorio
degli abusi edilizi.
Quanto alla censura di parte ricorrente
volta a lamentare l’intervenuta violazione del proprio
diritto di partecipazione al procedimento per effetto della
mancata comunicazione dell’avvio dello stesso, ritiene il
Collegio di doversi riportare al principio, ormai
consolidato in giurisprudenza, in base al quale l'esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione
e, pertanto, i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di
demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio
del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
Invero, a
seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-octies, secondo
comma, della legge n. 241 del 1990 (che ha recepito, sul
punto le indicazioni della giurisprudenza), a fronte di
attività interamente vincolata, quale quella di repressione
degli abusi edilizi, i vizi di carattere "formale"
-tra cui rientra pacificamente anche la violazione dell'art.
7, della legge n. 241- difettano ormai di capacità
invalidante, al cospetto dell'invarianza dell'esito
provvedimentale e del principio di "strumentalità delle
forme".
Consegue, dai principi sopra enunciati, che l'omessa
comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla
repressione di abusi edilizi non vizia il provvedimento
adottato, atteso il carattere vincolato dell'esercizio dei
poteri repressivi, laddove il provvedimento demolitorio o
ripristinatorio sia stato emesso per sanzionare
esclusivamente violazioni edilizie od urbanistiche e risulti
adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della
realizzazione di opere in assenza di titolo, con contestuale
richiamo alla normativa violata, costituendo atto doveroso e
vincolato nel contenuto, per cui non deve essere preceduto
da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da una
comunicazione ex art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990
(peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi alcuna
istanza di parte), anche in considerazione della
consequenziale intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies,
della medesima legge n. 241 del 1990.
La natura urgente e strettamente vincolata degli atti di
repressione degli abusi edilizi, essendo dovuti in assenza
di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio,
comporta che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario
che nessuna utilità potrebbero apportare ai fini
dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
---------------
2 – Come sopra dato brevemente atto dell’oggetto del
giudizio, ritiene il Collegio di dover delibare
l’infondatezza della proposta azione.
Va in primo luogo rilevato come il carattere abusivo delle
opere oggetto del gravato ordine di demolizione non sia
stato in alcun modo contestato da parte ricorrente, dovendo
conseguentemente affermarsi, in applicazione del principio
di non contestazione, che le stesse siano state realizzate
in assenza di un titolo edilizio legittimante e, come tali,
sono soggette al potere repressivo previsto dalla normativa
di riferimento.
Quanto alla censura di parte ricorrente volta a lamentare
l’intervenuta violazione del proprio diritto di
partecipazione al procedimento per effetto della mancata
comunicazione dell’avvio dello stesso, ritiene il Collegio
di doversi riportare al principio, ormai consolidato in
giurisprudenza, in base al quale l'esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce attività
vincolata e doverosa della Pubblica amministrazione e,
pertanto, i relativi provvedimenti, quale l'ordinanza di
demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui
adozione non è necessario l'invio di comunicazione di avvio
del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto (ex multis,
Consiglio di Stato, Sezione Quarta, 10.08.2011, n. 4764; TAR
Puglia, Lecce, 19.11.2018, n. 1710; TAR Campania, Napoli,
25.10.2018, n. 6218; TAR Lazio, Roma, sez. II-bis,
17.10.2018 , n. 10055; Consiglio di Stato, n. 4703 del 2017;
n. 4269 del 2017; n. 2065 del 2017; TAR Campania, Napoli, n.
1220 del 2017; n. 5555 del 2016; n. 4138 del 2016).
Trascura, invero, parte ricorrente di considerare come, a
seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21-octies, secondo
comma, della legge n. 241 del 1990 (che ha recepito, sul
punto le indicazioni della giurisprudenza), a fronte di
attività interamente vincolata, quale quella di repressione
degli abusi edilizi, i vizi di carattere "formale"
-tra cui rientra pacificamente anche la violazione dell'art.
7, della legge n. 241- difettano ormai di capacità
invalidante, al cospetto dell'invarianza dell'esito
provvedimentale e del principio di "strumentalità delle
forme" (ex multis Consiglio di Stato sez. IV,
22.09.2014, n. 4740) (TAR Umbria, Perugia, Sezione Prima,
26.01.2016, n. 52; in termini, TAR Puglia, Lecce, Sezione
III, 27.06.2018, n. 1075).
Consegue, dai principi sopra enunciati, che l'omessa
comunicazione di avvio del procedimento finalizzato alla
repressione di abusi edilizi non vizia il provvedimento
adottato, atteso il carattere vincolato dell'esercizio dei
poteri repressivi, laddove il provvedimento demolitorio o
ripristinatorio sia stato emesso per sanzionare
esclusivamente violazioni edilizie od urbanistiche e risulti
adeguatamente motivato a mezzo dell'affermazione della
realizzazione di opere in assenza di titolo, con contestuale
richiamo alla normativa violata, costituendo atto doveroso e
vincolato nel contenuto, per cui non deve essere preceduto
da un avviso di avvio del relativo procedimento, né da una
comunicazione ex art. 10-bis, della legge n. 241 del 1990
(peraltro, neppure ipotizzabile, non essendovi alcuna
istanza di parte), anche in considerazione della
consequenziale intangibilità ai sensi dell'art. 21-octies,
della medesima legge n. 241 del 1990.
La natura urgente e strettamente vincolata degli atti di
repressione degli abusi edilizi, essendo dovuti in assenza
di titolo per l'avvenuta trasformazione del territorio,
comporta che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario
che nessuna utilità potrebbero apportare ai fini
dell’adozione del provvedimento sanzionatorio.
Fermo, quindi, il principio in base al quale non sussiste
alcun dover di comunicazione dell’avvio del procedimento
sanzionatorio degli abusi edilizi, va rilevato, con
riferimento alla fattispecie in esame, che con
determinazione datata 19.09.2018 –regolarmente notificata
alla ricorrente– è stata disposta la sospensione dei lavori
e data puntuale comunicazione dell’avvio del procedimento di
repressione degli abusi, il che rende palese il carattere
meramente pretestuoso della doglianza, oltre che la sua non
veridicità in punto di fatto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non
incombe in capo all’Amministrazione comunale alcun dovere di
verifica della compatibilità edilizia ed urbanistica delle
opere abusivamente realizzate, essendo onere del privato
attivare i rimedi che l’ordinamento appresta ai fini della
sanatoria o dell’accertamento della conformità delle opere
abusive.
Ed invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che in tal caso
obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a
reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità,
nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che
rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato, costituendo l'abusività di
un'opera edilizia di per sé sola presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria senza
necessità di ulteriori accertamenti.
---------------
Avuto riguardo all’ulteriore profilo di censura, volto a
lamentare la mancata valutazione, da parte
dell’Amministrazione, della astratta sanabilità delle opere,
osserva il Collegio come non incomba in capo
all’Amministrazione comunale alcun dovere di verifica della
compatibilità edilizia ed urbanistica delle opere
abusivamente realizzate, essendo onere del privato attivare
i rimedi che l’ordinamento appresta ai fini della sanatoria
o dell’accertamento della conformità delle opere abusive.
Ed invero, in presenza di abusi edilizi, la vigente
normativa urbanistica non pone alcun obbligo in capo
all'autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di
demolizione, di verificarne la sanabilità ai sensi dell'art.
36, d.P.R. n. 380 del 2001. Tanto si evince chiaramente
dagli artt. 27 e 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che in tal caso
obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a
reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità,
nonché dallo stesso art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, che
rimette all'esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità
urbanistica ivi disciplinato, costituendo l'abusività di
un'opera edilizia di per sé sola presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria senza
necessità di ulteriori accertamenti (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'esistenza di un sequestro penale sul manufatto
abusivo oggetto di ingiunzione comunale di demolizione e di
ripristino dello stato dei luoghi non determina
l’illegittimità della sanzione, essendo comunque il soggetto
tenuto ad osservare un comportamento attivo e collaborativo
rivolto ad eliminare l'abuso perpetrato sollecitando il
dissequestro all'autorità giudiziaria allo scopo di poter
provvedere direttamente alla sua eliminazione.
Ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione di
un'opera edilizia abusivamente realizzata e della sua
eseguibilità è quindi irrilevante la pendenza di un
sequestro penale, potendo in ogni caso il destinatario dello
stesso chiedere ed ottenere il dissequestro da parte del
giudice penale ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p..
---------------
Con riferimento, infine, alla lamentata mancata
considerazione, da parte dell’Amministrazione, della
sottoposizione dell’immobile a sequestro giudiziario,
osserva il Collegio –in ciò discostandosi da quanto
affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza 17.05.2017
n. 2337– che l'esistenza di un sequestro penale sul
manufatto abusivo oggetto di ingiunzione comunale di
demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi non
determina l’illegittimità della sanzione, essendo comunque
il soggetto tenuto ad osservare un comportamento attivo e
collaborativo rivolto ad eliminare l'abuso perpetrato
sollecitando il dissequestro all'autorità giudiziaria allo
scopo di poter provvedere direttamente alla sua eliminazione
(ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 28.01.2016,
n. 283; TAR Campania, Salerno, 15.06.2018, n. 958; Napoli,
16.02.2018, n. 1049; TAR Puglia, Lecce, 14.02.2018, n. 275;
Cassazione Penale, sez. III, 14.01.2009, n. 9186).
Ai fini della legittimità dell'ordine di demolizione di
un'opera edilizia abusivamente realizzata e della sua
eseguibilità è quindi irrilevante la pendenza di un
sequestro penale, potendo in ogni caso il destinatario dello
stesso chiedere ed ottenere il dissequestro da parte del
giudice penale ai sensi dell'art. 85 disp. att. c.p.p.
In conclusione, tenuto conto del carattere abusivo delle
opere oggetto del gravato ordine di demolizione, la cui
realizzazione è peraltro proseguita nel tempo nonostante
l’intervento di sequestri probatori, e della palese
infondatezza e parziale pretestuosità delle censure
proposte, il ricorso deve essere rigettato (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-bis,
sentenza 29.03.2019 n. 4211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’onere di fornire la
prova dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul
privato e non sull’amministrazione che, in presenza di
un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla.
---------------
4 – L’appello avverso tale sentenza è parzialmente fondato
per le ragioni di seguito esposte.
In generale, deve ribadirsi che l’onere di fornire la prova
dell’epoca della realizzazione delle opere incombe sul
privato e non sull’amministrazione che, in presenza di
un’opera non assistita da un titolo edilizio, ha solo il
potere-dovere di sanzionarla (cfr. Cons. St., sez. VI,
20.12.2013, n. 6159; Cons. St., sez. V, 08.07.2013, n. 3596;
Cons. St. Sez. VI, n. 3177 del 18.07.2016).
4.1 - Nel caso di specie, contrariamente alla valutazione
del TAR, l’appellante ha tuttavia fornito plurimi elementi
concreti atti a corroborare la tesi che il capannone sia
stato edificato prima del 1967, e precisamente:
a) lo stesso risulta dal grafico catastale del 30.10.1969 n. 3909
nella consistenza attuale;
b) il comune di Pagani, in data 14.06.1971, ha approvato il
progetto di ampliamento, presentato dalla medesima società
proprietaria, in cui si evidenziava la parte in ampliamento
(da edificare) e la parte dell'opificio già esistente;
c) nel corso del 1971, allorché, dopo il rilascio della licenza n.
8/71, la società aveva in corso la realizzazione
dell'ampliamento, il privato confinante –tale Em.Tr.– in
data 28.09.1971 aveva presentato un esposto contestando le
violazioni edilizie commesse dalla società F.lli Cu., ma
nulla rilevava circa i capannoni (quelli prospicienti il
piazzale) comprendenti la parte per cui è causa;
d) la relazione di accertamento, seguita a tale esposto, aveva
effettivamente individuato delle difformità relative al
progetto di ampliamento, senza nulla contestare in
riferimento agli altri capannoni dell’intero complesso
industriale.
4.2 – Quanto all’argomento valorizzato dal giudice di primo
grado, facente leva sul fatto che i titoli edilizi sono
idonei ad assentire soltanto 5.545 metri quadri,
l’appellante ha chiarito che tale dato è relativo solo alla
parte in ampliamento (licenza 8/1971 ed ordinanza di
sanatoria del 14.05.1972), senza tener conto delle altre
superfici produttive originarie precedenti, realizzate nel
periodo 1965–1968 (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di
pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto
alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a)
autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b)
incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto
del territorio.
---------------
La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale
quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata
al muro di un edificio preesistente, non può essere
considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa
corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica
la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova
volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di
autorizzatorio.
---------------
5 – L’appello non può inoltre trovare accoglimento in
riferimento al carattere abusivo delle tettoie oggetto di
contestazione, dovendosi confermare la decisone del TAR che
ha ritenuto che la loro realizzazione, per caratteristiche e
dimensioni, necessitasse del previo rilascio del permesso di
costruire.
Al riguardo l’appellante, che cita anche la circolare
ministeriale n. 1918/77, sostiene che le tettoie aperte
sarebbero opere di natura meramente accessoria e
pertinenziale, al servizio esclusivo dei capannoni e prive
di una loro autonoma fruibilità.
5.1 – Come anticipato, la censura è infondata, muovendo da
un concetto improprio di pertinenza e trascurando le
caratteristiche concrete delle tettoie in discorso,
costituite da struttura portante in ferro e copertura con
lamiere grecate ed aventi dimensioni notevoli (“la
tettoia individuata al punto 6) dell'allegato A), presenta
una superficie coperta ad una sola falda inclinata pari a
circa mq 12100,00, con altezze pari a circa mt. 5,60 max e
mt. 5,20 min., mentre la tettoia individuata alpunto 7)
dell’allegato A) presenta una superficie coperta pari a
circa mq 504,00 ... con altezze pari a circa mt. 5,70 max e
mt. 4,35 min”).
Invero, ai fini urbanistici ed edilizi il concetto di
pertinenza assume un significato più circoscritto rispetto
alla nozione civilistica e si fonda sulla assenza di: a)
autonoma destinazione del manufatto pertinenziale; b)
incidenza sul carico urbanistico; c) modifica all'assetto
del territorio (cfr. Cons. di Stato, sez. IV, 23.07.2009, n.
4636; Cons. di Stato, sez. IV, 16.05.2013, n. 2678; Cons. di
Stato, sez. V, 11.06.2013, n. 3221).
La giurisprudenza ha altresì chiarito che una tettoia, quale
quelle aventi le descritte caratteristiche, seppur collegata
al muro di un edificio preesistente, non può essere
considerata in senso proprio una pertinenza, in quanto fa
corpo con la cosa principale a cui aderisce, di cui modifica
la sagoma e ne comporta l’ampliamento, creando nuova
volumetria e, pertanto, necessita di un adeguato titolo di
autorizzatorio (cfr. Cons. St. n. 6493 del 2012; Cons. St.
n. 3939 e n. 4997 del 2013) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
I volumi tecnici degli edifici sono esclusi dal calcolo
della volumetria a condizione che non assumano le
caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e suscettibile
di abitabilità.
Come costantemente affermato dalla
giurisprudenza, la nozione di volume tecnico corrisponde a
un’opera priva di qualsiasi autonomia funzionale, anche solo
potenziale, perché destinata solo a contenere, senza
possibilità di alternative e, comunque, per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze
tecnico-funzionali di essa.
Si è anche precisato che i volumi tecnici degli edifici sono
esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non
assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e
suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui
un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter
essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in
progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni
effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate
all’altezza.
---------------
6 – La sentenza impugnata deve essere confermata anche nel
punto in cui ha respinto le censure dirette a contestare
l’ordine di demolizione del locale in alluminio e vetro,
ubicato al di sotto di una tettoia, utilizzato per il riparo
degli addetti al controllo del carico e scarico delle merci
e del locale tecnologico, anch’esso ubicato al di sotto di
una tettoia, destinato ad ospitare l’impianto antincendio.
L’appellante assume che tali strutture possano essere
classificati come volumi tecnici.
6.1 - Le argomentazione a tal fine dedotte dalla società
sono smentite dalle caratteristiche delle opere in esame e
dalla loro entità rapportate ai criteri individuati dalla
giurisprudenza al fine di delineare la nozione di vano
tecnico.
Le dimensioni del primo locale sono “pari a circa mq =
(3,80 mi x 5,75 mt.) = 21,85 mq con altezza esterna pari a
mi 2,70”, quelle del secondo sono ”pari a circa mq =
(4,60 mi x 5,95 mi) = mq 27,37 con altezza delle pareti
rilevata esternamente pari a mi 2,70”.
Come costantemente affermato dalla giurisprudenza (ex
plurimis, Cons. Stato, sez. VI, 27.11.2017, n. 5516), la
nozione di volume tecnico corrisponde a un’opera priva di
qualsiasi autonomia funzionale, anche solo potenziale,
perché destinata solo a contenere, senza possibilità di
alternative e, comunque, per una consistenza volumetrica del
tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione
principale per essenziali esigenze tecnico-funzionali di
essa.
Si è anche precisato che i volumi tecnici degli edifici sono
esclusi dal calcolo della volumetria a condizione che non
assumano le caratteristiche di vano chiuso, utilizzabile e
suscettibile di abitabilità; ne consegue che nel caso in cui
un intervento edilizio sia di altezza e volume tale da poter
essere destinato a locale abitabile, ancorché designato in
progetto come volume tecnico, deve essere computato a ogni
effetto, sia ai fini della cubatura autorizzabile, sia ai
fini del calcolo dell’altezza e delle distanze ragguagliate
all’altezza (cfr. Cons. St., Sez. VI, 04.11.2014) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti di demolizione si pongono quale conseguenza
necessitata dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento
discrezionale in capo all’amministrazione.
In tal senso si giustifica il richiamo all’art. 21-octies
della legge 241/1990 da ritenersi idoneo a superare i
rilievi dell’appellante, che come innanzi illustrati si
rilevano infondati.
---------------
7 – Rispetto alle predette opere eseguite senza l’idonea
autorizzazione, sono destituite di fondamento le censure con
le quali l’appellante lamenta il mancato rispetto delle
norme in tema di partecipazione del privato al procedimento
amministrativo, ed in particolare la mancata considerazione
delle controdeduzioni presentate dalla società ricorrente.
Al riguardo, invero, deve ricordarsi che i provvedimenti di
demolizione si pongono quale conseguenza necessitata
dell’abuso, senza alcun margine di apprezzamento
discrezionale in capo all’amministrazione (cfr. Cons. St.
sez. VI, n. 3744 del 2015).
In tal senso si giustifica il richiamo all’art. 21-octies
della legge 241/1990 da ritenersi idoneo a superare i
rilievi dell’appellante, che come innanzi illustrati si
rilevano infondati (cfr. Cons. St., 1208 del 2014) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.03.2019 n. 2101 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il passaggio di destinazione da terziario
(uffici) a residenziale determina senza ombra di dubbio un
cambio tra destinazioni non omogenee, idoneo ad incidere sul
carico urbanistico, con conseguente necessità del permesso
di costruire, e ciò, evidentemente, indipendentemente
dall’esecuzione di opere.
Difatti, l'aspetto rilevante, ai fini l'insorgenza del
presupposto imponibile, non è se il mutamento di
destinazione d'uso avvenga senza opere, ma se implichi il
passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente
diverso carico urbanistico, circostanza, quest’ultima, che
comporta la necessità di una distribuzione dei relativi
costi sociali, che devono essere posti a carico di coloro
che effettivamente si trovino a beneficiare delle relative
utilità.
---------------
Invero, risulta dirimente -ai fini della decisione della
presente controversia- l'interpretazione della disciplina
dei mutamenti di destinazione d'uso, alla luce del disposto
dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380 del 2001, così come
introdotto dal c.d. Sblocca Italia.
Ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n.
380/2001, infatti, "Salva diversa previsione da parte
delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale."
La normativa in questione è chiara nello stabilire che
il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico con i consequenziali effetti sul c.d.
carico urbanistico.
In buona sostanza, la finalità di semplificazione delle
attività edilizie, voluta appunto dal decreto Sblocca
Italia, non si è spinta al punto di rendere tra loro
omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono,
evidentemente, non assimilabili, confermando la scelta già
operata con il decreto ministeriale n. 1444 del 1968.
---------------
12.- Il Collegio ritiene dirimente, ai fini della decisione
della presente controversia, l'interpretazione della
disciplina dei mutamenti di destinazione d'uso, alla luce
del disposto dell'art. 23-ter del D.P.R. n. 380 del 2001,
così come introdotto dal c.d. Sblocca Italia.
13.- Ai sensi dell’art. 23-ter, comma 1, del d.P.R. n.
380/2001, infatti, "Salva diversa previsione da parte
delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della
destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o
della singola unità immobiliare diversa da quella
originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di
opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una
diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a)
residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale."
14.- La normativa in questione è chiara nello stabilire che
il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante
è quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico con i consequenziali effetti sul c.d.
carico urbanistico.
15.- In buona sostanza, la finalità di semplificazione delle
attività edilizie, voluta appunto dal decreto Sblocca
Italia, non si è spinta al punto di rendere tra loro
omogenee tutte le categorie funzionali, le quali rimangono,
evidentemente, non assimilabili, confermando la scelta già
operata con il decreto ministeriale n. 1444 del 1968 (cfr.
ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. III,
06/02/2017, n. 745).
16.- Ciò posto, nel caso di specie, il passaggio di
destinazione da terziario (uffici) a residenziale
(circostanza su cui le parti concordano) determina senza
ombra di dubbio un cambio tra destinazioni non omogenee,
idoneo ad incidere sul carico urbanistico, con conseguente
necessità del permesso di costruire, e ciò, evidentemente,
indipendentemente dall’esecuzione di opere.
17.- Difatti, l'aspetto rilevante, ai fini l'insorgenza del
presupposto imponibile, non è se il mutamento di
destinazione d'uso avvenga senza opere, ma se implichi il
passaggio ad una categoria funzionale autonoma, avente
diverso carico urbanistico, circostanza, quest’ultima, che
comporta la necessità di una distribuzione dei relativi
costi sociali, che devono essere posti a carico di coloro
che effettivamente si trovino a beneficiare delle relative
utilità (conforme, Consiglio di Stato sez. VI, 20/11/2018) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 29.03.2019 n. 468 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Desistenza dalla prosecuzione
dell'intervento edilizio abusivo - Presupposti -
Definitività e dimostrabilità - Onere della prova - Artt.
25, 44, D.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, la desistenza
dalla prosecuzione dell'intervento abusivo, deve essere
definitiva e non soltanto temporanea, e richiede,
necessariamente, di essere efficacemente dimostrata
attraverso dati obiettivi ed inequivocabili, non potendosi
basare su mere attestazioni, poiché, diversamente, ogni
interruzione dei lavori, anche se dovuta a circostanze
contingenti, potrebbe essere utilizzata per rappresentare
una più vantaggiosa collocazione temporale dei lavori
abusivi.
...
Reato urbanistico - Natura di reato permanente -
Consumazione inizio e termine - Ultimazione dell'opera,
requisiti e valutate nel loro complesso.
Il reato urbanistico, ha natura di reato
permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei
lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione
dell'attività edificatoria abusiva. La cessazione
dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per
completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori
volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale)
o con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano
dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
La permanenza del reato urbanistico cessa con l'ultimazione
dei lavori del manufatto, quando la condotta antigiuridica
dell'agente prosegua fino all'ultimazione dell'opera, ivi
comprese le rifiniture, ovvero al momento della cessazione
dei lavori, quando vi sia stata l'effettiva interruzione
dell'attività costruttiva, sia essa volontaria, da provare
rigorosamente, o dovuta a provvedimento autoritativo.
Inoltre, l'ultimazione dell'opera coincide con la
conclusione dei lavori di rifinitura interni ed esterni,
quali gli intonaci e gli infissi. Deve trattarsi, in altre
parole, di un edificio concretamente funzionale, che
possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come
si ricava dal disposto del primo comma dell'art. 25 del TU
dell'edilizia, che fissa "entro quindici giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il
termine per la presentazione, allo sportello unico, della
domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro
complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di
costruzione, considerare separatamente i singoli componenti.
Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che
costituiscono annessi dell'abitazione.
...
Immobile abusivo - Prova della concreta ed effettiva
funzionalità - Datazione dell'intervento edilizio abusivo -
Riferimento all'attivazione delle utenze - Esclusione -
Dimostrazione della definitiva cessazione dei lavori -
Necessità.
La materiale utilizzazione di un
immobile e l'eventuale attivazione di utenze non sono
elementi da soli sufficienti per dimostrare la sua concreta
ed effettiva funzionalità e la presenza di tutti i requisiti
di agibilità o abitabilità che consentano di ritenerlo
ultimato.
Tale affermazione, esclude sostanzialmente la possibilità di
presumere la datazione dell'intervento edilizio abusivo
semplicemente sulla base della mera attivazione delle utenze
e la materiale utilizzazione dell'immobile, trattandosi di
circostanze che non eliminano del tutto la possibilità di
proseguire nell'esecuzione delle opere, né dimostrano la
definitiva cessazione dei lavori (l'attivazione dell'energia
elettrica, infatti, può addirittura essere necessaria per
l'esecuzione delle opere e l'uso dell'immobile può essere
parziale o non incompatibile con l'attività edilizia ancora
da eseguire) non si pone in contrasto con quanto rilevato in
altre pronunce, ove si è stabilito che non possono
escludersi ipotesi marginali in cui la permanenza del reato
sia terminata anche senza l'ultimazione dell'opera, come, ad
esempio, quando risulti l'ininterrotto utilizzo abitativo
del bene comprovato dalla attivazione delle utenze
necessarie essendo quest'ultimo un elemento sintomatico da
solo non sufficiente a far ritenere cessata la permanenza,
risultando peraltro evidente che, in ogni caso, a tale
particolare situazione deve accompagnarsi necessariamente la
dimostrata definitiva cessazione dei lavori.
...
Responsabilità per abuso edilizio del proprietario (o
comproprietario) dell'area non formalmente committente -
Onere della prova - Principio del "cui prodest" -
Giurisprudenza.
In tema di responsabilità per abuso
edilizio del proprietario (o comproprietario) dell'area non
formalmente committente, la giurisprudenza richiede, la
disponibilità di indizi e presunzioni gravi, precise e
concordanti che sono stati individuati, ad esempio, nella
piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie
edificata e nell'interesse specifico ad effettuare la nuova
costruzione (principio del "cui prodest"); nei rapporti di
parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva
ed il proprietario; nell'eventuale presenza "in loco" del
proprietario dell'area durante l'effettuazione dei lavori;
nello svolgimento di attività di materiale vigilanza
sull'esecuzione dei lavori; nella richiesta di provvedimenti
abilitativi anche in sanatoria; nel particolare regime
patrimoniale fra coniugi o comproprietari; nella fruizione
dell'opera secondo le norme civilistiche dell'accessione ed
in tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o
negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della
colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale,
all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la
destinazione finale della stessa.
Grava inoltre sull'interessato l'onere di allegare
circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie,
si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e
senza la sua volontà
(così Sez. 3 n. 35907 del 29/05/2008, Calicchia, non
massimata, che riporta anche gran parte degli esempi sopra
indicati e ampi richiami a precedenti pronunce. Conf. Sez.
3, n. 38492 del 19/05/2016, Avanzato; Sez. 3, n. 52040 del
11/11/2014, Langella e altro; Sez. 3, n. 44202 del
10/10/2013, Menditto; Sez. 3, n. 25669 del 30/05/2012,
Zeno).
...
Rapporto di coniugio e compartecipazione di un coniuge nel
reato edilizio - Elementi indizianti e prova.
In tema di reati edilizi la
responsabilità di un coniuge per il fatto materialmente
commesso dall'altro può essere rilevata sulla base di
oggettivi elementi di valutazione quali il comune interesse
all'edificazione, il regime di comunione dei beni,
l'acquiescenza all'esecuzione dell'intervento, la presenza
sul luogo di esecuzione dei lavori, l'espletamento di
attività di controllo sull'esecuzione dei lavori, la
presentazione di istanze o richieste concernenti l'immobile
o l'esecuzione di attività indicative di una partecipazione
all'attività illecita
(Sez. 3, n. 51489 del 18/09/2018).
Pertanto, in merito allo specifico
riferimento al rapporto di coniugio la compartecipazione di
un coniuge nel reato materialmente commesso dall'altro non
può essere desunta dalla mera qualità di comproprietario.
Sono stati pertanto individuati, quali elementi indizianti:
il fatto che entrambi i coniugi siano proprietari del suolo
su cui è stato realizzato l'edificio abusivo e che entrambi
abbiano interesse alla violazione dei sigilli per completare
l'opera al fine di trasferire la loro residenza
(Sez. 3 n. 28526 del 30/5/2007, Mele, non massimata);
l'abitare nel luogo ove si è svolta l'attività
illecita di costruzione; l'assenza di manifestazioni di
dissenso; il comune interesse alla realizzazione dell'opera
(fattispecie relativa ad imputata la quale, benché
formalmente residente in altro comune, conviveva con il
marito, era con il predetto in regime di comunione di beni e
ne condivideva anche le iniziative patrimoniali, tanto da
rimanere coinvolta, in un precedente giudizio, unitamente al
coniuge, in altri illeciti edilizi); il regime patrimoniale
dei coniugi (comunione dei beni); lo svolgimento di attività
di vigilanza dell'esecuzione dei lavori; la richiesta di
provvedimenti abilitativi in sanatoria e la presenza in loco
all'atto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.03.2019 n. 13607 - link
a www.ambientediritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: Project
financing.
Nella materia del c.d. project financing, il
Comune gode di ampia discrezionalità nella
cernita del progetto, da successivamente
porre a fondamento della procedura di
evidenza pubblica, in quanto reputato
maggiormente confacente al pubblico
interesse; il primo segmento procedimentale
del c.d. project financing si connota non
già in termini di concorsualità, id est di
gara comparativa finalizzata alla
individuazione di un vincitore.
In questa
fase ciò che rileva è esclusivamente
l’interesse della Amministrazione ad
includere le opere e i servizi proposti dal
privato negli strumenti di programmazione,
all’uopo nominando “promotore” il soggetto
imprenditoriale il cui progetto sia
risultato maggiormente aderente ai
desiderata e agli interessi dell’Ente; gli
interessi privati rimangono, per così dire,
sullo sfondo, non essendosi ancora entrati
nella fase della procedura pubblica di
selezione finalizzata a consentire alle
imprese interessate il conseguimento del
sostanziale bene della vita, costituito
dalla aggiudicazione di una pubblica
commessa.
Rispetto ai
tipici moduli contrattuali pubblicistici, la
complessiva disciplina dell’istituto del
project financing si contraddistingue
proprio perché la fase di iniziativa non è
assunta dall’Amministrazione stessa –con
valutazioni prodromiche alla decisione di
indire gare pubbliche che, normalmente,
rimangono nella “sfera di signoria” di essa
Amministrazione, non incidendo in sfere
soggettive “terze”- bensì dal privato, i cui
progetti e le cui proposte necessitano,
dunque, di essere “introitate” e fatte
proprie dalla Amministrazione, in quanto
reputate coerenti e confacenti con gli
indirizzi programmatici e le esigenze
pubbliche di cui sono istituzionalmente
portatrici.
Trattasi di valutazione per sua
stessa natura connotata da ampi margini di
discrezionalità, ciò che ha indotto la
giurisprudenza, ad esempio, ad escludere
che, anche una volta dichiarata di pubblico
interesse la proposta del privato e
individuato il promotore, l'Amministrazione
sia tenuta a dare corso alla procedura di
gara per l'affidamento della relativa
concessione, posto che, da un lato, tale
scelta costituisce una tipica e prevalente
manifestazione di discrezionalità
amministrativa nella quale sono implicate
ampie valutazioni in ordine all'effettiva
esistenza di un interesse pubblico alla
realizzazione dell'opera, dall'altro,
la posizione di vantaggio acquisita per
effetto della dichiarazione di pubblico
interesse si esplica solo all'interno della
gara, una volta che la decisione di affidare
la concessione sia stata assunta.
Di talché, e
a fortiori, tali ampi margini di
discrezionalità connotano la fase
“preventiva” della individuazione del
progetto e della sua collocazione nell’alveo
dei pubblici interessi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 28.03.2019 n. 691 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Il ricorso, i cui motivi ben possono essere
congiuntamente scrutinati, non è fondato.
2. E, invero, valga in via liminare
rimarcare che in subiecta materia il Comune
gode di ampia discrezionalità nella cernita
del progetto, da successivamente porre a
fondamento della procedura di evidenza
pubblica, in quanto reputato maggiormente
confacente al pubblico interesse.
2.1. Il primo segmento procedimentale del
cd. “project financing”, invero, si connota
non già in termini di concorsualità, id est
di gara comparativa finalizzata alla
individuazione di un vincitore; in questa
fase ciò che rileva è esclusivamente
l’interesse della Amministrazione ad
includere le opere e i servizi proposti dal
privato negli strumenti di programmazione,
all’uopo nominando “promotore” il soggetto
imprenditoriale il cui progetto sia
risultato maggiormente aderente ai
desiderata e agli interessi dell’Ente.
Gli interessi privati rimangono, per così
dire, sullo sfondo, non essendosi ancora
entrati nella fase della procedura pubblica
di selezione finalizzata a consentire alle
imprese interessate il conseguimento del
sostanziale bene della vita, costituito
dalla aggiudicazione di una pubblica
commessa.
2.2. Rispetto ai tipici moduli contrattuali
pubblicistici, la complessiva disciplina
dell’istituto del project financing si
contraddistingue proprio perché la fase di
iniziativa non è assunta
dall’Amministrazione stessa –con valutazioni
prodromiche alla decisione di indire gare
pubbliche che, normalmente, rimangono nella
“sfera di signoria” di essa Amministrazione,
non incidendo in sfere soggettive “terze”-
bensì dal privato, i cui progetti e le cui
proposte necessitano, dunque, di essere
“introitate” e fatte proprie dalla
Amministrazione, in quanto reputate coerenti
e confacenti con gli indirizzi programmatici
e le esigenze pubbliche di cui sono
istituzionalmente portatrici.
Trattasi, indi, di valutazione per sua
stessa natura connotata da ampi margini di
discrezionalità, ciò che ha indotto di
recente il Supremo Consesso, ad esempio, ad
escludere che, anche una volta dichiarata di
pubblico interesse la proposta del privato e
individuato il promotore, l'Amministrazione
sia tenuta a dare corso alla procedura di
gara per l'affidamento della relativa
concessione, “posto che, da un lato, tale
scelta costituisce una tipica e prevalente
manifestazione di discrezionalità
amministrativa nella quale sono implicate
ampie valutazioni in ordine all'effettiva
esistenza di un interesse pubblico alla
realizzazione dell'opera, dall'altro, la
posizione di vantaggio acquisita per effetto
della dichiarazione di pubblico interesse si
esplica solo all'interno della gara, una
volta che la decisione di affidare la
concessione sia stata assunta” (CdS, V, 23.11.2018, n. 6633).
Di talché, e a fortiori, tali ampi margini
di discrezionalità connotano la fase
“preventiva” della individuazione del
progetto e della sua collocazione nell’alveo
dei pubblici interessi. |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte di giustizia i limiti alla localizzazione degli
impianti di telefonia mobile.
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Telecomunicazione - Telefonia mobile – Impianti –
Localizzazione – Divieti – Art. 8, comma 6, l. n. 36 del
2001 – Rimessione Corte di giustizia Ue.
Va rimessa alla Corte di giustizia
Ue la questione se il diritto dell’Unione europea osti a una
normativa nazionale, come quella di cui all’art. 8, comma 6,
l. 22.02.2001, n. 36, intesa ed applicata nel senso di
consentire alle singole amministrazioni locali criteri
localizzativi degli impianti di telefonia mobile, anche
espressi sotto forma di divieto, quali il divieto di
collocare antenne in determinate aree ovvero ad una
determinata distanza da edifici appartenenti ad una data
tipologia (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che la disciplina europea ha contribuito
a far emergere un duplice elemento che, seppur già
ricavabile dalle norme interne (a partire dagli artt. 15 e
21 Cost.), appare di fondamentale importanza nel predetto
bilanciamento: il diritto all'informazione dei cittadini e
quello del cittadino di effettuare e ricevere chiamate
telefoniche (e comunicazioni di dati) in ogni luogo, senza,
quindi, limitazioni di carattere spaziale-territoriale (cfr.
altresì art. 4 direttiva servizio universale).
In tale diritto è ricompresa, anche se come contenuto
accessorio, la facoltà di poter chiamare gratuitamente i
numeri d'emergenza e in particolare il numero d'emergenza
unico europeo a partire da qualsiasi apparecchio telefonico
(cfr. Direttiva servizio universale, considerando 12) e di
essere localizzati, anche senza comunicare, in situazioni in
cui fosse necessario per la tutela della propria vita o
della sicurezza anche altrui (considerando 36).
Per rendere effettivo tale diritto la disciplina europea ha
imposto specifici obblighi a coloro i quali gestiscono i
servizi, prevedendo che gli operatori del servizio
universale mantengano l'integrità della rete, come pure la
continuità e la qualità del servizio (considerando 14), in
modo tale da assicurare l'effettività del diritto in capo a
tutti gli utenti omogeneamente su tutto il territorio
dell'Unione europea.
Sotto questo profilo, secondo una impostazione dottrinale di
origine europea, il diritto dell'utente a poter chiamare,
essere chiamato e trasmettere dati sempre e dovunque
costituisce un diritto a soddisfazione necessaria che non
può essere compresso o limitato arbitrariamente né da
normazioni di livello statale né tanto meno da normazioni di
livello inferiore
Tali diritti possono peraltro all’evidenza porsi in
conflitto con quelli alla tutela dell'ambiente, della salute
e del corretto assetto del territorio. Quelli appena
richiamati danno vita ad interessi che, in materia, si
muovono nella medesima direzione: la massimizzazione della
tutela dell'ambiente esigerebbe che non vi fosse alcuna
emissione elettromagnetica artificiale e pertanto nessun
apparato/antenna idonea a produrlo; quella del corretto
assetto del territorio che non vi fossero pali, tralicci o
altre strutture più o meno impattanti; quella della salute
imporrebbe, sulla scorta del principio di precauzione, di
evitare qualsiasi tipo di emissione elettromagnetica in
quanto potenzialmente dannosa.
In via astratta l’iter conflittuale in esame, oggetto di
attenta ricostruzione a livello nazionale di riparto di
competenza fra enti nella giurisprudenza costituzionale (nei
termini con chiarezza espressi dalla Corte costituzionale,
in specie a partire dalla sentenza 307 del 2003), è stato
così efficacemente riassunto anche a livello dottrinale:
posto che i dati scientifici attualmente a disposizione non
dimostrano in modo certo che le emissioni elettromagnetiche
siano dannose per la salute; posto che il principio di
precauzione impone comunque di adottare ogni cautela in
vista di danni ipoteticamente possibili, allora occorre
definire i limiti oltre i quali, precauzionalmente, non sono
legittime le emissioni.
Tali limiti segnano la misura dell'incomprimibilità del
diritto alla salute. La massimizzazione del diritto alla
comunicazione troverebbe quindi in essi un primo confine
invalicabile: le emissioni delle antenne dovranno essere
sempre inferiori ai limiti cautelativi posti sulla base
delle risultanze scientifiche anzidette. D'altra parte, dato
che il diritto alla comunicazione non può essere
arbitrariamente e ingiustificatamente compresso o limitato,
le amministrazioni preposte al corretto governo del
territorio dovranno trovare le soluzioni che di volta in
volta meglio consentano il minor sacrificio dello stesso e,
allo stesso tempo, la massima tutela del diritto alla
comunicazione.
Sorge quindi, a quest’ultimo proposito, la necessità di
individuare un bilanciamento; in tale ottica la condivisa
interpretazione della disciplina nazionale in materia di cui
agli orientamenti di questo Consiglio sopra richiamati, va
sottoposta alla verifica della compatibilità con la
disciplina europea vigente (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 27.03.2019 n. 2033 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Effetti
processuali della proposizione dell’istanza
di sanatoria successivamente all’ingiunzione
di demolizione.
La proposizione
dell’istanza di sanatoria successivamente
all’ingiunzione di demolizione delle opere
abusive produce l’effetto di rendere
definitivamente inefficace il provvedimento
sanzionatorio, essendo comunque tenuta
l’Amministrazione all’adozione di un nuovo
provvedimento, che sia di accoglimento o di
rigetto della domanda di sanatoria, e in
questo secondo caso all’emanazione di
un’ulteriore misura sanzionatoria, con
l’assegnazione di un nuovo termine per
adempiere;
Conseguentemente, la presentazione della
domanda di accertamento di conformità
anteriormente alla proposizione del ricorso
avvero l’ordine di demolizione rende lo
stesso inammissibile, non essendovi alcun
interesse a ricorrere avverso l'atto già
divenuto inefficace e quindi non più idoneo
a ledere l’interesse della parte ricorrente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.03.2019 n. 665 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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Considerato:
- che l’impugnativa investe il provvedimento con cui, accertata la
“… presenza di una struttura in legno
delle dimensioni di ml 4.75 x ml 4.60
ancorata in modo fisso al suolo presso
l’immobile sito in Tavernerio via ... 17
distinto al mappale n. 607, foglio 11, …”
e assunto il carattere abusivo del
manufatto, il Comune di Tavernerio ha
ingiunto ai ricorrenti, ai sensi dell’art.
31 del d.P.R. n. 380 del 2001, la rimessa in
pristino dello stato dei luoghi;
- che gli interessati lo censurano sotto molteplici profili;
- che si è costituito in giudizio il Comune di Tavernerio,
resistendo al gravame;
- che alla camera di consiglio del 27.03.2019, ascoltati i
difensori delle parti, la causa è passata in
decisione;
Ritenuto:
- che si presenta assorbente di ogni altra questione la circostanza
che, anteriormente alla notificazione del
ricorso, gli interessati abbiano presentato
istanza di accertamento di conformità ex
art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001;
- che, come questa Sezione ha già avuto modo di rilevare, la
proposizione di una simile istanza
–successivamente all’ingiunzione di
demolizione delle opere abusive– produce
l’effetto di rendere definitivamente
inefficace il provvedimento sanzionatorio,
essendo comunque tenuta l’Amministrazione
all’adozione di un nuovo provvedimento, che
sia di accoglimento o di rigetto della
domanda di sanatoria, e in questo secondo
caso all’emanazione di un’ulteriore misura
sanzionatoria, con l’assegnazione di un
nuovo termine per adempiere (v. sent. n.
2635 del 23.11.2018);
- che, in altri termini, a seguito dell’istanza di sanatoria
l’ordinanza di demolizione deve essere
sostituita o dal rilascio del titolo
edilizio in sanatoria o da un nuovo
provvedimento sanzionatorio (v. TAR Umbria
10.12.2018 n. 672);
- che, pertanto, la presentazione della domanda di accertamento di
conformità anteriormente alla proposizione
del ricorso rende lo stesso inammissibile,
non essendovi alcun interesse a ricorrere
avverso atto già divenuto inefficace e
quindi non più idoneo a ledere l’interesse
della parte ricorrente (v., tra le altre,
TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 18.05.2018 n.
827);
- che, in conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile,
essendo incontestato che la domanda ex art.
36 del d.P.R. n. 380 del 2001 sia stata
presentata dai ricorrenti ancor prima della
notificazione del presente ricorso al Comune
di Tavernerio;
- che, ai sensi dell’art. 73, comma 3, cod. proc. amm., è stato dato
avviso in udienza della possibile adozione
di una simile pronuncia;
Considerato:
- che, stante la sussistenza dei presupposti di legge, la Sezione
può decidere con “sentenza in forma
semplificata”, ai sensi dell’art. 60
cod. proc. amm.;
- che nel corso della camera di consiglio il Collegio ha avvertito
i presenti dell’eventualità di definizione
del giudizio nel merito;
- che, avuto riguardo all’insussistenza di un univoco orientamento
giurisprudenziale circa le conseguenze (sul
provvedimento sanzionatorio pregresso) della
presentazione della domanda di accertamento
di conformità, si può disporre la
compensazione delle spese di lite; |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione delle
stazioni radio base per la telefonia mobile non deve
rispettare i limiti di distanza dalle strade, previsti per
le ordinarie costruzioni edilizie, trattandosi di opere
assimilate alle infrastrutture di urbanizzazione primaria.
---------------
Il ricorso è fondato.
Infatti, secondo il condivisibile orientamento
giurisprudenziale (cfr. TAR Napoli Sez. VII Sentenze n. 1146
del 03.03.2016 e n. 3443 del 12.04.2007 e TAR Basilicata Sent.
n. 124 dell’11.03.2010), richiamato dalle società ricorrenti,
la realizzazione delle stazioni radio base per la telefonia
mobile non deve rispettare i limiti di distanza dalle
strade, previsti per le ordinarie costruzioni edilizie,
trattandosi di opere assimilate alle infrastrutture di
urbanizzazione primaria.
Mentre non può essere presa in considerazione la
Giurisprudenza, citata dalla Provincia di Potenza, atteso
che:
1) la Sentenza della Sezione II-quater del TAR Lazio n.
12607 del 22.12.2017 non ha esaminato il merito della
censura, relativa alla distanza degli impianti di telefonia
cellulare dalle strade, in quanto ha dichiarato
inammissibile il ricorso della Wind;
2) la Sentenza n. 87 del TAR Trento del 16.4.2018 ha
applicato una precisa disposizione dello strumento
urbanistico del Comune di Trento, che stabilisce
espressamente la distanza minima dalle strade degli impianti
di telefonia mobile;
3) le altre Sentenze richiamate si riferiscono alla diversa
fattispecie disciplinata dall’art. 28 del Codice della
Strada, e/o ai vincoli di inedificabilità assoluta,
prescritti dallo strumento urbanistico comunale.
Al riguardo, va, altresì, precisato che il richiamo da parte
del Comune di Potenza all’art. 3, comma 1, lett. e), punto
4, DPR n. 380/2001, il quale comprende tra gli interventi di
“nuova costruzione”, assentibili con permesso di costruire,
“l’installazione di torri e tralicci per gli impianti
radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di
telecomunicazioni”, non coglie nel segno, in quanto,
prescindendo dalla circostanza che la predetta norma è stata
superata dal successivo art. 87 D.Lg.vo n. 259/2003, che ha
sostituito il permesso di costruire con il rilascio di
un’apposita autorizzazione all’esito di un procedimento, in
cui vengono esaminati contestualmente gli aspetti
edilizi/urbanistici e quelli di carattere sanitario, va
rilevato che l’art. 26, comma 2, DPR n. 495/1992, nel
disciplinare le distanze dal confine stradale, si riferisce
alle costruzioni edilizie e non anche alle opere di
urbanizzazione primaria e, comunque, il Comune di Potenza
non risulta aver adottato nel proprio Regolamento Edilizio,
come il Comune di Trento, un’apposita norma, che preveda la
distanza minima degli impianti di telefonia mobile dalle
strade.
Pertanto, possono essere assorbiti il secondo ed il terzo
motivo di impugnazione.
A quanto sopra consegue l’accoglimento del ricorso e per
l’effetto l’annullamento dell’impugnato provvedimento di
autotutela del 20.08.2018 (TAR Basilicata,
sentenza 27.03.2019 n. 321 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
L’Adunanza plenaria si pronuncia sulle conseguenze della
mancanza del requisito di qualificazione in misura
corrispondente alla quota dei lavori.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Raggruppamento
temporaneo di imprese – Quota di lavori dichiarata in
offerta - Requisito di un componente insufficiente –
Conseguenza.
In applicazione dell’art. 92, comma
2, d.P.R. 05.10.2010 n. 207, la mancanza del requisito di
qualificazione in misura corrispondente alla quota dei
lavori, cui si è impegnata una delle imprese costituenti il
raggruppamento temporaneo in sede di presentazione
dell’offerta, è causa di esclusione dell’intero
raggruppamento, anche se lo scostamento sia minimo ed anche
nel caso in cui il raggruppamento nel suo insieme (ovvero
un’altra delle imprese del medesimo) sia in possesso del
requisito di qualificazione sufficiente all’esecuzione
dell’intera quota di lavori (1).
---------------
(1) La questione era stata rimessa dalla sez. V con ordinanza
18.10.2018, n. 5957.
Ha chiarito l’Alto Consesso che è possibile ritenere come “formalistica”
l’interpretazione ora offerta, contrapponendola (come non
condivisibilmente effettuato dall’appellante) ad un’altra
interpretazione di tipo “sostanzialistico”, secondo la quale
–in presenza delle tre condizioni più volte innanzi
indicate– il principio di doverosa corrispondenza tra i
requisiti di partecipazione di ciascuna impresa e la quota
di esecuzione dichiarata “non può dirsi nella sostanza
violato”, posto che si otterrebbe anche il “contemperamento
tra il principio di libero accesso alle gare ed il principio
della necessaria affidabilità degli offerenti”.
A tal fine, occorre in primo luogo osservare come la
funzione cui sono preordinati i requisiti di qualificazione
ne esclude, per le ragioni di tutela dell’interesse pubblico
innanzi esposte, una loro natura meramente “formale”,
risolvendosi essi in requisiti di affidabilità professionale
del potenziale contraente, la cui natura “sostanziale”
è del tutto evidente.
Di modo che una non corrispondenza, in sede di
partecipazione alla gara, tra requisito e quota dei lavori
da eseguire si risolve non già in una imprecisione formale
ovvero in una sorta di errore materiale, bensì in una
violazione sostanziale di regole disciplinanti l’intero
sistema dei contratti pubblici (e valevoli oggettivamente
per tutti i partecipanti alle gare).
Né, inoltre, può dirsi pretermesso il principio del libero
accesso alle gare (più volte richiamato dall’appellante),
posto che tale accesso è certamente “libero” per i
soggetti che rispondono ai requisiti previsti
dall’ordinamento per la partecipazione.
D’altra parte, il principio volto a garantire la più ampia
partecipazione alle gare non agisce “in astratto”, ma
esso, nella sua concreta attuazione, non può che riferirsi
ad imprese che –per serietà ed affidabilità
tecnico-professionale (appunto validate dal possesso dei
requisiti)– sono potenzialmente idonee ad assumere il ruolo
di contraenti con gli operatori economici pubblici.
Nel caso di specie, quanto richiesto dalle norme
regolamentari e dal bando di gara non appare costituire un
impedimento irragionevole alla partecipazione (così
costituendo un vulnus per il principio di libera
partecipazione), posto che le imprese associate ben possono
attribuire a ciascuna di esse ex ante una quota di
lavori corrispondente al requisito di qualificazione.
Si intende cioè affermare che nulla vieta al r.t.i. la
partecipazione alla gara, ben potendo questa avvenire con
una attribuzione delle quote di lavori tra le imprese
associate coerente con i loro requisiti di partecipazione.
In altre parole, ciò che si vuol rendere possibile ex
post, attraverso l’intervento di un’altra impresa
associata avente un requisito “sovrabbondante”, non
si vede perché non possa correttamente avvenire ex ante, in
sede di ripartizione tra le associate delle quote dei
lavori: il che dimostra come non sussista alcun
irragionevole restringimento del principio di ampia e libera
partecipazione alle gare.
Giova ancora osservare come l’interpretazione cd. “sostanzialistica”,
nel richiedere, tra le condizioni per evitare l’esclusione
dalla gara del r.t.i. per mancanza di corrispondenza tra
requisiti di qualificazione e quote di esecuzione lavori,
quella della misura “minima” o “non eccessiva”
dello scostamento, finisce per dar luogo:
- per un verso, ad un non consentito fenomeno di integrazione
normativa, attesa la chiara prescrittività del dato
normativo in favore della corrispondenza. Nel caso di
specie, infatti, l’interprete finirebbe non già per
individuare l’esatto contenuto normativo della disposizione
(che prevede un chiaro principio di corrispondenza), quanto
per aggiungere ad essa una norma ulteriore, peraltro di
incerta prescrittività;
- per altro verso, ad una invasione del campo riservato alla
pubblica amministrazione, valutando ex post –in luogo
di questa ed in assenza di dato normativo– quando uno
scostamento possa definirsi minimo e, dunque, non rilevante
ai fini dell’esclusione;
- per altro verso ancora, ad una lesione del principio della par
condicio dei concorrenti, laddove si consentisse alla
stazione appaltante di valutare ex post quando (ed in
che misura) lo scostamento può definirsi irrilevante.
Delle considerazioni (e preoccupazioni) ora esposte si è
resa conto la stessa ordinanza di rimessione laddove, per il
caso di adesione alla tesi cd. sostanzialistica, ha in via
subordinata richiesto che questa Adunanza Plenaria determini
“la soglia superata la quale lo scostamento non possa più
essere considerato minimo”.
Il che dimostra, contemporaneamente, il timore per
l’esercizio da parte della stazione appaltante di un potere
discrezionale ex post e non sorretto da indicazioni
normative e la natura di integrazione normativa (e non di
interpretazione) di quanto richiesto
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 27.03.2019 n. 6 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In tema di reati urbanistici, la sanatoria degli
abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art.
44 del D.P.R. n. 380 del 2001, non ammette termini o
condizioni
atteso che la ratio della norma è quella di
dare rilievo alla piena conformità agli strumenti
urbanistici dell'intera opera così come realizzata, senza
quindi che siano consentiti accorgimenti per far rientrare
la stessa nell'alveo della legittimità urbanistica.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che
è
illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio
di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato all'esecuzione di specifici interventi
finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di
conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta
subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio"
della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione
delle opere e alla loro integrale rispondenza alla
disciplina urbanistica in tema di reati urbanistici.
Si è precisato altresì, che la sanatoria
degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita
solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente
indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la
conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente
sia al momento della realizzazione del manufatto che al
momento della presentazione della domanda di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione
postuma di opere originariamente abusive che,
successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica.
Inoltre, non è ammissibile il rilascio di
una concessione in sanatoria parziale, dovendo l'atto
abilitativo postumo contemplare tutti gli interventi
eseguiti nella loro integrità.
---------------
In materia edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito
dell'istanza di revoca o sospensione dell'ordine di
demolizione conseguente a condanna per costruzione abusiva-
ha il potere-dovere di verificare la legittimità e
l'efficacia del titolo predetto, sotto il profilo del
rispetto dei presupposti e dei requisiti di forma e di
sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del
potere di rilascio, la corrispondenza di quanto autorizzato
alle opere destinate alla demolizione e, qualora trovino
applicazione disposizioni introdotte da leggi regionali, la
conformità delle stesse ai principi generali fissati dalla
legislazione regionale.
---------------
2. Con riferimento al dedotto vizio di violazione di legge
si deve premettere che dagli atti indicati dal ricorrente
emerge che già nel 2014 si era accertato che il permesso in
sanatoria rilasciato ex art. 36 DPR 380/2001 -per un
progetto di ripristino di un preesistente fabbricato- e gli
atti autorizzatori di tipo paesaggistico correlati erano
stati rilasciati in relazione ad opere abusive con
prescrizione di demolizione di parte di esse e ripristino
dello stato dei luoghi del fabbricato preesistente.
2.1. E' pertanto fondata la censura proposta, in quanto in tema di reati urbanistici, la sanatoria degli
abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui all'art.
44 del D.P.R. n. 380 del 2001, non ammette termini o
condizioni (Sez.
3, n. 47402 del 21/10/2014 Rv. 260973 - 01 Chisci), atteso che la ratio della norma è quella di
dare rilievo alla piena conformità agli strumenti
urbanistici dell'intera opera così come realizzata, senza
quindi che siano consentiti accorgimenti per far rientrare
la stessa nell'alveo della legittimità urbanistica.
La Suprema Corte ha infatti chiarito che è
illegittimo, e non determina l'estinzione del reato edilizio
di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il
rilascio di un permesso di costruire in sanatoria
condizionato all'esecuzione di specifici interventi
finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di
conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta
subordinazione contrasta ontologicamente con la "ratio"
della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione
delle opere e alla loro integrale rispondenza alla
disciplina urbanistica in tema di reati urbanistici
(Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 Rv. 266034 - 01 Carratu').
Si è precisato altresì, che la sanatoria
degli abusi edilizi idonea ad estinguere il reato di cui
all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 può essere conseguita
solo qualora ricorrano tutte le condizioni espressamente
indicate dall'art. 36 d.P.R. cit. e, precisamente, la
conformità delle opere alla disciplina urbanistica vigente
sia al momento della realizzazione del manufatto che al
momento della presentazione della domanda di sanatoria,
dovendo escludersi la possibilità di una legittimazione
postuma di opere originariamente abusive che,
successivamente, siano divenute conformi alle norme edilizie
ovvero agli strumenti di pianificazione urbanistica
(cfr. Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015 Rv. 262422 - 01
Bonarota).
Inoltre, non è ammissibile il rilascio di
una concessione in sanatoria parziale, dovendo l'atto
abilitativo postumo contemplare tutti gli interventi
eseguiti nella loro integrità
(cfr. Sez. 3, Sentenza n. 22256 del 28/04/2016 Rv. 267290 -
01 Rongo).
2.2. Consegue anche la fondatezza dell'ulteriore rilievo
critico inerente il mancato esercizio da parte del giudice
dell'esecuzione del dovere di verificare la legittimità del
titolo abilitativo, atteso che in materia
edilizia, il giudice dell'esecuzione -investito dell'istanza
di revoca o sospensione dell'ordine di demolizione
conseguente a condanna per costruzione abusiva- ha il
potere-dovere di verificare la legittimità e l'efficacia del
titolo predetto, sotto il profilo del rispetto dei
presupposti e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti
dalla legge per il corretto esercizio del potere di
rilascio, la corrispondenza di quanto autorizzato alle opere
destinate alla demolizione e, qualora trovino applicazione
disposizioni introdotte da leggi regionali, la conformità
delle stesse ai principi generali fissati dalla legislazione
regionale (cfr.
Sez. 3 - n. 55028 del 09/11/2018 Rv. 274135 - 01 B).
2.3. Quanto al rilascio di autorizzazioni sopravvenute, il
giudice dell'esecuzione nell'esercitare il doveroso potere
di controllo deve tenere conto dell'art. 146 D.Lgs. n. 42
del 2004, laddove dispone che l'autorizzazione paesaggistica
costituisce atto autonomo e presupposto rispetto al permesso
di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento
urbanistico-edilizio e, fuori dai casi di cui all'articolo
167, commi 4 e 5, l'autorizzazione non può essere rilasciata
in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi.
Inoltre, il comma 36 dell'articolo unico della L. n. 308 del
2004 (con previsioni trasfuse nel D.Lgs. n. 42 del 2004, ad,
181, commi 1- ter e quater e, successivamente, anche
nell'art. 167, commi 4 e 5) ha introdotto (in relazione al
reato contravvenzionale contemplato dal cit. D.Lgs., art.
181, comma 1) la possibilità di una valutazione postuma
della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi
comunque "minori", all'esito della quale -pur
restando ferma l'applicazione della sanzione amministrativa
pecuniaria di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167-
l'ordine di rimessione in pristino dello stato dei luoghi
-rilevante sul piano eminentemente paesaggistico- non si
applica o deve essere revocato.
Nei casi anzidetti l'accertamento della compatibilità
paesaggistica dell'intervento inoltre, deve avvenire secondo
le procedure di cui al D.Lgs. n. 42/2004, art. 181, comma
1-quater, introdotto dalla L. 15.12.2004, n. 308, anche esse
verificabili (Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.03.2019 n. 13084). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sezioni unite: l’atto amministrativo può arrivare tramite
postino privato.
La disciplina relativa alle
notificazioni ha subito una costante evoluzione, in linea
con le direttive Ue orientate nel senso della progressiva
liberalizzazione del particolare settore
Nel periodo in cui la riserva legale a favore del fornitore
del servizio postale universale riguardava gli atti
giudiziari e quelli concernenti le violazioni al Codice
della strada, non operava alcun divieto rispetto alla
notificazione a mezzo di servizio di posta privata di
provvedimenti di natura amministrativa.
Questo, in breve, il principio di diritto formulato dalle
sezioni unite, con la sentenza
26.03.2019 n. 8416, che, nel ritenere legittima la
notifica di un’ordinanza (ingiunzione emanata dall’autorità
competente ed eseguita tramite operatore postale privato),
ha sancito una regula iuris, che appare applicabile
in generale con riferimento a tutti gli atti amministrativi.
La vicenda processuale
Nell’ambito di un contenzioso dinanzi al tribunale regionale
delle acque pubbliche di Palermo, il giudice accoglieva il
ricorso di un condominio avverso la sanzione amministrativa
a esso irrogata dall’Organo competente in materia.
Quest’ultimo, dapprima, impugnava la pronuncia del collegio
regionale dinanzi al Tribunale superiore, che respingeva il
gravame; quindi, ricorreva in sede di legittimità avverso lo
sfavorevole verdetto di seconde cure.
Nel ricorso, l’istante denunciava violazione dell’articolo 4
del Dlgs 261/1999, censurando l’affermazione del tribunale
superiore, a parere del quale la notifica postale del
provvedimento amministrativo impugnato, avvenuta il
05.06.2014, doveva essere eseguita, necessariamente e a pena
di giuridica inesistenza, per il tramite del fornitore del
servizio universale, escludendosi invece la possibilità di
ricorrere ai medesimi fini a un operatore postale privato.
Nello specifico, il ricorrente asseriva che la previsione
del citato articolo 4 vigente all’epoca dei fatti
contestati, nella parte in cui stabiliva a favore del
fornitore del servizio universale una riserva sugli invii
postali raccomandati, doveva intendersi riferito ai soli
invii concernenti atti giudiziari e non anche ad altri atti
notificati a mezzo posta.
La pronuncia della Corte
La Corte ha accolto il motivo, confutando l’argomentazione
della pronuncia impugnata secondo la quale la notificazione
postale del processo verbale di contestazione della
violazione amministrativa e la conseguente irrogazione della
sanzione non poteva essere effettuata tramite gestore
privato del servizio di posta.
Al riguardo, le sezioni unite ripercorrono l’evoluzione
normativa della disciplina di riferimento, osservando che,
nel quadro della liberalizzazione del mercato dei servizi
postali voluto dalla direttiva 97/67/Ce, il Dlgs 261/1999 ha
mantenuto un servizio postale universale, “espletato,
all’esito della trasformazione in società per azioni
dell’Ente Poste, dalla società Poste Italiane s.p.a.”.
In seguito, prosegue la pronuncia, il Dlgs 58/2011, di
recepimento della direttiva 2008/6/Ce, ha modificato
l’articolo 4 del citato Dlgs 261/1999, restringendo l’ambito
oggettivo dei servizi riservati alle sole notificazioni di
atti a mezzo posta e comunicazioni a mezzo posta connesse
con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge
890/1982 e alle notificazioni postali dei verbali di
contestazione delle infrazioni al codice della strada.
Alla luce del dettato normativo vigente ratione temporis,
concludono le sezioni unite, a fronte di un provvedimento,
emanato dall’organo competente, e che riveste natura di atto
amministrativo e non già di atto giudiziario e neppure
concernente violazioni al Codice della strada, risulta
pertanto “legittima la relativa notificazione a mezzo
servizio di posta privata”.
Osservazioni
Secondo quanto esposto, la disciplina in materia di
notificazione postale di atti, contenuta nel Dlgs 261/1999,
ha subito una costante evoluzione, in coerenza con le
direttive dell’Unione europea orientate nel senso della
progressiva liberalizzazione del particolare settore
attraverso il riconoscimento della possibilità di
svolgimento dei relativi servizi in regime di piena e libera
concorrenza.
Tradizionalmente, infatti, la legge prevedeva un regime di
riserva, in virtù del quale gli adempimenti relativi ad
alcuni specifici servizi postali erano affidati in via
esclusiva all’operatore postale che, in ragione del possesso
di specifici requisiti, assumeva la qualità di fornitore del
servizio postale universale.
In particolare, per un certo periodo, l’articolo 4, comma 5,
del decreto legislativo in argomento, ha previsto a favore
del fornitore la riserva in ordine agli “invii
raccomandati attinenti alle procedure amministrative e
giudiziarie”.
Successivamente, a decorrere dal 30.04.2011, data di entrata
in vigore del Dlgs 58/2011, detto articolo 4 è stato “ridimensionato”,
limitando l’esclusiva del fornitore ai “…servizi inerenti
le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a
mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari”
di cui alla legge 890/1982, e ai “servizi inerenti le
notificazioni a mezzo posta di cui all'articolo 201 del
decreto legislativo 30.04.1992, n. 285” (ovvero, le
notificazioni postali dei verbali di accertamento delle
violazioni alle disposizioni del nuovo Codice della strada).
Il medesimo articolo 4 è stato, poi, abrogato a opera
dell’articolo 1, comma 57, lettera b), della legge 124/2017,
a decorrere dal 10.09.2017, così eliminandosi qualunque
riserva in favore del fornitore.
Tanto precisato, la questione della sussistenza o meno, nel
periodo 30.04.2011-09.09.2017, di una riserva a favore del
fornitore sugli invii raccomandati di atti amministrativi
tributari ha formato oggetto di un vivace dibattito
giurisprudenziale che, in mancanza di una soluzione
interpretativa univoca, ha indotto la sezione VI della Corte
di cassazione, con ordinanza n. 12152/2018, a rimettere la
questione alla sezione V, istituzionalmente deputata alla
funzione di nomofilachìa.
Nelle more di una decisione al riguardo, la sentenza delle
sezioni unite in commento fissa una linea interpretativa
piuttosto netta che, assai verosimilmente, sarà confermata
dalle sezioni semplici.
Invero, ancorché la pronuncia del Collegio allargato di
legittimità abbia avuto a oggetto un provvedimento di
ordinanza-ingiunzione, si può ragionevolmente ritenere che
la medesima regola sancita dalla sentenza n. 8416 in
rassegna troverà applicazione anche con riguardo ad altri
atti che, pur di contenuto diverso, ugualmente al primo
hanno natura di atto amministrativo (commento tratto da e
link a www.fiscooggi.it).
---------------
MASSIMA
Orbene, siffatto assunto è erroneo.
Il d.lgs. n. 261 del 1999, di recepimento della Direttiva
97/67/CE ( emanata con il preciso scopo di dettare <<regole
comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi
postali comunitari e per il miglioramento della qualità del
servizio>>), ha, nel quadro della liberalizzazione del
mercato dei servizi postali, mantenuto un servizio postale
universale, includendo tra i servizi ad esso riservati <<gli
invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e
giudiziarie>>.
Il servizio postale universale è espletato, all'esito della
trasformazione in società per azioni dell'Ente Poste, dalla
società Poste Italiane s.p.a. (v. Cass., Sez. Un.,
29/05/2017, n. 13452, ove si pone in rilievo come,
nonostante la trasformazione, permanga tuttora in capo
all'agente postale l'esercizio di poteri certificativi
propriamente inerenti a un pubblico servizio, a ragione
della connotazione pubblicistica della disciplina normativa
che continua a disciplinarlo e del perseguimento di connesse
finalità pubbliche).
All'art. 18 L. n. 689 del 1981 è stato dall'art. 10 L. n.
265 del 1999 inserito il comma 6, ove si stabilisce che «La
notificazione dell'ordinanza ingiunzione può essere eseguita
dall'ufficio che adotta l'atto, secondo le modalità di cui
alla legge 20.11.1982, n. 890».
Alla su indicata Direttiva del 1997 è seguita la Direttiva
2008/6/CE, recepita con d.lgs. n. 58 del 2011, che ha
modificato l'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999 stabilendo che «Per
esigenze di ordine pubblico, sono affidati in via esclusiva
al fornitore del servizio universale: a) i servizi inerenti
le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a
mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari
di cui alla legge 20.11.1982, n. 890, e successive
modificazioni; b) i servizi inerenti le notificazioni a
mezzo posta di cui all'articolo 201 del decreto legislativo
30.04.1992, n. 285» (cfr. Cass., 19/12/2014, n. 27021 ).
L'art. 1, comma 57, lett. b), L. n. 124 del 2017, ha quindi
espressamente abrogato l'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999, con
soppressione pertanto dell'attribuzione in esclusiva alla
società Poste Italiane s.p.a., quale fornitore del servizio
postale universale, dei servizi inerenti le notificazioni e
comunicazioni di atti giudiziari ai sensi della L. n. 890
del 1982, nonché dei servizi inerenti le notificazioni delle
violazioni al codice della strada ai sensi dell'art. 201
d.lgs. n. 285 del 1992 (v. Cass., 11/10/2017, n. 23887, e,
conformemente, da ultimo, Cass., 07/09/2018, n. 21884).
Detta abrogazione opera, peraltro, come dalla su indicata
norma espressamente indicato, con decorrenza dal 10/09/2017,
sicché non assume nella specie rilievo, essendo stato -come
detto- l'impugnato atto de quo notificato in data
05.06.2014.
A tale stregua, con riferimento alla disciplina ratione
temporis nella specie applicabile va osservato che la
riserva della notifica a mezzo posta all'Ente Poste (poi
società Poste Italiane s.p.a.), pur se posteriore (art. 10,
comma 6, L. n. 265 del 1999, che ha modificato l'art. 18 L.
n. 689/1981) al d.lgs. n. 261 del 1999 di liberalizzazione
(nel più ampio quadro della liberalizzazione del mercato dei
servizi postali) delle notificazioni, è stata
successivamente limitata alla notificazione a mezzo posta
degli atti giudiziari e alla notificazione a mezzo posta
delle violazioni al Codice della strada per effetto del
disposto di cui all'art. 4 d.lgs. n. 261 del 1999, come
modificato dal d.lgs. n. 58 del 2011, vigente alla data di
notifica del verbale di contestazione di cui trattasi.
Atteso che, diversamente da quanto affermato dal TSAP
nell'impugnata sentenza, il riferimento alle <<modalità
di cui alla legge 20.11.1982, n. 890>> va invero inteso
quale mera previsione di un ulteriore strumento di
notificazione di cui i soggetti al riguardo abilitati (e
pertanto anche quello gestore del servizio privato) possono
avvalersi, decisivo rilievo assume la circostanza che il
provvedimento di ordinanza-ingiunzione emanato dall'autorità
amministrativa competente secondo le previsioni della L. n.
689 del 1981 ha natura di atto amministrativo (cfr. Cass.,
20/09/2006, n. 20401; Cass., 01/06/1993, n. 6088), e non già
giudiziario, e non concerne violazioni al Codice della
strada, risultando pertanto legittima la relativa
notificazione a mezzo servizio di posta privata (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 26.03.2019 n. 8416). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va «rimarcato come occorra il titolo edilizio per
la realizzazione di nuovi manufatti, quand’anche sotto il
profilo civilistico essi si possano qualificare come
pertinenze».
La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma
non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica.
Nell’ordinamento statale, infatti, vi è il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un ‘manufatto edilizio’: salva una diversa
normativa regionale o comunale, ai fini edilizi manca la
natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo volume,
su un’area diversa ed ulteriore rispetto a quella già
occupata dal precedente edificio, ovvero sia realizzata una
qualsiasi opera, come una tettoia, che ne alteri la sagoma.
Viceversa, il testo unico attribuisce rilevanza urbanistica
ed edilizia alle pertinenze, ammettendo all’art. 3, comma 1,
lett. e.6), che specifiche regole siano contenute nelle
‘norme tecniche degli strumenti urbanistici’.
---------------
L’appellato ha realizzato una tettoia in aderenza ad un suo
fabbricato sito nel territorio del Comune di Bovolone,
Con l’atto n. 17497 del 31.07.2006, il Comune ha respinto la
domanda di accertamento di conformità presentata
dall’appellato e, con il successivo atto n. 49 del
17.08.2006, ha ordinato la demolizione della tettoia.
...
7. Risulta inoltre fondato il secondo motivo
d’appello, con il quale il Comune ha lamentato l’errore in
cui è incorso il TAR, nel valutare l’opera realizzata senza
titolo.
Come si è sopra rilevato, il TAR ha ritenuto che il Comune
non avrebbe potuto disporre la demolizione dell’opera
abusiva, per la sua natura pertinenziale.
Al riguardo, in questa sede il Comune ha rilevato che il
portico:
- ‘è stato realizzato in diretta prosecuzione del fabbricato, di
cui rappresenta a tutti gli effetti un ampliamento’;
- ‘ha le dimensioni di 22,70 ml x 2,77’, con ‘superficie
coperta così realizzata pari a mq 62,88’;
- ‘è stato realizzato con pilastri in legno delle dimensioni di
cm 20 x 14, traversi e travetti sulla copertura, dotato di
canali di gronda e munito di impianto di illuminazione con
lampade stabilmente collocate sulla struttura’.
Tenuto conto di tali circostanze, rileva la giurisprudenza
di questo Consiglio (che il Collegio condivide e fa propria:
cfr. Sez. VI, 13.03.2017, n. 1155; Sez. VI, 16.02.2017, n.
694), per la quale va «rimarcato come occorra il titolo
edilizio per la realizzazione di nuovi manufatti,
quand’anche sotto il profilo civilistico essi si possano
qualificare come pertinenze».
«La qualifica di pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto ad opere di modesta entità e accessorie rispetto ad
un'opera principale, quali ad esempio i piccoli manufatti
per il contenimento di impianti tecnologici et similia, ma
non anche opere che, dal punto di vista delle dimensioni e
della funzione, si connotino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e non siano
coessenziali alla stessa, tale, cioè, che non ne risulti
possibile alcuna diversa utilizzazione economica» (cfr.
anche Cons. St., Sez. VI, 17.05.2017, n. 2348; Sez. VI,
04.01.2016, n. 19; Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952; Sez. V,
12.02.2013, n. 817; Sez. IV, 02.02.2012, n. 615).
«Nell’ordinamento statale, infatti, vi è il principio
generale per il quale occorre il rilascio della concessione
edilizia (o del titolo avente efficacia equivalente), quando
si tratti di un ‘manufatto edilizio’ (cfr. Sez. VI,
24.07.2014, n. 3952): salva una diversa normativa regionale
o comunale, ai fini edilizi manca la natura pertinenziale
quando sia realizzato un nuovo volume, su un’area diversa ed
ulteriore rispetto a quella già occupata dal precedente
edificio, ovvero sia realizzata una qualsiasi opera, come
una tettoia, che ne alteri la sagoma».
«Viceversa, il testo unico attribuisce rilevanza
urbanistica ed edilizia alle pertinenze, ammettendo all’art.
3, comma 1, lett. e.6), che specifiche regole siano
contenute nelle ‘norme tecniche degli strumenti urbanistici’».
Nel condividere tali considerazioni, osserva il Collegio che
nel presente giudizio non è stato dedotto che una norma
tecnica dello strumento urbanistico del Comune di Bovolone
abbia considerato irrilevanti le opere in questione sotto il
profilo edilizio: le disposizioni delle n.t.a. invocate
dall’appellato hanno riguardato aspetti diversi (riguardanti
le definizioni della superficie coperta e del volume del
fabbricato), ma non in quanto tali le pertinenze e il loro
rilievo sotto il profilo edilizio.
Pertanto, anche per tale ragione va riformata la statuizione
con cui il TAR ha accolto la censura sulla qualificazione
come ‘pertinenze’ delle opere in questione (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.03.2019 n. 1995 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
diretti a migliorare l’efficienza energetica
degli edifici e vincolo paesaggistico.
Con riferimento alla
realizzazione di un cappotto isolante con
tinteggiatura della facciata, è da
precisarsi che gli interventi diretti a
migliorare l’efficienza energetica degli
edifici sono sempre assistiti dal favore del
legislatore; questo favore si riflette anche
sul profilo paesistico, perché le
innovazioni che migliorano l’efficienza
energetica si devono considerare normalmente
compatibili con il contesto vincolato.
Il vincolo paesistico non determina di per
sé l’immodificabilità delle costruzioni
esistenti, né l’obbligo di conservazione dei
materiali tradizionali o dei singoli
dettagli costruttivi.
Nel confronto tra l’efficientamento
energetico, che richiede l’adozione di nuovi
materiali, e la conservazione dello scenario
tradizionale, l’interesse pubblico
prevalente è il primo, a condizione che non
vengano introdotti elementi architettonici
gravemente dissonanti; una volta evitato
questo rischio, il risultato della modifica
può ricevere un maggiore o minore grado di
approvazione da parte dei soggetti che
abitano nelle vicinanze, ma si tratta
soltanto di un problema di preferenze
personali, che non retroagisce sui diritti
edificatori, e non dà diritto a
compensazioni.
Sarebbe infatti contraddittorio se
l’ordinamento incentivasse, da un lato,
gli interventi di efficientamento energetico
e, dall’altro, esponesse i
proprietari che li eseguono all’obbligo di
garantire, oltre a un esito paesisticamente
compatibile, l’invariabilità del valore
venale degli immobili vicini
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.03.2019 n. 276 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Sulla legittimità degli
interventi edilizi.
23. La prima opera contestata di cui
può occuparsi il presente giudizio è
l’ampliamento della pavimentazione in
porfido. Peraltro, rispetto all’originario
ricorso sul silenzio, qui la situazione si è
rovesciata, in quanto il Comune in data
18.04.2016 ha emesso un’ordinanza di
demolizione. La ricorrente non ha quindi
interesse a formulare un’impugnazione sotto
questo profilo.
È vero che la situazione è cambiata di nuovo
dopo che il Comune e la Soprintendenza hanno
riconosciuto la compatibilità paesistica
della nuova pavimentazione ai sensi
dell’art. 167, commi 4 e 5, del Dlgs.
22.01.2004 n. 42 (v. documentazione
depositata dal Comune il 30.10.2018). È però
evidente che l’oggetto dell’eventuale
impugnazione è ora costituito dai nuovi
provvedimenti, i quali si collocano su una
linea autonoma rispetto al presente
giudizio.
24. Per quanto riguarda la seconda opera
contestata, ossia la porta-finestra con
balcone sul lato sud, si tratta di un
intervento descritto nella relazione tecnica
della DIA del 27.11.2009, e rappresentato
nella tavola 3 allegata all’autorizzazione
paesistica del 19.04.2010 (v. doc. 16 e 18
del Comune, depositati il 13.05.2016). Dal
punto di vista urbanistico, questi lavori
non presentano criticità.
L’incremento dei rapporti aeroilluminanti e
la creazione di un più comodo affaccio sono
risultati del tutto legittimi, che
l’amministrazione può limitare solo in
presenza di un interesse pubblico
prevalente, Nello specifico, un simile
interesse non sussiste, in quanto gli
elementi architettonici sporgenti, se di
modesta profondità, non rilevano ai fini del
rispetto delle distanze minime, e neppure
per quanto riguarda la tutela di una soglia
adeguata di riservatezza sociale.
Le questioni civilistiche di dettaglio sulle
distanze minime e sulle vedute tra
confinanti competono invece al giudice
ordinario, come si è precisato sopra.
25. Anche la terza opera contestata,
ossia la realizzazione del cappotto isolante
con tinteggiatura della facciata, è
descritta nella relazione tecnica della DIA
del 27.11.2009. Gli interventi diretti a
migliorare l’efficienza energetica degli
edifici sono sempre assistiti dal favore del
legislatore (v. art. 8, comma 2, e art. 54,
comma 3, della LR 11.03.2005 n. 12).
26. Questo favore si riflette anche sul
profilo paesistico, perché le innovazioni
che migliorano l’efficienza energetica si
devono considerare normalmente compatibili
con il contesto vincolato. Il vincolo
paesistico non determina per sé l’immodificabilità
delle costruzioni esistenti, né l’obbligo di
conservazione dei materiali tradizionali o
dei singoli dettagli costruttivi.
Nel confronto tra l’efficientamento
energetico, che richiede l’adozione di nuovi
materiali, e la conservazione dello scenario
tradizionale, l’interesse pubblico
prevalente è il primo, a condizione che non
vengano introdotti elementi architettonici
gravemente dissonanti. Una volta evitato
questo rischio, come appare evidente nel
caso in esame, anche in base alla
documentazione fotografica acquisita, il
risultato della modifica può ricevere un
maggiore o minore grado di approvazione da
parte dei soggetti che abitano nelle
vicinanze, ma si tratta soltanto di un
problema di preferenze personali, che non
retroagisce sui diritti edificatori, e non
dà diritto a compensazioni.
Sarebbe infatti contraddittorio se
l’ordinamento incentivasse da un lato gli
interventi di efficientamento energetico, e
dall’altro esponesse i proprietari che li
eseguono all’obbligo di garantire, oltre a
un esito paesisticamente compatibile,
l’invariabilità del valore venale degli
immobili vicini.
27. Non sussistono quindi i presupposti per
individuare un danno risarcibile come
conseguenza degli interventi eseguiti dalla
controinteressata. Non vi sono neppure le
condizioni per condannare il Comune a
risarcire il danno da ritardo per i tempi
con cui è stata data risposta agli inviti a
reprimere gli abusi edilizi.
In realtà, come si è visto sopra, vi era
un’unica opera abusiva, ossia l’ampliamento
della pavimentazione in porfido, mentre
negli altri casi non si poneva evidentemente
alcuna necessità di adottare misure
ripristinatorie. L’unico obbligo per gli
uffici comunali era quello di effettuare una
verifica delle segnalazioni, e questo
adempimento è stato eseguito correttamente,
anche attraverso un sopralluogo.
28. Il fatto che l’ordinanza di demolizione
dell’unica opera abusiva sia stata adottata
dopo la notifica del riscorso sul silenzio
non può essere considerato un comportamento
dilatorio fonte di danno risarcibile.
In realtà, l’ordinanza è stata intempestiva,
in quanto, per regola generale, prima di
adottare un provvedimento ripristinatorio è
necessario accertare se vi siano le
condizioni per regolarizzare l’opera
abusiva, come in effetti è poi avvenuto con
il riconoscimento della compatibilità
paesistica. |
APPALTI:
Risarcimento dei danni da responsabilità precontrattuale
derivante dalla condotta della P.A. nella fase precedente
alla conclusione del contratto.
----------------
●
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Responsabilità precontrattuale –
Configurabilità.
●
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Responsabilità precontrattuale –
Presupposti – Individuazione.
●
Sussiste una responsabilità precontrattuale in capo alla
P.A. che, omettendo di stipulare un contratto con un
soggetto già individuato come affidatario, pone in essere
comportamenti indicativi della volontà di non procedere alla
conclusione del contratto, allorché l'Ente, con la propria
condotta, abbia ingenerato nell’interlocutore il legittimo
affidamento relativo alla futura conclusione del contratto,
anche per effetto della condotta successiva all'espletamento
della procedura selettiva, culminata nell'individuazione del
soggetto col quale dover procedere alla stipula. In tal
caso, si configura in capo alla P.A. una responsabilità
precontrattuale, intendendo con tale espressione la lesione
dell'altrui libertà negoziale, realizzata attraverso un
comportamento doloso o colposo, ovvero mediante
l'inosservanza del precetto della buona fede (1).
●
Nel caso di responsabilità precontrattuale, i
danni -se si esclude, come nel caso di specie, la perdita di
occasioni di guadagno alternative, non provata– devono
essere limitati al solo interesse negativo, ravvisabile, per
le procedure ad evidenza pubblica, nelle spese inutilmente
sopportate per partecipare alla gara, nelle spese di
pianificazione, programmazione e progettazione e in tutte le
altre spese inutilmente sostenute prima e dopo
l’aggiudicazione, in ragione dell’affidamento nella
conclusione del contratto, ivi comprese le spese di
ammortamento di attrezzature e macchinari acquistati o
locati per la realizzazione delle opere appaltate (2).
----------------
(1) Ha chiarito il Tar che la violazione del dovere di buone fede
genera responsabilità precontrattuale. Le condotte che
possono integrarla sono: abbandonare le trattative senza
giusta causa, quando queste siano giunte a un punto tale da
far confidare la controparte sulla conclusione del
contratto; non rendere note alla controparte cause di
invalidità del contratto conosciute (art. 1338 c.c.);
indurre la controparte a stipulare un contratto con inganno;
indurre la controparte a concludere un contratto
pregiudizievole (art. 1440 c.c.).
La natura giuridica della responsabilità precontrattuale ex
art. 1337 codice civile -pur dibattuta tra chi ritiene
trattarsi di illecito aquiliano (2043 c.c.) e chi la riporta
a quello contrattuale (art. 1218 c.c.)- è posta a tutela
dell'interesse, negativo, a non essere coinvolti in
trattative inutili, a differenza di quanto accade nella
responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) che sanziona la
lesione dell'interesse positivo ad ottenere la prestazione
dovuta.
Ha aggiunto il Tar che la responsabilità precontrattuale
della pubblica Amministrazione può derivare da qualsiasi
comportamento antecedente o successivo alla gara pubblica
che risulti contrario, all'esito di una verifica da condurre
necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e
buona fede.
Nondimeno, affinché nasca la responsabilità
dell'Amministrazione non è sufficiente che il privato
dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli
abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza
di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere
conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono
gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l'affidamento incolpevole sia leso da una condotta che,
valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine
sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di
lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia
anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione, in
termini di colpa o dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della
libertà di autodeterminazione negoziale), sia il
danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i
relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta
scorretta che si imputa all'Amministrazione (Cons. Stato,
Ad. Plen., 04.05.2018, n. 5).
(2) Ha chiarito il Tar che per le ipotesi di responsabilità
precontrattuale, è ammesso il ristoro della perdita di
chance ma tale possibilità è limitata alle sole
occasioni di guadagno alternative cui l'operatore leso
avrebbe potuto attingere in assenza del contegno dannoso
dell'Amministrazione, mentre non è ammesso il ristoro della
chance intesa come pura e semplice possibilità di conseguire
i guadagni connessi all'esecuzione del contratto non
stipulato (Cons. Stato, sez. V, 28.01.2019, n. 697)
(TAR
Molise,
sentenza 26.03.2019 n. 117 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
XIII – La prima delle due domande subordinate –quella intesa
ad ottenere il riconoscimento di una responsabilità
precontrattuale del Comune di Termoli e della T.U.A. S.p.A.–
è meritevole di accoglimento, la qual cosa induce il
Collegio a pretermettere l’esame della seconda domanda
subordinata –quella intesa ad ottenere l’indennizzo ex art.
21-quinquies della legge n. 241/1990– stante il rapporto di
continenza e, quindi, l’incompatibilità, l’alternatività e
la non cumulabilità tra le due forme di tutela e di ristoro
economico (cfr.: Cass. civile, Sez. Unite, 22.05.2018, n.
12565; Cass. civile II, 09.02.2017, n. 352; Tar Campania-Napoli I, 05.06.2018, n. 3707; Tar Lazio-Roma II-ter,
08.01.2015, n. 179).
XIV – La violazione del dovere di buone fede genera
responsabilità precontrattuale.
Le condotte che possono integrarla sono: abbandonare le
trattative senza giusta causa, quando queste siano giunte ad
un punto tale da far confidare la controparte sulla
conclusione del contratto; non rendere note alla controparte
cause di invalidità del contratto conosciute (1338 c.c.);
indurre la controparte a stipulare un contratto con inganno;
indurre la controparte a concludere un contratto
pregiudizievole (1440 c.c.).
In tale ultima ipotesi, a differenza delle altre, il
contratto è valido ma la parte subisce un danno per le
condizioni svantaggiose della stipula. La natura giuridica
della responsabilità precontrattuale ex art. 1337 codice
civile -pur dibattuta tra chi ritiene trattarsi di illecito
aquiliano (2043 c.c.) e chi la riporta a quello contrattuale
(1218 c.c.)- è posta a tutela dell'interesse, negativo, a
non essere coinvolti in trattative inutili, a differenza di
quanto accade nella responsabilità contrattuale (1218 c.c.)
che sanziona la lesione dell'interesse positivo ad ottenere
la prestazione dovuta.
Sussiste una responsabilità precontrattuale in capo alla
P.A. che, omettendo di stipulare un contratto con un
soggetto già individuato come affidatario, pone in essere
comportamenti indicativi della volontà di non procedere alla
conclusione del contratto, allorché l'Ente, con la propria
condotta, abbia ingenerato nell’interlocutore il legittimo
affidamento relativo alla futura conclusione del contratto,
anche per effetto della condotta successiva all'espletamento
della procedura selettiva, culminata nell'individuazione del
soggetto col quale dover procedere alla stipula.
In tal caso, si configura in capo alla P.A. una
responsabilità precontrattuale, intendendo con tale
espressione la lesione dell'altrui libertà negoziale,
realizzata attraverso un comportamento doloso o colposo,
ovvero mediante l'inosservanza del precetto della buona
fede. Trattasi di una responsabilità derivante dalla
condotta amministrativa nella fase delle trattative o
comunque in una fase precedente alla conclusione del
contratto, che si ricollega a un comportamento scorretto
tenuto da una parte negoziale, ai danni dell'altra (cfr. Tar Lazio-Roma II, 09.07.2018, n. 7628).
La responsabilità precontrattuale della pubblica
Amministrazione può derivare da qualsiasi comportamento
antecedente o successivo alla gara pubblica che risulti
contrario, all'esito di una verifica da condurre
necessariamente in concreto, ai doveri di correttezza e
buona fede.
Nondimeno, affinché nasca la responsabilità
dell'Amministrazione non è sufficiente che il privato
dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli
abbia maturato un affidamento incolpevole circa l'esistenza
di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere
conseguenti attività economicamente onerose), ma occorrono
gli ulteriori seguenti presupposti:
a) che l'affidamento incolpevole sia leso da una condotta che,
valutata nel suo complesso e a prescindere dall'indagine
sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di
lealtà;
b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia
anche soggettivamente imputabile all'Amministrazione, in
termini di colpa o dolo;
c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della
libertà di autodeterminazione negoziale), sia il
danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa
delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i
relativi rapporti di causalità fra tali danni e la condotta
scorretta che si imputa all'Amministrazione (cfr. Cons.
Stato, Ad. Plen., 04.05.2018, n. 5).
...
XV – Sussistono,
pertanto, tutti i presupposti della responsabilità
precontrattuale, con conseguenze da addebitare in solido a
Comune e società partecipata.
XVI - Per le ipotesi di responsabilità precontrattuale, è
ammesso il ristoro della perdita di chance ma tale
possibilità è limitata alle sole occasioni di guadagno
alternative cui l'operatore leso avrebbe potuto attingere in
assenza del contegno dannoso dell'Amministrazione, mentre
non è ammesso il ristoro della chance intesa come pura e
semplice possibilità di conseguire i guadagni connessi
all'esecuzione del contratto non stipulato (cfr. Cons.
Stato V, 28.1.2019, n. 697).
La ricorrente non ha provato, invero, la perdita di
possibilità di guadagno alternative cui avrebbe potuto
attingere in assenza del contegno dannoso
dell'Amministrazione, di guisa che il risarcimento del danno
da perdita di chance deve essere escluso.
XVII - Mentre i danni da illegittima mancata aggiudicazione
sono parametrati al cosiddetto interesse positivo e
consistono nell'utile netto ritraibile dal contratto, oltre
che nei pregiudizi di tipo curriculare e all'immagine
commerciale della società, ingiustamente privata di una
commessa pubblica, nel caso di responsabilità
precontrattuale, i danni -se si esclude, come nel caso di
specie, la perdita di occasioni di guadagno alternative–
devono essere limitati al solo interesse negativo,
ravvisabile, per le procedure ad evidenza pubblica, nelle
spese inutilmente sopportate per partecipare alla gara,
nelle spese di pianificazione, programmazione e
progettazione e in tutte le altre spese inutilmente
sostenute prima e dopo l’aggiudicazione, in ragione
dell’affidamento nella conclusione del contratto, ivi
comprese le spese di ammortamento di attrezzature e
macchinari acquistati o locati per la realizzazione delle
opere appaltate (cfr. Cons. Stato V, 28.1.2019, n. 697).
XVIII – Nei suesposti limiti, va riconosciuto alla
ricorrente un risarcimento dei danni da responsabilità
precontrattuale. |
URBANISTICA:
Sulla distinzione tra la
variante ‘generale’ e quella ‘particolare’.
La variante ‘parziale’
o ‘puntuale’ è quella che riguarda
l’area del soggetto che intende impugnarla o anche le aree
oggetto di una ‘modificazione finalizzata’ al perseguimento
di una determinata finalità, specificamente riferibile ad
una specifica parte del territorio comunale.
Tale principio risulta corroborato dall’art. 11, comma 1,
lettera a), del testo unico sugli espropri, il quale ha
previsto che va trasmesso l’avviso di avvio del procedimento
quando si tratti di una variante allo strumento urbanistico,
volta alla apposizione di un vincolo preordinato
all’esproprio, per la realizzazione di una ‘singola opera
pubblica’.
La variante va considerata ‘generale’, invece, quando
riguarda una pluralità di aree distinte, situate in diverse
parti del territorio comunale: in tal caso, in linea di
principio sono diverse le regole procedimentali sulla
partecipazione degli interessati e diventa applicabile il
suesposto principio, per il quale il termine di impugnazione
degli atti comincia a decorrere dalla data di pubblicazione,
con le modalità previste dalla legge.
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Rilevato che la stessa società appellante ha richiamato la
giurisprudenza che si è occupata della distinzione tra la
variante ‘generale’ e quella ‘particolare’ (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, n, 1904 del 1998; Sez. V, n. 36 del
2007; Sez. VI, n. 4326 del 2007 e n. 5105 del 2007), nella
specie, contrariamente a quanto è stato dedotto, vi è stata
una vera e propria variante generale.
La variante ‘parziale’ o ‘puntuale’
è quella che riguarda l’area del soggetto che intende
impugnarla o anche le aree oggetto di una ‘modificazione
finalizzata’ al perseguimento di una determinata
finalità, specificamente riferibile ad una specifica parte
del territorio comunale.
Tale principio risulta corroborato dall’art. 11, comma 1,
lettera a), del testo unico sugli espropri, il quale ha
previsto che va trasmesso l’avviso di avvio del procedimento
quando si tratti di una variante allo strumento urbanistico,
volta alla apposizione di un vincolo preordinato
all’esproprio, per la realizzazione di una ‘singola opera
pubblica’.
La variante va considerata ‘generale’, invece,
quando riguarda una pluralità di aree distinte, situate in
diverse parti del territorio comunale: in tal caso, in linea
di principio sono diverse le regole procedimentali sulla
partecipazione degli interessati e diventa applicabile il
suesposto principio, per il quale il termine di impugnazione
degli atti comincia a decorrere dalla data di pubblicazione,
con le modalità previste dalla legge.
Nella specie, proprio perché la variante in questione ha
riguardato un ‘coacervo’ di beni (come rilevato
dall’appellante), non risultando che questi abbiano
riguardato il perseguimento di uno specifico e ben
localizzato interesse pubblico, si deve ritenere che vi si è
stata una variante generale, con la conseguente tardività
del ricorso di primo grado, rispetto alla data di
pubblicazione degli atti (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.03.2019 n. 1946 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va considerata la natura vincolata dell’ordine di
demolizione, che va emanato senz’altro, quando risulti la
natura abusiva di opere edilizie, pur se risalenti nel
tempo.
La Sezione condivide e fa proprie (ai sensi dell’art. 74 del
c.p.a.) le argomentazioni con cui l’Adunanza Plenaria, con
la sentenza n. 9 del 2017, ha ribadito come l’ordine di
demolizione sia un atto ‘rigidamente vincolato’, che va
emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato
emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione
sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un
affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in
violazione delle regole sulla tutela del territorio.
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5. Ritiene la Sezione che l’appello risulta infondato e vada
respinto.
Quanto al primo motivo, tutte le deduzioni
dell’interessato risultano infondate, in considerazione
della natura vincolata dell’ordine di demolizione, che va
emanato senz’altro, quando risulti la natura abusiva di
opere edilizie, pur se risalenti nel tempo.
La Sezione condivide e fa proprie (ai sensi dell’art. 74 del
c.p.a.) le argomentazioni con cui l’Adunanza Plenaria, con
la sentenza n. 9 del 2017, ha ribadito come l’ordine di
demolizione sia un atto ‘rigidamente vincolato’, che
va emesso anche se –per una qualsiasi ragione– non sia stato
emesso in precedenza: non occorre una specifica motivazione
sull’interesse pubblico attuale e non sussiste un
affidamento tutelabile, in ragione dell’illecito commesso in
violazione delle regole sulla tutela del territorio.
Quanto al secondo motivo, risultano irrilevanti le
deduzioni dell’interessato secondo cui nella zona in
questione sarebbe stato possibile il rilascio di un titolo
edilizio per realizzare ‘annessi rustici’.
Infatti, l’ordine di demolizione è stato emesso –e doveva
essere emanato- in considerazione della abusività delle
opere, sicché non ha importanza esaminare la questione se un
titolo edilizio si sarebbe potuto rilasciare.
Non rileva dunque accertare se in ipotesi nella zona si
sarebbero potuti realizzare ‘annessi agricoli’ oppure
se le opere abusive, per come sono state realizzate e per la
loro utilizzazione, si possano così qualificare.
6. Per le ragioni che precedono, l’appello risulta infondato
e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 25.03.2019 n. 1942 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Rinegoziazione dei prezzi ai sensi dell’art. 9-ter del d.l.
n. 78/2015 – Controversie – Giurisdizione del giudice
ordinario.
Il meccanismo di rinegoziazione dei
prezzi previsto dall’art. 9-ter del d.l. 19.06.2015, n. 78,
riferendosi al contratto già perfezionato e atteggiandosi a
vicenda modificativa o estintiva di esso, secondo che la
rinegoziazione abbia esito positivo ovvero l'amministrazione
receda dal contratto, esula dalla giurisdizione del giudice
amministrativo per rientrare in quella del Giudice ordinario
(TAR Lazio, Roma, sez. III, 20.09.2016 n. 9862).
La norma in questione prevede
infatti che l’amministrazione proponga alla controparte
negoziale una rinegoziazione del contratto che, attraverso
la riduzione dei prezzi unitari di fornitura o dei volumi di
acquisto pattuiti in origine, realizzi l’obiettivo della
riduzione del cinque per cento, su base annua, del suo
valore complessivo e riconosce alle stesse parti, qualora
non si trovi l’accordo sulla modifica del contratto, un
reciproco diritto di recesso: in questo sistema la volontà
dell'affidatario del contratto rimane determinante per
l'esito definitivo della procedura di rinegoziazione, poiché
“l'alterazione dell'originario sinallagma non viene
automaticamente determinata dalla norma, ma esige un
esplicito consenso di entrambe le parti. Ove tale consenso
non venga raggiunto, soccorrono … le ipotesi alternative …
del recesso, della nuova gara e della adesione transitoria a
contratti più vantaggiosi”
(Corte cost.,
sentenza n. 169 del 2017, punto 7.1 della motivazione).
L’amministrazione non dispone dunque di un
potere autoritativo di modifica unilaterale dell’oggetto del
contratto, ma solo di un diritto potestativo di recesso in
caso di mancato accordo tra le parti sulla riduzione del
prezzo o delle prestazioni (controbilanciato da analoga
potestà dell’appaltatore di sciogliersi dal vincolo) (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 25.03.2019 n. 1937 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI:
I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a
pena di nullità, in forma scritta.
I contratti degli enti pubblici devono
essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, la
quale assolve una funzione di garanzia del regolare
svolgimento dell'attività amministrativa, permettendo
d'identificare con precisione il contenuto del programma
negoziale, anche ai fini della verifica della necessaria
copertura finanziaria e dell'assoggettamento al controllo
dell'autorità tutoria.
Tale principio esclude la possibilità di ritenere
ammissibile il perfezionamento dell'accordo sulla base di
una manifestazione di volontà implicita o di comportamenti
concludenti o meramente attuativi.
Il requisito di forma scritta è richiesto non soltanto per
la conclusione del contratto, ma anche per le eventuali
modificazioni successive, le quali devono rivestire, a pena
di nullità, la medesima forma del contratto originario, non
potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante
l'adozione di contenuti e pratiche difformi da quelle
precedentemente convenute, ancorché protrattisi nel tempo e
rispondenti ad un accordo tacitamente intervenuto tra le
parti in epoca successiva o -comunque- mediante
comportamenti concludenti, venendo altrimenti eluso il
suddetto vincolo di forma.
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2. Il motivo è infondato.
La Corte distrettuale ha precisato che il tema di lite
verteva non sull'esistenza della concessione—contratto, ma
di un valido accordo che, modificando l'originario rapporto,
legittimasse l'impresa a pretendere il pagamento di un
corrispettivo calcolato in base alla maggior tariffa di €
122/kg..
Ha escluso che un tale accordo modificativo si fosse
perfezionato per facta concludentia, evidenziando
che, essendo il Comune obbligato a conferire i rifiuti
presso i siti in gestione della In. s.r.l. e non potendo
quest'ultima respingere i conferimenti, l'esecuzione del
rapporto non poteva valere come accettazione tacita della
tariffazione richiesta dall'impresa.
Sostiene la ricorrente che l'originaria convenzione poteva
essere modificata liberamente dalle parti anche riguardo
alla tariffa applicabile e che il Comune, avendo continuato
a conferire i rifiuti presso l'impianto S5/1, aveva
accettato, mediante un comportamento concludente, la
richiesta di maggiorazione del corrispettivo.
Deve in contrario osservarsi che, anche a voler ritenere che
le parti potessero liberamente stabilire la tariffa
applicabile, era comunque necessaria l'osservanza della
forma scritta ad substantiam.
I contratti degli enti pubblici devono essere stipulati, a
pena di nullità, in forma scritta, la quale assolve una
funzione di garanzia del regolare svolgimento dell'attività
amministrativa, permettendo d'identificare con precisione il
contenuto del programma negoziale, anche ai fini della
verifica della necessaria copertura finanziaria e
dell'assoggettamento al controllo dell'autorità tutoria (cfr.
Cass. 27910/2018; Cass. 19410/2016; Cass. 17646/2002; Cass.
13039/1999; Cass. 21477/2013; Cass. 1606/2007; Cass.
22537/2007).
Tale principio esclude la possibilità di ritenere
ammissibile il perfezionamento dell'accordo sulla base di
una manifestazione di volontà implicita o di comportamenti
concludenti o meramente attuativi (cfr. Cass. 22994/2015;
Cass. 12323/2005).
Il requisito di forma scritta è richiesto non soltanto per
la conclusione del contratto, ma anche per le eventuali
modificazioni successive, le quali devono rivestire, a pena
di nullità, la medesima forma del contratto originario, non
potendo essere introdotte in via di mero fatto mediante
l'adozione di contenuti e pratiche difformi da quelle
precedentemente convenute, ancorché protrattisi nel tempo e
rispondenti ad un accordo tacitamente intervenuto tra le
parti in epoca successiva o -comunque- mediante
comportamenti concludenti, venendo altrimenti eluso il
suddetto vincolo di forma (cfr. Cass. 8539/2011; Cass.
8621/2006; Cass. 5448/1999).
Non era inoltre invocabile l'art. 17, del R.D. 2240/1923,
poiché, in disparte ogni altra questione, la norma non
introduce alcuna deroga al requisito della forma scritta, ma
si limita a consentire, a date condizioni, il
perfezionamento dei contratti pubblici non mediante
dichiarazioni formali contestuali, contenute in un documento
unico, ma tramite lo scambio di corrispondenza a distanza,
secondo gli usi commerciali (Cass. 6555/2014; Cass.
8000/2010; Cass. 7297/2009; Cass. 1752/2007), non essendo
comunque sufficiente che dagli scritti risultino
comportamenti attuativi di un accordo solo verbale (Cass.
5263/2015).
Del tutto irrilevante era che, quale conseguenza
dell'adozione della delibera regionale n. 200/1999, fossero
stati aggravati i costi di gestione degli impianti,
occorrendo che l'amministrazione, prendendo atto della nuova
situazione, acconsentisse, nelle forme dovute, alla modifica
della convenzione e ne valutasse, alla stregua
dell'interesse pubblico, l'effettiva incidenza nell'economia
del rapporto già in essere.
Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo
soccombenza (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 22.03.2019 n. 8244). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nullità degli atti di trasferimento di immobili
abusivi: la parola alle Sezioni Unite. La Suprema Corte
chiamata a dirimere un annoso contrasto.
La nullità degli atti traslativi di immobili abusivi è, come
noto, uno di quei temi da sempre dibattuto sia in dottrina
che in giurisprudenza.
Inizialmente fu la c.d. “legge ponte” (L. n. 795 del
1967) a sancire la nullità degli atti di compravendita di
terreni abusivamente lottizzati.
Dopo di che l’art. 15, comma 7, della c.d. legge Bucalossi (L.
n. 10/1977), ha stabilito l’invalidità dei rogiti aventi ad
oggetto unità edilizie completamente prive di concessione.
La ratio della disposizione era individuata nell’interesse a
tutelare, quanto più possibile, l’acquirente. In conformità
a tale spirito normativo, la nullità derivante dalla
mancanza di concessione veniva definita dalla giurisprudenza
in termini di nullità relativa.
La L. n. 47 del 1985, normativa che per prima ha introdotto
il principio del condono edilizio, ha sanzionato gli atti
tra vivi (o di costituzione ovvero di scioglimento della
comunione di diritti reali) aventi ad oggetto edifici o
parti di essi privi della dichiarazione, da parte del
venditore, recante gli estremi della concessione edilizia,
oppure del titolo o della domanda in sanatoria con
l’indicazione dei dovuti versamenti.
Disposizioni chiaramente volte ad assicurare la necessaria
attenzione per l’esigenza di non paralizzare altrimenti la
circolazione degli immobili.
L’impianto normativo è poi integralmente confluito nell’art.
46 del T.U. dell’edilizia, il D.L.vo n. 380 del 2001.
Rispetto a questo tema due sono stati i filoni
interpretativi che hanno caratterizzato la giurisprudenza di
legittimità:
a) l’orientamento più antico è quello che privilegia
un’interpretazione letterale degli artt. 17 e 40 della L. n.
47/1985, in base al quale la nullità rileva soltanto sul
piano formale, ossia della mera mancanza della dichiarazione
degli estremi della concessione edilizia, ovvero della
domanda di concessione in sanatoria. Non assume, così,
rilievo, l’irregolarità sostanziale del bene sotto il
profilo urbanistico, posto che siffatto elemento ha a che
fare con il tema dell’adempimento del debitore, essendo
quest’ultimo obbligato a trasferire l’immobile esattamente
voluto dall’acquirente;
b) il principio della nullità degli atti di trasferimento
immobiliare irregolari rispetto alla normativa urbanistica
ha carattere sostanziale. Detta nullità si aggiunge, così,
alla nullità comminata agli atti aventi ad oggetto immobili
in regola od in corso di regolarizzazione privi
dell’indicazione dei titoli concessori. Questo secondo
orientamento si fonda sul principio in base al quale
l’approccio formalistico più risalente rischia di produrre
il risultato di impedire i trasferimenti di immobili
abusivi, facendo ritenere nullo un atto relativo ad un
immobile regolare (per l’assenza della dichiarazione), e per
converso valido un atto avente ad oggetto un immobile
totalmente difforme dal titolo edilizio ivi menzionato.
Dinanzi ad una cospicua produzione giurisprudenziale, con
specifico riguardo alla portata della nullità degli atti
traslativi di immobili abusivi, la seconda sezione civile
della Suprema Corte con ord.za n. 20061 del 2018 ha rimesso
gli atti al primo Presidente affinché si valutasse
l’opportunità di una pronuncia dirimente delle Sezioni
Unite, auspicando una precisazione sulla nozione di
irregolarità urbanistica, rilevante in tema di invalidità
degli atti traslativi, dando rilievo anche alla distinzione
tra variazione essenziale e non essenziale dell’immobile
oggetto di stipula, rispetto al progetto approvato
dall’Amministrazione comunale.
Con la poderosa
sentenza 22.03.2019 n.
8230, le SS.UU. civili pongono (almeno per ora) fine
al contrasto, aderendo all’orientamento originario, ed
enunciando i seguenti principi di diritto:
a) La nullità comminata
dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e
40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell'ambito del
comma 3 dell'art. 1418 Cod. civ., di cui costituisce una
specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità
“testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in
stretta adesione al dato normativo, un'unica fattispecie di
nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali
elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la
mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo
abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia, deve
esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a
quell'immobile.
b) In presenza nell'atto della dichiarazione dell'alienante degli
estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile
all'immobile, il contratto è valido a prescindere dal
profilo della conformità o della difformità della
costruzione realizzata al titolo menzionato
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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SENTENZA
1. Il contrasto nella giurisprudenza della seconda
Sezione di questa Corte, che queste Sezioni Unite sono
chiamate a dirimere, riguarda l'interpretazione della
sanzione di nullità prevista dagli artt. 17 e 40 della L. n.
47 del 1985 e 46 del TU n. 380 del 2001 entrato in vigore il
30.06.2003 (l'originaria data del 30.06.2001, disposta
dall'art. 138 del TU, è stata prorogata di un anno dall'art.
5-bis, co. 1, del D.L. 411 del 2001, convertito con
modificazioni dalla L. n. 463 del 2001, e di un ulteriore
anno dall'art. 2, co. 1, del D.L. n. 122 del 2002,
convertito con modificazioni dalla L. n. 185 del 2002).
Va precisato che il caso in esame è disciplinato dall'art.
46 del TU del 2001, dato che la nullità riguarda, in tesi,
la vendita immobiliare in data 01.6.2005, ai rogiti Sc., da
potere di An.Da.Mo. e di Ro.Ar., per i rispettivi diritti,
in favore di Do.Ci. e Gi.Se.; mentre l'abuso edilizio, che
il ricorrente afferma aver compiuto nei beni oggetto di tale
negozio, ricade nella disciplina della L. n. 47 del 1985
essendo intervenuto dopo l'acquisto, asseritamente simulato,
delle venditrici avvenuto il 23.10.2001 ed a seguito della
concessione edilizia n. 98 del 17.12.2001, titolo che, com'è
incontroverso, è stato menzionato nell'atto impugnato. Per
il resto, la precisazione è priva di rilevanza, come pure
sottolinea il PG, trattandosi di disposizioni
sostanzialmente analoghe.
2. La disciplina urbanistica.
2.1. La questione sottoposta impone, per le sue
sfaccettature, di premettere sinteticamente quanto segue.
L'esercizio dello jus aedificandi, pur atteggiandosi
come una concreta e peculiare manifestazione del diritto di
proprietà fondiaria, soggiace all'osservanza di molteplici
limitazioni e prescrizioni connesse a determinazioni della
pubblica autorità, previste già in nuce negli artt.
86-92 della L. n. 2359 del 1865, e poi codificate, in via
generale, dalla legge 17.08.1942, n. 1150 -legge
urbanistica- che, all'art. 31, ha, appunto, imposto di
richiedere apposita licenza per l'esecuzione di nuove
costruzioni, l'ampliamento di quelle esistenti, la modifica
di struttura o dell'aspetto dei centri abitati ed in
presenza di piano regolatore comunale, anche nelle zone di
espansione.
2.2. La legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. legge Ponte) art. 10,
nel sostituire il menzionato art. 31 della Legge
Urbanistica, ha esteso l'obbligo della licenza edilizia a
tutto il territorio comunale (nel centro abitato e fuori).
2.3. La successiva legge 28.01.1977, n. 10 (c.d. legge
Bucalossi) ha posto il principio secondo cui ogni attività
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e
la relativa esecuzione è subordinata a concessione da parte
del sindaco (art. 1). La sostituzione della licenza con la
concessione edilizia (cfr. art. 21) non ha, peraltro,
comportato modifiche sostanziali dal punto di vista
giuridico, in quanto la nuova concessione a edificare non ha
attribuito nuovi diritti, ma ha svolto una funzione
sostanzialmente analoga all'antica licenza: accertare la
ricorrenza delle condizioni previste dall'ordinamento per
l'esercizio dello jus aedificandi (cfr. Corte Cost.
n. 5 del 1980).
2.4. Col testo unico dell'edilizia di cui al D.P.R.
06.06.2001, n. 380, sono stati definiti i tipi d'intervento
edilizio (art. 3), è stato previsto uno specifico titolo
abilitativo per ciascuna tipologia di intervento, ed
individuati casi di attività completamente libere. In
particolare, la concessione è stata sostituita dal permesso
di costruire (art. 10), sono stati indicati gli interventi
realizzabili mediante la segnalazione certificata di inizio
di attività (già denuncia di inizio attività) (art. 22)
anche in sostituzione del permesso (art. 23, quale
modificato dall'art. 3, co. 1 lett. g), del D.lgs. n. 222
del 2016), sono stati codificati i lavori che si reputano
eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale
difformità o con variazioni essenziali (art. 31), enunciate
le condizioni in presenza delle quali ricorre "l'essenzialità"
della variazione al progetto approvato, che deve essere
stabilita dalle Regioni (art. 32).
3. La comminatoria della nullità.
3.1. L'inosservanza dei precetti posti dalla normativa
urbanistica, da sempre variamente sanzionata sotto un
profilo amministrativo, con la distruzione, o la sospensione
dei lavori, o la demolizione del manufatto contrario al PRG
o al titolo abilitativo o con l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale (artt. 90 L. n. 2359 del 1865; 26 Legge
Urbanistica; 6 L. n. 765 del 1967; 15 L. n. 10 del 1977; 7
L. n. 47 del 1985 e 40 d.P.R. n. 380 del 2001) e penale, con
fattispecie contravvenzionali (artt. 41 Legge Urbanistica;
13 L. n. 765 del 1967; 17 L. n. 10 del 1977; 20 L. n. 47 del
1985; 44 d.P.R. n. 380 del 2001), ha avuto la sua prima
disciplina in riferimento alla sorte degli atti tra privati
aventi ad oggetto diritti reali su fabbricati irregolari
sotto il profilo urbanistico con la L. n. 10 del 1977, il
cui art. 15, co 7, ha previsto, per quanto interessa in
questa sede, che: "Gli atti giuridici aventi per oggetto
unità edilizie costruite in assenza di concessione sono
nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a
conoscenza della mancanza della concessione",
disposizione che era stata preceduta dalla L. n. 765 del
1967, art. 10, che, nel modificare l'art. 31 della Legge
Urbanistica, aveva disposto la nullità delle compravendite
di terreni abusivamente lottizzati a scopo residenziale nel
medesimo caso in cui "da essi non risulti che
l'acquirente era a conoscenza della mancanza" di una
lottizzazione autorizzata.
3.2. La legge 28.02.1985 n. 47, denominata "Norme in
materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie" ed
emanata appunto al duplice scopo di reprimere il fenomeno
dell'abusivismo e di sanare il pregresso, ha rimodulato la
sanzione di nullità, disponendo all'art. 17, co. 1, che: "gli
atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata,
aventi per oggetto trasferimento o costituzione o
scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad
edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo
l'entrata in vigore della presente legge, sono nulli e non
possono essere stipulati ove da essi non risultino, per
dichiarazione dell'alienante, gli estremi della concessione
ad edificare o della concessione in sanatoria rilasciata ai
sensi dell'articolo 13. Tali disposizioni non si applicano
agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti
reali di garanzia o di servitù".
Analogamente ha disposto il successivo art. 40, co. 2, che,
in relazione agli atti aventi per oggetto diritti reali
(esclusi diritti di garanzia e servitù) riferiti a
costruzioni realizzate prima dell'entrata in vigore della
legge stessa, ha previsto quali titoli abilitativi oggetto
di dichiarazione dell'alienante la licenza e la concessione
in sanatoria (che la legge introduceva), la domanda di
concessione corredata dalla prova del versamento delle prime
due rate dell'oblazione o la dichiarazione sostitutiva di
atto notorio attestante che l'opera era stata iniziata prima
del 02.09.1967.
Entrambe tali disposizioni hanno previsto (artt. 17, co. 4,
e 40, co. 3) la possibilità della "conferma" delle
comminate nullità, nel caso in cui la mancata indicazione
della concessione edilizia, ovvero la mancanza di
dichiarazione o il mancato deposito di documenti, non
fossero dipesi dall'inesistenza, al tempo della stipula,
della concessione, o della domanda di concessione in
sanatoria, o, ancora dal fatto che la costruzione sia stata
iniziata dopo il 02.09.1967: in tal caso, è stata prevista
la possibilità della conferma degli atti, anche da una sola
delle parti, mediante atto successivo, redatto nella stessa
forma del precedente, contenente la menzione omessa o al
quale siano allegate la dichiarazione sostitutiva di atto
notorio o la copia della domanda di concessione in
sanatoria.
3.3. Il menzionato art. 17 della L. n. 47 del 1985 è stato
abrogato (l'art. 40 è invece rimasto in vigore) dall'art.
136 del d.P.R. n. 380 del 2001 a far data dalla sua entrata
in vigore, ma è stato sostanzialmente riprodotto dall'art.
46 del medesimo d.P.R. n. 380, intitolato "Nullità degli
atti giuridici relativi ad edifici la cui costruzione
abusiva sia iniziata dopo il 17.03.1985 (legge 28.02.1985,
n. 47, art. 17; decreto-legge 23.04.1985, n. 146, art. 8)"
secondo cui: "Gli atti tra vivi, sia in forma pubblica,
sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o
costituzione o scioglimento della comunione di diritti
reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione
è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono
essere stipulati ove da essi non risultino, per
dichiarazione dell'alienante, gli estremi del permesso di
costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non
si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi
di diritti reali di garanzia o di servitù". Il comma 4
della norma in esame prevede, anch'esso, la possibilità di
conferma nell'ipotesi in cui la mancata indicazione
nell'atto degli estremi del titolo non sia dipesa
dall'inesistenza del titolo stesso.
3.4. Va aggiunto che il discrimen temporale tra la
legge n. 47 del 1985 ed il TU sull'edilizia (costruzioni
realizzate prima e dopo il 17.03.1985) è stato superato per
effetto di due successivi condoni, introdotti con L. n. 724
del 1994 (art. 39) e col DL n. 269 del 2003, convertito
dalla L. n. 326 del 2003 (art. 32, co. 25) per alcune
tipologie di fabbricati ed irregolarità edilizie in
riferimento ad abusi rispettivamente, commessi fino al
31.12.1993 e fino al 31.03.2003.
4. La giurisprudenza sulla legge Bucalossi.
4.1. Val bene rilevare che, nonostante la realizzazione di
lavori senza licenza costituisse, come si è visto, un
illecito sanzionato penalmente dall'art. 41 della L.
17.08.1942, n. 1150 (anche prima delle sue modifiche da
parte della L. n. 765 del 1967 art. 13), la giurisprudenza
di questa Corte ha escluso l'invalidità dei rapporti che
avevano ad oggetto edifici realizzati in assenza di licenza,
o la relativa incommerciabilità, reputando che, in assenza
di espressa comminatoria, la nullità della compravendita non
poteva ritenersi integrata sotto il profilo della illiceità
dell'oggetto del contratto, per essere oggetto di tale
negozio il trasferimento della proprietà della cosa,
insuscettibile, nella sua essenza, in termini di valutazione
di illiceità, attenendo tale qualificazione all'attività
della sua produzione, in sé estranea al contenuto tipico
delle prestazioni oggetto della compravendita (cfr. Cass. n.
2631 del 1984; n. 6466 del 1990), sicché la costruzione di
un immobile senza licenza edilizia comportava unicamente
l'illiceità dell'attività del costruttore, e poteva dar
luogo ai rimedi civilisti della risoluzione per
inadempimento, dell'actio quanti minoris o della
garanzia per evizione, (in ipotesi di sanzione pecuniaria o
di demolizione del bene, Cass. n. 6399 del 1984; n. 11218
del 1991; n. 4786 del 2007), ma non impediva che il
proprietario del suolo acquistasse il diritto dominicale
dell'edificio costruito e ne potesse liberamente disporre
nei confronti dei terzi (Cass. n. 4096 del 1980; n. 6063 del
1995).
4.2. In tale contesto, la disposizione di cui all'art. 15
della L. n. 10 del 1977, che, come si è sopra esposto, ha
introdotto la comminatoria di nullità degli atti aventi ad
oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione,
sempre che dagli stessi non risultasse che l'acquirente era
a conoscenza della mancanza della concessione, è stata
valutata, come pure rammenta l'ordinanza di rimessione, in
termini di invalidità relativa, deducibile solo dal
contraente in buona fede ignaro dell'abuso edilizio, e volto
a tutelarne, ulteriormente, le ragioni e così consentirgli
di ripetere il corrispettivo pagato, o di evitarne,
comunque, il pagamento qualora non fosse stato ancora
versato (cfr. Cass. n. 3350 del 1992; n. 4926 del 1993; n.
8685 del 1999).
5. La giurisprudenza sulla L. n. 47 del 1985 e sul TU n.
380 del 2001.
Teoria c.d. formale.
5.1. In riferimento alle disposizioni degli artt. 17 e 40
della L. n. 47 del 1985, la giurisprudenza di questa Corte
(Cass. n. 8685 del 1999) nel rimarcare la differenza col
pregresso regime, ha sottolineato che dette norme mirano a
reprimere e a scoraggiare gli abusi edilizi e, derivando
dalla mancata indicazione nell'atto, da parte
dell'alienante, degli estremi della concessione (ad
edificare o in sanatoria), non hanno alcun riguardo allo
stato di buona o mala fede dell'acquirente. La nuova
sanzione, da esse prevista, costituisce un'ipotesi di
nullità assoluta, come tale suscettibile di esser fatta
valere da chiunque vi abbia interesse, rilevabile d'ufficio
dal giudice ex art. 1421 c.c., e riconducibile all'ultimo
comma dell'art. 1418 c.c., quale ipotesi di nullità formale
e non virtuale, conclusione che non è smentita dalla
possibilità di successiva conferma degli atti viziati
mediante la redazione di altro atto, reputato un semplice
rimedio convalidante, "consentito soltanto nel caso che
le carenze della precedente stipulazione siano meramente
formali e non siano dipese, quindi, dall'insussistenza,
all'epoca di essa, dei requisiti sostanziali per la
commerciabilità del bene".
La natura formale della nullità è stata confermata da Cass.
n. 8147 del 2000, che, dopo averne posto in evidenza il
duplice obiettivo di soddisfare l'esigenza di tutela
dell'affidamento dell'acquirente e l'esigenza di prevenzione
degli abusi, ha osservato che le prescritte dichiarazioni
costituiscono requisito formale del contratto, sicché è la
loro assenza "che di per sé comporta la nullità
dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile
che ne costituisce l'oggetto", in altri termini: "l'irregolarità
del bene non rileva di per sé, ma solo in quanto preclude la
conferma dell'atto. Simmetricamente, la regolarità del bene
sotto il profilo urbanistico non rileva in sé, ma solo in
quanto consente la conferma dell'atto".
In tale arresto, è stata, in particolare, esclusa la
fondatezza della tesi, secondo cui accanto a tale nullità
avrebbe dovuto ravvisarsi una nullità sostanziale (per la
difformità della costruzione rispetto al titolo abilitativo),
sul rilevo che ove "il legislatore avesse voluto
attribuire diretta rilevanza alla non conformità dei beni
alla normativa urbanistica, con o senza il "filtro" della
prescrizione di forma, si dovrebbe finire per considerare
valido, al di là delle indicazioni, l'atto che riguardi beni
comunque in regola con le norme urbanistiche",
evidenziando che, in tal modo, si sarebbe svuotata la
portata precettiva della previsione della conferma degli
atti e così vanificato "l'apprezzabile tentativo operato
dal legislatore di trovare una soluzione che non solo
costituisca uno strumento di lotta contro l'abusivismo, ma
che soddisfi anche l'interesse dell'acquirente alla (esatta)
conoscenza delle condizioni del bene oggetto del contratto".
5.2. Tale ricostruzione sistematica è stata poi seguita
dalla giurisprudenza successiva, tra le altre: la sentenza
n. 5068 del 2001 (rigettando il motivo di ricorso avverso
una sentenza emessa ex art. 2932 c.c.) ha riaffermato il
principio della natura formale delle nullità in esame; la
sentenza n. 5898 del 2004, ne ha ribadito la riconducibilità
all'art. 1418, ult. co , c.c. e la sua configurabilità nella
mancata indicazione nell'atto degli estremi della
concessione, confermando che la sanzione non prende in
considerazione l'ipotesi della conformità o meno
dell'edificio rispetto al titolo urbanistico, e che la
nullità del contratto di compravendita è prevista a
prescindere dalla regolarità dell'immobile che ne
costituisce l'oggetto; la sentenza n. 26970 del 2005 ha
aggiunto che tale conclusione consegue alla rigidità della
previsione normativa; la sentenza n. 7534 del 2004 ha
sottolineato il principio secondo cui le norme che
sanciscono la nullità degli atti sia in base all'art. 15
della L. n. 10 del 1977 che in base all'art. 40 della L. n.
47 dello '85, ponendo limiti all'autonomia privata e divieti
alla libera circolazione dei beni, debbono ritenersi di
stretta interpretazione, sicché esse non possono applicate
ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste; la
sentenza n. 16876 del 2013, pur ritenendo interessante la
tesi della c.d. nullità sostanziale, ha confermato che i
canoni normativi dell'interpretazione della legge non
consentono di attribuire al testo normativo un significato
che prescinda o superi le espressioni formali in cui si
articola, e che i casi di nullità previsti dalla norma di
cui all'art. 40 -mancata indicazione degli estremi della
licenza edilizia, ovvero dell'inizio della costruzione prima
del 1967- sono tassativi e non estensibili per analogia.
5.3. In base a tale impostazione, la questione della
negoziabilità di immobili affetti da irregolarità
urbanistiche, non sanate o non sanabili, è stata risolta
nella giurisprudenza di questa Corte sul piano
dell'inadempimento, in modo in sostanza non difforme da
quanto si era ritenuto in riferimento alle disposizioni
della legge Bucalossi.
In particolare, in tema di preliminare, la sentenza n. 27129
del 2006 ha ritenuto inadempimento di non scarsa importanza
-tale da giustificare il recesso dal contratto del
promittente acquirente e la restituzione del doppio della
caparra versata- il comportamento del promittente alienante
che prometta in vendita un immobile costruito in violazione
di un vincolo di inedificabilità assoluta e al di fuori di
ogni possibilità di regolarizzazione; e la sentenza n. 20714
del 2012 ha affermato che la presentazione dell'istanza di
condono edilizio e del pagamento delle prime due rate
dell'oblazione presuppone che la domanda in questione sia
connotata dai requisiti minimi perché possa essere presa in
esame, con probabilità di accoglimento, dalla P.A., in
difetto delle quali il preliminare di vendita può essere
risolto per colpa del promittente venditore.
In tema di vendita, poi, la sentenza n. 25357 2014 (in
fattispecie in cui il convenuto con azione di evizione aveva
chiamato in manleva i propri venditori) ha affermato che la
responsabilità dell'alienante di un immobile affetto da
irregolarità edilizie si applica, indipendentemente dalla
prestazione di una garanzia in tal senso, salva l'ipotesi
della conoscenza della medesima irregolarità.
Teoria c.d. sostanziale
5.4. Il primo segnale del diverso orientamento, richiamato
nell'ordinanza di rimessione, va individuato nella sentenza
n. 20258 del 2009, che, nel valutare la fondatezza di una
domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere
il contratto, pur richiamando il precedente consolidato
indirizzo, non ha mancato di precisare che la strumentazione
prevista dalla L. n. 47 del 1985 ha lo scopo di garantire
che il "bene nasca e si trasmetta nella contrattazione
soltanto se privo di determinati caratteri di abusivismo",
aggiungendo che il prescritto obbligo di dichiarazione in
seno all'atto degli estremi della licenza o della
concessione edilizia (ovvero della concessione in sanatoria)
presuppone che detta documentazione vi sia effettivamente e
riguardi la costruzione in concreto realizzata.
5.5. Il diverso indirizzo si è, però, concretizzato con la
sentenza n. 23591 del 2013. Con tale decisione, si è,
appunto, affermato che il contratto avente ad oggetto un
bene irregolare dal punto di vista edilizio è affetto da
nullità sostanziale. Ciò è stato ritenuto, anzitutto, sulla
base dello scopo perseguito dalla norma, che è stato
individuato in quello di rendere incommerciabili gli
immobili non in regola dal punto di vista urbanistico;
inoltre, è stata posta in evidenza l'incongruità di un
sistema che sanzioni con la nullità per motivi meramente
formali atti di trasferimento di immobili regolari dal punto
di vista urbanistico, o in corso di regolarizzazione, e
consenta, invece, il valido trasferimento di immobili non
regolari, lasciando alle parti interessate la possibilità di
assumere l'iniziativa di risolverli sul piano
dell'inadempimento contrattuale, o, addirittura, di eludere
consensualmente lo scopo perseguito dal legislatore,
stipulando il contratto ed immediatamente dopo concludendo
una transazione con la quale il compratore rinunziasse al
diritto a far valere l'inadempimento della controparte.
Si è sottolineato, ancora, che il maggior rigore voluto dal
legislatore, con L. 47 del 1985 rispetto a quello previsto
dalla legge Ponte -che prevedeva la nullità degli atti
giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in
assenza di concessione, ove da essi non risultasse che
l'acquirente era a conoscenza della mancata concessione-
resterebbe vanificato se, per gli atti in questione, si
riconoscesse all'acquirente la sola tutela prevista per
l'inadempimento. La sentenza in esame ha poi evidenziato
che, nonostante la sua "non perfetta formulazione",
la lettera dell'art. 40 della L n. 47 del 1985 consente di
desumere "l'affermazione del principio generale della
nullità (di carattere sostanziale) degli atti di
trasferimento di immobili non in regola con la normativa
urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere
formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola
con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la
regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli
atti stessi".
Conclusione avvalorata dal comma 3 del medesimo articolo,
che consente la conferma dell'atto, con conseguente salvezza
dalla nullità, solo, nel caso in cui la mancanza delle
dichiarazioni o il deposito dei documenti non siano dipesi
dall'insussistenza della licenza o della concessione o
dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria
al tempo in cui gli atti medesimi sono stati stipulati;
conferma che non avrebbe senso se tali atti fossero ab
origine validi, e ferma restando la responsabilità per
inadempimento del venditore.
5.6. Tale decisione è stata recepita nella sentenza n. 28194
del 2013, adottata in pari data, di analogo tenore, ed è
stata seguita dalle sentenze n. 25811 del 2014 e n. 18261
del 2015, prive in parte qua di specifiche argomentazioni.
6. La natura della nullità.
6.1. Come si è detto in narrativa, l'ordinanza di rimessione
invita queste Sezioni Unite a riconsiderare l'indirizzo più
recente, non mancando di sottolineare come la tesi della
nullità virtuale da esso propugnato:
a) non trova un solido
riscontro nella lettera della legge;
b) può risultare
foriera di notevoli complicazioni nella prassi applicativa,
con conseguente rischio per la parte acquirente, esposta
alla declaratoria di nullità pur in situazioni in cui aveva
fatto incolpevole affidamento sulla validità dell'atto;
c)
impone, in tal caso, di precisare la nozione di irregolarità
urbanistica che dà luogo alla nullità, ed eventualmente di
chiarire se sia applicabile alla materia degli atti ad
effetti reali, la nozione tra variazione essenziale e non
essenziale elaborata in tema di esecuzione specifica
dell'obbligo di concludere un contratto.
6.2. Il contrasto, che non è solo diacronico, constando
esser stata di recente ribadita la tesi della nullità
formale (sentenza n. 14804 del 2017, che richiama la n. 8147
del 2000, sopra citata al § 5.1.), attiene invero alla
possibilità di ravvisare accanto alla nullità formale dovuta
alla mancata inclusione nell'atto della dichiarazione
dell'alienante, che è unanimemente riconosciuta, anche,
l'esistenza di una nullità sostanziale dell'atto ad effetti
reali per l'irregolarità urbanistica della costruzione,
affermata dalla giurisprudenza più recente ed in precedenza
negata.
6.3. A fronte del sostanziale distacco mostrato in passato
rispetto al tema della rispondenza del bene al titolo
abilitativo, la cui nunciazione in seno all'atto è stata nei
fatti considerata un mero requisito formale e l'esigenza di
prevenzione degli abusi concorrente, se non secondaria,
rispetto alla tutela dell'affidamento dell'acquirente, gli
argomenti a sostegno dell'interpretazione c.d. rigorista
sopra riassunti, sono, per contro, mossi dal chiaro intento
di supportare, anche da un punto di vista schiettamente
civilistico, il disvalore espresso dall'ordinamento rispetto
al diffuso fenomeno dell'abusivismo edilizio.
Tale disvalore, in effetti, si coglie non solo in
riferimento alle sanzioni penali ed amministrative
variamente graduate che reprimono direttamente la
commissione di abusi edilizi (di cui si è già detto e su cui
infra), ma, in generale, in relazione alla percezione
negativa di ciò che circonda il bene abusivo.
Tanto si desume dalla giurisprudenza che ritiene nulli per
illiceità dell'oggetto i contratti d'appalto aventi ad
oggetto la costruzione di un immobile senza titolo
abilitativo (Cass. n. 7961 del 2016; n. 13969 del 2011 e cfr.,
pure, n. 3913 del 2009; n. 2187 del 2011; n. 30703 del
2018), o non suscettibili di indennizzo espropriativo gli
edifici costruiti abusivamente (a meno che, alla data
dell'esproprio, sia stata avanzata domanda di sanatoria, pur
non ancora scrutinata dalla P.A., ma con favorevole
valutazione prognostica, art. 38, co. 2-bis, del d.P.R. n.
327 del 2001, Cass. n. 18694 del 2016; n. 10458 del 2017; n.
645 del 2018), ed, in assoluto, in relazione al valore
conformativo della proprietà riconosciuto alla disciplina
urbanistica (Cass. SU n. 183 del 2001 e successive
conformi).
Inoltre, l'importanza della veridicità delle dichiarazioni
dell'alienante, affermata dalla menzionata sentenza n. 20258
del 2009, ha trovato seguito nella successiva giurisprudenza
in tema di contratto preliminare (Cass. n. 52 del 2010; n.
8081 del 2014).
L'esegesi propugnata dalla teoria c.d. sostanziale, pur
mossa da un intento commendevole, non può tuttavia
prescindere dagli specifici dati normativi di riferimento,
ed al cui esame non può essere qui avallata.
6.4. L'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 dichiara, infatti,
invalidi quegli atti da cui non constino (ove da essi non
risultino) gli estremi del permesso di costruire o del
permesso in sanatoria, ovvero gli estremi della segnalazione
certificata di inizio attività, con la precisazione che tali
elementi devono risultare per dichiarazione dell'alienante.
Nella disposizione di cui all'art. 17 della L. n. 47 del
1985, la dichiarazione deve avere ad oggetto, coerentemente
alla disciplina abilitativa allora vigente, gli estremi
della concessione ad edificare o della concessione in
sanatoria, laddove l'art. 40 della menzionata L. n. 47,
consente di stipulare validamente, oltre che con
l'indicazione degli estremi della licenza o della
concessione in sanatoria, anche con l'allegazione della
relativa domanda e versamento delle prime rate di oblazione,
o con la dichiarazione sostitutiva di atto notorio
attestante l'inizio della costruzione in epoca anteriore al
02.09.1967.
Nell'ipotesi qui in rilievo di compravendita di edifici o
parte di essi (ed a parte le allegazioni di cui all'art.
40), le norme pongono, dunque, un medesimo, specifico,
precetto: che nell'atto si dia conto della dichiarazione
dell'alienante contenente gli elementi identificativi dei
menzionati titoli, mentre la sanzione di nullità e
l'impossibilità della stipula sono direttamente connesse
all'assenza di siffatta dichiarazione (o allegazione, per le
ipotesi di cui all'art. 40). Null'altro.
6.5. Pare, dunque, che il principio generale di nullità
riferita agli immobili non in regola urbanisticamente che la
giurisprudenza c.d. sostanzialista ritiene di poter desumere
da tale contesto normativo, sottolineando l'intenzione del
legislatore di renderli tout court incommerciabili,
costituisca un'opzione esegetica che ne trascende il
significato letterale e che non è, dunque, ossequiosa del
fondamentale canone di cui all'art. 12, co 1, delle Preleggi,
che impone all'interprete di attribuire alla legge il senso
fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la
loro connessione.
La lettera della norma costituisce, infatti, un limite
invalicabile dell'interpretazione, che è uno strumento
percettivo e recettivo e non anche correttivo o sostitutivo
della voluntas legis (cfr. Cass. n. 12144 del 2016),
tanto che, in tema di eccesso di potere giurisdizionale
riferito all'attività legislativa, queste Sezioni Unite
hanno affermato che l'attività interpretativa è, appunto,
segnata dal limite di tolleranza ed elasticità del
significante testuale (cfr. Cass. S.U. n. 15144 del 2011; n.
27341 del 2014).
La tesi della nullità generalizzata non è neppure in linea
col criterio di interpretazione teleologica, di cui
all'ultima parte del primo comma dell'art. 12 citato, che
non consente all'interprete di modificare il significato
tecnico giuridico proprio delle espressioni che la
compongono, ove ritenga che l'effetto che ne deriva sia
inadatto rispetto alla finalità pratica cui la norma è
intesa (cfr. Cass. n. 3495 del 1996; n. 9700 del 2004 e
giurisprudenza ivi citata) e ciò in quanto la finalità di
una norma va, proprio al contrario, individuata in esito
all'esegesi del testo oggetto di esame e non già, o al più
in via complementare, in funzione dalle finalità ispiratrici
del più ampio complesso normativo in cui quel testo è
inserito (cfr. Cass. n. 24165 del 2018).
Inoltre, come ricordato dal PG nella sua requisitoria, la
lettera della norma costituisce il limite cui deve
arrestarsi, anche, l'interpretazione costituzionalmente
orientata dovendo, infatti, esser sollevato l'incidente di
costituzionalità ogni qual volta l'opzione ermeneutica
supposta conforme a costituzione sia incongrua rispetto al
tenore letterale della norma stessa (Corte Cost. sentenze n.
78 del 2012; n. 49 del 2015; n. 36 del 2016 e n. 82 del
2017).
Del resto, lo scarto dialettico della tesi si coglie, anche,
dalla prospettiva delle decisioni che la hanno sostenuta,
laddove hanno ritenuto "imperfetta" la formulazione
della norma.
6.6. In base a tali principi, e specie al lume della
consolidata ed univoca interpretazione giurisprudenziale
delle disposizioni in tema di ricadute civilistiche relative
ad atti aventi ad oggetto immobili abusivi e nonostante la
relativa edificazione, come si è ricordato, fosse sanzionata
penalmente, l'ipotizzato scopo avrebbe potuto esser
agevolmente perseguito mediante una semplice previsione di
nullità degli atti aventi ad oggetto siffatti immobili o d'incommerciabilità
degli stessi.
Il che non è stato fatto. Al contrario, la nullità risulta
comminata per specifici atti ad effetti reali inter vivos,
sicché ne restano fuori non solo quelli mortis causa, e gli
atti ad effetti obbligatori, ma ne sono espressamente
esclusi i diritti reali di garanzia e le servitù, ed
inoltre, gli atti derivanti da procedure esecutive
immobiliari, individuali o concorsuali, ai quali le nullità,
appunto, non si applicano (artt. 46, co. 5, TU n. 380 del
2001; 17, co. 5 e 40, co. 5, della L. n. 47 del 1985).
6.7. Da tanto, consegue che la nullità comminata dalle
disposizioni in esame non può esser sussunta nell'orbita
della nullità c.d. virtuale di cui al comma 1 dell'art. 1418
c.c., che presupporrebbe l'esistenza di una norma imperativa
ed il generale divieto di stipulazione di atti aventi ad
oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente
non utilizzabili, e tale divieto, proprio come registra
l'ordinanza di rimessione, non trova riscontro in seno allo
jus positum, che, piuttosto, enuncia specifiche
ipotesi di nullità.
Né la conclusione può fondarsi nella previsione della
conferma degli atti nulli, mediante la redazione di un atto
aggiuntivo, contemplata per l'ipotesi in cui la mancata
indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla
insussistenza del permesso di costruire al tempo in cui gli
atti medesimi sono stati stipulati (di cui si è detto ai §§
3.2. e 3.3.), in quanto tale conferma e l'atto aggiuntivo
che la contiene presuppongono, bensì, che il titolo e la
documentazione sussistano (cfr. infra), ma, di per sé, non
implicano che l'edificio oggetto del negozio ne rispecchi
fedelmente il contenuto.
6.8. Per completezza d'indagine, ancorché la giurisprudenza
qui esaminata non ne tratti, va aggiunto che la tesi
sostanzialista non può fondarsi sul disposto di cui al comma
secondo dell'art. 1418 c.c.
La consentita disposizione
testamentaria in ordine ad immobili non regolari urbanisticamente, e comunque la possibilità del loro
trasferimento per successione mortis causa, la loro
attitudine a costituire garanzie reali, la loro idoneità,
inoltre, ad esser contemplati in seno agli atti inter
vivos (valga per tutti la locazione) ed in seno ad atti
costituenti diritti reali di servitù escludono che il loro
modo di atteggiarsi possa di per sé solo valere ad integrare
le vietate ipotesi d'illiceità o d'impossibilità
dell'oggetto, o, ancora d'illiceità della prestazione (che,
in tesi, dovrebbero colpire tutti gli atti e, dunque, anche
quelli esentati) o della causa per contrarietà a norme
imperative o al buon costume, dovendo, peraltro, confermarsi
l'esattezza della giurisprudenza richiamata al § 4.1. (Cass.
n. 6466 del 1990; n. 2631 del 1984) che per l'ipotesi qui in
esame (e che peraltro è quella più rilevante nella pratica)
evidenzia che l'oggetto della compravendita, secondo la
definizione data dall'art. 1470 c.c., è il trasferimento
della proprietà della res, che, in sé, non è suscettibile di
valutazione in termini di liceità o illiceità, attenendo
l'illecito all'attività della sua produzione, e, considerato
che la regolarità urbanistica del bene è estranea alla causa
della compravendita, tradizionalmente definita nello scambio
-cosa contro prezzo- che ne costituisce la sua funzione
economica e sociale, ed altresì il suo effetto essenziale.
7. La composizione del contrasto. La nullità testuale.
7.1. Muovendo doverosamente dal dato normativo, secondo
quanto si è sopra esposto, ritiene il Collegio di dover,
anzitutto, affermare al lume delle considerazioni sopra
svolte ai §§ 6.7. e 6.8., che si è in presenza di una
nullità che va ricondotta nell'ambito del comma 3 dell'art.
1418 c.c., secondo quanto ritenuto dalla teoria c.d.
formale, con la precisazione essa ne costituisce una
specifica declinazione, e va definita «testuale»
(secondo una qualificazione pure datane in qualche
decisione), essendo volta a colpire gli atti in essa
menzionati.
Procedendo, poi, all'analisi congiunta dei commi primo e
quarto dell'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ma il
discorso vale in riferimento alle analoghe disposizioni
dell'art. 17, co. 1 e 4, della L. n. 47 del 1985 nonché
mutatis mutandis dei commi 2, e 3 dell'art. 40 della
medesima L. n. 47 del 1985), emerge che, a fronte del primo
comma che sanziona con la nullità specifici atti carenti
della dovuta dichiarazione, il quarto comma ne prevede, come
si è detto, la possibilità di "conferma", id est
di convalida, nella sola ipotesi in cui la mancata
indicazione dei prescritti elementi non sia dipesa dalla
insussistenza del titolo abilitativo.
Il dettato normativo indica, quindi, che il titolo deve
realmente esistere e, quale corollario a valle, che
l'informazione che lo riguarda, oggetto della dichiarazione,
deve esser veritiera: ipotizzare, infatti, la validità del
contratto in presenza di una dichiarazione dell'alienante
che fosse mendace, e cioè attestasse la presenza di un
titolo abilitativo invece inesistente, svuoterebbe di
significato i termini in cui è ammessa la previsione di
conferma e finirebbe col tenere in non cale la finalità di
limite delle transazioni aventi ad oggetto gli immobili
abusivi che la norma, pur senza ritenerli tout court
incommerciabili, senz'altro persegue, mediante la
comminatoria di nullità di alcuni atti che li riguardano.
Se ciò è vero, ne consegue che la dichiarazione mendace va
assimilata alla mancanza di dichiarazione, e che
l'indicazione degli estremi dei titoli abilitativi in seno
agli atti dispositivi previsti dalla norma non ne
costituisce un requisito meramente formale, secondo quanto
ritenuto da parte della giurisprudenza sopra richiamata ai
§§ 5.1 e 5.2. che va in parte qua superata, essa rileva
piuttosto, come pure affermato in altre decisioni adesive
alla teoria formale e sottolineato da un'accorta dottrina,
quale veicolo per la comunicazione di notizie e per la
conoscenza di documenti, o in altri termini, essa ha valenza
essenzialmente informativa nei confronti della parte
acquirente, e, poiché la presenza o la mancanza del titolo
abilitativo non possono essere affermate in astratto, ma
devono esserlo in relazione al bene che costituisce
l'immobile contemplato nell'atto (cfr. Cass. 20258 del 2009
cit.), la dichiarazione oltre che vera, deve esser
riferibile, proprio, a detto immobile.
In costanza di una dichiarazione reale e riferibile
all'immobile, il contratto sarà in conclusione valido, e
tanto a prescindere dal profilo della conformità o della
difformità della costruzione realizzata al titolo in esso
menzionato, e ciò per la decisiva ragione che tale profilo
esula dal perimetro della nullità, in quanto, come si è
esposto al § 6.5., non è previsto dalle disposizioni che la
comminano, e tenuto conto del condivisibile principio
generale, affermato nei richiamati , precedenti, arresti
della Corte, secondo cui le norme che, ponendo limiti
all'autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei
beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di
stretta interpretazione, sicché esse non possono essere
applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse
da quelle espressamente previste.
7.2. La distinzione in termini di variazioni essenziali e
non essenziali, elaborata dalla giurisprudenza di questa
Corte in tema di contratto preliminare ed alla quale si
riferisce l'ordinanza di rimessione, non è pertanto utile al
fine di definire l'ambito della nullità del contratto,
tenuto conto, peraltro, che la moltiplicazione dei titoli
abilitativi, cui si è sopra accennato al § 2.4., previsti in
riferimento all'attività edilizia da eseguire
(minuziosamente indicata), comporterebbe, come correttamente
rilevato dal PG nelle sue conclusioni, un sistema
sostanzialmente indeterminato, affidato a graduazioni di
irregolarità urbanistica di concreta difficile
identificazione ed, in definitiva, inammissibilmente
affidato all'arbitrio dell'interprete.
Il che mal si concilia con le esigenze di salvaguardia della
sicurezza e della certezza del traffico giuridico e spiega
la cautela dalla prevalente giurisprudenza di questa Corte,
da ultimo ricordata da Cass. n. 111659 del 2018, all'uso
dello strumento civilistico della nullità quale indiretta
forma di controllo amministrativo sulla regolarità
urbanistica degli immobili.
7.3. La tesi qui adottata non è, peraltro, dissonante
rispetto alla finalità di contrasto al fenomeno
dell'abusivismo edilizio, cui pure tende la disposizione in
esame, e che è meritevole di massima considerazione.
Pare infatti che la ricostruzione nei termini di cui si è
detto della nullità concorra a perseguirlo, costituendo uno
dei mezzi predisposti dal legislatore per osteggiare il
traffico degli immobili abusivi: per effetto della
prescritta informazione, l'acquirente, utilizzando la
diligenza dovuta in rebus suis, è, infatti, posto in
grado di svolgere le indagini ritenute più opportune per
appurare la regolarità urbanistica del bene, e così valutare
la convenienza dell'affare, anche, in riferimento ad
eventuale mancata rispondenza della costruzione al titolo
dichiarato.
In tale valutazione, potrà, ben a ragione, incidere la
sanzione della demolizione che l'art. 31, co. 2 e 3, del
d.P.R. n. 380 del 2001 prevede nei confronti sia del
costruttore che del proprietario in caso d'interventi
edilizi eseguiti non solo in assenza di permesso, ma anche
in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni
essenziali, determinate ai sensi dell'articolo 32. Tale
sanzione, come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa
(Ad Plenaria Cons. Stato n. 9 del 2017), ha, infatti,
carattere reale e non incontra limiti per il decorso del
tempo e ciò in quanto l'abuso costituisce un illecito
permanente, e l'eventuale inerzia dell'Amministrazione non è
idonea né a sanarlo o ad ingenerare aspettative
giuridicamente qualificate, né a privarla del potere di
adottare l'ordine di demolizione, configurandosi, anzi, la
responsabilità (art. 31 cit., co. 4-bis) in capo al
dirigente o al funzionario responsabili dell'omissione o del
ritardo nell'adozione di siffatto atto, che resta, appunto,
doveroso, nonostante il decorso del tempo.
7.4. In conclusione, mentre la nullità del contratto è
comminata per il solo caso della mancata inclusione degli
estremi del titolo abilitativo, che abbia le connotazioni di
cui si è detto, l'interesse superindividuale ad un ordinato
assetto di territorio resta salvaguardato dalle sanzioni di
cui si è dato conto al § 3.1. e, nel caso degli abusi più
gravi, dal provvedimento ripristinatorio della demolizione.
Tale approdo ermeneutico, che ha il pregio di render chiaro
il confine normativo dell'area della non negoziabilità degli
immobili, a tutela dell'interesse alla certezza ed alla
sicurezza della loro circolazione, appare, quindi, al
Collegio quello che meglio rappresenta la sintesi tra le
esigenze di tutela dell'acquirente e quelle di contrasto
all'abusivismo: in ipotesi di difformità sostanziale tra
titolo abilitativo enunciato nell'atto e costruzione,
l'acquirente non sarà esposto all'azione di nullità, con
conseguente perdita di proprietà dell'immobile ed onere di
provvedere al recupero di quanto pagato, ma, ricorrendone i
presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a
tutela dell'interesse generale connesso alle prescrizioni
della disciplina urbanistica.
7.5. A soluzione del contrasto, vanno, pertanto, affermati i
seguenti principi di diritto:
●
"La
nullità comminata dall'art. 46 del d.P.R. n. 380 del 2001 e
dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta
nell'ambito del comma 3 dell'art 1418 c.c., di cui
costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi
come nullità «testuale», con tale espressione dovendo
intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un'unica
fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad
effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a
sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi
del titolo abilitativo dell'immobile, titolo che, tuttavia,
deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a
quell'immobile."
●
"In presenza nell'atto della
dichiarazione dell'alienante degli estremi del titolo
urbanistico, reale e riferibile all'immobile, il contratto è
valido a prescindere dal profilo della conformità o della
difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato"
(Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 22.03.2019 n.
8230). |
URBANISTICA:
Il P.G.T. è un atto di pianificazione di livello comunale,
sul quale la Provincia esprime un parere obbligatorio avente
ad oggetto la compatibilità delle sue previsioni rispetto al
piano di coordinamento provinciale, al fine di accertare
l’idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi ivi
fissati.
In via generale gli strumenti di pianificazione adottati dai
diversi enti territoriali nell’attuale modello di governo
del territorio non si rapportano fra loro secondo il
principio di gerarchia.
Infatti “In base all'art. 2, quarto comma, della legge
regionale n. 12, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani
Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di
orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le
previsioni che ai sensi della stessa legge, abbiano
efficacia prevalente e vincolante. Il modello delineato
dalla legge regionale prevede che i piani collocati al
livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati
agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento,
indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma,
in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale
dettata dallo strumento di pianificazione contenente
disposizioni di maggior dettaglio. Ciò naturalmente non può
azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui
partecipazione deve essere quindi assicurata e non può
essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e
Province trasformare i poteri comunali in ordine all'uso del
territorio in funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici
attività esecutive”.
Il parere di conformità è peraltro vincolante nei limiti
previsti dall’articolo 18, comma 2, della L.R. 11/03/2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio), a norma del
quale “Hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti
del PGT le seguenti previsioni del PTCP:
a) le previsioni in
materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in
attuazione dell'articolo 77;
b) l'indicazione della
localizzazione delle infrastrutture riguardanti il sistema
della mobilità, qualora detta localizzazione sia
sufficientemente puntuale, alla scala della pianificazione
provinciale, in rapporto a previsioni della pianificazione o
programmazione regionale, programmazioni di altri enti
competenti, stato d'avanzamento delle relative procedure di
approvazione, previa definizione di atti d'intesa,
conferenze di servizi, programmazioni negoziate. (…);
c) la
individuazione degli ambiti di cui all'articolo 15, comma 4,
fino alla approvazione del PGT;
d) l'indicazione, per le
aree soggette a tutela o classificate a rischio
idrogeologico e sismico, delle opere prioritarie di
sistemazione e consolidamento, nei soli casi in cui la
normativa e la programmazione di settore attribuiscano alla
provincia la competenza in materia con efficacia
prevalente.”.
Si tratta di previsioni che tutelano obiettivi e finalità di
carattere sovracomunale e che pertanto non hanno natura orientativa, ma
hanno carattere prescrittivo e prevalente rispetto ad ogni
diversa scelta pianificatoria comunale.
Dispone –infatti- l’articolo 13 della medesima legge
regionale che “7. Entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”
---------------
Ip.Pr. s.p.a. opera nel settore della
prefabbricazione civile ed industriale, in particolare nel
settore metro-ferro-tramviario, ed è soggetta a concordato
preventivo, omologato dal Tribunale di Bergamo nel maggio
del 2011.
Nell’aprile dell’anno 2007 la società otteneva dal Comune di
Calcinate, nel cui territorio ha sede, l’autorizzazione
all’utilizzo di alcune aree confinanti con quelle di sua
proprietà, sulle quali aveva stipulato un preliminare di
acquisto, per il deposito temporaneo dei materiali prodotti
per la manutenzione e l’ammodernamento di tratte
ferroviarie, in attesa del loro impiego.
Nel dicembre dello
stesso anno, in occasione dell’avvio del procedimento di
adozione del nuovo Piano di Governo del Territorio,
congiuntamente al promittente venditore sig. Re.Ma.
presentava un’osservazione al Comune, chiedendo che i
terreni individuati catastalmente dai mappali 4388 (in
parte), 4387, 3085, 374 e 273 fossero inseriti in zona D -
destinata a funzione “artigianale/industriale di
completamento”, per poterli definitivamente utilizzare in
funzione strumentale all’attività produttiva condotta
nell’area adiacente. Analoga richiesta veniva formulata da Ip.Pr. s.p.a. per le aree edificate di cui ai mappali
3084 e parte del 4388, qualificate all’epoca come
artigianali.
In accoglimento di tali memorie procedimentali, in sede di
adozione del P.G.T. gran parte delle predette aree veniva
inserita dal Comune nell’ambito di Trasformazione P6,
soggetto a piano attuativo ed avente destinazione
produttiva.
Peraltro in sede di verifica della compatibilità dello
strumento urbanistico comunale con il Piano territoriale di
coordinamento provinciale, la Provincia di Bergamo, con
deliberazione della Giunta n 179 del 04.04.2011, evidenziava
che “la quasi totalità dell’ambito di trasformazione ATP 6
risulta classificato dalle tavole E2 e E4 del PTCP quale
“ambiti di valorizzazione, riqualificazione e/o
progettazione paesistica” disciplinato dall’art. 66 delle NdA per il quale sono consentiti il recupero e il riuso del
patrimonio edilizio esistente, anche con limitati
ampliamenti volumetrici, ma sono escluse altre forme di
insediamento e di edificazione” e conseguentemente
prescriveva la modifica della destinazione dell’ambito in
coerenza con le previsioni del P.T.C.P.
Respingendo l’osservazione formulata dall’odierna ricorrente
il comune intimato, con deliberazione del consiglio comunale
n. 11 del 15.04.2011, approvava quindi definitivamente
il Piano di governo del territorio richiamando il contenuto
della delibera della giunta provinciale ed inserendo le aree Ip.Pr. s.p.a./Ma. tra gli “ambiti di valorizzazione,
riqualificazione, e/o progettazione paesistica”,
conformemente alla destinazione assegnata a tali mappali dal
piano provinciale.
Nel censurare l’atto di approvazione definitiva del P.G.T.
la società ribadiva il proprio interesse al ricorso e la sua
attualità, pur non avendo essa impugnato il P.T.C.P.,
evidenziando come il Piano di livello provinciale
costituisse mero atto di indirizzo e coordinamento non
strettamente vincolante per la pianificazione di livello
subordinato.
...
L’odierna controversia verte sulla legittimità dell’atto di
approvazione del P.G.T. di Calcinate indicato in epigrafe,
nella parte in cui, conformandosi alle prescrizioni
formulate dalla Provincia nel parere di conformità dello
strumento urbanistico rispetto al P.T.C.P., ha modificato le
previsioni recate dal precedente atto di adozione del piano
comunale, ha impresso ai terreni di cui è questione la
destinazione agricola.
Il ricorso è infondato.
Il P.G.T. è un atto di pianificazione di livello comunale,
sul quale la Provincia esprime un parere obbligatorio avente
ad oggetto la compatibilità delle sue previsioni rispetto al
piano di coordinamento provinciale, al fine di accertare
l’idoneità dell’atto al conseguimento degli obiettivi ivi
fissati.
In via generale gli strumenti di pianificazione adottati dai
diversi enti territoriali nell’attuale modello di governo
del territorio non si rapportano fra loro secondo il
principio di gerarchia.
Infatti “In base all'art. 2, quarto comma, della legge
regionale n. 12, il Piano Territoriale Regionale ed i Piani
Territoriali di Coordinamento Provinciale hanno efficacia di
orientamento, indirizzo e coordinamento, fatte salve le
previsioni che ai sensi della stessa legge, abbiano
efficacia prevalente e vincolante. Il modello delineato
dalla legge regionale prevede che i piani collocati al
livello superiore non sono gerarchicamente sovraordinati
agli altri, ma dettano una disciplina di orientamento,
indirizzo e coordinamento, che non può essere stravolta ma,
in particolari casi, derogata dalla disciplina puntuale
dettata dallo strumento di pianificazione contenente
disposizioni di maggior dettaglio. Ciò naturalmente non può
azzerare il potere pianificatorio dei Comuni, la cui
partecipazione deve essere quindi assicurata e non può
essere puramente nominale, essendo precluso a Regioni e
Province trasformare i poteri comunali in ordine all'uso del
territorio in funzioni meramente consultive prive di reale
incidenza, o in funzioni di proposta o ancora in semplici
attività esecutive” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
23.09.2016, n. 1699).
Il parere di conformità è peraltro vincolante nei limiti
previsti dall’articolo 18, comma 2, della L.R. 11/03/2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio), a norma del
quale “Hanno efficacia prescrittiva e prevalente sugli atti
del PGT le seguenti previsioni del PTCP:
a) le previsioni in
materia di tutela dei beni ambientali e paesaggistici in
attuazione dell'articolo 77;
b) l'indicazione della
localizzazione delle infrastrutture riguardanti il sistema
della mobilità, qualora detta localizzazione sia
sufficientemente puntuale, alla scala della pianificazione
provinciale, in rapporto a previsioni della pianificazione o
programmazione regionale, programmazioni di altri enti
competenti, stato d'avanzamento delle relative procedure di
approvazione, previa definizione di atti d'intesa,
conferenze di servizi, programmazioni negoziate. (…);
c) la
individuazione degli ambiti di cui all'articolo 15, comma 4,
fino alla approvazione del PGT;
d) l'indicazione, per le
aree soggette a tutela o classificate a rischio
idrogeologico e sismico, delle opere prioritarie di
sistemazione e consolidamento, nei soli casi in cui la
normativa e la programmazione di settore attribuiscano alla
provincia la competenza in materia con efficacia
prevalente.”.
Si tratta di previsioni che tutelano obiettivi e finalità di
carattere sovracomunale (TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
01.08.2014 n. 898, confermata da C.d.S., sez. IV, 15.06.2016,
n. 2629) e che pertanto non hanno natura orientativa, ma
hanno carattere prescrittivo e prevalente rispetto ad ogni
diversa scelta pianificatoria comunale.
Dispone –infatti- l’articolo 13 della medesima legge
regionale che “7. Entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di
inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni
conseguenti all'eventuale accoglimento delle osservazioni.
Contestualmente, a pena di inefficacia degli atti assunti,
provvede all'adeguamento del documento di piano adottato,
nel caso in cui la provincia abbia ravvisato elementi di
incompatibilità con le previsioni prevalenti del proprio
piano territoriale di coordinamento, o con i limiti di cui
all'articolo 15, comma 5, ovvero ad assumere le definitive
determinazioni qualora le osservazioni provinciali
riguardino previsioni di carattere orientativo.”
Nel caso di specie la modifica delle previsioni recate dalla
delibera di adozione del P.G.T sono state disposte all’atto
dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico
comunale nel vincolato rispetto delle disposizioni
prevalenti recate dal piano provinciale, tra l’altro
divenute inoppugnabili attesa la mancata impugnazione nei
termini del P.T.C.P.
Infatti la destinazione dell’ATP6
risultava in contrasto con l’articolo 66 delle NTA del Piano
provinciale, recante prescrizioni finalizzate alla tutela
dei beni ambientali e paesaggistici (e quindi riconducibili
ai contenuti vincolanti indicati dall’articolo 18, comma 2,
lettera a) della l.r. 12/2005).
Il ricorso è quindi infondato e deve essere respinto (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 21.03.2019 n. 268 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - DIRITTO DELL'ENERGIA -
Aerogeneratori - Realizzazione di distinti impianti di fonti
energetiche rinnovabili - Titolo abilitativo semplificato -
Applicazione e limiti - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Aree
sottoposte a tutela ex d.lgs. n. 42/2004 e "aree contermini"
- Riconducibilità al medesimo centro di interessi -
Acquisizione di autorizzazione unica regionale - Necessità -
Elusione artificiosa dei limiti di potenza fino a 1MW - Artt.
44 dpr n. 380/2001 e 181 d.lgs. n. 42/2004 - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, si integra il
reato di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 nel caso di
realizzazione di distinti impianti di fonti energetiche
rinnovabili, riconducibili al medesimo centro di interessi
ma artificiosamente frazionati allo scopo di eludere il
rispetto dei limiti di potenza fino a 1MW previsti dalla
legislazione statale e dell'acquisizione di autorizzazione
unica regionale.
L'accertamento degli elementi fattuali sintomatici della
elusione artificiosa dei limiti di potenza fino a 1MW
previsti dalla legislazione statale costituisce un
accertamento in fatto che, se sorretto da adeguata
motivazione, non è sindacabile in sede di legittimità
(Cass., Sez. 3, n. 16624/2015; Sez. 3, n. 40361/2014,
Buglisi; Sez. 3, n. 888/2018; Sez. 3, n. 11981/2014, Di
Gennaro; Sez. 3, n. 15988/2013, Rubino).
Nella specie, la diversità dei «punti di
connessione», è stata ritenuta circostanza dimostrativa che
l'impianto non poteva considerarsi artificiosamente
frazionato, non deponendo in maniera univoca in tal senso,
gli ulteriori elementi individuati nella prospettazione
accusatoria, quali la unicità del soggetto richiedente
l'autorizzazione e la contiguità delle aree frazionate.
...
CODICE DELL'AMBIENTE - Pale eoliche - VIA VAS AIA -
Valutazioni di impatto e di incidenza ambientale (V.I.A. e
V.incA) - Legislazione concorrente - Emissioni provocate da
aerogeneratori - Tutela dell'ambiente, del patrimonio
culturale, della salute e della pubblica incolumità - 270,
273 e 282 d.lgs n. 152/2006.
Con la nuova regolamentazione introdotta
dal d.lgs. n. 28/2011, il legislatore statale ha dato
facoltà alle Regioni di estendere l'ambito di applicazione
del procedimento autorizzatorio semplificato fino ad una
soglia massima di potenza di energia elettrica pari a 1 MW,
fermo restando il vincolo per la legislazione regionale
costituito dai limiti posti dall'art. 6 citato, che, secondo
la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, Corte cost. n.
99 del 2012) esprime un principio fondamentale, sicché il
legislatore regionale è tenuto a rispettarlo nell'esercizio
della sua potestà legislativa concorrente; inoltre, l'art.
4, comma 3, del dlgs 28/2011 dispone che "al fine di evitare
l'elusione della normativa di tutela dell'ambiente, del
patrimonio culturale, della salute e della pubblica
incolumità, fermo restando quanto disposto dalla Parte
quinta del decreto legislativo 03.04.2006 n. 152, e
successive modificazioni, e, in particolare, dagli articoli
270, 273 e 282, per quanto attiene all'individuazione degli
impianti ed al convogliamento delle emissioni, le Regioni e
le Province autonome stabiliscono i casi in cui la
presentazione di più progetti per la realizzazione di
impianti alimentati da fonti rinnovabili e localizzati nella
medesima area o in aree contigue sono da valutare in termini
cumulativi nell'ambito della valutazione di impatto
ambientale.
Fattispecie: annullamento del decreto di sequestro
preventivo per i reati di cui agli artt. 674 e 659 cod. pen.
per aver provocato immissioni acustiche e luminose atte a
causare gravi rischi per la salute degli abitanti del Comune
di Pontelandolfo e ad arrecare disturbo alle occupazioni
diurne ed al riposo notturno dei residenti ed in violazione,
e per i reati di cui all'art. 582 cod.pen. per aver
cagionato lesioni personali ad alcuni abitanti della zona
conseguenti all'inquinamento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.03.2019 n. 12268 - link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – LAVORO PUBBLICO - Accesso agli
atti di un procedimento disciplinare, strumentale alla
difesa del dipendente – Contenuto delle segnalazioni ed
identità del segnalante – Sottrazione all’accesso – Tutela
del whisteblower – Art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001.
In tema di accesso agli atti del
procedimento disciplinare, deve riconoscersi in capo al
dipendente la sussistenza di un “interesse diretto, concreto
ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto
l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/90 prevede quale
presupposto per la legittimazione all'azione e
l'accoglimento della relativa domanda.
E’, infatti, pacifico che la conoscenza di tali atti è
strumentale alla difesa del dipendente nell’ambito del
procedimento disciplinare subìto e sfociato nell’irrogazione
di una sanzione. Ciò nondimeno l’amministrazione è tenuta ad
oscurare i dati riguardanti l’identità dei segnalanti e il
contenuto delle segnalazioni. Alla ostensione di tali
segnalazioni ostano le disposizioni di cui all’art. 54-bis
del d.lgs. n. 165/2001 (come da ultimo modificato dall’art.
1 della legge n. 179/2017) il quale com’è noto disciplina il
c.d. whistleblowing, dettando specifiche disposizioni volte
a preservare da eventuali ritorsioni il dipendente pubblico
che segnali illeciti.
La disposizione è chiara nel prevedere due ipotesi:
a) procedimento disciplinare scaturito da segnalazioni ma fondato
su accertamenti “distinti e ulteriori” rispetto alla
segnalazione;
b) procedimento disciplinare (e contestazione degli addebiti) che
si fonda “in tutto o in parte sulla segnalazione” con la
“conoscenza dell’identità del segnalante” indispensabile per
la difesa dell’incolpato.
In quest’ultimo caso, la segnalazione sarà utilizzabile ai
fini del procedimento disciplinare solo in presenza di
consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.
A prescindere dal tipo di utilizzo della segnalazione
nell’ambito del procedimento disciplinare vale il principio
stabilito dall’art. 54-bis cit. che “l’identità del
segnalante non può essere rivelata [a meno che non vi sia il
suo consenso]” e che “la segnalazione è sottratta
all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della
legge 07.08.1990, n. 241”.
Tale principio non risulta valicabile dalla circostanza che
l’amministrazione abbia eventualmente fatto
(illegittimamente) uso della segnalazione nell’ambito del
procedimento disciplinare, in quanto la finalità voluta
dalle disposizioni in parola di tutelare l’identità del
segnalante tenendo riservato anche il contenuto della
segnalazione, dalla quale, evidentemente, è possibile
risalire alla persona che ha effettuato la denuncia (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 20.03.2019 n. 1553 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza il potere
dell’amministrazione di repressione degli abusi edilizi ha
carattere di doverosità e tale doverosità caratterizza
ampiamente gli atti che ne costituiscano espressione; sul
piano della motivazione, è sufficiente il riscontro
dell’accertata irregolarità dell’opera e non è necessaria
alcuna motivazione sull’interesse pubblico, dato che la
ponderazione di tale interesse è resa irrilevante dal
carattere vincolato dell’attività.
Ed invero l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto
e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione
discrezionale del configgente interesse al mantenimento in
loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde
per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello
stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da
ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione,
consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e
nella constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio.
---------------
Deve negarsi che, prima di irrogare sanzioni urbanistiche o
edilizie, il Comune, quale Autorità urbanistica, debba
curare di verificare se le opere contestate come abusive
dalla Polizia Municipale trovino un qualche e riscontro in
titoli abilitativi edilizi in precedenza rilasciati oppure
debba compiere accertamenti in relazione alla morfologia
originaria dell’immobile, analizzando i luoghi, le
strutture, le geometrie architettoniche.
In proposito, per giurisprudenza costante, “i rapporti
provenienti da soggetti che avuto riguardo alla natura dello
status che rivestono (agenti di P.S. e di polizia
giudiziaria) oltre che alla specifica competenza di tali
organi, hanno, relativamente a quanto attestano, una
indubbia valenza privilegiata che di per sé è sufficiente a
provare i fatti addebitati, fatta salva la possibilità per
gli interessati di proporre le appropriate azioni
giurisdizionali (querela di falso) volte ad inficiare il
contenuto degli atti”.
---------------
Giurisprudenza ha puntualizzato che la proposizione della
istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001 successivamente
all’ordinanza di demolizione, non vale, di per sé sola, a
incidere sulla legittimità del provvedimento repressivo,
causandone, al più, una temporanea inefficacia in relazione
alla decorrenza del termine di 60 giorni previsto dalla
norma stessa perché l’Amministrazione si pronunci, decorso
il quale si forma il silenzio-rigetto sull’istanza.
Infatti, se si sostenesse che l’Amministrazione,
nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o
implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse
l’obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò
“equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato,
destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di
paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel
medesimo provvedimento”.
---------------
Nessuna rilevanza può avere l’affidamento ingenerato nel
privato dal lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione
del presunto abuso e dall’inerzia dell’Amministrazione
preposta alla vigilanza, considerato che il provvedimento di
demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, non richiede
alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse
pubblico concreto ed attuale alla demolizione, “non potendo
neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare, e non
potendo l’interessato dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi” .
---------------
Viene in decisione il ricorso concernente l’ordinanza n.
1140 del 19.11.2014, emessa dal Responsabile del IV settore
del Comune di Corleone, avente ad oggetto la demolizione di
opere edili abusive eseguite in difformità della concessione
edilizia n. 64 del 12.06.2001 sul fabbricato di proprietà
del ricorrente una volta appurato che “le opere
consistenti nell’ampliamento della struttura originaria del
magazzino, nella realizzazione di un solaio intermedio e
nella variazione, da rurale a civile abitazione, di una
porzione di fabbricato, sono state abusivamente realizzate”.
Il ricorso è infondato.
Per costante giurisprudenza il potere dell’amministrazione
di repressione degli abusi edilizi ha carattere di
doverosità e tale doverosità caratterizza ampiamente gli
atti che ne costituiscano espressione; sul piano della
motivazione, è sufficiente il riscontro dell’accertata
irregolarità dell’opera e non è necessaria alcuna
motivazione sull’interesse pubblico, dato che la
ponderazione di tale interesse è resa irrilevante dal
carattere vincolato dell’attività.
Ed invero l’ordinanza di demolizione costituisce atto dovuto
e rigorosamente vincolato, affrancato dalla ponderazione
discrezionale del configgente interesse al mantenimento in
loco della res, dove la repressione dell’abuso corrisponde
per definizione all’interesse pubblico al ripristino dello
stato dei luoghi illecitamente alterato. Pertanto, essa è da
ritenersi sorretta da adeguata e sufficiente motivazione,
consistente nella compiuta descrizione delle opere abusive e
nella constatazione della loro esecuzione in assenza del
necessario titolo abilitativo edilizio (Cons. Stato Sez. IV,
05/11/2018, n. 6246).
Nel caso di specie, la natura delle opere contestate e le
motivazioni alla base dell’irrogazione della sanzione
demolitoria emergono inequivocabilmente dal provvedimento
impugnato e dagli atti da questo richiamati.
Inoltre deve negarsi che, prima di irrogare sanzioni
urbanistiche o edilizie, il Comune, quale Autorità
urbanistica, debba curare di verificare se le opere
contestate come abusive dalla Polizia Municipale trovino un
qualche e riscontro in titoli abilitativi edilizi in
precedenza rilasciati oppure debba compiere accertamenti in
relazione alla morfologia originaria dell’immobile,
analizzando i luoghi, le strutture, le geometrie
architettoniche.
In proposito, per giurisprudenza costante, “i rapporti
provenienti da soggetti che avuto riguardo alla natura dello
status che rivestono (agenti di P.S. e di polizia
giudiziaria) oltre che alla specifica competenza di tali
organi, hanno, relativamente a quanto attestano, una
indubbia valenza privilegiata che di per sé è sufficiente a
provare i fatti addebitati, fatta salva la possibilità per
gli interessati di proporre le appropriate azioni
giurisdizionali (querela di falso) volte ad inficiare il
contenuto degli atti (cfr. C. di S., sez. IV, 31.01.2012, n.
478)” (TAR Campania, Napoli, sez. III, 10/07/2018 n.
4566) .
Sotto altro profilo, giurisprudenza ha puntualizzato che la
proposizione della istanza ex art. 36 D.P.R. 380/2001
successivamente all’ordinanza di demolizione, non vale, di
per sé sola, a incidere sulla legittimità del provvedimento
repressivo, causandone, al più, una temporanea inefficacia
in relazione alla decorrenza del termine di 60 giorni
previsto dalla norma stessa perché l’Amministrazione si
pronunci, decorso il quale si forma il silenzio-rigetto
sull’istanza (Cons. Stato Sez. VI, 30/07/2018, n. 4671).
Infatti, se si sostenesse che l’Amministrazione,
nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o
implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse
l’obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò “equivarrebbe
a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di
un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI,
27.02.2018, n. 1171; id., sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
Nella fattispecie in esame, il Comune di Corleone, in
ottemperanza alla sopra citata ordinanza n. 1586/2017, ha
dichiarato di non avere emesso alcun provvedimento di
accoglimento totale o parziale dell’istanza di cui all’art.
13 della legge 47/1985, presentata dal ricorrente e che,
comunque, la relativa pratica “… non è accoglibile ai
sensi dell'art. 13 della legge 47/1985…”.
Ne consegue che risultano del tutto inconferenti le
argomentazioni contenute in ricorso secondo cui il
ricorrente, non appena ricevuta la notificata l’ordinanza di
demolizione impugnata, si sarebbe prontamente attivato
provvedendo tempestivamente a depositare apposita istanza di
autorizzazione in sanatoria atteso che detta istanza -in
disparte ogni possibile considerazione sulla formazione del
silenzio rigetto- non vale ad incidere sulla legittimità del
provvedimento repressivo.
Infine nessuna rilevanza può avere l’affidamento ingenerato
nel privato dal lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione del presunto abuso e dall’inerzia
dell’Amministrazione preposta alla vigilanza, considerato
che il provvedimento di demolizione di una costruzione
abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, non richiede alcuna motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione, “non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato, Sez. VI,
21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n.
4907), e non potendo l’interessato dolersi del fatto che
l’Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n.
3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781)” (cfr. TAR
Campania, Napoli, sez. III, 13/04/2018 n. 2449) .
Allo stesso modo nessun rilevo può assumere, in questa sede,
la sopravvenuta stipula di un atto di compravendita avente
ad oggetto il terreno confinante con quello di proprietà del
ricorrente ed oggetto del presente giudizio, circostanza
questa che non può incidere sulla legittimità dell’impugnata
ordinanza di demolizione che va valutata con riferimento
agli elementi (di fatto e di diritto) sussistenti al momento
della sua adozione.
L’Amministrazione comunale ha quindi correttamente emesso il
provvedimento impugnato che resiste alle censure proposte
con il ricorso in epigrafe.
In conclusione, per le considerazioni che precedono, il
ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. ,
sentenza 19.03.2019 n. 798 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Interpretazione
del bando di gara.
In caso di oscurità ed
equivocità nelle disposizioni di una
procedura concorsuale, un corretto rapporto
tra amministrazione e privato –che sia
rispettoso dei principi generali di buon
andamento dell'azione amministrativa e di
imparzialità e del canone specifico
enunciato all’art. 1337 del c.c. (dovere di
buona fede delle parti nello svolgimento
delle trattative)– impone che di quella
disciplina sia data una lettura idonea a
tutelare l'affidamento degli interessati,
interpretandola per ciò che espressamente
dice, restando il concorrente dispensato dal
ricostruire, mediante indagini ermeneutiche
ed integrative, ulteriori ed inespressi
significati.
Costituisce jus receptum della materia dei
contratti pubblici la regola secondo cui
l'interpretazione delle clausole della lex
specialis che presentino margini di
opinabilità deve essere effettuata in
maniera tale da consentire la massima
partecipazione agli operatori economici:
pertanto, in presenza di più soluzioni
interpretative possibili, occorre aderire
alla ricostruzione ermeneutica e pratico
applicativa che realizza una più ampia
concorrenza
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2019 n. 242 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
1.4 Al riguardo, non si può che richiamare
l’indirizzo giurisprudenziale per cui, in
caso di oscurità ed equivocità nelle
disposizioni di una procedura concorsuale,
un corretto rapporto tra amministrazione e
privato –che sia rispettoso dei principi
generali di buon andamento dell'azione
amministrativa e di imparzialità e del
canone specifico enunciato all’art. 1337 del
c.c. (dovere di buona fede delle parti nello
svolgimento delle trattative)– impone che di
quella disciplina sia data una lettura
idonea a tutelare l'affidamento degli
interessati, interpretandola per ciò che
espressamente dice, restando il concorrente
dispensato dal ricostruire, mediante
indagini ermeneutiche ed integrative,
ulteriori ed inespressi significati (TAR
Campania Napoli, sez. V – 28/12/2018 n. 7426
che richiama Consiglio di Stato, sez. V –
22/06/2012 n. 3687 e aggiunge che “Pertanto,
ove il dato testuale presenti evidenti
ambiguità, deve essere prescelto
dall'interprete il significato più
favorevole all'ammissione del candidato,
essendo conforme al pubblico interesse (e
sempreché non si oppongano a ciò interessi
pubblici diversi e di maggior rilievo) che
alla procedura selettiva partecipi il più
elevato numero di candidati (Consiglio di
Stato, sez. V, 27.05.2014, n. 2709)”.
Del resto, costituisce jus receptum
della materia dei contratti pubblici la
regola secondo cui l'interpretazione delle
clausole della lex specialis che
presentino margini di opinabilità deve
essere effettuata in maniera tale da
consentire la massima partecipazione agli
operatori economici: pertanto, in presenza
di più soluzioni interpretative possibili,
occorre aderire alla ricostruzione
ermeneutica e pratico applicativa che
realizza una più ampia concorrenza (cfr. TAR
Puglia Bari, sez. I – 05/07/2018 n. 978 che
evoca tra le tante Consiglio di Stato, sez.
V – 05/10/2017 n. 4644, secondo cui “l'interpretazione
delle clausole della lex specialis di gara
che presentino margini di opinabilità deve
essere improntata al principio eurounitario
della massima partecipazione”.
1.5 I suddetti principi sono stati espressi
anche da TAR Veneto, sez. I – 02/03/2017 n.
218. In definitiva, quando la formulazione
letterale della lex specialis lasci
spazi interpretativi, come nella fattispecie
all’esame, va prescelta l’opzione volta a
favorire la massima dinamica concorrenziale. |
APPALTI:
Per consolidato indirizzo giurisprudenziale, il giudizio di
anomalia richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda
in senso negativo, mentre in caso positivo (come quello di cui ora si
controverte), non occorre che la relativa determinazione sia fondata su
un'articolata esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva delle
giustificazioni ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una
motivazione espressa per relationem alle giustificazioni rese dall'impresa
vincitrice, sempre che queste, a loro volta, siano state congrue ed
adeguate.
L"ammissibilità della motivazione "per relationem" del giudizio di congruità
non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di
tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub-procedimento, per cui
saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a verifica a
fungere da parametro.
---------------
Il compito di effettuare l’indagine di anomalia risulta espressamente
attribuito dalla legge all’organo amministrativo, unico soggetto preposto
alla tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto.
Il giudice amministrativo può quindi sindacare le valutazioni compiute dalla
pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e
ragionevolezza e dell’adeguatezza dell’istruttoria, ma non può operare
autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle
sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della
pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica.
Nello specifico, una volta accertato che la scomposizione della proposta
tecnica sotto il profilo del costo del personale presenta plurime
incongruenze che non sono state correttamente verificate nella sede propria,
tale omissione non può essere “surrogata” da una verifica in sede
giudiziale, tenuto conto dei limiti al sindacato giurisdizionale sulle
valutazioni rimesse all’amministrazione in materia.
Secondo l’indirizzo dominante, in caso di inadeguatezza dell’analisi per
carenze istruttorie non deve essere disposta –in sede giudiziale–
l’esclusione dell’offerta sospetta di inattendibilità, ma solo la
regressione della procedura alla fase di verifica dell’anomalia, dato che
l’amministrazione è la sola competente a valutare se, una volta
riconsiderata l’offerta sul piano tecnico, le ricadute su quello economico
consentano ancora di concludere per la serietà della proposta contrattuale.
---------------
Anche dopo l’accertamento, con l’ausilio di un CTU, di manifeste lacune
dell’istruttoria procedimentale e del giudizio di congruità che hanno
condotto all’accoglimento del gravame, le medesime non potevano essere
colmate neppure parzialmente ex post dal giudice attraverso le emergenze
processuali, trattandosi di attività riservata all’amministrazione, la quale
“provvederà al rinnovo delle valutazioni conseguente all’annullamento degli
atti impugnati tenendo conto di tutte le indicazioni contenute nella
presente sentenza, ivi comprese quelle desunte dalla C.T.U., selezionando
gli elementi e i dati ritenuti significativi ai fini della verifica di
anomalia dell’offerta, e motivando adeguatamente nel rispetto del principio
di immodificabilità dell’offerta, nella fase della verifica di anomalia
essendo notoriamente ammessi aggiustamenti e compensazioni che non si
traducano in una variazione sostanziale dell’offerta o della sua logica,
posto che, diversamente, ne risulterebbe violata la par condicio”.
Invero, il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione
nel ritenere l’offerta complessivamente inattendibile, dovendo
l’amministrazione provvedere alla riedizione del “vaglio di sostenibilità”.
Tutti elementi addotti nel quarto motivo di gravame dovranno essere oggetto
di rinnovata, attenta e complessiva verifica da parte della stazione
appaltante, in sede procedimentale.
---------------
3. La terza censura è priva di pregio.
3.1 Il dedotto vizio di difetto di motivazione non può ritenersi sussistente
in quanto, come statuito nella sentenza di questa Sezione 25/10/2017 n. 1277
<<Per consolidato indirizzo giurisprudenziale, il giudizio di anomalia
richiede una motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso
negativo, mentre in caso positivo (come quello di cui ora si controverte),
non occorre che la relativa determinazione sia fondata su un'articolata
esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva delle giustificazioni
ritenute attendibili, essendo sufficiente anche una motivazione espressa per
relationem alle giustificazioni rese dall'impresa vincitrice, sempre che
queste, a loro volta, siano state congrue ed adeguate (TAR Sicilia Catania,
sez. III - 14/03/2017 n. 507; TAR Lazio Roma, sez. II - 02/01/2017 n. 24;
TAR Brescia, sez. II - 15/04/2014 n. 396; TAR Veneto, sez. I - 16/05/2016 n.
528; TAR Lazio Roma sez. III-quater - 31/07/2013 n. 774, che richiama
Consiglio di Stato, sez. V - 10/09/2012 n. 4785).
L"ammissibilità della motivazione "per relationem" del giudizio di congruità
non esime la stazione appaltante da un obbligo di valutazione complessiva di
tutto ciò che è emerso nella fase istruttoria del sub-procedimento, per cui
saranno le giustificazioni fornite dalla concorrente sottoposta a verifica a
fungere da parametro di riferimento sul quale misurare, "per relationem", la
legittimità dell"indagine (Consiglio di Stato, sez. VI - 26/05/2015 n.
2662). ….>>.
Il Consiglio di Stato, sez. III – 14/05/2018 n. 2867 ha confermato la
pronuncia di questo giudice di prime cure, sostenendo che “Anche la
seconda affermazione di carattere generale contenuta al punto 3 della
sentenza gravata (quella per cui il giudizio di anomalia richiede una
motivazione rigorosa ed analitica solo ove si concluda in senso negativo,
mentre in caso positivo non occorre che la relativa determinazione sia
fondata su un'articolata esternazione delle ragioni a supporto, ripetitiva
delle giustificazioni ritenute attendibili) risulta conforme alle
consolidate acquisizioni della giurisprudenza di questo Consiglio. Basterà
qui ricordare la decisione pubblicata lo stesso giorno della sentenza del
Tar Brescia qui appellata: cioè Sez. V, 25/10/2017, n. 4912, secondo cui la
valutazione favorevole circa le giustificazione dell'offerta sospetta di
anomalia non richiede un particolare onere motivazionale, mentre è richiesta
una motivazione più approfondita laddove l'amministrazione ritenga di non
condividere le giustificazione offerte dall'impresa, in tal modo
disponendone l'esclusione (con ulteriore richiamo a Cons. Stato, V,
02.12.2015, n. 5450)”.
Da ultimo, i principi suddetti sono stati applicati nella pronuncia di
questa Sezione 07/02/2019 n. 122.
...
SULLE CONSEGUENZE DELL’ACCOGLIMENTO DEL RICORSO
6. La premessa è che il compito di effettuare l’indagine di anomalia risulta
espressamente attribuito dalla legge all’organo amministrativo, unico
soggetto preposto alla tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del
caso concreto.
6.1 Il giudice amministrativo può quindi sindacare le valutazioni compiute
dalla pubblica amministrazione sotto il profilo della loro logicità e
ragionevolezza e dell’adeguatezza dell’istruttoria, ma non può operare
autonomamente la verifica della congruità dell’offerta presentata e delle
sue singole voci, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della
pubblica amministrazione, in esercizio di discrezionalità tecnica (cfr.
Consiglio di Stato, sez. III – 13/09/2017 n. 4336; TAR Lazio Roma, sez.
II-bis – 04/07/2017 n. 7797).
Nello specifico, una volta accertato che la scomposizione della proposta
tecnica sotto il profilo del costo del personale presenta plurime
incongruenze che non sono state correttamente verificate nella sede propria,
tale omissione non può essere “surrogata” da una verifica in sede
giudiziale, tenuto conto dei limiti al sindacato giurisdizionale sulle
valutazioni rimesse all’amministrazione in materia.
Secondo l’indirizzo dominante, in caso di inadeguatezza dell’analisi per
carenze istruttorie non deve essere disposta –in sede giudiziale–
l’esclusione dell’offerta sospetta di inattendibilità, ma solo la
regressione della procedura alla fase di verifica dell’anomalia (TAR Veneto,
sez. III – 18/07/2017 n. 683), dato che l’amministrazione è la sola
competente a valutare se, una volta riconsiderata l’offerta sul piano
tecnico, le ricadute su quello economico consentano ancora di concludere per
la serietà della proposta contrattuale.
6.2 Secondo TAR Toscana, sez. I – 08/07/2015 n. 1028 anche dopo
l’accertamento, con l’ausilio di un CTU, di manifeste lacune
dell’istruttoria procedimentale e del giudizio di congruità che hanno
condotto all’accoglimento del gravame, le medesime non potevano essere
colmate neppure parzialmente ex post dal giudice attraverso le
emergenze processuali, trattandosi di attività riservata
all’amministrazione, la quale “provvederà al rinnovo delle valutazioni
conseguente all’annullamento degli atti impugnati tenendo conto di tutte le
indicazioni contenute nella presente sentenza, ivi comprese quelle desunte
dalla C.T.U., selezionando gli elementi e i dati ritenuti significativi ai
fini della verifica di anomalia dell’offerta, e motivando adeguatamente nel
rispetto del principio di immodificabilità dell’offerta, nella fase della
verifica di anomalia essendo notoriamente ammessi aggiustamenti e
compensazioni che non si traducano in una variazione sostanziale
dell’offerta o della sua logica, posto che, diversamente, ne risulterebbe
violata la par condicio”.
6.3 Come ha affermato il Consiglio di Stato, sez. III – 21/07/2017 n. 3623,
il giudice amministrativo non può sostituirsi all’amministrazione nel
ritenere l’offerta complessivamente inattendibile, dovendo l’amministrazione
provvedere alla riedizione del “vaglio di sostenibilità”. Tutti
elementi addotti nel quarto motivo di gravame dovranno essere oggetto di
rinnovata, attenta e complessiva verifica da parte della stazione
appaltante, in sede procedimentale
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2019 n. 242 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
E’ certamente vero che l’obbligo
di assunzione del personale dell’operatore
uscente non priva il subentrante della
propria libertà di impresa e della
conseguente facoltà di organizzare al meglio
i propri fattori produttivi, ad esempio
assegnando gli assunti ad altri servizi e
procedendo a nuove assunzioni o avvalendosi
del lavoro supplementare.
Invero, “l’obbligo di riassorbimento dei
lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore
uscente, nello stesso posto di lavoro e nel
contesto dello stesso appalto, deve essere
armonizzato e reso compatibile con
l’organizzazione di impresa prescelta
dall’imprenditore subentrante; i lavoratori,
che non trovano spazio nell’organigramma
dell’appaltatore subentrante e che non
vengano ulteriormente impiegati
dall’appaltatore uscente in altri settori,
sono destinatari delle misure legislative in
materia di ammortizzatori sociali; la
clausola non comporta invece alcun obbligo
per l’impresa aggiudicataria di un appalto
pubblico di assumere a tempo indeterminato
ed in forma automatica e generalizzata il
personale già utilizzato dalla precedente
impresa o società affidataria”.
---------------
MASSIMA
4.2 E’ certamente vero che l’obbligo di
assunzione del personale dell’operatore
uscente non priva il subentrante della
propria libertà di impresa e della
conseguente facoltà di organizzare al meglio
i propri fattori produttivi, ad esempio
assegnando gli assunti ad altri servizi e
procedendo a nuove assunzioni o avvalendosi
del lavoro supplementare (cfr. TAR Lombardia
Milano, sez. IV – 24/02/2017 n. 445, che
richiama TAR Toscana, sez. III – 13/02/2017
n. 231).
Come ha sostenuto TAR Puglia Bari, sez. I –
20/12/2018 n. 1665, “l’obbligo di
riassorbimento dei lavoratori alle
dipendenze dell’appaltatore uscente, nello
stesso posto di lavoro e nel contesto dello
stesso appalto, deve essere armonizzato e
reso compatibile con l’organizzazione di
impresa prescelta dall’imprenditore
subentrante; i lavoratori, che non trovano
spazio nell’organigramma dell’appaltatore
subentrante e che non vengano ulteriormente
impiegati dall’appaltatore uscente in altri
settori, sono destinatari delle misure
legislative in materia di ammortizzatori
sociali; la clausola non comporta invece
alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria
di un appalto pubblico di assumere a tempo
indeterminato ed in forma automatica e
generalizzata il personale già utilizzato
dalla precedente impresa o società
affidataria” (si veda anche Consiglio di
Stato, sez. III – 05/05/2017 n. 2078)
(TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.03.2019 n. 242 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Richiesta
di esercizio di autotutela.
Non è configurabile
alcun obbligo giuridico di provvedere
espressamente sulla richiesta di
annullamento/revoca di un permesso di
costruire rilasciato a terzi, la quale ha
natura meramente sollecitatoria.
Tale
obbligo, infatti, contrasterebbe con le
ragioni di certezza delle situazioni
giuridiche e di efficienza gestionale che
sono alla base dell’agire autoritativo della
P.A., nonché con il principio
dell’inoppugnabilità dei provvedimenti
amministrativi, che non possono essere elusi
mediante l’impugnazione del silenzio
formatosi su un’istanza diretta a
sollecitare l’adozione di provvedimenti di
annullamento o di modifica di precedenti
determinazioni non impugnate nei termini e
nelle forme di rito.
Solo nella specifica
ipotesi di presentazione di DIA o di SCIA
reputate illegittime, i soggetti che si
considerano lesi dall’attività edilizia
possono sollecitare l’esercizio delle
verifiche spettanti all’ente locale e, in
caso di inerzia di quest’ultimo, esperire
l’azione avverso il silenzio ex art. 31
c.p.a., ma solo in quanto DIA e SCIA non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili e l’unica azione
oggi concessa agli interessati è quella
avverso il silenzio della P.A. ai sensi
dell’art. 19, comma 6-ter, della legge n.
241/1990 (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 18.03.2019 n. 236 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Ciò nondimeno il ricorso è inammissibile.
Sotto un primo e preliminare profilo, si
rileva che il ricorso all’autotutela
(mediante annullamento d’ufficio) può
avvenire solamente ricorrendo le condizioni
di cui all’art. 21-nonies della legge n.
241/1990, ovvero sussistendo le ragioni di
interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi
dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce delle modifiche
introdotte dal D.L. 12.09.2014, n.
133, convertito, con modificazioni, dalla
legge 11.11.2014, n. 164, sussiste uno
sbarramento temporale all’esercizio del
potere di autotutela, fissato in un termine
"comunque non superiore a diciotto mesi dal
momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi
economici".
Il Consiglio di Stato ha poi
avuto modo di chiarire che,
pur se tale
norma posa risultare, in determinate
ipotesi, non applicabile ratione temporis
(ma non è il caso in esame), in ogni caso,
essa rileva ai fini interpretativi e
ricostruttivi del sistema degli interessi
rilevanti (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625 e 31.08.2016, n.
3762).
Sotto distinto profilo, va osservato che,
oltre ai limiti legislativamente fissati, il
ricorso all’esercizio del potere di
autotutela incontra anche il limite della
discrezionalità amministrativa.
Giova,
infatti, richiamare il principio generale
(costantemente ribadito) che governa
l’esercizio del potere di autotutela da
parte dell’Amministrazione, valido anche
nell’ipotesi in cui la richiesta di
autotutela riguardi titoli abilitativi
edilizi rimasti inoppugnati, e cioè che non
è configurabile alcun obbligo giuridico di
provvedere espressamente sulla richiesta di
annullamento/revoca presentata dagli
interessati, la quale ha natura meramente
sollecitatoria.
Tale obbligo, infatti,
contrasterebbe con le ragioni di certezza
delle situazioni giuridiche e di efficienza
gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché con il
principio dell’inoppugnabilità dei
provvedimenti amministrativi, che non
possono essere elusi mediante l’impugnazione
del silenzio formatosi su un’istanza diretta
a sollecitare l’adozione di provvedimenti di
annullamento o di modifica di precedenti
determinazioni non impugnate nei termini e
nelle forme di rito (ex multis, Consiglio di
Stato, sez. IV, 28.03.2018, n. 1945; id.,
sez. V, 07.11.2016, n. 4642; id., 22.01.2015, n. 273; id., sez. IV, 26.08.2014, n. 4309; id., sez. V, 17.06.2014, n. 3095; id, sez. IV, 24.09.2013, n. 4714; id., sez. VI,
09.07.2013,
n. 3634; id., sez. V, 03.10.2013, n.
5199; id., 14.04.2009, n. 1610; TAR
Lazio, Latina, sez. I, 22.03.2018, n.
147; Cons. Giust. Amm. Sicilia, 06.09.2017, n. 380; TAR Marche,
03.10.2016, n.
543; TAR Campania, Salerno, 20.04.2016,
n. 1033).
Solo nella specifica ipotesi di
presentazione di DIA o di SCIA reputate
illegittime, i soggetti che si considerano
lesi dall’attività edilizia possono
sollecitare l’esercizio delle verifiche
spettanti all’ente locale e, in caso di
inerzia di quest’ultimo, esperire l’azione
avverso il silenzio ex art. 31 CPA, ma solo
in quanto DIA e SCIA non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente
impugnabili e l’unica azione oggi concessa
agli interessati è quella avverso il
silenzio della P.A. ai sensi dell’art. 19,
comma 6-ter, della L. n. 241/1990 (Consiglio
di Stato n. 4713/2013 cit.; TAR Campania,
Napoli, sez. VI, 05.01.2017, n. 115).
Nel caso in esame, non si è in presenza di
segnalazione certificata di inizio attività,
ma di permesso di costruire. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Autorizzazione allo scarico -
Preventivo rilascio di una formale - Necessità - Controllo
anticipato delle autorità competenti - Eventuale imposizione
di specifiche prescrizioni - Mancato "monitoraggio
ecologico" - Fattispecie - Att. 124, 125, 137, d.lgs. n.
152/2006.
In tema di inquinamento idrico, la
finalità dell'autorizzazione non è soltanto quella di
permettere l'apertura e l'effettuazione dello scarico, ma
anche di porre l'amministrazione competente nelle condizioni
di verificare la sussistenza delle condizioni di legge per
il rilascio del titolo abilitativo ed effettuare ogni
successiva attività di controllo e prevenzione, con la
conseguenza che l'apertura o l'effettuazione di uno scarico
in assenza dell'autorizzazione denota una effettiva
offensività della condotta, in quanto determina una evidente
lesione dell'interesse protetto dal precetto penale.
Ne
consegue, che l'apertura o, comunque, l'effettuazione di uno
scarico richiede il preventivo rilascio di una formale,
espressa autorizzazione rilasciata dalle competenti autorità
sulla base dei criteri e nelle forme indicate dalla legge e
non ammette equipollenti.
Nella fattispecie, non soltanto è mancata una formale
attestazione delle condizioni per il rilascio del titolo da
parte dell'amministrazione competente, ma l'assenza
dell'autorizzazione ha precluso la eventuale imposizione di
specifiche prescrizioni, la complessiva attività di
"monitoraggio ecologico" che la legge richiede, circa la
permanenza delle condizioni che hanno consentito il rilascio
del titolo ed il rispetto dei termini di efficacia stabiliti
dalla legge per il titolo medesimo e, cioè, tutti quegli
adempimenti finalizzati, come si è detto, alla
sottoposizione di attività potenzialmente pericolose per
l'integrità dell'ambiente ad una disciplina rigorosa e
puntuali controlli.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Tutela delle acque
dall'inquinamento - Preventiva autorizzazione per tutti gli
scarichi - Necessità - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE -
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - Verifiche del procedimento
amministrativo - Taciti assensi o illegittime prassi -
Esclusione - Att. 124, 125, 137, d.lgs. n. 152/2006.
In tema di tutela delle acque
dall'inquinamento, l'articolo 124, d.lgs. 152/2006 prevede
la necessaria, preventiva autorizzazione per tutti gli
scarichi, indicando anche la procedura per il suo rilascio e
tale titolo abilitativo non può essere sostituito da
equipollenti, quali i pareri o nulla osta dei servizi
comunali, che rivestono natura meramente interna al
provvedimento.
Tale contesto, si desume dalla semplice lettura degli artt.
124 e 125 d.lgs. 152/2006, prevedendo che, il rilascio del
titolo abilitativo presuppone una serie di adempimenti.
Si pensi, ad esempio, alla necessità dell'indicazione delle
caratteristiche, anche tecniche, dello scarico e della sua
destinazione finale (art. 125, comma 1); alla possibilità di
stabilire prescrizioni e limiti per particolari tipologie di
scarico in presenza di determinate condizioni (art. 124,
comma 8), ovvero in relazione alle caratteristiche tecniche
dello scarico, alla sua localizzazione e alle condizioni
locali dell'ambiente interessato (art. 124, comma 10); alla
necessità del versamento della somma di cui al comma
undicesimo dell'articolo 124, nonché alle verifiche che
caratterizzano lo specifico procedimento amministrativo,
sicché non può ritenersi sostituibile da altri atti o
provvedimenti rilasciati per finalità diverse ed all'esito
di procedure stabilite da altre disposizioni normative, (ad
es. dall'autorizzazione sanitaria).
A maggior ragione, non assumono alcuna validità taciti
assensi o illegittime prassi eventualmente applicate dalle
amministrazioni competenti. Scopo dell'autorizzazione è,
infatti, quello di consentire una preventiva verifica della
rispondenza di un'attività, potenzialmente pericolosa per
l'ambiente, a quanto stabilito dalla legge.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - 231 e responsabilità
dell'impresa - Individuazione dell'elemento soggettivo di
responsabilità dell'ente nella colpa - Oneri probatori -
Artt. 1, 6, 12, 25-undecies e 25-undecies, d.lgs. n.
231/2001 - Fattispecie: scarico in assenza di
autorizzazione.
Il sistema normativo introdotto dal
d.lgs. 231/2001, coniugando i tratti dell'ordinamento penale
e di quello amministrativo, configura un "tertium genus" di
responsabilità, compatibile con i principi costituzionali di
responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza e,
nell'affermare tale principio, si è anche chiarito, in tema
di responsabilità dell'ente derivante da persone che
esercitano funzioni apicali, che grava sulla pubblica accusa
l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito dell'ente,
mentre a quest'ultimo incombe l'onere, con effetti
liberatori, di dimostrare di aver adottato ed efficacemente
attuato, prima della commissione del reato, modelli di
organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della
specie di quello verificatosi
(Sez. U., n. 38343/2014, PG., R.C., Espenhahn e altri).
Nella fattispecie, l'esercizio dello
scarico in assenza di autorizzazione aveva consentito alla
società di continuare a percepire utili dall'attività
aziendale, la quale, altrimenti, avrebbe dovuto essere
ritardata o interrotta in attesa dell'autorizzazione ed,
inoltre, il superamento del limite tabellare, dovuto al
trascinamento di fanghi, era conseguenza della precisa
scelta aziendale, basata su un calcolo di costi e benefici,
come dimostrato dalle dichiarazioni di un teste, di non
adottare accorgimenti idonei ad evitare un simile
accadimento.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Responsabilità degli enti -
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Attenuante di cui all'art. 12,
c. 2, lett. a), d.lgs. n. 231/2001 - Poteri del giudice -
DANNO AMBIENTALE - Risarcimento integrale del danno da parte
ente - Eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose
del reato - Giurisprudenza.
L'attenuante di cui all'art. 12, comma
2, lett. a), d.lgs. 231/2001 presuppone che l'ente abbia
risarcito integralmente il danno ed abbia eliminato le
conseguenze dannose o pericolose del reato, ovvero si sia
comunque efficacemente adoperato in tal senso.
Inoltre, in tema di responsabilità degli enti ai sensi del
d.lgs. 08.06.2001, n. 231, qualora nei confronti dell'autore
del reato presupposto sia stata applicata la causa di
esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto, ai sensi dell'art. 737-bis cod. pen., il giudice deve
procedere all'autonomo accertamento della responsabilità
amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e
nel cui vantaggio l'illecito fu commesso, che non può
prescindere dalla verifica della sussistenza in concreto del
fatto di reato, non essendo questa desumibile in via
automatica dall'accertamento contenuto nella sentenza di
proscioglimento emessa nei confronti della persona fisica.
Deve dunque essere ribadita l'esclusione di ogni automatismo
tra l'eventuale riconoscimento della particolare tenuità del
fatto nei confronti dell'autore del reato e l'accertamento
della responsabilità dell'ente, la cui autonomia è stabilita
dall'art. 8 d.lgs. 231/2001, nel quale, come è noto, si
afferma che la responsabilità dell'ente sussiste anche
quando l'autore del reato non è stato identificato o non è
imputabile, nonché quando il reato si estingue per una causa
diversa dall'amnistia.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - 231 ambito di operatività -
Assoluzione della persona fisica e ente - Automatismo -
Esclusione - Accertamento autonomo della responsabilità
dell'ente.
Sull'ambito di operatività dell'art. 8
d.lgs. 231/2001, all'assoluzione della persona fisica
imputata del reato presupposto per una causa diversa dalla
rilevata insussistenza di quest'ultimo, non consegue
automaticamente l'esclusione della responsabilità dell'ente
per la sua commissione, poiché tale responsabilità, ai sensi
del richiamato articolo, deve essere affermata anche nel
caso in cui l'autore del suddetto reato non sia stato
identificato, ovvero in presenza di una declaratoria di
prescrizione del reato presupposto, riconoscendo, quindi, la
necessità di un accertamento autonomo della responsabilità
dell'ente.
Pertanto, l'eventuale declaratoria di non punibilità per
particolare tenuità del fatto nei confronti dell'autore del
reato presupposto non incide sulla contestazione formulata
nei confronti dell'ente, né ad esso può applicarsi la
predetta causa di non punibilità (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11518 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia "ricostruttiva" - Rispetto delle
distanze - Differenze di condizioni del preesistente
fabbricato - Artt. 3, 13, 29, 36, 44, D.P.R. n. 380/2001.
Con riferimento alla c.d.
ristrutturazione edilizia ricostruttiva bisogna distinguere,
in tema di rispetto delle distanze, l'ipotesi in cui essa
consista nella ricostruzione del preesistente fabbricato con
identità di area di sedime e di sagoma, poiché ciò determina
una effettiva coincidenza con il precedente edificio, al
quale si sostituisce il nuovo, il quale non rispettava già
le distanze ovvero preesisteva alla loro previsione
normativa.
Nel diverso caso in cui il manufatto sia ricostruito con
sagoma diversa rispetto al preesistente o diversa area di
sedime, per cui vi è, invece, l'obbligo del rispetto delle
distanze trattandosi di edificio nuovo e differente quanto a
collocazione fisica.
...
Interventi di ristrutturazione edilizia - Differenza tra
ristrutturazione "conservativa" e ristrutturazione "ricostruttiva"
- Titoli abilitativi - Permesso di costruire e procedura
semplificata della SCIA - Nozione del termine «consistenza»
- Accertamento e limiti della preesistente consistenza di un
edificio crollato o demolito.
L'articolo 3, del d.P.R. 380/2001,
prevede due diverse ipotesi di ristrutturazione, la prima
parte dell'articolo considera una tipologia di intervento
che può comportare il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la
modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti,
mentre la seconda parte della norma considera la possibilità
della demolizione e ricostruzione nel rispetto
dell'originaria volumetria ed, in presenza di vincolo, anche
della sagoma, così che la giurisprudenza amministrativa ha
denominato la prima ristrutturazione "conservativa" e la
seconda ristrutturazione "ricostruttiva"
(Cons. di Stato Sez. V, n. 5988 del 05/12/2014).
Inoltre, gli interventi di ristrutturazione
edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di
edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se
non è possibile accertare la preesistente volumetria delle
opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente
sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della
SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona
paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente
volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma
dell'edificio.
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine
«consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma
1, lett. d), d.P.R. 380/2001, inevitabilmente include tutte
le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente
(volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la
conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali
elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva,
dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto
dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere
rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato
di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà,
invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili.
Con l'ulteriore precisazione che l'accertamento della
preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito
che si intende ricostruire mediante ristrutturazione
edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del
d.P.R 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata
sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad
edifici aventi analoga tipologia, restando una simile
verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni
soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edificazione in zona agricola - Posizione soggettiva del
committente delle opere - Necessaria destinazione funzionale
all'attività agricola - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, per
l'edificazione in zona agricola la destinazione del
manufatto e la posizione soggettiva di chi lo realizza sono
elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della
rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello strumento
urbanistico e, di conseguenza, anche per l'eventuale
valutazione di conformità ai fini del rilascio della
sanatoria (Sez. 3,
n. 7681 del 13/01/2017, Innamorati e altri).
Nel caso di specie, come risulta dalla
sentenza impugnata e dai ricorsi, il proprietario
committente delle opere non era certamente un agricoltore,
trattandosi del comandante di una stazione dei Carabinieri (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato di costruzione edilizia abusiva - Condotta colposa -
Differenza tra semplici cittadini e soggetti con qualifiche
professionali.
La condotta colposa nel reato di
costruzione edilizia abusiva può consistere
nell'inottemperanza all'obbligo di informarsi sulle
possibilità edificatorie concesse dagli strumenti
urbanistici vigenti, da assolversi anche tramite incarico a
tecnici qualificati e che non rientra nell'ipotesi di
ignoranza inevitabile l'erronea convinzione che un
determinato intervento non necessiti di specifico titolo
abilitativo.
Più in generale, si è precisato che l'inevitabilità
dell'errore sulla legge penale non si configura quando
l'agente svolge una attività in uno specifico settore
rispetto al quale ha il dovere di informarsi con diligenza
sulla normativa esistente (nella specie il soggetto era un
ufficiale di polizia giudiziaria).
...
Reati urbanistici - Titolare del permesso di costruire,
committente, costruttore e direttore dei lavori -
Responsabilità.
Il d.P.R. 380/2001 nell'articolo 29
individua, alcuni soggetti che sono ritenuti perseguibili
per eventuali violazioni della normativa urbanistica. Tali
soggetti, indicati nel titolare del permesso di costruire,
nel committente e nel costruttore, sono infatti ritenuti
responsabili della conformità delle opere alla normativa
urbanistica, alle previsioni di piano e, unitamente al
direttore dei lavori, a quelle del permesso e alle modalità
esecutive stabilite dal medesimo.
...
Responsabilità del direttore dei lavori - Posizione di
garanzia - Casistica giurisprudenziale - Concorso di persone
nel reato - Carattere meramente fittizio della prestazione -
Assenza di idoneo titolo professionale - Mancanza di un
effettivo e costante controllo - Mancata conformità alle
leggi urbanistiche ed al progetto autorizzato - Assenza sul
cantiere - Negligenza - Casi di esonero di responsabilità -
Contestazioni al titolare del permesso di costruire, al
committente ed al costruttore delle violazione - Rinuncia
contestuale all'incarico - Comunicazione motivata
all'Amministrazione comunale.
Il direttore dei lavori ha, per il ruolo
svolto, la responsabilità tecnica delle opere cui deve
sovrintendere ed il riferimento, contenuto dalla norma, al
titolo abilitativo edilizio, pur presupponendone la
esistenza, non esclude del tutto la responsabilità di chi
dirige materialmente i lavori in assenza del permesso
secondo i principi generali del diritto penale in materia di
concorso di persone nel reato.
La posizione di garanzia assunta dal direttore dei lavori
non viene meno neppure nel caso in cui si assuma il
carattere meramente fittizio della prestazione, finalizzata
ad un'ottemperanza soltanto formale di precetti normativi e
regolamentari e ciò in ragione della rilevanza che il
rapporto di direzione dei lavori, consapevolmente assunto,
acquista sul piano pubblicistico attraverso la comunicazione
di esso al Comune, ovvero nel caso in cui il soggetto che
assume la direzione dei lavori sia sfornito di idoneo titolo
professionale per svolgere tale ruolo pur sovrintendendo, di
fatto, alla realizzazione dell'opera abusiva.
La giurisprudenza, ha pure ritenuto la responsabilità del
direttore dei lavori in mancanza di un effettivo e costante
controllo sullo svolgimento delle opere anche riguardo alla
loro conformità alle leggi urbanistiche ed al progetto
autorizzato nel caso in cui si disinteressi dell'esecuzione
delle opere edilizie poste in essere in difformità del
provvedimento autorizzatorio o le stesse vengano realizzate
autonomamente da altri a sua insaputa o in sua assenza.
L'art. 29 d.P.R. 380/2001 prevede tuttavia, al secondo
comma, un esonero di responsabilità del direttore dei lavori
qualora egli abbia contestato al titolare del permesso di
costruire, al committente ed al costruttore la violazione
delle prescrizioni del provvedimento amministrativo; abbia
fornito contemporaneamente all'Amministrazione comunale
motivata comunicazione della violazione stessa e, nelle
ipotesi di totale difformità o di variazione essenziale,
abbia altresì rinunziato contestualmente all'incarico,
sempre che il recesso sia tempestivo, quando, cioè,
intervenga non appena l'illecito edilizio obiettivamente si
profili, ovvero appena il direttore dei lavori abbia avuto
conoscenza che le corrette direttive da lui impartite siano
state disattese o violate.
...
Demolizione dell'immobile abusivo - Ordine alla
subordinazione della sospensione condizionale della pena -
Omissione di specifica motivazione.
L'omessa motivazione in ordine alla
subordinazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione dell'immobile abusivo, è sufficiente
richiamare il principio, anche recentemente ribadito,
secondo il quale il giudice può subordinare la concessione
della sospensione condizionale della pena all'eliminazione
delle conseguenze dannose del reato mediante demolizione
dell'opera abusiva, senza dover procedere a specifica
motivazione sul punto, essendo questa implicita
nell'emanazione dell'ordine di demolizione che, in quanto
accessorio alla condanna del responsabile, è emesso sulla
base dell'accertamento della persistente offensività
dell'opera stessa nei confronti dell'interesse protetto
(Sez. 3, n. 23189 del 29/03/2018, Ferrante).
...
Reati urbanistici - Limiti di applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. - Non particolare tenuità del fatto per
contestuale violazione di più disposizioni.
Ai fini dell'applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen., per ciò che riguarda gli aspetti
urbanistici, assumono rilievo vari elementi, quali, ad
esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento.
Indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è
stata inoltre ritenuta la contestuale violazione di più
disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come
nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la
realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni
finalizzate alla tutela di interessi diversi (si pensi alle
norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere
in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente,
a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Dirigente o responsabile dello sportello
unico - Configurabilità del reato di abuso di ufficio -
Elemento soggettivo - Consapevolezza dell'ingiustizia del
vantaggio patrimoniale - Macroscopica illiceità dell'atto -
Fattispecie.
L'inosservanza dell'art. 13 d.P.R.
06.06.2001, n. 380, secondo il quale "il permesso di
costruire è rilasciato dal dirigente o responsabile dello
sportello unico nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e
degli strumenti urbanistici" integra il requisito della
violazione di legge rilevante ai fini della configurabilità
del reato di abuso di ufficio.
Per quanto riguarda, poi, l'elemento soggettivo, si è
affermato che esso consiste nella consapevolezza
dell'ingiustizia del vantaggio patrimoniale e nella volontà
di agire per procurarlo e può essere desunta dalla
macroscopica illiceità dell'atto.
Nella specie, l'evidenza della natura abusiva della
costruzione non emerge esclusivamente dalle sue
caratteristiche dimensionali, ma anche per il contrasto
dell'opera con la destinazione di zona (agricola) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.03.2019 n. 11505 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Preavviso di rigetto: la determinazione conclusiva ancora
negativa va integrata con le argomentazioni che confutano la
fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato
nell’ambito del contraddittorio predecisorio.
Se è vero che, per costante giurisprudenza,
laddove il provvedimento negativo sia supportato da una
pluralità di ragioni autonome, è sufficiente ai fini della
legittimità dell’atto che anche una sola di esse resista al
vaglio giurisdizionale, è altresì vero che l’applicazione
adeguata dell’art. 10-bis della legge sul procedimento
amministrativo esige non solo l’enunciazione nel preavviso
di provvedimento negativo delle ragioni che si intende
assumere a fondamento del diniego, ma anche che le stesse
siano integrate, nella determinazione conclusiva ancora
negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la
fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato
nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato
dall’adempimento procedurale in questione.
E ciò a maggior ragione quando tali
ragioni si siano concretate in una proposta progettuale
sviluppata in aderenza al preavviso di provvedimento
negativo, che ha comportato una modifica delle motivazioni
del diniego, sia quanto al loro numero che quanto alla
portata di quelle perduranti, rendendo queste ultime, in
difetto di una loro rinnovata esposizione, non più
puntualmente rintracciabili nell’atto.
Va infine escluso che nella fattispecie possa ritenersi
integrata l’eccezione al principio dell’inammissibilità
dell’integrazione postuma della motivazione del
provvedimento amministrativo, che ricorre quando le ragioni
del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base
della parte dispositiva dello stesso o si verta in ipotesi
di attività vincolata.
---------------
1. L’appello è fondato.
2. Il primo giudice, come sostenuto dall’appellante Ku.Pe.It. s.p.a., ha effettivamente provveduto a una
attività di interpretazione e di integrazione del diniego
opposto da ANAS s.p.a. al rinnovo della concessione degli
accessi all’impianto di carburanti di cui in fatto che,
riguardando ambedue i profili di preminente rilievo della
vicenda, non può essere confermata.
3. Detta attività interpretativa/integrativa ha innanzitutto
riguardato la individuazione delle difformità rilevate in
via definitiva da ANAS tra le caratteristiche dell’impianto
e le norme tecniche ritenute di rilevo nella fattispecie.
Il diniego, nella prima parte, che costituisce, nella
dinamica espositiva del provvedimento, quella preponderante,
riproduce con modalità puntuali, ovvero elencandone ogni
specifico elemento, tutte le sette difformità rilevate
dall’ANAS nella comunicazione dei motivi ostativi
all’accoglimento dell’istanza originariamente presentata,
nonostante la Kuwait avesse proposto, successivamente alla
predetta comunicazione, un progetto di adeguamento tendente
proprio al superamento dei rilievi contenuti nella
comunicazione stessa.
Tale progetto di adeguamento viene poi preso in
considerazione nella seconda parte del provvedimento, che
chiarisce, laconicamente, che esso non risolve “le non
conformità relative alle lunghezze delle corsie di accesso e
alla distanza minima tra la corsia di accelerazione e la
rampa di uscita dello svincolo successivo”.
La tecnica espositiva utilizzata da ANAS rende il
provvedimento, di fatto, inintellegibile.
Infatti, ove riproduce pedissequamente i sette motivi
ostativi individuati nella comunicazione ex art. 10-bis
della legge n. 241 del 1990, il diniego rimanda,
naturalmente, allo stato dell’impianto in se, e non a quello
che sarebbe risultato dall’attuazione del progetto di
adeguamento proposto da Ku..
Ove, invece, richiama il progetto di adeguamento, il
diniego, per difetto di qualsiasi collegamento concreto con
gli elementi di quest’ultimo, non consente di comprendere
quali siano in concreto le difformità ancora riscontrabili e
la loro effettiva portata.
Per ovviare a tali lacune, la sentenza appellata ha dovuto
far ricorso alle argomentazioni difensive svolte delle parti
del giudizio, ivi compresa quelle della parte ricorrente,
che hanno chiarito che le insufficienze riscontrate anche
dopo la presentazione del progetto di adeguamento sono due,
e riguardano la distanza della corsia di accelerazione dallo
svincolo di Sant’Eraclio (m 53,80 anziché 300) e la
lunghezza della corsia di accelerazione (m 88,10 anziché
260).
In tal modo, il primo giudice ha tenuto conto di dati non
ricavabili dal provvedimento, che nella prima parte,
dichiarava, per le stesse difformità, due diverse misure
(rispettivamente, m 12,06 anziché 300 e m 118,85 anziché
260).
Sicché appare condivisibile il rilievo dell’appellante che
il richiamo da parte del diniego anche dei profili di
difformità che potevano considerarsi superati dal progetto
di adeguamento milita nella direzione della superficialità
dell’istruttoria e della carenza di motivazione, e non può
dirsi superato, come ha fatto la sentenza gravata, dalla
circostanza che alcuni dei predetti profili siano
risultanti, in definiva, ancora tali.
Se è vero, infatti, che, per costante giurisprudenza,
laddove il provvedimento negativo sia supportato da una
pluralità di ragioni autonome, è sufficiente ai fini della
legittimità dell’atto che anche una sola di esse resista al
vaglio giurisdizionale (da ultimo, Cons. Stato, V, 13.09.2018, n. 5362), è altresì vero che l’applicazione
adeguata dell’art. 10-bis della legge sul procedimento
amministrativo esige non solo l’enunciazione nel preavviso
di provvedimento negativo delle ragioni che si intende
assumere a fondamento del diniego, ma anche che le stesse
siano integrate, nella determinazione conclusiva ancora
negativa, con le argomentazioni finalizzate a confutare la
fondatezza delle ragioni formulate dall’interessato
nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato
dall’adempimento procedurale in questione (Cons. Stato, VI,
27.09.2018, n. 5557; III, 05.06.2018, n. 3396; VI,
02.05.2018, n. 2615; I, 25.03.2015, n. 80).
E ciò a maggior ragione quando, come nella fattispecie, tali
ragioni si siano concretate in una proposta progettuale
sviluppata in aderenza al preavviso di provvedimento
negativo, che ha comportato una modifica delle motivazioni
del diniego, sia quanto al loro numero che quanto alla
portata di quelle perduranti, rendendo queste ultime, in
difetto di una loro rinnovata esposizione, non più
puntualmente rintracciabili nell’atto.
Va infine escluso che nella fattispecie possa ritenersi
integrata l’eccezione al principio dell’inammissibilità
dell’integrazione postuma della motivazione del
provvedimento amministrativo, che ricorre quando le ragioni
del provvedimento siano chiaramente intuibili sulla base
della parte dispositiva dello stesso o si verta in ipotesi
di attività vincolata (Cons. Stato, V, 16.04.2014, n.
1938).
Infatti, quanto alla prima ipotesi, si è già rilevato come,
in difetto dell’attività chiarificatrice delle parti, non
sarebbe stato possibile in alcun modo derivare dal
provvedimento quali insufficienze, dopo la presentazione da
parte di Ku. del progetto di adeguamento, fossero ancora
riscontrabili dall’ANAS, e in che misura.
Non si verte poi, come meglio in seguito, nell’ambito della
seconda ipotesi (attività vincolata) (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 15.03.2019 n. 1705 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Difformità o difetti costruttivi dell’opera - Responsabilità
del direttore dei lavori - Vigilanza urbanistica ed alta
sorveglianza delle opere - Attività del direttore dei lavori
- Controlli, verifiche e istruzioni - Giurisprudenza - Art.
24, 25, 29 D.P.R. n. 380/2001.
In materia di vigilanza urbanistica,
l'attività del direttore dei lavori per conto del
committente si concreta nell'alta sorveglianza delle opere,
che, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera
sul cantiere né il compimento di operazioni di natura
elementare, comporta comunque il controllo della
realizzazione dell'opera nelle sua varie fasi e pertanto
l'obbligo del professionista di verificare, attraverso
periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici
dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali
fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la
corrispondenza dei materiali impiegati
(Cass. Sez. 2, 03/05/2016, n. 8700; Cass. Sez. 2,
24/04/2008, n. 10728; Cass. Sez. 2, 27/02/2006, n. 4366;
Cass. Sez. 2, 20/07/2005, n. 15255).
...
Vizi o difformità dell'opera (privata) appaltata - Obblighi
del direttore dei lavori - Tutela del committente - Impiego
di peculiari competenze tecniche - Normale diligenza -
Omissione in vigilanza, controlli o istruzioni -
Responsabilità del direttore dei lavori - Sussistenza.
In tema di responsabilità conseguente a
vizi o difformità dell'opera appaltata, il direttore dei
lavori per conto del committente, essendo chiamato a
svolgere la propria attività in situazioni involgenti
l'impiego di peculiari competenze tecniche, deve utilizzare
le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare,
relativamente all'opera in corso di realizzazione, il
risultato che il committente-preponente si aspetta di
conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato
non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma
alla stregua della "diligentia quam in concreto".
Pertanto, rientrano, tra gli obblighi del direttore dei
lavori l'accertamento della conformità sia della progressiva
realizzazione dell'opera al progetto, sia le modalità
dell'esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della
tecnica, nonché l'adozione di tutti i necessari accorgimenti
tecnici volti a garantire la realizzazione dell'opera senza
difetti costruttivi.
Non si sottrae, dunque, a responsabilità il professionista
che ometta di vigilare e di impartire le opportune
disposizioni al riguardo, nonché di controllarne
l'ottemperanza da parte dell'appaltatore e di riferirne al
committente (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 14.03.2019 n. 7336 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Disturbo delle occupazioni o del
riposo delle persone - Rumore - Accertamento idoneità delle
emissioni sonore - Principi giurisprudenziali consolidati -
Fattispecie: pubblico esercizio che diffonde musica ad
elevato volume anche in ore notturne - Art. 659, c. 1, cod.
pen..
In tema disturbo delle occupazioni o del
riposo delle persone, per individuare l'idoneità delle
emissioni sonore e arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone, il giudice non è tenuto a basarsi
necessariamente su specifiche indagini tecniche, ben potendo
fondare il proprio convincimento su altri elementi in grado
di dimostrare la sussistenza di un fenomeno idoneo ad
arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete.
Pertanto, ai fini della configurabilità della
contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen. si possono
trarre tre principi generali consolidati nella
giurisprudenza:
1) l'affermazione di responsabilità per la fattispecie di cui
all'art. 659, comma 1, cod. pen., non implica, attesa la
natura di reato di pericolo presunto, la prova
dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente
l'idoneità della condotta a disturbarne un numero
indeterminato;
2) l'attitudine dei rumori ad arrecare pregiudizio al riposo od
alle occupazioni delle persone non va necessariamente
accertata mediante perizia o consulenza tecnica, di tal ché
il Giudice ben può fondare il proprio convincimento su
elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni
di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti
oggettivamente superata la soglia della normale
tollerabilità;
3) la piena attendibilità delle deposizioni assunte, invero non
contestata con argomenti concreti nel ricorso (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2019 n. 10938 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Inosservanza delle prescrizioni
dell'autorizzazione - Natura del reato - Istantaneo,
eventualmente abituale o eventualmente permanente - Reato di
cui all'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006.
L'art. 256, comma 4, d.lgs. 152/2006
sanziona le ipotesi di inosservanza delle prescrizioni
contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché le
ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni
richiesti per le iscrizioni o comunicazioni.
Sicché, la contravvenzione di cui all'art. 256, comma 4,
dlgs. 152/2006 può dunque presentarsi, in concreto, come
reato istantaneo (nel caso in cui, ad esempio, alla singola
inosservanza segua immediatamente la cessazione
dell'attività), come reato eventualmente abituale, quando si
configuri attraverso condotte reiterate, ovvero
eventualmente permanente, come nei casi dianzi richiamati o,
comunque quando si concreta con la protrazione nel tempo
della situazione antigiuridica creata da una singola
condotta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2019 n. 10933 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi nel sottosuolo (cd. Legge Tognoli) - Speciale
regime di favore - Applicazione e limiti - Realizzazione di
parcheggi di servizio a fabbricati esistenti realizzati nel
sottosuolo - Requisiti richiesti dalla norma - Atti di
cessione nulli - Casistica giurisprudenziale - L. n.
122/1989 - Artt. 12 e 44, lett. c) d.P.R. 380/2001 - Art. 181
d.lgs. 42/2004.
La legge 24.03.1989, n. 122 (cd. Legge
Tognoli) riguarda i parcheggi a servizio di edifici già
esistenti e stabilisce, nell'art. 9, comma 1, che detti
parcheggi, costruiti dai proprietari degli immobili, possono
essere realizzati nel sottosuolo, ovvero nei locali siti al
piano terreno dei fabbricati anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti,
anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del
traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante
e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici; devono
essere destinati a pertinenza dei fabbricati; non possono
essere ceduti separatamente dall'unità immobiliare alla
quale sono legati da vincolo pertinenziale.
I relativi atti di cessione sono nulli. Conseguentemente,
deve escludersi l'applicabilità della «Legge Tognoli» ed il
conseguente ricorso al regime ordinario, previsto per tutti
gli interventi che comportino comunque una trasformazione
permanente del suolo inedificato.
Lo speciale regime di favore introdotto dalla L. n. 122/1989
è applicabile solo nel caso in cui ricorrano tutti i
requisiti richiesti dalla norma, in difetto dei quali le
opere realizzate resteranno soggette al regime generale che
richiede il permesso di costruire, escludendo, ad esempio,
l'applicazione delle disposizioni in esame per la
realizzazione, unitamente ad un garage interrato, di un
insieme ulteriore di opere ad esso accessorie finalizzate ad
una nuova sistemazione degli accessi all'edificio
residenziale: terrazza con pensilina e scala di collegamento
(Sez. 3, n. 28840/2008, Dantoni e altro), per parcheggi
realizzati in superficie
(Sez. 3, n. 29080/2013, PM. in proc. Gullo)
e in particolare, va ricordato che, l'applicabilità
della speciale disciplina è stata esclusa in caso di
parcheggi costruiti con interramenti ottenuti per effetto
del riporto di terra
(Sez. 3, n. 26825/2003, Grandazzo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire o altro atto abilitativo anche in
sanatoria materialmente incompatibile con la legge o
difforme da essa - Ipotesi dell'illiceità del provvedimento
- Poteri del giudice penale.
I poteri del giudice penale rispetto
all'atto abilitativo, anche in sanatoria, si sostanziano
nell'individuare quelle situazioni di illegittimità che
rendono l'atto abilitativo improduttivo di validi effetti,
facendo riferimento alle finalità della disciplina
urbanistica ed ai presupposti per il rilascio del permesso
di costruire, che l'art. 12 del d.P.R. 380/2001 individua,
tra l'altro, nella conformità alle previsioni degli
strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della
disciplina urbanistico-edilizia vigente, con la conseguenza
che, in disparte l'ipotesi dell'illiceità del provvedimento,
la illegittimità rilevante per il giudice penale non può che
essere quella derivante dalla non conformità del titolo
abilitativo alla normativa che ne regola l'emanazione o alle
disposizioni normative di settore, dovendosi, al contrario,
radicalmente escludersi la possibilità che il mero dato
formale dell'esistenza del permesso di costruire possa
precludere al giudice penale ogni valutazione in ordine alla
sussistenza del reato
(Cass. Sez. 3, n. 12389/2017, Minosi. Conf. Sez. 3, n.
46477/2017, Menga e altri).
Pertanto, si è ribadito il principio
secondo il quale l'obbligo di applicare "soltanto" la legge
implica l'obbligo di negare applicazione ad ogni atto che,
sebbene formalmente fondato sulla legge, sia tuttavia
materialmente incompatibile con la legge o sia difforme da
essa (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato paesaggistico -
Esclusione della punibilità per particolare tenuità del
fatto - Norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di
opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e
dell'ambiente - Condotte riparatorie ed estinzione
dell’illecito penale - Effetti e limiti dell'art. 131-bis
cod. pen..
In tema di esclusione della punibilità
per particolare tenuità del fatto, condotte riparatorie ed
estinzione dell’illecito penale, ai fini dell'applicabilità
dell'art. 131-bis cod. pen., per ciò che riguarda gli
aspetti urbanistici, assumono rilievo vari elementi, quali,
ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico, l'eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l'impossibilità di sanatoria, il mancato
rispetto di vincoli (idrogeologici, paesaggistici,
ambientali, etc.), l'eventuale collegamento dell'opera
abusiva con interventi preesistenti, il rispetto o meno di
provvedimenti autoritativi emessi dall'amministrazione
competente (ad es. l'ordinanza di demolizione), la totale
assenza di titolo abilitativo o il grado di difformità dallo
stesso, le modalità di esecuzione dell'intervento
(Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, PM. in proc. Derossi, Rv.
265450. Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso, Rv.
266586).
Indice sintomatico della non particolare
tenuità del fatto è stata inoltre ritenuta la contestuale
violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano
contestualmente violate, mediante la realizzazione
dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela
di interessi diversi (si pensi alle norme in materia di
costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di
tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla
fruizione delle aree demaniali).
Nella specie è stata esclusa l'applicabilità dell'art.
131-bis cod. pen. con riferimento al reato paesaggistico (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.03.2019 n. 10927 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale respinge la q.l.c. sull’art. 19,
comma 6-ter, l. 241/1990 per assenza di termine alla
sollecitazione da parte del terzo della verifica della
legittimità della s.c.i.a..
---------------
La Corte costituzionale respinge i dubbi di costituzionalità
sollevati nei confronti dell’art. 19, comma 6-ter, della
legge n. 241 del 1990, con riferimento alla mancata
previsione di un termine finale per la sollecitazione da
parte del controinteressato della verifica della legittimità
della s.c.i.a. e indica i percorsi praticabili per la tutela
effettiva del terzo.
----------------
Atto amministrativo – SCIA – Denuncia del terzo – Termine –
Assenza – Questione infondata di costituzionalità.
Sono infondate, nei sensi di cui in
motivazione, le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241
(Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di
diritto di accesso ai documenti amministrativi), sollevate,
in riferimento agli artt. 3, 11, 97, 117, primo comma –quest’ultimo
in riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il
04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge
04.08.1955, n. 848, e all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato
sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il
07.02.1992, entrato in vigore il 01.11.1993– e secondo
comma, lettera m), della Costituzione, dal Tribunale
amministrativo regionale per la Toscana (1).
---------------
(1) I. – Con la sentenza in rassegna la Corte costituzionale ha
dichiarato infondati i dubbi di legittimità costituzionale
sollevati da
Tar per la Toscana, sez. III, ordinanza 11.05.2017, n. 667
(in Urbanistica e appalti, 2017, 528, con nota di DAPAS e
VIOLA e in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 328, nonché oggetto
della
News US in data 16.05.2017), con riferimento alla
mancata previsione da parte dell’art. 19, comma 6-ter, della
legge n. 241 del 1990, di un termine finale per la
sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla
s.c.i.a., ritenendo che i termini per le suddette verifiche,
dei quali riconosce l’essenzialità a tutela dell’affidamento
del segnalante, siano ricavabili dallo stesso art. 19 della
legge n. 241 del 1990 e dalle norme cui esso rinvia e
indicando, in una prospettiva più ampia e sistematica, gli
strumenti apprestati dall’ordinamento a tutela della
posizione giuridica del terzo.
II. – Il giudizio dinanzi al Tar per la Toscana, che ha
portato all’adozione della richiamata ordinanza n. 667 del
2017, aveva ad oggetto un’azione per silenzio-inadempimento,
ex art. 31 c.p.a., proposta da un condomino in relazione
alla mancata risposta dell’Amministrazione comunale alle
richieste di inibitoria dallo stesso avanzate, nel corso
dell’anno 2016, nei confronti dell’attività edilizia
intrapresa da altro condomino e fatta oggetto di s.c.i.a.
presentata nell’anno 2012.
In seno a tale giudizio veniva sollevata dal segnalante
eccezione di tardività della sollecitazione del potere
inibitorio da parte del terzo, avvenuta a diversi anni di
distanza dalla presentazione della s.c.i.a. Nello scrutinio
di tale eccezione il Tar per la Toscana rilevava la mancata
previsione, nell’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241
del 1990, di un termine per la proposizione dell’istanza
sollecitatoria da parte del terzo e riteneva che il suddetto
termine non fosse neppure ricavabile in termini univoci dal
sistema normativo, con la conseguenza che la diffida del
terzo dovesse ritenersi tempestiva anche se proposta a
notevole distanza di tempo dall’avvenuto deposito della
segnalazione presso l’Ente competente.
Concludeva però il Tar che un simile sistema normativo
risultava in contrasto con l’esigenza di tutelare
l’affidamento del segnalante circa la legittimità
dell’iniziativa intrapresa, con il principio di buon
andamento della pubblica amministrazione nonché con il
generale principio di certezza dei rapporti tra cittadino e
Pubblica Amministrazione e conseguentemente sollevava
questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma
6-ter, della legge n. 241 del 1990, per violazione degli
artt. 3, 11, 97, 117, primo comma, e 117, secondo comma,
lett. m) Cost. Il ragionamento del Tar per la Toscana, la
cui illustrazione è necessaria per la migliore comprensione
della decisione della Corte costituzionale, è fondato su due
premesse:
a) la prima consistente nel rilievo che la tutela
del terzo nei confronti della s.c.i.a., con l’introduzione
del comma 6-ter nell’art. 19 della legge n. 241 del 1990 ad
opera dell’art. 6, comma 1, lett. c), del decreto-legge n.
138/2011, viene ad essere tutta concentrata nella
sollecitazione dei poteri di verifica da parte
dell’Amministrazione e nella conseguente azione sul silenzio
(dispone infatti il citato comma 6-ter che “la
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli
interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia,
esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi
1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”);
b) la seconda premessa si sostanzia nella opzione
interpretativa offerta dal Tribunale amministrativo, secondo
la quale il potere amministrativo, sollecitato dal terzo a
tutela della proprie situazioni giuridiche soggettive, deve
essere ricostruito come potere inibitorio puro, cioè
vincolato, che garantisca al terzo di ottenere, attraverso
l’intervento dell’Amministrazione, la cessazione
dell’attività lesiva non consentita dalla legge; esso non
potrebbe invece qualificarsi come potere di autotutela, come
previsto dall’art. 19, comma 3, della stessa legge n. 241
per l’intervento ufficioso dell’Ente, perché in tal caso si
finirebbe per subordinare la tutela del terzo ad una
valutazione discrezionale dell’Amministrazione in ordine
alla sussistenza o meno di un interesse pubblico alla
rimozione degli effetti della s.c.i.a.; la suddetta lettura
del potere inibitorio di cui al comma 6-ter porta il
Tribunale ad escludere che si possa richiamare, come termine
finale per il suo esercizio, quello di 18 mesi previsto per
l’annullamento d’ufficio dall’art. 21-nonies della legge n.
241 del 1990 (come modificato dalla legge 124/2015) ed oggi
applicabile anche all’intervento in autotutela sulla
s.c.i.a. in base al combinato disposto della suddetta norma
con l’art. 19, comma 4, della stessa legge n. 241.
La tesi sostenuta nell’ordinanza n. 667/2017 del Tar Toscana
porta dunque a distinguere:
b1) intervento ufficioso sulla s.c.i.a. (art. 19, commi 3 e
4), che si articola in due ipotesi di potere che si
succedono nel tempo:
I] quello del comma 3 è potere vincolato, volto
all’accertamento da parte della p.a. della sola “carenza
dei requisiti e dei presupposti” della s.c.i.a., da
esercitarsi nel termine di sessanta o trenta giorni dalla
presentazione della segnalazione;
II] quello del comma 4 è potere discrezionale, in quanto
l’adozione dei provvedimenti di cui al comma terzo è
subordinata alla “presenza delle condizioni previste
dall’articolo 21-nonies”, e può essere esercitato
decorso il termine di sessanta o trenta giorni per
l’intervento inibitorio puro e nel termine finale di 18 mesi
dalla segnalazione, secondo quanto previsto dall’art.
21-nonies cit.;
b2) intervento sulla s.c.i.a. a istanza del terzo
pregiudicato (comma 6-ter):
I] la tesi del giudice rimettente è nel senso che in questo
caso, per ragioni di piena tutela del terzo, il potere
amministrativo di cui viene sollecitato l’esercizio debba
essere ricostruito come potere inibitorio puro, di natura
vincolata, e non sottoposto ai presupposti dell’autotutela,
neppure una volta decorsi i termini di sessanta o trenta
giorni dalla presentazione della segnalazione;
II] il giudice rimettente, a tutela del contrapposto
interesse del segnalante, riteneva tuttavia che il suddetto
potere inibitorio puro non potesse essere esercitato sine
die, giungendo quindi alla questione di costituzionalità
in discorso.
III. – La Corte costituzionale giunge alle conclusioni sintetizzate
nella massima riportata, sulla base del seguente percorso
argomentativo:
c) l’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, che
attribuisce al terzo interessato la facoltà di “sollecitare
l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui
all’art. 31, commi 1, 2 e 3” c.p.a. nulla dice circa il
termine entro cui va fatta la sollecitazione e, quindi,
entro cui vanno esercitati i poteri di verifica da parte
dell’Amministrazione; tale carenza, secondo il giudice a
quo, non sarebbe colmabile in via interpretativa, come si
desumerebbe dall’erroneità di tutte le tesi avanzate in
proposito, il che esporrebbe la norma a dubbi di legittimità
costituzionale:
c1) certamente non sbaglia il Tar per la Toscana a ritenere
che la previsione di un termine costituisca, nel contesto
normativo in questione, un requisito essenziale dei poteri
di verifica sulla s.c.i.a. a tutela dell’affidamento del
segnalante;
c2) non può invece condividersi la tesi del rimettente,
secondo cui i poteri di verifica sollecitati dal terzo
sarebbero “altri” rispetto a quelli previsti dai
commi precedenti dell’art. 19 cit. e sempre vincolati,
cosicché non sarebbe possibile mutuarne la disciplina;
c3) l’art. 19, in particolare:
c3.1) al
comma 3 attribuisce alla p.a. un triplice ordine di poteri
(inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili, “in
caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti”
dell’art. 19, comma 1, entro il termine ordinario di
sessanta giorni dalla presentazione della s.c.i.a., dando la
preferenza a quelli conformativi;
c3.2) al
successivo comma 4 prevede che, decorso tal termine, quei
poteri siano ancora esercitabili “in presenza delle
condizioni previste dall’art. 21-novies” della stessa
legge n. 241 del 1990; quest’ultimo articolo, a sua volta,
disciplina l’annullamento in autotutela degli atti
illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse
pubblico ulteriore rispetto al ripristino della legalità,
che si operi un bilanciamento fra gli interessi coinvolti e
che, per i provvedimenti ampliativi della sfera giuridica
dei privati, il potere debba essere esercitato entro il
termine massimo di diciotto mesi;
c3.3) al
comma 6-bis applica questa disciplina anche alla s.c.i.a.
edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta
a trenta giorni e prevedendo, inoltre, che, “restano […]
ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni
previste dal decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali”;
c4) ebbene, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente,
è ai poteri di cui ai commi 3, 4 e 6-bis dell’art. 19 che
deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter dello
stesso articolo;
d) a tale conclusione si perviene anzitutto sulla base del
dato testuale: la locuzione “verifiche spettanti
all’amministrazione” lascia chiaramente intendere che la
norma rinvia a poteri già previsti; questa piana lettura
testuale trova poi conferma:
d1) da una parte, nella genesi della disposizione censurata:
il comma 6-ter è stato introdotto dall’art. 6, comma 1, del
decreto-legge 13.08.2011, n. 138, in aperta dialettica con
la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza
di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto
silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di
tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in
modo tradizionale come inadempimento; il riferimento alle “verifiche
spettanti all’amministrazione”, dunque, non è
finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla
sollecitazione da parte del terzo dell’esercizio dei poteri
esistenti;
d2) dall’altra, nella evoluzione del quadro normativo di
riferimento: la diversa opzione ermeneutica seguita dal
giudice a quo darebbe luogo ad una evidente incongruenza del
sistema, per come si è evoluto a seguito della introduzione
−ad opera della legge n. 124 del 2015− del termine di
esercizio dell’autotutela nell’art. 21-nonies della legge n.
241 del 1990, termine reso applicabile anche ai poteri di
controllo sulla s.c.i.a. dall’art. 19, comma 4, della stessa
legge: si avrebbe qui, infatti, un potere sempre vincolato,
e quindi più incisivo di quello di autotutela, e pur
tuttavia temporalmente illimitato;
e) più in generale, il riconoscimento di un potere “in
bianco” nel comma 6-ter sarebbe in manifesto contrasto
con il principio di legalità-tipicità che caratterizza,
qualifica e limita tutti i poteri amministrativi, principio
che, com’è noto, ha fondamento costituzionale (artt. 23, 97,
103 e 113 Cost.) e va letto non solo in senso formale, come
necessità di una previsione espressa del potere, ma anche in
senso sostanziale, come determinazione del suo ambito, e
cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo
esercizio;
f) non meno evidente, infine, è l’incompatibilità della
lettura proposta dal giudice a quo con l’istituto della
s.c.i.a., per come conformato dalla sua storia normativa e
giurisprudenziale:
f1) il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la
scelta del legislatore nel senso della liberalizzazione
dell’attività oggetto di segnalazione, cosicché la fase
amministrativa che ad essa accede costituisce una –sia pur
importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei
tempi;
f2) una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di
più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel
recupero dell’istituto all’area amministrativa tradizionale,
che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere;
f3) le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi
del comma 6-ter sono dunque quelle già puntualmente
disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o
trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e
6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che
rinvia all’art. 21-nonies);
f4) decorsi questi termini, la situazione soggettiva del
segnalante si consolida definitivamente nei confronti
dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche
del terzo; questi, infatti, è titolare di un interesse
legittimo pretensivo all’esercizio del controllo
amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di
dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si
estingue;
g) questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata,
non può essere messa in discussione dal timore del
rimettente che ne derivi un vulnus alla situazione giuridica
soggettiva del terzo; il problema indubbiamente esiste, ma
trascende la norma impugnata e va affrontato in una
prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto
dell’insieme degli strumenti apprestati a tutela della
situazione giuridica del terzo:
g1) il terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela
già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in
caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi
dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (in
questo caso “non è ammessa la conformazione dell’attività
e dei suoi effetti a legge”);
g2) potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di
settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art.
21, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad
esempio, quelli in materia di edilizia, regolati dagli artt.
27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante «Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di edilizia. (Testo A)», ed espressamente
richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis;
g3) esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede
risarcitoria nei confronti della p.a. in caso di mancato
esercizio del doveroso potere di verifica, poiché l’art. 21,
comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente
salva la connessa responsabilità del dipendente che non
abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata
non fosse conforme alle norme vigenti;
g4) al di là delle modalità di tutela dell’interesse
legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che
si assuma illecita, nei confronti della quale valgono le
ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del
danno, eventualmente in forma specifica;
h) tutto ciò, peraltro, non esclude l’opportunità di un
intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da
una parte, di rendere possibile al terzo interessato una più
immediata conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra,
di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di
una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del
ritardo nell’esercizio del potere da parte
dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di
tale potere.
IV. – La sentenza della Corte costituzionale esaminata propone una
sorta di decalogo dei mezzi di tutela messi a disposizione
del terzo per opporsi all’attività oggetto della
segnalazione, offrendo lo spunto per qualche considerazione
su alcuni degli strumenti indicati:
i) vengono in primo luogo in considerazione i poteri
inibitori, repressivi e conformativi previsti dall’art. 19,
commi 3 e 6-bis, della legge n. 241 del 1990, da esercitarsi
nel termine di sessanta o trenta giorni (per l’attività
edilizia) dal ricevimento della segnalazione;
i1) i suddetti poteri, sia nell’ipotesi che vengano
esercitati d’ufficio (come direttamente dispongono i commi 3
e 6-bis richiamati), sia nell’ipotesi che vengano esercitati
in esito a sollecitazione del privato (tramite il richiamo
ad essi del comma 6-ter dell’art. 19) hanno come presupposto
la “accertata carenza dei requisiti e dei presupposti”
della segnalazione certificata di inizio attività, non
intermediata da valutazioni di interesse pubblico o di altri
requisiti valutativi;
i2) il terzo ha un interesse specifico a ottenere
l’esercizio del potere inibitorio qui previsto (piuttosto
che del potere di autotutela, che diventa operativo allo
scadere del termine di trenta o sessanta giorni dalla
presentazione della segnalazione e che ha ben più stringenti
requisiti e presuppone la sussistenza di interesse pubblico
prevalente al suo esercizio), il che lo può portare a
chiedere -nell’ambito del procedimento camerale sul c.d.
rito silenzio ai sensi dell’art. 31 c.p.a.- la tutela
cautelare, nelle sue varie forme (tra le quali assume
specifica utilità quella presidenziale); in giurisprudenza,
sulla ammissibilità della tutela cautelare nel procedimento
sul silenzio, si vedano: Tar per la Sicilia–Palermo, sez. II,
ord. 27.07.2018, n. 718 (in termini dubitativi), Tar per
l’Abruzzo, sez. I, ord. 11.09.2014, n. 661 (in senso
contrario); in dottrina: M.V. LUMETTI, Processo
amministrativo e tutela cautelare, Padova, 2012, p. 395, si
è espressa in senso contrario alla ammissibilità
dell’intervento cautelare nel giudizio sul silenzio,
parlando di “inconciliabilità strutturale” della
tutela cautelare con detto rito; F. D’ALESSANDRI, Il rito
speciale del silenzio in F. D’ALESSANDRI e E. SCATOLA, Il
silenzio inadempimento, Milano, 2016, p. 126 afferma invece
che “anche con questo rito [quello sul silenzio] può in
alcune ipotesi residuare la necessità di accedere ad una
vera e propria fase cautelare, ex artt. 55 ss c.p.a. che
assicuri una tutela interinale, nei casi di periculum in
mora grave e irreparabile, in attesa della decisione finale”,
ciò sul rilievo che i “termini previsti dall’art. 55,
comma 5, c.p.a. per la trattazione dell’istanza cautelare,
risultano decisamente più brevi di quelli (comunque
abbreviati) previsti dall’art. 87, comma 3, c.p.a. per il
rito camerale ordinario, applicabili alla trattazione del
rito del silenzio”; da ultimo R. DE NICTOLIS, Processo
amministrativo, IV ed., Milano, 2019, p. 2398 afferma che “in
astratto la possibilità di tutela cautelare nel rito in
commento non può essere esclusa” anche se “in
concreto la valutazione in ordine al periculum in mora dovrà
tener conto dei tempi (che si presumono rapidi) della tutela
processuale ordinaria”, aggiungendo che l’incidente
cautelare, in tale ipotesi, dovrebbe svolgersi nei termini
dell’art. 55, comma 5, c.p.a. ma dimezzati (prima camera di
consiglio 10 giorni dopo l’ultima notificazione);
i3) in relazione alle ipotesi in cui le leggi regionali
prevedano, in caso di incompletezza della documentazione
presentata a supporto della s.c.i.a., la richiesta
dell’Amministrazione al segnalante di procedere a
regolarizzazioni (ad es. art. 145, comma 8, legge regionale
Toscana 10.11.2014, n. 65), c’è da interrogarsi sull’effetto
sospensivo o interruttivo del termine per l’intervento
inibitorio in parola; sul tema cfr. Tar per la
Lombardia–Milano, sez. II, 03.04.2014, n. 880 secondo cui “deve
quindi ritenersi che sia consentito al Comune interrompere
il termine di trenta giorni per il consolidamento della SCIA
attraverso la sollecitazione del contributo istruttorio del
privato, come, del resto, già riconosciuto dalla
giurisprudenza con riferimento alla diversa ipotesi di
semplificazione procedimentale costituita da
silenzio-assenso di cui al già richiamato articolo 87, comma
9, del d.lgs. n. 259 del 2003”, poiché non è
condivisibile “la prospettazione di parte ricorrente,
secondo la quale il Comune non avrebbe avuto il potere di
interrompere il predetto termine, essendogli consentita
esclusivamente l’adozione di un provvedimento di diniego.
Una siffatta soluzione appare contraria all’interesse stesso
del soggetto privato che intenda procedere all’intervento,
perché imporrebbe al Comune di emettere un provvedimento di
segno negativo anche in presenza di carenze o irregolarità
suscettibili di integrazione”;
i4) più in generale, si pone anche l’interrogativo se vi
siano carenze nelle allegazioni alla s.c.i.a. così gravi da
comportare la sua inefficacia a prescindere dall’intervento
inibitorio dell’Amministrazione; uno spunto in tal senso è
fornito dall’art. 145, comma 3, della già evocata legge
toscana n. 65 del 2014, a mente del quale è inefficace la
s.c.i.a. presentata senza la relazione asseverata del
progettista, senza gli elaborati progettuali necessari per
consentire le verifiche di competenza dell’Amministrazione o
senza i pareri o nulla-osta necessari per poter eseguire i
lavori; in termini si vedano: Cons. Stato, sez. IV,
14.02.2017, n. 625, secondo cui “la segnalazione ex art.
19, comma 6-ter, l. 07.08.1990 n. 241 deve contenere
elementi minimali di identificazione e qualificazione
dell'attività della quale si chiede la verifica, in assenza
dei quali l'Amministrazione non soltanto non è obbligata ma
non dispone neppure degli elementi conoscitivi essenziali
per svolgere le proprie verifiche e emanare un provvedimento”;
Tar per la Campania–Napoli, sez. III, 13.01.2016, n. 140,
secondo cui “il decorso del termine di trenta giorni non
legittima l'intervento edilizio se la dichiarazione non
corrisponde al modello legale prescritto dalla legge”;
j) decorsi i termini di trenta e sessanta giorni,
l’Amministrazione può comunque esercitare i poteri di cui al
comma 3 dell’art. 19, al ricorrere però delle condizioni
previste dall’art. 21-nonies della legge n. 241/90, ciò sia
d’ufficio che in presenza della sollecitazione del privato,
ai sensi del comma 6-ter; anche questo potere amministrativo
risulta temporalizzato, stante la fissazione in legge del
termine massimo di 18 mesi; viene il dubbio, però, che
l’intervento in autotutela presenti nelle due ipotesi
(intervento ufficioso e su istanza di parte) connotazioni in
parte diverse; nel caso di agire ufficioso
dell’Amministrazione l’autotutela conserva certamente la sua
connotazione ampiamente discrezionale; ma quando l’autotutela
viene ad essere lo strumento di tutela delle posizioni
giuridiche del terzo appare possibile ritenere che la stessa
si connoti come una autotutela atipica, ad esercizio
doveroso, pena in alternativa il lasciare completamente
sguarnita la tutela del terzo pregiudicato dalla
segnalazione;
k) tra gli strumenti evocati dalla sentenza in rassegna vi
sono anche i poteri di vigilanza e repressivi di settore, di
cui parla l’art. 21, comma 2-bis, della legge n. 241 del
1990 e che la Corte esemplifica richiamando l’art. 27 del
d.P.R. n. 380 del 2001, cioè la “vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia”; la norma evocata si riferisce
alle opere abusive, realizzate senza titolo edilizio, il che
pare presupporre la inesistenza originaria o l’eliminazione,
a mezzo degli strumenti giuridici a disposizione
dell’Amministrazione, dell’eventuale permesso di costruire o
s.c.i.a. presentata; ma ove il segnalante abbia realizzato
l’intervento edilizio e la s.c.i.a. non sia contestabile da
parte dell’Amministrazione, per scadenza dei termini sopra
visti, non pare configurabile un intervento repressivo
dell’Amministrazione ai sensi dell’art. 27 cit., non essendo
in presenza di attività edilizia abusiva, ciò al netto della
ricorrenza di vincoli paesaggistici;
l) infine un’ultima osservazione merita l’affermazione della
Corte secondo cui “al di là delle modalità di tutela
dell’interesse legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di
un’attività che si assuma illecita, nei confronti della
quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del
risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica”:
l1) il riferimento è all’art.
872, comma 2, cod. civ., a mente del quale “colui che per
effetto della violazione [delle norme edilizie] ha subito
danno deve essere risarcito, salva la facoltà di chiedere la
riduzione in pristino quando si tratta della violazione
delle norme contenute nella sezione seguente o da questa
richiamate”;
l2) in ambito civilistico il terzo può dunque aspirare, in
generale, alla tutela risarcitoria, salva la possibilità di
tutela reale, con riduzione in pristino, nel caso di
violazione delle normativa sulla distanza nella costruzioni,
di cui agli artt. 873–899 cod. civ.;
l3) la Corte
costituzionale, nell’evocare la tutela civilistica “in forma
specifica”, par riferirsi alle ipotesi in cui, secondo
il codice civile, è possibile andar oltre la mera tutela per
equivalente, attraverso appunto la rimessione in pristino,
secondo la sistematica propria dell’art. 872 cit., cioè in
sostanza nelle sole ipotesi di violazione delle regole sulle
distanze.
V. – Per completezza, nel rinviare all’ampia rassegna di dottrina e
giurisprudenza di cui alla recente
News US n. 19 del 06.02. 2019 (avente ad oggetto
Tar per l’Emilia Romagna–Parma, sez. I, sentenza non
definitiva 22.01.2019, n. 12), si segnala quanto
segue:
m) per la natura giuridica e gli strumenti di
tutela dei terzi in caso di d.i.a. anteriormente
all’intervento del legislatore di cui al decreto-legge n.
138 del 2011 si veda Cons. Stato, Ad. plen., 29.07.2011, n.
15 (in Foro it., 2011, III, 501, con nota di TRAVI, in
Urbanistica e appalti, 2011, 1185, con nota di LAMBERTI, in
Guida al dir., 2011, fasc. 37, 93 [m], con nota di TOSCHEI,
in Riv. giur. edilizia, 2011, I, 513, con nota di SANDULLI,
in Giurisdiz. amm., 2011, I, 1063, con nota di ANCORA, in
Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2309, in Giur. it., 2012, 934
[m], con nota di BOSCOLO, in Giur. it., 2012, 433 [m], con
nota di MERUSI, in Dir. proc. amm., 2012, 171, con nota di
FERRARA, BERTONAZZI, in Giornale dir. amm., 2012, 153 [m],
con nota di GIARDINO, e in Giust. civ., 2012, I, 1357, con
nota di COLALEO) secondo cui: “la denuncia di inizio
attività (analogamente alla dichiarazione di inizio attività
e alla segnalazione certificata di inizio attività)
costituisce un atto privato; il silenzio mantenuto
dall'amministrazione che avrebbe dovuto inibire l'attività
del privato si configura come un provvedimento tacito, nei
cui confronti il terzo può proporre azione di annullamento
nell'ordinario termine decadenziale e contestualmente azione
di adempimento per imporre l'adozione del provvedimento
inibitorio”; “ove la denuncia di inizio attività (o,
analogamente, la dichiarazione di inizio attività o la
segnalazione certificata di inizio attività) produca effetti
legittimanti prima della scadenza del termine per
l'esercizio del potere inibitorio, il terzo che si ritenga
leso può proporre avanti al giudice amministrativo un'azione
di accertamento, al fine di ottenere misure cautelari; una
volta decorso il termine per l'esercizio del potere
inibitorio, tale azione si converte automaticamente in
domanda di annullamento del provvedimento tacito negativo”;
n) sull’ordinanza del T.a.r. per la Toscana n.
667 del 2017 cfr. A. DAPAS, L. VIOLA, Ancora su scia e
tutela del terzo in Urbanistica e appalti, 2017, 528; G.
GRECO, Scia e tutela del terzo al vaglio della Corte
costituzionale: è troppo auspicare un ritorno al passato (o
quasi)? in Giustamm. n. 6 del 2018; in generale sulla tutela
del terzo si veda G. MANNUCCI, La tutela dei terzi nel
diritto amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2016 (ove
sono reperibili ampi riferimenti dottrinali);
o) sulla valenza di disciplina di principio della
disciplina sulla s.c.i.a. di cui alla legge n. 241 del 1990
cfr.
Corte cost. 09.03.2016, n. 49 (in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 8 con nota di STRAZZA, in Giur. it.,
2016, 2233 [m], con nota di VIPIANA PERPETUA, in Riv. giur.
urbanistica, 2016, fasc. 4, 87, con nota di CERBO, nonché
oggetto della
News US in data 11.03.2016, cui si rinvia per i
riferimenti di dottrina e giurisprudenza richiamati); nella
citata sentenza si afferma che “è costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell'art. 117, 3º comma, cost.,
l'art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005
n. 1, che stabilisce la possibilità per l'amministrazione di
esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli
abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla
presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi
rispetto alla previsione statale; nell'ambito della materia
concorrente del «governo del territorio», i titoli
abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di
una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale
valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di
inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di
inizio attività (Scia), che si inseriscono in una
fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di
legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi;
tale fattispecie ha una struttura complessa e non si
esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la
segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una
prima, di ordinaria attività di controllo
dell'amministrazione; una seconda, in cui può
esercitarsi l'autotutela amministrativa; anche le condizioni
e le modalità di esercizio dell'intervento della p.a., una
volta che siano esauriti i termini prescritti dalla
normativa statale, devono considerarsi il necessario
completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché
l'individuazione della loro consistenza e della loro
efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza
rispetto alle verifiche effettuate dall'amministrazione
successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina
di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del
titolo abilitativo e costituisce un tutt'uno inscindibile;
il suo perno è costituito da un istituto di portata generale
-quello dell'autotutela- che si colloca allo snodo
delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il
suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell'affidamento
del privato, dall'altra; ne deriva che la disciplina de qua
costituisce espressione di un principio fondamentale della
materia «governo del territorio»; la normativa regionale,
nell'attribuire all'amministrazione un potere di intervento,
lungi dall'adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto
una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati
dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del
sistema elaborato nella legge sul procedimento
amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e
l'unitarietà dello stesso”;
p) sulla s.c.i.a. e d.i.a. come aspetti centrali
della semplificazione burocratica da considerarsi un LEA, si
veda Corte cost., 09.05.2014, n. 121 (in Foro it., 2014, I,
2703, in Giur. costit., 2014, 2118 e in Riv. giur. edilizia,
2014, I, 733), secondo cui: “è infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 49, 4º comma-ter, d.l.
31.05.2010 n. 78, conv., con modif., dall'art. 1, 1º comma,
l. 30.07.2010 n. 122, nella parte in cui qualifica la
disciplina sulla «segnalazione certificata di inizio
attività» (SCIA), come attinente alla tutela della
concorrenza, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. e),
cost., ne ribadisce la qualificazione come livello
essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. m), cost.,
e dispone che la disciplina sulla SCIA sostituisca
direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di
conversione del d.l. 31.05.2010 n. 78, quella della
«dichiarazione di inizio attività» (dia), recata da ogni
normativa statale e regionale, in riferimento all'art. 8, 1º
comma, n. 5, e all'art. 9 dello statuto speciale per il
Trentino Alto Adige, nonché all'art. 2 d.leg. 16.03.1992 n.
266”; la disciplina della s.c.i.a. ben si presta ad
essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, comma 2,
lett. m), Cost. e “tale parametro permette una
restrizione dell’autonomia legislativa delle regioni,
giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme
di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla
stessa Costituzione”;
q) sull’ulteriore recente rinvio alla Corte
costituzionale della disciplina dell’art. 19, comma 6-ter,
legge n. 241 del 1990 cfr.
Tar per l’Emilia Romagna–Parma, sez. I, sentenza non
definitiva 22.01.2019, n. 12 (oggetto della già
citata
News US n. 19 del 06.02.2019), secondo cui “è
rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter della
l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113
della Costituzione, nella parte in cui prevede che la
segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili limitando la
tutela degli interessati alla mera sollecitazione dei poteri
di verifica spettanti all'amministrazione e, in caso di
inerzia, ad esperire esclusivamente l'azione di cui all'art.
31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n.
104”;
r) sulle recenti pronunce in materia di
autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies della legge n. 241
del 1990 si vedano:
r1) Cons. Stato, sez. IV,
07.09.2018, n. 5277, in Foro it., 2019, III, 57, con nota di
CORDOVA, secondo cui: “Ai fini dell'annullamento
d'ufficio di un permesso di costruire, non deve essere
trascurato il comportamento del privato, se improntato a
canoni di lealtà e di chiarezza”; “Il termine decennale per
l'esercizio del potere regionale di annullamento del
permesso di costruire illegittimo non può essere invocato
rispetto all'annullamento d'ufficio da parte del comune”;
r2) Cons. Stato, sez. IV,
18.07.2018, n. 4374 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota
di SPUNTARELLI), secondo cui: “in ossequio al principio
generale di ordinaria irretroattività della legge, il
termine di diciotto mesi per l'esercizio del potere di
annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art. 21-nonies l.
241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non si applica
ai provvedimenti di annullamento d'ufficio adottati prima
dell'entrata in vigore di tale legge (28.08.2015)”; “la
falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato
(configurabile anche in presenza del solo silenzio su
circostanze rilevanti) comporta l'inapplicabilità del
termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio
introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l.
07.08.2015 n. 124, e perciò senza neppure richiedere alcun
accertamento processuale penale”; “il termine
«ragionevole» per l'esercizio del potere di annullamento
d'ufficio decorre soltanto dal momento in cui
l'amministrazione sia venuta concretamente a conoscenza dei
profili di illegittimità dell'atto”; “nel caso di
illegittimità del provvedimento determinata dalla non
veritiera prospettazione da parte del privato di circostanze
di fatto o di diritto, la motivazione dell'annullamento
d'ufficio è soddisfatta dal documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte”;
r3) Cons. Stato, sez. V,
27.06.2018, n. 3940 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota
di SPUNTARELLI), secondo cui: “le modifiche inserite
nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l. 07.08.2015 n.
124, e che hanno comportato l'introduzione di un termine per
l'annullamento d'ufficio, vanno interpretate considerando
che un'aspettativa meritevole di tutela rispetto
all'esercizio del potere di annullamento d'ufficio non è
configurabile quando l'amministrazione sia stata indotta in
errore da un comportamento doloso del privato”; “le
modifiche introdotte nell'art. 21-nonies l. 241/1990
dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124 vanno interpretate nel
senso che la falsa rappresentazione dei fatti da parte del
privato comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto
mesi per l'annullamento d'ufficio introdotto, senza la
necessità di alcun accertamento processuale penale”; “la
falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che
comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per
l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità
dei presupposti del provvedimento non sia imputabile
(neppure a titolo di colpa concorrente) all'amministrazione,
ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla
colpa grave) del privato (la sentenza precisa che in tal
caso, non essendo applicabile un termine perentorio,
l'amministrazione dovrà esclusivamente applicare un canone
di ragionevolezza)”;
r4)
Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8 (in Foro
it., 2018, III, 6, in Foro amm., 2017, 1980, in Giornale
dir. amm., 2018, 67 [m], con nota di TRIMARCHI, e in
Urbanistica e appalti, 2018, 45, con nota di MANFREDI,
nonché oggetto della
News US in data 23.10.2017, alla quale si rinvia
per ulteriori approfondimenti), secondo cui: “nella
vigenza dell'art. 21-nonies l. 241/1990, nel testo
introdotto dalla l. 15/2005, l'annullamento d'ufficio di un
titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza
temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve
essere motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto
di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole”; “ai fini
dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in
sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso
del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione
dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine
«ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal
momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei
fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di
ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza
degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera
prospettazione da parte del privato delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo
a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui
una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza
per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo
alla non veritiera prospettazione di parte”; “nella
vigenza dell'art. 21-nonies l. 241 del 1990 -per come
introdotto dalla l. n. 15 del 2005- l'annullamento d'ufficio
di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una
distanza temporale considerevole dal provvedimento
annullato, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale
all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli
interessi dei privati destinatari del provvedimento
sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non
consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e
che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua
adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da
parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze
posti a fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti
circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela
che risultano in concreto violate, che normalmente possano
integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico
che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del
privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a
fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non
consente di configurare in capo a lui una posizione di
affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere
motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi
soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte”;
s) sulla tipicità-legalità del potere
amministrativo, principio che la sentenza in rassegna
ribadisce, si vedano:
s1) Corte cost. 07.04.2011, n.
115 (in Foro it., 2011, I, 1280, Guida al dir., 2011, fasc.
18, 81, con nota di FORLENZA, Giornale dir. amm., 2011, 1093
[m], con nota di CAPANTINI, Giur. costit., 2011, 1581, con
note di IRELLI, MORANA, Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2277
[m], con nota di BROCCA); Corte cost., 06.02.2009, n. 32 (in
Foro it., 2009, I, 2005, Giur. costit., 2009, 244, Regioni,
2009, 701, con nota di BARAGGIA); Corte cost., 07.10.2003,
n. 307 (in Foro it., 2004, I, 1365, con nota di MIGLIORANZA,
Urbanistica e appalti, 2004, 295 [m], con nota di MANFREDI,
Foro amm.- Cons. Stato, 2003, 2791, con nota di DE LEONARDIS,
Riv. giur. ambiente, 2004, 257 [m], con note di CERUTI,
MAZZOLA); Corte cost., 29.07.1982, n. 150 (in Foro it.,
1983, I, 603, Quaderni regionali, 1982, 1477 [m], con nota
di CARLI GARDINO, Giur. it., 1983, I, 1, 1054, con nota di
CALIFANO);
s2) di recente e nell’ambito di una letteratura assai ampia
si vedano: G. PEPE, Principi generali dell’ordinamento
comunitario e attività amministrativa, Roma, 2012, 243 ss.,
sulla evoluzione della tipicità del potere amministrativo
alla stregua del diritto europeo; M. CLARICH, Manuale di
diritto amministrativo, Bologna, 2013, III ed., 105 ss., per
la declinazione della tipicità all’interno del rapporto
giuridico amministrativo; A. PLAISANT, Dal diritto civile al
diritto amministrativo, Cagliari, 2017, 538 ss., sulla
evoluzione storica del concetto di causa del provvedimento
amministrativo in relazione alle ipotesi di inesistenza,
nullità e carenza di potere in astratto; nel senso della
inconciliabilità del principio della legalità tipicità con
il diritto civile -pur nella consapevolezza della necessità
di fondare un nuovo diritto comune che superi la dicotomia
pubblico privato- e della crisi della legalità tipicità del
potere amministrativo ad opera delle nuove tecniche di
produzione normativa (soft law, comply or explain,
c.d. paternalismo libertario, cogestione regolatoria,
better regulation, A.I.R., codici deontologici) cfr.
G.P. CIRILLO, Diritto civile pubblico, Roma, 2018, V ed., 18
ss., 21 ss. (Corte
Costituzionale,
sentenza 13.03.2019 n. 45 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO – SCIA - Art. 19, c. 6-ter, l.
n. 241/1990 – Strumenti di tutela del terzo – Facoltà di
sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione – Termini – Opportunità di un intervento
normativo – Questione di legittimità costituzionale –
Infondatezza.
Non sono fondate le questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della
legge 07.08.1990, n. 241, sollevate, in riferimento agli
artt. 3, 11, 97, 117, primo comma –quest’ultimo in
riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, e all’art. 6, paragrafo 3, del
Trattato sull’Unione europea (TUE)– e secondo comma, lettera
m), della Costituzione.
Il comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990,
chiarito che la segnalazione certificata di inizio attività,
la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili,
attribuisce al terzo interessato la facoltà di sollecitare
l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e,
in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui
all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del Codice del processo
amministrativo.
Nulla dice la disposizione circa il termine entro cui va
fatta la sollecitazione e, quindi, entro cui vanno
esercitati i poteri di verifica. Tuttavia, poiché le
verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del
comma 6-ter sono quelle già puntualmente disciplinate
dall’art. 19, esse vanno esercitate entro i sessanta o
trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e
6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che
rinvia all’art. 21-novies).
Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del
segnalante si consolida definitivamente nei confronti
dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche
del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse
legittimo pretensivo all’esercizio del controllo
amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di
dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si
estingue.
Nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà
attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i
poteri di verifica dell’amministrazione in caso di
dichiarazioni mendaci o false attestazioni, ai sensi
dell’art. 21, c. 1, della l. n. 241 del 1990; potrà
sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di settore,
spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma
2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli
in materia di edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ed espressamente richiamati
anche dall’art. 19, comma 6-bis.
Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede
risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato
esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21, c.
2-ter, della l. n. 241 del 1990 fa espressamente salva la
connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito
tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse
conforme alle norme vigenti).
Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo,
poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma
illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie
regole di tutela civilistica del risarcimento del danno,
eventualmente in forma specifica.
Tutto ciò non esclude l’opportunità di un intervento
normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di
rendere possibile al terzo interessato una più immediata
conoscenza dell’attività segnalata e, dall’altra, di
impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una
sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del
ritardo nell’esercizio del potere da parte
dell’amministrazione e al conseguente effetto estintivo di
tale potere (Corte
Costituzionale,
sentenza 13.03.2019 n. 45 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Limitare le ricadute sui terzi interessati in caso di inerzia della Pa.
Consulta:
correggere le norme sulla Scia.
La Corte costituzionale sollecita un intervento per correggere alcune
distorsioni delle regole in materia di Scia, contenute nella legge 241/1990.
È questa la parte più rilevante della
sentenza
13.03.2019 n. 45 che
affronta la questione dei poteri di verifica della Pa sulle segnalazioni di
inizio attività.
Le norme oggi prevedono che l'attività oggetto di Scia (come la
ristrutturazione di un immobile) possa iniziare dalla data di presentazione
all'amministrazione, salvo il potere del Comune di attivarsi in caso di
mancanza dei requisiti: per l'edilizia, la Pa deve muoversi entro trenta
giorni.
Questi tempi compressi, per i giudici, sono giustificati: «Una dilatazione
temporale dei poteri di verifica -si legge-, per di più con modalità
indeterminate, comporterebbe quel recupero dell'istituto all'area
amministrativa tradizionale», quando invece si tratta di un'attività
liberalizzata.
Il problema, però, è che per la Consulta servirebbe, comunque, un intervento
normativo «ai fini, da una parte, di rendere possibile al terzo interessato
una più immediata conoscenza dell'attività segnalata e, dall'altra, di
impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una sua
sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo nell'esercizio
del potere da parte dell'amministrazione». Bisogna, cioè, limitare gli
effetti negativi in caso di inerzia della Pa
(articolo Il Sole 24 Ore del 14.03.2019).
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La Corte Costituzionale chiarisce che le verifiche cui è
chiamata l’amministrazione, ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 della
legge n. 241 del 1990, sono quelle già puntualmente disciplinate dall’art.
19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione
della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma
4, che rinvia all’art. 21-novies); decorsi questi termini, la situazione
soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti
dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo;
questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo
all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la
possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si
estingue.
Aggiunge poi la Corte che, nella prospettiva dell’interesse legittimo, il
terzo potrà attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i
poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o
false attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del
1990 (in questo caso «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei
suoi effetti a legge»); potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi
di settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma
2-bis, della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di
edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n. 380,
ed espressamente richiamati anche dall’art. 19, comma 6-bis; esso avrà
inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA
in caso di mancato esercizio del doveroso potere di verifica (l’art. 21,
comma 2-ter, della legge n. 241 del 1990 fa espressamente salva la connessa
responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente, ove la
segnalazione certificata non fosse conforme alle norme vigenti).
Sempre secondo la Corte, al di là delle modalità di tutela dell’interesse
legittimo, poi, rimane il fatto giuridico di un’attività che si assuma
illecita, nei confronti della quale valgono le ordinarie regole di tutela
civilistica del risarcimento del danno, eventualmente in forma specifica.
Così ricostruita la norma la Corte, pur non escludendo l’opportunità di un
intervento normativo sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di
rendere possibile al terzo interessato una più immediata conoscenza
dell’attività segnalata e, dall’altra, di impedire il decorso dei relativi
termini in presenza di una sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al
rischio del ritardo nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione
e al conseguente effetto estintivo di tale potere, dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della
legge n. 241 del 1990 sollevata dal TAR Toscana nella parte in cui non
prevede un termine finale per la sollecitazione, da parte del terzo, dei
poteri di verifica sulla segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA)
spettanti alla pubblica amministrazione
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.com).
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Norme impugnate: Art. 19, c. 6-ter, della legge 07/08/1990, n.
241, come introdotto dall'art. 6, c. 1, del decreto-legge 13/08/2011, n.
138, convertito, con modificazioni, nella legge 14/09/2011, n. 148.
Oggetto: Edilizia e urbanistica - Segnalazione certificata di inizio
attività [SCIA] - Previsione che la segnalazione certificata di inizio
attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili - Possibilità
per gli interessati di sollecitare l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l'azione
di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo 02.07.2010, n.
104 - Mancata previsione di un termine per la sollecitazione da parte del
terzo delle verifiche sulla SCIA presentata da altri soggetti.
Dispositivo: non fondatezza
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SENTENZA
1.− Il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sezione terza,
ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma
6-ter, della legge 07.08.1990, n. 241 (Nuove norme in materia di
procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti
amministrativi), nella parte in cui non prevede un termine finale per la
sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica sulla
segnalazione certificata d’inizio attività (SCIA) spettanti alla pubblica
amministrazione.
2.− Secondo il rimettente la disposizione censurata vìola, in primo luogo,
gli artt. 3, 11 e 117, primo comma –quest’ultimo in relazione all’art. 1
del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 04.11.1950, ratificata e resa esecutiva con legge
04.08.1955, n. 848, e
all’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a
Maastricht il 07.02.1992, entrato in vigore il 01.11.1993− e
secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché non tutela
l’affidamento del segnalante, che sarebbe esposto sine die al rischio di
inibizione dell’attività oggetto di SCIA.
L’art. 19, comma 6-ter, poi, violerebbe, sotto altro profilo, l’art. 3 Cost.,
perché, con specifico riferimento all’attività edilizia, darebbe luogo ad
una irragionevole disparità di trattamento tra il segnalante e coloro che
realizzino interventi assoggettati a permesso di costruire, esposti alla
reazione del terzo per il solo termine di sessanta giorni previsto, a pena
di decadenza, per l’impugnazione del titolo edilizio espresso.
La disposizione censurata, ancora, violerebbe i principi di ragionevolezza e
buon andamento della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost.,
poiché l’amministrazione sarebbe costretta a verificare i presupposti
dell’attività segnalata anche qualora sia trascorso un notevole lasso di
tempo dal deposito della SCIA e nonostante abbia già esercitato il controllo
d’ufficio, così aggravandosi l’attività amministrativa; perché la
possibilità incondizionata di rivalutare, anche a notevole distanza di
tempo, l’assetto di interessi già definito aumenterebbe il rischio di
decisioni amministrative contraddittorie; e perché l’incertezza normativa
sull’esistenza di un termine e sul dies a quo della sua decorrenza −e
quindi sull’obbligo dell’amministrazione di attivarsi a fronte dell’istanza
del terzo− inciderebbe sull’efficienza dell’attività amministrativa.
Il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., infine, sarebbe
violato anche «in relazione» all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.,
perché la mancata previsione del termine si tradurrebbe in una violazione
degli standard minimi, che il legislatore statale deve assicurare nella
normazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale; perché darebbe luogo a una disciplina contraddittoria che, da un
lato, incentiva la semplificazione e la liberalizzazione delle attività
amministrative e, dall’altro, espone chi si avvale della SCIA al rischio
permanente di vedere travolta, su iniziativa del terzo, l’attività
segnalata; e perché tradirebbe «l’esigenza di uniformità normativa che
caratterizza l’istituto», aprendo «la strada a discipline territoriali
eterogenee […] con conseguente disomogeneità degli standards di tutela».
3.− La parte privata P. M., ricorrente nel giudizio a quo, ha sollevato una
prima eccezione di inammissibilità delle questioni per la natura ancipite
del petitum, che oscillerebbe tra la richiesta dell’addizione di un termine
e la caducazione della disposizione censurata.
3.1.− L’eccezione non è fondata.
È vero che nell’ordinanza di rimessione si afferma che una eventuale
pronuncia di accoglimento di questa Corte avrebbe sicuri effetti sul
giudizio a quo, sia nell’ipotesi di sentenza additiva che fornisca il
parametro temporale sulla cui base verificare la tardività della
sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri inibitori della pubblica
amministrazione, sia nell’ipotesi di declaratoria «pura» di illegittimità
costituzionale del censurato art. 19, comma 6-ter (ipotesi, questa, che,
nelle more dell’intervento del legislatore, secondo il TAR Toscana,
renderebbe necessario applicare il diritto vivente formatosi anteriormente
all’introduzione della norma censurata con la sentenza dell’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 29.07.2011, n. 15).
In tutti gli altri passaggi della motivazione, tuttavia, il rimettente
dubita della legittimità costituzionale della norma censurata,
esclusivamente nella parte in cui non prevede un termine finale per la
sollecitazione, da parte del terzo, dei poteri di verifica della PA:
l’intera ordinanza è cioè costruita in senso additivo.
4.− La seconda eccezione d’inammissibilità sollevata dalla parte
privata riguarda anch’essa la natura del petitum, che si risolverebbe nella
richiesta di un intervento additivo priva dell’indicazione dell’unica
soluzione costituzionalmente obbligata, in violazione dell’art. 28 della
legge 11.03.1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento
della Corte costituzionale), che impedisce a questa Corte il sindacato
sull’uso del potere discrezionale del Parlamento.
4.1.− Anche questa eccezione non è fondata.
La fissazione di un termine entro cui il terzo controinteressato può
attivare i poteri di verifica dell’amministrazione implica, in effetti, una
scelta tra diverse soluzioni, come è reso evidente dalla molteplicità delle
tesi sostenute in dottrina e in giurisprudenza e illustrate dal rimettente,
soluzioni tutte rientranti nella discrezionalità del legislatore nella
configurazione degli istituti processuali e nella fissazione di termini di
decadenza o prescrizione o di altre disposizioni condizionanti l’azione (ex plurimis, sentenze n. 6 del 2018, n. 94 del 2017 e n. 155 del 2014).
Il giudice a quo, tuttavia, consapevole della difficoltà di individuare una
soluzione a rime obbligate, a fronte della ritenuta omissione legislativa,
correttamente ha invocato una pronuncia additiva di principio, che –come è
noto– è utilizzata da questa Corte proprio al fine di non invadere la sfera
riservata al legislatore e, nelle more del suo intervento, di fornire al
giudice comune uno strumento duttile per rinvenire una soluzione del caso
concreto conforme a Costituzione.
5.− Con la terza eccezione la parte privata lamenta l’inammissibilità
delle questioni per difetto di rilevanza, poiché il TAR Toscana si sarebbe
limitato a sostenere di dovere fare applicazione della norma censurata,
senza che «i parametri costituzionali invocati risultino […] in concreto
violati»: il rimettente, cioè, avrebbe sollevato una questione del tutto
«ipotetica ed eventuale», fermandosi ad un esame di principio o «estetico»
del quadro normativo di riferimento.
In particolare, quanto alla violazione del principio dell’affidamento, il
Tribunale non avrebbe considerato che i lavori intrapresi dal segnalante
erano stati immediatamente sospesi e tali erano rimasti; e, quanto alla
violazione degli artt. 3 e 97 Cost., il Comune resistente nel giudizio a quo
non avrebbe lamentato alcun aggravio della sua attività amministrativa,
limitandosi ad affermare l’assenza dell’obbligo di rispondere all’istanza
della ricorrente.
5.1.− Anche questa eccezione è infondata.
Il TAR Toscana, con motivazione non solo plausibile ma anche corretta, ha
osservato che, per decidere sull’eccezione di tardività sollevata
dall’amministrazione e dal controinteressato, deve fare applicazione della
norma censurata, che, secondo la ricostruzione fatta propria dal rimettente,
consentirebbe al terzo di sollecitare in ogni tempo le verifiche spettanti
alla PA sull’attività oggetto di SCIA (nel caso di specie, la prima
sollecitazione è stata presentata dopo due anni ed undici mesi circa dal
deposito della segnalazione e l’ultima dopo tre anni e nove mesi circa).
Tanto basta a fondare la rilevanza della questione (tra le più recenti,
sentenze n. 236 e n. 225 del 2018; ordinanze n. 184 e n. 171 del 2017),
contrariamente a quanto affermato dalla parte privata.
6.− Nel merito, oggetto delle questioni di legittimità costituzionale è il
comma 6-ter dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990, il quale comma,
chiarito che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e
la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili, attribuisce al terzo interessato la facoltà di
«sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in
caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi
1, 2 e 3», dell’Allegato 1 (Codice del processo amministrativo) al decreto
legislativo 02.07.2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge
18.06.2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del
processo amministrativo).
Nulla dice la disposizione circa il termine entro cui va fatta la
sollecitazione e, quindi, entro cui vanno esercitati i poteri di verifica.
Tale carenza, secondo il giudice a quo, non sarebbe colmabile in via
interpretativa, come si desumerebbe dall’erroneità di tutte le tesi avanzate
in proposito, e ciò esporrebbe la norma a dubbi di legittimità
costituzionale.
7.− Certamente
non sbaglia il TAR Toscana a ritenere che la previsione di un
termine costituisca, nel contesto normativo in questione, un requisito
essenziale dei poteri di verifica sulla SCIA a tutela dell’affidamento del
segnalante (sentenza n. 49 del 2016).
Non può invece condividersi la tesi del rimettente, secondo cui tali poteri
sarebbero “altri” rispetto a quelli previsti dai commi precedenti e sempre
vincolati, cosicché non sarebbe possibile mutuarne la disciplina.
7.1.− Come è noto,
l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 prevede che
all’immediata intrapresa dell’attività oggetto di segnalazione si
accompagnino successivi poteri di controllo dell’amministrazione, più volte rimodulati, da ultimo dall’art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124
(Deleghe
al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche).
In particolare,
il comma 3 dell’art. 19 attribuisce alla PA un triplice
ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro
il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA,
dando la preferenza a quelli conformativi, «[q]ualora sia possibile»; mentre
il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono
ancora esercitabili «in presenza delle condizioni» previste dall’art.
21-novies della stessa legge n. 241 del 1990.
Quest’ultimo, a sua volta, disciplina l’annullamento in autotutela degli
atti illegittimi, stabilendo che debba sussistere un interesse pubblico
ulteriore rispetto al ripristino della legalità, che si operi un
bilanciamento fra gli interessi coinvolti e che, per i provvedimenti
ampliativi della sfera giuridica dei privati, il potere debba essere
esercitato entro il termine massimo di diciotto mesi.
Il comma 6-bis dell’art. 19 applica questa disciplina anche alla SCIA
edilizia, riducendo il termine di cui al comma 3 da sessanta a trenta giorni
e prevedendo, inoltre, che, «restano […] ferme le disposizioni relative alla
vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle
sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380, e dalle leggi regionali».
8.− Ebbene, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, è a questi
poteri che deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter.
8.1.− A tale conclusione si perviene anzitutto sulla base del dato testuale:
la locuzione «verifiche spettanti all’amministrazione» lascia chiaramente
intendere che la norma rinvia a poteri già previsti.
8.2.− Questa piana lettura testuale trova conferma, da una parte, nella
genesi della disposizione censurata e, dall’altra, nella evoluzione del
quadro normativo di riferimento.
Quanto al primo profilo, il comma 6-ter è stato introdotto dall’art. 6,
comma 1, del decreto-legge 13.08.2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con
modificazioni, nella legge 14.09.2011, n. 148, in aperta dialettica
con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi
impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le
possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in
modo tradizionale come inadempimento. Il riferimento alle «verifiche
spettanti all’amministrazione», dunque, non è finalizzato ad introdurre
nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo.
Quanto al secondo profilo, la diversa opzione ermeneutica seguita dal
giudice a quo darebbe luogo ad una evidente incongruenza del sistema, per
come si è evoluto a seguito della introduzione −ad opera della legge n. 124
del 2015− del termine di esercizio dell’autotutela nell’art. 21-novies
della legge n. 241 del 1990, termine reso applicabile anche ai poteri di
controllo sulla SCIA dall’art. 19, comma 4, della stessa legge: si avrebbe
qui, infatti, un potere sempre vincolato, e quindi più incisivo, e
pur tuttavia temporalmente illimitato.
Più in generale, il riconoscimento di un potere “in bianco” nel comma 6-ter
sarebbe in manifesto contrasto con il principio di legalità-tipicità che
caratterizza, qualifica e limita tutti i poteri amministrativi, principio
che, com’è noto, ha fondamento costituzionale (artt. 23, 97, 103 e 113 Cost.)
e va letto non solo in senso formale, come necessità di una previsione
espressa del potere, ma anche in senso sostanziale, come determinazione del
suo ambito, e cioè dei fini, del contenuto e delle modalità del suo
esercizio (sentenze n. 115 del 2011, n. 32 del 2009, n. 307 del 2003 e n.
150 del 1982).
8.3.− Non meno evidente, infine, è l’incompatibilità della lettura proposta
con l’istituto della SCIA, per come conformato dalla sua storia normativa e
giurisprudenziale.
Il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la scelta del legislatore
nel senso della liberalizzazione dell’attività oggetto di segnalazione,
cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una –sia pur
importante– parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi.
Una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità
indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero dell’istituto all’area
amministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente
escludere.
9.−
Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter
sono dunque quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da
esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA
(commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che
rinvia all’art. 21-novies).
Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida
definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e
quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse
legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi,
venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche
l’interesse si estingue.
10.− Questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata, non può essere
messa in discussione dal timore del rimettente che ne derivi un vulnus alla
situazione giuridica soggettiva del terzo.
10.1.− Il problema indubbiamente esiste, ma trascende la norma impugnata.
Esso va affrontato in una prospettiva più ampia e sistemica che tenga conto
dell’insieme degli strumenti apprestati a tutela della situazione giuridica
del terzo.
In particolare,
nella prospettiva dell’interesse legittimo, il terzo potrà
attivare, oltre agli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di
verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false
attestazioni, ai sensi dell’art. 21, comma 1, della legge n. 241 del 1990
(in questo caso «non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi
effetti a legge»); potrà sollecitare i poteri di vigilanza e repressivi di
settore, spettanti all’amministrazione, ai sensi dell’art. 21, comma 2-bis,
della legge n. 241 del 1990, come, ad esempio, quelli in materia di
edilizia, regolati dagli artt. 27 e seguenti del d.P.R. 06.06.2001, n.
380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia di edilizia. (Testo A)», ed espressamente richiamati anche dall’art.
19, comma 6-bis.
Esso avrà inoltre la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della PA in caso di mancato esercizio del
doveroso potere di verifica (l’art. 21, comma 2-ter, della legge n. 241 del
1990 fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che
non abbia agito tempestivamente, ove la segnalazione certificata non fosse
conforme alle norme vigenti).
Al di là delle modalità di tutela dell’interesse legittimo, poi, rimane il
fatto giuridico di un’attività che si assuma illecita, nei confronti della
quale valgono le ordinarie regole di tutela civilistica del risarcimento del
danno, eventualmente in forma specifica.
Tutto ciò, peraltro, non esclude l’opportunità di un intervento normativo
sull’art. 19, quantomeno ai fini, da una parte, di rendere possibile al
terzo interessato una più immediata conoscenza dell’attività segnalata e,
dall’altra, di impedire il decorso dei relativi termini in presenza di una
sua sollecitazione, in modo da sottrarlo al rischio del ritardo
nell’esercizio del potere da parte dell’amministrazione e al conseguente
effetto estintivo di tale potere.
11.− Così ricostruita la portata della norma censurata, le questioni di
legittimità costituzionale sollevate dal TAR Toscana non sono fondate. |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria -
Casi di speciale protezione e iter - Legge sul condono
edilizio - Inapplicabilità - Art. 146, d.lgs n. 42/2004 -
D.P.R. n. 380/2001.
In materia di tutela dei beni
paesistici, l'art. 146 d.lgs. 42 del 2004 regola il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica preventiva rispetto ad
interventi sui beni oggetto della speciale protezione e
l'iter ivi delineato può estendersi al rilascio delle
autorizzazioni in sanatoria previste dallo stesso d.lgs.
42/2004, e in via analogica e soltanto in quanto
applicabile, agli altri casi di sanatoria previsti da
diverse disposizioni di legge.
Essa, però, certamente non vale in toto laddove esista una
disciplina speciale di maggior rigore quale quella prevista
dalla legge sul condono edilizio.
...
Legge sul condono edilizio e sanatoria su beni paesaggistici
- Procedimento per il rilascio del provvedimento in
sanatoria - Soprintendenze e spatium deliberandi - Decorso
del termine - Silenzio-rifiuto impugnabile in sede di
giustizia amministrativa - Differente contesto dei beni che
vengono in rilievo - Iter procedimentale più gravoso - Art.
10-bis L. 07.08.1990, n. 241.
In materia urbanistica, nell'ambito del
procedimento per il rilascio del provvedimento in sanatoria
previsto dalla legge sul condono edilizio, il legislatore,
da un lato, ha ritenuto di concedere alla
soprintendenza uno spatium deliberandi più ampio (180
giorni, anziché 45), d'altro lato ha previsto che il
decorso del termine valga quale silenzio-rifiuto impugnabile
in sede di giustizia amministrativa, specificando senza
possibilità di deroghe che il parere sfavorevole espresso
dalla stessa soprintendenza preclude il rilascio del titolo
in sanatoria.
Tale disciplina, ben diversa da quella delineata nell'art.
146 d.lgs. 42 del 2004, trova peraltro giustificazione alla
luce del differente contesto e dei beni che vengono in
rilievo: se può essere ragionevole consentire di superare
l'inerzia della soprintendenza laddove la stessa, non
pronunciandosi nel termine, rischi di bloccare l'iniziativa
del privato che abbia scrupolosamente seguito il preventivo
iter previsto, sottoponendolo ad un ingiusto aggravio
procedimentale, ben si giustifica un più rigoroso regime
laddove si tratti di sanare un illecito commesso, onerando
in tal caso il trasgressore che voglia avvantaggiarsi degli
effettivi della sanatoria di un più gravoso iter
procedimentale che consenta in ogni caso di pervenire ad un
effettivo vaglio di compatibilità paesaggistica dell'opera
abusiva da parte dell'autorità preposta alla gestione del
vincolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.03.2019 n. 10799 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI FORNITURE:
Rispetto per l’ambiente per partecipare agli appalti di
fornitura di arredi sanitaria.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto
fornitura – Arredi sanitari – Rispetto ambiente – Punteggio
aggiuntivo – Possibilità.
La distinzione fra requisiti
soggettivi di partecipazione agli appalti di fornitura e
caratteristiche oggettive dei prodotti offerti non osta,
secondo le previsioni dell’art. 2 Cost, alla previsione di
punteggi aggiuntivi per il rispetto dell’ambiente, così come
dei lavoratori e delle popolazioni, da parte dei
partecipanti.
Pertanto, qualora la lex specialis di un appalto per la
fornitura di arredi sanitari indichi tra i criteri
valutativi il rispetto da parte delle ditte partecipanti dei
criteri ambientali minimi - CAM tale parametro non è
rispettato se a possedere la richiesta certificazione (ISO
14001) è la società produttrice degli arredi ma non la
società controllata partecipante alla gara, in quanto tale
requisito attiene non al prodotto offerto ed alle sue
caratteristiche bensì all’organizzazione aziendale del
partecipante alla gara (1).
---------------
(1) La Sezione ha affermato la legittimità di criteri di
valutazione che possano premiare le caratteristiche
organizzative dell’impresa sotto il profilo ambientale, così
come sotto i profili della tutela dei lavoratori e delle
popolazioni interessate e della non discriminazione, al fine
di valorizzare la compatibilità e sostenibilità ambientale
della filiera produttiva e distributiva dei prodotti che
costituiscono, comunque, l’oggetto dell’appalto.
Le predette considerazioni valgono a maggior ragione qualora i
predetti criteri non siano preponderanti nella
determinazione complessiva del punteggio tecnico. Inoltre,
l’art. 95, comma 13, d.lgs. n. 50 del 2016 già consentiva
alle amministrazioni di indicare criteri premiali per la
valutazione dell’offerta che potevano essere relativi, oltre
che al maggior “rating” di legalità dell’impresa,
anche al “minor impatto sulla salute e sull’ambiente”;
parimenti il comma 6 del medesimo articolo, allorché elenca
gli elementi che possono costituire criteri valutativi, non
esclude il richiamo a caratteristiche proprie e soggettive
dell’impresa.
Tale possibilità è stata altresì già confermata, seppure con
riferimento agli appalti di servizi, dalla giurisprudenza
del Consiglio di Stato (sez.
III, n. 4283 del 2018) secondo la quale il
principio della netta separazione tra criteri soggettivi di
prequalificazione e criteri di aggiudicazione della gara
deve essere interpretato cum grano salis (Cons.
St., sez. IV, 25.11.2008, n. 5808), consentendo
alle stazioni appaltanti, nei casi in cui determinate
caratteristiche soggettive del concorrente, in quanto
direttamente riguardanti l’oggetto del contratto, possano
essere valutate anche per la selezione della offerta, di
prevedere nel bando di gara anche elementi di valutazione
della offerta tecnica di tipo soggettivo, concernenti la
specifica attitudine del concorrente.
Anche l’Autorità Anticorruzione -ANAC, nelle proprie linee
guida sull’offerta economicamente più vantaggiosa approvate
con deliberazione n. 2/2016 evidenzia che la separazione fra
requisiti di partecipazione e criteri di valutazione è ormai
divenuta più labile rispetto all’impostazione tradizionale,
ed in base alla delibera ANAC n. 1091/2017, resa nell’ambito
di un parere precontenzioso, è possibile valorizzare la
certificazione ISO 14001 (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 11.03.2019 n. 1635 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Riconoscimento errore scusabile per tardiva impugnazione
dell’aggiudicazione definitiva se la stazione appaltante la
qualifica erroneamente come provvisoria anziché definitiva.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Aggiudicazione –
Impugnazione tardiva – Erronea denominazione del relativo
provvedimento come aggiudicazione "provvisoria" anziché
"definitiva" – Errore scusabile – Va riconosciuto.
Va rimesso in termine per errore
scusabile il ricorrente che ha tardivamente impugnato
l’aggiudicazione di una gara nel caso in cui la stazione
appaltante, sotto la vigenza del nuovo codice appalti, abbia
erroneamente denominato il relativo provvedimento come
aggiudicazione "provvisoria" anziché "definitiva" (1).
---------------
(1) Ad avviso della la Sezione si deve tenere conto del
comportamento oggettivamente ambiguo dell’amministrazione
che ha erroneamente qualificato il provvedimento di
aggiudicazione come “provvisorio”, in contrasto sia
con il vigente quadro normativo che con il bando di gara,
inducendo in errore il concorrente circa la natura
interinale dell’aggiudicazione medesima, anziché definitiva
con conseguente onere di immediata impugnazione.
Altro profilo da valorizzare, sempre ad avviso del Tar,
attiene alla comunicazione di cui all’art. 76, comma 5,
lett. a), d.lgs. n. 50 del 2016 da cui, come si è visto,
decorre il termine per proporre ricorso ai sensi dell’art.
120, comma 5, c.p.a..
In base alla richiamata disposizione del Codice degli
appalti pubblici, la predetta comunicazione -che deve essere
inviata d’ufficio immediatamente, e comunque non oltre 5
giorni ad opera della stazione appaltante- si riferisce
all’“aggiudicazione” (non ulteriormente qualificata),
da intendersi come atto conseguente all’approvazione
dell’organo competente e non alla “proposta di
aggiudicazione” (di cui all’art. 33) o alla “aggiudicazione
provvisoria” secondo la terminologia del codice
previgente.
In altri termini, la decadenza della ricorrente
dall’impugnativa per superamento del termine di rito
potrebbe essere dichiarata soltanto di fronte ad una
comunicazione (che nel caso in esame non è dato individuare)
della stazione appaltante resa ai sensi dell’art. 76, d.lgs.
n. 50 del 2016 che, in termini chiari e univoci, risulti
idonea a portare a conoscenza della ricorrente
l’aggiudicazione definitiva dell’appalto (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 11.03.2019 n. 1382 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Sul piano civilistico, con la convenzione di
lottizzazione i proprietari dei terreni interessati alla
urbanizzazione pongono in essere un negozio di consorzio
urbanistico volontario -con assunzione delle obbligazioni a
fini organizzativi e con costituzione degli effetti reali
necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico
conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il
quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina
della comunione dettata dal codice civile, in proporzione
alle relative quote ex art. 1101, comma 2.
In particolare, si tratta di “negozio (interno) di
costituzione di un consorzio urbanistico volontario”.
Il carattere meramente interno della ripartizione delle
quote comporta che la ripartizione delle stesse non
condiziona la validità degli atti autorizzatori comunali e
che la sua violazione produce effetti solo tra le parti del
consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di tale
ripartizione violi l’interesse pubblico al corretto sviluppo
urbanistico della città che il Comune persegue con il
rilascio dei titoli edilizi.
---------------
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza
02.08.2011 n. 4576) ha chiarito che “Sul piano
civilistico, con la convenzione di lottizzazione i
proprietari dei terreni interessati alla urbanizzazione
pongono in essere un negozio di consorzio urbanistico
volontario -con assunzione delle obbligazioni a fini
organizzativi e con costituzione degli effetti reali
necessari per conferire al territorio l'assetto giuridico
conforme al progetto approvato dalla amministrazione- il
quale consorzio, come tale, è assoggettato alla disciplina
della comunione dettata dal codice civile, in proporzione
alle relative quote ex art. 1101, comma 2”.
In particolare, si tratta di “negozio (interno) di
costituzione di un consorzio urbanistico volontario”
(così Cass. civ. Sez. I, 26/04/2010, n. 9941).
Il carattere meramente interno della ripartizione delle
quote comporta che la ripartizione delle stesse non
condiziona la validità degli atti autorizzatori comunali e
che la sua violazione produce effetti solo tra le parti del
consorzio urbanistico.
Infatti è da escludere che la violazione di tale
ripartizione violi l’interesse pubblico al corretto sviluppo
urbanistico della città che il Comune persegue con il
rilascio dei titoli edilizi (TAR Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 11.03.2019 n. 519 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La funzione e le modalità di rilascio del
certificato di abitabilità sono regolate dall’art. 24 del
D.P.R. 380/2001 secondo cui detto certificato accerta “La sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate
secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la
conformità dell'opera al progetto presentato…”.
Secondo la norma citata ed il successivo art. 25 la
certificazione avviene attraverso la segnalazione
certificata di inizio di attività asseverata e documentata
dai competenti professionisti.
Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono
perciò collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili,
dato che il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti, mentre il
rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto
della specifica funzione del titolo edilizio, essendo stato
sottolineato che i diversi piani possano convivere sia nella
forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe
le tipologie normative sia in quella patologica di una loro
divergenza.
E’ dunque paradossalmente possibile che un edificio sia
eseguito in difformità dal titolo edilizio rilasciato ma
rispetti le norme di igiene, sicurezza e contenimento del
consumo energetico indicate dall’art. 24 seguendone che, in
tale ipotesi, l'edificio è agibile (e quindi può essere
rilasciato il certificato di agibilità), ma difforme dal
progetto approvato e quindi sanzionabile dal punto di vista
urbanistico-edilizio.
---------------
1. Viene impugnata la nota in epigrafe con cui il Comune di Pisa ha
dichiarato l’inefficacia della SCIA n. 108 del 15.01.2013
presentata dalla parte ricorrente per la ristrutturazione e
cambio d'uso da magazzino a civile abitazione di una
porzione di immobile sito in località Tirrenia, via ... n. 77.
Il ricorso non è suscettibile di accoglimento.
2. Assume la ricorrente, richiamando giurisprudenza anche di
questo TAR, che le unità immobiliari in questione
possiedono una destinazione abitativa sin dal 1957 e tale
destinazione risulterebbe legittimata dal certificato di
abitabilità rilasciato lo stesso anno. Ebbene tale licenza,
ove si esprima anche in merito alla conformità del titolo
edilizio rilasciato, avrebbe piena validità in ordine alla
legittimazione edilizia e urbanistica della destinazione con
essa certificata.
La tesi, per quanto sorretta da una parte minoritaria della
giurisprudenza, non appare condivisibile.
Come rilevato dalla difesa del Comune, la funzione e le
modalità di rilascio del certificato di abitabilità sono
regolate dall’art. 24 del D.P.R. 380/2001 secondo cui detto
certificato accerta “La sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli
edifici e degli impianti negli stessi installati, valutate
secondo quanto dispone la normativa vigente, nonché la
conformità dell'opera al progetto presentato…”.
Secondo la norma citata ed il successivo art. 25 la
certificazione avviene attraverso la segnalazione
certificata di inizio di attività asseverata e documentata
dai competenti professionisti.
Il permesso di costruire ed il certificato di agibilità sono
perciò collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili,
dato che il certificato di agibilità ha la funzione di
accertare che l'immobile al quale si riferisce è stato
realizzato nel rispetto delle norme tecniche vigenti in
materia di sicurezza, salubrità, igiene, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti, mentre il
rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è oggetto
della specifica funzione del titolo edilizio, essendo stato
sottolineato che i diversi piani possano convivere sia nella
forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe
le tipologie normative sia in quella patologica di una loro
divergenza (Cons. Stato, sez. V, 29.05.2018, n. 3212 id.,
sez. IV, 24.10.2012 n. 5450; id, sez. V, 30.04.2009
n. 2760).
E’ dunque paradossalmente possibile che un edificio sia
eseguito in difformità dal titolo edilizio rilasciato ma
rispetti le norme di igiene, sicurezza e contenimento del
consumo energetico indicate dall’art. 24 seguendone che, in
tale ipotesi, l'edificio è agibile (e quindi può essere
rilasciato il certificato di agibilità), ma difforme dal
progetto approvato e quindi sanzionabile dal punto di vista
urbanistico-edilizio (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I dati catastali per le
qualificazioni e valutazioni di ordine urbanistico-edilizio non possono ritenersi fonte di prova
certa sulla situazione di fatto esistente sul piano
immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento
di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini,
senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero
valore indiziario, per evidenziare la reale consistenza
degli immobili interessati e la relativa conformità alla
disciplina urbanistico-edilizia.
---------------
2.1. Né, ai fini di cui trattasi può attribuirsi rilievo al
classamento catastale o all’affidamento ingeneratosi per
effetto del decorso del tempo
Quanto al primo profilo vale rilevare che i dati catastali
per le qualificazioni e valutazioni di ordine urbanistico-edilizio non possono ritenersi fonte di prova
certa sulla situazione di fatto esistente sul piano
immobiliare, rappresentando l'accatastamento un adempimento
di tipo fiscale-tributario, che fa stato ad altri fini,
senza assurgere a strumento idoneo, al di là di un mero
valore indiziario, per evidenziare la reale consistenza
degli immobili interessati e la relativa conformità alla
disciplina urbanistico-edilizia (in tal senso, fra le tante,
Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2015, n. 631; 04.02.2013, n. 666; Sez. V, 29.03.2004, n. 1631, TAR Puglia,
Lecce, sez. III, 13/08/2015, n. 2615) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di abusi
edilizi non sussiste in capo all’amministrazione l’onere di
motivare in maniera specifica la sanzione ripristinatoria
mentre deve escludersi che trovi tutela l’affidamento del
privato sulla legittimità dell'opera realizzata, fondata sul
mero decorso del tempo accompagnato dall'inerzia
dell'amministrazione sino a quel momento.
---------------
2.1. Né, ai fini di cui trattasi può attribuirsi rilievo al
classamento catastale o all’affidamento ingeneratosi per
effetto del decorso del tempo
...
In ordine al secondo aspetto è noto che la giurisprudenza è
ormai consolidata nel ritenere che in materia di abusi
edilizi non sussiste in capo all’amministrazione l’onere di
motivare in maniera specifica la sanzione ripristinatoria
mentre deve escludersi che trovi tutela l’affidamento del
privato sulla legittimità dell'opera realizzata, fondata sul
mero decorso del tempo accompagnato dall'inerzia
dell'amministrazione sino a quel momento (ex multis, Cons.
Stato, sez. VI, 26/03/2018, n. 1893, id. sez. VI,
03/10/2017, n. 4580; TAR Emilia Romagna, Parma
10/05/2017, n. 154) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.03.2019 n. 348 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il fondamento del contributo di urbanizzazione
non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione su quanti ne beneficiano, con la conseguenza
che, nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui
si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il
presupposto per il pagamento della differenza tra gli oneri
dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione.
Non ha dunque rilievo la circostanza che tale mutamento
abbia natura temporanea, purché non si versi nell’ipotesi di
un utilizzo meramente occasionale.
---------------
Come è pacifico il carico urbanistico viene misurato in
astratto con riferimento al rispetto degli standard in
funzione delle diverse categorie urbanistiche, la cui
variazione, sia essa causata dal mutamento di destinazione
d’uso o dall'aumento di unità immobiliari o della volumetria
impegnata, va ad incidere sull’equilibrio della
programmazione urbanistica.
Infatti, ai sensi dell'art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n.
380/2001, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire
sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello
tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico, senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto.
---------------
3.2. Lamenta, altresì, la ricorrente che, contrariamente all’assunto
di controparte, il cambio di destinazione d'uso potrebbe
assumere rilevanza urbanistica solo se detto mutamento sia
definitivo e consolidato, non essendo sufficiente a
configurare la fattispecie un cambiamento momentaneo e
transitorio.
In realtà, come rilevato dal Comune, l'immobile in questione
risulta essere stato stabilmente destinato a fini
commerciali già in epoca precedente all'accertamento e tale
destinazione persiste tuttora.
In ogni caso il fondamento del contributo di urbanizzazione
non consiste nel titolo edilizio in sé, ma nella necessità
di ridistribuire i costi sociali delle opere di
urbanizzazione su quanti ne beneficiano, con la conseguenza
che, nel caso di modificazione della destinazione d'uso cui
si correli un maggiore carico urbanistico, è integrato il
presupposto per il pagamento della differenza tra gli oneri
dovuti per la destinazione originaria e quelli, se più
elevati, dovuti per la nuova destinazione (TAR Toscana,
sez. III, 27/02/2018, n. 309, Cons. Stato, sez. V, 30.08.2013, n. 4326).
Non ha dunque rilievo la circostanza che tale mutamento
abbia natura temporanea (presupposto, peraltro, indimostrato),
purché non si versi nell’ipotesi di un utilizzo meramente
occasionale che nella fattispecie non appare ricorrere
(TAR Lazio, sez. I, 01/12/2005, n. 12734).
4. Con il terzo motivo la ricorrente contesta che con il
mutamento di destinazione si sarebbe verificato un aumento
di carico urbanistico, presupposto ineliminabile perché
sorga l'obbligo contributivo in parola.
La censura non ha pregio.
Come è pacifico il carico urbanistico viene misurato in
astratto con riferimento al rispetto degli standard in
funzione delle diverse categorie urbanistiche, la cui
variazione, sia essa causata dal mutamento di destinazione
d’uso o dall'aumento di unità immobiliari o della volumetria
impegnata, va ad incidere sull’equilibrio della
programmazione urbanistica.
Infatti, ai sensi dell'art. 23-ter, comma 1, del D.P.R. n.
380/2001, il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente
rilevante, assentibile solo mediante permesso di costruire
sia in presenza che in assenza di opere edilizie, è quello
tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista
urbanistico ed influisce, in via conseguenziale e
automatica, sul carico urbanistico, senza necessità di
ulteriori accertamenti in concreto (TAR Campania, Napoli Sez. II, 15.10.2018, n. 5964; Cass. pen., Sez. III, 22.09.2017 n. 5770; Cons. Stato, Sez. VI, 13.05.2016
n. 1951; id., Sez. IV, 26.02.2015 n. 974) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 11.03.2019 n. 347 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il mancato
godimento delle ferie, non imputabile all'interessato, non
preclude di suo l'insorgenza del diritto alla percezione del
compenso sostitutivo.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie
occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi
recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa
che preveda la relativa indennità, discende direttamente
dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con
l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia
stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di
cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il
carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude
l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese,
non essendo logico far discendere da una violazione
imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto
all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state
fruite per cessazione dal servizio per infermità”.
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non
imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza
del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si
tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde
dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che
governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve,
quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa
dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità
discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta
la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa
per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per
fatto specifico della P.A. datrice di lavoro.
---------------
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
pronunciarsi anche sulla portata del divieto di
monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art.
1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici
sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a
fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è
riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità,
pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che
comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione
delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle
scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze
manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo,
sicché la norma in parola va interpretata come diretta a
reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle
ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare
la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per
incentivare una razionale programmazione del periodo feriale
e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto
di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore
incolpevole.
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la
giurisprudenza del giudice del lavoro è costante
nell’affermare che in tema di pubblico impiego e
monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto
del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non
goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore
in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve
essere interpretato nel senso che il divieto di
monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso
in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di
fruire delle stesse a causa di malattia.
---------------
Come risulta dalla esposizione in fatto, la questione giuridica sottoposta
all’attenzione del Collegio verte su un unico punto. Si
tratta di comprendere se sia dovuta la monetizzazione del
periodo di ferie non goduto nel caso in cui il mancato
godimento sia dipeso da assenza continuativa del dipendente
dovuta a malattia.
L’amministrazione intimata, in sintesi, difende la
correttezza del diniego opposto affermando di avere
liquidato il compenso sostitutivo in favore del ricorrente,
facendo corretta applicazione della disciplina di
riferimento e, segnatamente, dell’art. 14 d.P.R. 31.07.1995, n. 395, dell’art. 18 d.P.R. 16.03.1999 n. 254 e
dell’art. 11 d.P.R. 11.09.2007, n. 170.
Il ricorrente contesta, argomentando con ampi svolgimenti,
l’interpretazione e l’applicazione che l’amministrazione ha
fornito delle sopra citate disposizioni.
In particolare, nella memoria depositata il giorno 11.01.2019, in vista dell’udienza pubblica, la difesa del
ricorrente afferma, in sintesi, che ciascuna delle
disposizioni richiamate dall’amministrazione, in assenza di
una lettura costituzionalmente orientata, collide con il
principio della indisponibilità del diritto alle ferie
sancito nell'art. 36, ultimo comma, della Costituzione.
Il precetto costituzionale, secondo il ricorrente, deve
essere inteso nel senso che ove il lavoratore abbia prestato
ininterrottamente la propria opera nel periodo di
riferimento delle ferie, il compenso sostitutivo delle
stesse spetta in ogni caso, a nulla rilevando l’esistenza di
disposizioni che concedano, limitino o escludano il diritto
all’equivalente pecuniario.
La pretesa del ricorrente è fondata.
Alcune premesse di carattere generale.
Il diritto costituzionale indisponibile ad un periodo
annuale di ferie retribuito, connotato, al pari del diritto
al riposo settimanale, dal requisito dell'irrinunciabilità,
rinviene il proprio fondamento giuridico tanto
nell'interesse, meramente privatistico, comune ad entrambe
le parti del rapporto, di conservare le energie fisiche del
lavoratore al fine di una più razionale utilizzazione delle
stesse, quanto nell'interesse, eminentemente pubblico, alla
tutela della persona del lavoratore.
La dottrina, in modo unanime, ha da tempo affermato che nel
caso delle ferie annuali risultano prevalenti proprio gli
interessi etico-sociali rispetto a quelli fisiologici, cui
sono, invece, essenzialmente preordinate le altre pause, di
minore durata e di maggiore frequenza.
In materia di ferie, l'intervento della Corte costituzionale
è stato ripetuto e sempre molto incisivo nel riservare una
tutela particolarmente intensa al diritto al riposo feriale,
attraverso un consolidato filone giurisprudenziale che parte
dal 1963 (con la celebre sentenza n. 66) per arrivare alla
storica sentenza n. 158 del 2001 che ha affermato che la
garanzia costituzionale del riposo annuale, espressamente
sancita nel 3° comma dell'art. 36 della Costituzione, non
consente deroghe e va per ciò assicurata ad ogni lavoratore
senza distinzione di sorta.
Anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
ha sancito, al paragrafo 2 dell'art. 31, il diritto del
lavoratore a una limitazione della durata massima del lavoro
e a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie
annuali retribuite, utilizzando una formula che riprende
quasi letteralmente quella contenuta nelle Costituzioni
italiana e portoghese.
Venendo alla questione della monetizzazione delle ferie
occorre rilevare che ha avuto modo di pronunciarsi
recentemente il Consiglio di Stato affermando che “il
diritto al compenso sostitutivo delle ferie non godute dal
pubblico dipendente, anche in mancanza di una norma espressa
che preveda la relativa indennità, discende direttamente
dallo stesso mancato godimento delle ferie, in armonia con
l'art. 36 Cost., quando sia certo che tale vicenda non sia
stata determinata dalla volontà del lavoratore e non sia a
lui comunque imputabile, e dunque anche in caso di
cessazione dal servizio per infermità; ciò in quanto il
carattere indisponibile del diritto alle ferie non esclude
l'obbligo della stessa Amministrazione di corrispondere il
predetto compenso per le prestazioni effettivamente rese,
non essendo logico far discendere da una violazione
imputabile all'Amministrazione il venir meno del diritto
all'equivalente pecuniario della prestazione effettuata;
analoga conclusione deve trarsi ove le ferie non siano state
fruite per cessazione dal servizio per infermità” (Consiglio
di Stato sez. IV, 13.03.2018, n. 1580).
In definitiva, il mancato godimento delle ferie, non
imputabile all'interessato, non preclude di suo l'insorgenza
del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si
tratta, infatti, di un diritto che per sua natura prescinde
dal sinallagma prestazione lavorativa-retribuzione che
governa il rapporto di lavoro subordinato e non riceve,
quindi, compressione in presenza di altra causa esonerativa
dall'effettività del servizio.
Da tale carattere di indisponibilità e irrinunciabilità
discende il diritto al compenso sostitutivo, ogni qual volta
la fruibilità del congedo stesso sia oggettivamente esclusa
per causa indipendente dalla volontà del lavoratore o per
fatto specifico della P.A. datrice di lavoro (in materia,
Tar Calabria, Catanzaro, sez. I, 25.06.2015, Tar
Sardegna 13.02.2013 n. 116; Tar Calabria, Catanzaro,
sez. II, 03.05.2011 n. 598; Consiglio di Stato, sez. IV,
24.02.2009 n. 1084).
La giurisprudenza amministrativa ha avuto modo di
pronunciarsi anche sulla portata del divieto di
monetizzazione delle ferie di cui all'art. 5, comma 8, d.l.
06.07.2012 n. 95, convertito con modificazioni, dall'art.
1, comma 1, l. 07.08.2012 n. 135.
Esso va interpretato nel senso che tale disciplina non
pregiudica il diritto alle ferie ove prevede che non si
possano corrispondere in nessun caso trattamenti economici
sostitutivi, giacché correla il contestato divieto a
fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è
riconducibile a una scelta o a un comportamento del
lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità,
pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che
comunque consentono di pianificare per tempo la fruizione
delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle
scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze
manifestate dal lavoratore in merito ai periodi di riposo,
sicché la norma in parola va interpretata come diretta a
reprimere il ricorso incontrollato alla monetizzazione delle
ferie non godute, contrastandone gli abusi, e a riaffermare
la preminenza del godimento effettivo delle ferie, per
incentivare una razionale programmazione del periodo feriale
e favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto
di lavoro, senza arrecare pregiudizio al lavoratore
incolpevole (Tar Emilia Romagna, Parma sez. I, 17.01.2017, n. 14).
E, per il pubblico impiego contrattualizzato, la
giurisprudenza del giudice del lavoro è costante
nell’affermare che in tema di pubblico impiego e
monetizzazione delle ferie non fruite, sussiste il diritto
del ricorrente al pagamento delle ferie e dei riposi non
goduti quando lo stesso abbia provato di essere lavoratore
in malattia. Difatti, l'art. 5, comma 8, d.l. 95/2012 deve
essere interpretato nel senso che il divieto di
monetizzazione delle ferie residue non si applica nel caso
in cui il dipendente non sia stato nella possibilità di
fruire delle stesse a causa di malattia (ex multis,
Tribunale Torino sezione lavoro, 22.12.2016, n. 1861).
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con
conseguente annullamento dell'atto impugnato, nella parte in
cui è stato negato il compenso sostitutivo per i giorni di
congedo ordinario non fruito negli anni 2013 e precedenti e
2014, e conseguente condanna dell'Amministrazione al
pagamento del compenso sostitutivo (TAR Sardegna,
sentenza 08.03.2019 n. 211 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione della nullità,
prevista dall'art. 40 della legge 28.02.1985, n. 47
con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili
privi della necessaria concessione edificatoria, trova
applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non
anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria,
quale il preliminare di vendita, come si desume dal
tenore letterale della norma, nonché dalla circostanza che
successivamente al contratto preliminare può intervenire
la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o
essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa
norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al
01.09.1967, con la conseguenza che in queste
ipotesi rimane esclusa la sanzione di nullità per il
successivo contratto definitivo di vendita, ovvero si può
far luogo alla pronunzia di sentenza ex art. 2932 cod. civ..
---------------
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa
applicazione degli artt. 1418 c.c., dell'art. 15, co. 7, L.
10/1977, degli artt. 17 e 40 l. 47/1985 in riferimento
all'art. 360, n. 3 c.p.c. per avere la Corte territoriale
sussunto la vicenda in esame nell'alveo degli artt. 17 e 40
l. 47/1985 anziché in quello dell'art. 15, co. 7, l. 10/1977.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha infatti affermato la nullità del
contratto preliminare per violazione degli artt. 17 e 40 l. 47/1985, rilevando che il fabbricato in oggetto risultava
edificato in assenza di concessione edilizia e per di più
in
violazione dello strumento urbanistico vigente.
Il giudice di appello ha al riguardo affermato di aderire
all'orientamento secondo cui la nullità per violazione
dell'art. 40 l. 47/1985, sebbene riferita agli atti di
trasferimento ad efficacia reale, si estendesse al contratto
preliminare.
Tale statuizione non è conforme a diritto.
A monte della questione, sulla quale questa sezione con
l'ordinanza n. 20061 del 31.07.2018 ha chiesto al
Primo Presidente l'eventuale assegnazione del relativo
ricorso alle sezioni unite, circa la natura della nullità
per
violazione degli artt. 17 e 40 l. 47/1985 (ora art. 46 dpr
380/2001) -vale a dire se si tratti di nullità sostanziale
(o virtuale) in relazione all'art. 1418 comma 1, ovvero di
nullità testuale, riconducibile alla violazione dell'art.
1418
u.c.- il più recente indirizzo di questa Corte esclude l'applicabilità
della nullità suddetta ai preliminari ed ai
contratti obbligatori in genere.
L'orientamento alla base dell'estensione della nullità ex
artt. 17 e 40 legge 47/1985 ai contratti preliminari,
espresso nelle sentenze n. 23591/2013 e 28194/2013 di questa
Corte, non ha trovato seguito nella successiva
giurisprudenza di legittimità (salvo che nella sentenza
n. 18621/2015) mentre l'esclusione dei contratti
obbligatori dall'ambito di operatività della nullità ex
art.
40 l. 47/1985, costantemente affermata nella giurisprudenza
di legittimità anteriore alle citate sentenze -n. 23591/2013 e
28194/2013- è stata ribadita nelle sentenze di questa Corte
n. 28456/2013, 9318/16, 21942/2017 e 11659/18.
A tale indirizzo questo Collegio ritiene di uniformarsi.
Deve dunque affermarsi che la sanzione della nullità,
prevista dall'art. 40 della legge 28.02.1985, n. 47
con riferimento a vicende negoziali relative ad immobili
privi della necessaria concessione edificatoria, trova
applicazione nei soli contratti con effetti traslativi e non
anche con riguardo ai contratti con efficacia obbligatoria,
quale il preliminare di vendita, come si desume dal
tenore letterale della norma, nonché dalla circostanza che
successivamente al contratto preliminare può intervenire
la concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o
essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa
norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al
01.09.1967, con la conseguenza che in queste
ipotesi rimane esclusa la sanzione di nullità per il
successivo contratto definitivo di vendita, ovvero si può
far luogo alla pronunzia di sentenza ex art. 2932 cod. civ.
(Cass. 28456/2013; Cass. 15734 del 2011) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza
07.03.2019 n. 6685).
---------------
Al riguardo si legga anche:
●
G. D. Nuzzo,
La nullità per l'immobile privo di titolo edilizio non si
applica al preliminare di vendita La nullità per violazione
dell'art. 40, L. n. 47/1985 è riferita agli atti di
trasferimento ad efficacia reale
(15.03.2019 - link a www.condominioweb.com). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Sindaco: sottoscrizione di un atto gestionale.
La più recente giurisprudenza ha
affermato che, ai sensi dell'art. 107, comma 5, d.lgs.
18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7, d.lgs. 31.03.1998 n.
114 –il quale individua nel sindaco l’autorità competente
per le violazioni indicate da quella norma– deve essere
interpretato nel senso che spetta al dirigente, e non al
sindaco, la competenza a disporre la decadenza e la revoca
dell'autorizzazione all'esercizio di attività commerciale,
ovvero la chiusura immediata ai sensi del comma 6 della
medesima norma.
Né può rivestire alcun rilievo la sottoscrizione apposta
anche dal dirigente nella parte sinistra del provvedimento,
in quanto tale sottoscrizione è solo indicativa della
provenienza dell'atto da parte dell'ufficio competente alla
sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente,
essendo inequivocabile la natura di ordinanza sindacale del
provvedimento in questione.
---------------
Deve premettersi che il fabbricato ove insiste l’attività
commerciale succitata è stato edificato in virtù di licenza
edilizia del 1955, rilasciata dal sindaco di Napoli a
condizione, tra l’altro, che i locali cantinati, incluso
quello attualmente condotto in locazione dalla società
ricorrente, non fossero adibiti ad autorimessa o a deposito
di materiali comunque infiammabili; malgrado tale tassativa
prescrizione, l’unità immobiliare di cui la Gi. 3 è
conduttrice è stata, dall’epoca della sua realizzazione e
fino al 2005, adibita ad autorimessa.
Il fabbricato ricade nella sottozona “Bb” di espansione
recente del P.R.G. del comune di Napoli, nella quale sono
ammessi, ex art. 33, commi 2 e 4, delle N.T.A. allegate alla
variante generale al P.R.G. approvata con D.P.G.R.C. n. 323
dell’11.06.2004, interventi fino alla ristrutturazione
edilizia a parità di volume e destinazioni d’uso “di cui
alle lettere a), c) e d) dell’articolo 21” (tra le quali
rientrano, ai sensi della predetta lettera a), le “abitazioni
ordinarie, specialistiche e collettive”, le “attività
artigianali e commerciali al minuto per beni di prima
necessità; altre destinazioni non specificamente
residenziali, ma strettamente connesse con la residenza
quali servizi collettivi per le abitazioni, studi
professionali, eccetera”).
Tanto premesso, l’appello non merita accoglimento.
Ed invero, riguardo al ricorso principale, il Tar ha accolto
il motivo dell’incompetenza del sindaco ad adottare
l’ordinanza, in quanto: “ai sensi dell'art. 107, comma 5,
d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7, d.lgs.
31.03.1998, n. 114 -il quale individua nel sindaco
l'autorità competente per le violazioni indicate da quella
norma- deve essere interpretato, anche secondo una lettura
costituzionalmente orientata, nel senso che spetta al
dirigente, e non al sindaco, la competenza a disporre la
decadenza e la revoca dell'autorizzazione all'esercizio di
attività commerciale, ovvero la chiusura immediata ai sensi
del comma 6 della medesima norma (cfr. in questo senso, ex
multis, Tar Lazio, Roma, Sez. II, 19.08.2004, n. 7790).
Né, nel caso concreto, conduce a diverse conclusioni il
fatto che il provvedimento in questione sia stato
sottoscritto, in calce nella parte sinistra, anche dal
Dirigente comunale.
Ed infatti, il provvedimento impugnato è inequivocabilmente
un'ordinanza sindacale, come emerge dalla sua intestazione
(“Il Sindaco”) e dalla sottoscrizione, per il Sindaco,
dell’Assessore al Commercio; nel mentre, la firma del
dirigente apposta sulla sinistra dell’ordinanza è solo
indicativa della provenienza dell'atto da parte dell'ufficio
competente alla sua redazione al quale è preposto il
predetto dirigente (cfr., per un caso analogo, CdS, Sez. V,
05.07.2005, n. 3692)”.
Tale interpretazione è totalmente da condividere.
Va, infatti, posto in evidenza che la più recente
giurisprudenza ha affermato che, ai sensi dell'art. 107,
comma 5, d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'art. 22, comma 7,
d.lgs. 31.03.1998 n. 114 –il quale individua nel sindaco
l’autorità competente per le violazioni indicate da quella
norma– deve essere interpretato nel senso che spetta al
dirigente, e non al sindaco, la competenza a disporre la
decadenza e la revoca dell'autorizzazione all'esercizio di
attività commerciale, ovvero la chiusura immediata ai sensi
del comma 6 della medesima norma (cfr. Cons. Stato, sez. V,
14.05.2004, n. 3143).
Né può rivestire alcun rilievo la sottoscrizione apposta
anche dal dirigente nella parte sinistra del provvedimento,
in quanto, come correttamente statuito dal giudice di primo
grado, tale sottoscrizione è solo indicativa della
provenienza dell'atto da parte dell'ufficio competente alla
sua redazione al quale è preposto il predetto dirigente,
essendo inequivocabile la natura di ordinanza sindacale del
provvedimento in questione (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.03.2019 n. 1566 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Diritto di prelazione previsto in favore del promotore ex
art. 183, comma 15, del codice dei contratti pubblici.
-----------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Finanza di
progetto – Promotore finanziario – Aggiudicazione – Diritto
di prelazione ex art. 183, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Conseguenza.
L’esercizio del diritto di
prelazione nelle forme previste dal comma 15 dell’art. 183,
d.lgs. n. 50 del 2016 fa nascere in capo all’amministrazione
aggiudicatrice il mero obbligo di aggiudicare la gara al
promotore, senza dunque generare alcun subentro automatico
in un diritto da disporre o già acquisito da un terzo (1).
-----------------
(1) Ha chiarito il Tar che il diritto di prelazione attribuito dal
codice dei contratti pubblici al promotore ha connotazioni
decisamente peculiari rispetto agli altri casi di prelazione
legale, connotazioni non compatibili automaticamente con la
disciplina generale evincibile in materia.
Innanzitutto, si tratta di un diritto di prelazione che ha
come oggetto una posizione di primato nell’ambito di una
graduatoria pubblica di cui fanno previamente parte sia
prelazionario che terzo, e non il subentro automatico in un
diritto che il concedente ha intenzione di trasferire ad un
terzo estraneo all’obbligo legale, o che addirittura, come
nel caso della prelazione artistica, è già stato alienato.
In secondo luogo, l’istituto della denuntiatio è sostituito
de plano dalla ordinaria comunicazione dell’aggiudicazione
della gara e l’unica formalità prevista a carico del
prelazionario è la dichiarazione, entro il termine di
quindici giorni dalla suddetta comunicazione, di impegnarsi
ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime
condizioni offerte dall'aggiudicatario, mentre il pagamento,
a carico del promotore, dell'importo delle spese sostenute
dal terzo per la predisposizione dell'offerta è previsto
dalla legge come obbligazione da adempiere successivamente
all’esercizio del diritto di prelazione, senza la previsione
di alcun termine di decadenza.
Da queste semplici annotazioni, e al di là delle stringate
previsioni di legge, derivano due conseguenze
logico-giuridiche.
Da un lato, l’esercizio del diritto di prelazione nelle
forme previste dal comma 15 dell’art. 183, d.lgs. n. 50 del
2016 fa nascere in capo all’amministrazione aggiudicatrice
il mero obbligo di aggiudicare la gara al promotore, senza
dunque generare alcun subentro automatico in un diritto da
disporre o già acquisito da un terzo; dall’altro, il previo
espletamento di una gara pubblica -in cui, tra l’altro, il
diritto di prelazione legale del promotore è stato ribadito
dal bando-, e la conclusione di tale gara con
l’aggiudicazione provvisoria al terzo, in qualità di
concorrente vincitore, esclude che la notificazione a costui
del successivo esercizio del diritto di prelazione debba
costituire un presupposto necessario per il perfezionamento
di tale diritto.
In particolare, ostano ad una ricostruzione diversa del
sistema due argomenti, uno di natura letterale e l’altro di
natura sostanziale.
Invero, da un lato, l’art. 183, comma 15, d.lgs. n. 50 del
2016 non ha espressamente previsto la necessità della
notificazione dell’esercizio del diritto di prelazione anche
al terzo, come invece disposto dall’art. 61, d.lgs. n. 42
del 2004 in caso di prelazione artistica; dall’altro, nel
caso di specie, l’esercizio del diritto di prelazione è
inserito all’interno di una fase in cui la procedura ad
evidenza pubblica non si è ancora conclusa e ha ad oggetto
il mero subentro in un’aggiudicazione e non nel diritto
all’esecuzione dei lavori.
Tale diritto nascerà soltanto a seguito del contratto
stipulato tra affidatario ed amministrazione aggiudicatrice,
e sempre che la stazione appaltante non ravvisi ostative e
sopravvenute ragioni di interesse pubblico, l’illegalità
della procedura espletata o il mancato rispetto, da parte
del promotore, delle forme previste per l’esercizio del
diritto di prelazione.
Il termine di decadenza è stato dunque previsto in diretto
collegamento con il proseguimento della procedura ad
evidenza pubblica e non con l’espropriazione, nei confronti
del terzo, di un diritto già acquisito.
Da ciò derivano due conseguenze di natura processuale.
Per un verso, il Giudice amministrativo è fornito, nel caso
di specie, di giurisdizione.
La società ricorrente ha infatti censurato un comportamento
illegittimo della stazione appaltante, consistito nell’avere
reso edotto l’aggiudicatario provvisorio dell’avvenuto
esercizio del diritto di prelazione, senza previamente
accertare l’intervenuta decadenza in cui sarebbe incorso il
promotore; i motivi svolti e la domanda proposta rientrano a
pieno titolo nell’oggetto di una delle controversie
“relative a procedure di affidamento di pubblici lavori,
servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti,
nella scelta del contraente o del socio, all'applicazione
della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei
procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa
statale o regionale”, di cui all’art. 133, comma 1, lett.
e), n. 1, c.p.a..
Si tratta di giurisdizione esclusiva, che ricomprende al suo
interno, per consolidato orientamento giurisprudenziale,
qualunque controversia, sia essa afferente a diritti
soggettivi, sia essa afferente ad interessi legittimi, che
insorga nell’ambito di una gara ad evidenza pubblica per
l’affidamento di lavori, servizi o forniture, cui si
applichino regole di derivazione euro-unitaria,
dall’indizione della gara stessa fino alla stipulazione del
contratto di diritto privato tra le parti (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 06.03.2019 n. 58 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, l’approvazione del piano di lottizzazione
non è un atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di
discrezionalità valutativa dell’autorità comunale,
nell’ambito dei poteri di scelta di politica urbanistica
alla stessa demandati.
Ne consegue, quale diretto ed immediato corollario, che “"le
scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento
urbanistico […] non necessitano di specifica motivazione”,
tranne in “casi specifici, tra i quali sono da annoverare la
presenza di accordi con l'ente aventi ad oggetto convenzioni
di lottizzazioni, implicante la lesione di un interesse
qualificato del privato derivante da convenzione di
lottizzazione approvata” del tutto estranei alla fattispecie
posta all’esame del Collegio".
---------------
La censura tesa a stigmatizzare l’asserita frustrazione
delle garanzie partecipative endo-procedimentali di cui agli
artt. 7 e 10-bis L. n. 241/1990 non coglie nel segno.
Ciò in quanto, l'attività della pubblica amministrazione
diretta alla emanazione di atti di pianificazione -tra cui
rientrano anche le delibere di approvazione dei piani di
lottizzazione, equiparati, quanto a natura giuridica, agli
atti di pianificazione urbanistica attuativi redatti dalla
Pubblica Amministrazione- è espressamente sottratta, giusta
il disposto di cui all’art. 13 l. n. 241/1990,
all’applicazione delle norme di carattere generale dettate
dal capo III della medesima legge in tema di “partecipazione
al procedimento amministrativo”, ferme restando le
disposizioni particolari che ne regolano la formazione.
---------------
7. Passando al merito della vicenda contenziosa, il primo
gruppo di censure, teso a contestare il deficit
motivazionale in cui sarebbe incorso il Consiglio Comunale
nel rigettare l’approvazione del piano di lottizzazione
proposto dal ricorrente, non incontra il positivo
apprezzamento del Collegio.
Ed invero, in base ad un consolidato orientamento
giurisprudenziale, dal quale il Tribunale non ha motivo di
discostarsi, l’approvazione del piano di lottizzazione non è
un atto dovuto, ma costituisce sempre espressione di
discrezionalità valutativa dell’autorità comunale,
nell’ambito dei poteri di scelta di politica urbanistica
alla stessa demandati (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II,
n. 1337/2017).
Ne consegue, quale diretto ed immediato corollario, che “"le
scelte dell'Amministrazione nell'adozione dello strumento
urbanistico […] non necessitano di specifica motivazione”,
tranne in “casi specifici, tra i quali sono da annoverare la
presenza di accordi con l'ente aventi ad oggetto convenzioni
di lottizzazioni, implicante la lesione di un interesse
qualificato del privato derivante da convenzione di
lottizzazione approvata” del tutto estranei alla fattispecie
posta all’esame del Collegio (cfr. TAR Lombardia, Milano,
sez. II, 03/12/2018, n. 2718; sez. II, 08/10/2018, n. 2228;
ex multis, TAR Toscana, sez. I, 24.06.2009, n. 1091; Cons.
di Stato sez. IV, n. 2453 del 14.05.2015; TAR Abruzzo-L'Aquila
n. 435 del 04.06.2015; TAR Friuli Venezia-Giulia n. 488 del
07.10.2014; TAR Piemonte n. 1524 del 30.10.2015; TAR
Sicilia-Palermo n. 1667 dell'08.07.2015)".
8. Anche il secondo gruppo di censure, teso a stigmatizzare
l’asserita frustrazione delle garanzie partecipative
endo-procedimentali di cui agli artt. 7 e 10-bis L. n.
241/1990, non coglie nel segno.
Ciò in quanto, l'attività della pubblica amministrazione
diretta alla emanazione di atti di pianificazione -tra cui
rientrano anche le delibere di approvazione dei piani di
lottizzazione, equiparati, quanto a natura giuridica, agli
atti di pianificazione urbanistica attuativi redatti dalla
Pubblica Amministrazione (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. IV,
26/11/2018, n. 2659)- è espressamente sottratta, giusta il
disposto di cui all’art. 13 l. n. 241/1990, all’applicazione
delle norme di carattere generale dettate dal capo III della
medesima legge in tema di “partecipazione al procedimento
amministrativo”, ferme restando le disposizioni
particolari che ne regolano la formazione.
9. In conclusione il ricorso è infondato e, come tale, deve
essere rigettato (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 434 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 23-ter del DPR 380/2001 stabilisce che “Salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali, costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare
considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle
sotto elencate:
a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”
Si configura pertanto un mutamento di destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante solo quando l’immobile viene
utilizzato in forma diversa da quella originaria, benché in
assenza di esecuzione di opere edilizie, ma con assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale tra quelle contemplate dal legislatore.
Quando, invece, il mutamento di destinazione d’uso si
consuma all’interno di un’unica categoria funzionale, quale
nel caso è quella commerciale, trattandosi di mutamento di
categoria omogeneo, ad esso non può accompagnarsi alcun
onere economico per il privato perché l’operazione perde il
suo connotato di mutamento di destinazione urbanisticamente
rilevante, ossia implicante un diverso carico urbanistico
per l’amministrazione.
La conclusione è confermata anche dall’art. 23-ter, comma 3,
ultimo periodo, in forza del quale “salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti
urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso
all’interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito”.
---------------
La facoltà riservata dall’art.
23-ter del D.p.r. 380/2001 alla Regione di introdurre una
disciplina differenziata del mutamento di destinazione d’uso
rilevante rispetto alle previsioni del legislatore
nazionale, non trova applicazione nel caso di specie.
Deve, infatti, ritenersi che, nella Regione Puglia, difetti
una disciplina di questa natura non essendo sovrapponibili
le previsioni contenute nel già esaminato
art. 32 Legge Reg.
6/1979, che si limita a disciplinare operazioni assai più
limitate dal punto di vista urbanistico, a quelle dell’art.
23-ter del D.p.r. 380/2001, aventi specifico rilievo sotto
il profilo del carico urbanistico che ne deriva.
Per questa ragione, erra il Comune nel
considerare che la fattispecie concreta possa essere
regolata dalla legislazione regionale sopra citata, atteso
che manca il requisito indispensabile della perfetta
sovrapposizione tra normativa nazionale e disciplina
regionale, in presenza del quale può farsi spazio alla sfera
di competenza dell’Autonomia territoriale.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento a firma del
Direttore dell’Area Tecnica Serv. Urbanistica del Comune di
Gioia del Colle prot. n. 26264 del 28.09.2016,
successivamente conosciuto, avente ad oggetto: “Pratica
edilizia n. 110/2016. Richiesta pagamento contributo di
costruzione relativa a richiesta di permesso di costruire
per la realizzazione di un cambio di destinazione da uso
residenziale, deposito e autorimessa del locale sito in ...
n. 82, ang. Via ..., zona A2 di prg.”;
...
Il ricorrente assume di essere proprietario di una unità
immobiliare sita in Gioia del Colle, alla via ... n. 82,
angolo via ... n. 1 e Via ... n. 44, composta da tre piccoli
locali a piano terra intercomunicanti tra di loro.
I locali in questione costituiscono parte di un immobile di
modeste dimensioni, composto da piano terra e primo piano,
edificato antecedentemente al 1942 e realizzato in una zona
dell’abitato a ridosso del centro storico (A2 di P.R.G.).
I locali sono stati adibiti ad attività commerciale da lunga
data avendo ospitato nel tempo, rispettivamente, una
tipografia, una merceria ed altre attività commerciali.
Negli ultimi anni, secondo la prospettazione del ricorrente,
e cioè a partire dal 1997 ad oggi, i locali medesimi sono
stati utilizzati dall’attuale conduttore per l’esercizio di
un pub-birreria, in forza di un contratto regolarmente
registrato, e sulla base di autorizzazioni amministrative
rilasciate, a vario titolo, dal Comune di Gioia del Colle.
Sta di fatto che, in occasione di una verifica per la
cessione dell’attività esercitata all’interno dei vani in
esame, è emersa la mancanza di destinazione ad uso
commerciale, il che ha impedito la prosecuzione
dell’attività fino a quel momento esercitata.
Il ricorrente, a questo punto, ha inoltrato, in data
10.06.2016, richiesta di permesso di costruire per mutamento
di destinazione d’uso senza opere accompagnata da relazione
tecnica asseverata che illustrava lo stato dei luoghi e la
natura dell’intervento.
L’Amministrazione comunale di Gioia del Colle, con
provvedimento del 28.09.2016 prot. n. 2624, ha richiesto al
ricorrente, ai fini del rilascio del titolo edilizio in
sanatoria sopra ricordato, il pagamento della complessiva
somma di € 9.505,06, a titolo di oneri di urbanizzazione
primaria, oneri di urbanizzazione secondaria, contributo
commisurato al costo di costruzione oltre diritti di
segreteria.
Il ricorrente ha, però, contestato la legittimità del
provvedimento recante la richiesta delle somme sopra citate
e ne ha chiesto il riesame da parte dell’ente civico.
L’amministrazione comunale ha, tuttavia, confermato la
determinazione precedentemente assunta.
Di qui la presente iniziativa giurisdizionale del ricorrente
che mira ad ottenere l’annullamento della nota comunale
emanata in sede di riesame della richiesta di somme e della
presupposta nota del 28.09.2016 alla luce dei seguenti
motivi di censura:
1) violazione di legge: artt. 16 e 19 D.p.r. 380/2001; art. 3 legge
10/1977; art. 6 legge 1150/1942. Difetto di istruttoria;
2) violazione e falsa applicazione art. 31, primo comma, L.R.
Puglia n. 6 del 12.02.1979. Violazione e falsa applicazione
art. 23-ter D.p.r. 380/2001. Travisamento dei fatti e
sviamento. Difetto di istruttoria;
3) violazione del principio di tassatività ed eccesso di potere in
relazione all’asserito assoggettamento ad oneri di
urbanizzazione ed a contributo di costruzione, in relazione
a mutamento di destinazione d’uso senza opere; violazione e
falsa applicazione della deliberazione del Commissario
Straordinario del Comune di Gioia del Colle n. 30 del
21/03/2012;
4) violazione art. 3 della legge 241/1990. Eccesso di potere per
difetto di motivazione ed istruttoria; omessa ed erronea
considerazione dei presupposti; travisamento dei fatti.
...
Il ricorso è fondato con particolare riguardo al motivo di
censura relativo alla violazione e falsa applicazione
dell’art. 23-ter del D.p.r. 380/2001.
Ed invero, l’amministrazione comunale di Gioia del Colle ha,
in un primo tempo, immotivatamente chiesto al ricorrente il
pagamento del contributo di costruzione in merito alla
istanza volta a conseguire il permesso di costruire per la
realizzazione di un cambio di destinazione da uso
residenziale, deposito e autorimessa ad uso commerciale del
locale sito in Via ... n. 82 ang. Via ..., zona A2 di prg
(si veda la nota del 28.09.2016 impugnata dal ricorrente).
Successivamente, dopo la richiesta di annullamento in
autotutela di provvedimento illegittimo, posta dal
ricorrente all’attenzione del dirigente dell’Area
tecnica-Servizio Urbanistica del comune di Gioia del Colle,
la stessa amministrazione locale si è limitata a richiamare
la disciplina posta dall’art. 23-ter del T.U. in materia
edilizia di cui al D.p.r. 380/2001 senza trarne le dovute
conseguenze in ragione della caratteristica dei locali del
ricorrente da destinare ad uso commerciale.
Risulta, infatti, dall’esame della richiesta di permesso di
costruire formulata dal ricorrente che ben due dei tre
locali appartenevano già a categoria commerciale, tali
dovendo considerarsi gli immobili censiti al foglio 61,
particella 141, sub 2 e 3, aventi classificazione C6, e C2
in quanto destinati rispettivamente a deposito e ad
autorimessa.
Solo il locale sub 4, con accesso da Via ... n. 82 avente
destinazione residenziale A4, della superficie netta di mq.
26 “...diventerà a destinazione commerciale”, come
acclarato con la relazione tecnica asseverata a corredo
della richiesta di permesso di costruire del ricorrente.
E, ritiene il Collegio, solo quest’ultimo locale può essere
assoggettato legittimamente al pagamento del contributo del
costo di costruzione, in base ad una corretta lettura
dell’art. 23-ter del decreto sopra richiamato.
La norma in questione stabilisce che “Salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali, costituisce
mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di
utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata
dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare
l'assegnazione dell'immobile o dell'unita' immobiliare
considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle
sotto elencate:
a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e
direzionale; c) commerciale; d) rurale.”
Si configura pertanto un mutamento di destinazione d’uso
urbanisticamente rilevante solo quando l’immobile viene
utilizzato in forma diversa da quella originaria, benché in
assenza di esecuzione di opere edilizie, ma con assegnazione
dell’immobile o dell’unità immobiliare ad una diversa
categoria funzionale tra quelle contemplate dal legislatore.
Quando, invece, il mutamento di destinazione d’uso si
consuma all’interno di un’unica categoria funzionale, quale
nel caso è quella commerciale, trattandosi di mutamento di
categoria omogeneo, ad esso non può accompagnarsi alcun
onere economico per il privato perché l’operazione perde il
suo connotato di mutamento di destinazione urbanisticamente
rilevante, ossia implicante un diverso carico urbanistico
per l’amministrazione.
La conclusione è confermata anche dall’art. 23-ter, comma 3,
ultimo periodo, in forza del quale “salva diversa
previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti
urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d’uso
all’interno della stessa categoria funzionale è sempre
consentito”.
Le cose non cambiano se si volge lo sguardo alla
legislazione regionale varata in Puglia e richiamata nel
provvedimento contestato a fini di integrazione della
disciplina urbanistica.
L’art. 32 della Legge Reg. Puglia n. 6/1979 prevede infatti
che “Qualora la destinazione d'uso delle opere o impianti
destinati alla residenza di cui all'art. 10 della legge
28.01.1977, n. 10, nonché di quelle zone agricole previste
nell'art. 9 della medesima legge, così come precisato
nell'art. 9 della presente legge venga comunque modificata
nei 10 (dieci) anni successivi all'ultimazione dei lavori,
il contributo per la concessione è dovuto nella misura
massima corrispondente alla nuova destinazione, determinato
con riferimento al momento della intervenuta variazione.
In tutti gli altri casi nei quali venga modificata la
destinazione d'uso, che non siano quelli previsti nel comma
precedente, il contributo per la concessione è pari alla
differenza tra le misure corrispondenti alla nuova
destinazione e alla vecchia, calcolate distintamente per le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria.”
Osserva, il Collegio, che la facoltà riservata dall’art.
23-ter del D.p.r. 380/2001 alla Regione di introdurre una
disciplina differenziata del mutamento di destinazione d’uso
rilevante rispetto alle previsioni del legislatore
nazionale, non trova applicazione nel caso di specie.
Deve, infatti, ritenersi che, nella Regione Puglia, difetti
una disciplina di questa natura non essendo sovrapponibili
le previsioni contenute nel già esaminato
art. 32 Legge Reg.
6/1979, che si limita a disciplinare operazioni assai più
limitate dal punto di vista urbanistico, a quelle dell’art.
23-ter del D.p.r. 380/2001, aventi specifico rilievo sotto
il profilo del carico urbanistico che ne deriva.
Per questa ragione, erra il Comune di Gioia del Colle nel
considerare che la fattispecie concreta possa essere
regolata dalla legislazione regionale sopra citata, atteso
che manca il requisito indispensabile della perfetta
sovrapposizione tra normativa nazionale e disciplina
regionale, in presenza del quale può farsi spazio alla sfera
di competenza dell’Autonomia territoriale.
In conclusione, i provvedimenti impugnati vanno annullati
nella parte in cui l’Amministrazione comunale ha preteso
oneri economici relativamente al mutamento di destinazione
d’uso di unità immobiliari, quelle sub 2 e 3 della richiesta
del ricorrente, destinate a essere utilizzate all’interno
della medesima categoria funzionale di appartenenza
originaria, cioè quella commerciale (TAR Puglia-Bari, Sez.
III,
sentenza 05.03.2019 n. 353 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Pur dovendosi ribadire l’orientamento della Sezione alla stregua del quale
il criterio della c.d. vicinitas non è sufficiente a fondare l’interesse a
ricorrere, essendo necessaria la prova di un pregiudizio concreto ed attuale
alla posizione del ricorrente derivante dall’assetto edilizio scaturente dai
provvedimenti impugnati, nel caso di specie, l’interesse è rinvenibile nella lesione
delle prerogative proprietarie derivanti dalle prospettate plurime
violazioni della disciplina delle distanze tra edifici, che impinge ad una
diretta lesione delle facoltà proprietarie nei rapporti di vicinato.
In tali ipotesi, infatti, anche l’orientamento giurisprudenziale più
restrittivo, ritiene non necessaria un’ulteriore prova dell’interesse ad
agire.
---------------
1.1 Non è fondata l’eccezione di inammissibilità del
ricorso per difetto di interesse, formulata dal controinteressato.
Pur dovendosi ribadire l’orientamento della Sezione alla stregua del quale
il criterio della c.d. vicinitas non è sufficiente a fondare l’interesse a
ricorrere, essendo necessaria la prova di un pregiudizio concreto ed attuale
alla posizione del ricorrente derivante dall’assetto edilizio scaturente dai
provvedimenti impugnati (Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015, n.
1081; Tar Veneto, Sez. II, 15.02.2018, n. 324, Tar Campania, Salerno,
Sez. I, 18.04.2018, nr. 755, Consiglio di Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5442), nel caso di specie, l’interesse è rinvenibile nella lesione
delle prerogative proprietarie derivanti dalle prospettate plurime
violazioni della disciplina delle distanze tra edifici, che impinge ad una
diretta lesione delle facoltà proprietarie nei rapporti di vicinato.
In tali
ipotesi, infatti, anche l’orientamento giurisprudenziale più restrittivo,
ritiene non necessaria un’ulteriore prova dell’interesse ad agire (Consiglio
di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine per l’impugnazione di un titolo edilizio in sanatoria,
decorre per il terzo interessato dalla data in cui costui abbia avuto
conoscenza del rilascio del titolo, mentre
appare ingiustificatamente restrittiva dell’effettività della tutela
giurisdizionale la tesi che, per i titoli in sanatoria, fa decorrere il
termine di impugnazione dei terzi dalla data di pubblicazione del
provvedimento all’Albo pretorio del Comune.
Se tale soluzione si giustifica, in un’ottica di certezza dei rapporti
giuridici, nei casi in cui il terzo, pur essendo in condizione di conoscere
l’esistenza delle opere abusive, si sia astenuto ingiustificatamente da ogni
forma di reazione (con esposti, denunce, istanze di accesso agli atti…), lo
stesso non può affermarsi nei casi in cui il
ricorrente si sia attivato tempestivamente per segnalare al Comune
l’esistenza di opere potenzialmente abusive e ciononostante l’Amministrazione non abbia ritenuto di informare
l’istante della pendenza del procedimento di sanatoria.
---------------
1.4 Non è fondata l’eccezione di irricevibilità dei motivi di impugnazione –formulati nel ricorso per motivi aggiunti– relativi al permesso di
costruire in sanatoria n. 102 del 12/5/2008, pubblicato in pari data
all’Albo pretorio del Comune di Malcesine.
Nel caso in esame, deve farsi applicazione del principio, recentemente
ribadito dal Giudice d’appello, secondo il quale il termine per
l’impugnazione di un titolo edilizio in sanatoria, decorre per il terzo
interessato dalla data in cui costui abbia avuto conoscenza del rilascio del
titolo (cfr. Consiglio di Stato sez. VI - 10/09/2018, n. 5307), mentre
appare ingiustificatamente restrittiva dell’effettività della tutela
giurisdizionale la tesi che, per i titoli in sanatoria, fa decorrere il
termine di impugnazione dei terzi dalla data di pubblicazione del
provvedimento all’Albo pretorio del Comune.
Se tale soluzione si giustifica, in un’ottica di certezza dei rapporti
giuridici, nei casi in cui il terzo, pur essendo in condizione di conoscere
l’esistenza delle opere abusive, si sia astenuto ingiustificatamente da ogni
forma di reazione (con esposti, denunce, istanze di accesso agli atti…), lo
stesso non può affermarsi nei casi -come quello in esame- in cui il
ricorrente si sia attivato tempestivamente per segnalare al Comune
l’esistenza di opere potenzialmente abusive (la ricorrente aveva presentato
un esposto al Comune nel febbraio del 2007 nel quale descriveva le opere
oggetto di contestazione, chiedendo al Comune di effettuare i dovuti
controlli) e ciononostante l’Amministrazione non abbia ritenuto di informare
l’istante della pendenza del procedimento di sanatoria.
In un’ipotesi del genere, l’esigenza di evitare che la decorrenza del
termine d’impugnazione sia interamente rimesso all’arbitrio del ricorrente
non sussiste.
Perché possa pronunciarsi l’irricevibilità del ricorso, pertanto, occorre
che sia fornita dalla parte interessata la prova dell’epoca in cui il
ricorrente ha acquisito l’effettiva conoscenza del provvedimento di
sanatoria.
L’eccezione del Comune, volta a dimostrare un’acquisita conoscenza del
provvedimento in data anteriore a quella in cui del permesso di costruire in
sanatoria n. 102/2007 è stato menzionato nella memoria del controinteressato,
è sguarnita di prova.
Dai documenti richiamati dall’Amministrazione e depositati agli atti emerge
che la ricorrente era a conoscenza dell’esistenza delle opere, ma non che
avesse avuto notizia della richiesta e del successivo rilascio del permesso
di costruire in sanatoria
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in deroga per una veranda in vetro e
distanze tra edifici: prevale il DM 1444/1968.
Con il permesso di costruire in deroga è ammessa la deroga
unicamente alla norme degli strumenti urbanistici generali,
ma non a quelle previste dal D.M. 1444/1968.
---------------
Né è condivisibile la difesa del Comune nella parte in cui
afferma che nella specie l’art. 9 D.M. 1444/1968 non
troverebbe applicazione poiché la distanza inferiore ai 10
metri riguarderebbe una veranda in vetro e non una
costruzione, poiché, per costante giurisprudenza, la nozione
di costruzione ai fini dell'osservanza delle norme sulle
distanze legali tra edifici, “deve estendersi a qualsiasi
manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri
della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche
mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un
corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato,
indipendentemente dal livello di posa e di elevazione
dell'opera”.
---------------
7. È, invece, parzialmente fondato il quarto motivo,
con il quale è impugnato il permesso di costruire n. 49/2007
con cui è stata autorizzata in deroga la chiusura della
veranda.
Trattandosi di permesso in deroga, non può essere accolta la
censura con cui è dedotta la violazione dell’art. 38-bis
delle NTA nella parte in cui prescrive una distanza dal
confine di 5 metri. Le distanze previste dal PRG possono
essere legittimamente derogate con il permesso di cui
all’art. 14 DPR 380/2001.
È, invece, fondata la censura con cui si fa valere la
violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, essendo la veranda
posta, incontestatamente, ad una distanza inferiore ai 10
metri dalla parete finestrata dell’edificio di proprietà
della ricorrente.
Con il permesso di costruire in deroga, infatti, è ammessa
la deroga unicamente alla norme degli strumenti urbanistici
generali, ma non a quelle previste dal D.M. 1444/1968 (TAR
Napoli, (Campania) sez. II, 13/02/2009, n. 799).
Né è condivisibile la difesa del Comune nella parte in cui
afferma che nella specie l’art. 9 D.M. 1444/1968 non
troverebbe applicazione poiché la distanza inferiore ai 10
metri riguarderebbe una veranda in vetro e non una
costruzione, poiché, per costante giurisprudenza, la nozione
di costruzione (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
02/03/2018, n. 1309) ai fini dell'osservanza delle norme
sulle distanze legali tra edifici, “deve estendersi a
qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i
caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al
suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o
collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o
contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di
posa e di elevazione dell'opera” (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È incontroverso tra le parti che i poggioli sul fronte ovest dell’Albergo
Ve., posto fronte lago, sono stati realizzati ad una distanza inferiore
a 10 metri dal “piede dell’argine” del lago di Garda.
Come ha già avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato, l’art. 96, lettera f, del RD
523/1904 si applica a tutte le acque pubbliche e, quindi, anche a quelle dei
laghi, indipendentemente dall’altezza alla quale le opere sono state
costruite.
---------------
Quanto alle argomentazioni concernenti l’idoneità delle opere in questione
ad arrecare pregiudizio alle esigenze sottese alla previsione della fascia
di rispetto, si osserva che tale valutazione è riservata dalla stessa norma
all’Autorità amministrativa, la quale può determinare una distanza diversa
con disciplina ad efficacia generale, purché “specificamente diretta a
tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle
costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del
vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli
argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi
l'eventuale deroga”.
---------------
8. Il quinto motivo, per la parte in cui sussiste l’interesse alla
decisione, è infondato.
Con esso si deduce l’illegittimità del permesso di costruire 30.01.2007
n. 13 (pratica n. 91/2006) e dell'allegata concessione demaniale del 22.01.2007 n. 51, in base ai quali il controinteressato ha realizzato la
terrazza-solarium sul lago poiché non risulterebbe acquisita alcuna
autorizzazione paesaggistica ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
Il Comune obietta che l’autorizzazione è stata acquisita sul conforme
progetto presentato ai fini del rilascio della concessione demaniale. Tale
circostanza trova conferma, oltre che nelle premesse del provvedimento di
concessione demaniale (ove è richiamata l’Autorizzazione ambientale n. 3960
del 13.03.2006), anche nel parere reso dalla Soprintendenza in data
20.03.2008 sull’istanza di permesso in sanatoria n. 8/2008, ove si afferma
che le opere in progetto “non modificano sostanzialmente quanto già
autorizzato”.
9. Le censure formulate con i motivi sub A del ricorso per motivi aggiunti
sono integralmente riproduttive dei primi tre motivi del ricorso principale,
e, come quelli, da rigettare.
10. E’, invece, fondato il motivo sub B.1 con cui il permesso di costruire
in sanatoria 12.05.2008 n. 102/2007 è censurato per violazione dell’art. 96,
lettera f, del RD 523/1904.
È incontroverso tra le parti che i poggioli sul fronte ovest dell’Albergo
Ve., posto fronte lago, sono stati realizzati ad una distanza inferiore
a 10 metri dal “piede dell’argine” del lago di Garda.
Come ha già avuto modo di evidenziare il Consiglio di Stato nella sentenza
n. 5620/2012, resa tra le medesime parti, l’art. 96, lettera f, del RD
523/1904 si applica a tutte le acque pubbliche e, quindi, anche a quelle dei
laghi, indipendentemente dall’altezza alla quale le opere sono state
costruite.
Le contrarie argomentazioni di ordine interpretativo contenute nelle difese
del Comune e del controinteressato non evidenziano argomenti decisivi per
modificare le conclusioni cui è pervenuto il Consiglio di Stato,
considerato, peraltro, che si tratta di rilievi in gran parte già formulati
nel corso di quel giudizio e respinti dal Giudice d’appello.
Quanto alle argomentazioni concernenti l’idoneità delle opere in questione
ad arrecare pregiudizio alle esigenze sottese alla previsione della fascia
di rispetto, si osserva che tale valutazione è riservata dalla stessa norma
all’Autorità amministrativa, la quale può determinare una distanza diversa
con disciplina ad efficacia generale, purché “specificamente diretta a
tutelare il deflusso delle acque e la distanza dagli argini delle
costruzioni, in ossequio altresì alla normativa statale di tutela del
vincolo idrogeologico e delle peculiari condizioni delle acque e degli
argini che la norma locale prende in considerazione al fine di stabilirvi
l'eventuale deroga” (Cons. Stato Sez. VI, Sent., 10.01.2018, n. 102).
11. L’accoglimento del motivo B.1. consente di assorbire le residue censure
concernenti la legittimità dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata in
relazione al suddetto permesso
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 290 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Per costante giurisprudenza ciò che caratterizza
gli interventi di restauro e risanamento conservativo
e li differenzia dagli interventi di ristrutturazione,
sotto il profilo teleologico, è la finalità del recupero
funzionale di un bene che si vuole resti immutato nelle
caratteristiche tipologiche, formali e strutturali.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia mirano,
invece, alla trasformazione dell’edificio:
●
“Ricorre la categoria del restauro e risanamento
conservativo allorquando sussiste un'attività rivolta a
conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la
funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che,
nel rispetto degli elementi tipologici, formali e
strutturali (di esso), ne consentano destinazioni d'uso con
essi compatibili. Poiché il restauro ed il risanamento
implicano anche il consolidamento, il ripristino e il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio,
l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti
richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione di
elementi o estranei, o deteriorati di tal organismo
preesistente non consente di confondere la relativa vicenda
con quella della ristrutturazione edilizia. Invero, quest'ultima
si configura nel rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio e nell'alterazione dell'originaria fisionomia
e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e risanamento, che
invece presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata
accezione di componenti strutturali originali o meramente
riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie”).
---------------
●
“Affinché sia ravvisabile un intervento di
ristrutturazione edilizia è sufficiente che risultino
modificati la distribuzione della superficie interna e dei
volumi, ovvero l'ordine in cui erano disposte le diverse
porzioni dell'edificio, per il solo fine di rendere più
agevole la destinazione d'uso esistente. Anche in questi
casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia
e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo, che presuppongono la
realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura
dell'edificio e la distribuzione interna della sua
superficie”.
●
“Affinché sia ravvisato un intervento di ristrutturazione
edilizia è sufficiente che risultino modificati la
distribuzione della superficie interna e dei volumi ovvero
l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni
dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la
destinazione d'uso esistente, atteso che anche in questi
casi si configura il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia
e consistenza fisica dell'immobile; non possono, dunque,
qualificarsi come strettamente manutentivi di una
costruzione preesistente, ovvero diretti al suo
consolidamento o restauro conservativo, i lavori che
determinano la creazione di un organismo nuovo che veda
alterata la sua struttura o la struttura interna
dell'edificio; infatti, gli interventi edilizi che alterino
l'originaria consistenza fisica di un immobile e comportino
l'inserimento di nuovi impianti e la modifica e
ridistribuzione dei volumi, non possono configurarsi né come
manutenzione straordinaria né come restauro o
risanamento conservativo, ma rientrano nell'ambito della
ristrutturazione edilizia”.
---------------
3. Orbene dall’esame della relazione tecnica allegata
all’istanza di permesso di costruire n. 86/2010 e degli
elaborati progettuali, emerge la correttezza della
qualificazione di lavori assentiti come interventi di
ristrutturazione e non di restauro e risanamento
conservativo.
3.1 Per costante giurisprudenza ciò che caratterizza gli
interventi di restauro e risanamento conservativo e
li differenzia dagli interventi di ristrutturazione,
sotto il profilo teleologico, è la finalità del recupero
funzionale di un bene che si vuole resti immutato nelle
caratteristiche tipologiche, formali e strutturali.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia mirano,
invece, alla trasformazione dell’edificio (TAR Bari,
(Puglia) sez. III, 09/04/2018, n. 530: “Ricorre la
categoria del restauro e risanamento conservativo
allorquando sussiste un'attività rivolta a conservare
l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità
mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto
degli elementi tipologici, formali e strutturali (di esso),
ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili.
Poiché il restauro ed il risanamento implicano anche il
consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi
costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi
accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze
dell'uso, l'eliminazione di elementi o estranei, o
deteriorati di tal organismo preesistente non consente di
confondere la relativa vicenda con quella della
ristrutturazione edilizia. Invero, quest'ultima si configura
nel rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio e
nell'alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza
fisica dell'immobile, incompatibili con i concetti di
manutenzione straordinaria e risanamento, che invece
presuppongono la realizzazione di opere che lascino
inalterata la struttura dell'edificio (nella sua lata
accezione di componenti strutturali originali o meramente
riproduttivi) e la distribuzione interna della sua
superficie”).
3.2 Come ha recentemente ribadito il Cons. Stato, nella
sentenza della VI Sezione, n. 4483, del 23/07/2018 “Affinché
sia ravvisabile un intervento di ristrutturazione
edilizia è sufficiente che risultino modificati la
distribuzione della superficie interna e dei volumi, ovvero
l'ordine in cui erano disposte le diverse porzioni
dell'edificio, per il solo fine di rendere più agevole la
destinazione d'uso esistente. Anche in questi casi si
configura il rinnovo degli elementi costitutivi
dell'edificio ed una alterazione dell'originaria fisionomia
e consistenza fisica dell'immobile, incompatibili con i
concetti di manutenzione straordinaria e di
risanamento conservativo, che presuppongono la
realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura
dell'edificio e la distribuzione interna della sua
superficie” (nel medesimo senso anche TAR Lecce,
(Puglia) sez. I, 05/04/2018, n. 554: “Affinché sia
ravvisato un intervento di ristrutturazione edilizia
è sufficiente che risultino modificati la distribuzione
della superficie interna e dei volumi ovvero l'ordine in cui
erano disposte le diverse porzioni dell'edificio, per il
solo fine di rendere più agevole la destinazione d'uso
esistente, atteso che anche in questi casi si configura il
rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio ed una
alterazione dell'originaria fisionomia e consistenza fisica
dell'immobile; non possono, dunque, qualificarsi come
strettamente manutentivi di una costruzione preesistente,
ovvero diretti al suo consolidamento o restauro
conservativo, i lavori che determinano la creazione di un
organismo nuovo che veda alterata la sua struttura o la
struttura interna dell'edificio; infatti, gli interventi
edilizi che alterino l'originaria consistenza fisica di un
immobile e comportino l'inserimento di nuovi impianti e la
modifica e ridistribuzione dei volumi, non possono
configurarsi né come manutenzione straordinaria né
come restauro o risanamento conservativo, ma
rientrano nell'ambito della ristrutturazione edilizia”,
cfr. anche TAR Lazio, II, 10.8.2017, n. 9290).
3.3 Nel caso in esame, dalla relazione tecnica e dal
progetto allegato all’istanza di permesso di costruire,
emerge che l’intervento è consistito nelle seguenti opere:
1) la completa riorganizzazione delle superfici interne; 2)
il rifacimento del solaio del secondo piano che viene
portato a quota inferiore, determinando l’ampliamento del
volume dell’ultimo piano dell’edificio; 3) la trasformazione
della scala interna, originariamente organizzata per rampe,
in scala elicoidale; 4) il ribassamento del pavimento del
piano terra per realizzare la camera di ventilazione; 5)
l’inserimento di tre lucernari sul tetto dell’edificio con
modifica del prospetto; 6) l’inserimento di un ascensore.
Non solo, pertanto, si è realizzata una completa
redistribuzione delle superfici interne su ciascuno dei
piani dell’edificio, ma anche dei volumi, per effetto del
ribassamento del solaio del secondo piano.
Ciò è avvenuto mediante modifiche ad elementi strutturali
dell’edificio, quali il solaio del secondo piano (che è
stato portato a quota più bassa), la scala (trasformata in
scala elicoidale), il pavimento del pianterreno (ribassato
per creare la camera di ventilazione) ed il prospetto
(modificato mediante inserimento di tre lucernari).
3.4 Pertanto, nonostante l’intervento non abbia determinato
una modifica di destinazione d’uso, o un aumento della
volumetria complessiva dell’edificio, esso appare
qualificabile complessivamente quale ristrutturazione
edilizia.
La finalità perseguita, infatti, è stata sì quella di
migliorare lo stato dell’edificio, ma apportandovi modifiche
che ne hanno trasformato elementi strutturali e formali (TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di edificio unifamiliare.
La ratio dell’esenzione di cui all’art. 17, c. 3, lett. b), DPR 390/2001 si
rinviene nella tutela e salvaguardia delle necessità abitative del nucleo
familiare, perseguite attraverso la gratuità degli interventi funzionali
all’adeguamento dell’immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di “edificio
unifamiliare” richiamata dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua
accezione socio-economica che coincide “con la piccola proprietà
immobiliare” poiché soltanto ove presenti tali caratteri appare meritevole
di un trattamento differenziato.
---------------
4. Con il secondo motivo, il ricorrente contesta che
l’Amministrazione abbia diritto di pretendere il pagamento
del contributo, anche ove l’intervento sia qualificabile
come ristrutturazione edilizia, ostandovi il disposto
dell’art. 17, c. 3, lett. b), DPR 380/2001. La disposizione
prevede, infatti, un’ipotesi di esenzione dal contributo per
gli interventi di ristrutturazione di edifici unifamiliari,
quale sarebbe quello oggetto di causa.
Afferma, inoltre, che l’opzione interpretativa invalsa in
giurisprudenza secondo cui l’esenzione si giustificherebbe
come “aiuto alla famiglia che, banalmente, necessiti di
ulteriore spazio per la propria decorosa sistemazione
abitativa” non troverebbe riscontro nel dato normativo e
sarebbe, pertanto, non percorribile, anche alla luce di
quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza
n. 231 del 03.11.2016.
4.1 La tesi non persuade.
4.2 Invero la stessa Corte costituzionale ha costantemente
affermato che l’onerosità del permesso di costruire
costituisce un principio generale. Le eccezioni al suddetto
principio devono, pertanto, essere oggetto di
interpretazione restrittiva, conforme alla ratio
dell’esenzione.
4.3 Va osservato che tutte le ipotesi di riduzione ed
esenzione dall’obbligo contributivo contenute nell’art. 17
DPR 380/2001 sono volte al perseguimento di interessi
generali, di natura solidaristica o di incentivo ad attività
o interventi che abbiano un positivo impatto sull’ambiente.
Non può, pertanto, fare eccezione la causa di esenzione
prevista dalla lettera b (“Il contributo di costruzione
non è dovuto: b) per gli interventi di ristrutturazione e di
ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici
unifamiliari”) che deve essere interpretata in
conformità allo scopo di tutela cui è preposta.
4.4 Il Collegio ritiene di aderire all’orientamento che
riviene la ratio dell’esenzione di cui all’art. 17,
c. 3, lett. b), nella tutela e salvaguardia delle necessità
abitative del nucleo familiare, perseguite attraverso la
gratuità degli interventi funzionali all’adeguamento
dell’immobile ove il nucleo risiede.
La nozione di “edificio unifamiliare” richiamata
dalla norma deve, pertanto, essere intesa nella sua
accezione socio-economica che coincide “con la piccola
proprietà immobiliare” poiché soltanto ove presenti tali
caratteri appare meritevole di un trattamento differenziato
(TAR sez. I, Brescia, 26/04/2018, n. 449 nel medesimo senso
si cfr. anche TAR Toscana, Sez. III, 26.04.2017 n. 616, TAR
Campania, Salerno, Sez. I, 22.06.2015 n. 1416, TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 21.11.2014 n. 2180 e TAR
Lombardia, Milano, Sez. IV, 02.07.2014 n. 1707).
4.5 D’altronde il presupposto del contributo di costruzione,
se per la parte relativa agli oneri di urbanizzazione, è
costituito dalla compartecipazione alle spese che il
maggiore carico urbanistico derivante dall’intervento
genera, per la parte relativa al costo di costruzione, è
correlato all’aumento di valore che consegue all’intervento.
Pertanto, si giustifica la sottrazione all’imposizione
dell’aumento di valore che la famiglia consegue per effetto
della ristrutturazione solo per le finalità di ordine
sociale sopra individuate che, nel caso di specie, tenuto
conto delle dimensioni del fabbricato, del suo pregio
storico-monumentale e della rilevanza dell’intervento, non
ricorrono.
4.6 I principi espressi dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 231/2016, inoltre, sono del tutto inconferenti
rispetto alla fattispecie in esame. La Corte si è
pronunciata sulla legittimità costituzionale di norme di
legge regionale con cui era stata estesa la portata
applicativa delle fattispecie di esenzione previste
dall’art. 17 DPR 380/2001 e si è limitata a valutare se le
suddette disposizioni avessero travalicato i limiti
individuati dalla norma statale di principio e, per tale
via, violato l’art. 117, c. III, Cost. Nulla, invece, ha
affermato sull’interpretazione delle fattispecie di
esenzione.
Inoltre, neppure rileva, ai fini dell’interpretazione della
norma in esame, il riferimento contenuto nella sentenza
all’aumento di carico urbanistico, dovuto alla previsione
normativa costituente il parametro interposto di legittimità
costituzionale, ossia l’art. 17, c. 4, che prevede una
riduzione del contributo per le opere di manutenzione
straordinaria che comportino aumento del carico urbanistico
(all’art. 6, comma 2, lett. a TUE) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della verifica della spettanza del contributo, la
qualificazione dell’intervento effettuata dall’Amministrazione nel permesso
di costruire non è decisiva, dovendo, piuttosto aversi riguardo
all’autentica natura dell’attività edilizia esercitata.
Come confermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
(n. 12/2018) l’obbligazione al pagamento del contributo di costruzione
costituisce, infatti, una prestazione imposta (e precisamente un
corrispettivo di diritto pubblico), che sorge al verificarsi dei presupposti
previsti dalla legge, la quale determina altresì integralmente i suoi
contenuti, secondo lo schema legge-fatto-effetto.
L’Amministrazione, pertanto, poteva, come ha fatto, riqualificare
l’intervento al fine di determinare la debenza e l’entità del contributo
conseguente al rilascio del titolo.
---------------
È vero che una delle componenti del contributo di costruzione è determinata
in relazione agli oneri di urbanizzazione e che, pertanto, per tale parte,
il contributo trova un suo fondamento giustificativo nell’aumento del carico
urbanistico derivante dall’intervento.
È, altresì, vero, tuttavia, che per costante giurisprudenza il contributo di
costruzione non si pone in rapporto sinallagmatico con le opere di
urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo determinato
indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette
opere (C.d.S., Ad. Plen., n. 12/2018). Ciò in quanto il contributo di
costruzione ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario ed a carattere generale.
In linea di principio, pertanto, non può affermarsi che l’assenza di aumento
del carico urbanistico escluda l’obbligo di corrispondere il contributo, ove
la legge il suddetto obbligo imponga in relazione ad un determinato
intervento.
D’altro canto, il contributo di costruzione è costituito anche
dall’ulteriore componente correlata al costo di costruzione, volta a
compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore, che prescinde dall’aumento di carico
urbanistico.
---------------
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 12/2018 –nel
dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità ed i limiti
della riliquidazione del contributo di costruzione determinato al momento
del rilascio del titolo edilizio-, conferma i seguenti principi:
1) l’obbligazione di pagamento del contributo di costruzione ha
natura di corrispettivo di diritto pubblico, i cui presupposti e contenuti
sono definiti interamente dalla legge;
2) il rapporto obbligatorio che ne discende soggiace interamente
alla disciplina civilistica, nonostante la fonte legale da cui promana;
3) dalla natura privatistica del rapporto che s’instaura tra
l’Amministrazione ed il privato deriva che gli atti con i quali
l’Amministrazione determina o riliquida il contributo hanno natura
paritetica;
4) l’Amministrazione può –entro il termine di prescrizione
decennale decorrente dal momento in cui sorge l’obbligazione– esercitare il
diritto di credito che dalla legge deriva, senza i limiti previsti per l’autotutela
per gli atti aventi natura autoritativa, modificando l’importo
originariamente richiesto.
---------------
1. Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione
dell’art. 22, c. 7, DPR 380/2001 e
76 L.R. Veneto n. 61/1985 poiché il
Comune avrebbe richiesto il contributo di costruzione per la realizzazione
di un intervento di restauro e risanamento conservativo che né la legge
statale né quella regionale qualificano come oneroso.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Ai fini della verifica della spettanza del contributo, la qualificazione
dell’intervento effettuata dall’Amministrazione nel permesso di costruire
non è decisiva, dovendo, piuttosto aversi riguardo all’autentica natura
dell’attività edilizia esercitata.
1.2 Come confermato di recente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
(n. 12/2018) l’obbligazione al pagamento del contributo di costruzione
costituisce, infatti, una prestazione imposta (e precisamente un
corrispettivo di diritto pubblico), che sorge al verificarsi dei presupposti
previsti dalla legge, la quale determina altresì integralmente i suoi
contenuti, secondo lo schema legge-fatto-effetto.
1.3 L’Amministrazione, pertanto, poteva, come ha fatto, riqualificare
l’intervento al fine di determinare la debenza e l’entità del contributo
conseguente al rilascio del titolo.
...
5.
È infondato anche il terzo motivo di ricorso con il quale il
ricorrente afferma che, anche a prescindere dall’applicabilità della causa
di esenzione di cui all’art. 17, c. 3, lett. b), il contributo nella specie
non può essere preteso poiché ne difetterebbe il fondamento causale da
rinvenirsi nell’aumento di carico urbanistico derivante dall’intervento.
5.1 L’argomento prova troppo. È vero che una delle componenti del contributo
di costruzione è determinata in relazione agli oneri di urbanizzazione e
che, pertanto, per tale parte, il contributo trova un suo fondamento
giustificativo nell’aumento del carico urbanistico derivante
dall’intervento.
È, altresì, vero, tuttavia, che per costante giurisprudenza il contributo di
costruzione non si pone in rapporto sinallagmatico con le opere di
urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo determinato
indipendentemente sia dall'utilità che il concessionario ritrae dal titolo
edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette
opere (C.d.S., Ad. Plen., n. 12/2018). Ciò in quanto il contributo di
costruzione ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario ed a carattere generale.
5.2 In linea di principio, pertanto, non può affermarsi che l’assenza di
aumento del carico urbanistico escluda l’obbligo di corrispondere il
contributo, ove la legge il suddetto obbligo imponga in relazione ad un
determinato intervento.
5.3 D’altro canto, il contributo di costruzione è costituito anche
dall’ulteriore componente correlata al costo di costruzione, volta a
compensare la c.d. compartecipazione comunale all'incremento di valore della
proprietà immobiliare del costruttore, che prescinde dall’aumento di carico
urbanistico.
5.4 Nella specie, dovendosi, come si è detto, qualificare l’intervento come
di ristrutturazione, il contributo è dovuto, poiché, non ricorrendo alcuna
delle fattispecie per le quali l’art. 76 L.R. Veneto, n. 61/1985 prevede il
rilascio di un’autorizzazione o di una concessione gratuita, trova
applicazione la residuale previsione di cui al n. 4 del comma 1 (concessione
onerosa).
5.5 Conferma dell’onerosità dell’intervento si trae, inoltre, dall’art. 82,
ultimo comma, che, con riferimento al calcolo della componente del
contributo di costruzione correlata agli oneri di urbanizzazione prevede:
“Il contributo commisurato all'incidenza delle spese di urbanizzazione
relativo a interventi di ristrutturazione, ivi compresi gli ampliamenti che
non comportino aumento della superficie utile di calpestio, è pari a quello
calcolato per interventi di nuova edificazione moltiplicato per 0,20.”
Si riferisce agli interventi di ristrutturazione anche l’art. 83, ultimo
comma, L.R. Veneto n. 61/1985, che definisce i criteri di determinazione del
costo di costruzione ai fini della quantificazione del contributo per
particolari interventi di ristrutturazione.
6. Sono, altresì, da rigettare le residue censure che attengono a vizi di
eccesso di potere, difetto di motivazione o che presuppongono la tendenziale
immodificabilità delle determinazioni sul contributo di costruzione assunte
dall’Amministrazione in sede di rilascio del titolo. Esse possono essere
esaminate congiuntamente alla luce dei principi affermati dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato nella citata sentenza n. 12/2018.
6.1 La pronuncia –nel dirimere il contrasto giurisprudenziale circa
l’ammissibilità ed i limiti della riliquidazione del contributo di
costruzione determinato al momento del rilascio del titolo edilizio-
conferma i seguenti principi:
1) l’obbligazione di pagamento del contributo
di costruzione ha natura di corrispettivo di diritto pubblico, i cui
presupposti e contenuti sono definiti interamente dalla legge;
2) il
rapporto obbligatorio che ne discende soggiace interamente alla disciplina civilistica, nonostante la fonte legale da cui promana;
3) dalla natura privatistica del rapporto che s’instaura tra l’Amministrazione ed il privato
deriva che gli atti con i quali l’Amministrazione determina o riliquida il
contributo hanno natura paritetica;
4) l’Amministrazione può –entro il
termine di prescrizione decennale decorrente dal momento in cui sorge
l’obbligazione– esercitare il diritto di credito che dalla legge deriva,
senza i limiti previsti per l’autotutela per gli atti aventi natura
autoritativa, modificando l’importo originariamente richiesto.
6.2 Sulla scorta dei suddetti principi può affermarsi che:
6.3 Sono infondate le censure formulate nella seconda parte del secondo
motivo di ricorso con le quali il ricorrente lamenta la contraddittorietà
tra la richiesta di conguaglio del contributo ed il presupposto dichiarato
nella richiesta di pagamento, ossia che il contributo di costruzione non sia
mai stato richiesto in fase di rilascio del P.d.C. (seconda sub-censura del
secondo motivo) e quelle a mezzo delle quali si contesta l’ammissibilità
della richiesta del contributo per la prima volta a distanza di anni dal
momento del rilascio del titolo.
La natura di diritto soggettivo della pretesa azionata con l’atto impugnato,
consente all’Amministrazione di agire per la riscossione in ogni tempo,
entro il termine di prescrizione decennale. Non essendo previsto alcun
termine di decadenza per la richiesta del contributo, deve ritenersi che
l’Amministrazione possa chiedere anche per la prima volta a distanza di
tempo –purché entro il termine di prescrizione– il pagamento del contributo
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 05.03.2019 n. 289 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Ordine di demolizione delle opere abusive -
Presupposti e limiti di revoca - Incompatibilità con atti
amministrativi o giurisdizionali - Sospensione dell'ordine
di demolizione - Valutazione prognostica.
In materia urbanistica, l'ordine di
demolizione delle opere abusive emesso con la sentenza
penale passata in giudicato può essere revocato
esclusivamente se risulta assolutamente incompatibile con
atti amministrativi o giurisdizionali resi dalla autorità
competente, e che abbiano conferito all'immobile altra
destinazione o abbiano provveduto alla sua sanatoria, mentre
può essere sospeso solo quando sia ragionevolmente
prevedibile, sulla base di elementi concreti, che, nel giro
di brevissimo tempo, sia adottato dall'autorità
amministrativa o giurisdizionale un provvedimento che si
ponga in insanabile contrasto con il detto ordine di
demolizione, non essendo invece sufficiente una mera
possibilità del tutto ipotetica che si potrebbe verificare
in un futuro lontano o comunque entro un tempo non
prevedibile ed in particolare la semplice pendenza della
procedura amministrativa o giurisdizionale, in difetto di
ulteriori concomitanti elementi che consentano di fondare
positivamente la valutazione prognostica.
...
Abusi edilizi - Ordine demolizione delle opere abusive -
Domanda in sanatoria - Revoca o sospensione dell’ordine di
demolizione - Poteri del giudice dell’esecuzione - Artt. 31,
41, 44, D.P.R. n. 380/2001.
In tema di reati edilizi ai fini della
revoca o sospensione dell'ordine di demolizione delle opere
abusive in presenza di una istanza di condono o di
sanatoria, il giudice dell'esecuzione investito della
questione è tenuto ad una attenta disamina dei possibili
esiti e tempi di definizione della procedura ed in
particolare ad accertare il possibile risultato dell'istanza
e se esistono cause ostative al suo accoglimento, e nel caso
di insussistenza di tali cause a valutare i tempi di
definizione del procedimento amministrativo e sospendere
l'esecuzione solo in prospettiva di un rapido esaurimento
dello stesso
(Cass. Sez. 3, n. 6530/2013) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 04.03.2019 n. 9210 - link a www.ambientediritto.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Revoca
di assessore.
La nomina degli Assessori, prevista dal
comma secondo dell'art. 46 del TUEL, si basa
su un vincolo di fiducia tra il Sindaco e la
Giunta, non richiedendosi alcuna motivazione
in ordine alle ragioni della scelta
compiuta, ma soltanto la comunicazione al
Consiglio nella prima seduta successiva
all'elezione.
Conseguentemente, analoga
natura va riconosciuta al contrarius actus
della revoca, ex art. 46, c. 4 cit., che si
fonda proprio sul venir meno dell'intuitu
personae, come atto simmetricamente negativo
alla nomina.
In conclusione, poiché la
nomina e la revoca degli assessori comunali
dipendono esclusivamente dall'esistenza di
un rapporto fiduciario con il Sindaco, detti
provvedimenti possono sorreggersi sulle più
ampie valutazioni di opportunità politico
amministrativa, tra cui l'affievolirsi del
rapporto fiduciario, senza che occorra
invece specificare i singoli comportamenti
addebitati all'interessato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 04.03.2019 n. 453 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Osserva il Collegio che, secondo quanto
evidenziato nel provvedimento impugnato,
“nel corso del mandato è oggettivamente
venuto meno il rapporto fiduciario e collaborativo” con l’attuale ricorrente, e
conseguentemente, “le condizioni per la
permanenza dello stesso nella carica e nelle
sue funzioni”, ciò che, secondo l’istante,
sostanzialmente, costituirebbe una
motivazione insufficiente.
Il ricorso va respinto, come recentemente
statuito dal Tribunale in una fattispecie
analoga a quella per cui è causa (TAR
Lombardia, Brescia, Sez. I, 29.05.2018 n.
525), non ravvedendosi ragioni per
discostarsi dalla stessa.
La nomina degli Assessori prevista dal comma
secondo dell'art. 46 del TUEL, si basa
infatti su un vincolo di fiducia tra il
Sindaco e la Giunta, non richiedendosi
alcuna motivazione in ordine alle ragioni
della scelta compiuta, ma soltanto la
comunicazione al Consiglio nella prima
seduta successiva all'elezione.
Conseguentemente, analoga natura va
riconosciuta al contrarius actus della
revoca, ex art. 46, c. 4, cit., che si fonda
proprio sul venir meno dell'intuitu personae,
come atto simmetricamente negativo alla
nomina (C.S., Sez. I, 24.12.2013 n. 4970,
TAR Abruzzo, L'Aquila, 11.02.2010 n. 74).
In conclusione, poiché la nomina e la revoca
degli assessori comunali dipendono
esclusivamente dall'esistenza di un rapporto
fiduciario con il Sindaco (TAR Lazio,
Roma, Sez. II-bis, 28.11.2016 n. 11870),
detti provvedimenti possono sorreggersi
sulle più ampie valutazioni di opportunità
politico amministrativa, tra cui
l'affievolirsi del rapporto fiduciario, come
ha avuto luogo nel caso di specie, senza che
occorra invece specificare, come
erroneamente sostenuto dall’istante, i
singoli comportamenti addebitati
all'interessato (C.S., Sez. V, 19.01.2017 n.
215, C.G.A. Sicilia, 01.06.2015 n. 594),
dovendosi pertanto respingere il presente
ricorso. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI – Gestione – Politiche comunitarie – Cd. società del
riciclaggio – Artt. 177 e 179 d.lgs. n. 152/2006 – Gerarchia
dei rifiuti – Scelta ultima e residuale del conferimento in
discarica – Economia circolare – Direttive 2018/849/UE,
2018/850/UE, 2018/851/UE e 2018/852UE.
Le politiche comunitarie in tema di
rifiuti hanno per obiettivo la realizzazione di una c.d.
società del riciclaggio.
In coerenza, l’art. 177, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006
prevede che la gestione dei rifiuti non debba produrre
inquinamento, non debba arrecare danno alla salute umana, o
all’ambiente e non debba arrecare nocumento al paesaggio o
ai siti di particolare interesse e il novellato art. 179
(come modificato dal d.lgs. n. 4 del 2008 prima e dal d.lgs.
n. 205 del 2010 poi) stabilisce expressis verbis la
gerarchia dei rifiuti, intesa come “ordine di priorità”
nella politica e nell’attività di gestione dei rifiuti, che
vede come opzioni da seguire nell’ordine:
a) la prevenzione, intesa come insieme di misure volte ad impedire
la produzione di rifiuti;
b) la preparazione per il riutilizzo, definita come operazione di
controllo, pulizia e riparazione, che permette il riutilizzo
del bene;
c) il riciclaggio, ovvero quella particolare forma di recupero
attraverso il trattamento con tecniche appropriate per
ottenere altri prodotti o materiali;
d) il recupero di altro tipo, come ad esempio avviene con le
tecniche di recupero per produrre energia e l’utilizzo del
rifiuto pretrattato come combustibile, e, solo in ultimo,
e) lo smaltimento, che a sua volta può avvenire, secondo due
modalità principali. La prima è costituita
dall’incenerimento, la seconda (residuale) dal conferimento
a discarica.
Peraltro, a seguito della comunicazione COM (2015) 617 final
della Commissione europea del 02.12.2015 e, soprattutto, a
seguito delle recenti quattro direttive 2018/849/UE,
2018/850/UE (specifica in materia di discariche),
2018/851/UE e 2018/852UE è stata adottata la nuova strategia
europea in tema ambientale della c.d. economia circolare,
che considera gli oggetti e le sostanze residue del processo
produttivo non beni da distruggere, bensì beni da
riutilizzare in un nuovo processo, assegnando la qualifica
di “rifiuto” a quei residui dell’attività di produzione che
non siano altrimenti impiegabili per impossibilità
tecnico-economica. Il conferimento in discarica dei rifiuti
costituisce, per quanto detto, la scelta ultima e residuale,
ossia di extrema ratio, per il trattamento dei rifiuti.
Infatti, il ricorso a discarica non comporta alcuna
valorizzazione del rifiuto e implica, secondo la stessa
normativa (art. 1 d.lgs. n. 36/2003), potenziali rischi di
contaminazione per l’ambiente, come si evince anche dal dato
empirico, che ha condotto la Corte di giustizia U.E., a
sanzionare l’Italia con le sentenze 26.04.2007 (C-135/05) e
02.12.2014 (C-196/13).
...
RIFIUTI – Realizzazione di discariche nel territorio –
Attività di pianificazione e programmazione degli interventi
– Iter autorizzatorio - Art. 208 d.lgs. n. 152/2006.
La realizzazione di discariche nel
territorio comporta non solo la necessità di realizzare
progetti assistiti da una serie di misure di cautela, volte
a scongiurare pericoli di inquinamento, ma richiede anche
un’attenta attività di pianificazione del territorio e di
programmazione degli interventi, in modo tale da poter
ubicare le discariche da realizzarsi, come ultima opzione
del sistema del trattamento dei rifiuti, in sicurezza e in
luoghi confacenti.
In base all’art. 208, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006, i
soggetti che intendono realizzare e gestire impianti di
smaltimento o di recupero di rifiuti devono presentare
un’apposita domanda alla regione competente, allegando un
progetto definitivo e la documentazione tecnica relativa
alla realizzazione dell’impianto coerente con le
disposizioni in materia urbanistica, ambientale, della
salute, sicurezza sul lavoro e igiene pubblica.
Ai sensi dell’art. 208, comma 3, la regione indice poi una
conferenza di servizi, al fine di acquisire tutti i
documenti, informazioni e chiarimenti dai soggetti
coinvolti.
A seguito delle risultanze della conferenza, la regione
autorizza o meno l’impianto. L’approvazione costituisce, ove
occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la
dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed
indifferibilità (art. 208, comma 6, del d.lgs. n. 152 del
2006).
...
VIA, VAS E AIA – RIFIUTI – Impianto ed esercizio di
un’installazione di trattamento dei rifiuti - Autorizzazione
integrata ambientale – Nozione – Autorizzazione costitutiva
– Discrezionalità mista – Destinatario del provvedimento –
Semplificazione del modulo procedimentale – Considerazione
unitaria di tutti i fattori ambientali rilevanti – Attività
pianificatoria e programmatoria delle autorità pubbliche
preposte.
L’autorizzazione integrata ambientale
(c.d. A.I.A.), ai sensi dell’art. 5, comma 1, lett. o-bis),
del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, è quel peculiare
provvedimento, che, nell’ottica del perseguimento di un
elevato livello di tutela ambientale (art. 191 del T.F.U.E.),
permette l’impianto e l’esercizio di una “installazione” di
trattamento dei rifiuti, con prescrizioni idonee a
prevenire, evitare o contenere al massimo emissioni
inquinanti nell’aria, nell’acqua e nel suolo, secondo le
migliori tecnologie disponibili (c.d. best available
techniques), pur sempre nell’ambito della pianificazione
strategica e della programmazione operativa, predisposta
dall’amministrazione regionale (artt. 179-180 del d.lgs. n.
152), inerente alla gestione dei rifiuti, quale attività di
pubblico interesse (art. 178, comma 1, del d.lgs. n. 152),
secondo la “gerarchia” (art. 179, commi 1-2, del d.lgs. n.
152), in conformità alla legge ed al diritto U.E., nel
trattamento dei rifiuti.
Più specificamente l’A.I.A. si connota come una tipica
autorizzazione costitutiva, in quanto è “concessa” per un
tempo prestabilito (art. 208, comma 12, d.lgs. n 152) e
dunque non sussiste in capo al destinatario alcun
precostituito diritto ad ottenerla: può essere rilasciata
solo dopo che la pubblica amministrazione abbia valutato
discrezionalmente i vari interessi pubblici rilevanti, che
vengono in evidenza nel corso dell’iter procedimentale,
soprattutto con riferimento alla strategia di fondo
(aderente alle disposizioni U.E.) prescelta in materia di
gestione dei rifiuti e accolta dalla P.A. competente (art.
179, commi 1, 2 e 5; art. 180 del d.lgs. n. 152).
L’autorizzazione viene rilasciata nell’esercizio di una
discrezionalità mista, che implica tanto apprezzamenti
tecnici, quanto valutazioni di opportunità, e coinvolge una
pluralità di amministrazioni od organismi sia prettamente
tecnici (A.R.P.A., A.S.L., Comitato tecnico V.I.A.), sia
preposte alla tutela paesaggistico-culturale (Soprintendenza
competente del Ministero dei beni culturali), che ancora
enti esponenziali della collettività (regioni, province,
comuni). Destinatario del provvedimento è il gestore
ambientale proponente, ossia un soggetto abilitato dalla
legge al servizio di pubblico interesse dello smaltimento
dei rifiuti (art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006).
L’A.I.A. è il provvedimento finale di un procedimento
amministrativo complesso, che tramite il modello di
coordinamento della conferenza dei servizi, effettua la
valutazione di impatto ambientale (c.d. V.I.A.), ossia
procede a ponderare, nel processo della gestione dei
rifiuti, gli interessi pubblici secondari e gli interessi
privati, in ordine al perseguimento dell’interesse pubblico
primario al corretto smaltimento dei residui delle attività
antropiche, in modo economico, efficiente ed efficace, senza
però nuocere all’ambiente.
L’A.I.A. dunque considera in modo combinato ogni fattore
potenziale di inquinamento, evitando le tradizionali
distinzioni settoriali (aria, acqua, suolo, rifiuti,
rumore), e s’inserisce nel solco della tendenza
dell’evoluzione del quadro normativo in materia ambientale
improntato alla semplificazione del modulo procedimentale e
alla considerazione unitaria di tutti i fattori ambientali
rilevanti nella fattispecie. Pertanto, l’attività di
discarica non costituisce un’attività libera, bensì
un’attività, riservata a soggetti muniti di predeterminati
requisiti, che assume un rilevante pubblico interesse e
viene “concessa” (art. 208, comma 12, d.lgs. n. 152 del
2006) al gestore ambientale, con un’autorizzazione
costitutiva, a fronte della presentazione di una domanda,
con il corredato progetto definitivo, che si colloca però
all’interno di un’attività pianificatoria e programmatoria
delle autorità pubbliche preposte, che individua specifiche
esigenze e criteri.
...
RIFIUTI – Art. 208 d.lgs. n. 152/2006 – Soggetto promotore –
Presentazione di un progetto definitivo – Imposizione di
plurime prescrizioni – Equivalenza ad un atto di diniego.
L’art. 208, comma 1, del d.lgs n. 152
del 2006 prevede che il soggetto promotore l’attivazione di
una discarica debba presentare un progetto definitivo (e non
già un progetto preliminare, o di massima); ne consegue che
l’imposizione una rilevante quantità di prescrizioni (nella
specie, volte peraltro alla riprogettazione pressoché
integrale dell’impianto discarica) equivale sostanzialmente
ad un atto di diniego.
...
RIFIUTI – Art. 208, c. 6, d.lgs. n. 152/2006 – Effetto di
variante urbanistica – Presupposti – Regione Puglia – Delega
dell’attività istruttoria e di assenso alla realizzazione
delle discariche – Esclusione del potere di variante.
Il c.d. effetto di variante urbanistica
previsto dall’art. 208, comma 6, del d.lgs. n. 152/2006
consiste in una formula di semplificazione, che ovviamente è
possibile in presenza dell’assenso dell’autorità competente
e non già in suo dissenso. Peraltro, in Puglia l’art. 5
della legge regionale 03.10.1986 n. 30, poi ribadita
dall’art. 6 della legge regionale 14.06.2007 n. 17, ha
“delegato” l’attività istruttoria e di assenso alla
realizzazione delle discariche alle Province, con esclusione
del potere di variante urbanistica”, come già accertato in
giurisprudenza (Cons.
St., sez. IV, 28.08.2018 n. 5065).
L’art. 4 della legge regionale 31.12.2009
n. 36 ha confermato la delega, stabilendo all’art. 2
(Principi e obiettivi), comma 3, lett. b), della stessa
legge che è precipuo obiettivo della Regione Puglia quello
di “ridurre drasticamente lo smaltimento dei rifiuti urbani
in discarica promuovendo sistemi di raccolta che
privilegiano la separazione dei rifiuti a monte”. Delega
precisata da ultimo dall’art. 1 della legge reg. 12.02.2014
n. 3.
...
RIFIUTI – Atto di assenso all’apertura di una discarica –
Natura.
L’atto di assenso all’apertura di una
discarica ha natura di autorizzazione costitutiva, in quanto
provvedimento, che si inserisce in un quadro di
pianificazione e di programmazione dell’attività di gestione
dei rifiuti, avente un rilievo di pubblico interesse, che
genera un rapporto giuridico di stretto controllo tra
amministrazione e beneficiario. Infatti, l’autorizzazione
integrata ambientale è “concessa” ed è temporalmente
limitata a dieci anni, salvo proroga (art. 208, comma 12,
d.lgs n. 152).
Le condizioni (c.d. prescrizioni) di esercizio, imposte
nell’atto di assenso, possono essere sempre modificate,
prima del termine di scadenza (ma, dopo almeno cinque anni
dal rilascio), nel caso di condizioni di criticità
ambientale, tenendo conto dell’evoluzione delle migliori
tecnologie disponibili e nel rispetto delle garanzie
procedimentali.
Inoltre, ferma restando l’applicazione di specifiche misure
repressive e sanzionatorie, in caso di inosservanza dei
contenuti dell’autorizzazione, l’autorità competente può
procedere, secondo la gravità dell’infrazione: a) alla
diffida, stabilendo un termine entro il quale devono essere
eliminate le inosservanze; b)alla diffida e contestuale
sospensione dell’atto di assenso per un tempo determinato,
ove si manifestino situazioni di pericolo per la salute
pubblica e per l’ambiente; c) alla revoca-decadenza, in caso
di mancato adeguamento alle prescrizioni imposte con la
diffida e in caso di reiterate violazioni che determinino
situazione di pericolo per la salute pubblica e per
l’ambiente.
La realizzazione di una discarica è quindi un’attività di
eminente pubblico interesse, in ordine alla quale non
sussiste un diritto precostituito all’esercizio in capo al
gestore ambientale, bensì un interesse alla legittimità
degli atti dell’amministrazione, nella misura in cui
l’attività di discarica sia contemplata come attività utile
e necessaria, nell’ambito della programmazione della
gestione dei rifiuti, quale invero ultima ipotesi rispetto
alla vigente implementazione dei parametri della vigente
società del riciclaggio contemplata dalla direttiva U.E.
2008 (attuata dal d.lgs. 03.12.2010 n. 205), che sarà
abbinata alla strategia della economia circolare introdotta
dalle direttive U.E. 2018 (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 04.03.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Sub-procedimento
di verifica dell’anomalia dell'offerta.
Nell'ambito del
sub-procedimento di verifica dell'anomalia
dell'offerta, l’impresa aggiudicataria può
rimodulare le quantificazioni dei costi e
dell’utile, purché non ne risulti una
modifica degli elementi compositivi tale da
pervenire ad un aliud pro alio rispetto a
quanto inizialmente offerto.
Nell’ambito del contraddittorio, a fronte
dell’immodificabilità dell’offerta sono
tuttavia modificabili le relative
giustificazioni e in particolare sono
consentite giustificazioni sopravvenute e
compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione e
a tale momento dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez I,
sentenza 04.03.2019 n. 212 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
5.3 In linea generale, per orientamento
pacifico, nel
sub-procedimento di verifica dell’anomalia
l’impresa aggiudicataria può rimodulare le
quantificazioni dei costi e dell’utile,
purché non ne risulti una modifica degli
elementi compositivi tale da pervenire ad un
aliud pro alio rispetto a quanto
inizialmente offerto
(TAR Lazio Roma, sez. II – 18/05/2017 n.
5899).
Come ha chiarito il Consiglio di Stato, sez.
V – 22/05/2015 n. 2581,
nell’ambito del contraddittorio, a fronte
dell’immodificabilità dell’offerta sono
tuttavia modificabili le relative
giustificazioni, ed in particolare sono
consentite giustificazioni sopravvenute e
compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione e
a tale momento dia garanzia di una seria
esecuzione del contratto.
La sentenza evocata ha altresì puntualizzato
che <<questo collegio reputa di dovere
dare continuità a tale indirizzo, il quale
si fonda su un dato inoppugnabile, e cioè
sul fatto che la
formulazione di un’offerta economica e la
conseguente verifica di anomalia
dell’offerta si fondano su stime
previsionali e dunque su apprezzamenti e
valutazioni implicanti un ineliminabile
margine di opinabilità ed elasticità,
essendo conseguentemente impossibile
pretendere una rigorosa quantificazione
preventiva delle grandezze delle voci di
costo rivenienti dall’esecuzione futura di
un contratto, ed essendo per contro
sufficiente che questa si mostri ex ante
ragionevole ed attendibile …. ed infatti,
questo Consiglio di Stato ha anche definito
il limite a questa modifica “interna” di
voci di costo, precludendo la possibilità di
rimodulare voci in assenza di qualsiasi
plausibile spiegazione «con un'operazione di
finanza creativa priva di pezze d'appoggio,
al solo scopo di ‘far quadrare i conti’
ossia di assicurarsi che il prezzo
complessivo offerto resti immutato e si
superino le contestazioni sollevate dalla
stazione appaltante su alcune voci di costo»
(Sez. VI, 20.09.2013, n. 4676; in termini,
Sez. V, 02.07.2012, n. 3850; Sez. VI,
07.02.2012, n. 636)>>.
Secondo il Consiglio di Stato, sez. V –
24/04/2017 n. 1896, le
rettifiche e le compensazioni incontrano il
limite del divieto di una radicale
modificazione della composizione
dell’offerta (da intendersi preclusa), che
ne alteri l’equilibrio economico (allocando
diversamente rilevanti voci di costo nella
sola fase delle giustificazioni).
Diversamente opinando,
secondo i giudici d’appello,
si perverrebbe all’inaccettabile
conseguenza di consentire un'indiscriminata
ed arbitraria modifica postuma della
composizione dell’offerta economica (nella
fase del controllo dell’anomalia), con il
solo limite del rispetto del saldo
complessivo, il che si porrebbe in contrasto
con le esigenze conoscitive, da parte della
stazione appaltante, della sua struttura di
costi, e, segnatamente, degli interessi
sottesi alla specifica individuazione degli
oneri di sicurezza aziendale (la cui
necessaria integrità viene espressamente
sancita dall'art. 87, comma 4, d.lgs. cit.),
che resterebbero in tal modo
irrimediabilmente vanificati.
Si finirebbe, in tal modo,
per snaturare completamente la funzione e i
caratteri del sub-procedimento di anomalia,
trasformando inammissibilmente le
giustificazioni, che, nella disciplina
legislativa di riferimento, servono a
chiarire le ragioni della serietà e della
congruità dell'offerta economica, in
occasione, secundum eventum, per una
sua libera rimodulazione, per mezzo di una
scomposizione e di una diversa
ricomposizione delle sue voci di costo (per
come dettagliate nella domanda di
partecipazione originaria), che
implicherebbe, peraltro (oltre ad una
evidente lesione delle esigenze di stabilità
ed affidabilità dell’offerta), anche una
violazione della par condicio tra i
concorrenti. |
APPALTI: Il
Piano Economico Finanziario (PEF) è lo
strumento volto a dimostrare la concreta
capacità del concorrente di correttamente
eseguire la prestazione per l’intero arco
temporale prescelto attraverso la
responsabile prospettazione di un equilibrio
economico–finanziario di investimenti e
connessa gestione, nonché il rendimento per
l’intero periodo: il che consente
all’Amministrazione concedente di valutare
l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva
realizzabilità dell’oggetto della
concessione stessa.
Il Piano Economico-Finanziario è, dunque, un
documento che giustifica la sostenibilità
dell’offerta e non si sostituisce a questa
ma ne rappresenta un supporto per la
valutazione di congruità, per provare che
l’impresa va a trarre utili tali da
consentire la gestione proficua
dell’attività.
Sicché il Piano Economico-Finanziario non
può essere tenuto separato dall’offerta in
senso stretto; in realtà, esso rappresenta
un elemento significativo della proposta
contrattuale perché dà modo
all’Amministrazione di apprezzare la
congruenza e dunque l’affidabilità della
sintesi finanziaria contenuta nell’offerta
in senso stretto, con la conseguenza che ben
può un vizio intrinseco del Piano
Economico-Finanziario riflettersi fatalmente
sulla qualità dell’offerta medesima ed
inficiarla.
---------------
5.4 Con particolare riguardo al Piano
Economico Finanziario (PEF), si tratta dello
strumento “volto a dimostrare la concreta
capacità del concorrente di correttamente
eseguire la prestazione per l’intero arco
temporale prescelto attraverso la
responsabile prospettazione di un equilibrio
economico–finanziario di investimenti e
connessa gestione, nonché il rendimento per
l’intero periodo: il che consente
all’Amministrazione concedente di valutare
l’adeguatezza dell’offerta e l’effettiva
realizzabilità dell’oggetto della
concessione stessa. Il Piano
Economico-Finanziario è, dunque, un
documento che giustifica la sostenibilità
dell’offerta e non si sostituisce a questa
ma ne rappresenta un supporto per la
valutazione di congruità, per provare che
l’impresa va a trarre utili tali da
consentire la gestione proficua
dell’attività. Sicché il Piano
Economico-Finanziario non può essere tenuto
separato dall’offerta in senso stretto; in
realtà, esso rappresenta un elemento
significativo della proposta contrattuale
perché dà modo all’Amministrazione di
apprezzare la congruenza e dunque
l’affidabilità della sintesi finanziaria
contenuta nell’offerta in senso stretto, con
la conseguenza che ben può un vizio
intrinseco del Piano Economico-Finanziario
riflettersi fatalmente sulla qualità
dell’offerta medesima ed inficiarla” (cfr.
TAR Veneto, sez. I – 07/02/2019 n. 182, che
richiama TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I –
15/11/2018 n. 350; TAR Liguria, sez. I –
17/10/2018 n. 826; Consiglio di Stato, sez.
V – 13/04/2018 n. 2214). (TAR
Lombardia-Brescia, Sez I,
sentenza 04.03.2019 n. 212 -
link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualificazione dell'opera edilizia oggetto di concessione
va desunta non solo dal titolo assentito, ma anche dalla
domanda presentata dal richiedente.
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La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento
indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed
architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire.
Ora, la rilevazione della preesistenza ai fini
dell'intervento ricostruttivo non può non ancorarsi alla
situazione di fatto esistente alla data di presentazione
dell'istanza di edificazione, laddove il
fabbricato di cui si tratta aveva connotazioni tipologiche
di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra
(vedasi documentazione fotografica allegata dal Comune) da ristrutturare ed ampliare, come del resto risulta
evidente dai pareri espressi a diversi fini (paesaggistici,
sicurezza sismica) emessi dalle altre Amministrazioni
coinvolte.
E’ del tutto evidente, quindi, che il Comune non era
chiamato a valutare la conformità alla normativa edilizia ed
urbanistica di un nuovo edificio, quanto a valutare se la
domanda del privato, nei termini in cui essa era stata
formulata, era compatibile con gli strumenti edilizi
vigenti, a prescindere dal nomen iuris formalmente
impiegato nel provvedimento di rilascio del titolo.
---------------
10. Con il primo motivo di ricorso le ricorrenti
lamentano la difformità tra l’intervento oggetto della
domanda di permesso di costruire (“progetto per la
ristrutturazione ed ampliamento di un fabbricato praticabile
ma non abitabile destinato a civile abitazione”)
rispetto a quello assentito (“realizzazione di un
fabbricato in c.a. ad un piano f.t. e sottotetto non
abitabile ma calpestabile da adibire a civile abitazione”),
deducendone, per ciò solo, l’illegittimità.
La censura non può essere positivamente apprezzata.
La qualificazione dell'opera edilizia oggetto di concessione
va desunta non solo dal titolo assentito, ma anche dalla
domanda presentata dal richiedente (cfr. TAR Sardegna
27.10.2003 n. 1299) che, nel caso concreto, si riferisce
testualmente alla ristrutturazione e all’ampliamento di un
fabbricato già esistente e sanato dal Comune di Scilla nel
2006.
La ristrutturazione edilizia presuppone come elemento
indispensabile la preesistenza del fabbricato nella
consistenza e con le caratteristiche planivolumetriche ed
architettoniche proprie del manufatto che si vuole
ricostruire (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2006 n. 5375).
Ora, la rilevazione della preesistenza ai fini
dell'intervento ricostruttivo non può non ancorarsi alla
situazione di fatto esistente alla data di presentazione
dell'istanza di edificazione (14.09.2007), laddove il
fabbricato di cui si tratta aveva connotazioni tipologiche
di un manufatto costituito da un solo piano fuori terra
(vedasi documentazione fotografica allegata dal Comune di
Scilla) da ristrutturare ed ampliare, come del resto risulta
evidente dai pareri espressi a diversi fini (paesaggistici,
sicurezza sismica) emessi dalle altre Amministrazioni
coinvolte.
E’ del tutto evidente, quindi, che il Comune non era
chiamato a valutare la conformità alla normativa edilizia ed
urbanistica di un nuovo edificio, quanto a valutare se la
domanda del privato, nei termini in cui essa era stata
formulata, era compatibile con gli strumenti edilizi
vigenti, a prescindere dal nomen iuris formalmente
impiegato nel provvedimento di rilascio del titolo.
In ogni caso, il mezzo è irrilevante poiché l’intervento
edilizio richiesto presuppone necessariamente la formazione
di un titolo espresso (permesso di costruire) (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, l’art. 9 del d.m. 02.04.1968 n. 1444, nel dare attuazione
all’art. 17 della legge n. 765 del 1967, fissa i limiti
inderogabili di distanza tra fabbricati e, nell’ambito di
detti limiti,a tutela non del diritto alla riservatezza
bensì di imperative esigenze igienico-sanitarie
salvaguardate con un divieto volto ad impedire la formazione
di intercapedini nocive, prevede un distacco minimo di dieci
metri nei casi in cui almeno uno dei due muri che si
fronteggiano risulti munito di finestre, restando
espressamente sottratte ad un simile impedimento, di
carattere assoluto, solo le costruzioni situate in zona A
(nel caso di specie ci troviamo in zona B4 residenziale) e i
“…gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Trattandosi di disposizione tassativa ed inderogabile, essa
impone al proprietario dell’area confinante con quella in
cui sorge una parete finestrata di costruire il proprio
edificio ad almeno dieci metri dalla parete altrui, senza
possibilità di dispensa dal divieto, neppure se la nuova
costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella delle finestre antistanti e a distanza
dalla soglia di esse conforme alle previsioni dell’art. 907,
comma 3, c.c..
Il distacco di dieci metri, che prescinde dall’altezza degli
edifici interessati,va calcolato con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano ed inoltre a tutte le pareti finestrate e non
solo a quella principale, indipendentemente anche dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela, purché ne
sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento di una o
di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro sia
pure per quel limitato segmento.
La conseguenza è che assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi –anche accessori–,qualunque ne sia la funzione,
sempre che abbiano i caratteri della solidità, della
stabilità e dell’immobilizzazione,e con la sola eccezione di
sporti o aggetti di modeste dimensioni e con una finalità
meramente decorativa e di rifinitura, tali cioè da potersi
definire di entità trascurabile rispetto all’interesse
tutelato dalla norma nella sua funzione di salvaguardia
della salubrità, dell’igiene e della sicurezza.
Per derivare, poi, da fonte normativa statuale, la
prescrizione si presenta sovraordinata rispetto alle
disposizioni degli strumenti urbanistici locali ed
immediatamente rilevante nei rapporti tra Amministrazione e
privati e nei rapporti tra privati, nel senso che occorre
disapplicare le eventuali previsioni locali difformi e
considerare comunque efficace la norma di cui all’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, divenuta –per inserzione automatica–
parte integrante dello strumento urbanistico, anche in
sostituzione delle previsioni illegittime; pertanto, le
Amministrazioni comunali, pur quando non abbiano conformato
i propri strumenti urbanistici alle regole fissate a livello
statale, sono obbligate ad attenersi a quella normativa, la
quale in ogni caso prevale sulla contrastante disciplina
locale.
---------------
Qualsiasi corpo di fabbrica avente i caratteri della
solidità, della stabilità e dell’immobilizzazione, e che non
sia di dimensioni così ridotte da risultare del tutto
inidoneo a dare luogo alla formazione di intercapedini
potenzialmente nocive sotto il profilo igienico-sanitario, è
tenuto a rispettare
la distanza di dieci metri
dal più vicino muro finestrato,
indipendentemente dalla destinazione d’uso che gli venga
attribuita.
---------------
9. Il terzo motivo è invece fondato.
9.1. La questione sottoposta al vaglio del Collegio riguarda
l’ammissibilità dell’ubicazione del manufatto, oggetto del
contestato permesso di costruire, ad una distanza inferiore
a dieci metri dalla parete finestrata delle ricorrenti.
A fondamento della loro doglianza, in particolare, le
interessate invocano il disposto dell’art. 9 del d.m.
02.04.1968 n. 1444 (“…è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e
pareti di edifici antistanti …”), che assumono nella
circostanza violato.
Come è noto (v.,ex multis, Cass. civ., Sez. II,
22.04.2008 n. 10387, 03.03.2008 n. 5741 e 28.09.2007 n.
20574; Cons. St. Sez. IV, 27.10.2011 n. 5759 e 02.11.2010 n.
7731; TAR Abruzzo, Pescara, 03.07.2012 n. 328; TAR Puglia,
Bari, Sez. III, 22.06.2012 n. 1235), la norma di cui le
ricorrenti lamentano l’inosservanza, nel dare attuazione
all’art. 17 della legge n. 765 del 1967, fissa i limiti
inderogabili di distanza tra fabbricati e, nell’ambito di
detti limiti,a tutela non del diritto alla riservatezza
bensì di imperative esigenze igienico-sanitarie
salvaguardate con un divieto volto ad impedire la formazione
di intercapedini nocive, prevede un distacco minimo di dieci
metri nei casi in cui almeno uno dei due muri che si
fronteggiano risulti munito di finestre, restando
espressamente sottratte ad un simile impedimento, di
carattere assoluto, solo le costruzioni situate in zona A
(nel caso di specie ci troviamo in zona B4 residenziale) e i
“…gruppi di edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con
previsioni planovolumetriche”.
Trattandosi di disposizione tassativa ed inderogabile, essa
impone al proprietario dell’area confinante con quella in
cui sorge una parete finestrata di costruire il proprio
edificio ad almeno dieci metri dalla parete altrui, senza
possibilità di dispensa dal divieto, neppure se la nuova
costruzione sia destinata ad essere mantenuta ad una quota
inferiore a quella delle finestre antistanti e a distanza
dalla soglia di esse conforme alle previsioni dell’art. 907,
comma 3, c.c..
Il distacco di dieci metri, che prescinde dall’altezza degli
edifici interessati,va calcolato con riferimento ad ogni
punto dei fabbricati e non alle sole parti che si
fronteggiano ed inoltre a tutte le pareti finestrate e non
solo a quella principale, indipendentemente anche dal fatto
che esse siano o meno in posizione parallela, purché ne
sussista almeno un segmento tale che l’avanzamento di una o
di entrambe le facciate medesime porti al loro incontro sia
pure per quel limitato segmento.
La conseguenza è che assumono rilievo tutti gli elementi
costruttivi –anche accessori–,qualunque ne sia la funzione,
sempre che abbiano i caratteri della solidità, della
stabilità e dell’immobilizzazione,e con la sola eccezione di
sporti o aggetti di modeste dimensioni e con una finalità
meramente decorativa e di rifinitura, tali cioè da potersi
definire di entità trascurabile rispetto all’interesse
tutelato dalla norma nella sua funzione di salvaguardia
della salubrità, dell’igiene e della sicurezza.
9.2. Per derivare, poi, da fonte normativa statuale, la
prescrizione si presenta sovraordinata rispetto alle
disposizioni degli strumenti urbanistici locali ed
immediatamente rilevante nei rapporti tra Amministrazione e
privati e nei rapporti tra privati, nel senso che occorre
disapplicare le eventuali previsioni locali difformi e
considerare comunque efficace la norma di cui all’art. 9 del
d.m. n. 1444/1968, divenuta –per inserzione automatica–
parte integrante dello strumento urbanistico, anche in
sostituzione delle previsioni illegittime; pertanto, le
Amministrazioni comunali, pur quando non abbiano conformato
i propri strumenti urbanistici alle regole fissate a livello
statale, sono obbligate ad attenersi a quella normativa, la
quale in ogni caso prevale sulla contrastante disciplina
locale.
...
Il distacco di dieci metri, come detto, va poi
effettivamente calcolato in relazione ad ogni punto dei
fabbricati che qui, coincidendo progettualmente con il
vertice basso della copertura della sopraelevazione del
fabbricato De Gi., misura m. 4,55 rispetto alla parete di
proprietà Ch. (e non m. 11,70 come sarebbe prendendo
come punto di riferimento il vertice alto della copertura).
Ciò posto, la circostanza che il manufatto del sig. De
Gi. non rispetti la distanza di dieci metri dal muro finestrato delle ricorrenti rende illegittimo l’intervento
edilizio oggetto della controversia, anche a prescindere
dalla eventuale disciplina contenuta nel piano regolatore
comunale.
Né rileva il carattere di volume tecnico del nuovo locale,
in quanto –come si è visto– qualsiasi corpo di fabbrica
avente i caratteri della solidità, della stabilità e
dell’immobilizzazione, e che non sia di dimensioni così
ridotte da risultare del tutto inidoneo a dare luogo alla
formazione di intercapedini potenzialmente nocive sotto il
profilo igienico-sanitario, è tenuto a rispettare il divieto
in questione, indipendentemente dalla destinazione d’uso che
gli venga attribuita.
Di qui la fondatezza della censura e il conseguente
annullamento degli atti impugnati (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Laddove il “sottotetto” è dotato di una finestra circolare
quest'ultima è normalmente incompatibile con la natura di volume
tecnico di un manufatto, definito come volume che, per
altezza, dimensioni e dotazioni, è necessariamente destinato
ad ospitare impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio,
televisivo, di parafulmine, di ventilazione),aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione
degli immobili e che non possono essere sistemati
all’interno della parte abitativa.
Non rientrano, pertanto, nella nozione di volume tecnico i
vani utilizzati come stenditoi, soffitte o locali di
sgombero, né tanto meno i locali che risultino agevolmente
adattabili ad uso abitativo.
Dei volumi tecnici non si tiene conto al fine
dell’accertamento della conformità del progetto alle
volumetrie massime consentite nelle singole zone
edificabili.
---------------
9.3. Sulla natura dell’ampliamento che si vuole realizzare
nella particella n. 335 di proprietà del sig. De Gi. si
contrappongono le due tesi opposte, quella delle ricorrenti,
secondo cui si tratta di una sopraelevazione,come tale
soggetta al rispetto delle distanze,e quella del Comune
resistente secondo cui si tratterebbe di “un sottotetto
non abitabile adibito a vano tecnico e coperto con monofalde
che per giurisprudenza pacifica va scorporato dal computo
volumetrico e conseguentemente sottratto alla disciplina
delle distanze legali”.
La tesi sostenuta dal Comune non persuade.
Dalla planimetria allegata agli atti, balza all’evidenza che
il “sottotetto” è dotato di una finestra circolare
che normalmente è incompatibile con la natura di volume
tecnico di un manufatto, definito come volume che, per
altezza, dimensioni e dotazioni, è necessariamente destinato
ad ospitare impianti tecnici (idrico, termico, elevatorio,
televisivo, di parafulmine, di ventilazione),aventi un
rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione
degli immobili e che non possono essere sistemati
all’interno della parte abitativa.
Non rientrano, pertanto, nella nozione di volume tecnico i
vani utilizzati come stenditoi, soffitte o locali di
sgombero, né tanto meno i locali che risultino agevolmente
adattabili ad uso abitativo.
Dei volumi tecnici non si tiene conto al fine
dell’accertamento della conformità del progetto alle
volumetrie massime consentite nelle singole zone
edificabili.
Il Comune resistente si limita però soltanto a dedurre la
natura di volume tecnico senza dimostrarlo in concreto (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
E’ giurisprudenza pacifica quella secondo la
quale, per determinare la capacità edificatoria di un lotto
unitario e cioè di un’unica proprietà, ai fini del rilascio
o meno di un permesso di costruire (titolo edilizio di
carattere generale nel caso di ampliamento e comunque di
volumetria aggiuntiva), occorre tener conto dell’indice
fondiario, fissato dallo strumento urbanistico per la
specifica area di insistenza del lotto (nel rispetto
dell’indice cd. territoriale, che tiene conto anche degli
spazi pubblici quali parcheggi e aree verdi, determinato per
le normalmente più ampie zone territoriali omogenee in cui
ricadono le singole aree classificate dallo strumento
urbanistico) e scomputando dalla volumetria espressa dalla
superficie totale del lotto di proprietà, quella assentita
prima del rilascio del permesso di costruire richiesto,
anche se non realizzata (purché il titolo sia ancora
efficace).
La giurisprudenza afferma ancora più significativamente che
“è computabile anche la costruzione realizzata prima
della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi"
era considerato pura estrinsecazione del diritto di
proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di
commisurazione della volumetria assentibile in base alla
densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area
e che individua il volume massimo consentito su di essa, il
che comporta la necessità di tener conto del dato reale
costituito dagli immobili che su detta area si trovano e
delle relazioni che intrattengono con l'ambiente
circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il
prescritto titolo, concorre al computo complessivo della
densità territoriale”.
Dall’altro lato, se sono rilevanti gli interventi
precedentemente assentiti, realizzati o meno (salvo che il
titolo abbia perso efficacia), sono irrilevanti i
frazionamenti del lotto disposti nel tempo anche allo scopo
di ritagliare un’area libera che possa utilizzare tutto
l’indice fondiario, operazione non consentita: “Nel caso
in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato
oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria
residua, o la superficie coperta residua, va calcolata
previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo”.
---------------
Ai fini della determinazione della volumetria concretamente
e legittimamente realizzabile in uno specifico lotto in base
all’indice fondiario, si computa tutta la volumetria
regolarmente assentita in precedenza.
Afferma, infatti, la
giurisprudenza che “un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio…”.
---------------
10. Anche il quarto motivo di ricorso si rivela
meritevole di accoglimento.
E’ giurisprudenza pacifica (cfr. parere del Consiglio di
Stato, Sezione terza, 28.04.2009 n. 9605) quella secondo la
quale, per determinare la capacità edificatoria di un lotto
unitario e cioè di un’unica proprietà, ai fini del rilascio
o meno di un permesso di costruire (titolo edilizio di
carattere generale nel caso di ampliamento e comunque di
volumetria aggiuntiva), occorre tener conto dell’indice
fondiario, fissato dallo strumento urbanistico per la
specifica area di insistenza del lotto (nel rispetto
dell’indice cd. territoriale, che tiene conto anche degli
spazi pubblici quali parcheggi e aree verdi, determinato per
le normalmente più ampie zone territoriali omogenee in cui
ricadono le singole aree classificate dallo strumento
urbanistico) e scomputando dalla volumetria espressa dalla
superficie totale del lotto di proprietà, quella assentita
prima del rilascio del permesso di costruire richiesto,
anche se non realizzata (purché il titolo sia ancora
efficace).
La giurisprudenza afferma ancora più significativamente che
“è computabile anche la costruzione realizzata prima
della l. 17.08.1942 n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi"
era considerato pura estrinsecazione del diritto di
proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di
commisurazione della volumetria assentibile in base alla
densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area
e che individua il volume massimo consentito su di essa, il
che comporta la necessità di tener conto del dato reale
costituito dagli immobili che su detta area si trovano e
delle relazioni che intrattengono con l'ambiente
circostante. Qualsiasi costruzione, anche se eretta senza il
prescritto titolo, concorre al computo complessivo della
densità territoriale (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria
23.04.2009 n. 3)” (Cons. St. IV, 13.11.2018, n. 6397).
Dall’altro lato, se sono rilevanti gli interventi
precedentemente assentiti, realizzati o meno (salvo che il
titolo abbia perso efficacia), sono irrilevanti i
frazionamenti del lotto disposti nel tempo anche allo scopo
di ritagliare un’area libera che possa utilizzare tutto
l’indice fondiario, operazione non consentita: “Nel caso
in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato
oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria
residua, o la superficie coperta residua, va calcolata
previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo (Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n.
2941)” (Cons. St. ult. cit.).
All’opposto, quindi, di quanto sostenuto dal Comune, va
computata la superficie e la correlata volumetria del
manufatto denominato “garage-cantina” oggetto di
sanatoria.
Ai fini della determinazione della volumetria concretamente
e legittimamente realizzabile in uno specifico lotto in base
all’indice fondiario, si computa tutta la volumetria
regolarmente assentita in precedenza. Afferma, infatti, la
giurisprudenza che “un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio… (Cons.
St. sez. V, 10.02.2000 n. 749)” (Cons. St. IV,
22.11.2017 n. 5419; negli stessi termini TAR Milano sez. II
27.03.18 n. 882).
Nella fattispecie, proprio il fatto che sia stata
rilasciata, come si premura di sottolineare il comune, la “sanatoria”
del manufatto denominato “garage-cantina” e cioè il relativo
titolo edilizio, per quanto postumo, comporta che il comune
abbia già computato le superfici e volumetrie sanate, con
conseguente sottrazione, dalla volumetria realizzabile,
della superficie e –soprattutto, rilevando il volume in sede
di edificazione residenziale-della volumetria già realizzata
e assentita.
Errato è anche l’argomento sviluppato dal comune sulla base
della disposizione dell’art. 90 delle NTA. Stando al
contenuto della disposizione riportato dalla stessa
amministrazione comunale, l’art. 90 non risulta applicabile
ad ipotesi di ampliamento ma solo alle fattispecie di “trasformazione
conservativa”, ipotesi non disciplinata dalla normativa
generale ma da intendersi come riferita alla figura della
ristrutturazione senza ampliamento. D’altro canto, la
disposizione risulta prevedere, per la suddetta fattispecie
(trasformazione conservativa) l’attivazione di “procedure
di deroga agli indici edilizi ed urbanistici” e non
autorizza immediatamente e direttamente tale deroga, di cui,
del resto non fissa in alcun modo i limiti (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ritiene il Collegio di dare applicazione all’ormai
consolidato indirizzo giurisprudenziale per cui può
ritenersi sufficiente che l’Amministrazione verifichi in
capo all’istante l’esistenza di un titolo che formalmente lo
legittimi al rilascio del titolo abilitante a suo favore, senza dover procedere ad una accurata e
approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere
complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di
proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità necessario
all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia,
ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi
vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti
dei terzi".
---------------
12. Con il settimo motivo le ricorrenti censurano il
permesso di costruire, controvertendo in dubbio il titolo di
proprietà in capo al controinteressato.
Il motivo è infondato.
Al di là delle pur condivisibili e documentate
argomentazioni dedotte dal Comune resistente circa l’esatta
estensione della proprietà catastale oggetto dell’intervento
edilizio coincidente con le particelle n. 215 e 335 come
risultanti da pregressi frazionamenti, ritiene il Collegio
di dare applicazione all’ormai consolidato indirizzo
giurisprudenziale per cui può ritenersi sufficiente che
l’Amministrazione verifichi in capo all’istante l’esistenza
di un titolo che formalmente lo legittimi al rilascio del
titolo abilitante a suo favore (in questo caso il decreto
del Pretore di Bagnara datato 08.03.1988 – all. 13 parte
resistente), senza dover procedere ad una accurata e
approfondita disamina dei rapporti civilistici o a svolgere
complesse ricognizioni giuridico-documentali sul titolo di
proprietà o di altro diritto reale che si estenda fino alla
ricerca di eventuali fattori limitativi, preclusivi o
estintivi del titolo di disponibilità necessario
all’intervento, allegato da chi presenta istanza edilizia,
ed è proprio questa la ragione per la quale i titoli edilizi
vengono rilasciati con la formula "fatti salvi i diritti
dei terzi" (ex pluribus cfr. Cons. St. Sez. VI,
04.09.2012, n. 4676; Cons. St. Sez. IV, 08.06.2011, n. 3508) (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 04.03.2019 n. 141 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: È
incostituzionale l'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni
fondamentali dei Comuni
È incostituzionale l’articolo 14, comma 28, del Dl 31.05.2010, n. 78 (Misure
urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività
economica) nella parte in cui non prevede la possibilità, in un contesto di
Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero
dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione geografica e dei
caratteri demografici e socio-ambientali, del Comune obbligato, non sono
realizzabili, con le forme associative imposte, economie di scala e/o
miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei
beni pubblici alle popolazioni di riferimento.
È quanto afferma la Corte costituzionale, con la
sentenza 04.03.2019 n. 33.
L’approfondimento
La Corte costituzionale è intervenuta affermando l’illegittimità
dell’articolo 14, comma 28, del decreto legge 31.05.2010, n. 78, che prevede
per i piccoli Comuni l’esercizio obbligatorio in forma associata delle
funzioni fondamentali tassativamente stabilite dalla legge.
La decisione
Nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della normativa impugnata, la
Corte ha avuto modo di rilevare come, gli interventi statali in materia di
coordinamento della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli Enti
territoriali debbano svolgersi secondo i canoni di proporzionalità e
ragionevolezza dell’intervento normativo rispetto all’obiettivo prefissato.
Per la Corte, infatti, La previsione generalizzata dell’obbligo di gestione
associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione della lett. l
del comma 27) sconterebbe in ogni caso un’eccessiva rigidità, al punto che
non consentirebbe di considerare tutte quelle situazioni in cui, a motivo
della collocazione geografica e dei caratteri demografici e socio
ambientali, la convenzione o l’unione di Comuni non sono idonee a
realizzare, mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione, quei
risparmi di spesa che la norma richiama come finalità dell’intera
disciplina.
A giudizio della Corte, la norma del comma 28 dell’articolo 14 del Dl n. 78
del 2010, pretende di avere applicazione anche in tutti quei casi in cui:
a) non esistono Comuni confinanti parimenti obbligati;
b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma il raggiungimento
del limite demografico minimo comporta la necessità del coinvolgimento di
altri Comuni non posti in una situazione di prossimità;
c) la collocazione geografica dei confini dei Comuni non consente,
per esempio in quanto montani e caratterizzati da particolari «fattori
antropici», «dispersione territoriale» e «isolamento»
(sentenza n. 17 del 2018), di raggiungere gli obiettivi cui eppure la norma
è rivolta.
Si tratterebbe nella sostanza di situazioni dalla più varia complessità che
però meritano attenzione, perché in tutti questi casi, solo
esemplificativamente indicati, in cui l’ingegneria legislativa non combacia
con la geografia funzionale, il sacrificio imposto all’autonomia comunale
non è in grado di raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa;
questa finisce così per imporre un sacrificio non necessario, non superando
quindi il test di proporzionalità (nello stesso senso, ex plurimis
sentt. n. 137 del 2018, n. 10 del 2016, n. 272 e n. 156 del 2015).
La Corte ha altresì rilevato che un ulteriore sintomo delle criticità della
normativa risulta dall’estenuante numero dei rinvii dei termini
originariamente previsti, che, come evidenziato dal giudice rimettente,
coprendo un arco temporale di quasi un decennio, dimostrano l’esistenza di
situazioni oggettive che, in non pochi casi, rendono di fatto inapplicabile
la norma.
Conclusioni
Alla luce di queste premesse, ne deriva che il menzionato comma 28 è
pertanto illegittimo nella parte in cui non prevede la possibilità, in un
contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al fine di ottenere
l’esonero dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione
geografica e dei caratteri demografici e socio ambientali, del Comune
obbligato, non sono realizzabili, con le forme associative imposte, economie
di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia ed efficienza,
nell’erogazione dei beni pubblici alle popolazioni di riferimento
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.04.2019). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Obbligo di gestione associata delle funzioni fondamentali
dei piccoli Comuni: la Consulta accoglie parzialmente le
questioni sollevate dal Tar per il Lazio.
---------------
La Corte costituzionale si pronuncia sulle norme (art. 14,
commi 28 ss., del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito
in legge n. 122 del 2010, come modificato dal decreto-legge
n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012)
che hanno imposto, per i Comuni di piccole dimensioni (con
popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000
abitanti se si tratta di Comuni montani), la gestione
associata delle funzioni fondamentali.
---------------
●
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di
esercizio in forma associata – Mancata previsione della
possibilità di dimostrare l’esistenza di circostanze
rilevanti ai fini dell’esonero dall’obbligo –
Incostituzionalità.
●
Regione Campania – Enti locali – Comuni – Funzioni
fondamentali – Svolgimento in forma associata –
Individuazione, con legge regionale, della dimensione
territoriale ottimale ed omogenea – Mancata concertazione
con i Comuni interessati – Incostituzionalità.
●
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Numero e
contenuto – Questione di costituzionalità – Difetto di
motivazione sulla rilevanza – Questione inammissibile di
costituzionalità.
●
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di
esercizio in forma associata – Previsione con decreto-legge
– Questione infondata di costituzionalità.
●
Enti locali – Comuni – Funzioni fondamentali – Obbligo di
esercizio in forma associata – Lesione del principio
autonomistico – Questione infondata di costituzionalità.
●
E’ incostituzionale l’art. 14, comma 28, del decreto-legge
n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del 2010, come
modificato dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95
del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, il quale
impone l’esercizio obbligatorio in forma associata delle
funzioni comunali fondamentali, nella parte in cui non
prevede la possibilità, in un contesto di Comuni obbligati e
non, di dimostrare, al fine di ottenere l’esonero
dall’obbligo, che a causa della particolare collocazione
geografica e dei caratteri demografici e socio-ambientali
del Comune obbligato, non sono realizzabili, con le forme
associative imposte, economie di scala e/o miglioramenti, in
termini di efficacia ed efficienza, nell’erogazione dei beni
pubblici alle popolazioni di riferimento. (1)
●
E’ incostituzionale l’art. 1, commi 110 e 111, della legge
della Regione Campania 07.08.2014, n. 16 (recante
“Interventi di rilancio e sviluppo dell'economia regionale
nonché di carattere ordinamentale e organizzativo (collegato
alla legge di stabilità regionale 2014)”), per contrasto con
gli artt. 5 e 114 Cost., nel combinato disposto con l’art.
97 Cost., non risultando dimostrato che l’individuazione ivi
contenuta della dimensione territoriale ottimale ed omogenea
per lo svolgimento in forma obbligatoriamente associata
delle funzioni fondamentali, ai sensi di quanto prescritto
dal comma 28 dell’art. 14 del decreto-legge n. 78 del 2010,
convertito in legge n. 122 del 2010, sia stata preceduta
dalla concertazione con i Comuni interessati. (2)
●
Sono inammissibili, per difetto di motivazione sulla
rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 14, commi 26 e 27, del decreto-legge n. 78 del
2010, convertito in legge n. 122 del 2008, come modificato
dall’art. 19, comma 1, del decreto-legge n. 95 del 2012,
convertito in legge n. 135 del 2012, concernenti il numero
ed il contenuto delle funzioni fondamentali dei Comuni,
sollevate in riferimento agli artt. 3, 5, 77, comma 2, 95,
97, 114, 117, comma 1 –in relazione all’art. 3 della Carta
europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il
15.10.1985, ratificata e resa esecutiva con legge 30
dicembre 1989, n. 439– e comma 6, 118, 119 e 133, comma 2,
Cost. (3)
●
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31, del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del
2010, come modificato dall’art. 19, comma 1, del
decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del
2012, sollevata in riferimento all’art. 77, comma 2, Cost.,
non essendo ravvisabile un’“evidente mancanza” dei
presupposti di necessità ed urgenza tipici della
decretazione d’urgenza. (4)
●
Sono infondate le questioni di legittimità
costituzionale dell’art. 14, commi 28-bis, 29, 30 e 31, del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del
2010, come modificato dall’art. 19, comma 1, del
decreto-legge n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del
2012, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 97, 114,
117, comma 1 –in relazione all’art. 3 della Carta europea
dell’autonomia locale–, 118, 119 e 133 Cost., posto che, per
un verso, il meccanismo della rappresentanza di secondo
grado (derivante dall’obbligatorietà, per legge, delle forme
associative tra i Comuni) appare compatibile con la garanzia
del principio autonomistico –risultando comunque preservato
uno specifico ruolo agli Enti locali titolari di autonomia
costituzionalmente garantita, nella forma della
partecipazione agli organismi titolari dei poteri
decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in vista
del raggiungimento di fini unitari nello spazio territoriale
reputato ottimale, e che, per altro verso, la minore
concessione all’autonomia comunale trova fondamento nella
finalità della disciplina che è diretta a porre rimedio ai
problemi strutturali di efficienza– e in particolare a
quello della mancanza di economie di scala –dei piccoli
Comuni, con conseguente emersione della potestà statale
concorrente in materia di coordinamento della finanza
pubblica. (5)
-----------------
(1 - 5) I. – Con la decisione in rassegna, la Corte costituzionale
accoglie solo parzialmente le questioni di legittimità
costituzionale che erano state sollevate dal
Tar per il Lazio, sez. Iter, con ordinanza 20.01.2017, n.
1027 (oggetto della
News US in data 24.01.2017, cui si rinvia per
ogni approfondimento), in materia di esercizio
obbligatoriamente associato delle funzioni fondamentali per
i Comuni di piccola dimensione (quelli aventi, cioè, una
popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000
abitanti nel caso dei Comuni montani). La norma sospettata
di incostituzionalità era l’art. 14, commi 26 ss., del
decreto-legge n. 78 del 2010, convertito in legge n. 122 del
2010, come modificato dal decreto-legge n. 95 del 2012,
convertito in legge n. 135 del 2012 (c.d. decreto sulla
spending review), che detta la disciplina dell’esercizio
delle funzioni fondamentali dei Comuni.
L’attenzione del rimettente si era focalizzata su due
questioni principali:
a) da un lato, la previsione dei commi 26
e 27, che pongono come obbligatorio, per l’Ente locale,
l’esercizio delle “funzioni fondamentali” (comma 26) ed
individuano, con apposito elenco, ai sensi dell’art. 117,
comma 2, lett. p), Cost., quali sono tali funzioni (comma
27);
b) dall’altro lato, la prescrizione della
“forma associata” (“mediante unione di comuni o
convenzione”) come modalità obbligatoria per l’esercizio di
tali funzioni, con obbligo imposto ai “comuni con
popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000
abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunità
montane, esclusi i comuni il cui territorio coincide
integralmente con quello di una o di più isole e il comune
di Campione d'Italia” (così il comma 28);
c) nonché sulle successive norme di contorno, di cui ai
commi successivi – i quali disciplinano l’“unione” con
rinvio all’art. 32 del d.lgs. n. 267 del 2000 (così il comma
28-bis), fissano il divieto di svolgere le funzioni
singolarmente o mediante più di una forma associativa (comma
29), demandano alle Regioni l’individuazione della
dimensione territoriale ottimale per il predetto esercizio
associato (comma 30) e definiscono il limite demografico
minimo che le forme associate devono raggiungere (comma 31).
Il giudizio dinnanzi al Tar per il Lazio era stato azionato
(oltre che da un’associazione esponenziale di Enti locali)
da alcuni Comuni campani, tutti aventi popolazione inferiore
ai 5.000 abitanti, i quali hanno impugnato la circolare del
Ministero dell’Interno del 12.01. 2015 (recante "Esercizio
obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali,
mediante unioni o convenzioni da parte dei comuni”) con cui
si era dettata una prima disciplina attuativa degli obblighi
di legge, imponendo alle Prefetture di procedere alla
ricognizione dello stato di attuazione della normativa e di
diffidare i Comuni inadempimenti, secondo specifiche
tempistiche e modalità.
Va qui rammentato che il termine entro il quale tutte le
funzioni fondamentali avrebbero dovuto essere gestite in
forma associata, inizialmente fissato dalla legge al
31.12.2014, è stato poi via via prorogato fino, da ultimo,
alla data del 31.12.2019 (fissata, oggi, dall’art. 11-bis,
comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2018, convertito in
legge n. 12 del 2019, in vista, peraltro, di un nuovo
tentativo di riforma volto “all'avvio di un percorso di
revisione organica della disciplina in materia di
ordinamento delle province e delle città metropolitane, al
superamento dell'obbligo di gestione associata delle
funzioni e alla semplificazione degli oneri amministrativi e
contabili a carico dei comuni, soprattutto di piccole
dimensioni”).
Il Tar per il Lazio aveva sottoposto al giudizio della
Consulta, oltre alle menzionate disposizioni di legge
statale, anche le norme della legislazione campana (in
specie, l’art. 1, commi 110 e 111, della legge regionale n.
16 del 2014) che, in attuazione di quelle statali, avevano
individuato, quale dimensione territoriale ottimale ed
omogenea per l'esercizio delle funzioni fondamentali in
forma obbligatoriamente associata, i cc.dd. sistemi
territoriali di sviluppo previsti a fini urbanistici e di
coesione territoriale.
In punto di rilevanza, il Tar rimettente aveva evidenziato
che il petitum oggetto del ricorso consisteva nella
“pronuncia di accertamento negativo della sussistenza
dell’obbligo, per i Comuni ricorrenti, di associarsi in via
convenzionale” e nella “correlata pronuncia di annullamento
della circolare ministeriale” (avente portata immediatamente
lesiva, nella parte in cui ha prescritto ai Prefetti di
verificare lo stato di attuazione della normativa introdotta
dal decreto-legge n. 78 del 2010 e di diffidare ad adempiere
i Comuni che, in violazione dell’obbligo di gestione in
forma associata delle funzioni fondamentali, non vi avessero
provveduto nelle modalità e nei termini previsti).
II. – Il giudizio della Corte costituzionale è chiaro nel
differenziare i due gruppi di norme oggetto del suo
scrutinio, cioè quello formato dai commi 26 e 27 (fissazione
dell’obbligo di esercizio delle funzioni fondamentali ed
elenco di queste ultime), da un lato, e quello di cui ai
commi 28 ss. (imposizione dell’obbligo di gestione
associata), dall’altro lato.
La Corte rileva che “l’interesse alla tutela azionata dai
ricorrenti è scaturito non in relazione all’individuazione,
in quanto tale, delle funzioni fondamentali, quanto
piuttosto dalla preclusione a gestirle da parte di ciascun
Comune autonomamente, effetto questo riconducibile solo alle
disposizioni contenute nei commi 28, 28-bis, 29, 30 e 31
dell’art. 14 del d.l. n. 78 del 2010, nonché nell’art. 1,
commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014”.
Le questioni concernenti il primo gruppo vengono quindi
dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza (in quanto
l’ordinanza di rimessione “non chiarisce per quali motivi la
individuazione delle funzioni fondamentali, ossia lo
specifico oggetto di una o più di esse, rileverebbe nella
risoluzione della controversia sottoposta al rimettente”).
Passando allora al merito delle questioni concernenti il
secondo gruppo di norme (commi 28 ss.) e, quindi,
specificamente, l’introduzione, per legge, dell’obbligo (per
i Comuni di piccole dimensioni o i Comuni montani) di
svolgere in forma associata le proprie “funzioni
fondamentali”, oltre alle ulteriori norme di contorno, la
Corte svolge il seguente percorso argomentativo:
d) viene anzitutto respinta la questione
incentrata sul parametro della carenza dei presupposti di
necessità e di urgenza per l’adozione del decreto-legge
censurato, ex art. 77, comma 2, Cost.; qui, in particolare,
la Corte:
d1) precisa che l’oggetto del giudizio riguarda non solo il
decreto-legge n. 78 del 2010 (cui l’ordinanza di rimessione
esplicitamente si riferiva nel dispositivo), ma anche il
successivo decreto-legge n. 95 del 2012, modificativo di
alcune delle norme dal primo introdotte (opportunamente
menzionato nella motivazione dell’ordinanza di rimessione):
si conclude, pertanto, che –poiché “l’oggetto del giudizio
costituzionale deve essere individuato interpretando il
dispositivo dell’ordinanza di rimessione con la sua
motivazione” (cfr. sentenza 21.07.2016, n. 203, in Rass.
dir. farmaceutico, 2016, 789)– “si può ritenere che il
giudice rimettente abbia preso in considerazione il
contenuto normativo delle disposizioni censurate come
effettivamente applicabili alla fattispecie sottoposta al
suo esame e sulla cui base è stata adottata la circolare
impugnata”;
d2) richiama la propria
pregressa giurisprudenza sul sindacato riguardante i
presupposti di necessità e urgenza di cui all’art. 77 Cost.,
circoscritto alla “evidente mancanza di tali presupposti” (cfr.,
da ultimo, la sentenza 18.01.2018, n. 5, in Foro it.,
2018, I, 710, con nota di PASCUZZI, in Nuova giur. civ.,
2018, 881, con nota di TOMASI, ed in Giur. cost., 2018, 38,
con nota di PINELLI) o alla “manifesta irragionevolezza o
arbitrarietà della relativa valutazione” (cfr. sentenza 12.07.2017, n. 170, in Giur. cost., 2017, 1555, con nota di
PINELLI), sulla base di una pluralità di indici intrinseci
ed estrinseci;
d3) rimarca che, nel caso di specie, non sussiste tale
“evidente mancanza”, “alla luce del titolo dei
provvedimenti, dei rispettivi preamboli e del contenuto
complessivo delle disposizioni introdotte”, trattandosi di
norme “dirette ad assicurare il coordinamento della finanza
pubblica e il contenimento delle spese per l’esercizio delle
funzioni fondamentali dei comuni” (così il comma 25
dell’art. 14 cit.) e dal legislatore introdotte per favorire
“un contenimento della spesa pubblica, creando un sistema
tendenzialmente virtuoso di gestione associata di funzioni
(e, soprattutto, quelle fondamentali) tra Comuni, che mira
ad un risparmio di spesa” (cfr. sentenza 11.02.2014,
n. 22, in Le Regioni, 2014, 791, con nota di CORTESE), avuto
specialmente riguardo al numero di enti potenzialmente
coinvolti (la Corte qui precisa che “alla fine del 2010 i
Comuni fino a 5.000 abitanti erano, infatti, 5.683 su 8.092,
pari a circa il 70 per cento del totale dei Comuni
italiani”);
d4) ritiene superabile l’argomento (pure utilizzato dal
Tar rimettente) che, ai fini di dimostrare
l’insussistenza della necessità e dell’urgenza nel
provvedere, aveva fatto leva sul differimento degli effetti
del decreto-legge (come detto, inizialmente postergati alla
fine del 2014, ed oggi ulteriormente rimandati a tutto il
2019), “apparendo fisiologico e non incompatibile con i
presupposti della necessità e urgenza che il decreto-legge
articoli alcuni passaggi procedurali e preveda per
determinati aspetti un risultato differito” (cfr., oltre
alle pronunce già ricordate, anche la sentenza 07.07.2016, n. 160, in Giur. cost., 2016, 1312);
d5) ritiene, altresì, superabile la censura riferita alla
natura ordinamentale delle disposizioni introdotte dai
decreti-legge in questione, pur ricordando che “la
trasformazione per decreto-legge dell’intera disciplina ordinamentale di un ente locale territoriale, previsto e
garantito dalla Costituzione, è incompatibile, sul piano
logico e giuridico, con il dettato costituzionale” (cfr.
sentenza 19.07.2013, n. 220, in Foro it., 2013, I, 2706,
con nota di ROMBOLI, in Giur. cost., 2013, 3157, con note di
MACCABIANI e SAPUTELLI, ed in Le Regioni, 2013, 1162, con
note di DI COSIMO e MASSA), ma rilevando che “le norme
censurate hanno introdotto riforme dalla portata innovativa
solo parziale, atteso che [...] sia la convenzione che
l’unione di Comuni erano forme istituzionali già da tempo
previste e disciplinate dall’ordinamento, che, sebbene in
limitate ipotesi e solo in relazione a specifiche funzioni,
prefigurava anche la possibilità di una loro costituzione
obbligatoria” (con richiamo, qui, agli artt. 24, 25 e 26
della legge n. 142 del 1990 ed ai corrispondenti artt. 30,
31 e 32 del d.lgs. n. 267 del 2000);
d6) ricorda, comunque, che ad analoghe conclusioni è già
pervenuta la sentenza n. 44 del 13.03.2014 (in Giur. cost.,
2014, 986, con nota di FALLETTA), a proposito della
disciplina –parallela a quella qui in esame– dell’obbligo
di gestione associata di tutte le funzioni per i Comuni fino
a 1.000 abitanti: a fronte della censura delle Regioni di
violazione dell’art. 77 Cost., quella sentenza non aveva
condiviso “l’assunto secondo cui l’intero art. 16
introdurrebbe norme ordinamentali dirette ad incidere
profondamente sullo status istituzionale dei Comuni”,
precisando che “le disposizioni censurate non alterano il
tessuto strutturale e il sistema delle autonomie locali, ma
sono dirette a realizzare, per i Comuni con popolazione fino
a 1.000 abitanti, l’esercizio in forma associata delle
funzioni amministrative e dei servizi pubblici, mediante
unioni di Comuni, secondo un modello peraltro già presente
nell’ordinamento, sia pure con talune differenze di
disciplina (art. 32 del TUEL)”;
e) venendo alle ulteriori censure sollevate dal Tar per
il Lazio -incentrate sull’obbligatorietà e sulla rigidità
del nuovo assetto dell’esercizio associato delle funzioni
comunali (a fronte della diversa caratterizzazione che i
relativi istituti avevano precedentemente, quando era
prevista “la volontarietà nell’an e la flessibilità nel
quomodo della scelta delle forme associative alle quali
aderire”), tale da mettere in pericolo, in particolare, il
principio dell’autonomia degli Enti territoriali- la Corte
ricorda, da un lato, che “è un dato definitivamente
acquisito come la loro autonomia vada in primo luogo intesa
quale potere di indirizzo politicoamministrativo” (con
richiamo alla sentenza 27.03.1987, n. 77, in Cons. Stato,
1987, II, 727, con nota di STADERINI, in Riv. giur. polizia
locale, 1987, 595, con nota di VICICONTE, in Riv. amm.,
1987, 728, con nota di FELICETTI, ed in Le Regioni, 1987,
1033, con nota di COLUCCI), ma ribadisce, dall’altro lato,
che “già da tempo sono previsti gli istituti della unione e
della convenzione, che stabiliscono modalità di attuazione
delle scelte di indirizzo politico di ciascun ente tramite
la mediazione di specifiche strutture comuni”; giunge,
quindi, sul punto alle seguenti conclusioni:
e1) un ipotetico vincolo costituzionale che imponesse la
coincidenza, in un unico soggetto istituzionale, della
funzione di indirizzo politico con quella di indirizzo
amministrativo risulterebbe già violato dalla previsione
della forma associativa in sé stessa, “a prescindere dal
fatto che questa risulti obbligatoriamente imposta”, in
quanto sarebbe “la stessa forma associativa, costituendo
[...] un ‘sistema di governo locale acefalo’, a risultare
lesiva, nel contesto dell’autonomia comunale, dell’archetipo
del principio rappresentativo e delle sue necessarie
implicazioni: l’essere cioè in grado di ricevere dalla
comunità locale un proprio indirizzo politico e di tradurlo
in scelte di politica amministrativa”; ma tale conclusione
“appare palesemente insostenibile, posto che le forme
associative risultano pur sempre una proiezione degli enti
stessi, come affermato da questa Corte in più occasioni” (si
citano, qui: la sentenza 23.12.2005, n. 456, in Giust.
amm., 2005, 1266, con nota di GIORDANO, ed in Le Regioni,
2006, 542, con nota di GIUPPONI; la sentenza 24.06.2005,
n. 244, in Giorn. dir. amm., 2005, 1033, con nota di SCIULLO;
la sentenza 06.06.2001, n. 229, in Dir. e giustizia,
2001, 29, 26, con nota di POGGI);
e2) anche nella più stringente forma di associazione, ossia
l’unione di Comuni (la quale è provvista di propri organi),
il meccanismo della rappresentanza di secondo grado “appare
compatibile con la garanzia del principio autonomistico, dal
momento che, anche in questo caso, non può essere negato che
venga ‘preservato uno specifico ruolo agli enti locali
titolari di autonomia costituzionalmente garantita, nella
forma della partecipazione agli organismi titolari dei
poteri decisionali, o ai relativi processi deliberativi, in
vista del raggiungimento di fini unitari nello spazio
territoriale reputato ottimale’” (così la sentenza n. 160
del 2016, cit.), posto che, a norma dell’art. 32 del d.lgs.
n. 267 del 2000, il previsto modo di elezione e di
composizione del Consiglio dell’unione è tale da assicurare
la rappresentanza di ogni Comune e di garantire la
rappresentanza delle minoranze;
f) il punto centrale delle questioni sollevate –chiarisce
la Corte– non è, quindi, la previsione della forma
associativa tra i Comuni (aspetto della cui legittimità
costituzionale, come appena visto, non si può dubitare),
quanto piuttosto il fatto che venga imposto l’obbligo della
forma associativa per l’esercizio delle funzioni
fondamentali; qui la Corte, a difesa della norma, chiarisce
che:
f1) la legge impugnata (in particolare, il comma 28
dell’art. 14 cit.) lascia all’autonomia degli enti locali
interessati l’alternativa tra due istituti (convenzione e
unione), i cui caratteri costitutivi e funzionali consentono
agli enti stessi di modulare il rispetto della norma con
valutazioni proprie dell’indirizzo politico;
f2) il (pur ravvisabile) sacrificio dell’autonomia comunale
si giustifica alla luce della “finalità della disciplina,
che è diretta a porre rimedio ai problemi strutturali di
efficienza –e in particolare a quello della mancanza di
economie di scala– dei piccoli Comuni” ed il relativo
intervento dello Stato rientra –come già detto– nella
potestà statale concorrente in materia di coordinamento
della finanza pubblica;
g) quest’ultimo riferimento conduce, però, alla prima
declaratoria di incostituzionalità, in quanto –ricorda la
Corte– “gli interventi statali in materia di coordinamento
della finanza pubblica che incidono sull’autonomia degli
enti territoriali devono svolgersi secondo i canoni di
proporzionalità e ragionevolezza dell’intervento normativo
rispetto all’obiettivo prefissato” (ex plurimis, cfr.
sentenza n. 22 del 2014, cit.); da questo punto di vista,
nel caso di specie accade che:
g1) la previsione generalizzata dell’obbligo di gestione
associata per tutte le funzioni fondamentali (ad esclusione
di quella indicata dalla lettera l) del comma 27, in materia
di tenuta dei registri di stato civile e di servizi
anagrafici ed elettorali) sconta “un’eccessiva rigidità, al
punto che non consente di considerare tutte quelle
situazioni in cui, a motivo della collocazione geografica e
dei caratteri demografici e socio ambientali, la convenzione
o l’unione di Comuni non sono idonee a realizzare,
mantenendo un adeguato livello di servizi alla popolazione,
quei risparmi di spesa che la norma richiama come finalità
dell’intera disciplina”;
g2) possono darsi situazioni di fatto che male si attagliano
alla previsione generale e astratta della norma (si pensi ai
casi in cui: “a) non esistono Comuni confinanti parimenti
obbligati; b) esiste solo un Comune confinante obbligato, ma
il raggiungimento del limite demografico minimo comporta la
necessità del coinvolgimento di altri Comuni non posti in
una situazione di prossimità; c) la collocazione geografica
dei confini dei Comuni non consente, per esempio in quanto
montani e caratterizzati da particolari ‘fattori antropici’,
‘dispersione territoriale’ e ‘isolamento’, di raggiungere
gli obiettivi cui eppure la norma è rivolta”) (cfr. sentenza
02.02.2018, n. 17, in Giur. cost., 2018, 202); insomma,
possono darsi casi “in cui l’ingegneria legislativa non
combacia con la geografia funzionale”, ed allora “il
sacrificio imposto all’autonomia comunale non è in grado di
raggiungere l’obiettivo cui è diretta la normativa stessa;
questa finisce così per imporre un sacrificio non
necessario, non superando quindi il test di
proporzionalità”;
g3) pertanto, per evitare che la rigidità della disciplina
possa condurre, irragionevolmente, ad effetti contrari alle
finalità che la giustificano, la Corte emette qui una
pronuncia additiva, dichiarando l’incostituzionalità del
comma 28 “nella parte in cui non prevede la possibilità, in
un contesto di Comuni obbligati e non, di dimostrare, al
fine di ottenere l’esonero dall’obbligo, che a causa della
particolare collocazione geografica e dei caratteri
demografici e socio ambientali, del Comune obbligato, non
sono realizzabili, con le forme associative imposte,
economie di scala e/o miglioramenti, in termini di efficacia
ed efficienza, nell’erogazione dei beni pubblici alle
popolazioni di riferimento”; con l’ulteriore avvertenza che
“Spetterà, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla
decisione i necessari corollari sul piano applicativo,
avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione,
e, dall’altro, al legislatore provvedere a disciplinare, nel
modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che richiedono
apposita regolamentazione” (cfr. la sentenza 26.04.2018,
n. 88, in Giur. it., 2018, 2123, con nota di PARISI, e la
sentenza 07.04.2011, n. 113, in Foro it., 2013, I, 802,
con nota di CALÒ);
g4) sul punto, peraltro, la Corte non manca di evidenziare i
“gravi limiti che, rispetto al disegno costituzionale,
segnano l’assetto organizzativo dell’autonomia comunale
italiana, dove le funzioni fondamentali risultano ancora
oggi contingentemente definite con un decreto-legge che
tradisce la prevalenza delle ragioni economico finanziarie
su quelle ordinamentali” (come era già accaduto con la legge
n. 42 del 2009, allorquando l’individuazione, allora solo
provvisoria, delle funzioni fondamentali era stata meramente
funzionale a permettere la disciplina del c.d. federalismo
fiscale) e di bacchettare, conseguentemente, il legislatore
(“il problema della dotazione funzionale tipica,
caratterizzante e indefettibile, dell’autonomia comunale non
è, quindi, stato mai stato risolto ex professo dal
legislatore statale, come invece avrebbe richiesto
l’impianto costituzionale risultante dalla riforma del
Titolo V della Costituzione”);
g5) la Corte quindi si appella
ad una “fisiologica dialettica”, improntata a una “doverosa
cooperazione” (cfr. sentenza 12.07.2017, n. 169, in Giur.
cost., 2017, 1549), “da parte del sistema degli attori
istituzionali, nelle varie sedi direttamente o
indirettamente coinvolti”, al fine di raggiungere
l’obiettivo di “una equilibrata, stabile e organica
definizione dell’assetto fondamentale delle funzioni
ascrivibili all’autonomia locale”, in cui trovino adeguata
considerazione anche “i limiti –da tempo rilevati–
dell’ordinamento base dell’autonomia locale, per cui le
stesse funzioni fondamentali –nonostante i principi di
differenziazione, adeguatezza e sussidiarietà di cui
all’art. 118, Cost.– risultano assegnate al più piccolo
Comune italiano, con una popolazione di poche decine di
abitanti, come alle più grandi città del nostro ordinamento,
con il risultato paradossale di non riuscire, proprio per
effetto dell’uniformità, a garantire l’eguale godimento dei
servizi, che non è certo il medesimo tra chi risiede nei
primi e chi nei secondi”; e ricorda qui la Corte
l’esperienza di altri Paesi europei, dove il problema della
“polverizzazione dei Comuni” è stato affrontato “attuando la
differenziazione non solo sul piano organizzativo ma anche
su quello funzionale”, come avvenuto, ad esempio,
nell’ordinamento francese, “dove il problema è stato risolto
sia con la promozione di innovative modalità di associazione
intercomunale, sia attraverso formule di accompagnamento
alle fusioni” (si compie un accenno, altresì, anche alle
esperienze della Germania, del Regno Unito, della Svezia,
della Danimarca, del Belgio e dell’Olanda);
h) viene invece giudicato non fondato, sempre con riguardo
all’imposto obbligo di associazione tra piccoli Comuni, il
profilo di costituzionalità incentrato sul parametro
dell’autonomia organizzativa e finanziaria degli Enti
locali, dal rimettente argomentato nel senso che l’esercizio
in forma associata delle funzioni fondamentali finirebbe con
il comportare “l’estinzione dell’ente locale per fusione o
incorporazione” (con aggiramento del procedimento imposto
dall’art. 133 Cost.): la Corte in proposito rileva che
l’introduzione del menzionato obbligo “non presenta alcuna
attinenza con la disciplina che regola l’istituzione di
nuovi Comuni o la modifica delle loro circoscrizioni” e “non
prevede la fusione dei piccoli Comuni, con conseguente
modifica delle circoscrizioni territoriali” (cfr. sentenza
n. 44 del 2014, cit.);
i) quanto, infine, alla questione di legittimità concernente
la norma regionale campana che, in attuazione della legge
statale, ha individuato la dimensione territoriale ottimale
ed omogenea per lo svolgimento in forma obbligatoriamente
associata delle funzioni fondamentali, la Corte emette anche
qui una decisione di accoglimento per “mancata previa
concertazione con i comuni interessati nell’ambito del
Consiglio delle autonomie locali” (concertazione che è
richiesta dal comma 30 dell’art. 14 del decreto-legge n. 78
del 2010), con violazione degli artt. 5, 114 e 97 Cost.:
risulta, infatti, infranto il principio, affermato già nella
sentenza n. 229 del 2001, cit., del necessario
coinvolgimento, “per le conseguenze concrete che ne derivano
sul modo di organizzarsi e sul modo di esercitarsi
dell’autonomia comunale”, degli enti locali infra regionali
nelle determinazioni regionali che investono l’allocazione
di funzioni tra i diversilivelli di governo, “anche di
natura associativa”.
III. – Per completezza si consideri quanto segue:
j) di recente, la Corte costituzionale ha avuto occasione di
occuparsi di altre questioni concernenti, ciascuna con
peculiarità sue proprie, l’accorpamento di enti anche
territoriali (mediante soppressione di enti preesistenti e
conseguente allargamento della sfera territoriale di
competenza degli enti mantenuti):
j1) con la sentenza n. 246 del 2017 (oggetto della News US
in data 10.01.2017, cui si rinvia per i dovuti
approfondimenti) la Corte costituzionale ha dichiarato
inammissibile la questione di costituzionalità, sollevata
dal Consiglio di Stato nel 2015, concernente la soppressione
(a seguito di apposito referendum regionale) di alcune delle
Province sarde di recente istituzione: la declaratoria di
inammissibilità è dipesa dalla mancata tempestiva censura
della disciplina normativa presupposta, in base alla quale
gli organi in carica delle Province soppresse all’esito dei
referendum abrogativi erano già stati trasformati in organi
di mera gestione provvisoria;
j2) con
sentenza 17.07.2018, n. 160 (in Foro it., 2018,
I, 2970, nonché oggetto della
News US in data 03.08.2018, cui si rinvia per gli
approfondimenti opportuni), la Corte costituzionale ha
salvato la legge della regione Basilicata n. 1 del 2017 che
aveva istituito un unico consorzio di bonifica per tutto il
territorio regionale (in luogo dei preesistenti consorzi,
contestualmente soppressi) avente competenza sull'intero
territorio regionale: in quel caso, a giudizio della Corte,
l'unificazione dei comprensori dei consorzi di bonifica,
posta in essere dalla Regione, appariva coerente con i
principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale in
materia di governo del territorio, ed in particolare con il
principio fondamentale della specialità degli interventi in
materia di bonifica (di cui all’art. 27 del decreto-legge n.
248 del 2007, convertito in legge n. 31 del 2008);
k) in materia di riordino delle Province, in vista della
loro soppressione, operato dalla legge n. 56 del 2014 (c.d.
legge Del Rio), sono punti fermi nella giurisprudenza
costituzionale i seguenti:
k1) le Città metropolitane, quali istituite dalla legge n.
56 del 2014 in attuazione del novellato art. 114 Cost., non
possono ricevere una disciplina ed una struttura
diversificate da regione a regione, “senza con ciò porsi
in contrasto con il disegno costituzionale che presuppone
livelli di governo che abbiano una disciplina uniforme,
almeno con riferimento agli aspetti essenziali” (cfr.
sentenza 26.03.2015, n. 50, in Riv. neldiritto, 2015, 1249,
con nota di DI FOLCO, in Giorn. dir. amm., 2015, 489, con
nota di TUBERTINI, in Giur. cost., 2015, 432, con note di
BARTOLE, DE MARTIN, DI FOLCO e SERGES, ed in Guida al dir.,
2015, 17, 86, con nota di PONTE);
k2) l'intervento di riordino di province e città
metropolitane, di cui alla citata legge n. 56 del 2014,
rientra nella competenza esclusiva statale nella materia “legislazione
elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di
comuni, province e città metropolitane” ex art. 117,
comma 2, lett. p), Cost. (in tal senso: sentenza 07.07.2016,
n. 159, in Foro it., 2016, I, 3720, con nota di G. D'AURIA;
sentenza 21.07.2016, n. 202, in Giur. cost., 2016, 1434;
sentenza 09.02.2017, n. 32, in Foro it., 2018, I, 1848);
k3) in tale quadro, la disciplina del personale degli enti
coinvolti costituisce “uno dei passaggi fondamentali
della riforma” (così la sentenza n. 159 del 2016, cit.),
anch’esso quindi rientrante nella competenza esclusiva dello
Stato in materia di “funzioni fondamentali di comuni,
province e città metropolitane”, essendo evidente che “la
ridefinizione delle funzioni amministrative spettanti a
regioni ed enti locali non può prescindere, per divenire
effettiva, dall'individuazione delle corrispondenti risorse
di beni, di mezzi finanziari e di personale” (così le
sentenze n. 202 del 2016 e n. 32 del 2017, cit.);
k4) i meccanismi di elezione indiretta degli organi di
vertice dei nuovi “enti di area vasta”, previsti
dalla legge n. 56 del 2014, sono “funzionali al
perseguito obiettivo di semplificazione dell'ordinamento
degli enti territoriali, nel quadro della ridisegnata
geografia istituzionale, e contestualmente rispondono ad un
fisiologico fine di risparmio dei costi connessi
all'elezione diretta”; di conseguenza, “il ‘modello
di governo di secondo grado’, adottato dal legislatore
statale [...], rientra tra gli ‘aspetti essenziali’ del
complesso disegno riformatore che si riflette nella legge
stessa” (così la sentenza 20.07.2018, n. 168, in Foro
it., 2018, I, 2961);
k5) le disposizioni sull’elezione indiretta degli organi
territoriali, per l’appunto contenute nella legge n. 56 del
2014, si qualificano, dunque, come “norme fondamentali
delle riforme economico-sociali” ed, in quanto tali,
costituiscono un limite anche all'esercizio delle competenze
legislative di tipo esclusivo: di conseguenza, con la
menzionata sentenza n. 168 del 2018, è stata dichiarata
l’incostituzionalità delle disposizioni della legge della
Regione siciliana n. 17 del 2017 che prevedevano l’elezione
diretta e a suffragio universale del Presidente e dei membri
del Consiglio del “Libero Consorzio comunale” (ente
di area vasta composto dai Comuni di una corrispondente ex
circoscrizione provinciale) e del Consiglio metropolitano;
l) con riguardo all’individuazione ed alla salvaguardia
delle funzioni amministrative comunali si segnalano, di
recente, le seguenti pronunce:
l1)
Corte cost., sentenza 13.06.2018, n. 126 (in Giur.
cost., 2018, 1374, nonché oggetto della
News US in data 02.07.2018, cui si rinvia per
ulteriori richiami), in cui –per un verso– si è ritenuto che
l’intervento del legislatore statale, volto al risanamento
ed alla bonifica di un sito di interesse nazionale (si
trattava, nella specie, delle misure di bonifica ambientale
e di rigenerazione urbana del comprensorio Bagnoli-Coroglio,
previste dall’art. 33 del decreto-legge n. 133 del 2014,
convertito in legge n. 164 del 2014), deve essere ricondotto
alla potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di
ambiente, spettando dunque allo Stato disciplinare, “pure
con disposizioni di dettaglio e anche in sede regolamentare,
le procedure amministrative dirette alla prevenzione,
riparazione e bonifica dei siti contaminati”, anche
esercitando “funzioni propriamente programmatorie a
livello urbanistico” secondo “un adeguato e puntuale
programma di rigenerazione urbana” (venendo in
considerazione interventi “strettamente connessi alla
destinazione urbanistica delle singole aree da bonificare”),
ma in cui –per altro verso– si è tenuta ferma la necessità
di salvaguardare, ex art. 118 Cost., la corretta allocazione
delle funzioni amministrative degli Enti territoriali, anche
eventualmente in sede di conferenza di servizi (dove “le
amministrazioni coinvolte devono raggiungere un accordo sul
programma e solo nel caso in cui ciò non avvenga la
decisione può essere rimessa ad una deliberazione del
Consiglio dei ministri, adottata però con la necessaria
partecipazione alla relativa seduta del Presidente della
Regione interessata”); in tale quadro la Corte ha
altresì precisato che le funzioni comunali in materia di
programmazione urbanistica “non godono di specifica
tutela costituzionale, sebbene i poteri dei Comuni non
possano essere annullati e sia necessario garantire agli
stessi forme di partecipazione ai procedimenti che ne
condizionano l'autonomia”, asseverando che, nel caso di
specie, tali “forme di partecipazione sono state appunto
predisposte dal legislatore statale, che ha individuato
numerose sedi di coinvolgimento del Comune, a monte e a
valle del programma di risanamento”;
l2)
Cons. Stato, sez. IV, ordinanza 04.12.2017, n. 5711
(in Riv. giur. edilizia, 2018, I, 49, con nota di PAGLIAROLI,
nonché oggetto della
News US in data 21.12.2017, cui parimenti si
rinvia), con cui è stata sollevata la questione di
legittimità costituzionale della legge regionale lombarda in
tema di consumo del suolo (legge della Regione Lombardia n.
31 del 2014), sotto il profilo della compressione delle
funzioni comunali in materia urbanistica, ricordandosi,
sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che, “in
relazione ai poteri urbanistici dei Comuni, [...] la legge
nazionale e regionale possa modificarne le caratteristiche o
l'estensione, ovvero subordinarli a preminenti interessi
pubblici, alla condizione di non annullarli o comprimerli
radicalmente, garantendo adeguate forme di partecipazione
dei Comuni interessati ai procedimenti che ne condizionano
l'autonomia” (con richiamo, tra le molte, alle sentenze
della Corte costituzionale n. 378 del 2000, n. 357 del 1998,
n. 286 del 1997, n. 83 del 1997 e n. 61 del 1994) ed altresì
ricordandosi, sulla scorta della pregressa giurisprudenza
del Consiglio di Stato (cfr., tra le tante, la sentenza
della IV sezione n. 821 del 22.02.2017, in Foro amm., 2017,
303), che il potere di pianificazione urbanistica del
territorio, normalmente attribuito al Comune, “non è
limitato alla individuazione delle destinazioni delle zone
del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità
e limiti edificatori delle stesse; al contrario, tale potere
di pianificazione deve essere rettamente inteso in relazione
ad un concetto di urbanistica non limitato alla disciplina
coordinata della edificazione dei suoli [...], ma che, per
mezzo della disciplina dell'utilizzo delle aree, realizzi
anche finalità economico-sociali della comunità locale (non
in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi
interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello
Stato), nel quadro di rispetto e di positiva attuazione di
valori costituzionalmente tutelati; tali finalità, più
complessive dell'urbanistica, e degli strumenti che ne
comportano attuazione, sono peraltro desumibili fin dalla l.
17.08.1942 n. 1150, laddove essa individua il contenuto
della ‘disciplina urbanistica e dei suoi scopi’ -art. 1-,
non solo nell'assetto ed incremento edilizio dell'abitato,
ma anche nello ‘sviluppo urbanistico in genere nel
territorio della Repubblica’”;
m) sui requisiti della decretazione d’urgenza, ai sensi
dell’art. 77, comma 2, Cost., cfr., di recente –oltre agli
altri precedenti menzionati nella sentenza qui in rassegna
ed in linea con quanto da quest’ultima ulteriormente
affermato–
Corte cost., sentenza 15.05.2018, n. 99 (in Giur.
it., 2018, 2395, con nota di BOGGIO, ed in Società, 2018,
830, con nota di DE CHIARA, nonché oggetto della
News US in data 21.05.2018, cui si rinvia per i
necessari approfondimenti), che, nel respingere le questioni
di costituzionalità sulla riforma del sistema delle banche
popolari (di cui al decreto-legge n. 3 del 2015, convertito
in legge n. 33 del 2015), ha ribadito che, ai fini di
un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale ex
art. 77, comma 2, Cost.:
m1) deve essere soddisfatto il requisito dell’“evidente
mancanza” dei presupposti di straordinaria necessità ed
urgenza, nonché di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà
della loro valutazione;
m2) ai fini di valutare la sussistenza di tale requisito ben
può l’interprete considerare il contenuto del preambolo del
decreto-legge e le ragioni giustificative ivi eventualmente
enunciate (nel caso, il preambolo si riferiva alla
straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di
adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei)
ovvero anche la relazione di accompagnamento al disegno di
legge di conversione (nel caso, sono risultati convincenti i
riferimenti, ivi contenuti, alle sollecitazioni provenienti
dal Fondo monetario internazionale e dall’Organizzazione per
lo Sviluppo e la Cooperazione Economica nonché alla crisi
economica e finanziaria in atto);
m3) l’adozione di un decreto-legge è compatibile con
l’intento di operare modificazioni solo parziali e
specifiche di un determinato settore dell’ordinamento, non
assimilabili ad un intervento “di riforma di sistema”;
m4) non è incompatibile con lo
strumento della decretazione d’urgenza la presenza, nel
contesto della normativa così introdotta, di talune
disposizioni non auto-applicative, richiedenti cioè norme di
attuazione;
n) per una ricostruzione generale del rapporto tra
decreto-legge e legge di conversione, nel quadro dei
possibili vizi degli emendamenti apportati in sede di
conversione, cfr. di recente:
n1) Corte cost., sentenza 25.02.2014, n. 32 (in Foro it.,
2014, I, 1003, con nota di ROMBOLI, in Riv. polizia, 2013,
123, con nota di LA CUTE, in Riv. neldiritto, 2014, 1025,
con nota di MABELLINI, in Giur. cost., 2014, 485, con note
di CUPELLI e di LAVARINI, ed in Guida al dir., 2014, 12, 16,
con nota di AMATO), la quale si è soffermata, in
particolare, sui limiti di intervento della legge di
conversione, specificando che quest’ultima –in quanto “legge
funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento
avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal governo
e valido per un lasso temporale breve e circoscritto”,
avente pertanto una “competenza tipica”– sconta di
conseguenza limiti di intervento, non potendo aprirsi a
qualsiasi contenuto che risulti ulteriore ed estraneo
rispetto a quello del decreto-legge (“come del resto
prescrivono anche i regolamenti parlamentari: art. 96-bis
del regolamento della camera dei deputati e art. 97 del
regolamento del senato della repubblica, come interpretato
dalla giunta per il regolamento con il parere
dell’08.11.1984”): “Pertanto, l’inclusione di
emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti
alla materia oggetto del decreto legge, o alle finalità di
quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione
in parte qua”;
n2) Corte cost., sentenza 06.05.2016, n. 94 (in Foro it.,
2016, I, 1880, nonché in Guida al dir., 2016, 24, 42, con
nota di AMATO, in Gazzetta forense, 2016, 712, con nota di
AMOROSO, in Giur. it., 2016, 2492, con nota di MAZZANTI, ed
in Giur. cost., 2016, 869, con nota di SERGES), che ha
dichiarato incostituzionali alcune disposizioni introdotte
dalla legge n. 49 del 2006 (concernenti, in particolare, la
previsione di una nuova contravvenzione in materia di
tossicodipendenza), trattandosi di legge di conversione del
decreto-legge n. 272 del 2005, il cui contenuto è stato
ritenuto dalla Corte “palesemente estraneo” rispetto
a quello dell’emendamento contestato;
o) in dottrina, con riguardo ai presupposti della
decretazione d’urgenza, cfr., tra i più recenti contributi:
CONDEMI, Il punto di correlazione tra l'originario contenuto
del decreto legge e le innovazioni introdotte in sede di
conversione, in Giur. cost., 2015, 1271; DOMENICALI,
Conferme (e future aperture?) in tema di sindacato
costituzionale sulla decretazione d'urgenza, in Studium
iuris, 2017, 430; G. BERNABEI, Carattere provvedimentale
della decretazione d’urgenza, Padova, 2017 (che rivolge
particolare attenzione ai presupposti di “necessità”
e di “urgenza”, spec. 114 ss., dove si pone in
particolare l’accento sulla valutazione che di essi ne
faccia l’esecutivo, sotto la sua responsabilità politica,
unitamente alla questione sui limiti di ammissibilità dei
c.d. decreti-legge ad efficacia differita);
p) sul test di proporzionalità e sul sindacato di
ragionevolezza e razionalità, oltre alle sentenze citate in
motivazione, cfr. Corte cost., sentenza 02.11.1996, n. 370
(in Foro it., 1997, I, 1695, con nota di TRAMONTANO, in Dir.
pen. e proc., 1996, 1473, con nota di PISA, in Corriere giur.,
1997, 405, con nota di LANZI, in Nuovo dir., 1996, 1141, con
nota di NUNZIATA, ed in Giur. cost., 1996, 3351, con note di
MICHELETTI e INSOLERA), con la quale fu dichiarato
incostituzionale il reato di possesso ingiustificato di
valori (art. 708 c.p.), ma fu per contro salvata l’omologa
contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. (possesso
ingiustificato di chiavi o grimaldelli): in tale circostanza
la Corte, per un verso, argomentò la sopravvenuta
irragionevolezza del reato ex art. 708 c.p. (definito uno “strumento
ottocentesco di difesa sociale del tutto inadeguato a
contrastare le nuove dimensioni della criminalità”, “non
più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti
illeciti quali risultano dall’osservazione della realtà
criminale di questi ultimi decenni”) e, per altro verso,
rivenne una plausibile giustificazione nel mantenimento
della contravvenzione ex art. 707 c.p. (affermando che “La
determinazione del fatto-reato circa questa ipotesi
criminosa è data infatti dalla tipologia stessa degli
oggetti detenuti (le ‘chiavi alterate o contraffatte’, le
‘chiavi genuine’, gli ‘strumenti atti ad aprire o a sforzare
serrature’) in ordine ai quali è pleonastica la mancata
giustificazione della loro attuale destinazione”);
q) in tema, per l’applicazione dei principi di uguaglianza e
di ragionevolezza nella previsione delle pene, nonché sullo
status del principio di proporzionalità dei trattamenti
punitivi, cfr., da ultimo, in dottrina, E. COTTU, Giudizio
di ragionevolezza e vaglio di proporzionalità della pena:
verso un superamento del modello triadico?, in Dir. pen
processo, 2017, 473 (commento alla sentenza della Corte
costituzionale n. 236 del 2016);
r) secondo l’elaborazione dottrinale classica, il controllo
di ragionevolezza può dispiegarsi, in linea generale,
secondo due diverse direttrici:
r1) come controllo di ragionevolezza estrinseca
(conformemente alla sua derivazione dal principio di
eguaglianza), cioè come il risultato di un giudizio
relazionale, fondato cioè sul raffronto con un tertium
comparationis (cfr. in dottrina, per in contributi
classici: PALADIN, Corte costituzionale e principio generale
di eguaglianza, in Giur. cost., 1984, I, 219 ss.;
ZAGREBELSKY, Processo costituzionale, voce dell’Enciclopedia
del diritto, Milano, 1987, XXXVI, 558 ss.; SERGES, Questione
di legittimità costituzionale alla stregua del principio di
eguaglianza ed individuazione del «tertium comparationis»,
in Giur. it., 1989, IV, 3 ss.; BIN, Diritti e argomenti. Il
bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza
costituzionale, Milano, 1982, 42 ss.);
r2) come controllo di
ragionevolezza intrinseca, nel senso cioè di una valutazione
circa la giustizia o la bontà in sé della legislazione e,
quindi, di un’irragionevolezza risultante anche dalla stessa
disposizione impugnata, isolatamente considerata, e non
necessariamente dal confronto di quest’ultima con altra
disposizione analoga (cfr., in particolare, in dottrina,
CORASANITI, Principio di ragionevolezza nella giurisprudenza
della Corte costituzionale, Milano, 1994; ZAGREBELSKY, La
giustizia costituzionale, Bologna, 1988, 147 ss.; più di
recente, in generale, cfr. MARTINEZ, Diritto costituzionale,
Milano, 2012, XII ed., 484 ss., nonché J. LUTHER,
Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. disc. pubbl., 1997,
aggiornato al 2011);
s) da ultimo, per un’applicazione dei criteri del sindacato
di ragionevolezza al campo economico-finanziario,
specialmente alla luce della nuova formulazione dell’art. 81
Cost., il contributo di V. POLI, Il controllo della Corte
costituzionale (al tempo della crisi) sulle leggi in materia
economica, in Foro it., 2014, V, 19, con riferimenti anche a
giurisprudenza straniera, nel quale si propone “un test
di ragionevolezza incentrato sull’attendibilità
tecnico-finanziaria delle leggi in materia economica”
(nell’ambito del quale “la necessità di recuperare
l’equilibrio di bilancio non ha una prevalenza
incondizionata sulle previsioni e gli interessi tutelati
dalla Costituzione”, tenendo presente che “le stesse
politiche di equilibrio non possono essere perseguite ad
ogni costo e contro la logica delle dinamiche più
scientificamente consolidate della politica finanziaria
fiscale ed economica in genere”) (Corte
Costituzionale,
sentenza 04.03.2019 n. 33 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La destinazione abitativa di un sottotetto, che secondo gli
strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica, costituisce
mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il rilascio
preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione avviene tra
categorie non omogenee.
Sul punto non esplica alcun rilievo l'intervenuta modifica normativa operata
dal d.l. n. 133 del 2014, essendo stato affermato da questa Corte che
in tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di
un immobile previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del
d.P.R. n. 380 del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art.
17 del D.L. n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del
citato d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di
manutenzione straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità
immobiliari con esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie
o del carico urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la
volumetria complessiva e la originaria destinazione d'uso.
Nello stesso senso la giurisprudenza amministrativa, secondo il cui costante
orientamento giurisprudenziale per l'identificazione dei
volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo
sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con
l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo hanno
carattere negativo e sono collegati: all'impossibilità di elaborare
soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui
tali volumi devono essere ubicati solo all'esterno; ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono
limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e
devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche
solo potenziale.
È stato in particolare escluso che possa
considerarsi volume tecnico un locale con requisiti di abitabilità, reso non
abitabile con una semplice operazione di tamponamento delle finestre,
essendo questa "una operazione in sé talmente semplice, reversibile e
surrettizia da non privare l'ambiente della sua intrinseca qualità
abitativa".
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di
un locale sottotetto con vani distinti e comunicanti con il piano
sottostante mediante una scala interna, costituisse "indice rilevatore
dell'intento di rendere abitabile detto locale, non potendosi considerare
volumi tecnici i vani in esso ricavati".
---------------
Per la normativa edilizia [art. 3, comma 1, lettere a) e c)
del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con l'art. 10 comma 1, lett.
c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere interne e gli interventi
di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del
preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta comportino
mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente autonome.
---------------
7. Quanto al secondo ed al terzo motivo, che, attesa
l'omogeneità dei profili di doglianza, meritano congiunta trattazione, gli
stessi appalesano parimenti inammissibili.
Ed invero, quanto alla necessità del p.d.c. in relazione al mutamento della
destinazione d'uso del sottotetto per finalità abitative, correttamente i
giudici di appello richiamano la consolidata giurisprudenza
di questa Corte secondo cui la destinazione abitativa di un sottotetto, che
secondo gli strumenti urbanistici aveva soltanto una funzione tecnica,
costituisce mutamento di destinazione d'uso per il quale è necessario il
rilascio preventivo del permesso di costruire, atteso che la variazione
avviene tra categorie non omogenee (in termini: Sez. 3, n. 17359 del
08/03/2007 - dep. 08/05/2007, P.M. in proc. Vazza, Rv. 236493).
Sul punto non esplica alcun rilievo l'intervenuta modifica normativa operata
dal d.l. n. 133 del 2014, essendo stato affermato da questa Corte che in
tema di reati urbanistici, il mutamento di destinazione d'uso di un immobile
previa esecuzione di opere edilizie, senza il preventivo rilascio del
permesso di costruire, integra il reato di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380
del 2001, essendo irrilevanti le modifiche apportate dall'art. 17 del D.L.
n. 133 del 2014 (conv. in legge n. 164 del 2014) all'art. 3 del citato
d.P.R. che, nell'estendere la categoria degli interventi di manutenzione
straordinaria al frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con
esecuzione di opere, se comportante variazione di superficie o del carico
urbanistico, richiede comunque che rimangano immutate la volumetria
complessiva e la originaria destinazione d'uso (in termini: Sez. 3, n. 3953
del 16/10/2014 - dep. 28/01/2015, Statuto, Rv. 262018).
Nello stesso senso la giurisprudenza amministrativa, secondo il cui costante
orientamento giurisprudenziale (TAR Napoli n. 3490/2015 e n. 4132/2013;
Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza n. 175/2015 e n. 1512/2014;
Consiglio di giustizia amministrativa, sentenza n. 207/2014), per
l'identificazione dei volumi tecnici va fatto riferimento a tre ordini di
parametri.
Il primo ha carattere positivo ed è di tipo funzionale, dovendo
sussistere un rapporto di strumentalità necessaria del volume tecnico con
l'utilizzo della costruzione; il secondo e il terzo hanno
carattere negativo e sono collegati: all'impossibilità di elaborare
soluzioni progettuali diverse all'interno della parte abitativa, per cui
tali volumi devono essere ubicati solo all'esterno; ad un rapporto di
necessaria proporzionalità fra le esigenze edilizie ed i volumi, che devono
limitarsi a contenere gli impianti serventi della costruzione principale e
devono essere completamente privi di una propria autonomia funzionale, anche
solo potenziale.
È stato in particolare escluso che possa considerarsi volume tecnico un
locale con requisiti di abitabilità, reso non abitabile con una semplice
operazione di tamponamento delle finestre, essendo questa "una operazione
in sé talmente semplice, reversibile e surrettizia da non privare l'ambiente
della sua intrinseca qualità abitativa" (Consiglio di Stato, sezione VI,
n. 2825/2014).
Come pure è stato ritenuto che la realizzazione di un locale sottotetto con
vani distinti e comunicanti con il piano sottostante mediante una scala
interna, costituisse "indice rilevatore dell'intento di rendere abitabile
detto locale, non potendosi considerare volumi tecnici i vani in esso
ricavati" (Consiglio di giustizia amministrativa siciliana, sentenza n.
207/2014; Consiglio di stato, sezione IV, sentenza n. 3666/2013; Tar
Puglia-Lecce, sezione III, n. 2170/2011).
8. E, nella specie, è la stessa ricorrente a riconoscere nella propria
impugnazione (pag. 5) che i due corpi di fabbrica sono tra loro collegati da
una botola, ciò che, unitamente agli altri elementi individuati dai giudici
di merito, rendeva evidente la finalità abitativa del locale sottotetto;
quanto infatti al presunto vizio motivazionale sul punto, le censure della
ricorrente sono del tutto prive di pregio, non tenendo conto della puntuale
motivazione dei giudici di appello che pervengono all'affermazione della
responsabilità dell'imputata, riconoscendo la sussistenza della contestata
modifica della destinazione d'uso del sottotetto per finalità abitative
sulla scorta di argomenti la cui tenuta motivazionale è fuori discussione.
Si legge in sentenza, in particolare, anzitutto che non rileva la
circostanza che non fosse stato provato l'effettivo abbassamento del piano
di calpestio, in quanto la natura delle opere realizzate all'interno del
sottotetto dimostrava inequivocabilmente la modifica della destinazione
d'uso dello stesso e la sua trasformazione in unità abitativa; ancora, si
evidenzia come dal verbale di sequestro in atti risultava che il locale
sottotetto si presentava, al momento, dell'accertamento, fornito di
impiantistica elettrica e televisiva, di impiantistica idraulica e di
riscaldamento in fase di completamento, presentatosi l'area completamente
pavimentata ad eccezione di un piccolo locale, la cui destinazione alla
realizzazione di un bagno era dimostrata dalla presenza di impiantistica
idraulica.
Sulla base di tale elementi, quindi, i giudici di appello pervengono alla
logica conclusione per cui non poteva ritenersi che gli impianti rinvenuti
fossero stati realizzati a servizio del locale sottostante, in quanto dal
fascicolo fotografico e dal verbale di sequestro era chiaramente evincibile
che il sottotetto non era un semplice locale destinato ad uso tecnico,
poiché era munito di finestre corredate da infissi, era rifinito, la
pavimentazione era nuova ed all'interno di era anche un locale destinato
alla realizzazione di un bagno.
Infine, correttamente, affermano i giudici di merito, la responsabilità non
poteva essere esclusa per il fatto che le opere avessero carattere interno,
richiamando sul punto la consolidata giurisprudenza amministrativa,
condivisa dal Collegio, secondo cui per la normativa edilizia [art. 3, comma
1, lettere a) e c) del T.U. n. 380 del 2001, in combinato disposto con
l'art. 10 comma 1, lett. c) e con l'art. 23-ter del medesimo T.U.], le opere
interne e gli interventi di ristrutturazione urbanistica, come pure quelli
di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo,
necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire ogni qualvolta
comportino mutamento di destinazione d'uso tra due categorie funzionalmente
autonome (v., tra le tante: TAR Roma, (Lazio) sez. II, 04/04/2017, n. 4225) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 01.03.2019 n. 9046). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva - Aree destinate a campeggio -
Esecuzione di opere stabili - Gestione campeggio con
allestimenti e servizi finalizzati alla sosta ed al
soggiorno dei turisti - Art. 734 cod. pen. - Artt. 30, 44,
d.P.R. 380/2001.
E' configurabile la lottizzazione
abusiva con riferimento ad aree destinate a campeggio
interessate dall'esecuzione di opere stabili con conseguente
formazione di insediamento residenziale.
Pertanto, in tema di attività campeggistica e lottizzazione
abusiva, si integra il reato dalla realizzazione,
all'interno di una area adibita a campeggio, di una
struttura ricettiva con caratteristiche tipiche di uno
stabile insediamento residenziale, ricordando come il
campeggio sia caratterizzato dalla presenza di allestimenti
e servizi finalizzati alla sosta ed al soggiorno dei
turisti, dovendosi quindi escludere ogni forma di stabile
residenza, come risulta evidente dall'espresso riferimento
alla «sosta» ed al «soggiorno», che presuppongono una
permanenza temporanea ed alla figura del «turista», il quale
è individuabile, secondo il significato della parola stessa,
come un soggetto che viaggia e soggiorna in località diverse
dalla sua residenza abituale per un periodo di tempo
limitato per piacere, affari o altri scopi, osservando,
peraltro, come tale definizione coincida sostanzialmente con
quella data dalla Organizzazione Mondiale del Turismo,
agenzia delle Nazioni Unite (WTO, Ottawa Conference on
Travel and Tourism Statistics, 1991)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.03.2019 n. 8970 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati urbanistici - Effetti e limiti sulla persona giuridica
proprietaria del bene confiscato rimasta estranea al
processo - Verifiche del giudice dell'esecuzione.
In materia di confisca per reati
urbanistici, la persona giuridica proprietaria del bene
confiscato che sia rimasta estranea al processo può far
valere le proprie ragioni innanzi al giudice dell'esecuzione
il quale, ai fini della decisione, ha il potere-dovere di
accertare in modo autonomo la sussistenza del reato e
l'estraneità ad esso della persona giuridica nei confronti
della quale il giudicato non produce effetti e che non può
considerarsi terza estranea al reato ed al processo la
persona giuridica che costituisca mero schermo attraverso il
quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.03.2019 n. 8970 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Violazione delle norme
sulle distanze nelle costruzioni - RISARCIMENTO DEL DANNO -
Danno morale subito dal privato confinante - Danno
risarcibile - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Reato commesso
contro la P.A. - Artt. 65 e 72 DPR n. 380/2001 - Art. 2059
c.c..
Il danno non patrimoniale subito dal
privato confinante non può ritenersi conseguente al reato
commesso contro la P.A. (nella specie per la violazione
della normativa in tema di c.a.), essendo invero pacifico
nella giurisprudenza civilistica che solo nel caso di
violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni e
dalle norme integrative, quali i regolamenti edilizi
comunali, è concessa l'azione risarcitoria per il danno
determinatosi prima della riduzione in pristino, senza la
necessità di una specifica attività probatoria, perché il
danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non
danno evento) è l'effetto (certo) dell'abusiva imposizione
di una servitù nel proprio fondo e quindi della limitazione
del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione
temporanea del valore della proprietà medesima.
Viceversa, nel caso in cui siano violate disposizioni non
integrative delle norme sulle distanze, ma norme
amministrative diverse da quelle in materia di distanze,
mancando un asservimento di fatto del fondo contiguo, la
prova del danno è richiesta ed il proprietario è tenuto a
fornirne una dimostrazione precisa, sia in ordine alla sua
potenziale esistenza che alla sua entità obiettiva, in
termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro, oltre
che l'accertamento del nesso tra la violazione e il
pregiudizio subito, la prova del quale, a carico della parte
interessata, deve riguardare sia la sussistenza che l'entità
del danno (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.03.2019 n. 8965 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
RUP: quando può essere presidente della commissione
giudicatrice.
Dibattuta è stata la questione
interpretativa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del
2016 (nel testo anteriore alla novella), inerente il quesito
se possa svolgere le funzioni di presidente della
Commissione (come avveniva nel vigore del previgente art. 84
del d.lgs. n. 163 del 2006) anche il R.U.P.
Nella fattispecie in esame, nella quale il R.U.P. non ha
anche predisposto gli atti di gara, redatti da altra unità
organizzativa dell’Amministrazione, e peraltro riproduttivi
della lex specialis delle precedenti procedure per
l’affidamento del medesimo servizio, la soluzione del
quesito appare al Collegio che possa essere prudentemente
positiva.
La norma contenuta nell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50
del 2016 può infatti essere interpretata, come ha fatto il
primo giudice, nel senso che l’eventuale incompatibilità
debba essere comprovata, sul piano concreto e di volta in
volta, sotto il profilo dell’interferenza sulle rispettive
funzioni assegnate al R.U.P. ed alla Commissione.
Ha condivisibilmente sottolineato la sentenza che «sarebbe
stato onere della ricorrente fornire precisi elementi di
prova sull’esistenza di possibili e concreti
condizionamenti, del componente in questione, in relazione
all’attività di RUP»; al contrario, nessuna contestazione è
stata svolta, se non marginalmente, e comunque tardivamente,
con la memoria depositata in data 05.07.2018, ai punteggi
attribuiti dalla Commissione alle offerte tecniche, in base
al coefficiente ponderale previsto per ciascun criterio.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della
disposizione dell’art. 77, comma 4, è quello per cui chi ha
redatto la lex specialis non può essere componente della
Commissione, costituendo il principio della separazione tra
chi predisponga il regolamento di gara e chi è chiamato a
concretamente applicarlo una regola generale posta a tutela
della trasparenza della procedura, e dunque a garanzia del
diritto delle parti ad una decisione adottata da un organo
terzo ed imparziale mediante valutazioni il più possibile
oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che l’hanno
preceduta.
Il che conferma l’assunto secondo cui il ruolo di R.U.P. con
le funzioni di presidente o componente della Commissione è
precluso allorché sussista la concreta dimostrazione che i
due ruoli siano incompatibili, per motivi di interferenza e
di condizionamento tra gli stessi.
---------------
Non è possibile riferire le ragioni di incompatibilità ad un
incarico anteriore nel tempo alle preclusioni che
deriveranno solamente dall’assunzione di un incarico
posteriore.
Si intende dire che, anche a seguire un’interpretazione
rigorosa dell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016,
potrebbe al più determinarsi la preclusione al conferimento
dell’incarico di responsabile dell’esecuzione in capo a chi
ha fatto parte della Commissione di gara, ma non certo la
preclusione ad assumere le funzioni di commissario da parte
di chi svolgerà solamente in una fase successiva le funzioni
di responsabile dell’esecuzione.
---------------
2. - Procedendo alla disamina del merito, con il primo
motivo di appello viene criticata la sentenza
deducendosi la illegittima commistione, melius
concentrazione di tutti i ruoli procedurali in capo alla
medesima persona, in violazione dell’art. 77, comma 4, del
d.lgs. n. 50 del 2016, e poi anche l’incompatibilità di un
altro componente della Commissione.
In particolare; sotto il primo profilo, si deduce
l’incompatibilità assoluta del presidente della Commissione,
in quanto è lo stesso soggetto che ha approvato gli atti di
gara, presieduto la Commissione, svolto la verifica di
anomalia dell’offerta, che ha la qualifica di R.U.P., di
dirigente del Servizio Cultura (ed in tale veste ha
stipulato il contratto), e dunque anche superiore gerarchico
degli altri due componenti della Commissione, appartenenti
alla stessa Unità operativa (la dott.ssa En. quale
responsabile dell’U.O. Servizi Culturali, la dott.ssa Me.
quale referente delle iniziative culturali); sotto il
secondo profilo, è stata contestata l’incompatibilità (anche
in questo caso in violazione dell’art. 77, comma 4, del
d.lgs. n. 50 del 2016) della dott.ssa En. ad essere
designata quale responsabile per la fase esecutiva, avendo
ricoperto la funzione di membro della Commissione di gara.
Il complesso motivo, nonostante la sua problematicità, va
respinto.
Dibattuta è stata la questione interpretativa dell’art. 77,
comma 4, del d.lgs. n. 50 del 2016 (nel testo anteriore alla
novella), inerente il quesito se possa svolgere le funzioni
di presidente della Commissione (come avveniva nel vigore
del previgente art. 84 del d.lgs. n. 163 del 2006) anche il
R.U.P.
Nella fattispecie in esame, nella quale il R.U.P. non ha
anche predisposto gli atti di gara, redatti da altra unità
organizzativa dell’Amministrazione, e peraltro riproduttivi
della lex specialis delle precedenti procedure per
l’affidamento del medesimo servizio, la soluzione del
quesito appare al Collegio che possa essere prudentemente
positiva.
La norma contenuta nell’art. 77, comma 4, del d.lgs. n. 50
del 2016 può infatti essere interpretata, come ha fatto il
primo giudice, nel senso che l’eventuale incompatibilità
debba essere comprovata, sul piano concreto e di volta in
volta, sotto il profilo dell’interferenza sulle rispettive
funzioni assegnate al R.U.P. ed alla Commissione. Ha
condivisibilmente sottolineato la sentenza che «sarebbe
stato onere della ricorrente fornire precisi elementi di
prova sull’esistenza di possibili e concreti
condizionamenti, del componente in questione, in relazione
all’attività di RUP»; al contrario, nessuna
contestazione è stata svolta, se non marginalmente, e
comunque tardivamente, con la memoria depositata in data
05.07.2018, ai punteggi attribuiti dalla Commissione alle
offerte tecniche, in base al coefficiente ponderale previsto
per ciascun criterio.
Del resto, il fondamento ultimo di razionalità della
disposizione dell’art. 77, comma 4, è quello per cui chi ha
redatto la lex specialis non può essere componente
della Commissione, costituendo il principio della
separazione tra chi predisponga il regolamento di gara e chi
è chiamato a concretamente applicarlo una regola generale
posta a tutela della trasparenza della procedura, e dunque a
garanzia del diritto delle parti ad una decisione adottata
da un organo terzo ed imparziale mediante valutazioni il più
possibile oggettive, e cioè non influenzate dalle scelte che
l’hanno preceduta. Il che conferma l’assunto secondo cui il
ruolo di R.U.P. con le funzioni di presidente o componente
della Commissione è precluso allorché sussista la concreta
dimostrazione che i due ruoli siano incompatibili, per
motivi di interferenza e di condizionamento tra gli stessi (Cons.
Stato, III, 26.10.2018, n. 6082).
Quanto al rapporto tra il presidente della Commissione ed i
due membri, non può parlarsi certamente di una dipendenza
giuridica, non essendo ravvisabile un rapporto di gerarchia
all’interno degli uffici pubblici e comunque risultando le
dott.sse Me. ed En. titolari di un incarico di posizione
organizzativa, caratterizzato da maggiore autonomia.
2.1. - Infondato è anche il sub-motivo sull’incompatibilità
della dott.ssa En., chiamata a svolgere le funzioni di
responsabile del procedimento per la fase esecutiva.
Ed infatti non è possibile riferire le ragioni di
incompatibilità ad un incarico anteriore nel tempo alle
preclusioni che deriveranno solamente dall’assunzione di un
incarico posteriore; si intende dire che, anche a seguire
un’interpretazione rigorosa dell’art. 77, comma 4, del
d.lgs. n. 50 del 2016, potrebbe al più determinarsi la
preclusione al conferimento dell’incarico di responsabile
dell’esecuzione in capo a chi ha fatto parte della
Commissione di gara, ma non certo la preclusione ad assumere
le funzioni di commissario da parte di chi svolgerà
solamente in una fase successiva le funzioni di responsabile
dell’esecuzione (in termini Cons. Stato, V, 04.02.2019, n.
819) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.02.2019 n. 1387 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Responsabilità solidale tra enti esproprianti.
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Risarcimento danni – Espropriazione per pubblica utilità
– Occupazione sine titulo – Amministrazione committente
dell’opera e soggetto affidatario – responsabilità solidale
– Sussiste.
Per l’illecito consistente
nell’occupazione di immobile sine titulo sussiste la
responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra
l’amministrazione pubblica committente dell’opera ed il
soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla
realizzazione dell’opera, sia stata affidata, in virtù di
delega anche il potere di gestire, in nome e per conto del
delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il
decreto di espropriazione (1).
---------------
(1) Cass. civ., sez. I, 01.02.2016, n. 1870; id. 27.02.2009, n.
4817; id. 07.07.2008, n. 18612.
Ha chiarito la Sezione che nel caso sottoposto al suo esame,
in cui ricorre un illecito consistente in occupazione sine
titulo di un immobile per mancata emanazione del decreto di
espropriazione, non può esservi alcun dubbio, alla luce dei
principi enunciati dalla giurisprudenza, in ordine alla
sussistenza della responsabilità dei soggetti pubblici (ANAS
e Ministero); e ciò, in concreto, perché: per un verso,
hanno certamente conservato il potere di vigilanza e
controllo sull’operato del proprio delegato Autostrade
Centro Padane, di modo che rispondono, ex art. 2043 c.c. e
40 c.p., (anche) per il comportamento omissivo di questo in
quanto causativo di danno; per altro verso, stante la
cessazione di efficacia della concessione, ANAS in
particolare ha riassunto su di sé l’esercizio del potere
espropriativo, in tal modo tenendo direttamente il
comportamento omissivo fonte di responsabilità.
A ciò va ulteriormente aggiunto che, anche in presenza di un
rapporto concessorio (pur se previsto per legge), resta
sempre fermo il potere/dovere di vigilanza
dell’amministrazione concedente sull’attività del
concessionario, con particolare riguardo all’esercizio di
poteri pubblici da parte di questi. E ciò in quanto
l’amministrazione è pur sempre il soggetto cui è attribuita
la titolarità del potere espropriativo in ragione del
principio di legalità, di modo che restano sempre fermi
(essendo irrilevanti in tal senso disposizioni convenzionali
di segno diverso) i suoi poteri di vigilanza e controllo, i
quali possono spingersi fino alla revoca (sanzionatoria)
della concessione.
Il che comporta, anche in queste ipotesi,
una necessaria verifica della eventuale sussistenza della
responsabilità per culpa in vigilando
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 26.02.2019 n. n. 1332 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
5.2.1. In tema di illecito consistente nella occupazione
di immobili non seguita da emanazione del decreto di
esproprio entro il termine previsto dalla dichiarazione di
pubblica utilità, la Corte di Cassazione (Sez. Un., 16.03.2010 n. 6309) ha già avuto modo di affermare (peraltro,
proprio in controversia avente ANAS come parte) che:
“ove un ente o un'impresa curino la realizzazione di
un'opera di pertinenza di una p.a. o, per altro verso
sussista un'ipotesi di collaborazione tra di essi nella sua
esecuzione, nel caso di abusiva occupazione, nonché di
illegittima ed irreversibile trasformazione dell'immobile
privato di tali fatti risponde anzitutto l'ente o l'impresa
che ha effettivamente agito per realizzare tale risultato al
di fuori della procedura espropriativa.
In questa ipotesi tuttavia può sussistere ... una
corresponsabilità solidale dell'Ente delegante, il quale con
il conferimento del mandato non si spoglia delle
responsabilità relative allo svolgimento della procedura espropriativa secondo i suoi parametri soprattutto
temporali; e conserva quindi l'obbligo di sorvegliarne il
corretto svolgimento, anche perché questa si svolge non solo
in nome e per conto di detta amministrazione, ma altresì
d'intesa con essa.
Ed è da ritenere che quest'ultima conservi un potere di
controllo o di stimolo dei comportamenti del delegato -si
tratti di un ente, di una cooperativa, o di un'impresa- il
cui mancato o insufficiente esercizio obbliga lo stesso
delegante, in presenza di tutti i presupposti, al relativo
risarcimento ai sensi del combinato disposto degli art. 2043
e 2055 cod. civ. (Cass. 14959/2007; 23279/2006; 18237/2002;
9812/2001).
Per cui il problema che può porsi è esclusivamente quello di
accertare se alla causazione di quel danno
(inconfutabilmente "ingiusto" perché incidente sul diritto
di proprietà) avessero, e in che misura, contribuito
eventuali negligenze o colpevoli inerzie di detto ente: pur
da accertare alla stregua del rapporto di causalità
stabilito dagli artt. 40 e 41 cod. pen., e non certamente in
base al rapporto interno tra gli enti in questione, come
disciplinato da atti e convenzioni tra di loro intercorsi:
neppure se si concretino in assunzioni unilaterali di
responsabilità nonché dell'intero onere economico della
costruzione dell'opera, o, comunque dell'impegno di
apprestare i mezzi finanziari. O, infine in quello di
fornire una qualche collaborazione al quale risulti, poi,
inadempiente: e ciò, perfino quando proprio l'inadempimento
abbia concorso alla mancata o ritardata adozione del decreto
ablativo: ciò potendo al più comportare una facoltà di
rivalsa (ove ne ricorrano i presupposti: cfr. Cass.
12958/2004) dell'ente danneggiato nei confronti di quello
autore dell'inadempimento o del comportamento colposo che ha
impedito il perfezionarsi del procedimento di esproprio.”.
Si è ulteriormente ed in senso conforme affermato (Corte
Cass., sez. I, 17.09.2015 n. 18236; in senso
conforme, Cass., Sez. Un., 23.11.2007, n. 24397), che
nel caso di occupazione illegittima, “trova applicazione il
principio secondo cui dell'illecito risponde sempre e
comunque l'ente che ha posto in essere le attività materiali
di apprensione del bene e di esecuzione dell'opera pubblica,
cui consegue il mutamento del regime di appartenenza del
bene, potendo solo residuare, qualora lo stesso (come
delegato, concessionario od appaltatore) curi la
realizzazione di un'opera di pertinenza di altra
amministrazione, la responsabilità concorrente di quest'ultima,
da valutare sulla base della rilevanza causale delle singole
condotte, a seconda che si tratti di concessione c.d.
"traslativa", ovvero di delega L. n. 865 del 1971, ex art.
60. In ogni caso, gli atti e le convenzioni intercorsi,
anche se si concretano in assunzioni unilaterali di
responsabilità, rilevano nei soli rapporti interni tra gli
enti eventualmente corresponsabili, mentre dei danni causati
nella materiale costruzione dell'opera pubblica, risponde
solo l'appaltatore-esecutore, in quanto gli stessi non sono
collegabili né all'esecuzione del progetto, né a direttive
specifiche dell'amministrazione concorrente, ma a propri
comportamenti materiali in violazione del precetto generale
dell'art. 2043 cod. civ.” .
Sul punto, si è più incisivamente (ed ampliativamente)
affermato di recente (Cass. civ., sez. I, ord. 22.08.2018
n. 20942) che , in caso di appalto di opere pubbliche, la
responsabilità concorrente e solidale dell'amministrazione
committente non può essere esclusa anche nel caso in cui il
fatto dannoso sia stato posto in essere in esecuzione del
progetto da essa approvato, mentre una sua responsabilità
esclusiva resta configurabile solo allorquando essa abbia
rigidamente vincolato l'attività dell'appaltatore, così da
neutralizzare completamente la sua libertà di decisione.
Conformemente a quanto affermato dalla Suprema Corte di
Cassazione, anche questa Sezione ha già avuto modo di
pronunciarsi in ordine alla sussistenza della responsabilità
solidale dell’amministrazione con il soggetto delegato al
compimento dei lavori e delle procedure espropriative (Cons.
Stato, sez. IV, 28.07.2016 n. 3416).
Si è affermato quindi che l’amministrazione “non può
invocare un contratto stipulato con l'appaltatrice
(nell'ambito del quale, peraltro, neppure era stato dedotto
che essa non dovesse esercitare i propri poteri di
sorveglianza e vigilanza nei confronti dell'appaltatrice)
per invocare il proprio esonero da responsabilità nei
confronti della parte proprietaria del fondo
illegittimamente occupato e trasformato (che a detto
contratto è rimasta totalmente estranea).
Ciò discende da consolidati principi civilistici (res inter
alios acta tertiis neque nocet neque prodest) e dalla
consolidata giurisprudenza amministrativa e civile che in
materia ha configurato un possibile esonero di
responsabilità in favore dell'Ente espropriante (peraltro
unicamente al ricorrere di particolari condizioni) soltanto
nella ... ipotesi della c.d. "concessione traslativa” (ex aliis Cass. Civ., sez. I, 17.09.2015, n. 18236; Cons.
Stato sez. IV 21.08.2013 n. 4229).
E' stato infatti costantemente affermato, in materia, il
principio per cui (ex aliis Cons. Stato, sez. IV, 11.12.2014, n. 6080; 28.01.2011 n. 676) sussiste
responsabilità solidale tra la pubblica amministrazione e il
soggetto delegato allo svolgimento delle procedure espropriative per i danni cagionati all'espropriato per
occupazione illegittima.”.
Alla luce di quanto già considerato dalla giurisprudenza,
può, quindi, affermarsi come per l’illecito consistente
nell’occupazione di immobile sine titulo sussiste la
responsabilità solidale per il risarcimento del danno tra
l’amministrazione pubblica committente dell’opera ed il
soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla
realizzazione dell’opera, sia stata affidata, in virtù di
delega anche il potere di gestire, in nome e per conto del
delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il
decreto di espropriazione (Cass. Civ., sez. I, 01.02.2016 n. 1870; 27.02.2009 n. 4817;
07.07.2008 n.
18612). |
EDILIZIA PRIVATA: Vie
e piazze pubbliche e interesse storico ed
artistico.
Ai sensi del comma 1
dell'articolo 10 del decreto legislativo n.
42 del 2004, le pubbliche piazze, vie,
strade e altri spazi aperti urbani sono
soggetti ad una presunzione di interesse
storico e artistico, fatto salvo l’esito
negativo della verifica condotta ai sensi
dell’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42 del
2004
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 25.02.2019 n. 411 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
1. Il Comune di Cusano Milanino chiede
l’annullamento del provvedimento del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
- Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici delle Province di Milano,
Bergamo, Como, Lecco, Lodi, Pavia, Sondrio,
Varese, del 02.12.2008, prot. 13328/SG,
ricevuto dal Comune il 13.01.2009, nella
parte in cui detta prescrizioni di carattere
monumentale sugli interventi da realizzare
sul Viale Buffoli in Cusano Milanino.
2. Con il primo motivo di ricorso il
Comune lamenta, in sostanza, la nullità del
provvedimento per carenza di potere
dell’Amministrazione atteso che gli
interventi interessanti il viale non
richiederebbero l’autorizzazione della
Soprintendenza di cui all’articolo 21, comma
4, del d.lgs. n. 42/2004, ma soltanto
l’autorizzazione paesaggistica delegata allo
stesso Comune, su cui la Soprintendenza
avrebbe potuto esercitare soltanto il potere
di annullamento di cui all’art. 159, comma
3, del d.lgs. n. 42/2004.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. La previsione di cui all’articolo 12
del d.lgs. 42 del 2004, nella versione
vigente ratione temporis, prevede: “1.
Le cose immobili e mobili indicate
all'articolo 10, comma 1, che siano opera di
autore non più vivente e la cui esecuzione
risalga ad oltre cinquanta anni, sono
sottoposte alle disposizioni della presente
Parte fino a quando non sia stata effettuata
la verifica di cui al comma 2.
2. I competenti organi del Ministero,
d'ufficio o su richiesta formulata dai
soggetti cui le cose appartengono e
corredata dai relativi dati conoscitivi,
verificano la sussistenza dell'interesse
artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico nelle cose di cui al comma
1, sulla base di indirizzi di carattere
generale stabiliti dal Ministero medesimo al
fine di assicurare uniformità di
valutazione.
3. Per i beni immobili dello Stato, la
richiesta di cui al comma 2 è corredata da
elenchi dei beni e dalle relative schede
descrittive. I criteri per la
predisposizione degli elenchi, le modalità
di redazione delle schede descrittive e di
trasmissione di elenchi e schede sono
stabiliti con decreto del Ministero adottato
di concerto con l'Agenzia del demanio e, per
i beni immobili in uso all'amministrazione
della difesa, anche con il concerto della
competente direzione generale dei lavori e
del demanio. Il Ministero fissa, con propri
decreti, i criteri e le modalità per la
predisposizione e la presentazione delle
richieste di verifica, e della relativa
documentazione conoscitiva, da parte degli
altri soggetti di cui al comma 1.
4. Qualora nelle cose sottoposte a verifica
non sia stato riscontrato l'interesse di cui
al comma 2, le cose medesime sono escluse
dall'applicazione delle disposizioni del
presente Titolo.
5. Nel caso di verifica con esito negativo
su cose appartenenti al demanio dello Stato,
delle regioni e degli altri enti pubblici
territoriali, la scheda contenente i
relativi dati è trasmessa ai competenti
uffici affinché ne dispongano la
sdemanializzazione qualora, secondo le
valutazioni dell'amministrazione
interessata, non vi ostino altre ragioni di
pubblico interesse.
6. Le cose di cui al comma 4 e quelle di cui
al comma 5 per le quali si sia proceduto
alla sdemanializzazione sono liberamente
alienabili, ai fini del presente codice.
7. L'accertamento dell'interesse artistico,
storico, archeologico o etnoantropologico,
effettuato in conformità agli indirizzi
generali di cui al comma 2, costituisce
dichiarazione ai sensi dell'articolo 13 ed
il relativo provvedimento è trascritto nei
modi previsti dall'articolo 15, comma 2. I
beni restano definitivamente sottoposti alle
disposizioni del presente Titolo.
8. Le schede descrittive degli immobili di
proprietà dello Stato oggetto di verifica
con esito positivo, integrate con il
provvedimento di cui al comma 7,
confluiscono in un archivio informatico,
conservato presso il Ministero e accessibile
al Ministero e all'Agenzia del demanio, per
finalità di monitoraggio del patrimonio
immobiliare e di programmazione degli
interventi in funzione delle rispettive
competenze istituzionali.
9. Le disposizioni del presente articolo si
applicano alle cose di cui al comma 1 anche
qualora i soggetti cui esse appartengono
mutino in qualunque modo la loro natura
giuridica.
10. Il procedimento di verifica si conclude
entro centoventi giorni dal ricevimento
della richiesta”.
2.3. La previsione normativa in esame detta
un regime differenziato della dichiarazione
di interesse culturale dipendente dal tipo
di bene preso in considerazione. Nel caso di
specie si tratta di un viale del Comune
ricorrente che, come tale, rientra nella
previsione di cui all’articolo 10, comma 1,
lettera g), che ricomprende tra i beni
culturali di cui al comma 1 del medesimo
articolo (trattandosi di bene di proprietà
pubblica) “le pubbliche piazze, vie,
strade e altri spazi aperti urbani di
interesse artistico o storico”.
2.4. La parte finale della proposizione
normativa appena riportata potrebbe indurre
a ritenere (come sostenuto dal Comune) che,
ai fini della ricomprensione delle pubbliche
piazze, vie, strade e altri spazi aperti
sia, comunque, necessaria una preventiva
verifica positiva dell’interesse storico o
artistico del bene. Va, tuttavia,
evidenziato che il combinato disposto delle
previsioni di cui agli articoli 10 e 12 del
d.lgs. 42 del 2004 conduce ad una diversa
conclusione consentendo di ritenere che tali
beni siano soggetti ad una presunzione di
interesse storico ed artistico, fatto salvo
l’esito negativo della verifica condotta ai
sensi dell’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42
del 2004.
2.5. Infatti, come osservato dalla
giurisprudenza, “la
disposizione [di cui all’articolo 12 del
d.lgs. 42 del 2004 introduce]
-cautelarmente- un vincolo culturale in
forza di una presunzione di legge,
superabile soltanto a seguito di una
verifica negativa, in quanto finalizzata
all'esclusione dell'interesse culturale e
-conseguentemente- al definitivo esonero
dall'applicazione delle disposizioni di
tutela dei beni culturali (art. 12, comma
4), anche in vista di una loro eventuale
sdemanializzazione (art. 12, commi 5, e 6).
Diversamente, in caso di conferma
dell'interesse culturale presunto, le cose
di cui all'art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004
restano definitivamente sottoposte alle
disposizioni di tutela del codice dei beni
culturali (art. 12, comma 7).
Dunque, fino alla verifica effettiva
dell'interesse culturale, i beni di cui
all'art. 10 del D.Lgs. n. 42/2004 (tra i
quali le pubbliche piazze) rimangono
comunque soggetti alle disposizioni di
tutela, sicché colui che intenda eseguire su
di essi opere e lavori di qualunque genere
deve preliminarmente munirsi
dell'autorizzazione del soprintendente, che
“è resa su progetto” e può contenere
prescrizioni (art. 21, commi 4 e 5, del
D.Lgs. n. 42/2004)”
(TAR per la Liguria, sez. I, 19.05.2014, n.
787; cfr., inoltre, TAR per l’Abruzzo – sede
di L'Aquila, sez. I, 13.01.2017, n. 28).
2.6. Dello stesso avviso si mostra il
Giudice d’appello secondo cui “ai
sensi del comma 1 dell'articolo 10 del
decreto legislativo n. 42 del 2004, le
piazze pubbliche (in specie laddove
rientranti nell'ambito dei centri storici)
sono qualificabili come 'beni culturali'
indipendentemente dall'adozione di una
dichiarazione di interesse storico-artistico
(in tal senso: Cons. Stato, VI, sent.
482/2011; id., VI, sent. 4010/2013; id., VI,
sent. 4497/2013)”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 01.12.2014, n.
5934). Conclusione valevole
anche per le vie in ragione della
ricomprensione delle stesse nella medesima
proposizione normativa a fondamento delle
decisioni richiamate.
2.7. Non conduce ad una diversa soluzione
l’esame delle sentenza citate in memoria di
replica da parte ricorrente considerato che:
a) la sentenza del TAR per l’Emilia Romagna – sede di Bologna, sez.
I, 21.12.2015, n. 1159 si riferisce ad una
declaratoria di nullità di un trasferimento
immobiliare avvenuto nel 1971 e sorretta
dalla diversa previsione di cui all’articolo
4 della L. 1089 del 1939;
b) la sentenza del TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. II,
29.11.2005, n. 19757 si riferisce ad un bene
di proprietà di soggetto privato senza scopo
di lucro e riguarda, anch’essa, una
normativa diversa da quella operante nel
caso in esame;
c) la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 22.06.2007, n. 3450
si riferisce, anch’essa alla previsione di
cui all’articolo 4 della L. 1089 del 1939.
2.8. Alla luce dell’esame sin qui condotto
ritiene il Collegio che, in fattispecie come
quella in esame, il bene deve ritenersi
munito ex lege della qualifica di
bene di interesse culturale, fatto salvo
l’esito negativo del procedimento di cui
all’articolo 12, comma 2, d.lgs. 42 del 2004
che la legge consente di avviare d’ufficio o
su richiesta formulata dai soggetti a cui le
cose appartengono.
Nel caso di specie, sussiste, pertanto, una
presunzione legislativa che conferisce al
viale la natura di bene di interesse
culturale, non venuta meno in ragione della
insussistenza di un espresso provvedimento
di esclusione che il Comune avrebbe potuto
richiedere ai sensi della già menzionata
previsione contenuta nell’alveo del comma 2
dell’articolo 12 del codice normativo di
riferimento.
3. Alla luce delle considerazioni esposte,
devono ritenersi infondate le censure
articolate nel primo motivo di ricorso
atteso che la qualificazione del bene come
culturale impone il rilascio
dell’autorizzazione prescritta ai sensi
dell’articolo 21 del d.lgs. 42 del 2004 a
cui è da ricondursi il provvedimento
impugnato.
4. La riconduzione del provvedimento al
potere disciplinato dalla previsione di cui
all’articolo 21 del d.lgs. 42 del 2004 rende
infondato anche il secondo motivo di
ricorso tenuto conto che l’atto impugnato
non costituisce un provvedimento di
annullamento dell’autorizzazione
paesaggistica (con le conseguenze che la
parte ricorrente intende far derivare) ma,
come spiegato, l’esercizio di una diversa
prerogativa assegnata alla Soprintendenza e
volta a riconoscere alla stessa il potere di
autorizzare, dettando eventuali prescrizioni
ritenute necessarie come nel caso in esame,
un intervento che incida su un bene avente
interesse storico ed artistico come il viale
Buffoli del comune di Cusano Milanino.
5. In definitiva il ricorso deve essere
respinto in quanto infondato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Va ascritta alla giurisdizione del giudice
ordinario la controversia avente ad oggetto l'escussione, da
parte di un Comune, di una polizza fideiussoria concessa a
garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a
titolo di penali, pattuite in una convenzione di
lottizzazione.
In tali casi la polizza fideiussoria prestata ha natura di
contratto autonomo di garanzia, con conseguente autonomia
del rapporto di garanzia rispetto al rapporto principale
concernente gli oneri di urbanizzazione.
In ragione di ciò, in sede di escussione della polizza,
l'Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto
privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente,
pubblici poteri.
---------------
Nel caso in esame, pertanto, sussiste la giurisdizione del
giudice ordinario avendo l’impugnativa esclusivamente ad
oggetto la contestazione delle somme pretese dall’intimato
Comune nei confronti del garante, dovendosi conseguentemente
considerare, in sede di opposizione all’ingiunzione, solo
l’esistenza e la validità del contratto di garanzia e
l’esistenza dell’inadempimento che vincola la società
assicuratrice a corrispondere le somme previste, e non anche
il rapporto urbanistico-edilizio che intercorre tra Pubblica
Amministrazione e concessionario.
---------------
8.- E’ fondata l’eccezione, formulata dal resistente comune
di Cerignola, di difetto di giurisdizione del giudice
amministrativo adito.
9.- Va, infatti, ascritta alla giurisdizione del giudice
ordinario la controversia avente ad oggetto l'escussione, da
parte di un Comune, di una polizza fideiussoria concessa a
garanzia di somme dovute per oneri di urbanizzazione e a
titolo di penali, pattuite in una convenzione di
lottizzazione (ex multis, Cassazione civile sez. un.
28/07/2016, n. 15666).
10.- In tali casi la polizza fideiussoria prestata ha natura
di contratto autonomo di garanzia (Cassazione civile sez.
III, 10/01/2012, n. 65), con conseguente autonomia del
rapporto di garanzia rispetto al rapporto principale
concernente gli oneri di urbanizzazione.
11.- In ragione di ciò, in sede di escussione della polizza,
l'Amministrazione agisce nell'ambito di un rapporto
privatistico, senza esercitare, neppure mediatamente,
pubblici poteri (in termini, TAR Campobasso, sez. I,
17/05/2017, n. 184).
12.- Nel caso in esame, pertanto, sussiste la giurisdizione
del giudice ordinario avendo l’impugnativa esclusivamente ad
oggetto la contestazione delle somme pretese dall’intimato
Comune nei confronti del garante, dovendosi conseguentemente
considerare, in sede di opposizione all’ingiunzione, solo
l’esistenza e la validità del contratto di garanzia e
l’esistenza dell’inadempimento che vincola la società
assicuratrice a corrispondere le somme previste, e non anche
il rapporto urbanistico-edilizio che intercorre tra Pubblica
Amministrazione e concessionario.
13.- Il Tribunale, conclusivamente, declina la
giurisdizione, avvertendo che la relativa causa potrà essere
riproposta, ai sensi dell'art. 11 del c.p.a., dinanzi al
giudice ordinario (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza III,
sentenza 25.02.2019 n. 306 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il potere sotteso all’adozione di un’ordinanza contingibile ed
urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e
può essere esercitato solo quando specifiche norme di
settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici
per risolvere la situazione di emergenza.
Orbene, la
sussistenza, nel caso di specie, della previsione normativa
di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che detta
specifiche norme in caso di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti, esclude la possibilità, da parte
delle pubbliche amministrazioni, di ricorrere al potere
extra ordinem proprio dei provvedimenti contingibili ed
urgenti.
---------------
Premessa la corretta qualificazione dell’ordinanza gravata,
in disparte il nomen, quale
provvedimento ordinario adottato ai sensi del predetto art.
192, in relazione alla quale risulterebbe, peraltro,
infondata la censura di incompetenza dedotta con esclusivo
riferimento alla fattispecie extra ordinem di cui
all’art. 54 (rectius, 50, comma 4) del d.lgs. n.
267/2000 (TUEL), difetta, nel caso di specie, quale elemento
imprescindibile ai fini dell'adozione dell'ordinanza di
rimozione dei rifiuti a carico del proprietario, proprio
l'accertamento dell'elemento psicologico, quanto meno sotto
il profilo della colpa, e, tanto, in considerazione dello
stato e consistenza dei luoghi.
---------------
L'imputabilità delle condotte di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al
proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità
del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo
a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei
limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente
esclusione della natura di obbligazione propter rem
dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare
di un diritto di godimento sul bene. Pertanto, in caso di
rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi
ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito
incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o
della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere
destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino.
In definitiva, “in base al d.lgs. n. 152/2006, la P.A.
non può imporre ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera
collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di
rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della
riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto
unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le
Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed
individuare. Ai fini della responsabilità in questione è
perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso
l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un
nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il
superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento—
dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in
rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in
ragione di tale qualità".
---------------
Secondo orientamento giurisprudenziale condiviso, il dovere
di diligenza che incombe sul proprietario del fondo non può
in alcun modo concretarsi nell’esercizio di una costante
diligenza, da esplicarsi ininterrottamente, notte e giorno,
per impedire illecite intrusioni sul fondo, da parte di
estranei.
La previsione di un impegno di tale gravosissima entità
travalicherebbe oltremodo gli ordinari canoni della
diligenza media (del buon padre di famiglia) che è alla base
della nozione di colpa.
---------------
Dispone l'art. art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, cd. codice
dell’ambiente, quanto alla
posizione del proprietario o di altro soggetto comunque
avente una diretta disponibilità del bene che: “chiunque
viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere
alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
Sul punto, questo tribunale ha avuto modo di
precisare che: “l’adozione di un provvedimento tipico,
quale l’ordinanza sindacale gravata, adottata ai sensi di
cui all’art. 192 del d.lgs. n. 156/2006, di natura
squisitamente sanzionatoria, che presuppone, cioè,
l’accertamento della responsabilità a titolo di dolo o
colpa...., avrebbe imposto l’assicurazione di quelle
garanzie di partecipazione procedimentale, cui la
comunicazione di avvio del procedimento è strumentale, tali
da assicurare un accertamento in contraddittorio,
legislativamente previsto, oltre che in ordine all’esatta
localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per
l’individuazione dell’organo pubblico effettivamente
competente (vista la sottoscrizione dei Protocolli e del
Patto richiamato)”, e, conseguentemente, per quanto attiene
all’imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di degrado
e incuria dei luoghi interessati.
Al riguardo, infatti, mentre “l’art. 7 della legge n.
241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la
doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli
interessati, l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, nella
specifica materia ambientale, prescrive che i controlli
svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di
rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i
soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle
regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa.
In altri termini, deve ritenersi la necessità, nella
specifica materia ambientale, dell’accertamento in
contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato
dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che
si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità
che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o
di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti
sia data la possibilità di partecipare attivamente alla
stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad
accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti,
oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi”.
---------------
... per l'annullamento dell’ordinanza n. 2316 del
18.01.2018, emessa dal Comune di Calvizzano, notificata in
data 17.02.2018, con la quale il Comune di Calvizzano gli
ordinava di rimuovere rifiuti, non meglio specificati, siti
in via Garibaldi;
...
IV. Il ricorso è fondato.
IV.1. Si evidenzia, quale antecedente logico, che il
contestuale richiamo alla normativa disciplinante
l’ordinanza contingibile ed urgente, adottata per ragioni di
igiene e sanità pubblica, provvedimento atipico ed extra
ordinem, e a quella che prevede l’esercizio di poteri
ordinari nell’ambito della tutela ambientale, evidenzia una
contraddittorietà, insita nel provvedimento, che non
consente di individuare la funzione concretamente
esercitata, con quanto ne consegue in ordine alla
sussistenza o meno dei presupposti legittimanti (TAR
Campania, Napoli, sez. V, 26.07.2018, n. 5003).
IV.1.1. Ciò posto, occorre, altresì, puntualizzare che il
potere sotteso all’adozione di un’ordinanza contingibile ed
urgente ha necessariamente contenuto atipico e residuale e
può essere esercitato solo quando specifiche norme di
settore non conferiscono il potere di emanare atti tipici
per risolvere la situazione di emergenza. Orbene, la
sussistenza, nel caso di specie, della previsione normativa
di cui all’art. 192 del d.lgs. n. 152/2006, che detta
specifiche norme in caso di abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti, esclude la possibilità, da parte
delle pubbliche amministrazioni, di ricorrere al potere
extra ordinem proprio dei provvedimenti contingibili ed
urgenti.
IV.1.2. Tanto premesso, occorre previamente qualificare il
provvedimento impugnato quale ordinanza ambientale, adottata
nell’esercizio dei poteri ordinari dell’Amministrazione,
sgombrando il campo da ogni apparente commistione, atteso
l’improprio richiamo normativo all’esercizio di un potere
extra ordinem, esercitabile in condizioni di urgenza e
contingibilità, laddove, cioè, non siano utilmente
utilizzabili, al fine di un sollecito soddisfacimento
dell’interesse pubblico, gli istituti giuridici tipizzati
nell’ordinamento.
Ed invero, il provvedimento impugnato è stato adottato a
seguito della nota “del Corpo di Polizia Giudiziaria
della Città Metropolitana di Napoli, con la quale veniva
segnalato l’abbandono di rifiuti classificabili in RSU e RSA
in via Garibaldi”, situazione in cui, ex se, difettano,
in quanto non adeguatamente esplicitate, ragioni di contingibilità, indifferibilità ed urgenza, richiamandosi,
poi, in modo diffuso il solo contenuto di cui all’art. 192
del d.lgs. n. 152/2006, strumento, invece, tipico ed
assegnando ai destinatari, per l’esecuzione, un termine,
relativamente lungo, di 60 gg..
V. Orbene, premessa la corretta qualificazione
dell’ordinanza gravata, in disparte il nomen, quale
provvedimento ordinario adottato ai sensi del predetto art.
192, in relazione alla quale risulterebbe, peraltro,
infondata la censura di incompetenza dedotta con esclusivo
riferimento alla fattispecie extra ordinem di cui
all’art. 54 (rectius, 50, comma 4) del d.lgs. n.
267/2000 (TUEL), difetta, nel caso di specie, quale elemento
imprescindibile ai fini dell'adozione dell'ordinanza di
rimozione dei rifiuti a carico del proprietario, proprio
l'accertamento dell'elemento psicologico, quanto meno sotto
il profilo della colpa, e, tanto, in considerazione dello
stato e consistenza dei luoghi.
V.1. Con il primo motivo di ricorso, connesso ai
successivi, parte ricorrente lamenta la violazione dell’art.
192 del d.lgs. n. 152/2006 per omesso accertamento
dell’imputabilità, quanto meno a titolo di colpa, del
contestato sversamento.
V.1.1. Il motivo è fondato.
V.1.2. “L'imputabilità delle condotte di abbandono e
deposito incontrollato di rifiuti sul suolo in capo al
proprietario o di chiunque abbia la giuridica disponibilità
del bene, presuppone necessariamente l'accertamento in capo
a quest'ultimo di un comportamento doloso o colposo, nei
limiti dell'esigibilità, non ravvisando la disposizione
dell'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006 un'ipotesi legale di
responsabilità oggettiva o per fatto altrui, con conseguente
esclusione della natura di obbligazione propter rem
dell'obbligo di ripristino del fondo a carico del titolare
di un diritto di godimento sul bene. Pertanto, in caso di
rinvenimento di rifiuti abbandonati da parte di terzi
ignoti, il proprietario del fondo non può essere chiamato a
rispondere della fattispecie di abbandono (o deposito
incontrollato) di rifiuti sulla propria area se non viene
individuato a suo carico l'elemento soggettivo del dolo o
della colpa, per cui lo stesso soggetto non può essere
destinatario di un'ordinanza sindacale di rimozione e
rimessione in pristino (TAR Lombardia, Milano, sez. IV,
02.11.2018, n. 2477; TAR Campania, Napoli, sez. V,
01.08.2018, n. 5151; Cons. di St., sez. IV, 07.06.2018, n.
3430)” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 18.01.2019, n.
272).
In definitiva, “in base al d.lgs. n. 152/2006, la P.A.
non può imporre ai privati che non abbiano alcuna
responsabilità, né diretta, né indiretta sull'origine del
fenomeno contestato, ma che vengano individuati solo quali
proprietari o gestori o addirittura in ragione della mera
collocazione geografica del bene, l'obbligo di bonifica di
rimozione e smaltimento di rifiuti ed, in generale, della
riduzione al pristino stato dei luoghi che è posto
unicamente in capo al responsabile dell'inquinamento, che le
Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed
individuare. Ai fini della responsabilità in questione è
perciò necessario che sussista e sia provata, attraverso
l'esperimento di adeguata istruttoria, l'esistenza di un
nesso di causalità fra l'azione o l'omissione ed il
superamento —o pericolo concreto ed attuale di superamento—
dei limiti di contaminazione, senza che possa venire in
rilievo una sorta di responsabilità oggettiva facente capo
al proprietario o al possessore dell'immobile, meramente in
ragione di tale qualità" (TAR Campania, Salerno, sez. II,
04.02.2015 n. 232).
V.1.3. Invero, manca, nel caso all’esame, la prova
dell’elemento soggettivo, attesa l’assenza, da parte del
Comune di Calvizzano, di qualsivoglia accertamento che possa
determinare, al di là della mera formula di stile riferita
alla titolarità del bene, la corresponsabilità della parte
ricorrente proprietaria e che possa giustificare, sotto il
profilo motivazionale, il provvedimento adottato.
V.1.4. Né ad essa sembrerebbe addebitarsi, in assenza di
contrari elementi di prova da accertarsi, comunque, in
contraddittorio, una culpa in omittendo o in
vigilando che, date le circostanze, trascenda la
diligenza media esigibile, atteso che, come dedotto:
a) in passato (anno 2014), allorché terzi ignoti avevano
depositato, non già nel fondo ma in prossimità del cancello
di accesso al fondo (e quindi in area esterna al fondo), dei
piccoli quantitativi di rifiuti, il ricorrente-istante,
constatata la presenza di quel materiale, provvide a
presentare, in data 22.05.2014, una denuncia-querela,
richiedendo, contestualmente, di essere autorizzato
all’apposizione di un impianto di videosorveglianza;
b) il fondo agricolo de quo è chiuso da un cancello di accesso,
alto più di 2,30 mt., e da una rete che corre lungo tutto il
perimetro di confine; prima del detto cancello vi è anche
una sbarra di chiusura, che impedisce l’accesso carraio e
pedonale a chiunque voglia inoltrarsi già solo in prossimità
del confine esterno fondo;
c) il bene non è accessibile ai terzi se non attraverso un illecito
travalicamento delle opere di chiusura.
V.1.5. D’altro canto, secondo orientamento giurisprudenziale
condiviso, il dovere di diligenza che incombe sul
proprietario del fondo non può in alcun modo concretarsi
nell’esercizio di una costante diligenza, da esplicarsi
ininterrottamente, notte e giorno, per impedire illecite
intrusioni sul fondo, da parte di estranei. La previsione di
un impegno di tale gravosissima entità travalicherebbe
oltremodo gli ordinari canoni della diligenza media (del
buon padre di famiglia) che è alla base della nozione di
colpa (TAR Campania, Sez. V, 03.03.2014 n. 1294).
V.2. Con successivi motivi di ricorso, parte ricorrente
lamenta la violazione dell’art. 7 della l. n. 241/1990 in
combinato disposto con gli artt. 192 del d.lgs. n. 152/2006
e 50 del d.lgs. n. 267/2000, disciplinanti, rispettivamente,
le ordinanze sindacali ambientali, da un lato, e quelle
contingibili ed urgenti, dall’altro, per omessa
comunicazione dell’avvio del procedimento, con conseguente
lesione delle prerogative partecipative proprie del
contraddittorio.
V.2.1. Le censure sono fondate.
V.2.2. Ora, dispone, per quanto d’interesse, l’invocato art.
192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, cd. codice
dell’ambiente, applicabile al caso di specie, quanto alla
posizione del proprietario o di altro soggetto comunque
avente una diretta disponibilità del bene: “chiunque
viola i divieti di cui ai commi 1 e 2 è tenuto a procedere
alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”.
V.2.3. Sul punto, questo tribunale ha avuto modo di
precisare che: “l’adozione di un provvedimento tipico,
quale l’ordinanza sindacale gravata, adottata ai sensi di
cui all’art. 192 del d.lgs. n. 156/2006, di natura
squisitamente sanzionatoria, che presuppone, cioè,
l’accertamento della responsabilità a titolo di dolo o
colpa...., avrebbe imposto l’assicurazione di quelle
garanzie di partecipazione procedimentale, cui la
comunicazione di avvio del procedimento è strumentale, tali
da assicurare un accertamento in contraddittorio,
legislativamente previsto, oltre che in ordine all’esatta
localizzazione dei rifiuti, soprattutto, per
l’individuazione dell’organo pubblico effettivamente
competente (vista la sottoscrizione dei Protocolli e del
Patto richiamato)”, e, conseguentemente, per quanto
attiene all’imputabilità, a titolo di colpa, dello stato di
degrado e incuria dei luoghi interessati (TAR
Campania-Napoli, sez. V, n. 1684/2016).
Al riguardo, infatti, mentre “l’art. 7 della legge n.
241/1990, con previsione di carattere generale, prescrive la
doverosa comunicazione dell’avvio del procedimento agli
interessati, l’art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152/2006, nella
specifica materia ambientale, prescrive che i controlli
svolti dall’Amministrazione riguardo all’abbandono di
rifiuti debbano essere effettuati in contraddittorio con i
soggetti interessati, con la conseguente osservanza delle
regole che garantiscono la partecipazione dell’interessato
all’istruttoria amministrativa (TAR Campania, sez. V,
03.03.2014 n. 1294).
In altri termini, deve ritenersi la necessità, nella
specifica materia ambientale, dell’accertamento in
contraddittorio della condizione dei luoghi, prospettato
dalla legge come specifico dovere dell'Amministrazione che
si aggiunge, in subiecta materia, al generale dovere di
comunicare l'avvio del procedimento, postulando la necessità
che al proprietario o al titolare di altro diritto reale o
di godimento sull’area oggetto dell’abbandono dei rifiuti
sia data la possibilità di partecipare attivamente alla
stessa istruttoria amministrativa e ai sopralluoghi volti ad
accertare la prospettata situazione di abbandono di rifiuti,
oltre che, più in generale, lo stato dei luoghi (TAR
Campania, Napoli, sez. V, 27.06.2018, n. 4284)” (TAR
Campania, Napoli, sez. V, 03.10.2018, n. 5783).
VI. Sulla base delle sovra esposte considerazioni, assorbite
le ulteriori censure dedotte, il ricorso è fondato atteso
che non si è mai proceduto ad alcun accertamento in
contraddittorio, previa comunicazione di avvio del
procedimento, onde verificare la sussistenza dell’elemento
soggettivo in capo alla parte ricorrente (TAR
Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 20.02.2019 n. 950 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I balconi sono rilevanti per le distanze tra
vicini. Le superfici finestrate anche se munite di sbarre
non si considerano luci. Il limite fissato dal Dm 1444 non è
derogabile dalla normativa locale.
Anche i balconi definiscono come "finestrata" una parete in
quanto assicurano la possibilità di esercitare la veduta,
per cui bisognerà tenerne conto nel calcolo delle distanze
tra edifici confinanti.
Così afferma la Corte di Cassazione -Sez. II civile-
ordinanza 19.02.2019 n. 4834,
dando ragione a un condominio che aveva fatto causa a una
società immobiliare perché aveva realizzato un fabbricato a
confine con l'edificio condominiale a distanza inferiore a
quelle di legge (Dm 1444/1968).
Il Tribunale rigettava la domanda mala Corte d'Appello la
accoglieva e condannava la società convenuta a demolire e
arretrare la porzione del fabbricato, compresi i balconi
aggettanti sino a garantire il rispetto della distanza di 10
metri dal condominio di fronte e al risarcimento dei danni.
I giudici di appello sottolineavano che le risultanze della
Ctu avevano evidenziato che effettivamente il fabbricato
realizzato dalla società era posto a confine con l'edificio
condominiale dovendo, quindi, trovare applicazione
l'articolo 873 del Codice civile, con il rinvio alle fonti
integrative locali che, però, devono trovare il loro limite
nelle previsioni del Dm 1444/1968. Quindi l'eventuale
disciplina derogatoria contenuta negli strumenti urbanistici
locali che prescrivesse una distanza inferiore ai dieci
metri tra pareti finestrate doveva essere disapplicata.
A questo punto veniva fatto ricorso in Cassazione. Uno dei
motivi riguardava i balconi presenti sulla parete del
fabbricato "incriminato". Si discuteva, cioè, se
avessero il carattere di veduta (per cui si doveva applicare
il Dm 1444) o di semplici luci: peri costruttori la Ctu era
sbagliata perché aveva considerato i balconi, mentre alle
finestre sulle pareti erano state poste delle sbarre che
impedivano l'affaccio in tutte le direzioni, per cui non si
era più al cospetto di vedute ma di semplici luci.
Mala Cassazione, richiamando la giurisprudenza di
legittimità, ha precisato che devono intendersi "pareti
finestrate" in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso l'esterno quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la
possibilità di esercitare la veduta.
La presenza di balconi lungo la parete dell'edificio della
ricorrente di cui si era tenuto conto ai fini del calcolo
delle distanze era quindi legittima.
E il ricorso veniva respinto, confermando la demolizione di
parte del fabbricato o il suo arretramento.
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IN SINTESI
1. La pronuncia La Cassazione ha dato ragione a un condominio che
aveva fatto causa a una società immobiliare perché aveva
realizzato un fabbricato a confine con l'edificio
condominiale a distanza inferiore a quelle di legge,
confermando l'obbligo di demolire e arretrare una porzione
del fabbricato
2. Nessuna deroga Valgono comunque i limiti del Dm 1444/1968.
Quindi l'eventuale disciplina derogatoria contenuta negli
strumenti urbanistici locali che prescrivesse una distanza
inferiore ai dieci metri tra pareti finestrate deve essere
disapplicata (articolo Il Sole 24 Ore del 13.03.2019).
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SENTENZA
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa
applicazione dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 e dell'art. 113
c.p.c., in quanto la tradizionale nozione di parete finestrata
include le sole pareti munite di finestre qualificabili come
vedute, senza quindi potere prendere in esame le semplici
aperture lucifere.
Nella fattispecie, invece, emergeva che le due aperture
presenti sulla parete del fabbricato della ricorrente non
consentono una possibilità di affaccio stante la
collocazione di
una sbarra metallica, dovendosi altresì escludere che abbia
rilevanza ai fini della norma in esame la presenza di
balconi o
di una porta.
Il
secondo motivo denuncia l'omesso esame di un fatto
decisivo
per il giudizio ex art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., in quanto la
sentenza ha omesso di considerare l'assenza di finestre,
intese
quali vedute, sulla parete del fabbricato di parte
convenuta,
come peraltro sempre eccepito in tutti gli scritti
difensivi.
Il
terzo motivo denuncia ex art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. la
nullità
della sentenza per assenza di motivazione, quanto alla
qualificazione della parete come finestrata, nonché per
avere
fatto riferimento esclusivo alla consulenza di parte attrice
e non
anche agli accertamenti del CTU, e ciò in violazione degli
artt.
132, co. 2, n. 4 c.p.c. e dell'art. 118 disp. att. c.p.c., 61
c.p.c. e
24 e 111 Cost.
I tre motivi che possono essere congiuntamente esaminati per
la loro connessione, sono infondati.
Ed, invero, non può non rilevarsi che, come ammesso da parte
della stessa ricorrente, sulla parete del fabbricato di cui
è stata
ordinata la demolizione ovvero l'arretramento sono
collocate,
oltre ad alcune aperture, di cui si discute se abbiano
carattere
di veduta oppure di semplici luci, anche dei balconi, dei
quali si
è tenuto conto ai fini del calcolo delle distanze (sul
presupposto
che non fossero dei meri sporti ornamentali), come
confortato
anche dalla lettura del dispositivo.
La tesi della ricorrente è che, perché possa invocarsi la
previsione di cui al citato DM del 1968 n. 1444, lungo una
delle
pareti frontistanti debbano aprirsi delle finestre intese
quali
vedute, con la conseguenza che, essendo state apposte delle
sbarre in corrispondenza delle finestre ivi allocate, che
impediscono la possibilità di affaccio, diretto, laterale
e/o
obliquo, non si sarebbe più al cospetto di vedute, ma di
semplici aperture lucifere, che appunto non rilevano ai fini
della
norma in esame.
Ritiene il Collegio che tuttavia l'interpretazione della
norma de
qua non possa che condurre alla conclusione secondo cui a
connotare come finestrata una parete sia anche la presenza
di
balconi, e ciò in quanto trattasi di manufatti che
assicurano la
possibilità di esercitare la veduta, conformemente alla
ratio che
è sottesa alla previsione in esame.
In tal senso la giurisprudenza di questa Corte ha
costantemente ribadito che (cfr. da ultimo Cass. n.
26383/2016), poiché nella disciplina legale dei "rapporti di
vicinato" l'obbligo di osservare nelle costruzioni
determinate
distanze sussiste solo in relazione alle vedute, e non anche
alle
luci, la dizione "pareti finestrate" contenuta in un
regolamento edilizio che si ispiri all'art. 9 del d.nn. n.
1444 del 1968 -il
quale prescrive nelle sopraelevazioni la distanza minima di
dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti-
non potrebbe che riferirsi esclusivamente alle pareti munite
di
finestre qualificabili come "vedute", senza ricomprendere
quelle
sulle quali si aprono finestre cosiddette "lucifere" (conf.
Cass.
n. 6604/2012).
Deve quindi ritenersi che anche la presenza di balconi
assicuri
la possibilità di veduta (cfr. da ultimo Cass. n. 8010/2018,
a
mente della quale con riferimento ai balconi, rispetto ad
ogni
lato di questo si hanno una veduta diretta, ovvero frontale,
e
due laterali o oblique, a seconda dell'ampiezza
dell'angolo), e
che quindi la loro presenza sul fronte del fabbricato impone
l'applicazione della norma alla quale hanno fatto
riferimento i
giudici di merito (si veda per la giurisprudenza
amministrativa Cons. Stato 05/10/2015 n. 4628, che ha ribadito che per
pareti
finestrate si devono intendere unicamente le pareti munite
di
finestre qualificabili come vedute, senza ricomprendere in
esse
anche quelle sulle quali si aprono semplici luci, nonché
TAR
L'Aquila, (Abruzzo), 20/11/2012, n. 788, che ha specificato
che ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444, e di
tutti
quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano,
devono intendersi per "pareti finestrate", non solo le
pareti
munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti
munite di
aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte,
balconi, finestre di ogni tipo, bastando altresì che sia
finestrata
anche la sola parete che subisce l'illegittimo
avvicinamento).
Ne consegue che, attesa la presenza di balconi lungo la
parete
dell'edificio della ricorrente, va esclusa la dedotta
violazione di
legge, mentre risulta priva del carattere della decisività
la
pretesa omessa disamina della circostanza che alcune delle
aperture non consentano l'affaccio, trattandosi di
affermazione
che non tiene conto della necessaria rilevanza che invece
assumono i balconi ai fini della presente vicenda.
Né sussiste il dedotto vizio motivazionale, avendo la
sentenza
adeguatamente fatto richiamo alla presenza dei balconi lungo
il
fronte del fabbricato della società.
5. Il quinto
motivo di ricorso denuncia la violazione sotto altro
profilo dell'art. 9 del DM n. 1444/1968 nonché dell'art. 113
c.p.c. e dell'art. 2058 c.c., nella parte in cui la sentenza
gravata ha condannato la società a demolire tutta la parete
finestrata, sebbene la stessa fronteggi una parete priva di
finestre.
Si assume che il condominio possa vantare solo il diritto
alla
chiusura delle finestre ma non anche alla demolizione
dell'intera parete.
Il motivo è privo di fondamento.
Questa Corte ha avuto modo anche di recente di ribadire il
principio per il quale (Cass. n. 5017/2018)
è illegittima
una
previsione che imponga il rispetto di una distanza minima di
dieci metri tra pareti soltanto per i tratti dotati di
finestre, con
esonero di quelli ciechi, in quanto l'art. 9 del d.m. n.
1444 del
1968 detta disposizioni inderogabili da parte dei
regolamenti
locali in tema di limiti di densità, altezza, e distanza fra
i fabbricati, destinate a disciplinare le distanze tra
costruzioni e
non tra queste e le vedute.
Ad avviso del Collegio la tesi della ricorrente non può
essere
condivisa in quanto contrasta con l'interpretazione che
delle
norme in esame è stata in passato offerta dal giudice di
legittimità.
Va in primo luogo richiamato che costituisce opinione
consolidata quella secondo cui (cfr. ex multis Cass. n.
20574/2007)
ai fini dell'osservanza delle distanze legali,
ove
sia applicabile il DM n. 1444/1968 in quanto recepito negli
strumenti urbanistici, l'obbligo del rispetto della distanza
minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate di
edifici
antistanti, deve essere applicato anche nel caso in cui una
sola
delle pareti che si fronteggiano sia finestrata, atteso che
la
norma in esame è finalizzata alla salvaguardia
dell'interesse
pubblico-sanitario a mantenere una determinata intercapedine
tra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due
abbia
una parete finestrata.
Le Sezioni Unite sono intervenute sul punto ed hanno avuto
modo di precisare (cfr. Cass. S.U. n. 14953/2011) che,
attesa
l'idoneità del citato art. 9 a dar vita a disposizioni in
tema di
limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i
fabbricati
destinate a prevalere sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per
inserzione automatica, non è legittima una previsione
regolamentare che imponga il rispetto della distanza minima
di
dieci metri tra pareti finestrate soltanto per i tratti
dotati di
finestre, con esonero di quelli ciechi.
Come peraltro chiarito anche in motivazione da Cass. n.
15529/2015,
ai fini della corretta applicazione dei principi
affermati dalle Sezioni Unite, deve ribadirsi che la norma è
destinata a disciplinare le distanze tra le costruzioni e
non tra
queste e le vedute, in modo che sia assicurato un
sufficiente
spazio libero, che risulterebbe inadeguato se comprendesse
soltanto quello direttamente antistante alle finestre in
direzione
ortogonale, con esclusione di quello laterale: ne
conseguirebbe
la facoltà per i Comuni di permettere edificazioni
incongrue,
con profili orizzontali dentati a rientranze e sporgenze, in
corrispondenza rispettivamente dei tratti finestrati e di
quelli
ciechi delle facciate.
Ne consegue che assume carattere preminente, nel calcolo
delle distanze, la parete munita di finestre, nel suo
sviluppo
ideale verticale od orizzontale rispetto alla frontistante
facciata
e non già la reciproca posizione delle finestre in entrambe
le
superfici aperte.
Trattasi di conclusione che appare del tutto coerente con
quanto in precedenza affermato, e cioè che (cfr. Cass. n.
8383/1999)
ai fini dell'applicazione della norma in esame è
del
tutto irrilevante che una sola delle pareti fronteggiantesi
sia
finestrata e che tale parete sia quella del nuovo edificio o
dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima o a
diversa altezza rispetto all'altra, atteso che
(cfr. Cass.
n.
11404/1998)
il regolamento edilizio che impone una distanza
minima tra pareti finestrate di edifici fronteggiantisi,
deve
esser osservato anche se dalle finestre dell'uno non è
possibile
la veduta sull'altro perché la "ratio" di tale normativa non
è la
tutela della privacy, bensì il decoro e sicurezza, ed
evitare
intercapedini dannose tra pareti.
Va pertanto data continuità al principio già sostenuto da
questa
Corte, anche prima dell'intervento delle Sezioni Unite del
2011
sopra ricordato, che peraltro si limita a rafforzarne la
correttezza, secondo cui (cfr. Cass. n. 13547/2011)
ai fini
dell'applicazione della norma in esame è sufficiente che le
finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad
altro edificio, ancorché solo una parte di essa si trovi a
distanza
minore da quella prescritta, sicché il rispetto della
distanza
minima è dovuto anche per i tratti di parete che sono in
parte
privi di finestre
(conf. Cass. n. 5741/2008, a mente della
quale, essendo "ratio" della norma non la tutela della
riservatezza, bensì quella della salubrità e sicurezza, la
medesima va applicata indipendentemente dall'altezza degli
edifici antistanti e dall'andamento parallelo delle pareti
di
questi, purché sussista almeno un segmento di esse tale che
l'avanzamento di una o di entrambe le facciate medesime
porti
al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento).
Sempre in senso conforme si veda, con specifico riferimento
alle fattispecie esaminate, Cass. n. 4715/2001, che ha
ritenuto
applicabile l'art. 7 del P.R.G. di Viterbo, con formulazione
identica all'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, laddove gli
edifici per
cui è causa si fronteggiavano con una parete finestrata ed
uno
spigolo di muro, nonché Cass. n. 9207/1991, la cui massima
recita a favore dell'applicazione dell'art. 9 sempre che le
finestre esistano in qualsiasi zona della parete
contrapposta ad
altro edificio, ed ancorché solo una parte di essa si trovi
a
distanza minore da quella prescritta (la vicenda riguardava
fabbricati frontistanti solo per un tratto di metri 0,82
dell'uno
ed entrambi con pareti prive di finestre nelle rispettive
parti
contrapposte, avendo la Corte confermato la correttezza
della
decisione dei giudici di appello che avevano disposto
l'arretramento del nuovo corpo di fabbrica fino a
ripristinare la
distanza di dieci metri, limitatamente al predetto tratto di
metri
0,82) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 19.02.2019 n. 4834).
----------------
Al riguardo si leggano anche:
● M. Tarantino,
Anche i balconi sono rilevanti nella distanza tra gli
edifici condominiali (19.03.2019 - link a
www.condominioweb.com).
● G. D. Nuzzo,
Le distanze previste per i muri con vedute si applicano
anche in presenza di balconi aggettanti. Anche la presenza
di balconi legittima l'applicazione del DM n. 1444/1968
(26.02.2019 - link a www.condominioweb.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati paesaggistici - Lavori abusivi realizzati in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico - Normativa applicabile
dopo la sentenza della C. Cost. n. 56/2016 - Revoca
dell'ordine di demolizione dei manufatti abusivi.
In tema di reati paesaggisti, a seguito
della pronuncia emessa dalla Corte Costituzionale il
23/03/2016, n. 56, la sussistenza del delitto di cui
all'art. 181, comma 1-bis, del dlgs n. 42 del 2004 è
limitata ai soli casi in cui i lavori abusivamente
realizzati in zona sottoposta a vincolo paesaggistico
abbiano comportato un aumento dei manufatti superiore al 30%
della volumetria della costruzione originaria o, in
alternativa, un ampliamento superiore a 750 metri cubi,
ovvero ancora abbiano comportato la realizzazione di una
nuova costruzione con una volumetria superiore a 1000 metri
cubi.
Nella fattispecie: le opere oggetto di imputazione non
avevano la consistenza necessaria per il loro inquadramento
nella fattispecie delittuosa, sicché il reato
originariamente contestato come delitto è stato
riqualificato quale violazione di natura contravvenzionale
ai sensi dell'art. 181, comma 1, del d.lgs. n. 42 del 2004 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.02.2019 n. 7243 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Dissuasori
della sosta.
Il TAR Milano, dopo aver premesso che la
valutazione sulla necessità, o meno, del
permesso di costruire, va compiuta in base
ai parametri della natura e delle dimensioni
delle opere, e della loro destinazione e
funzione (sicché quando, ad esempio, vengono
eseguite opere in muratura non facilmente
rimuovibili, l’intervento, essendo idoneo a
incidere in modo permanente sull’assetto
edilizio del territorio, esige il previo
rilascio del permesso di costruire), ritiene
che la realizzazione senza titolo
urbanistico e viabilistico di dissuasori
della sosta in cemento su area di proprietà
privata, ma esterna al muro di recinzione e,
di conseguenza, collocata in area destinata
all’uso pubblico o ad essa adiacente,
costituisce una trasformazione stabile del
territorio che per la sua rilevanza edilizia
e per i rischi che comporta per la
circolazione in strada (nella fattispecie
molto stretta), dev’essere sanzionata con la
demolizione (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.02.2019 n. 331 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
5. Il quarto motivo è parzialmente
fondato.
Infatti la posa di alcuni paletti infissi
nel suolo, destinati a sorreggere una
recinzione di rete metallica senza opere
murarie, costituisce un manufatto di
limitato impatto urbanistico e visivo,
essenzialmente destinato al solo scopo di
delimitare la proprietà per separarla dalle
altre, per cui l’intervento non richiede il
rilascio di un permesso di costruire, fatta
salva ovviamente l’osservanza dei vincoli
paesaggistici (da ultimo TAR Campania-Napoli,
Sez. III, sentenza 24.12.2018 n. 7333).
Diverso è invece il caso dei dissuasori
della sosta in cemento.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che
la valutazione sulla necessità, o meno, del
permesso di costruire, va compiuta in base
ai parametri della natura e delle dimensioni
delle opere, e della loro destinazione e
funzione (si vedano, tra le altre, Tar
Campania, n. 3328/2013 e n. 1542/2012, Tar
Lombardia, n. 6266/2009, Tar Lazio, n.
8644/2009, Tar Veneto, n. 1215/2011, Tar
Calabria, n. 1299/2014, Tar Lombardia–Brescia, n. 118/2013 e altre),
sicché
quando, ad esempio, vengono eseguite opere
in muratura non facilmente rimuovibili,
l’intervento, essendo idoneo a incidere in
modo permanente sull’assetto edilizio del
territorio, esige il previo rilascio del
permesso di costruire.
Nel caso di specie la realizzazione senza
titolo urbanistico e viabilistico di
dissuasori della sosta in cemento su area di
proprietà privata ma esterna al muro di
recinzione e, di conseguenza, collocata in
area destinata all’uso pubblico o ad essa
adiacente, costituisce una trasformazione
stabile del territorio che per la sua
rilevanza edilizia e per i rischi che
comporta per la circolazione in una strada
molto stretta qual è quella in questione, dev’essere sanzionata con la demolizione.
In definitiva quindi il ricorso va accolto
limitatamente alla realizzazione della
recinzione mentre i dissuasori in cemento
debbono essere rimossi. |
EDILIZIA PRIVATA: Un consolidato orientamento
giurisprudenziale esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive
debba essere preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento, avendo la misura sanzionatoria
carattere vincolato.
---------------
il provvedimento con cui viene ingiunta la
demolizione di un immobile abusivo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso.
---------------
Non si può applicare a un fatto illecito
(l’abuso edilizio) il complesso di
acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela
decisoria.
Non sarebbe in alcun modo concepibile l’idea
stessa di connettere al decorso del tempo e
all’inerzia dell’amministrazione la
sostanziale perdita del potere di
contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem.
---------------
MASSIMA
2. Il primo motivo di ricorso è
infondato.
Un consolidato orientamento
giurisprudenziale, da cui la Sezione non
ritiene di doversi discostare, esclude che
l'ordine di demolizione di opere abusive
debba essere preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento, avendo la misura
sanzionatoria carattere vincolato (da ultimo
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza
12.10.2018 n. 5887).
3. Il secondo motivo di ricorso è
infondato.
Quanto al rispetto del dovere di
motivazione, deve ricordarsi che il
provvedimento con cui viene ingiunta la
demolizione di un immobile abusivo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso.
Nel caso in esame, il provvedimento
impugnato contiene sufficienti elementi in
fatto e diritto per evidenziare il tipo di
abuso edilizio e le norme in violazione
delle quali lo stesso è stato commesso, come
meglio specificato nel rapporto della
polizia municipale, al quale l’ordinanza
rinvia per relationem.
4. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La giurisprudenza (TAR Campania-Napoli, Sez.
II, sentenza 15.10.2018 n. 5974) ha chiarito
che “non si può applicare a un fatto
illecito (l’abuso edilizio) il complesso di
acquisizioni che, in tema di valutazione
dell’interesse pubblico, è stato enucleato
per la diversa ipotesi dell’autotutela
decisoria. Non sarebbe in alcun modo
concepibile l’idea stessa di connettere al
decorso del tempo e all’inerzia
dell’amministrazione la sostanziale perdita
del potere di contrastare il grave fenomeno
dell’abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l’edificazione
avvenuta senza titolo, non emergendo
oltretutto alcuna possibile giustificazione
normativa a una siffatta –e inammissibile–
forma di sanatoria automatica o praeter
legem” (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.02.2019 n. 331 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La prescrizione nei reati edilizi - Inizio e decorso del
termine di prescrizione - Onere della prova a carico
dell'imputato - Principio del "favor rei" - Giurisprudenza.
In tema di prescrizione, anche per i
reati edilizi, grava sull'imputato che voglia giovarsi di
tale causa estintiva del reato, l'onere di allegare gli
elementi in suo possesso dai quali poter desumere la data di
inizio del decorso del termine, diversa da quella risultante
dagli atti al fine di scardinare la prova su cui si fonda
l'assunto dell'accusa, non essendo a tal fine sufficiente la
mera affermazione da parte di costui a fare ritenere che il
reato si sia realmente estinto per prescrizione e neppure a
determinare l'incertezza sulla data di inizio della
decorrenza del relativo termine con la conseguente
applicazione del principio "in dubio pro reo": in base al
principio generale per cui ciascuno deve dare la
dimostrazione di quanto afferma, grava sull'imputato che
voglia giovarsi della causa estintiva, in contrasto con
quanto già risulta in proposito dagli atti di causa, l'onere
di allegare gli elementi in suo possesso, dei quali è il
solo a potere concretamente disporre, per determinare la
data di inizio del decorso del termine di prescrizione.
Pertanto, il principio del "favor rei", in base al quale,
nel dubbio sulla data di decorrenza del termine di
prescrizione, il momento iniziale va fissato in modo che
risulti più favorevole all'imputato, opera solo in caso di
incertezza assoluta sulla data di commissione dei reato o,
comunque, sull'inizio del termine di prescrizione, ma non
quando sia possibile eliminare tale incertezza, anche se
attraverso deduzioni logiche, del tutto ammissibili
(Cass. Sez. 3, n. 4139 del 13/12/2017 - dep. 29/01/2018,
Zizzi e altri che ha precisato che il giudice è tenuto a dar
conto, in sede di motivazione, delle ragioni per le quali
non è possibile pervenire, anche sulla base di deduzioni
logiche, ad una puntuale collocazione temporale
dell'intervento abusivo).
...
Reati in materia di abusi edilizi - Natura di reato
permanente - Cessazione della permanenza della condotta
illecita - Prescrizione del reato e principio del favor rei
- Artt. 10, 17, 44 d.P.R. n. 380/2001.
Il reato ex art. 44 DPR 380/2001 è per
sua natura un reato permanente, ciò significa che il momento
di cessazione della permanenza va individuata o nella
sospensione di lavori, sia essa volontaria o imposta "ex
auctoritate", o nella ultimazione dei lavori per il
completamento dell'opera o, infine, nella sentenza di primo
grado ove i lavori siano proseguiti dopo l'accertamento e
sino alla data del giudizio.
...
Interventi subordinati a permesso di costruire - Aumento
della volumetria complessiva e carico urbanistico - Variante
non sostanziale rispetto al progetto approvato - Permesso in
variante - Interventi soggetti a segnalazione certificata di
inizio attività (S.C.I.A., ex D.I.A).
In materia urbanistica, rientra nella
nozione di "nuova costruzione", comprensiva, secondo
previsto dall'art. 10, lett. c), DPR 380/2001, qualsiasi
manufatto fuori terra o interrato che costituisca
ampliamento all'esterno della sagoma dell'immobile
preesistente, con conseguente integrabilità, in difetto del
preventivo rilascio del permesso di costruire, del reato di
cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nella fattispecie, anche a voler ritenere che si trattasse
di una variante non sostanziale, nel cui ambito rientrano le
modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante
consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non
comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo
elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, la
stessa è comunque soggette al rilascio di permesso in
variante, complementario ed accessorio, anche sotto il
profilo temporale della normativa operante, rispetto
all'originario permesso a costruire, gli imputati erano
perciò anche in tal caso onerati della richiesta della
relativa variante, il conseguimento della quale soltanto gli
avrebbe consentito di procedere ad una legittima modifica.
...
Realizzazione di una piscina posta al servizio di una
residenza privata - Natura pertinenziale - Presupposti.
La realizzazione di una piscina posta al
servizio di una residenza privata non richiede il preventivo
rilascio del permesso di costruire a condizione che se ne
accerti la natura pertinenziale, la quale a sua volta
postula che debba accedere ad un edificio preesistente
edificato legittimamente, che presenti ridotte dimensioni
anche in assoluto, a prescindere dal rapporto con l'edificio
principale e che non sia in contrasto con gli strumenti
urbanistici vigenti e con quelli eventualmente soltanto
adottati.
Nel caso di specie, caratteristiche queste all'evidenza
insussistenti tenuto conto che il manufatto principale
risulta edificato in totale difformità dal permesso di
costruire avente ad oggetto un manufatto con destinazione
funzionale all'uso agricolo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.02.2019 n. 7038 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza
del termine per impugnare un titolo edilizio.
Il Consiglio di Stato riassume i principi
sulla verifica della piena conoscenza dei
titoli edilizi, al fine di valutare il
rispetto del termine decadenziale per
proporre l’azione di annullamento:
- il termine per impugnare il permesso di
costruire, laddove si contesti il quomodo
dell’edificazione, decorre dalla piena
conoscenza del provvedimento che
ordinariamente s'intende avvenuta al
completamento dei lavori, a meno che sia
data prova di una conoscenza anticipata da
parte di chi eccepisce la tardività del
ricorso anche a mezzo di presunzioni
semplici;
- l’inizio dei lavori segna il dies a quo
per la tempestiva proposizione del ricorso
laddove si contesti l’an dell’edificazione;
- dal momento della constatazione della
presenza dello scavo (a quella data deve per
legge essere presente il cartello dei lavori
e deve essere stata data effettiva
pubblicità sull’albo pretorio del rilascio
del titolo edilizio), è ben possibile
ricorrere enucleando le censure (ivi
comprese quelle in ordine all'asserito
divieto di nuova edificazione) senza
differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della
pratica di accesso agli atti avviata né, a
monte, che si possa differire quest'ultima;
- la richiesta di accesso non è idonea ex se
a far differire i termini di proposizione
del ricorso, perché se, da un lato, deve
essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio
ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve
parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato
senza indugio e non irragionevolmente
differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contraria ai principi
ordinamentali
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 11.02.2019 n. 982 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
3.3. Ne consegue che la decisione sulla
ricevibilità o meno del ricorso di primo
grado impone di precisare il concetto di
“piena conoscenza” del provvedimento, vale a
dire di quella conoscenza idonea a far
decorrere il termine perentorio di sessanta
giorni per l’impugnazione.
3.3.1. La giurisprudenza di questa Sezione (cfr.,
da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, n. 3875 del
2018; Cons. Stato, Sez. IV, n. 5675 del
2017; Sez. IV, n. 5654 del 2017) ha avuto
modo di chiarire che la “piena conoscenza”
non deve essere intesa quale “conoscenza
piena ed integrale” del provvedimento
stesso, ovvero di eventuali atti endo
procedimentali, la cui illegittimità sia
idonea a viziare, in via derivata, il
provvedimento finale, dovendosi invece
ritenere che sia sufficiente ad integrare il
concetto la percezione dell’esistenza di un
provvedimento amministrativo e degli aspetti
che ne rendono evidente la lesività della
sfera giuridica del potenziale ricorrente,
in modo da rendere riconoscibile l’attualità
dell’interesse ad agire contro di esso.
La norma intende per “piena conoscenza”,
quindi, la consapevolezza dell’esistenza del
provvedimento e della sua lesività e tale
consapevolezza determina la sussistenza di
una condizione dell’azione, l’interesse al
ricorso, mentre la conoscenza “integrale”
del provvedimento (o di altri atti del
procedimento) influisce sul contenuto del
ricorso e sulla concreta definizione delle
ragioni di impugnazione, e quindi sulla causa petendi.
La previsione dell’istituto dei motivi
aggiunti cc.dd. propri -per il tramite dei
quali il ricorrente può proporre ulteriori
motivi di ricorso derivanti dalla conoscenza
di ulteriori atti (già esistenti al momento
dell’introduzione del giudizio, ma ignoti) o
dalla conoscenza integrale di atti prima non
pienamente conosciuti, e ciò entro il
(nuovo) termine decadenziale di sessanta
giorni decorrente da tale conoscenza
sopravvenuta- comprova la fondatezza
dell’interpretazione resa in ordine al
significato della “piena conoscenza”.
Infatti, se quest’ultima dovesse essere
intesa come “conoscenza integrale”, il
tradizionale rimedio dei motivi aggiunti non
avrebbe una pratica ragion d’essere, o
dovrebbe essere considerato residuale.
3.3.2. Con specifico riferimento alla
impugnazione dei titoli edilizi, va
innanzitutto rilevato che la
vicinitas di un
soggetto rispetto all’area e alle opere
edilizie contestate induce a ritenere che lo
stesso abbia potuto avere più facilmente
conoscenza della loro entità anche prima
della conclusione dei lavori.
3.3.3. Ai fini della decorrenza del termine
di impugnazione di un permesso di costruire
da parte di terzi, la percezione
dell’effetto lesivo si atteggia diversamente
a seconda che si contesti l’illegittimità
del titolo per il solo fatto che esso sia
stato rilasciato (ad esempio, per contrasto
con l’inedificabilità assoluta dell’area)
ovvero, come nel caso di specie, che si
contesti il contenuto specifico del permesso
(ad esempio, per eccesso di volumetria o per
violazione delle distanze minime tra
fabbricati).
Il momento da cui computare i termini
decadenziali di proposizione del ricorso,
nell’ambito dell’attività edilizia, è
infatti individuato, secondo la
giurisprudenza (cfr.,
ex multis, Cons.
Stato, Sez. IV, n. 3875 del 2018; Sez. IV,
n. 5754 del 2017; Sez. VI, n. 4830 del 2017;
Sez. IV, n. 3067 del 2017; Sez. IV, 15.11.2016, n. 4701; Sez. IV, n. 1135 del
2016; Sez. IV, nn. 4909 e 4910 del 2015;
Sez. IV, 22.12.2014 n. 6337; Sez. V,
16.04.2013, n. 2107; Sez. VI, 18.04.2012, n. 2209, che si conformano
sostanzialmente all’insegnamento
dell'Adunanza Plenaria n. 15 del 2011,
sviluppandone i logici corollari):
nell’inizio dei lavori, nel caso si sostenga
che nessun manufatto poteva essere edificato
sull’area; ovvero, laddove si contesti il quomodo (distanze, consistenza ecc.), dal
completamento dei lavori o dal grado di
sviluppo degli stessi, se si renda comunque
palese l’esatta dimensione, consistenza,
finalità, dell’erigendo manufatto, ferma
restando:
a) la possibilità, da parte di chi solleva
l’eccezione di tardività, di provare, anche
in via presuntiva, la concreta anteriore
conoscenza del provvedimento lesivo in capo
al ricorrente (ad esempio, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 20, comma 6,
e 27, comma 4, t.u. edilizia, avuto riguardo
alla presenza in loco del cartello dei
lavori [specie se munito di rendering e
indicazione puntuale del titolo edilizio]
ovvero alla effettiva comunicazione all’albo
pretorio del comune del rilascio del titolo
edilizio; alla consistenza del tempo
trascorso fra l’inizio dei lavori e la
proposizione del ricorso; alla effettiva
residenza del ricorrente in zona confinante
con il lotto su cui sono in corso i lavori;
ecc. ecc.);
b) l’onere di chi intende contestare
adeguatamente un titolo edilizio di
esercitare sollecitamente l’accesso
documentale.
In altri termini, la giurisprudenza di
questo Consiglio (ex multis: Cons. Stato, IV,
n. 3075 del 2018; Sez. IV; n. 5675 del 2017;
Sez. IV, n. 4701 del 2016; Sez. IV, n. 1135
del 2016) ha sistematizzato i seguenti
principi sulla verifica della piena
conoscenza dei titoli edilizi, al fine di
valutare il rispetto del termine
decadenziale per proporre l’azione di
annullamento:
- il termine per impugnare il permesso di
costruire, laddove si contesti il quomodo
dell’edificazione, decorre dalla piena
conoscenza del provvedimento, che
ordinariamente s'intende avvenuta al
completamento dei lavori, a meno che sia
data prova di una conoscenza anticipata da
parte di chi eccepisce la tardività del
ricorso anche a mezzo di presunzioni
semplici;
- l’inizio dei lavori segna il dies a quo
per la tempestiva proposizione del ricorso
laddove si contesti l’an dell’edificazione;
- dal momento della constatazione della
presenza dello scavo (a quella data, si
badi, deve per legge essere presente il
cartello dei lavori e deve essere stata data
effettiva pubblicità sull’albo pretorio del
rilascio del titolo edilizio), è ben
possibile ricorrere enucleando le censure
(ivi comprese quelle in ordine all'asserito
divieto di nuova edificazione) senza
differire il termine di proposizione del
ricorso all'avvenuto positivo disbrigo della
pratica di accesso agli atti avviata né, a
monte, che si possa differire quest'ultima;
- la richiesta di accesso non è idonea ex se
a far differire i termini di proposizione
del ricorso, perché se, da un lato, deve
essere assicurata al vicino la tutela in
sede giurisdizionale dei propri interessi
nei confronti di un intervento edilizio
ritenuto illegittimo, dall'altro lato, deve
parimenti essere salvaguardato l'interesse
del titolare del permesso di costruire a che
l'esercizio di detta tutela venga attivato
senza indugio e non irragionevolmente
differito nel tempo, determinando una
situazione di incertezza delle situazioni
giuridiche contraria ai principi ordinamentali. |
EDILIZIA PRIVATA:
Gravi difetti dell’opera - Appalti di lavori privati -
Responsabilità dell'appaltatore nei confronti dei
committente e dei suoi aventi causa - Vizi non impeditivi
dell’uso dell’immobile - Risarcimento dei danni - Art. 1669
c.c..
In materia di appalti, i gravi difetti
che, ai sensi dell'art. 1669 c.c., fanno sorgere la
responsabilità dell'appaltatore nei confronti dei
committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle
alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento
del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale
utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e
pratica e secondo la sua intrinseca natura.
A tal fine, rilevano pure vizi non totalmente impeditivi
dell'uso dell'immobile, come quelli relativi all'efficienza
dell'impianto idrico o alla presenza di infiltrazioni e
umidità, ancorché incidenti soltanto su parti comuni
dell'edificio e non sulle singole proprietà dei condomini
(Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 24230/2018; Cass. Sez. 2,
Ordinanza n. 27315/2017).
Fattispecie: risarcimento dei danni alle
parti comuni e alle proprietà esclusive per i gravi difetti
nell'esecuzione dei lavori di costruzione dell'edificio.
...
Denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella
costruzione di un immobile - Decorrenza del termine -
Rilevanza del nesso di causale - Decadenza dall'azione di
responsabilità contro l'appaltatore - Sicura conoscenza dei
difetti e delle loro cause - Necessità.
Il termine di un anno per la denuncia
del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione
di un immobile, previsto dall'art. 1669 c.c. a pena di
decadenza dall'azione di responsabilità contro
l'appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente
consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro
cause, e tale termine può essere postergato all'esito degli
accertamenti tecnici che si rendano necessari per
comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto
collegamento causale
(Cass. sez. 2, Sentenza n. 10048/2018) (Corte
di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 07.02.2019 n. 3674 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Il frazionamento del fondo originario in più
lotti con superfici non utilizzabili a fini agricoli, e
oggetto di plurimi trasferimenti, sostanzia l’intento
lottizzatorio.
Al riguardo, il provvedimento ex art. 30 d.P.R. 380/2001
(Lottizzazione abusiva) mira, in
funzione anticipatoria, al ripristino del tessuto urbano
violato dalla lottizzazione abusiva in corso, a presidio
dell’esigenza di assicurare un ordinato sviluppo del
territorio attraverso la salvaguardia del potere di
pianificazione urbanistica. Integrata la fattispecie
illecita, il potere sanzionatorio dell’ente non è
condizionato da successive vicende di trasferimento del
bene, maturate per atti inter vivos o iure successionis, che
potrebbero, altrimenti, comportare –ove invece ritenute
idonee ad elidere la potestà sanzionatoria amministrativa–
l’integrale vanificazione della tutela.
Né potrebbe rilevare l'affermazione per la quale i
ricorrenti versavano in situazione di buona fede, perché
donatari del terreno nel 2015 successivamente al
frazionamento dell'area e, quindi, non autori
dell'originario disegno lottizzatorio. Infatti, la
lottizzazione abusiva rileva in modo oggettivo e
indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, i
quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la
propria buona fede nei rapporti interni e di natura
civilistica con i propri danti causa.
Giova ricordare che, l’art. 30 d.P.R. 380/2001, riproducendo
le disposizioni già contenute nell’art. 18 della L. 47/1985,
prevede che si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in
violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali
o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio.
---------------
L’ordinamento disciplina una lottizzazione materiale,
consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli
strumenti urbanistici.
Prevede, inoltre, la lottizzazione negoziale, ovvero
cartolare, allorquando la trasformazione avvenga tramite
atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la
destinazione a scopo edificatorio.
Con riguardo alla prima, il concetto di "opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione, al fine di
garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un
corretto uso del territorio e uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standard
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Con riferimento alla seconda, inoltre, sebbene
l'accertamento dei presupposti di cui all'art. 30 del d.P.R.
n. 380 comporti la ricostruzione di un quadro indiziario
sulla scorta degli elementi indicati nella norma, dalla
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti, è tuttavia sufficiente che lo scopo
edificatorio emerga anche solo da alcuni degli indizi o,
anche da un solo indizio.
---------------
2. Il primo motivo è infondato.
Dagli atti di accertamento compiuti dal Comune resistente,
risulta che:
- l’avvio della lottizzazione abusiva è avvenuta nel 2008 a seguito
della divisione ereditaria delle originarie p.lle 285 e 469
tra i germani An., Ma.Gi. e Fr. Ga.
eredi della madre e proprietaria An. Lo Gi. alla quale
hanno fatto seguito una serie di vendite e permute e
successivi frazionamenti catastali che hanno portano alla
divisione delle tre quote ereditarie in otto lotti
simmetrici, tra i quali, in particolare, il “lotto 6” è
attualmente in proprietà dei ricorrenti in forza di atto di
donazione del 14/12/2015 da parte dei genitori Giordano
Leonardo e Di Fiore Rita, acquirenti originari in data 05.11.2008 da Antonino Gargano sopra citato;
- sono presenti, nel lotto 1 un vecchio manufatto; nel lotto 2 un
edificio in costruzione (due appartamenti), un muro di
recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e la
nicchia ENEL; nel lotto 3, il cavidotto ENEL; nel lotto 4,
un basamento in cemento, il muro di recinzione, i pilastri
per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 5, un
edificio in costruzione, un muro di recinzione, i pilastri
per un cancello carrabile e la nicchia ENEL; nel lotto 6, un
muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e
la nicchia ENEL; nel lotto 7, la diramazione per il
cavidotto ENEL; nel lotto 8, un edificio in costruzione, un
muro di recinzione, i pilastri per un cancello carrabile e
la nicchia ENEL.
- i lavori edili sono proseguiti con violazione dei sigilli e con
conseguente denuncia dell’accaduto all’autorità giudiziaria.
Alla luce di tali circostanze si desume che il frazionamento
del fondo originario in più lotti con superfici non
utilizzabili a fini agricoli, e oggetto di plurimi
trasferimenti, sostanzia l’intento lottizzatorio.
Il provvedimento ex art. 30 d.P.R. 380/2001 mira, in
funzione anticipatoria, al ripristino del tessuto urbano
violato dalla lottizzazione abusiva in corso, a presidio
dell’esigenza di assicurare un ordinato sviluppo del
territorio attraverso la salvaguardia del potere di
pianificazione urbanistica. Integrata la fattispecie
illecita, il potere sanzionatorio dell’ente non è
condizionato da successive vicende di trasferimento del
bene, maturate per atti inter vivos o iure successionis, che
potrebbero, altrimenti, comportare –ove invece ritenute
idonee ad elidere la potestà sanzionatoria amministrativa–
l’integrale vanificazione della tutela.
Né potrebbe rilevare l'affermazione per la quale i
ricorrenti versavano in situazione di buona fede, perché
donatari del terreno nel 2015 successivamente al
frazionamento dell'area e, quindi, non autori
dell'originario disegno lottizzatorio. Infatti, la
lottizzazione abusiva rileva in modo oggettivo e
indipendentemente dall'animus dei proprietari interessati, i
quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la
propria buona fede nei rapporti interni e di natura
civilistica con i propri danti causa (giurisprudenza
consolidata, cfr., Cons. Stato, sez. VI, n. 5805/2018; id.
n. 3419/2018; id., n. 2082/2018; id., n. 1888/2018; Cons.
Stato, sez. IV, n. 26/2016).
Giova ricordare che, l’art. 30 d.P.R. 380/2001, riproducendo
le disposizioni già contenute nell’art. 18 della L. 47/1985,
prevede che si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio quando vengono iniziate opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in
violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici,
vigenti o adottati, o comunque stabilite dalle leggi statali
o regionali o senza la prescritta autorizzazione; nonché
quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno
in lotti che, per le loro caratteristiche quali la
dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua
destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero,
l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli
acquirenti, denuncino in modo non equivoco la destinazione a
scopo edificatorio.
L’ordinamento disciplina una lottizzazione materiale,
consistente nella realizzazione, anche nella sola fase
iniziale, di opere che comportino un’abusiva trasformazione
urbanistica o edilizia dei terreni in violazione degli
strumenti urbanistici.
Prevede, inoltre, la lottizzazione negoziale, ovvero
cartolare, allorquando la trasformazione avvenga tramite
atti negoziali che determinino un frazionamento del terreno
in lotti tali da denunciare in modo inequivoco la
destinazione a scopo edificatorio.
Con riguardo alla prima, il concetto di "opere che
comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei
terreni deve essere, dunque, interpretato in maniera
"funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico
tutelato è costituito dalla necessità di preservare la
potestà programmatoria attribuita all'Amministrazione nonché
l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto
titolare della stessa funzione di pianificazione, al fine di
garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un
corretto uso del territorio e uno sviluppo degli
insediamenti abitativi e dei correlativi standard
compatibile con le esigenze di finanza pubblica.
Con riferimento alla seconda, inoltre, sebbene
l'accertamento dei presupposti di cui all'art. 30 del d.P.R.
n. 380 comporti la ricostruzione di un quadro indiziario
sulla scorta degli elementi indicati nella norma, dalla
quale sia possibile desumere in maniera non equivoca la
destinazione a scopo edificatorio degli atti posti in essere
dalle parti, è tuttavia sufficiente che lo scopo
edificatorio emerga anche solo da alcuni degli indizi o,
anche da un solo indizio (Consiglio Stato, sez. IV, n.
2004/2009).
Ritiene, dunque, il Collegio che nel caso di specie
sussistono sufficienti elementi indiziari della
lottizzazione abusiva, sia cartolare (frazionamento e
vendita della p.lla originaria; non esclusione dell’intento
lottizzatorio anche nell’ipotesi di divisione ereditaria in
presenza degli altri indici rivelatori) sia materiale
(trasformazione urbanistica dell’area destinata a verde
agricolo mediante edificazione e creazione della strada;
impossibilità di sfruttamento agricolo della p.lla residua
di ridotte dimensioni).
3. La censura relativa alla mancata comunicazione di avvio
del procedimento ai sensi dell’art. 7 della L. n. 241 del
1990 è parimenti infondata.
Va condiviso, anche riguardo al caso di specie, l’indirizzo
giurisprudenziale che qualifica il provvedimento di
sospensione come “avente natura cautelare e non sanzionatoria e per il quale, dunque, tale obbligo non
sussiste. L’art. 7 della legge sul procedimento
amministrativo oltre a prescrivere tale obbligo, ne
giustifica l'omissione in presenza di ragioni derivanti da
particolari esigenze di celerità. Tale situazioni che
giustificano l'omissione sono dunque atipiche e sono frutto
di un bilanciamento di interessi fatto dalla stessa
amministrazione, laddove decida di omettere tale
adempimento. Nel caso di specie tali esigenze sussistevano
trattandosi di un provvedimento cautelare che ben poteva
essere revocato, qualora il ricorrente, nei successivi 90
giorni, avesse dimostrato all'amministrazione la legalità
del suo agire. La natura cautelare del provvedimento in
questione sembra essere confermata dalla rigida sequenza
procedimentale, che presuppone un atto iniziale di
accertamento circa la configurabilità di una lottizzazione
abusiva, la successiva obbligatoria sospensione ed infine la
eventuale acquisizione al patrimonio disponibile del Comune”
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 3073/2016 e Cons. Stato, sez.
VI, n. 5805/2018, cit.).
4. Conclusivamente il ricorso è infondato e va rigettato
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 07.02.2019 n. 349 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esigenza di rispettare la sagoma preesistente perché
l’intervento non travalichi i confini della ristrutturazione
edilizia è tradizionalmente esclusa nelle sole ipotesi di
demolizione parziale, che si ha “quando continua ad esistere
una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale
da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E
non si può considerare esistente un edificio in senso
tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e
una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i
muri perimetrali”.
---------------
Stabilire se ci si trovi in presenza di una demolizione
totale o parziale è frutto, evidentemente, di una
valutazione casistica.
Nel caso di specie, avendo comportato modifica della sagoma,
esattamente l’intervento è stato qualificato dal Comune in
termini di nuova costruzione, e non di ristrutturazione, ai
sensi dell’art. 46 delle norme di attuazione del P.R.G.
interpretato alla luce delle definizioni contenute nell’art.
31 della legge n. 457/1978 e poi nell’art. 3 del d.P.R. n.
380/2001, che, lo si ripete, anche nel testo oggi in vigore
continua a richiedere il rispetto della sagoma per gli
interventi eseguiti su immobili ricadenti in zone sottoposte
a vincolo paesaggistico.
---------------
Al riguardo, si osserva in primo luogo che sia l’art. 31 l. n.
457/1978, sia la legge toscana n. 59/1980 (art. 2 co. 2),
sancivano la prevalenza delle proprie disposizioni su quelle
dettate dagli strumenti urbanistici generali e dai
regolamenti edilizi.
È vero che la legge regionale n.
64/1995 ha procrastinato, nel periodo temporale rilevante
per il giudizio, l’efficacia delle previgenti disposizioni
urbanistiche locali e ne ha sancito, fino all’entrata in
vigore del piano strutturale, la prevalenza sulle sue stesse
disposizioni; ma questo non toglie che, per le definizioni
degli interventi di recupero del patrimonio edilizio,
dovesse e debba, ai fini della decisione, farsi
riferimento alla superiore fonte legale, prevalente sulle
eventuali definizioni difformi contenute negli strumenti
urbanistici locali.
Un problema di contrasto fra previsioni degli strumenti
urbanistici e definizioni di legge non si pone, peraltro,
nel caso in esame.
Il tenore dell’art. 46 delle N.T.A. di P.R.G. in questione
non autorizza a ritenere che il pianificatore comunale
avesse inteso ricomprendere nella nozione di
ristrutturazione edilizia anche gli interventi comportanti
modifiche della sagoma. La “sostituzione” dell’edificio,
contemplata dalla disposizione, implica la conservazione
della sagoma originaria, così come la possibilità di
demolizione parziale e ricostruzione nei limiti del volume
preesistente, “detratto delle aggiunte non autorizzate”, non
equivale certo a generalizzata facoltà di modificare la
sagoma dell’edificio.
L’interpretazione propugnata dalla ricorrente porterebbe,
del resto, a giudicare l’art. 46 incompatibile con la
definizione di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 31
della legge n. 457/1978, che, nella consolidata lettura
della giurisprudenza, anche di questo TAR, ricomprendeva
gli interventi di demolizione e successiva fedele
ricostruzione di un fabbricato, purché ne rimanessero
inalterati sagoma e volumi (fra le moltissime, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 14.11.1996, n. 1359; id., sez. V, 02.12.1998, n. 1714; id., sez. V, 24.02.1999, n.
197; id., sez. V, 18.09.2003, n. 5310; id., sez. V,
10.02.2004, n. 476; id., sez. IV, 07.09.2004, n.
5791; id., sez. IV, 10.08.2011, n. 4765; id., sez. IV, 05.10.2010, n. 7310; id., sez. V, 18.12.2008, n.
6318; TAR Toscana, sez. III, 30.06.2003, n. 2531, 22.06.2004, n. 2289, 29.11.2004, n. 6073).
Il limite della sagoma, da intendersi quale conformazione
planivolumetrica della costruzione e contorno dell’edificio,
è stato in seguito esplicitato dal legislatore, che,
avallando il cennato orientamento giurisprudenziale, con
l’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001 ha ricondotto nell’alveo
della ristrutturazione edilizia gli interventi di
“demolizione e successiva fedele ricostruzione di un
fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime
e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente,
fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento
alla normativa antisismica”. La formulazione iniziale della
norma è stata presto modificata, ad opera del d.lgs. n.
301/2002, che ha però mantenuto fermo il limite della
sagoma, rimosso in termini generali –con previsione
innovativa– solo dall’art. 30 del d.l. n. 69/2013, con
l’eccezione degli immobili sottoposti a vincoli.
L’esigenza di rispettare la sagoma preesistente perché
l’intervento non travalichi i confini della ristrutturazione
edilizia è tradizionalmente esclusa nelle sole ipotesi di
demolizione parziale, che si ha “quando continua ad esistere
una parte del manufatto, avente una propria autonomia, tale
da far ritenere sussistente un edificio in senso tecnico. E
non si può considerare esistente un edificio in senso
tecnico, quando siano conservate soltanto le fondamenta e
una parte del muro perimetrale, senza cioè la copertura ed i
muri perimetrali” (così Cons. Stato, sez. IV, 10.05.2012, n. 2723, e, in precedenza, 19.02.2007, n. 867;
TAR Toscana, sez. III, 14.02.2017, n. 260).
2.3.2. Stabilire se ci si trovi in presenza di una
demolizione totale o parziale è frutto, evidentemente, di
una valutazione casistica.
In questa prospettiva va
esaminato l’intervento eseguito nel 1997 sull’immobile di
proprietà della società ricorrente, consistito
nell’integrale sostituzione della porzione seminterrata e
fuori terra del fabbricato con una struttura in muratura
portante che si differenzia dalla precedente per volume,
sagoma, area di sedime, al punto da avere reso necessario lo
scavo di una nuova fondazione perimetrale, oltre
all’apertura di porte e finestre e alla demolizione e al
rifacimento della vecchia copertura.
Gli stati sovrapposti rappresentati nell’istanza di
sanatoria, e nell’integrazione depositata nel 2011, mostrano
chiaramente come non vi sia alcun elemento comune tra il
manufatto risultante dall’intervento e lo stato
dell’immobile condonato nel 2010, del quale sono stati
mantenuti unicamente un locale interrato, al grezzo, e un
muro a retta ora utilizzato come parete dello scannafosso,
vale a dire le opere realizzate in forza della licenza del
1968: preesistenze insufficienti ad attestare la
conservazione anche solo parziale dell’edificio perché del
tutto prive di autonomia strutturale e funzionale, a maggior
ragione se si ha riguardo alla destinazione residenziale del
fabbricato; e che perciò non bastano a escludere il
carattere totale della demolizione alla stregua degli
orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, dai quali
non vi è ragione di discostarsi.
Ne deriva che, avendo comportato modifica della sagoma,
esattamente l’intervento è stato qualificato dal Comune
resistente in termini di nuova costruzione, e non di
ristrutturazione, ai sensi dell’art. 46 delle norme di
attuazione del P.R.G. interpretato alla luce delle
definizioni contenute nell’art. 31 della legge n. 457/1978 e
poi nell’art. 3 del d.P.R. n. 380/2001, che, lo si ripete,
anche nel testo oggi in vigore continua a richiedere il
rispetto della sagoma per gli interventi eseguiti su
immobili ricadenti in zone sottoposte a vincolo
paesaggistico (cfr. TAR Toscana, sez. III, 05.04.2016,
n. 582).
E non induce a diverse conclusioni il precedente
invocato da It. (la sentenza del Consiglio di Stato,
sez. VI, 23.04.2018, n. 2448, di riforma della citata
TAR Toscana, n. 260/2017), che, in linea con i principi
consolidati, si limita a confermare la pacifica riconducibilità alla nozione di ristrutturazione edilizia di
un intervento di demolizione e fedele ricostruzione
dell’originaria consistenza di un fabbricato (la peculiarità
del caso trattato dalla sentenza n. 2448/2018 risiede nel
fatto che il giudice di appello, sulla base della disciplina
urbanistica applicabile in quella fattispecie, ha ritenuto
di scorporare l’intervento eseguito appunto sulla
“consistenza originaria” del fabbricato dal contestuale
intervento di ampliamento e sopraelevazione realizzato sullo
stesso fabbricato: interventi che il TAR in prime cure
aveva invece giudicato costituire un’operazione unitaria di
demolizione e ricostruzione con variazioni di forma e
ingombro, implicante come tale la novità –in funzione del
rispetto delle distanze– dell’intero edificio che ne era
risultato, ivi compresa la porzione preesistente fedelmente
ricostruita).
Del legittimo operato del Comune non fanno dubitare neppure
le disposizioni di legge regionale richiamate inizialmente.
La definizione di ristrutturazione edilizia contenuta
nell’allegato alla l.r. n. 59/1980, al pari di quella
dettata dall’art. 31 l. n. 457/1978, non contiene
riferimenti espressi alla demolizione e ricostruzione: essa
non può, pertanto, che essere interpretata conformemente
alla fonte statale, vale a dire nel senso dell’appartenenza
all’ambito della ristrutturazione edilizia degli interventi
di demolizione e ricostruzione ove rispettosi di volume e
sagoma dell’edificio preesistente, e questo perché la
definizione delle categorie degli interventi edilizi spetta
solo allo Stato, le cui disposizioni di legge in materia
costituiscono principi fondamentali del governo del
territorio (per tutte, cfr. Corte Cost., 23.11.2011,
n. 309).
In particolare, non si riferisce a interventi di demolizione
e ricostruzione la categoria D2 della classificazione
adottata dal legislatore toscano, che prevede alcune opere
potenzialmente foriere di incrementi volumetrici e modifiche
della sagoma di per sé compatibili con la nozione di
ristrutturazione edilizia non comportante la preventiva
demolizione dell’immobile interessato. Fermo restando che si
tratta di incrementi e modifiche di modesta portata, non
incidenti anche sugli elementi verticali strutturali e,
soprattutto, finalizzati all’adeguamento igienico-sanitario
dell’immobile, condizioni completamente assenti
nell’intervento eseguito dall’odierna ricorrente.
2.3.3. La corretta qualificazione dell’intervento in termini
di nuova costruzione rende vincolato il diniego della
sanatoria, stanti le limitazioni alle tipologie di opere
assentibili in zona agricola stabilite dall’art. 40 delle
norme di attuazione del P.R.G. comunale.
Assumono, di conseguenza, una connotazione non invalidante i
vizi procedimentali denunciati con il secondo e il terzo
motivo di ricorso, essendo palese, ai sensi e per gli
effetti di cui all’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990, che
il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto
dispositivo diverso.
Solo per inciso, la dedotta violazione dell’art. 10-bis
della medesima l. n. 241/1990 è insussistente per ambedue i
profili allegati, posto che il Comune resistente mostra di
aver vagliato le controdeduzioni dell’interessata non
soltanto in virtù del richiamo presente nell’epigrafe
dell’atto impugnato, ma anche dei contenuti del
provvedimento, che ne costituiscono confutazione; e che, per
altro verso, l’argomento inerente la mancata presentazione
di un piano attuativo non rappresenta un quid novi, ma un
mero corollario della ritenuta contrarietà dell’intervento
alla previsione dell’art. 46 N.T.A. di P.R.G. sul versante
paesaggistico.
Infondato in radice è il primo motivo, dal momento che la
violazione del termine massimo di durata del procedimento di
per sé non vizia le determinazioni assunte
dall’amministrazione.
Le rimanenti censure (settimo e ottavo motivo), dirette
proprio contro il giudizio di incompatibilità paesaggistica
del manufatto, sono a loro volta irrilevanti per difetto di
interesse, atteso che la riconosciuta fondatezza della
principale ragione giustificatrice dell’operato del Comune –quella inerente la natura dell’intervento– impedisce
comunque di pervenire all’annullamento del provvedimento
impugnato.
Al pari del diniego di sanatoria, è legittimo il rifiuto del
Comune di dare avvio al procedimento per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 07.02.2019 n. 210 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nozione
di pertinenza.
Il Consiglio di Stato
rimarca che occorre il titolo edilizio per
la realizzazione di nuovi manufatti,
quand'anche sotto il profilo civilistico
essi si possano qualificare come pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza
differisce da quella a fini
urbanistico/edilizi; la qualifica di
pertinenza urbanistica è applicabile
soltanto a opere di modesta entità e
accessorie rispetto a un'opera principale,
quali ad esempio i piccoli manufatti per il
contenimento di impianti tecnologici “et
similia”, ma non anche a opere che, dal
punto di vista delle dimensioni e della
funzione, si caratterizzino per una propria
autonomia rispetto all'opera cosiddetta
principale e non siano coessenziali alla
stessa, di tal che ne risulti possibile una
diversa e autonoma utilizzazione economica.
A differenza della nozione civilistica di
pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può
essere considerato una pertinenza quando è
non solo preordinato ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma
è anche sfornito di un autonomo valore di
mercato e non incide sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un
"nuovo volume".
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il
principio generale per il quale occorre il
rilascio della concessione edilizia (o del
titolo avente efficacia equivalente) quando
si tratti di un "manufatto edilizio"; fatta
salva una diversa normativa regionale o
comunale, ai fini edilizi manca la natura
pertinenziale quando sia realizzato un nuovo
volume, su un'area diversa ed ulteriore
rispetto a quella già occupata dal
precedente edificio, ovvero sia realizzata
una qualsiasi opera come, ad esempio, una
tettoia, che ne alteri la sagoma (nella
fattispecie, il carattere pertinenziale
dell’opera è stato escluso in ragione del
fatto che si trattava di una struttura di
dimensioni di entità tali -circa 345 mq- da
arrecare una visibile alterazione
all'edificio o alle parti dello stesso su
cui era stata inserita)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.02.2019 n. 904 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
5.2. Quanto poi a quello che, variamente
articolato, sembra essere il “motivo
centrale” della impugnazione, attinente alla
legittimità e correttezza, o no, della
qualificazione, sul piano urbanistico–edilizio, dell’intervento realizzato, con
riguardo in particolare alla riconducibilità
dell’opera stessa nel novero degli
interventi di edilizia libera o, viceversa,
da assoggettare a permesso di costruire ai
sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 380/2001; o
al carattere pertinenziale, o no,
dell’opera, occorre rilevare in primo luogo
che non può trovare accoglimento la tesi del
privato in base alla quale verrebbe in
considerazione un’opera di natura
pertinenziale, anche a prescindere dalle –oggettivamente cospicue, invero- dimensioni
dell’opera stessa.
Al contrario, questo Collegio di appello,
concordando in ciò col TAR, ritiene che
nella specie venga in considerazione
un’opera che, per consistenza e tipologia,
ha comportato una trasformazione del
territorio e del suolo, e una alterazione
dei luoghi, tutt’altro che irrilevanti, e
che esattamente è stata fatta ricadere nella
categoria degli interventi per l’esecuzione
dei quali occorre il permesso di costruire
ai sensi degli articoli 3 e 10 del d.P.R. n.
380 del 2001.
In proposito, più volte questo Consiglio di
Stato ha rimarcato come occorra il titolo
edilizio per la realizzazione di nuovi
manufatti, quand'anche sotto il profilo
civilistico essi si possano qualificare come
pertinenze.
La nozione civilistica di pertinenza
differisce da quella a fini urbanistico/edilizi.
La qualifica di pertinenza urbanistica è
applicabile soltanto a opere di modesta
entità e accessorie rispetto a un'opera
principale, quali ad esempio i piccoli
manufatti per il contenimento di impianti
tecnologici “et similia”, ma non anche a
opere che, dal punto di vista delle
dimensioni e della funzione, si
caratterizzino per una propria autonomia
rispetto all'opera cosiddetta principale e
non siano coessenziali alla stessa, di tal
che ne risulti possibile una diversa e
autonoma utilizzazione economica (cfr. Cons.
St., Sez. VI, 02.01.2018, n. 24, 02.02.2017, n.
694, 04.01.2016, n. 19, 11.03.2014, n. 3952; Sez. V, n. 817 del 2013; Sez. IV, n. 615 del
2012).
La giurisprudenza di questo Giudice di
appello è costante nel ritenere che, a
differenza della nozione civilistica di
pertinenza, ai fini edilizi un manufatto può
essere considerato una pertinenza quando è
non solo preordinato ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale e
funzionalmente inserito al suo servizio, ma
è anche sfornito di un autonomo valore di
mercato e non incide sul "carico
urbanistico" mediante la creazione di un
"nuovo volume" (v. Cons. Stato, Sez. IV,
2.2.2012, n. 615, cit.).
Nell'ordinamento statale, infatti, vige il
principio generale per il quale occorre il
rilascio della concessione edilizia (o del
titolo avente efficacia equivalente) quando
si tratti di un "manufatto edilizio" (cfr.
Sez. VI, 24.07.2014, n. 3952).
Fatta salva
una diversa normativa regionale o comunale,
ai fini edilizi manca la natura pertinenziale quando sia realizzato un nuovo
volume, su un'area diversa ed ulteriore
rispetto a quella già occupata dal
precedente edificio, ovvero sia realizzata
una qualsiasi opera come, ad esempio, una
tettoia, che ne alteri la sagoma.
Esaminando da vicino la fattispecie, il
carattere pertinenziale dell’opera è escluso
proprio in ragione del fatto che si tratta
di un intervento di tutt’altro che ridotta o
esigua dimensione. Viene in questione una
struttura di dimensioni di entità tali
(circa 345 mq) da arrecare una visibile
alterazione all'edificio o alle parti dello
stesso su cui è stata inserita.
Evidente, la trasformazione del territorio e
l’alterazione dello stato dei luoghi.
Di qui, la correttezza della decisione
comunale, avallata nella sentenza impugnata,
di applicare la sanzione della demolizione
di cui all’art. 31 del t.u. n. 380 del 2001
(a differenza di quanto sostiene la parte
appellante, la quale invoca, implicitamente
ma non per questo meno sicuramente, la irrogabilità di una sanzione pecuniaria, ai
sensi dell’art. 37 del t.u. dell’edilizia,
considerando inapplicabile il regime sanzionatorio di cui all’art. 31 del t.u.
medesimo).
In conclusione, non può trovare accoglimento
la deduzione secondo la quale verrebbe in
considerazione un’opera di natura
pertinenziale. |
URBANISTICA:
Nel caso in cui il piano di lottizzazione
approvato e convenzionato sia scaduto per il decorso del
termine di dieci anni, divengono inefficaci le sue
previsioni che non abbiano avuto concreta attuazione, non
essendo consentita la loro ulteriore esecuzione: non si
possono, più eseguire neppure gli espropri, preordinati alla
realizzazione delle opere pubbliche e delle opere di
urbanizzazione primaria.
Ne consegue che anche la convenzione di lottizzazione,
scaduta e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare
i successivi strumenti urbanistici
generali
---------------
Invero, dalla documentazione versata in atti risulta che il
piano di lottizzazione approvato dal comune di Rivoli
Veronese con deliberazione consiliare n. 19 del 01.08.2007 è scaduto per decorso del termine di dieci anni, ai
sensi dell’art. 20 (Procedimento di formazione, efficacia e
varianti del piano urbanistico attuativo), commi 9 e 10,
della legge regionale del Veneto 23.04.2004, n. 11
(Norme per il governo del territorio e in materia di
paesaggio), come pure è scaduta la convenzione di
lottizzazione, stipulata il 31.10.2007 tra il comune di
Rivoli Veronese ed il consorzio di lottizzazione “Cason 2”.
Lo stesso consorzio risulta, di fatto, cessato, avendo una
durata di dieci anni dall'autorizzazione a lottizzare, ai
sensi dell’articolo 4 del suo atto costitutivo (cfr.
documento n. 12 depositato dall'appellante il 07.12.2018).
Per la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, nel caso
in cui il piano di lottizzazione approvato e convenzionato
sia scaduto per il decorso del termine di dieci anni,
divengono inefficaci le sue previsioni che non abbiano avuto
concreta attuazione, non essendo consentita la loro
ulteriore esecuzione:, non si possono, più eseguire neppure
gli espropri, preordinati alla realizzazione delle opere
pubbliche e delle opere di urbanizzazione primaria.
Ne consegue che anche la convenzione di lottizzazione,
scaduta e rimasta inattuata in parte qua, non può vincolare
i successivi strumenti urbanistici generali (cfr., fra le
tante, Cons. Stato, V, 31.08.2017, n. 4144; VI, 26.08.2014, n. 4278; IV, 28.12.2012, n. 6703).
L’odierna appellante ha perso, dunque, interesse
all'impugnazione, atteso che lo stesso piano di
lottizzazione, nella parte che rileva nel caso di specie
(ossia il terzo stralcio) non può più trovare attuazione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, l’appello va
dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di
interesse (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.02.2019 n. 809 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’art. 27 del c.p.a. stabilisce che, perché il
contraddittorio possa considerarsi integro, il ricorso deve
essere notificato sia all’Amministrazione resistente che,
ove esistenti, ai contro interessati.
Nel processo amministrativo la qualità di controinteressato
è strettamente connessa ai vantaggi e benefici che un
determinato soggetto può ritrarre dal provvedimento
amministrativo oggetto di impugnazione, tali da fondare la
sussistenza di un interesse legittimo omologo e speculare
rispetto a quello del ricorrente che invece se ne assume
leso; intrinsecamente connessa a tale qualità c’è la
possibilità che i controinteressati siano identificati o
quanto meno possano esserlo, sulla base del provvedimento
impugnato.
La nozione di controinteressato in senso tecnico postula,
dunque, il concorso di due elementi essenziali, di tipo
formale e sostanziale: il primo da ricercare nell’espressa
menzione o nell’immediata individuabilità del soggetto in
questione nel provvedimento impugnato; il secondo
consistente nel riconoscimento, in capo al suddetto
soggetto, di un interesse giuridico qualificato al
mantenimento degli effetti dell’atto in questione.
La mancata notifica del ricorso ad almeno un
controinteressato rende il ricorso inammissibile. E tale vizio, derivante
dalla mancata notifica del ricorso al controinteressato, è
insuscettibile di sanatoria (ad es. attraverso la
notificazione allo stesso del ricorso per motivi aggiunti
ovvero dell’appello avverso la sentenza del giudice di primo
grado).
---------------
5.- Preliminarmente il Collegio deve darsi carico delle
eccezioni sollevate dalla resistente amministrazione intese
a sostenere l’inammissibilità del ricorso siccome giammai
notificato al controinteressato impresa Ed. D’Al., impresa
proponente il progetto del piano di lottizzazione della
Maglia C1 – 16 nella quale è ricompreso il terreno di
proprietà della ricorrente, approvato dalla resistente
amministrazione.
5.1- L’eccezione è fondata.
5.1.a.- L’art. 27 del c.p.a. stabilisce che, perché il
contraddittorio possa considerarsi integro, il ricorso deve
essere notificato sia all’Amministrazione resistente che,
ove esistenti, ai contro interessati.
Nel processo amministrativo la qualità di controinteressato
è strettamente connessa ai vantaggi e benefici che un
determinato soggetto può ritrarre dal provvedimento
amministrativo oggetto di impugnazione, tali da fondare la
sussistenza di un interesse legittimo omologo e speculare
rispetto a quello del ricorrente che invece se ne assume
leso; intrinsecamente connessa a tale qualità c’è la
possibilità che i controinteressati siano identificati o
quanto meno possano esserlo, sulla base del provvedimento
impugnato.
La nozione di controinteressato in senso tecnico postula,
dunque, il concorso di due elementi essenziali, di tipo
formale e sostanziale: il primo da ricercare nell’espressa
menzione o nell’immediata individuabilità del soggetto in
questione nel provvedimento impugnato; il secondo
consistente nel riconoscimento, in capo al suddetto
soggetto, di un interesse giuridico qualificato al
mantenimento degli effetti dell’atto in questione (cfr.
Cons. St., sez. V, 19.12.2012, n. 6554; id., sez. VI,
19.01.2010, n. 162).
La mancata notifica del ricorso ad almeno un
controinteressato rende il ricorso inammissibile (Cons. St.,
sez. III, 24.05.2012, n. 3053). E tale vizio, derivante
dalla mancata notifica del ricorso al controinteressato, è
insuscettibile di sanatoria (ad es. attraverso la
notificazione allo stesso del ricorso per motivi aggiunti
ovvero dell’appello avverso la sentenza del giudice di primo
grado: Cons. St., sez. VI, 15.06.2011, n. 3629).
Nella specie, dalla documentazione versata in atti ricorrono
entrambi i presupposti dal momento che risulta espressamente
menzionata nell’atto impugnato (decreto di esproprio n. 694
dell’11.02.2015) la ditta Ed. D’Al. s.r.l., quale impresa
proponente il progetto definitivo, a scomputo degli oneri di
urbanizzazione, con la quale risulta stipulata anche
apposita convenzione intesa a disciplinare la realizzazione
delle menzionate opere di urbanizzazione. Quest’ultima,
pertanto, deve ritenersi titolare di un interesse
qualificato alla conservazione del provvedimento impugnato (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Nell’impianto
normativo dell’espropriazione per pubblica utilità così come
configurata dal Dpr n. 327/2001, la
dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa.
Si invera,
cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla
invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio.
---------------
Costituisce ius receptum, nella giurisprudenza
amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della
serie procedimentale degli atti di approvazione di un
progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono
considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano
effettivamente dotati di lesività nei confronti dei
cittadini incisi dall'attività della pubblica
amministrazione.
Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione
della logica generale, che sorregge l’azione davanti al
giudice amministrativo, la quale -similmente al processo
civile– riposa su tre condizioni fondamentali:
a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);
b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione
di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare
del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).
c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento
della proposizione della domanda e perdurare, a pena di
improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla
pronuncia della sentenza).
---------------
Con riguardo alla progettazione dell’opera di
pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha
enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti
all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le
ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente
sussiste.
Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è
certa e immediatamente individuabile la lesione che il
singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che
possono, con un certo grado di approssimazione, così
riassumersi:
a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da
realizzare;
b) adozione del decreto di occupazione temporanea e
d’urgenza;
c) adozione del decreto di espropriazione.
In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno
nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica
implica espropriazione di beni privati, il progetto
definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene
privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che
lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.
In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la
situazione di immediato spossessamento del bene in capo al
privato che ne rende attuale e concreta la reazione.
Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla lettera
sub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato
soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di
trasferimento in favore della pubblica amministrazione
ovvero del soggetto espropriante.
---------------
È stato correttamente osservato che “Soltanto nella
progettazione definitiva l'opera pubblica assume il
carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze
di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa
l'amministrazione possono essere sanate fino
all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce
delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni
interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art.
16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto
definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti
gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte
autorizzazioni ed approvazioni”.
La vigente legislazione (art. 12 del TU) non
ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto
comportante la pubblica utilità alla approvazione del
progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto
definitivo.
---------------
6.2.-
Nell’impianto normativo dell’espropriazione per pubblica
utilità così come configurata dal Dpr n. 327/2001, la
dichiarazione di pubblica utilità (d.p.u), disciplinata
dall’art. 12, pur differenziandosi dalla d.p.u. disciplinata
dalla legge n. 2359 del 1865, sostanzialmente rappresenta il
necessario presupposto del decreto di esproprio, tale per
cui il riconoscimento dell’assenza di una valida
dichiarazione di pubblica utilità o il suo annullamento in
sede giurisdizionale ha un effetto caducante e non meramente
viziante sul decreto di esproprio, che, pertanto, resta
travolto, come tutti gli altri atti della procedura
espropriativa, senza necessità della loro impugnativa (ex multis Cons. St. Sez. IV
03.10.2012 n. 5189).
Si invera,
cioè, un effetto automaticamente caducante, derivante dalla
invalidità degli atti presupposti, senza che si possa
configurare a carico della parte interessata un onere di
impugnazione del decreto finale di esproprio (Cons. Stato
Sez. IV 29.01.2008 n. 258; idem 30.12.2003 n. 9155
e 30.06.2003 n. 3896).
6.3.- Orbene, costituisce ius receptum, nella giurisprudenza
amministrativa, il principio secondo cui, nell'ambito della
serie procedimentale degli atti di approvazione di un
progetto per la realizzazione di un'opera pubblica, devono
considerarsi impugnabili solo quegli atti che siano
effettivamente dotati di lesività nei confronti dei
cittadini incisi dall'attività della pubblica
amministrazione.
6.3.1.- Ciò rappresenta diretta e immediata applicazione
della logica generale, che sorregge l’azione davanti al
giudice amministrativo, la quale -similmente al processo
civile– riposa su tre condizioni fondamentali:
a) il cd. titolo (o possibilità giuridica dell’azione);
b) la legitimatio ad causam (discendente dall’affermazione
di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare
del rapporto controverso dal lato attivo o passivo).
c) l’interesse ad agire (che deve sussistere al momento
della proposizione della domanda e perdurare, a pena di
improcedibilità, per tutto il corso del giudizio e sino alla
pronuncia della sentenza).
6.3.2.- Con riguardo alla progettazione dell’opera di
pubblica utilità, la giurisprudenza amministrativa ha
enucleato, in relazione ai casi di volta in volta sottoposti
all’esame, dei principi generali volti ad esemplificare le
ipotesi in cui detto interesse al ricorso certamente
sussiste.
Si tratta, tipicamente, di tutte quelle ipotesi in cui è
certa e immediatamente individuabile la lesione che il
singolo lamenta nella propria sfera giuridica, e che
possono, con un certo grado di approssimazione, così
riassumersi:
a) approvazione del progetto definitivo dei lavori da
realizzare;
b) adozione del decreto di occupazione temporanea e
d’urgenza;
c) adozione del decreto di espropriazione.
In relazione alla fattispecie sub lettera a), perlomeno
nelle ipotesi in cui la realizzazione dell’opera pubblica
implica espropriazione di beni privati, il progetto
definitivo contiene la dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza, sicché si imprime al bene
privato quella particolare qualità (o utilità pubblica) che
lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa.
In relazione, invece, alla fattispecie sub lettera b), è la
situazione di immediato spossessamento del bene in capo al
privato che ne rende attuale e concreta la reazione.
Infine, in relazione alla fattispecie di cui alla lettera
sub c), l’interesse ad agire origina dal mutamento, dal lato
soggettivo, del titolo del diritto di proprietà, oggetto di
trasferimento in favore della pubblica amministrazione
ovvero del soggetto espropriante.
6.3.3.- È stato correttamente osservato (Consiglio di Stato,
sez. II, 14.04.2011, n. 2367), che “Soltanto nella
progettazione definitiva l'opera pubblica assume il
carattere dell’immodificabilità, sicché le eventuali carenze
di ordine istruttorio in cui fosse eventualmente incorsa
l'amministrazione possono essere sanate fino
all'approvazione del progetto definitivo, anche alla luce
delle osservazioni presentate dai proprietari dei terreni
interessati e ciò è confermato anche dal disposto dell'art.
16, comma 4, l. n. 109/1994, secondo il quale il progetto
definitivo, e non anche quello preliminare, "contiene tutti
gli elementi necessari ai fini del rilascio delle prescritte
autorizzazioni ed approvazioni”.
6.3.4.- La vigente legislazione (art. 12 del TU) non
ricollega, a differenza della precedente, la nozione di atto
comportante la pubblica utilità alla approvazione del
progetto esecutivo, ma la ricollega al progetto definitivo.
7.- Trasponendo le menzionate acquisizioni giurisprudenziali
al caso in esame, deve convenirsi che l’amministrazione
comunale, nella scansione diacronica degli atti in esame, ha
collegato, da ultimo, la dichiarazione di pubblica utilità,
all’approvazione del progetto esecutivo, così come
risultante dalla determinazione dirigenziale n. 585 del
29.04.2014, con la quale, previa riepilogazione di tutti gli
atti della procedura espropriativa, si è proceduto
all’approvazione del progetto esecutivo dei lavori
per cui è causa nonché a “dichiarare la pubblica utilità
di detti lavori ai sensi dell’art. 12 e seguenti del D.P.R.
08/06/2001 n. 327 e succ. mod….”.
7.1.- Con nota 11760 del 05.06.2014, l’amministrazione
comunale ha notiziato la ditta Bo.Ma. dell’avvenuta
approvazione del progetto e della dichiarazione di pubblica
utilità dei lavori, autorizzando la visione della relativa
documentazione: la circostanza che detta nota sia stata
spedita con raccomandata a.r. alla parte non risulta
contestata in giudizio, per cui, in applicazione del
principio di non contestazione, deve ritenersi pacificamente
ammesso che la ricorrente l’abbia conosciuta.
7.2.- Orbene, siffatta determinazione (risalente all’anno
2014) -siccome adottata in violazione della previsione di
cui all’art. 12 del dpr n. 327/2001 e, comunque, lesiva, per
quanto sopra detto, della sfera giuridica dell’interessata-
andava impugnata nel termine decadenziale decorrente
dall’avvenuta conoscenza dell’atto; la stessa, invece, è
rimasta inoppugnata nei termini, di talché tutte le censure
rassegnate con il ricorso (notificato nell’anno 2015) oggi
all’esame del Collegio -intese ad evidenziare l’inesistenza
di un vincolo preordinato all’esproprio (I motivo) e
l’avvenuta decadenza della dichiarazione di pubblica utilità
(II e III motivo)- devono ritenersi tardivamente proposte,
stante l’avvenuto consolidamento del provvedimento
dirigenziale.
Pertanto, risulta preclusa al Collegio l’esame del merito
del ricorso azionato contro il decreto di esproprio n. 694
dell’11.02.2015, emesso nell’arco temporale quinquennale
decorrente dalla data della citata determinazione
dirigenziale.
Può concludersi per la reiezione del ricorso nei sensi
suesposti(TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.02.2019 n. 155 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'avvenuta demolizione e ricostruzione di fabbricato con
volume e sagoma diversa è qualificabile come "sostituzione
edilizia", la quale costituisce nuova edificazione, come
tale richiedente non la d.i.a. ma il permesso di costruire.
Non vi è dubbio che attraverso l'aumento di volume e il
superamento della sagoma preesistente alla demolizione si
sia posto in essere un intervento edilizio giuridicamente
del tutto diverso da quello previsto nella d.i.a. e quindi
realizzato senza titolo, con qualificazione giuridica di
sostituzione edilizia che coinvolge l'intero manufatto
realizzato.
---------------
Il motivo è infondato.
Il fatto che le ricorrenti abbiano operato una demolizione e
ricostruzione integrale (pagina 4, paragrafo 10, del
ricorso) con ampliamento eccedente il 5% del volume e della
superficie originari (come ammette la ricorrente: pagine 5 e
7 del ricorso), con aumento di altezza (pagina 4, paragrafo
10, e pag. 5 del ricorso), modifica di sagoma e con
cambiamento della destinazione d’uso induce a ritenere che
si tratti di sostituzione edilizia.
Peraltro, l’aumento di
volume e di superficie è stato particolarmente
significativo, in quanto l’originario manufatto aveva una
superficie di mq. 80,62 (si veda il documento n. 2 allegato
all’impugnativa), mentre l’attuale edificio in muratura ha
una superficie di mq. 103 (documento n. 10 depositato in
giudizio dalle ricorrenti); inoltre la difesa del Comune,
non smentita sul punto dalle ricorrenti, quantifica nel 37%
la percentuale di incremento del volume sulla base del
grafico riportante lo stato sovrapposto.
Ne discende che non
si attaglia al caso di specie l’invocato art. 79, comma 2,
lett. d, della L.R. n. 1/2005, nemmeno nella parte in cui
consente, in determinati casi (inserimento di addizioni
funzionali, che peraltro non ricorre nella vicenda in
esame), modifiche entro il limite del 20% del volume
esistente.
In definitiva, l’opera oggetto dell’atto impugnato non ha
nessun nesso di continuità o di assimilabilità né col
manufatto preesistente, né con l’intervento edilizio
previsto nella d.i.a.; rilevano infatti la demolizione e la
ricostruzione integrale di locali con caratteristiche
funzionali ad una destinazione d’uso diversa (non più
ricovero di attrezzi agricoli ma abitazione), maggiore
altezza e volume, modifica della sagoma, che nell’insieme
costituiscono caratteristiche vistosamente eccedenti la
ristrutturazione edilizia.
L'avvenuta demolizione e ricostruzione di fabbricato con
volume e sagoma diversa è qualificabile come "sostituzione
edilizia", la quale costituisce nuova edificazione, come
tale richiedente non la d.i.a. ma il permesso di costruire.
Non vi è dubbio che attraverso l'aumento di volume e il
superamento della sagoma preesistente alla demolizione si
sia posto in essere un intervento edilizio giuridicamente
del tutto diverso da quello previsto nella d.i.a. e quindi
realizzato senza titolo, con qualificazione giuridica di
sostituzione edilizia che coinvolge l'intero manufatto
realizzato (TAR Toscana, III, 15.02.2016, n. 279) (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 30.01.2019 n. 148 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi in zona sismica - Permesso di costruire in
sanatoria - Rilascio della "doppia conformità" agli
strumenti urbanistici - Estintiva dell'illecito penale -
Effetti del rilascio dell'autorizzazione paesaggistica -
Potere-dovere di sindacare la legittimità dell'atto - Artt.
31, 33, 34, 36, 44, 45, 64, 65, 71, 72, 93, 95 d.P.R. n.
380/2001.
In tema di reati
edilizi, sussistono i presupposti per attribuire efficacia
estintiva dell'illecito penale al permesso in sanatoria, ai
sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380 del 2001, solo se le opere
abusive risultano, per quanto difformi dal titolo
abilitativo, in sé non contrastanti con gli strumenti
urbanistici vigenti sia al momento della loro realizzazione
che al momento della presentazione della domanda, con la
conseguenza che il risultato non può prodursi se sia
necessario procedere ad ulteriori interventi che riconducano
i lavori realizzati a tale doppia conformità.
Ne segue che, in presenza del rilascio della "doppia
conformità", divenuta efficace a seguito del rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, si può sanare la
violazione edilizia di cui al capo A), fermo restando il
potere-dovere di sindacare la legittimità dell'atto
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2019 n. 3976
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Veranda, nozione tecnico-giuridico - Difetta normalmente del
carattere di precarietà - Assenza di esigenze temporanee e
contingenti.
In materia edilizia, una veranda è da
considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale
autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del
carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non
a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua
successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così
il godimento dell'immobile
(Sez. 3, n. 14329 del 10/01/2008 - dep. 07/04/2008, Iacono
Ciulla) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2019 n. 3976
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati paesaggistici - Provvedimento di compatibilità
paesaggistica - Accertamento - Effetti e limiti - C.d.
condono ambientale - Nozione di "creazione di superfici
utili" - Nozione di "volumetria" - Art. 181, c. 1, d.lgs. n.
42/2004.
In tema di reati paesaggistici, il
rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica
non determina automaticamente la non punibilità dei predetti
reati, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento
dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti
l'applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Inoltre, la "creazione di superfici utili", il quale
impedisce il perfezionamento del cd. "condono ambientale"
previsto dall'art. 181, comma 1-ter e 1-quater, del D.Lgs.
n. 42 del 2004, consiste in una immutazione permanente
dell'assetto territoriale rispetto alla originaria
conformazione dello stato dei luoghi; dall'altro, che la
nozione di "volumetria" -al pari di quella di "superficie
utile" di cui al comma 1-ter, lett. a), della stessa
disposizione- dev'essere individuata prescindendo dai
criteri applicabili per la disciplina urbanistica e
considerando l'impatto dell'intervento sull'originario
assetto paesaggistico del territorio
(Cass. Sez. 3, n. 9060/2018, Veillon)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.01.2019 n. 3976
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La ristrutturazione edilizia di un immobile sito
in zona A finalizzata ad un mutamento di destinazione d’uso
da civile abitazione in una “infrastruttura per attività
culturali e sociali”, ovvero in un museo didattico
dell’agricoltura, laboratorio ludico/didattico e sala
conferenze sconta il pagamento del costo di costruzione.
Ed invero, l’articolo 16 del D.p.r. n. 380/2001 prevede che
il rilascio del permesso di costruire comporti la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione; l’art 17, invece, individua i casi in cui tale
contributo non è dovuto così elencandoli:
“a) interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le
residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1972, n. 153);
b) interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura non
superiore al 20% di edifici unifamiliari;
c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente
competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici;
d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni,
relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla
conservazione, al risparmio e all'uso razionale
dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di
tutela artistico-storica e ambientale” (comma 3).
L’esenzione dal contributo, quindi, può operare solo in
presenza degli stringenti requisiti indicati dalla
disposizione in esame, che, nella ipotesi di cui alla
lettera e) invocata da parte ricorrente, consistono in
requisiti di ordine soggettivo ed oggettivo:
deve trattarsi, infatti, di opere pubbliche e/o di interesse
generale realizzate da soggetti pubblici ovvero di opere
realizzate anche da privati che, però, costituiscano opere
di urbanizzazione ovvero opere precipuamente previste e
realizzate in attuazione di strumenti urbanistici.
Nella ipotesi di lavori realizzati da soggetti privati, più
nel dettaglio, non basta che le opere siano autorizzate
dagli strumenti urbanistici ma occorre che siano ivi
previste e che siano, quindi, qualificabili quali opere di
urbanizzazione.
Nel caso de quo i lavori di ristrutturazione sono stati
eseguiti dal privato ricorrente per conto proprio, seppur
usufruendo di finanziamenti regionali, su di un immobile di
sua proprietà cosicché l’opera in questione non può dirsi
riconducibile alla mano pubblica; non ne è stata dimostrata,
poi, la natura di opera di urbanizzazione ovvero la diretta
riconduzione alle previsioni dello strumento urbanistico.
Anche a volere ammettere la natura di opera di interesse
generale della struttura, ancora, manca l’ulteriore
condizione consistente della realizzazione della stessa da
parte dell’ente pubblico o di un soggetto ad esso
strettamente riferibile, quale ad esempio un concessionario
di opera pubblica.
Non può ravvisarsi, infine, nemmeno l’ulteriore ipotesi di
esonero prevista dalla lettera b), pure invocata da parte
ricorrente, non trattandosi, nel caso in esame, di edificio
unifamiliare né risultando l’intervento funzionale
all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del
nucleo familiare.
---------------
Il ricorrente, nella qualità di proprietario di un immobile
rurale sito in località Valle del Comune di Filignano (IS),
denominato “Palazzo Ferri”, presentava istanza per
accedere ai finanziamenti previsti dalla Regione Molise con
determina n. 256/2011 nell’ambito del PSR Molise 2007/2013
Misura 3.2.2 “Sviluppo e rinnovamento di villaggi”-1^
sottofase”, al fine di procedere al recupero
architettonico del suddetto immobile e destinarlo a museo
didattico dell’agricoltura, laboratorio ludico/didattico e
sala conferenze.
Il Comune rilasciava il permesso di costruire n. 1/2012 in
data 21.05.2012 per eseguire i suddetti lavori di
ristrutturazione edilizia con cambio di destinazione d’uso,
al fine di destinarlo a “infrastrutture per attività
culturali e sociali” e la Regione, con determina n. 675
del 31.07.2013, concedeva al ricorrente il finanziamento
previsto; il ricorrente, a sua volta, provvedeva a pagare
gli oneri di costruzione per la somma di euro 20.490,10.
Con successiva istanza del 20.01.2016 il ricorrente
richiedeva la restituzione di tali somme ma il Comune, con
nota n. 5036 del 01.12.2016, gli notificava la delibera di
Giunta n. 83/2016 con la quale tale istanza veniva respinta.
Il ricorrente ha, quindi, adito questo Tribunale per sentir
annullare la delibera comunale n. 83/16 e dichiarare il suo
diritto alla restituzione degli oneri di costruzione, a suo
dire indebitamente versati.
...
Il ricorso è infondato per le ragioni che seguono.
A detta di parte ricorrente il costo di costruzione non
sarebbe dovuto in base a quanto previsto dalla sopra citata
disposizione normativa di cui alla lettera c) trattandosi, a
suo dire, di lavori di mera manutenzione straordinaria di un
edificio già esistente, di un cambio di destinazione d’uso
all’interno della medesima categoria funzionale, senza
aumento di carico urbanistico ed in piena conformità allo
strumento urbanistico, peraltro mai contestata dal Comune.
La realizzazione di un museo didattico dell’agricoltura
sarebbe, quindi, pienamente conforme alla finalità della
Misura 3.2.2 ed allo spirito del Bando e costituirebbe
un’opera di finalità generale idonea ad apportare vantaggi
alla stessa Amministrazione comunale; quanto alla natura dei
lavori eseguiti, non erano state realizzate né nuove
superfici né nuovi volumi né tanto meno ulteriori opere di
urbanizzazione primaria quali strade, parcheggi, verde
attrezzato ecc..
Ritiene, invece, il Collegio, che tali rilievi siano
inconferenti.
Nel caso di specie, infatti, risulta assentita una
ristrutturazione edilizia di un immobile sito in zona A del
territorio comunale, finalizzata ad un mutamento di
destinazione d’uso: il “Palazzo Ferri”, infatti, in
origine destinato a civile abitazione, risulta trasformato
in una “infrastruttura per attività culturali e sociali”,
ovvero in un museo didattico dell’agricoltura, laboratorio
ludico/didattico e sala conferenze.
Pertanto, il Collegio è dell’avviso che il costo di
costruzione sia dovuto.
Ed invero, l’articolo 16 del D.p.r. n. 380/2001 prevede che
il rilascio del permesso di costruire comporti la
corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza
degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di
costruzione; l’art 17, invece, individua i casi in cui tale
contributo non è dovuto così elencandoli: “a) interventi
da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le
residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle
esigenze dell’imprenditore agricolo a titolo principale, ai
sensi dell’art. 12 della legge 09.05.1972, n. 153); b)
interventi di ristrutturazione e di ampliamento in misura
non superiore al 20% di edifici unifamiliari; c) per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici; d) per gli
interventi da realizzare in attuazione di norme o di
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità; e)
per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche,
installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia,
alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale
dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di
tutela artistico-storica e ambientale” (comma 3).
L’esenzione dal contributo, quindi, può operare solo in
presenza degli stringenti requisiti indicati dalla
disposizione in esame, che, nella ipotesi di cui alla
lettera e) invocata da parte ricorrente, consistono in
requisiti di ordine soggettivo ed oggettivo: deve trattarsi,
infatti, di opere pubbliche e/o di interesse generale
realizzate da soggetti pubblici ovvero di opere realizzate
anche da privati che, però, costituiscano opere di
urbanizzazione ovvero opere precipuamente previste e
realizzate in attuazione di strumenti urbanistici (Cons.
Stato, sez. IV, 17.10.2018, n. 5942).
Nella ipotesi di lavori realizzati da soggetti privati, più
nel dettaglio, non basta che le opere siano autorizzate
dagli strumenti urbanistici ma occorre che siano ivi
previste e che siano, quindi, qualificabili quali opere di
urbanizzazione (Tar Veneto, Sez. II, 04.08.2014, n. 1133).
Nel caso de quo i lavori di ristrutturazione sono
stati eseguiti dal privato ricorrente per conto proprio,
seppur usufruendo di finanziamenti regionali, su di un
immobile di sua proprietà cosicché l’opera in questione non
può dirsi riconducibile alla mano pubblica; non ne è stata
dimostrata, poi, la natura di opera di urbanizzazione ovvero
la diretta riconduzione alle previsioni dello strumento
urbanistico.
Anche a volere ammettere la natura di opera di interesse
generale della struttura, ancora, manca l’ulteriore
condizione consistente della realizzazione della stessa da
parte dell’ente pubblico o di un soggetto ad esso
strettamente riferibile, quale ad esempio un concessionario
di opera pubblica (Tar Milano, sez. II, 11.07.2014, n.
1827).
Non può ravvisarsi, infine, nemmeno l’ulteriore ipotesi di
esonero prevista dalla lettera b), pure invocata da parte
ricorrente, non trattandosi, nel caso in esame, di edificio
unifamiliare né risultando l’intervento funzionale
all’adeguamento dell’immobile alle necessità abitative del
nucleo familiare.
In conclusione, per quanto dedotto, il ricorso va respinto
(TAR Molise,
sentenza 25.01.2019 n. 34 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La pubblica amministrazione conserva
indiscutibilmente –anche in relazione ai procedimenti di
gara per la scelta del contraente– il potere di annullare in
via di autotutela sia il bando che le singole operazioni di
gara, tenendo conto delle preminenti ragioni di salvaguardia
del pubblico interesse: l’autotutela trova fondamento negli
stessi principi costituzionali predicati dall’art. 97 della
Costituzione cui deve ispirarsi l'azione amministrativa, ed
in tale prospettiva neppure il provvedimento di
aggiudicazione definitiva osta all'esercizio di un siffatto
potere, il quale, tuttavia, incontra il limite del rispetto
dei principi di buona fede e correttezza, e della tutela
dell'affidamento ingenerato.
L’enunciata potestà di autotutela consente alla stazione
appaltante di porre nel nulla l'intera procedura di gara
qualora una scelta siffatta si renda necessaria, o anche
solo opportuna, a tutela del superiore interesse pubblico, a
fronte del quale le aspettative del concorrente, ancorché
già aggiudicatario (e, quindi, titolare di una qualificata
posizione) devono essere considerate recessive. Tuttavia,
per quanto connotato da margini di ampia discrezionalità,
tale potere non è illimitato, dovendo l’amministrazione
fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che,
alla luce della comparazione dell'interesse pubblico con le
contrapposte posizioni consolidate dei partecipanti alla
gara, giustificano la differente determinazione.
Il potere di autotutela deve essere esercitato nel rispetto
dei requisiti esplicitati all'articolo 21-nonies della L.
241/1990, ossia entro un termine ragionevole (non superiore
a 18 mesi) e dando conto della sussistenza di ragioni
attuali d'interesse pubblico e dell’adeguata e congrua
ponderazione delle posizioni dei destinatari e dei
controinteressati.
---------------
1.1 In via generale, questo TAR (cfr. sentenze sez. II –
10/06/2014 n. 612; 29/11/2016 n. 1634) ha già osservato che
la pubblica amministrazione conserva indiscutibilmente
–anche in relazione ai procedimenti di gara per la scelta
del contraente– il potere di annullare in via di autotutela
sia il bando che le singole operazioni di gara, tenendo
conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico
interesse: l’autotutela trova fondamento negli stessi
principi costituzionali predicati dall’art. 97 della
Costituzione cui deve ispirarsi l'azione amministrativa, ed
in tale prospettiva neppure il provvedimento di
aggiudicazione definitiva osta all'esercizio di un siffatto
potere, il quale, tuttavia, incontra il limite del rispetto
dei principi di buona fede e correttezza, e della tutela
dell'affidamento ingenerato (cfr. TAR Puglia Lecce, sez. II
– 05/03/2018 n. 383, che risulta appellata e il Consiglio di
Stato sez. III – 19/12/2018 n. 7154 ha disposto la
conversione del rito; TAR Campania Napoli, sez. V –
21/10/2016 n. 4824, confermata in appello dal Consiglio di
Stato, sez. III – 10/05/2017 n. 2172; Consiglio di Stato,
sez. III – 19/02/2014 n. 769; Consiglio di Stato, sez. V –
08/11/2012 n. 5681).
L’enunciata potestà di autotutela consente alla stazione
appaltante di porre nel nulla l'intera procedura di gara
qualora una scelta siffatta si renda necessaria, o anche
solo opportuna, a tutela del superiore interesse pubblico, a
fronte del quale le aspettative del concorrente, ancorché
già aggiudicatario (e, quindi, titolare di una qualificata
posizione) devono essere considerate recessive. Tuttavia,
per quanto connotato da margini di ampia discrezionalità,
tale potere non è illimitato, dovendo l’amministrazione
fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che,
alla luce della comparazione dell'interesse pubblico con le
contrapposte posizioni consolidate dei partecipanti alla
gara, giustificano la differente determinazione (TAR Lazio
Roma, sez. II – 27/07/2016 n. 8613; TAR Emilia Romagna-Parma
– 17/04/2013 n. 159, confermata in appello con diversa
motivazione dal Consiglio di Stato, sez. V – 11/07/2017 n.
3401).
1.2 Il potere di autotutela deve essere esercitato nel
rispetto dei requisiti esplicitati all'articolo 21-nonies
della L. 241/1990, ossia entro un termine ragionevole (non
superiore a 18 mesi) e dando conto della sussistenza di
ragioni attuali d'interesse pubblico e dell’adeguata e
congrua ponderazione delle posizioni dei destinatari e dei
controinteressati (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.01.2019 n. 79 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La
legittimità di un provvedimento non è da sola sufficiente a
escludere la scorrettezza o l'illiceità della condotta (e la
conseguente pronuncia risarcitoria) ove sia provato il
danno, qualificandosi l'atto amministrativo come uno dei
fatti oggetto di valutazione nel giudizio sul comportamento
complessivo.
Infatti, nel caso di pur legittima revoca o annullamento di
una procedura di gara può residuare una responsabilità per
culpa in contrahendo qualora sussista un affidamento in capo
all’impresa, suscitato dagli atti della procedura di
evidenza pubblica poi ritirati e perdurato fino alla
comunicazione dell’avvenuto ripensamento.
In buona sostanza, in caso di esercizio della potestà di
autotutela e di revirement dell’Ente pubblico può
sussistere, comunque, una responsabilità precontrattuale ove
l’impresa abbia ragionevolmente confidato di addivenire alla
stipula del contratto, nella logica esecuzione degli atti
della procedura ad evidenza pubblica, culminati
nell’aggiudicazione definitiva e in seguito rimossi.
---------------
La responsabilità
precontrattuale dell’Ente pubblico non è una responsabilità
“da provvedimento” ma “da comportamento”, e ciò che il
privato lamenta non è la mancata aggiudicazione ma la
lesione della sua corretta autodeterminazione negoziale:
anche sulla pubblica amministrazione grava l’obbligo sancito
dall’art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede
durante lo svolgimento delle trattative, ossia di rispettare
i doveri di lealtà e di correttezza –che in quanto “regole
comuni” gravano su tutti gli operatori– e di porre in essere
comportamenti che salvaguardino l’affidamento della
controparte in modo da non sorprendere la sua fiducia sulla
conclusione del contratto.
L’autorità procedente è chiamata a rispondere dei danni
conseguenti alla condotta contraria ai canoni di buona fede
e correttezza soprattutto ove, accortasi delle ragioni che
consigliavano di procedere in via di autotutela mediante la
revoca della già disposta aggiudicazione, non abbia
immediatamente ritirato i propri provvedimenti, prolungando
inutilmente lo svolgimento della gara, così inducendo le
imprese concorrenti a confidare nelle chances di conseguire
l’appalto.
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha statuito che
“Come è stato efficacemente rilevato in dottrina, in questi
casi il provvedimento amministrativo è un frammento
legittimo di un mosaico connotato da una condotta
complessivamente superficiale, violativa dei più elementari
obblighi di trasparenza, di attenzione, di diligenza, al
cospetto dei quali si stagliano i corrispondenti diritti
soggettivi di stampo privatistico. Si tratta, in altri
termini, di una responsabilità da comportamento illecito,
che spesso non si traduce in provvedimenti illegittimi, ma,
per molti versi, presuppone la legittimità dei provvedimenti
che scandiscono la parabola procedurale”.
La pronuncia ha richiamato alcune sentenze delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione ove “il provvedimento viene
in considerazione come elemento di una più complessa
fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di
responsabilità solo se e nella misura in cui risulti
oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento
incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere
costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo
convincimento della legittimità del provvedimento”.
---------------
Il ripensamento delle amministrazioni resistenti, seppur
adeguatamente giustificato dalla necessità del Comune di
disporre in via immediata di una somma ingente per non
sostenere gli oneri un mutuo, abbia comunque inciso su un
affidamento di Di. che, seppur di ridotta intensità (tale
cioè da non precludere la rimozione degli atti in autotutela),
configura una posizione soggettiva tutelabile nel quadro
della responsabilità pre-contrattuale.
A tali fini il Consiglio di Stato ha affermato –proprio con
riguardo a una gara i cui atti erano stati rimossi mediante
l’esercizio del potere di autotutela– che devono essere
rinvenuti tre elementi costitutivi:
- un elemento oggettivo, consistente nella chiarezza, certezza e
univocità del vantaggio del privato, che deve trovare fonte
in un comportamento attivo;
- un elemento soggettivo, rappresentato dalla plausibile
convinzione del privato di aver titolo all'utilità ottenuta;
- un elemento cronologico, ovvero il passaggio del tempo che
rafforza la convinzione della spettanza del bene della vita
ottenuto.
---------------
Risulta dunque
accertato l’an del risarcimento, per cui il Collegio deve
affrontare la questione del quantum del danno.
Come ha osservato il Consiglio di Stato, i principi
regolatori della materia sono i seguenti:
a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse
negativo, ossia all’interesse a non essere coinvolti in
trattative inutili e dispendiose (l’interesse, appunto, a
non subire indebite interferenze nell’esercizio della
libertà negoziale);
b) vi rientrano sia il danno emergente (corrispondente alle spese
sostenute per partecipare alla gara e in previsione della
conclusione del contratto) che il lucro cessante (correlato
alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate
a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione non
sfociata nella stipulazione);
c) deve essere escluso il ristoro dell’interesse positivo (il
mancato guadagno, cd. utile d’impresa) prospetticamente
derivante dall’esecuzione del contratto non venuto ad
esistenza;
d) in ogni caso il danno risarcibile deve essere comprovato, giusta
la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta
a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui
fonda la pretesa avanzata: nel giudizio risarcitorio non
ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra
amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di
legittimità, l’applicazione del principio dispositivo con
metodo acquisitivo.
---------------
2. SULLE QUESTIONI
RISARCITORIE
2.1 Anzitutto il Collegio osserva che la legittimità di un
provvedimento non è da sola sufficiente a escludere la
scorrettezza o l'illiceità della condotta (e la conseguente
pronuncia risarcitoria) ove sia provato il danno,
qualificandosi l'atto amministrativo come uno dei fatti
oggetto di valutazione nel giudizio sul comportamento
complessivo.
Infatti, nel caso di pur legittima revoca o annullamento di
una procedura di gara può residuare una responsabilità per
culpa in contrahendo qualora sussista un affidamento in capo
all’impresa, suscitato dagli atti della procedura di
evidenza pubblica poi ritirati e perdurato fino alla
comunicazione dell’avvenuto ripensamento (cfr. Consiglio di
Stato, adunanza plenaria – 05/09/2005 n. 6).
In buona sostanza, in caso di esercizio della potestà di
autotutela e di revirement dell’Ente pubblico può
sussistere, comunque, una responsabilità precontrattuale ove
l’impresa abbia ragionevolmente confidato di addivenire alla
stipula del contratto, nella logica esecuzione degli atti
della procedura ad evidenza pubblica, culminati
nell’aggiudicazione definitiva e in seguito rimossi (TAR
Sicilia Catania, sez. I – 09/03/2018 n. 515, che risulta
appellata; TAR Piemonte, sez. II – 24/04/2018 n. 482).
2.2 La responsabilità precontrattuale dell’Ente pubblico non
è una responsabilità “da provvedimento” ma “da
comportamento”, e ciò che il privato lamenta non è la
mancata aggiudicazione ma la lesione della sua corretta
autodeterminazione negoziale (violazione del diritto
soggettivo all’integrità patrimoniale – Consiglio di Stato,
adunanza plenaria 04/05/2018 n. 5): anche sulla pubblica
amministrazione grava l’obbligo sancito dall’art. 1337 c.c.
di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento
delle trattative, ossia di rispettare i doveri di lealtà e
di correttezza –che in quanto “regole comuni” gravano
su tutti gli operatori– e di porre in essere comportamenti
che salvaguardino l’affidamento della controparte in modo da
non sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del
contratto (Consiglio di Stato, sez. V – 26/06/2015 n. 3237).
L’autorità procedente è chiamata a rispondere dei danni
conseguenti alla condotta contraria ai canoni di buona fede
e correttezza soprattutto ove, accortasi delle ragioni che
consigliavano di procedere in via di autotutela mediante la
revoca della già disposta aggiudicazione, non abbia
immediatamente ritirato i propri provvedimenti, prolungando
inutilmente lo svolgimento della gara, così inducendo le
imprese concorrenti a confidare nelle chances di
conseguire l’appalto (Consiglio di Stato, sez. V –
05/05/2016 n. 1797).
L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. 04/05/2018
n. 5 già evocata) ha statuito che “Come è stato
efficacemente rilevato in dottrina, in questi casi il
provvedimento amministrativo è un frammento legittimo di un
mosaico connotato da una condotta complessivamente
superficiale, violativa dei più elementari obblighi di
trasparenza, di attenzione, di diligenza, al cospetto dei
quali si stagliano i corrispondenti diritti soggettivi di
stampo privatistico. Si tratta, in altri termini, di una
responsabilità da comportamento illecito, che spesso non si
traduce in provvedimenti illegittimi, ma, per molti versi,
presuppone la legittimità dei provvedimenti che scandiscono
la parabola procedurale”.
La pronuncia ha richiamato alcune sentenze delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione (tra le quali 22/01/2015 n.
1162; 04/09/2015 n. 17586) ove “il provvedimento viene in
considerazione come elemento di una più complessa
fattispecie (di natura comportamentale) che è fonte di
responsabilità solo se e nella misura in cui risulti
oggettivamente idonea ad ingenerare un affidamento
incolpevole, sì da indurlo a compiere attività e a sostenere
costi incidenti sul suo patrimonio nel positivo
convincimento della legittimità del provvedimento”.
2.3 Il Collegio è dell’avviso che il ripensamento delle
amministrazioni resistenti, seppur adeguatamente
giustificato dalla necessità del Comune di disporre in via
immediata di una somma ingente per non sostenere gli oneri
un mutuo, abbia comunque inciso su un affidamento di Di.
che, seppur di ridotta intensità (tale cioè da non
precludere la rimozione degli atti in autotutela), configura
una posizione soggettiva tutelabile nel quadro della
responsabilità pre-contrattuale.
A tali fini il Consiglio di Stato (cfr. sez. V – 23/08/2016
n. 3674) ha affermato –proprio con riguardo a una gara i cui
atti erano stati rimossi mediante l’esercizio del potere di
autotutela– che devono essere rinvenuti tre elementi
costitutivi: un elemento oggettivo, consistente nella
chiarezza, certezza e univocità del vantaggio del privato,
che deve trovare fonte in un comportamento attivo; un
elemento soggettivo, rappresentato dalla plausibile
convinzione del privato di aver titolo all'utilità ottenuta;
un elemento cronologico, ovvero il passaggio del tempo che
rafforza la convinzione della spettanza del bene della vita
ottenuto. Ebbene, nella specie esaminata le predette
condizioni appaiono realizzate, dato che:
• la procedura selettiva si era conclusa con l’adozione del
provvedimento di aggiudicazione definitiva, che ha conferito
alla ricorrente in ATI il beneficio sperato senza margine di
incertezza alcuno;
• dal punto di vista soggettivo, l’impresa poteva essere
logicamente persuasa di ottenere l’affidamento del servizio;
• quanto al profilo cronologico, già si è affermato che pochi mesi
dopo l’aggiudicazione è stato adottato il provvedimento di
decadenza che ha certamente impedito il consolidamento
dell’aspettativa all’esecuzione del rapporto (e del resto,
la gestione non è stata avviata e neppure è stato
sottoscritto il contratto); inoltre, dopo la pubblicazione
della sentenza di questo TAR (30/03/2018), il procedimento
di autotutela è stato avviato tempestivamente (nel mese di
giugno 2018) per concludersi a settembre, dopo un intervallo
temporale non eccessivo né irragionevole; peraltro, pur in
presenza di segmenti temporali non particolarmente estesi,
la sentenza di questo TAR più volte evocata ha comunque
accertato una negligenza nella formazione del bando,
suscettibile di nuocere al concorrente che, dal momento
dell’aggiudicazione in data 30/5/2017 sino ai successivi
eventi (cfr. in primis la nota del 27/06/2017 di
richiesta tra l’altro del versamento di € 1.354.659,27 quale
corrispettivo della concessione – doc. 18 Comune), era
incontestabilmente in buona fede.
2.4 Seguendo l’ulteriore percorso logico-giuridico tracciato
dalla recente sentenza dell’Adunanza plenaria n. 5/2018
(punto 51) il Collegio è dell’avviso che l’affidamento
incolpevole sia stato leso da una condotta che, valutata nel
suo complesso e a prescindere dall’indagine sulla
legittimità dei singoli provvedimenti, risulta
oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di
lealtà. Detta violazione è anche soggettivamente imputabile
alle amministrazioni in termini di colpa.
Nel richiamare nuovamente la pronuncia di questo TAR n.
362/2018, si rammenta che lo schema di bando elaborato dal
Comune di Stezzano contemplava l’obbligo di corrispondere il
corrispettivo fisso della concessione trentennale in unica
soluzione entro 35 giorni dall’aggiudicazione definitiva,
mentre la Provincia ha indetto la gara telematica elaborando
un disciplinare non corrispondente sul punto.
I successivi profili afferenti alla prova del danno-evento e
del danno-conseguenza (ossia, le perdite economiche subite a
causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), e
i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta
scorretta delle amministrazioni saranno affrontati nel
paragrafo seguente, tenuto conto che il privato è tenuto a
dimostrare che il comportamento scorretto
dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica
civilistica del “più probabile che non”, la
condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi
dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede
il risarcimento.
2.5 Risulta dunque accertato l’an del risarcimento,
per cui il Collegio deve affrontare la questione del
quantum del danno.
Come ha osservato il Consiglio di Stato nella già citata
sentenza n. 1036/2018, i principi regolatori della materia (cfr.
Consiglio di Stato, sez, V – 06/11/2017 n. 5091), sono i
seguenti:
a) il danno precontrattuale è riconducibile al solo interesse
negativo, ossia all’interesse a non essere coinvolti in
trattative inutili e dispendiose (l’interesse, appunto, a
non subire indebite interferenze nell’esercizio della
libertà negoziale);
b) vi rientrano sia il danno emergente (corrispondente alle spese
sostenute per partecipare alla gara e in previsione della
conclusione del contratto) che il lucro cessante (correlato
alla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, vanificate
a causa dell’impegno derivante dall’aggiudicazione non
sfociata nella stipulazione);
c) deve essere escluso il ristoro dell’interesse positivo (il
mancato guadagno, cd. utile d’impresa) prospetticamente
derivante dall’esecuzione del contratto non venuto ad
esistenza;
d) in ogni caso il danno risarcibile deve essere comprovato, giusta
la regola generale dell'onere probatorio, secondo cui spetta
a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti su cui
fonda la pretesa avanzata: nel giudizio risarcitorio non
ricorre quella diseguaglianza di posizioni tra
amministrazione e privato che giustifica, nel giudizio di
legittimità, l’applicazione del principio dispositivo con
metodo acquisitivo (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 24.01.2019 n. 79 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' da escludersi che la Stazione appaltante, a
mezzo di chiarimenti, possa modificare o integrare la
disciplina di gara, sì da pervenire a una sostanziale disapplicazione della lex
specialis.
I chiarimenti sono ammissibili se contribuiscono, con
un'operazione di interpretazione del testo che ne forma
oggetto, a renderne più chiaro e comprensibile il
significato, ma non anche quando si giunga ad attribuire a
una disposizione del bando un significato e una portata
diversa da quella che risulta dal testo stesso, in tal caso
violandosi il principio formale della lex specialis posto a
garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost..
Ne consegue che i chiarimenti, in base a un consolidato
orientamento giurisprudenziale, devono ritenersi inidonei a
modificare o integrare la disciplina della procedura come
definita dal bando, dal disciplinare e capitolato,
introducendo prescrizioni non desumibili dalla stessa legge
di gara.
Va perciò “negata qualsiasi capacità dei chiarimenti forniti
dalla stazione appaltante di modificare la normativa di gara
dalla stessa predisposta ed alla quale sola gli operatori
economici partecipanti alla procedura di affidamento si
devono attenere.
E corollario del principio appena esposto è quello della
mancanza di un onere d’impugnativa dei chiarimenti tesi a
tradursi in una modifica della disciplina di gara, giacché
un diverso opinamento al riguardo condurrebbe, appunto, ad
ammettere l’astratta eventualità di un loro consolidamento
per omessa impugnativa, e, per questa via, proprio quella
possibilità di modificare la lex specialis mediante
chiarimenti che si è invece appena visto essere esclusa.
---------------
La giurisprudenza del Consiglio di Stato esclude, invero, che
la Stazione appaltante, a mezzo di chiarimenti, possa
modificare o integrare la disciplina di gara, sì da
pervenire a una sostanziale disapplicazione della lex
specialis.
I chiarimenti sono ammissibili se contribuiscono, con
un'operazione di interpretazione del testo che ne forma
oggetto, a renderne più chiaro e comprensibile il
significato, ma non anche quando si giunga ad attribuire a
una disposizione del bando un significato e una portata
diversa da quella che risulta dal testo stesso, in tal caso
violandosi il principio formale della lex specialis posto a
garanzia dei principi di cui all'art. 97 Cost. (cfr., tra le
tante, C.d.S., III, 10.05.2017, n. 2172).
Ne consegue che i chiarimenti, in base a un consolidato
orientamento giurisprudenziale, devono ritenersi inidonei a
modificare o integrare la disciplina della procedura come
definita dal bando, dal disciplinare e capitolato,
introducendo prescrizioni non desumibili dalla stessa legge
di gara (C.d.S., V, 24.04.2017, n. 1903; 17.05.2018,
n. 2952).
Va perciò “negata qualsiasi capacità dei chiarimenti forniti
dalla stazione appaltante di modificare la normativa di gara
dalla stessa predisposta ed alla quale sola gli operatori
economici partecipanti alla procedura di affidamento si
devono attenere (ex multis: Cons. Stato, III, 26.01.2018, n. 565, 10.05.2017, n. 2172; V, 17.05.2018, n.
2952, 17.01.2018, n. 279, 04.12.2017, n. 5690)” (C.d.S.,
V, 02.08.2018, n. 4782).
E corollario del principio appena esposto è quello della
mancanza di un onere d’impugnativa dei chiarimenti tesi a
tradursi in una modifica della disciplina di gara, giacché
un diverso opinamento al riguardo condurrebbe, appunto, ad
ammettere l’astratta eventualità di un loro consolidamento
per omessa impugnativa, e, per questa via, proprio quella
possibilità di modificare la lex specialis mediante
chiarimenti che si è invece appena visto essere esclusa.
Anche questo aspetto del motivo in trattazione deve, quindi,
essere disatteso (CGARS,
sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale,
in tema di procedure ad evidenza pubblica, “le soluzioni
migliorative si differenziano dalle varianti:
- le prime
possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici
lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto
posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di
vista tecnico, salva la immodificabilità delle
caratteristiche progettuali già stabilite
dall'Amministrazione;
- le seconde, invece, si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione
contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi
requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera
proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a
quella prefigurata dalla stazione appaltante.
In definitiva la differenza tra varianti e soluzioni
migliorative apportate dall'impresa al progetto posto a base
di gara riposa sull'"intensità" e sul "grado"
delle modifiche introdotte.
Le soluzioni migliorative (o "varianti progettuali
migliorative"), hanno ad oggetto gli aspetti tecnici
lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto
posto a base di gara, e possono essere sempre e comunque
introdotte in sede di offerta.
Il motivo è che esse riguardano aspetti tecnici in grado di
consentire, fatto salvo il principio della par condicio,
alle imprese partecipanti d'individuare -va, sottolineato,
tutto vantaggio della stazione appaltante- nell'ambito
delle proprie specifiche capacità e competenze, le possibili
soluzioni tecniche migliori sulla base del progetto di gara”.
---------------
Nello stesso ordine di idee è stato puntualizzato, inoltre,
che “possono essere considerate proposte migliorative tutte
quelle precisazioni, integrazioni e migliorie che sono
finalizzate a rendere il progetto prescelto meglio
corrispondente alle esigenze della stazione appaltante,
senza tuttavia alterare i caratteri essenziali delle
prestazioni richieste”.
---------------
Come è stato recentemente osservato dalla giurisprudenza,
“Una peculiare modalità esecutiva dell'opera o del servizio,
non affatto circoscritta la solo materiale, che non alteri
struttura, funzione e tipologia del progetto, non integra
affatto la variante sostanziale non ammessa, iscrivendosi
piuttosto fra le migliorie consentite”.
---------------
6a Ma anche per il secondo motivo s’impone lo stesso esito.
Con tale mezzo viene denunciato che, come sarebbe stato
desumibile già dalla relazione tecnica descrittiva
dell’avversaria, la medesima aveva proposto delle soluzioni
progettuali in variante sostanziale rispetto al progetto
esecutivo a base di gara, con aperta violazione dell’art. 95
del d.lgs. n. 50/2017 e del divieto recato in tal senso
anche dalla disciplina di gara (disciplinare, punti 6 e II.1.9).
Tali supposte migliorie si sarebbero inoltre tradotte in
soluzioni peggiorative.
L’aggiudicataria doveva di conseguenza essere esclusa dalla
gara.
6b Il motivo si appunta principalmente sulla prevista
sostituzione (miglioria ME. n. 42) della vasca in cemento
armato di compensazione delle acque meteoriche contemplata
dal progetto dell’Amministrazione, che nell’offerta
vittoriosa viene sostituita da moduli prefabbricati
componenti un “tubo” di capacità analoga alla predetta vasca
(capacità di circa 100 mc).
6b1 A questo proposito il Consiglio, pur non ritenendo
corretta la valutazione d’inammissibilità espressa dal
TAR su buona parte di questo secondo mezzo (nonché sul
terzo), deve però confermare l’avviso già espresso in fase
cautelare circa la non condivisibilità della tesi, carente
anche di un convincente impianto probatorio, che le
migliorie offerte dall’aggiudicataria avrebbero costituito,
in realtà, delle vere e proprie varianti, come tali vietate.
6b2 In questa materia è appena il caso di ricordare che
secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, in tema
di procedure ad evidenza pubblica, “le soluzioni
migliorative si differenziano dalle varianti: le prime
possono liberamente esplicarsi in tutti gli aspetti tecnici
lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto
posto a base di gara ed oggetto di valutazione dal punto di
vista tecnico, salva la immodificabilità delle
caratteristiche progettuali già stabilite
dall'Amministrazione; le seconde, invece, si sostanziano in
modifiche del progetto dal punto di vista tipologico,
strutturale e funzionale, per la cui ammissibilità è
necessaria una previa manifestazione di volontà della
stazione appaltante, mediante preventiva autorizzazione
contenuta nel bando di gara e l'individuazione dei relativi
requisiti minimi che segnano i limiti entro i quali l'opera
proposta dal concorrente costituisce un aliud rispetto a
quella prefigurata dalla stazione appaltante (cfr., Cons. St.,
sez. V, 20.02.2014, n. 814; Id., sez. V, 24.10.2013, n. 5160).…
In definitiva la differenza tra varianti e soluzioni
migliorative apportate dall'impresa al progetto posto a base
di gara riposa sull'"intensità" e sul "grado" delle
modifiche introdotte. …
Le soluzioni migliorative (o "varianti progettuali
migliorative"), hanno ad oggetto gli aspetti tecnici
lasciati aperti a diverse soluzioni sulla base del progetto
posto a base di gara, e possono essere sempre e comunque
introdotte in sede di offerta.
Il motivo è che esse riguardano aspetti tecnici in grado di
consentire, fatto salvo il principio della par condicio,
alle imprese partecipanti d'individuare -va, sottolineato,
tutto vantaggio della stazione appaltante- nell'ambito
delle proprie specifiche capacità e competenze, le possibili
soluzioni tecniche migliori sulla base del progetto di gara”
(in termini, C.d.S., sez. VI, 19.06.2017, n. 2969).
Nello stesso ordine di idee è stato puntualizzato, inoltre,
(da C.d.S., sez. V, 17.01.2018, n. 270) che “possono
essere considerate proposte migliorative tutte quelle
precisazioni, integrazioni e migliorie che sono finalizzate
a rendere il progetto prescelto meglio corrispondente alle
esigenze della stazione appaltante, senza tuttavia alterare
i caratteri essenziali delle prestazioni richieste (Cons.
Stato, Sez. V, 10/01/2017, n. 42; 16/04/2014, n. 1923).”
6b3 Orbene, gli elementi forniti dalle appellate, rimasti
insuperati ex adverso, denotano la corrispondenza
qualitativa, dimensionale e funzionale della vasca
prefabbricata offerta dalla ME. (con conseguente riduzione
dei tempi di esecuzione dell’intervento) a quella
contemplata nel progetto dell’Amministrazione (cfr. la
consulenza tecnica prodotta dall’aggiudicataria in primo
grado alle pagg. 15-17 e 32). Le due strutture si
differenzierebbero unicamente nelle loro rispettive modalità
di realizzazione: la prima, a mezzo di moduli prefabbricati
in cemento; la seconda mediante gettata di cemento in loco.
Né la corrispondenza riscontrata viene meno per il mero
fatto che l’azienda produttrice del prefabbricato avesse
ideato il medesimo per un differente scopo specifico.
Ne discende che la proposta sostituzione della vasca con
elementi prefabbricati non realizza alcuna sostanziale
modifica dei caratteri essenziali del progetto esecutivo
dell’Amministrazione, rientrando nel genus delle proposte
migliorative ammesse dalla disciplina di gara. Come è stato
recentemente osservato, difatti, dalla giurisprudenza (C.d.S.,
VI, 19.06.2017, n. 2969), “Una peculiare modalità
esecutiva dell'opera o del servizio, non affatto
circoscritta la solo materiale, che non alteri struttura,
funzione e tipologia del progetto, non integra affatto la
variante sostanziale non ammessa, iscrivendosi piuttosto fra
le migliorie consentite.” (CGARS,
sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La giurisprudenza è uniforme nel ritenere che le
valutazioni operate dalle commissioni di gara sulle offerte
tecniche delle imprese, in quanto espressioni di
discrezionalità tecnica, siano sottratte al sindacato di
legittimità del Giudice amministrativo, a meno che non siano
manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli,
arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e
manifesto travisamento dei fatti, o vengano in rilievo
specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o la loro applicazione.
L’Amministrazione nell'attribuire i punteggi alle offerte
tecniche non applica scienze esatte, ma formula giudizi
tecnici connotati da un fisiologico margine di opinabilità,
per sconfessare i quali non è sufficiente evidenziare la
loro mera non condivisibilità ma occorre piuttosto
dimostrare la loro palese inattendibilità, ossia l'evidente
insostenibilità del giudizio della Commissione.
Sicché, ove
non emergano manifesti travisamenti, pretestuosità o
irrazionalità, ma solo margini di fisiologica opinabilità
della valutazione tecnico-discrezionale operata
dall’Amministrazione, il Giudice amministrativo non potrebbe
sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo
amministrativo la propria.
---------------
8a Il quarto motivo, subordinato ai precedenti, verte,
infine, sulla critica di fondo della manifesta illogicità ed
erroneità dei giudizi e punteggi attribuiti dalla
Commissione in occasione della valutazione dell’offerta
della ME. e di quella di essa ricorrente, nel senso che
questa seconda, in presenza di una logica e coerente
attribuzione dei punteggi, avrebbe dovuto senz’altro
conseguirne uno superiore.
8b Il mezzo è inammissibile per le ragioni addotte dal primo
Giudice -in questo caso, pertinentemente- nella sentenza in
epigrafe.
8c La ricorrente torna sull’asserto della “manifesta
illogicità ed arbitrarietà della delibazione della qualità
delle offerte … siccome palesemente inficiata da una
travisata rappresentazione delle medesime con la conseguente
irragionevole attribuzione dei punteggi”.
E’ però necessario ricordare che con il motivo in discorso,
articolato in 15 dense pagine (20 nel ricorso di prime
cure), vengono passate in analitica e dettagliata rassegna,
rispetto a tutti i sub-criteri recati dalla lex specialis, le
61 migliorie proposte dall’aggiudicataria, concludendo
rispetto a ciascun sub-criterio che alla ME., anche
indipendentemente dal confronto con le migliorie proposte
dagli altri concorrenti, non avrebbe potuto essere assegnato
alcun punteggio (di volta in volta perché le sue migliorie
sarebbero state peggiorative, non pertinenti rispetto al
sub-criterio di riferimento, o per le più varie ragioni
inammissibili, oppure –è il caso degli ultimi due
sub-criteri- in quanto l’attribuzione da parte della
Commissione del punteggio massimo non sarebbe stata “intelligibile”).
Tanto premesso, è agevole osservare che una contestazione
con queste caratteristiche effettivamente confligge con il
consolidato orientamento giurisprudenziale già richiamato
dal TAR.
La giurisprudenza, invero, è uniforme nel ritenere che le
valutazioni operate dalle commissioni di gara sulle offerte
tecniche delle imprese, in quanto espressioni di
discrezionalità tecnica, siano sottratte al sindacato di
legittimità del Giudice amministrativo, a meno che non siano
manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli,
arbitrarie, ovvero fondate su di un altrettanto palese e
manifesto travisamento dei fatti (C.d.S., Sez. V, 22.01.2015, n. 257; 26.03.2014, n. 1468; 23.06.2014, n.
3132; III, 13.03.2012, n. 1409), o vengano in rilievo
specifiche censure circa la plausibilità dei criteri
valutativi o la loro applicazione (III, 19.01.2012, n.
249).
L’Amministrazione nell'attribuire i punteggi alle offerte
tecniche non applica scienze esatte, ma formula giudizi
tecnici connotati da un fisiologico margine di opinabilità,
per sconfessare i quali non è sufficiente evidenziare la
loro mera non condivisibilità ma occorre piuttosto
dimostrare la loro palese inattendibilità, ossia l'evidente
insostenibilità del giudizio della Commissione.
Sicché, ove
non emergano manifesti travisamenti, pretestuosità o
irrazionalità, ma solo margini di fisiologica opinabilità
della valutazione tecnico-discrezionale operata
dall’Amministrazione, il Giudice amministrativo non potrebbe
sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo
amministrativo la propria.
Occorre altresì aggiungere che il carattere di globalità
delle contestazioni tecniche mosse dalla SQM, che hanno
investito la generalità degli elementi di apprezzamento
dell’offerta tecnica avversaria stabiliti dalla lex
specialis, e pertanto le valutazioni della Commissione nella
loro interezza, denota che con il presente mezzo si è
chiesto al Giudice, in pratica, di rinnovare l’esame
dell’offerta vittoriosa già condotto dalla competente
Commissione.
Le doglianze di parte, cioè, più che promuovere un sindacato
di legittimità di precisi e ben determinati snodi della
specifica azione amministrativa, sono sconfinate –snaturando
tale sindacato- nella sostanziale richiesta del rifacimento
globale di questa, da parte del Giudice, in sostituzione
dell’Amministrazione competente.
Sicché il motivo deve essere giudicato inammissibile anche
sotto questo profilo (CGARS,
sentenza 24.01.2019 n. 54 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se è incontestabile che le asseverazioni costituiscono una
indispensabile condizione di procedibilità delle istanze
volte ad ottenere provvedimento di assenso o sanatoria
edilizia, non rientra nella potestà degli enti locali
chiedere ai tecnici asseveratori le motivazioni delle
dichiarazioni da essi rilasciate sotto la propria
responsabilità.
Spetta infatti ai funzionari competenti in
sede di istruttoria della pratica la valutazione finale
sulla qualificazione degli interventi e sul loro regime
rispetto alla quale il parere del tecnico risulta essere un
ausilio non previsto e, quindi, non dovuto.
---------------
Il Sig. Va. rappresenta di aver presentato al comune
di Poggibonsi una istanza di accertamento di conformità
relativa ad alcune opere interne e di prospetto realizzate
su un immobile di sua proprietà ivi sito alla via S. Gallo.
Il dirigente del Servizio edilizia avrebbe dapprima chiesto
al tecnico asseveratore di verificare se le opere realizzate
ricadano nel regime dell’art. 20-bis del locale regolamento
edilizio, a mente del quale la sanatoria per talune
categorie di opere realizzate prima della vigenza della
legge n. 10/1977 non sarebbe necessaria, di fronte alla
risposta negativa avrebbe ulteriormente chiesto al tecnico
di motivare il suo avviso.
Non soddisfatto delle spiegazioni
ricevute il Dirigente avrebbe archiviato la pratica senza
pronunciarsi sulla stessa.
Il ricorso è fondato.
Se è incontestabile che le asseverazioni costituiscono una
indispensabile condizione di procedibilità delle istanze
volte ad ottenere provvedimento di assenso o sanatoria
edilizia non rientra nella potestà degli enti locali
chiedere ai tecnici asseveratori le motivazioni delle
dichiarazioni da essi rilasciate sotto la propria
responsabilità. Spetta infatti ai funzionari competenti in
sede di istruttoria della pratica la valutazione finale
sulla qualificazione degli interventi e sul loro regime
rispetto alla quale il parere del tecnico risulta essere un
ausilio non previsto e, quindi, non dovuto.
Spetterà quindi a Comune per effetto dell’annullamento della
archiviazione riprendere in esame la domanda di sanatoria
alla luce del disposto dell’art. 20-bis del regolamento
edilizio qualora si prospetti nuovamente la questione della
sua applicabilità.
La domanda volta all’annullamento dell’art. 20-bis del
regolamento edilizio è inammissibile per carenza di
interesse.
In primo luogo non essendosi ancora l’Ente pronunciato non è
dato sapere se la sussistenza di tale norma sarà o meno
ragione ostativa all’accoglimento della istanza.
In secondo luogo qualora la predetta norma fosse ritenuta
applicabile si verrebbe a creare una situazione del tutto
equivalente al rilascio della sanatoria atteso che una
archiviazione della pratica basata su tale motivazione
precluderebbe ogni successivo intervento sanzionatorio.
Altri ed ulteriori profili di interesse all’ottenimento
della sanatoria non appaiono ictu oculi evidenti e
dovrebbero essere puntualmente dimostrati.
Nei predetti limiti il ricorso deve essere accolto (TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 23.01.2019 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
In sede di valutazione comparativa delle offerte
tecniche presentate nelle gare d’appalto, le valutazioni
tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline
specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito
della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del
giudice amministrativo se non vengono in rilievo specifiche
censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la
loro applicazione; la valutazione dell’offerta tecnica
costituisce, pertanto, espressione di apprezzamento
discrezionale insindacabile dal giudice amministrativo salvo
che sia affetta da manifesta illogicità.
Inoltre, il sindacato del giudice sulla discrezionalità
tecnica non può sfociare nella sostituzione dell'opinione
del giudice a quella espressa dall'organo
dell'amministrazione, ma è finalizzato a verificare se il
potere amministrativo si sia esercitato con utilizzo di
regole conformi a criteri di logicità, congruità e
ragionevolezza, sicché tale sindacato rimane limitato ai
casi di macroscopiche illegittimità, quali errori di
valutazione gravi ed evidenti oppure valutazioni abnormi o
inficiate da errori di fatto, pena un’inammissibile
invasione della sfera propria della P.A..
---------------
3. Nell’esaminare il primo ordine di censure, giova
ribadire, come costantemente affermato dalla giurisprudenza,
che, in sede di valutazione comparativa delle offerte
tecniche presentate nelle gare d’appalto, le valutazioni
tecniche, caratterizzate dalla complessità delle discipline
specialistiche di riferimento e dalla opinabilità dell’esito
della valutazione, sfuggono al sindacato intrinseco del
giudice amministrativo se non vengono in rilievo specifiche
censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la
loro applicazione; la valutazione dell’offerta tecnica
costituisce, pertanto, espressione di apprezzamento
discrezionale insindacabile dal giudice amministrativo salvo
che sia affetta da manifesta illogicità (cfr. ex plurimis
C.d.S. sez. III, 14.11.2017, n. 5258; id., 07.03.2014, n. 1072; sez. V,
06.09.2017, n. 4225).
Inoltre,
il sindacato del giudice sulla discrezionalità tecnica non
può sfociare nella sostituzione dell'opinione del giudice a
quella espressa dall'organo dell'amministrazione, ma è
finalizzato a verificare se il potere amministrativo si sia
esercitato con utilizzo di regole conformi a criteri di
logicità, congruità e ragionevolezza, sicché tale sindacato
rimane limitato ai casi di macroscopiche illegittimità,
quali errori di valutazione gravi ed evidenti oppure
valutazioni abnormi o inficiate da errori di fatto, pena
un’inammissibile invasione della sfera propria della P.A. (Tar
Abruzzo, Pescara, sez. I, 20.02.2018, n. 66) (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n.
6639) (TAR
Umbria,
sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Costituisce ius receptum giurisprudenziale quello per cui
“nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che
vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese,
l'interpretazione letterale del testo della lex specialis,
dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una
sua obiettiva incertezza (occorre infatti evitare che il
procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle
regole di gara palesando significati del bando non
chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale)” e stante che
“l'interpretazione della lex specialis soggiace, come per
tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite
per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali
assume carattere preminente quella collegata
all'interpretazione letterale”.
---------------
3.1. Esaminate
in questa prospettiva, le doglianze mosse dalla parte
ricorrente sono fondate nei limiti di quanto segue.
Come già ricordato nell’esposizione in fatto, la legge di
gara ha posto, per la valutazione dell’offerta tecnica, una
serie di sub-parametri, prevedendo la possibilità per la
Commissione di graduare il proprio giudizio tra un minimo e
un massimo (compreso tra insufficiente e ottimo) in virtù
del grado di soddisfazione rispetto al criterio delle
caratteristiche tecniche della soluzione proposta. Fermo
restando quanto ricordato al punto precedente circa il
perimetro del sindacato giurisdizionale, la formulazione di
taluni dei citati parametri è tale da non consentirne
l’applicazione effettuata dalla Commissione.
Costituisce ius receptum giurisprudenziale quello per cui
“nelle gare d'appalto vige il principio interpretativo che
vuole privilegiata, a tutela dell'affidamento delle imprese,
l'interpretazione letterale del testo della lex specialis,
dalla quale è consentito discostarsi solo in presenza di una
sua obiettiva incertezza (occorre infatti evitare che il
procedimento ermeneutico conduca all'integrazione delle
regole di gara palesando significati del bando non
chiaramente desumibili dalla sua lettura testuale)” (ex multis C.d.S., sez. V,
07.01.2013, n. 7) e stante che
“l'interpretazione della lex specialis soggiace, come per
tutti gli atti amministrativi, alle stesse regole stabilite
per i contratti dagli artt. 1362 e ss., c.c., tra le quali
assume carattere preminente quella collegata
all'interpretazione letterale” (C.d.S., sez. V, 09.10.2015, n. 4684; C.d.S., sez. III, 18.06.2018,
n. 3715) (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n.
6639) (TAR
Umbria,
sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE:
In merito al principio di equivalenza, che trova prioritaria
applicazione in sede di ammissione e/o esclusione delle
offerte, se da un lato appare condivisibile l’affermazione
per cui “il principio di equivalenza permea l'intera
disciplina dell'evidenza pubblica (e, specificatamente, la
norma di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006) e la
possibilità di ammettere a seguito di valutazione della
stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche
equivalenti a quelle richieste risponde al principio del
favor partecipationis e costituisce altresì espressione del
legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte
dell'Amministrazione”, occorre, d’altro canto, ricordare
che la giurisprudenza ha anche affermato che tale criterio
opera solo laddove vi sia un espresso richiamo nella legge
di gara (carente nel caso in esame) oppure laddove l’azienda
partecipante alla gara abbia espressamente evidenziato nella
propria offerta tale equivalenza (il che non emerge dagli
atti e non è affermato nelle difese).
Si è, infatti,
osservato che laddove l’Amministrazione abbia ritenuto di
non inserire nella lex specialis la clausola di equivalenza,
la sua inserzione automatica con il meccanismo dell’eterointegrazione
del bando si risolverebbe nella inammissibile lesione della
riserva di amministrazione nella regolamentazione della
gara.
Pertanto, a fronte della chiara e stringente
formulazione di parametri, la Commissione di gara
non può valorizzare soluzioni tecniche che non rispettano
i requisiti minimi e i caratteri essenziali richiesti dalla lex specialis.
---------------
Nelle due
ipotesi che precedono, a fronte di una chiara ed
inequivocabile formulazione del parametro, non è possibile,
come invece proposto negli scritti difensivi
dell’Amministrazione e della controinteressata, invocare
l’equivalenza delle funzionalità del dispositivo della
Si. rispetto a quelle indicate nella legge di gara; nel
caso in esame, infatti, la lex specialis non richiamava il
principio di equivalenza funzionale.
In merito al principio di equivalenza, che trova prioritaria
applicazione in sede di ammissione e/o esclusione delle
offerte, se da un lato appare condivisibile l’affermazione
per cui “il principio di equivalenza permea l'intera
disciplina dell'evidenza pubblica (e, specificatamente, la
norma di cui all'art. 68 del d.lgs. n. 163/2006) e la
possibilità di ammettere a seguito di valutazione della
stazione appaltante prodotti aventi specifiche tecniche
equivalenti a quelle richieste risponde al principio del
favor partecipationis e costituisce altresì espressione del
legittimo esercizio della discrezionalità tecnica da parte
dell'Amministrazione” (cfr. C.d.S., sez. III, 29.03.2018,
n. 2013; Id., 02.09.2013, n. 4364; C.d.S., sez. IV,
26.08.2016 n. 2701), occorre, d’altro canto, ricordare
che la giurisprudenza ha anche affermato che tale criterio
opera solo laddove vi sia un espresso richiamo nella legge
di gara (carente nel caso in esame) oppure laddove l’azienda
partecipante alla gara abbia espressamente evidenziato nella
propria offerta tale equivalenza (il che non emerge dagli
atti e non è affermato nelle difese).
Si è, infatti,
osservato che laddove l’Amministrazione abbia ritenuto di
non inserire nella lex specialis la clausola di equivalenza,
la sua inserzione automatica con il meccanismo dell’eterointegrazione
del bando si risolverebbe nella inammissibile lesione della
riserva di amministrazione nella regolamentazione della gara
(cfr. C.d.S., sez. III, 02.09.2013, n. 4364; Id.,
2015, n. 5631).
Pertanto, a fronte della chiara e stringente
formulazione dei parametri 1c e 1e, la Commissione di gara
non poteva valorizzare soluzioni tecniche che non rispettano
i requisiti minimi e i caratteri essenziali richiesti dalla
lex specialis (cfr. C.d.S., sez. V, 23.11.2018, n.
6639) (TAR
Umbria,
sentenza 14.01.2019 n. 24 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto
dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è applicabile a
qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta
autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo
la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano
adottare in via amministrativa deroghe per particolari
categorie di interventi.
Le
disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in
zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumità e per le quali si rende pertanto necessario
il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere
dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché
dalla natura precaria o permanente dell'intervento.
Va peraltro osservato che, in tema di prevenzione del
rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita
in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in
grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza
che le Regioni possano adottare in via amministrativa
deroghe per particolari categorie di interventi.
---------------
In materia di normativa antisismica, la fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio
attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel
momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione
in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
2. Quanto al primo motivo, deve innanzitutto
osservarsi che la sentenza impugnata -facendo corretta
applicazione degli insegnamenti di questa Corte, debitamente
richiamati- ha logicamente ritenuto che l'opera oggetto di
contestazione era assoggettata alla disciplina in materia di
costruzioni sismiche delineata negli artt. 83 ss. d.P.R. 380
del 2001.
Secondo il non contestato accertamento compiuto dal giudice
di merito, si è trattato della sopraelevazione di un
preesistente fabbricato, insistente in zona dichiarata
sismica, mediante realizzazione sul terrazzo di copertura di
una tettoia con struttura in legno di circa 17 mq.,
costituita da montanti e traversi e soprastante tavolato in
legno.
Ricorreva, dunque, l'obbligo di dare preavviso scritto al
competente ufficio tecnico della regione, previsto, nelle
zone sismiche di cui all'art. 83 d.P.R. 380 del 2001, per «chiunque
intenda procedere a costruzioni, riparazioni e
sopraelevazioni» (art. 93, comma 1, d.P.R. 380 del 2001,
la cui violazione integra gli estremi del reato previsto dal
successivo art. 95).
Secondo il consolidato orientamento, di fatti, le
disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in
zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica
incolumità e per le quali si rende pertanto necessario
il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere
dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché
dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3,
n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti, Rv. 269303;
Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033; Sez. 3,
n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio, Rv. 252441).
2.1. Va peraltro osservato che, in tema di prevenzione del
rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita
in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in
grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza
che le Regioni possano adottare in via amministrativa
deroghe per particolari categorie di interventi (Sez. 3, n.
19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376).
Contrariamente a quanto si allega nella stringata
impugnazione -che, sul punto, è pertanto generica e
manifestamente infondata- l'art. 20 della l.reg. Sicilia
16.04.2003, n. 4 (rubricata Disposizioni programmatiche e
finanziarie per l'anno 2003) contiene una disciplina dei
manufatti precari a chiusura di terrazze, verande e balconi
limitata all'aspetto urbanistico-edilizio che ricade nella
competenza esclusiva della regione a norma dell'art. 14,
primo comma, lett. t), dello Statuto (l.c. 26.02.1948, n. 2
e succ. modiff.).
Essa non riguarda, invece, la disciplina antisismica, che,
anche nel territorio della regione Sicilia, appartiene alla
competenza esclusiva statale, come questa Corte ha già
ripetutamente avuto modo di chiarire: la deroga della
legislazione regionale siciliana alla disciplina
nazionale in materia urbanistica non può essere estesa alla
diversa disciplina edilizia antisismica e delle costruzioni
in conglomerato cementizio armato, attenendo tali materie
alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante
nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma
secondo, Cost. (Sez. 3, n. 16182 del 28/02/2013, Crisafulli
e a., Rv. 255254).
In particolare -si è osservato- le disposizioni delle leggi
della regione Sicilia secondo cui, in deroga alla
legislazione nazionale, la chiusura di terrazze e la
copertura di spazi interni con strutture precarie non sono
soggette a concessione o autorizzazione, si applicano
limitatamente alla materia dell'urbanistica e non possono
quindi essere estese alla diversa disciplina edilizia
antisismica e a quella per le costruzioni in conglomerato cementizio armato, attenendo tali materie alla sicurezza
statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza
esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, Cost.;
ne consegue che tali opere continuano ad essere soggette ai
controlli preventivi previsti dalla legislazione nazionale (Sez.
3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e a., Rv. 241287).
3. Il secondo motivo di ricorso è parimenti
inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
E' ben vero che in materia di normativa antisismica, la
fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio
attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel
momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione
in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93
d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018,
Staiano, Rv. 273225; trattasi, peraltro, di orientamento
risalente affermato da questa Corte nella sua più autorevole
composizione: v. Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola e aa.,
Rv. 213933), sicché il termine di prescrizione delle
contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona
sismica, e di esecuzione dei medesimi in assenza di
autorizzazione, decorre dalla data di inizio dei lavori (Sez.
3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori, Rv. 250487).
Non è in alcun modo provato, tuttavia, che nel caso di
specie i lavori siano iniziati decorsi trenta giorni dalla
data di presentazione della d.i.a., trattandosi, com'è noto,
di termine iniziale rispetto ad un titolo edilizio che ha
efficacia triennale (cfr. art. 23, comma 2, d.P.R.
380/2001).
L'autosufficienza del ricorso per cassazione avrebbe dunque
imposto al ricorrente di allegare gli atti processuali da
cui poteva ricavarsi l'effettiva data di inizio dei lavori,
nulla essendo al proposito indicato in sentenza, la quale,
semmai, contiene un indizio di segno contrario nella parte
in cui attesta che i lavori erano ancora in corso di
esecuzione alla data dell'accertamento (02.08.2013),
posto che, tenendo conto della modestia delle opere, la
circostanza non depone certo nel senso che i lavori fossero
iniziati, come allega il ricorrente, nel novembre 2012.
Poiché la sentenza impugnata è stata pronunciata in data
04.12.2017, non è dunque provato che l'omissione
penalmente sanzionata si fosse perfezionata oltre cinque anni
prima ed il reato non poteva dirsi prescritto (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
27.12.2018 n. 58316). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Atto
confermativo.
Allo scopo di stabilire
se un atto amministrativo sia meramente
confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi,
autonomamente lesivo e da impugnarsi nei
termini), occorre verificare se l'atto
successivo sia stato adottato o meno senza
una nuova istruttoria e una nuova
ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi
meramente confermativo rispetto ad un atto
precedente l’atto la cui adozione sia stata
preceduta da un riesame della situazione che
aveva condotto al precedente provvedimento,
giacché l’esperimento di un ulteriore
adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco, e
un nuovo esame degli elementi di fatto e di
diritto che caratterizzano la fattispecie
considerata, può condurre a un atto
propriamente confermativo in grado, come
tale, di dare vita ad un provvedimento
diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l’atto meramente confermativo
quando la Pubblica Amministrazione si limita
a dichiarare l’esistenza di un suo
precedente provvedimento senza compiere
alcuna nuova istruttoria e senza una nuova
motivazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.12.2018 n. 2874 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Come chiarito da granitica giurisprudenza,
allo scopo di stabilire se un atto
amministrativo sia meramente confermativo (e
perciò non impugnabile) o di conferma in
senso proprio (e, quindi, autonomamente
lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre
verificare se l'atto successivo sia stato
adottato o meno senza una nuova istruttoria
e una nuova ponderazione degli interessi; in
particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente
l’atto la cui adozione sia stata preceduta
da un riesame della situazione che aveva
condotto al precedente provvedimento,
giacché l’esperimento di un ulteriore
adempimento istruttorio, sia pure mediante
la rivalutazione degli interessi in gioco, e
un nuovo esame degli elementi di fatto e di
diritto che caratterizzano la fattispecie
considerata, può condurre a un atto
propriamente confermativo in grado, come
tale, di dare vita ad un provvedimento
diverso dal precedente e quindi suscettibile
di autonoma impugnazione; ricorre invece
l’atto meramente confermativo quando la
Pubblica Amministrazione si limita a
dichiarare l’esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova
istruttoria e senza una nuova motivazione
(ex multis, C.d.S., Sez. V, n. 2172/2018). |
APPALTI: Avvalimento
che ha per oggetto requisiti immateriali.
Nei casi in cui l’avvalimento
ha per oggetto requisiti immateriali –quali
l’iscrizione in un determinato registro o
albo, il fatturato globale o specifico– la
prestazione oggetto specifico
dell'obbligazione è costituita non già dalla
messa a disposizione da parte dell'impresa
ausiliaria di strutture organizzative e
mezzi materiali, ma dal suo impegno a
garantire (con le proprie complessive
risorse economiche e di esperienza
professionale) l'impresa ausiliata munendola
così di quei requisiti che altrimenti non
avrebbe e consentendole di accedere alla
gara nel rispetto delle condizioni poste dal
bando.
Ciò che l'impresa ausiliaria mette a
disposizione è il suo valore aggiunto in
termini di solidità finanziaria e di
acclarata esperienza di settore, dei quali
il fatturato e i servizi svolti
costituiscono indici significativi; ne
consegue che non occorre che la
dichiarazione negoziale costitutiva
dell'impegno contrattuale si riferisca a
specifici beni patrimoniali o ad indici
materiali atti a esprimere una determinata
consistenza patrimoniale e, dunque, alla
messa a disposizione di beni da descrivere e
individuare con precisione, essendo
sufficiente che da essa dichiarazione emerga
l'impegno contrattuale della società
ausiliaria a “prestare” alla società
ausiliata la sua complessiva solidità
finanziaria e il suo patrimonio
esperienziale, garantendo con essi una
determinata affidabilità e un concreto
supplemento di responsabilità
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.12.2018 n. 1251 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
L’articolata censura è priva di fondamento.
1.3 L’istituto dell’avvalimento, di
derivazione comunitaria, è finalizzato a
conseguire l’apertura degli appalti pubblici
alla concorrenza nella misura più ampia
possibile, e consente che un’impresa possa
comprovare alla stazione appaltante il
possesso dei requisiti economici,
finanziari, tecnici e organizzativi per la
partecipazione a una gara, facendo
riferimento alla capacità di altro soggetto,
che assume contrattualmente con la stessa
una responsabilità solidale, impegnandosi
nei confronti della stazione appaltante.
1.4 Come ha statuito il Consiglio di Stato,
sez. V – 26/11/2018 n. 6690, <<ai fini della
determinazione del contenuto necessario per
il contratto di avvalimento nelle gare di
appalto, si è stabilita una distinzione tra
requisiti generali (requisiti di carattere
economico, finanziario,
tecnico-organizzativo, ad es. il fatturato
globale o la certificazione di qualità) e
risorse: solamente per queste ultime è
giustificata l'esigenza di una messa a
disposizione in modo specifico, in quanto
solo le risorse possono rientrare nella
nozione di beni in senso tecnico-giuridico,
cioè di "cose che possono formare oggetto di
diritti" ex art. 821 c.c., con il corollario
che soltanto in questa ipotesi l'oggetto del
contratto di avvalimento deve essere
determinato, in tutti gli altri casi essendo
sufficiente la sua semplice determinabilità.
Proprio ad evitare il rischio,
particolarmente rilevante in tale
sottogenere di avvalimento, che il prestito
dei requisiti rimanga soltanto su un piano
astratto e cartolare e l'impresa ausiliaria
si trasformi in una semplice cartiera
produttiva di schemi contrattuali privi di
sostanza, occorre che dalla dichiarazione
dell'ausiliaria emerga con certezza ed in
modo circostanziato l'impegno contrattuale a
prestare e mettere a disposizione dell'ausiliata
la complessiva solidità finanziaria e il
patrimonio di esperienza della prima, così
garantendo una determinata affidabilità e un
concreto supplemento di responsabilità
(Consiglio di Stato, Sez. V, 22.12.2016, n. 5423).
L'impresa ausiliaria, per
effetto del contratto di avvalimento di
garanzia, dovrà diventare di fatto, un
garante dell'impresa ausiliata sul versante
economico-finanziario, mentre nel caso di
avvalimento c.d. tecnico o operativo …
sussisterà l'esigenza di una messa a
disposizione in modo specifico di
determinate risorse che l’art. 88 del d.P.R.
n. 207 predetto stabilisce che debbano
essere riportate in modo determinato e
specifico” (si veda in senso analogo
Consiglio di Stato, sez. V – 16/07/2018 n.
4329)>>.
Ha puntualizzato nello stesso senso
il Consiglio di Stato, sez. V – 02/08/2018 n.
4775, che “l’avvalimento di garanzia ricorre
nel caso in cui l’ausiliaria mette a
disposizione dell’ausiliata la sua solidità
economica e finanziaria, rassicurando la
stazione appaltante sulle sue capacità a
fare fronte agli impegni economici
conseguenti al contratto di appalto, anche
in caso di inadempimento. Concernendo l’avvalimento
di garanzia il fatturato, enuclea una
situazione del tutto diversa dall’avvalimento
operativo, che, come noto, ricorre allorché
l’ausiliaria si impegna a mettere a
disposizione dell’ausiliata le risorse
tecnico-organizzative indispensabili per
l’esecuzione del contratto di appalto. Ai
fini dell’accertamento della validità del
contratto di avvalimento occorre dunque
necessariamente distinguere tra avvalimento
di garanzia ed avvalimento operativo, in
quanto nel primo caso trova deroga anche la
regola della puntuale indicazione nel
contratto delle risorse in concreto
prestate, essendo sufficiente che
l’ausiliaria si impegni a mettere a
disposizione dell’ausiliata la sua
complessiva solidità finanziaria ed il suo
patrimonio di esperienza (Cons. Stato, V, 14.02.2018, n. 953)”.
La sentenza del Consiglio di Stato, sez. V –
16/07/2018 n. 4329, di conferma della
pronuncia del TAR Lombardia Milano n.
157/2018, ha esaminato un contratto di avvalimento operativo, “dato che esso non è
finalizzato alla prestazione, ad esempio, di
requisiti finanziari ma, come assunto
nell’istanza di partecipazione del r.t.i.
Al., del requisito tecnico-operativo di
aver prestato nei tre anni solari
antecedenti il bando almeno un servizio di
cremazione salme per dodici mesi
continuativi presso un impianto della
portata annuale di 2000 cremazioni”.
Il
Consiglio di Stato, sez. VI – 03/08/2018 n.
4798 ha quindi ritenuto configurabile un avvalimento di garanzia quando l’istituto
investe la capacità economica e finanziaria,
e serve a rassicurare la stazione appaltante
sulla capacità della parte di far fronte
alle obbligazioni derivanti dal contratto, e
non richiede come tale di essere riferito a
beni capitali descritti con precisione.
L’individuazione specifica è invece
necessaria per l’avvalimento tecnico ovvero
operativo, che riguarda le risorse materiali
in concreto necessarie per eseguire il
contratto, ad esempio dotazioni di personale
ovvero di macchinari.
L’avvalimento di
garanzia è in definitiva “caratterizzato dal
fatto che non implica necessariamente il
coinvolgimento di assetti specifici
dell’organizzazione dell’impresa, assolvendo
alla funzione di ampliare lo spettro della
responsabilità per la corretta esecuzione
dell’appalto, con le risorse economiche
dell’ausiliaria (volume di affari e
fatturato), e quindi con i soli requisiti di
carattere finanziario, costituenti valori
immateriali” (Consiglio di Stato, sez. V –
08/05/2018 n. 2753; si veda anche Consiglio di
Stato, sez. V – 14/02/2018 n. 953).
1.5 In buona sostanza, nei casi in cui l’avvalimento
ha per oggetto requisiti immateriali –quali
l’iscrizione in un determinato registro o
albo, il fatturato globale o specifico– la
prestazione oggetto specifico
dell'obbligazione è costituita non già dalla
messa a disposizione da parte dell'impresa
ausiliaria di strutture organizzative e
mezzi materiali, ma dal suo impegno a
garantire (con le proprie complessive
risorse economiche e di esperienza
professionale) l'impresa ausiliata
munendola, così, di quei requisiti che
altrimenti non avrebbe e consentendole di
accedere alla gara nel rispetto delle
condizioni poste dal bando; ciò che
l'impresa ausiliaria mette a disposizione è
il suo valore aggiunto in termini di
solidità finanziaria e di acclarata
esperienza di settore, dei quali il
fatturato e i servizi svolti costituiscono
indici significativi (Consiglio di Stato,
sez. V – 06/04/2017 n. 1608);
ne consegue che
non occorre che la dichiarazione negoziale
costitutiva dell'impegno contrattuale si
riferisca a specifici beni patrimoniali o ad
indici materiali atti ad esprimere una
determinata consistenza patrimoniale e,
dunque, alla messa a disposizione di beni da
descrivere ed individuare con precisione,
essendo sufficiente che da essa
dichiarazione emerga l'impegno contrattuale
della società ausiliaria a “prestare” alla
società ausiliata la sua complessiva
solidità finanziaria ed il suo patrimonio
esperienziale, garantendo con essi una
determinata affidabilità ed un concreto
supplemento di responsabilità (TAR
Sicilia Palermo, sez. I – 03/07/2018 n. 1534,
che ha richiamato il Consiglio di Stato,
sez. V – 14/05/2018 n. 2855). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Natura
degli accordi ex art. 11 della legge n. 241
del 1990.
Gli accordi conclusi ai sensi dell'art. 11
della legge n. 241/1990 sono atti che
l’amministrazione pone in essere con il
consenso del privato, ma comunque soggetti
al vincolo di perseguimento dell’interesse
pubblico; infatti, gli accordi in discorso,
essendo un’alternativa al provvedimento, non
possono non partecipare della sua stessa
natura.
A differenza di quanto accade nelle
fattispecie contrattuali, l’interesse
affidato alla cura di una delle due parti,
il soggetto pubblico, assume all’interno
dell’accordo un ruolo del tutto differente
rispetto a quello del privato: l’accordo
deve essere stipulato “in ogni caso nel
perseguimento dell’interesse pubblico”.
In
altri termini, la validità dell’accordo e la
sua vincolatività sono subordinate alla
compatibilità con l’interesse pubblico, il
quale ne diviene così elemento definitorio
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 24.12.2018 n. 7212 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
6 – Tanto precisato, con il primo motivo
di appello si censura la mancata
acquisizione durante il giudizio di primo
grado dell’accordo concluso ai sensi
dell'art. 11 della l. n. 241/1990 presso la
Presidenza del Consiglio in data 19.07.2007.
6.1 - La censura è infondata. Va infatti
osservato che il principio dispositivo con
metodo acquisitivo, che opera nel processo
amministrativo al fine di neutralizzare la
disuguaglianza di posizione fra
Amministrazione pubblica e privato, non
consente al giudice di sostituirsi alla
parte onerata, disponendo d’ufficio le
acquisizioni istruttorie a cui era tenuta
quest’ultima.
La ricorrente, che è subentrata alla società
che originariamente ha stipulato l’accordo,
doveva ragionevolmente ritenersi nella
disponibilità dell’accordo, in quanto parte
dello stesso, sicché rientrava nella sua
autonoma valutazione la scelta di produrlo o
meno in giudizio.
7 – Prima di esaminare le doglianze che
coinvolgono sotto diverse prospettive il
detto accordo, censurando le modalità con le
quali il Comune se ne sarebbe sottratto,
giova ricordare che gli accordi conclusi ai
sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990 sono
atti che l’amministrazione pone in essere
con il consenso del privato, ma comunque
soggetti al vincolo di perseguimento
dell’interesse pubblico.
Infatti, gli accordi in discorso, essendo
un’alternativa al provvedimento, non possono
non partecipare della sua stessa natura. A
differenza di quanto accade nelle
fattispecie contrattuali, l’interesse
affidato alla cura di una delle due parti,
il soggetto pubblico, assume all’interno
dell’accordo un ruolo del tutto differente
rispetto a quello del privato: l’accordo
deve essere stipulato “in ogni caso nel
perseguimento dell’interesse pubblico”.
In altri termini, la validità dell’accordo e
la sua vincolatività sono subordinate alla
compatibilità con l’interesse pubblico, il
quale ne diviene così elemento definitorio (cfr.
Cons. St. n. 2258 del 2017; Cort. Cost. n.
179 del 2016).
La giurisprudenza in più occasioni ne ha
ribadito il collegamento con l’esercizio del
potere, avendo chiarito che gli accordi
costituiscono una modalità di esercizio del
potere amministrativo attuata attraverso un
modulo bilaterale e consensuale, pur
rimanendo “pubblica” la potestà esercitata
e, quindi, istituzionalmente funzionalizzata
al perseguimento dell’interesse pubblico di
cui è titolare l’amministrazione e soggetta
alle regole generali dell’attività
amministrativa, in parte diverse da quelle
che disciplinano l’attività contrattuale
privatistica (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14.10.2013).
Ciò si spiega in quanto anche
con il ricorso a moduli consensuali, lo
svolgimento dell’azione amministrativa resta
in ogni caso ancorato ai canoni tipici
dell’agire dell’amministrazione e, in
particolare, al vincolo teleologico posto a
fondamento della preesistente tensione al
perseguimento dell’interesse pubblico (cd.
vincolo di scopo), informato, altresì, ai
principi di imparzialità e buon andamento di
cui all’art. 97 Cost.
7.1 - In ossequio alla funzionalizzazione
pubblicistica dell’accordo, deve ritenersi
che, anche dopo la stipula,
l’amministrazione rimanga titolare di un
potere pubblicistico, indipendentemente dai
poteri e dalle facoltà riconosciuti
nell’accordo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 31.01.2001, n. 354: “l’impegno assunto
dall’amministrazione attraverso l’accordo
non può risultare vincolante in termini
assoluti, in quanto esso riguarda pur sempre
l’esercizio di pubbliche potestà”).
In altre parole, deve ritenersi ammissibile
l’esercizio di un potere pubblicistico di
autotutela che, per la imprescindibile
funzionalizzazione degli accordi in
discorso, non può ritenersi paralizzato
dall’assimilazione dell’accordo al
contratto. Al riguardo, la stessa norma,
art. 11 comma 2, richiama (solo) i
“principi” in materia di obbligazioni e
contratti” ritenendoli, oltretutto,
applicabili solo “in quanto compatibili”.
7.2 - In definitiva, alla luce del
condivisibile orientamento che configura in
chiave pubblicistica degli accordi ex art.
11, deve convenirsi che l’esercizio del
potere di recesso di cui al comma 4 del
medesimo articolo non esaurisce il novero di
possibili modalità di esercizio del ius
poenitendi rispetto alla fattispecie
caratterizzata dalla conclusione
dell’accordo.
Invero, al riguardo, deve rilevarsi che in
tali ipotesi –e a prescindere dal mancato
espresso richiamo da parte del legislatore–
non può dubitarsi della possibilità per
l’amministrazione di adottare altresì
provvedimenti di annullamento d’ufficio al
ricorrere dei presupposti di cui
all’articolo 21-nonies della l. 241 del 1990
(cfr. Cons. St., Sezione V, 12.05.2017,
n. 2231). |
APPALTI: Indicazione
nell’offerta dei costi della manodopera.
Il TAR Milano, pur consapevole
dell’esistenza di un contrasto
giurisprudenziale in ordine alle conseguenze
derivanti dalla mancata indicazione
nell’offerta dei costi della manodopera,
così come prevede il comma 10 dell’articolo
95 del D.Lgs. n. 50/2016, nondimeno ritiene
allo stato di confermare l’orientamento già
assunto dalla Sezione nelle sentenze n.
1855/2018 e n. 1870/2018, e pertanto
riafferma che la mancata indicazione in
offerta dei costi della manodopera per
l’esecuzione del contratto ha effetti
inevitabilmente escludenti, senza
possibilità di ricorrere al rimedio del
soccorso istruttorio non trattandosi della
carenza di meri elementi formali della
domanda di partecipazione, bensì di un
elemento essenziale dell’offerta stessa
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.12.2018 n. 2854 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
Come già osservato in sede cautelare, sia
pure all’esito di una valutazione
necessariamente sommaria quale è quella che
viene assunta in detta fase del giudizio,
fondato e assorbente è il secondo motivo di
ricorso.
Invero, risulta per tabulas che il
disciplinare di gara (articolo 12, lettera C)
stabiliva che all’offerta economica dovesse
essere allegata una tabella che evidenziasse
“in modo analitico il costo del lavoro
sostenuto per il personale”. Risulta,
altresì, che la società Fa. S.r.l.s. non
ha allegato alla propria offerta economica
la suvvista tabella, ma l’ha inviata in fase
di verifica della congruità dell’offerta,
perché a tanto sollecitata dalla stazione
appaltante.
Ora, il Collegio è consapevole
dell’esistenza di un contrasto
giurisprudenziale in ordine alle conseguenze
derivanti dalla mancata indicazione
nell’offerta dei costi della manodopera,
così come prevede del resto il comma 10
dell’articolo 95 del D.Lgs. n. 50/2016,
contrasto sfociato nella ordinanza del
TAR del Lazio–Roma di remissione del
quesito interpretativo alla Corte di
Giustizia dell’Unione Europea (ordinanza n.
4562/2018) e nella ordinanza del C.G.A.
Sicilia di remissione della questione
all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
(ordinanza n. 772/2018).
Nondimeno allo stato si ritiene di
riconfermare l’orientamento già assunto
dalla Sezione nelle sentenze n. 1855/2018 e
n. 1870/2018, e alle cui motivazioni si
rinvia.
Pertanto, va riaffermato che la mancata
indicazione in offerta dei costi della
manodopera per l’esecuzione del contratto ha
effetti inevitabilmente escludenti, senza
possibilità di ricorrere al rimedio del
soccorso istruttorio non trattandosi della
carenza di meri elementi formali della
domanda di partecipazione, bensì di un
elemento essenziale dell’offerta stessa.
In conclusione, il ricorso è fondato e per
questo viene accolto. |
APPALTI: Esclusione
delle offerte tecniche che non rispettano i
requisiti minimi previsti dalla legge di
gara.
Ad onta delle
dichiarazioni rese dalle imprese
partecipanti, la stazione appaltante
conserva in ogni modo il potere di disporre
l’esclusione delle offerte tecniche che di
fatto non rispettano i requisiti minimi
previsti dalla legge di gara, in quanto tali
offerte configurano la presentazione di un
prodotto che, ponendosi al di sotto degli
“standard” minimi chiesti
dall’amministrazione, realizza un vero e
proprio “aliud pro alio”.
La radicale
mancanza di livelli essenziali dell’offerta
tecnica non permette la valutazione della
stessa e impone l’esclusione del concorrente
per la sostanziale inidoneità dello stesso
nei termini richiesti dalla stazione
appaltante; non è necessario neppure che la
sanzione espulsiva sia espressamente
prevista dalla legge di gara giacché,
essendo sufficiente il riscontro della
difformità dell’offerta rispetto alle
specifiche tecniche richieste dalla lex
specialis, che abbiano per l’Amministrazione
un valore essenziale.
Le caratteristiche minime essenziali devono,
poi essere possedute al momento di
presentazione dell’offerta, non essendo
ammissibile che possa trovare accettazione
da parte dell’amministrazione un bene privo
di tali caratteristiche, seppure con
l’impegno dell’offerente ad apportare gli
adeguamenti necessari dopo l’eventuale
aggiudicazione o prima dell’esecuzione del
contratto d’appalto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 24.12.2018 n. 2844 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Orbene, il Collegio deve evidenziare che,
ad
onta delle dichiarazioni rese dalle imprese
partecipanti, la stazione appaltante
conserva in ogni modo il potere di disporre
l’esclusione delle offerte tecniche che di
fatto non rispettano i requisiti minimi
previsti dalla legge di gara, in quanto tali
offerte configurano la presentazione di un
prodotto che, ponendosi al di sotto degli
“standard” minimi chiesti
dall’amministrazione, realizza un vero e
proprio “aliud pro alio”.
La giurisprudenza appare infatti concorde
nel ritenere che la radicale mancanza di
livelli essenziali dell’offerta tecnica non
permette la valutazione della stessa ed
impone l’esclusione del concorrente per la
sostanziale inidoneità dello stesso nei
termini richiesti dalla stazione appaltante.
Sul punto, fra le tante, si vedano Consiglio
di Stato, sez. III, 03.08.2018, n. 4809,
per cui: «…le caratteristiche tecniche
previste nel capitolato di appalto valgono a
qualificare i beni oggetto di fornitura e
concorrono, dunque, a definire il contenuto
della prestazione sulla quale deve
perfezionarsi l’accordo contrattuale, di talchè eventuali, apprezzabile difformità
registrate nell’offerta concretano una forma
di 'aliud pro alio', comportante, di per sé,
l'esclusione dalla gara, anche in mancanza
di apposita comminatoria, e, nel contempo,
non rimediabile tramite regolarizzazione
postuma, consentita soltanto quando i vizi
rilevati nell'offerta siano puramente
formali o chiaramente imputabili a errore
materiale…»; oltre a TAR Lazio, Roma. Sez.
II, 21.02.2018, n. 2016; senza contare
che “le difformità dell’offerta tecnica che
rivelano l’inadeguatezza del progetto
proposto dall’impresa offerente rispetto ai
requisiti minimi previsti dalla stazione
appaltante per il contratto da affidare
legittimano l’esclusione dalla gara e non
già la mera penalizzazione dell’offerta
nell’attribuzione del punteggio, perché
determinano la mancanza di un elemento
essenziale per la formazione dell'accordo
necessario per la stipula del contratto”
(così Consiglio di Stato, Sez. V, 05.05.2016, n. 1809, oltre a Sez. III, 21.10.2015, n. 4804;
01.072015, n. 3275; Sez.
V, 17.02.2016, n. 633 e 23.09.2015, n. 4460).
Le difformità dell’offerta tecnica, anche
parziali, si risolvono quindi in un aliud
pro alio, che giustifica l’esclusione dalla
selezione (cfr. ancora Consiglio di Stato,
Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e Sez. V,
05.05.2016, n. 1818).
Non è necessario neppure che la sanzione
espulsiva sia espressamente prevista dalla
legge di gara giacché, “ai fini
dell’esclusione, non è necessaria
un’espressa previsione in tal senso, essendo
sufficiente il riscontro della difformità
dell’offerta rispetto alle specifiche
tecniche richieste dalla lex specialis, che
abbiano per l’Amministrazione un valore
essenziale” (così ancora Consiglio di Stato, Sez. III, 26.01.2018, n. 565 e TAR
Umbria, 01.09.2017, n. 563).
L’esclusione del concorrente risponde ai
principi fondamentali sulla scelta del
contraente e trova altresì un fondamento
nell’art. 94, comma 1, lett. a), del codice
dei contratti pubblici, articolo riguardante
appunto i principi generali in materia di
selezione dei contraenti (sul punto si veda
TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 02.02.2017, n. 145).
Le caratteristiche minime essenziali devono
essere possedute al momento di presentazione
dell’offerta, non essendo ammissibile che
possa trovare accettazione da parte
dell’amministrazione un bene privo di tali
caratteristiche, seppure con l’impegno
dell’offerente ad apportare gli adeguamenti
necessari dopo l’eventuale aggiudicazione o
prima dell’esecuzione del contratto
d’appalto.
Una simile soluzione si porrebbe in evidente
contrasto con la regola del rispetto della
par condicio fra i partecipanti, oltre a
determinare anche un inevitabile
stravolgimento dell’offerta economica, posto
che l’offerta di un bene privo dei requisiti
minimi potrebbe consentire un prezzo
apparentemente più vantaggioso per
l’amministrazione, salvi i costi successivi
per l’adeguamento del bene agli standard
minimi. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Contrasto
tra le indicazioni grafiche e prescrizioni
normative degli strumenti urbanistici.
In caso di contrasto tra
le indicazioni grafiche e prescrizioni
normative degli strumenti urbanistici sono
le seconde a prevalere, in quanto in sede
d'interpretazione degli strumenti
urbanistici le risultanze grafiche possono
chiarire e completare quanto è
normativamente stabilito nel testo, ma non
sovrapporsi o negare quanto risulta da
questo.
Ne consegue che, di fronte al chiaro
contenuto della parte normativa del piano,
derivante dall’accoglimento di una
osservazione, è la parte grafica del piano
che dev’essere modificata e non il contrario
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.12.2018 n. 2814 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
B. Anche il ricorso per motivi aggiunti è
fondato.
Secondo la relazione, poi approvata dal
Consiglio comunale, “non si ritiene
percorribile il percorso metodologico
suggerito da Findivo, relativo
all'attivazione di procedura per errore
materiale ex art. 13 —comma 14-bis della LR
12/2005 e ss.mm.ii., con conseguente
rettifica della perimetrazione in funzione
delle reali confinanze catastali; ciò in
considerazione del fatto che appare
esplicita, come riportato nella relazione di
Piano, la volontà dell'Amministrazione
Comunale di mantenere la perimetrazione IC
in località "Cava Altea" lungo il confine
della galleria, in quanto non ampliabile
perché costretta dalla SP 52 e dal sedime
della strada statale 336-bis, sia galleria e
sia trincea, e dal confine comunale. Inoltre
il completamento delle attività di recupero
della ex Cava consentirà il ripristino delle
condizioni di naturalità e la cessazione
delle attività in essere interferente con i
siti Natura 2000".
La motivazione dell’atto è irragionevole in
quanto si pone in contrasto con quanto
approvato in sede di accoglimento delle
osservazioni al PGT.
Infatti è noto che in
caso di contrasto tra le indicazioni
grafiche e prescrizioni normative degli
strumenti urbanistici, sono le seconde a
prevalere, in quanto in sede
d'interpretazione degli strumenti
urbanistici le risultanze grafiche possono
chiarire e completare quanto è normativamente stabilito nel testo, ma non
sovrapporsi o negare quanto risulta da
questo (per tutte, da ultimo cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 16.06.2015, n. 2998; TAR
Toscana, Sez. I, sentenza 21.07.2017 n.
946).
Ne consegue che, di fronte al chiaro
contenuto della parte normativa del piano,
derivante dall’accoglimento
dell’osservazione, è la parte grafica del
piano che dev’essere modificata e non il
contrario.
A ciò si aggiunge che l’asserita
impossibilità di ampliare l’area IC per la
presenza della SP. 52 e del sedime della
strada statale 336-bis, sia galleria e sia
trincea, è contraddittoria. Infatti non è
data prova che l’area di proprietà della
ricorrente sia, per esproprio o vincolo
particolare o per altre ragioni, inidonea a
costituire area di Interesse Comunale (IC).
In definitiva quindi la deliberazione del
consiglio comunale n. 2 del 31.01.2015
va annullata con conseguente obbligo del
Comune di adeguare la planimetria agli atti
di approvazione del PGT. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Il
giudice è tenuto a effettuare la
liquidazione giudiziale nel rispetto dei
parametri previsti dal D.M. n. 55/2014.
La Corte di Cassazione
chiarisce che il D.M. n. 140 emanato il
20.07.2012 -il quale, stabilendo in via
generale i compensi di tutte le professioni
vigilate dal Ministero della Giustizia, al
suo art. 1, comma 7, dispone che "In nessun
caso le soglie numeriche indicate, anche a
mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei
massimi, per la liquidazione del compenso,
nel presente decreto e nelle tabelle
allegate, sono vincolanti per la
liquidazione stessa"- risulta essere stato
emanato (D.L. n. 1 del 2012, conv. nella L.
n. 27 del 2012) allo scopo di favorire la
liberalizzazione della concorrenza e del
mercato, adempiendo alle indicazioni della
UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e
minimi, così da lasciare le parti contraenti
(nella specie, l'avvocato e il suo
assistito) libere di pattuire il compenso
per l'incarico professionale.
Per contro, il giudice resta tenuto a
effettuare la liquidazione giudiziale nel
rispetto dei parametri previsti dal D.M. n.
55/2014, il quale non prevale sul D.M. n.
140/2012, per ragioni non di mera
successione temporale, bensì nel rispetto
del principio di specialità, poiché non è il
D.M. n. 140/2012 -evidentemente generalista
e rivolto a regolare la materia dei compensi
tra professionista e cliente (ed infatti,
l'intervento del giudice ivi preso in
considerazione riguarda il caso in cui fra
le parti non fosse stato preventivamente
stabilito il compenso o fosse
successivamente insorto conflitto)- a
prevalere, ma il D.M. n. 55/2014, il quale
detta i criteri ai quali il giudice si deve
attenere nel regolare le spese di causa
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 17.12.2018
n. 32576 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Considerato che:
-
con il primo motivo di ricorso si denuncia
la violazione e falsa applicazione
dell'art. 91 c.p.c., dell'art. 2233 c.c. in
relazione al D.M 55/2014 per avere la
corte territoriale liquidato un importo,
pari ad € 405,00 inferiore ai minimi
tariffari di cui al D.M. 55/2014, ratione
temporis applicabile trattandosi di
liquidazione successiva al 03.04.2014; inoltre
la corte territoriale, liquidando
un compenso così modesto, avrebbe leso il
decoro professionale
dell'avvocato;
-
considerato che l'opinione secondo la quale
il decreto del Ministero della
Giustizia n. 55 del 10/03/2014, nella parte
in cui stabilisce un limite minimo
ai compensi tabellarmente previsti (art. 4)
non può considerarsi derogativo
del Decreto n. 140, emesso dallo stesso
Ministero il 20/07/2012, il quale,
stabilendo in via generale i compensi di
tutte le professioni vigilate dal
Ministero della Giustizia, al suo art. 1,
comma 7, dispone che "In nessun caso le
soglie numeriche indicate, anche a mezzo di
percentuale, sia nei
minimi che nei massimi, per la liquidazione
del compenso, nel presente
decreto e nelle tabelle allegate, sono
vincolanti per la liquidazione stessa",
non è condivisa dalla Corte, in quanto: come
ricorda lo stesso
controricorrente, il D.M. n. 140, risulta
essere stato emanato (D.L. n. 1 del
2012, conv. nella L. n. 27 del 2012) allo
scopo di favorire la liberalizzazione
della concorrenza e del mercato, adempiendo
alle indicazioni della UE, a tal
fine rimuovendo i limiti massimi e minimi,
così da lasciare le parti contraenti
(nella specie, l'avvocato e il suo
assistito) libere di pattuire il compenso
per
l'incarico professionale;
- per contro, il giudice resta tenuto ad
effettuare la liquidazione giudiziale nel
rispetto dei parametri previsti dal D.M. n.
55, il quale non prevale sul D.M.
n. 140, per ragioni di mera successione
temporale, bensì nel rispetto del
principio di specialità, poiché, non è il
D.M. n. 140 -evidentemente
generalista e rivolto a regolare la materia
dei compensi tra professionista e
cliente (ed infatti, l'intervento del
giudice ivi preso in considerazione
riguarda il caso in cui fra le parti non
fosse stato preventivamente stabilito il
compenso o fosse successivamente insorto
conflitto)- a prevalere, ma il
D.M. n. 55, il quale detta i criteri ai
quali il giudice si deve attenere nel
regolare le spese di causa;
-
considerato che la liquidazione effettuata
dalla Corte locale in complessivi
Euro 405,00 si pone al di sotto dei limiti
imposti dal D.M. n. 55, tenuto
conto del valore della causa (da Euro
1.100,01 a Euro 5.200,00) e pur
applicata la riduzione massima, in ragione
della speciale semplicità
dell'affare (art. 4, cit.);
- considerato che a motivo dell'esposto il
provvedimento gravato deve essere
cassato e, sussistendone le condizioni,
decisa la causa nel merito, il
complessivo compenso può essere liquidato in
Euro 1198,50, (Euro 255,00
per la fase di studio, Euro 255,00 per la
fase introduttiva, Euro 283,50 per
la fase istruttoria, Euro 405,00 per la fase
decisionale), oltre IVA e
contributo L. n. 576 del 1980, ex art. 11,
con distrazione in favore dagli avv.ti
Gi.Fe. e Fe.Em.Ab., che ne hanno
fatto richiesta, dichiarandosi antistatari; |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ricognizione
del patrimonio edilizio esistente in fase di
redazione del PGT e rilevanza dei ruderi.
La ricognizione
dell’esistente è una fase essenziale della
pianificazione che consiste in una
operazione tecnica, e non giuridica, in
quanto è preliminare alla qualificazione dei
fabbricati e all’attribuzione dei diritti
edificatori; i compilatori dello strumento
urbanistico devono quindi segnalare
graficamente qualsiasi fabbricato presente
sul territorio, anche se privo di titolo o
privo di consistenza materiale, in quanto
ridotto allo stato di rudere; su questa base
viene poi esercitata la discrezionalità
dell’amministrazione nell’attribuzione dei
diritti edificatori.
Per quanto riguarda i ruderi, i diritti
edificatori utilizzati al momento della
costruzione originaria rimangono incorporati
nel suolo, e fanno parte del patrimonio del
proprietario dell’area; la discrezionalità
dell’amministrazione è quindi libera quando
decide di espandere le facoltà edificatorie,
ma incontra degli ostacoli quando si propone
di cancellare la rilevanza giuridica dei
ruderi, perché in questo secondo caso incide
direttamente sulla consistenza del diritto
di proprietà.
Affinché si possa conservare rilevanza
giuridica ai ruderi è però necessario che
sia individuabile in modo sufficientemente
preciso l’immagine originaria del
fabbricato; questo avviene normalmente
quando sia possibile dedurre dalle strutture
presenti il disegno complessivo
dell’edificio, oppure quando, pur in assenza
di strutture ancora integre, siano
disponibili le planimetrie o le descrizioni
dei luoghi inserite negli atti di
accatastamento.
Le due fonti (referto di sopralluogo, scheda
di accatastamento) possono anche combinarsi,
fornendo ciascuna una parte delle
informazioni su quanto edificato; in caso di
contrasto, è applicabile per analogia la
regola ex art. 950 c.c. sul carattere
sussidiario, e dunque recessivo, dei dati
catastali
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 14.12.2018 n. 1205 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
11. Sulle questioni rilevanti ai fini della
decisione si possono svolgere le seguenti
considerazioni:
(a) nello stabilire un metodo di esame della
controversia, appare utile distinguere la
ricognizione degli edifici esistenti da
parte dello strumento urbanistico e la
disciplina urbanistica associata a tali
fabbricati;
(b) la ricognizione dell’esistente è una
fase essenziale della pianificazione (v.
art. 8, comma 1-b, della LR 11.03.2005 n.
12, che attribuisce al Documento di Piano il
compito di fornire “il quadro conoscitivo
del territorio comunale, come risultante
dalle trasformazioni avvenute”).
Si tratta
di un’operazione tecnica, e non giuridica,
in quanto è preliminare alla qualificazione
dei fabbricati e all’attribuzione dei
diritti edificatori. I compilatori dello
strumento urbanistico devono quindi
segnalare graficamente qualsiasi fabbricato
presente sul territorio, anche se privo di
titolo o privo di consistenza materiale, in
quanto ridotto allo stato di rudere. Su
questa base viene poi esercitata la
discrezionalità dell’amministrazione
nell’attribuzione dei diritti edificatori;
(c) per quanto riguarda i ruderi, occorre
precisare che i diritti edificatori
utilizzati al momento della costruzione
originaria rimangono incorporati nel suolo,
e fanno parte del patrimonio del
proprietario dell’area.
La discrezionalità
dell’amministrazione è quindi libera quando
decide di espandere le facoltà edificatorie,
ma incontra degli ostacoli quando si propone
di cancellare la rilevanza giuridica dei
ruderi, perché in questo secondo caso incide
direttamente sulla consistenza del diritto
di proprietà;
(d) affinché si possa conservare rilevanza
giuridica ai ruderi è però necessario che
sia individuabile in modo sufficientemente
preciso l’immagine originaria del
fabbricato.
Questo avviene normalmente
quando sia possibile dedurre dalle strutture
presenti il disegno complessivo
dell’edificio, oppure quando, pur in assenza
di strutture ancora integre, siano
disponibili le planimetrie o le descrizioni
dei luoghi inserite negli atti di
accatastamento.
Le due fonti (referto di
sopralluogo, scheda di accatastamento)
possono anche combinarsi, fornendo ciascuna
una parte delle informazioni su quanto
edificato. In caso di contrasto, è
applicabile per analogia la regola ex art.
950 c.c. sul carattere sussidiario, e dunque
recessivo, dei dati catastali;
(e) prevalgono quindi le misurazioni
effettuate sul posto, avendo cura di non
includere le superfetazioni estranee alla
struttura o alla funzione originaria del
fabbricato, conseguenza verosimile di
manipolazioni recenti non autorizzate. Una
volta stabilito che nei dati catastali vi
sono degli errori, è necessario procedere
alla regolarizzazione della relativa scheda.
Da questo deriva poi l’ulteriore obbligo di
ricalcolare le imposte con base catastale,
entro i termini della prescrizione
dell’obbligo tributario;
(f) se un fabbricato può essere considerato
esistente in esito al procedimento sopra
descritto, si pone il problema delle
modalità di ricostruzione e del cambio di
destinazione d’uso;
(g) su questi aspetti si riespande la
discrezionalità dell’amministrazione. Vi è
però un limite implicito, che impone di non
sacrificare il contenuto del diritto di
proprietà senza aver individuato chiaramente
un interesse pubblico prevalente.
Per quanto
riguarda i fabbricati agricoli ormai
inutilizzati che si trovano in ambito
extraurbano, il divieto di ricostruzione
sarebbe quindi ragionevole solo se fosse
necessario ripristinare valori paesistici e
ambientali compromessi.
Al di fuori di tale
ipotesi, la transizione dei fabbricati
agricoli verso la destinazione d’uso
residenziale si deve ritenere un risultato
naturale, quando sia trascorso un ampio
intervallo di tempo dalla cessazione
dell’attività agricola;
(h) in proposito, il Comune ha già
individuato dei requisiti minimi,
finalizzati evidentemente a rallentare
l’antropizzazione delle zone agricole (v.
nota del responsabile dell’Area Tecnica del
28.09.2010). Più precisamente,
la
riconversione residenziale è ammessa quando
sussistano le seguenti condizioni:
(1)
l’anteriorità del fabbricato rispetto
all’entrata in vigore della LR 07.06.1980
n. 93 (Norme in materia di edificazione
nelle zone agricole);
(2) la cessazione
dell’azienda agricola da almeno 10 anni.
Questi requisiti non sono espressamente
contestati nel ricorso, e risultano comunque
ragionevoli come disciplina residuale,
applicabile indipendentemente da una
codificazione nel PGT.
Al contrario, la
riconversione residenziale degli edifici
agricoli costruiti beneficiando delle
disposizioni di favore per gli imprenditori
agricoli dovrebbe essere espressamente
regolata nello strumento urbanistico, per
evitare di incentivare atteggiamenti
opportunistici;
(i) quando sia possibile riconvertire
all’uso residenziale un fabbricato agricolo
è normalmente necessario un permesso di
costruire convenzionato, in quanto i
proprietari devono assumere obblighi
particolari sia sulle modalità costruttive
sia sulle spese per le urbanizzazioni e i
sottoservizi.
In effetti, l’attribuzione di
diritti edificatori nelle zone agricole per
finalità svincolate dalla coltivazione del
fondo si deve ritenere eccezionale. I
maggiori costi per la sistemazione
residenziale dell’area rimangono quindi a
carico dei proprietari;
(j) tenendo conto di quanto sopra esposto, e
degli indizi forniti nel ricorso circa
l’esistenza dell’edificio, risulta
illegittima l’omessa rappresentazione
grafica dello stesso nelle tavole del PGT,
quantomeno come rudere. Parimenti risulta
illegittimo il diniego di permesso di
costruire basato sull’affermazione che si
tratterebbe di nuova edificazione. Il
calcolo della superficie e della volumetria
del rudere e l’accertamento dei requisiti
per la ricostruzione con destinazione d’uso
residenziale richiedono invece un ulteriore
coinvolgimento degli uffici comunali.
12. In conclusione, il ricorso deve essere
accolto, con il conseguente annullamento
degli atti impugnati, per i profili sopra
descritti.
13. L’effetto conformativo della pronuncia
vincola il Comune a correggere le tavole del
PGT, in occasione della prossima variante, e
a riprendere l’esame dell’istanza di
rilascio del permesso di costruire. Il
riesame si articolerà in tre passaggi,
ciascuno dei quali è condizione per
procedere al successivo:
(a) accertamento
della reale consistenza del rudere, mediante
rilievi e misurazioni sul posto, alla
presenza dei funzionari comunali, integrando
i dati mancanti con la scheda catastale,
come sopra precisato;
(b) verifica dei
requisiti sopra descritti per la
riconversione residenziale;
(c) elaborazione
di un atto unilaterale d’obbligo che renda
compatibile l’intervento edilizio con
l’attuale zonizzazione dell’area.
14. Per il completamento del riesame con
l’adozione di un provvedimento espresso è
fissato il termine di sei mesi dal deposito
della presente sentenza. |
EDILIZIA PRIVATA: Requisito
della mera vicinitas in caso di impugnazione
di titoli edilizi.
La sussistenza del
requisito della mera vicinitas -in caso di
impugnazione di titoli edilizi- non
costituisce elemento sufficiente a
comprovare la legittimazione a ricorrere e
l'interesse al ricorso, occorrendo invece la
positiva dimostrazione di un danno che
attingerebbe la posizione di colui il quale
insorge giudizialmente
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 05.12.2018 n. 2742 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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SENTENZA
8.1. Diversamente da quanto mostra di
ritenere parte ricorrente, il solo criterio
dello stabile collegamento territoriale con
l’area nella quale è destinato ad essere
realizzato l’intervento edilizio contestato
non può essere considerato, di per sé, dato
sufficiente a dimostrare l’esistenza di un
concreto pregiudizio a carico di chi invoca
l’annullamento del titolo abilitativo; ciò,
quanto meno in tutti i casi in cui “la
modifica del preesistente assetto edilizio”
non si dimostri “ictu oculi, ovvero sulla
scorta di sicure basi statistiche tratte
dall'esperienza, pregiudizievole per la
qualità (urbanistica, paesaggistica,
ambientale) dell'area in cui insiste la
proprietà della ricorrente, ovvero sia
suscettibile di comportarne un deprezzamento
commerciale” (così, TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
04.05.2015, n. 1081).
Ed
infatti, se tali condizioni non si
verificano, spetterà a chi agisce in
giudizio fornire la dimostrazione dei danni
(o delle potenziali lesioni) ricollegabili
all'avversata struttura, in quanto, se si
volesse aderire a una diversa impostazione e
ritenere che i proprietari di immobili in
zone confinanti o limitrofe con quelle
interessate da un permesso di costruzione
siano sempre legittimati ad impugnare i
titoli edilizi si giungerebbe ad “elevare un
astratto interesse alla legalità a criterio
di legittimazione, senza che sia necessario
far valere un interesse giuridicamente
protetto, per tale via coniando (senza
autorizzazione legislativa) una sorta di
azione popolare” (ancora, TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081; ma
anche TAR Veneto, Sez. II, 15.02.2018,
n. 324; e, più di recente, TAR Veneto, Sez.
II, 04.09.2018, n. 873; TAR Campania,
Salerno, Sez. I, 18.04.2018, n. 755, per
cui: “Il Collegio ritiene di condividere
l'affermata insufficienza del solo requisito
della vicinitas a radicare un concreto ed
attuale interesse all'impugnazione, pur
senza pervenire alla posizione
diametralmente opposta che richiedendo la
prova di una lesione eccessivamente
caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in
una irragionevole limitazione degli ambiti
di tutela in materia edilizia. Ai fini della
legittimazione ad agire in presenza di abusi
incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore
la dimostrazione del duplice requisito dello
stabile collegamento con il luogo
dell'intervento che si afferma abusivo e la
allegazione di una lesione che non potrà
essere riconosciuta come sussistente solo in
ragione del carattere abusivo dell'opera
realizzata ma che dovrà essere allegata (e
comprovata) anche se come solo eventuale o
potenziale ma sulla base di puntuali
allegazioni”).
Ne consegue che, “…la sussistenza del
requisito della mera vicinitas -in caso di
impugnazione di titoli edilizi- non
costituisce elemento sufficiente a
comprovare la legittimazione a ricorrere e
l'interesse al ricorso, occorrendo invece la
positiva dimostrazione di un danno che
attingerebbe la posizione di colui il quale
insorge giudizialmente” (così, Consiglio di
Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908,
che poi aggiunge: “…il sistema così
disegnato è armonico rispetto alla
disciplina disegnata anche dal codice civile
e dalle leggi speciali succedutesi: a ben
guardare, il vicino vede protetta la propria
sfera giuridica attraverso la inderogabile
disciplina dettata in materia di distanze;
ma laddove ipotizzi in suo danno un
pregiudizio discendente da altre violazioni
ha il dovere di dedurlo e provarlo”). |
EDILIZIA PRIVATA: La decorrenza del termine per ricorrere in
sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell'edificazione si ha, per i
soggetti diversi da quelli a favore dei
quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui
si renda palese ed oggettivamente
apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto: ciò si verifica quando sia
percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica.
Nel caso in
questione, in cui la ricorrente lamenta la
limitazione dell’accesso al cortile di
proprietà comune, tale lesione non può che
derivare dall’inizio dei lavori.
A ciò si aggiunge, in ogni caso, che la
piena conoscenza del provvedimento impugnato
è legata alla cognizione dei suoi elementi
essenziali.
Ne discende, quindi, che la
piena conoscenza dell'atto censurato si
concretizza con la cognizione degli elementi
essenziali quali l'autorità emanante,
l'oggetto, il contenuto dispositivo ed il
suo effetto lesivo, essendo tali elementi
sufficienti a rendere il legittimato
all'impugnativa consapevole dell'incidenza
dell'atto nella sua sfera giuridica, avendo
egli la concreta possibilità di rendersi
conto della lesività del provvedimento,
senza che sia necessaria la compiuta
conoscenza della motivazione e degli atti
del procedimento, che può rilevare solo ai
fini della proposizione dei motivi aggiunti.
---------------
E' inammissibile l'impugnazione di una SCIA
in contrasto con quanto previsto dall’art.
19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990,
secondo il quale la segnalazione certificata
di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili.
---------------
1.2 Il ricorso contro i titoli edilizi è
invece irricevibile per tardività.
I titoli edilizi impugnati risalgono al 2011
mentre il ricorso è stato depositato nel
2014. La ricorrente ha proposto anche un
giudizio possessorio affermando che almeno
da giugno 2013 era a conoscenza
dell’ostruzione del passaggio derivante dai
lavori. La ricorrente e la controinteressata
hanno raggiunto un accordo avente ad oggetto
la rimozione delle transenne di cantiere ed
il transito, anche carraio, sul mappale 490.
In merito la giurisprudenza ha chiarito che
la decorrenza del termine per ricorrere in
sede giurisdizionale avverso atti
abilitativi dell'edificazione si ha, per i
soggetti diversi da quelli a favore dei
quali l'atto è rilasciato, dalla data in cui
si renda palese ed oggettivamente
apprezzabile la lesione del bene della vita
protetto: ciò si verifica quando sia
percepibile dal controinteressato la
concreta entità del manufatto e la sua
incidenza effettiva sulla propria posizione
giuridica (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
18/2011; TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 02.09.2011 n. 2149). Nel caso in
questione, in cui la ricorrente lamenta la
limitazione dell’accesso al cortile di
proprietà comune, tale lesione non può che
derivare dall’inizio dei lavori.
A ciò si aggiunge, in ogni caso, che la
piena conoscenza del provvedimento impugnato
è legata alla cognizione dei suoi elementi
essenziali. Ne discende, quindi, che la
piena conoscenza dell'atto censurato si
concretizza con la cognizione degli elementi
essenziali quali l'autorità emanante,
l'oggetto, il contenuto dispositivo ed il
suo effetto lesivo, essendo tali elementi
sufficienti a rendere il legittimato
all'impugnativa consapevole dell'incidenza
dell'atto nella sua sfera giuridica, avendo
egli la concreta possibilità di rendersi
conto della lesività del provvedimento,
senza che sia necessaria la compiuta
conoscenza della motivazione e degli atti
del procedimento, che può rilevare solo ai
fini della proposizione dei motivi aggiunti
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 19.05.2011 n.
845).
Nel caso in questione l’instaurazione di un
giudizio possessorio in merito all’accesso
al cortile non poteva prescindere
dall’accertamento dell’esistenza di un
titolo edilizio che solo poteva legittimare
l’inizio di lavori edilizi, con conseguente
limitazione del possesso altrui. Ne consegue
che almeno dal momento in cui la ricorrente
ha instaurato tale giudizio deve ritenersi
che fosse a conoscenza dell’esistenza di un
titolo edilizio che legittimava i
controinteressati ad eseguire le opere.
L’impugnazione dei titoli edilizi va dunque
dichiarata irricevibile per tardività.
2. Il ricorso per motivi aggiunti è
inammissibile.
Infatti con tale atto la ricorrente ha
impugnato direttamente una segnalazione
certificata di inizio attività in contrasto
con quanto previsto dall’art. 19, comma
6-ter, della legge n. 241 del 1990, secondo
il quale la segnalazione certificata di
inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non
costituiscono provvedimenti taciti
direttamente impugnabili.
In definitiva quindi il ricorso principale
va dichiarato in parte inammissibile ed in
parte tardivo. Il ricorso per motivi
aggiunti va dichiarato inammissibile
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.12.2018 n. 2738
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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Niente reintegra se il mancato superamento del periodo di prova è
stato dichiarato dall’organo incompetente.
In mancanza di una definizione di dettaglio nel regolamento degli uffici
circa l'organo competente a dichiarare il mancato superamento del periodo di
prova del dipendente pubblico, non è ammissibile che sia l'organo esecutivo
ad adottare quel provvedimento, in considerazione della distinzione tra
attività di indirizzo politico e gestionale. Tuttavia, l'eventuale
accertamento giudiziale della dichiarazione di incompetenza, a differenza
del licenziamento, non consente al dipendente pubblico estromesso di poter
essere reintegrato, in assenza di finalità discriminatorie o illecite.
Questo il preciso indirizzo della Corte di Cassazione, Sez. lavoro, contenuto nella
sentenza 30.11.2018 n. 31091.
La vicenda
Al dipendente di un ente locale veniva comunicato dalla giunta comunale il
mancato superamento del periodo di prova con relativa interruzione del
rapporto di lavoro. Il Tribunale di primo grado e, successivamente, la Corte
d’appello hanno rigettato il ricorso del dipendente teso a evidenziare
l’illegittimità del provvedimento espulsivo emesso da organo incompetente,
dato il divieto degli organi di indirizzo politico di emettere atti
gestionali di esclusiva competenza dirigenziale.
A supporto della loro
decisione, i giudici aditi hanno evidenziato come, in assenza di
disposizioni regolamentari, o di altra fonte, che individui a priori il
dirigente competente a risolvere il rapporto di lavoro del dipendente, il
Comune non poteva affidare ad altri dirigenti l'adozione dell'atto
risolutivo del rapporto ostando il principio secondo cui l'assenza del
soggetto competente all'adozione di un atto non ne legittima l'emanazione da
parte di un diverso componente dell'amministrazione (tra le tante
Cassazione, sentenze nn. 20981/2009 e 2168/2004).
Nel merito la Corte
d’appello ha proceduto, con esito positivo, alla verifica della conformità
delle funzioni assegnate e delle motivazioni conseguenti all'esito
sfavorevole dell'esperimento lavorativo.
Le precisazioni della Cassazione
A differenza di quanto detto dalla Corte d’appello, il principio di
separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo -spettanti
agli organi di governo- e funzioni di gestione amministrativa -proprie dei
dirigenti- trova fondamento nella Costituzione, tanto che è stato
precisato, in diverse occasioni, l'illegittimità delle attività di gestione
eventualmente intestate agli organi politici.
Vero è che spetta al
legislatore l'individuazione dell'esatta linea di demarcazione tra gli atti
da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di competenza
della dirigenza amministrativa, ma è altrettanto vero che il legislatore non
può compiere scelte che, contrastando in modo irragionevole con il principio
di separazione tra politica e amministrazione, ledano l'imparzialità della
pubblica amministrazione (Corte costituzionale n. 81 del 2013).
Nel caso di specie la Corte d’appello ha errato nell'attribuire la
competenza alla giunta comunale, pur in assenza di specifiche disposizioni
all'interno del regolamento degli uffici e dei servizi, dimenticando come il
punto fondamentale di raccordo sia la figura del segretario comunale.
Quest'ultimo,
oltre a svolgere compiti di collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente, in ordine
alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto e ai
regolamenti (articolo 97, comma 2), sovrintende anche allo svolgimento delle
funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività.
Il ricorso del dipendente, pertanto, deve essere accolto in quanto l'atto,
con il quale la giunta municipale ha inteso risolvere il rapporto di lavoro,
è inefficace perché adottato da un organo di governo del Comune privo, in
quanto tale, dei poteri di gestione del rapporto stesso. Tuttavia, a
differenza del licenziamento, l'inefficacia dell'atto di recesso adottato da
organo incompetente non permette la ricostituzione del rapporto, ovvero la
sua conversione o trasformazione in rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 06.12.2018).
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MASSIMA
15. Reputa il Collegio che premessa dell'esame delle censure sia la
ricostruzione
critica del complesso quadro normativo nel quale si colloca la controversia
in esame.
16. Il principio di separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo,
spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione amministrativa,
proprie dei
dirigenti, trova fondamento nella Costituzione (artt. 95, c. 2, Cost., art. 97,
commi 2 e
3, art. 98, c. 1).
17. Con riguardo alla dirigenza amministrativa, la Corte Costituzionale ha
affermato
più volte che una "netta e chiara separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo
e funzioni gestorie (Corte Cost. n. 161 del 2008) costituisce una
condizione necessaria per garantire il rispetto dei principi di buon
andamento e di
imparzialità dell'azione amministrativa" (Corte Cost. n. 304 del 2010, n.
390 del 2008,
n. 104 e n. 103 del 2007, n. 81 del 2013).
18. La Corte Costituzionale ha osservato che al principio di imparzialità
sancito
dall'art. 97 Cost. si accompagna, come naturale corollario, la separazione
tra politica e
amministrazione, tra "l'azione del governo -che, nelle democrazie
parlamentari, è
normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle
forze di maggioranza- e l'azione dell' amministrazione - che,
nell'attuazione dell'indirizzo
politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di
parti
politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate
dall'ordinamento" (Corte Cost. n. 453 del 1990).
19. Essa, inoltre, ha precisato che l'individuazione dell'esatta linea di
demarcazione
tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell'organo politico e quelli di
competenza della
dirigenza amministrativa spetta al legislatore e che tale "potere incontra
un limite
nello stesso art. 97 Cost.: nell'identificare gli atti di indirizzo politico
amministrativo e
quelli a carattere gestionale, il legislatore non può compiere scelte che,
contrastando
in modo irragionevole con il principio di separazione tra politica e
amministrazione,
ledano l'imparzialità della pubblica amministrazione" (Corte Cost. n. 81 del
2013).
20. I principi affermati dalla Costituzione sono stati recepiti nel d.lgs. 03.02.1993 n. 29 (Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni
pubbliche e
revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), come
successivamente
modificato dal d.lgs. 23.12.1993 n. 546 e dal d.lgs. 31.03.1998 n.
80, e nel
D.lgs. 30.03.2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro
alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche), a sua volta oggetto di ripetuti
interventi
riformatori.
21. Entrambi i decreti legislativi hanno delineato gli aspetti
caratterizzanti della
nuova dirigenza pubblica muovendo proprio dal principio di separazione tra
indirizzo
politico e gestione amministrativa e affidando ai dirigenti un'autonoma
legittimazione
e una diretta responsabilità per la gestione.
In particolare, il d.lgs. 30.03.2001 n. 165 (che ha raccolto le
disposizioni
contenute nel d.lgs. 03.02.1993, n. 29) ha separato le funzioni e le
competenze
degli organi politici e degli organi amministrativi.
22. Esso, nel testo applicabile "ratione temporis" (il licenziamento dedotto
in
giudizio è stato adottato il 27.07.2007), dispone (art. 4, c. 1) che "Gli
organi di
governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo"
(definizione degli
obiettivi e dei programmi da attuare, adozione di altri atti rientranti
nello svolgimento
di tali funzioni, verifica della rispondenza dei risultati dell'attività
amministrativa e
della gestione agli indirizzi impartiti).
23. I compiti ed i poteri dei dirigenti sono individuati nell'art. 4, c. 2,
che attribuisce
loro "l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti
gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione
finanziaria, tecnica e
amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle
risorse
umane, strumentali e di controllo" e, correlativamente, la responsabilità
esclusiva
dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
24. L'art. 4 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce, inoltre, che queste
attribuzioni
possono "essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche
disposizioni
legislative" (c. 3).
25. Gli artt. 6 (Organizzazione e disciplina degli uffici e dotazioni
organiche), 16
(Funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali) e 17 (Funzioni dei
dirigenti)
integrano le disposizioni innanzi richiamate e, ad un tempo, rafforzano il
collegamento
tra organi politici e dirigenti, ferma la garanzia prevista dall'art. 22
(Comitato dei
garanti) con riguardo alla responsabilità dirigenziale.
26. Infine, l'art. 27 (Criteri di adeguamento per le pubbliche
amministrazioni non
statali), completa la regola della applicabilità in via generale dei
principi contenuti
nello stesso decreto a tutte le pubbliche Amministrazioni (art. 1)
stabilendo in modo
espresso che "Le regioni a statuto ordinario, nell'esercizio della propria
potestà
statutaria, legislativa e regolamentare, e le altre pubbliche
amministrazioni,
nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguano ai
principi
dell'articolo 4 e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto
delle relative
peculiarità. Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in
deroga alle
speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi
regolamenti di
organizzazione".
27. Analoghi principi e regole si rinvengono nel d.lgs. 18.08.2000 n.
267 (Testo
unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali).
28. Esso, dopo avere individuato nel Consiglio, nella Giunta e nel Sindaco
gli "organi
di governo del Comune" (art. 36. 1) e stabilito che il Consiglio Comunale è
"l'organo dì
indirizzo e di controllo politico-amministrativo" (art. 42, c. 1), riconosce
nella Giunta
Comunale l'organo che "collabora con il sindaco o con il presidente della
provincia",
nel governo del comune o della provincia (art. 48, c. 1), precisando che essa
compie
"tutti gli atti rientranti ai sensi dell'articolo 107, commi 1 e 2, nelle
funzioni degli
organi di governo, che non siano riservati dalla legge al consiglio e che
non ricadano
nelle competenze, previste dalle leggi o dallo statuto, del sindaco o del
presidente
della provincia o degli organi di decentramento; collabora con il sindaco o
con il presidente della provincia nell'attuazione degli indirizzi generali
del consiglio; riferisce
annualmente al consiglio sulla propria attività e svolge attività
propositive e di impulso
nei confronti dello stesso" e adotta i "regolamenti sull'ordinamento degli
uffici e dei
servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio" (art. 48,
c. 3).
29. Il riferimento espresso alle disposizioni contenute nei commi 1 e 2
dell'art. 107,
disposizione che attua nell'ambito degli enti locali il principio di
separazione tra
funzioni di indirizzo politico amministrativo e funzioni di gestione
amministrativa e
negoziale propria dei dirigenti, consente di individuare agevolmente la
linea di riparto
delle competenze tra Giunta Comunale e dirigenti, per quanto attiene alle
funzioni
"latu sensu" esecutive dell'indirizzo politico. Va, infatti, considerato che
mentre la
Giunta è un organo di governo dell'Ente locale e svolge una funzione di
attuazione
politica delle scelte fondamentali operate dal Consiglio, ai dirigenti
compete
l'assunzione di tutti i provvedimenti amministrativi o degli atti di diritto
privato,
necessari per conseguire gli obiettivi stabiliti dagli organi di indirizzo (Cons. Stato n. 81 del 2013).
30. Va al riguardo osservato che l'art. 107, dopo avere disposto (c. 1)
che "Spetta
ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le
norme dettati
dagli statuti e dai regolamenti", impone a questi ultimi di conformarsi al
"principio per
cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano
agli organi di
governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è
attribuita ai
dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse
umane,
strumentali e di controllo", precisa (c. 2) che ai dirigenti spettano "tutti
i compiti,
compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo
degli organi di
governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore
generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108".
31. Lo stesso art. 107, c. 3, lett. e), ricomprende tra i compiti riservati ai
dirigenti
quelli relativi agli "atti di amministrazione e di gestione del personale",
compiti questi
ultimi ai quali fa riferimento anche l'art. 89, c. 6, che prevede, con formula
sostanzialmente sovrapponibile a quella contenuta nell'art. 5, c. 2, del D.Lgs. n. 165
del 2001, che "Nell'ambito delle leggi, nonché dei regolamenti di cui al
comma 1, le
determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla
gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dai soggetti preposti alla
gestione con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro".
32. Il quadro normativo di fonte legale innanzi ricostruito attesta in modo
inequivoco che gli atti di gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti
del Comune
sono riservati alla esclusiva competenza del personale che riveste la
qualifica
dirigenziale, le cui attribuzioni, ai sensi dell'art. 107, c. 4, del D.Lgs. n.
297 del 2000,
possono essere derogate soltanto espressamente e "ad opera di specifiche
disposizioni
legislative". In parte qua la disposizione è sovrapponibile a quella che si
legge nell'art.
4, c. 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 (a sua volta riproduttiva della
disposizione contenuta
nell'art. 3, c. 3, del d.lgs. 03.02.1993 n. 29, come modificato dal d.lgs. 29.10.1998 n. 387).
33. Nell'art. 48, c. 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000 non è rinvenibile alcuna
deroga alla
sfera di competenza dei dirigenti degli enti locali, diversamente da quanto
opina il
controricorrente (controricorso pg. 13) in quanto i poteri della Giunta
Comunale sono
ritagliati dall'art. 107 del D.lgs. n. 267 del 2000 nell'ambito della
regola
fondamentale della separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo,
spettanti agli organi di governo e funzioni di gestione amministrativa,
proprie dei
dirigenti (cfr. punti 28 e 29 di questa sentenza).
34. E' innegabile che la distinzione fra attività di indirizzo politico e
gestione
tecnico-amministrativa non implica che esse, seppure distinte, non debbano
in nessun
caso comunicare fra loro, perché, al contrario, deve sussistere uno stretto
coordinamento tra le funzioni di indirizzo e quelle di gestione, giacché quest'ultime
vanno svolte conformemente agli obiettivi fissati dagli organi politici
(Cass.
22396/2018). E', però, altrettanto certo che il principio inderogabile di
separazione tra
poteri di indirizzo politico e poteri di gestione tecnico-amministrativa
esclude
incursioni ed invasioni di campo degli organi di governo degli Enti
nell'ambito della
competenza che la legge attribuisce ai dirigenti.
35. Va anche osservato che il d.lgs. n. 267 del 2000 contiene numerose
disposizioni che garantiscono all'apparato burocratico amministrativo di
operare nel
rispetto dei principi di imparzialità efficienza e legalità e nell'ambito
del principio di
separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo rispetto
alle funzioni di
gestione amministrativa.
36. Se è significativa, al riguardo, l'attribuzione alla Giunta del potere
di adottare i
regolamenti "sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei
criteri generali
stabiliti dal consiglio" (art. 48, c. 3), non meno importante è la presenza
presso i
comuni della figura del "segretario titolare" prevista dall'art. 97, c. 1, del D.Lgs. n. 297
del 2000, il quale, oltre a svolgere compiti "di collaborazione e funzioni
di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente in ordine alla
conformità
dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti" (art. 97
c. 2),
sovrintende anche allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne
coordina l'attività,
salvo i casi in cui, ai sensi e per gli effetti del comma 1 dell'articolo
108, il sindaco e il
presidente della provincia abbiano nominato il direttore generale (art. 97,
c. 3).
37. Inoltre, l'art. 108, c. 4, demanda al Segretario comunale, nei casi in cui
il
direttore generale non sia stato nominato, i compiti che l'art. 108, c. 1,
attribuisce al
direttore generale (attua gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli
organi di governo
dell'ente, secondo le direttive impartite dal sindaco o dal presidente della
provincia,
sovrintende alla gestione dell'ente, perseguendo livelli ottimali di
efficacia ed
efficienza.... A tali fini, al direttore generale rispondono, nell'esercizio
delle funzioni
loro assegnate, i dirigenti dell'ente, ad eccezione del segretario del
comune e della
provincia).
38. Nel complesso e articolato sistema delineato dal d.lgs. n. 267 del 2000,
nei
termini innanzi ricostruiti, l'inerzia degli organi di governo che si
compendi nella
mancata adozione di norme statutarie e regolamentari (artt. 6, 7, 48 c. 3) e
nel
mancato esercizio di funzioni di indirizzo politico-amministrativo (artt.
42, c. 1, 48, c.
2, 50, commi 1 e 10) in ordine alle linee fondamentali di organizzazione
degli uffici
volte ad evitare vuoti di potere gestorio-amministrativo, non vale affatto a
giustificare
e a legittimare interferenze da parte di organi politici nell'ambito delle
competenze
proprie della dirigenza amministrativa in aperta violazione del più volte
richiamato
principio inderogabile di separazione di cui al più volte richiamato art.
107 del d.lgs.n.
267 del 2000.
Sulla scorta delle considerazioni svolte deve in conclusione ritenersi che:
39. il principio di separazione tra funzioni di indirizzo
politico-amministrativo,
spettanti agli organi di governo e funzioni di gestione amministrativa,
proprie dei
dirigenti, che trova fondamento nella Costituzione (artt. 95, c. 2, Cost.,
art. 97, commi 2
e 3, art. 98, c. 1), è stato recepito dall'art. 107 del d.lgs. n. 267 del
2000;
40. ai sensi dell'art. 107, c. 1, del d.lgs. n. 267 i regolamenti dei comuni e
delle
province devono uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo
politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione
amministrativa, finanziaria e tecnica deve essere attribuita ai dirigenti
mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali
e di
controllo;
41. ai sensi dell'art. 48 del d.lgs. n. 267 del 2000, la Giunta Comunale,
che è
organo di governo del Comune ai sensi dell'art. 36 c. 1 del d.lgs. n. 267
del 2000,
compie gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo, che non
siano
riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze,
previste dalle
leggi o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia o degli
organi di
decentramento e adotta i regolamenti sull'ordinamento degli uffici e dei
servizi, nel
rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio;
42. ai sensi dell'art. 107 commi 1 e 2 ai dirigenti spetta la direzione
degli uffici e dei
servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti
e tutti i
compiti, compresa l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi che
impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, non ricompresi espressamente dalla legge
o dallo
statuto tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo
degli organi di
governo dell'ente o non rientranti tra le funzioni del segretario o del
direttore
generale, di cui rispettivamente agli articoli 97 e 108;
43. ai sensi dell'art. 107, c. 3, lett. e) e dell'art. 89, c. 6, del d.lgs. n.
267 del 2000 tra
i compiti riservati in via esclusiva ai dirigenti sono ricompresi quelli
relativi agli "atti di
amministrazione e di gestione del personale", questi ultimi adottati con la
capacità e i
poteri del privato datore di lavoro;
44. nel complesso e articolato sistema delineato dal d.lgs. n. 267 del 2000
l'inerzia
della Amministrazione, che si compendi nella mancata adozione delle norme
statutarie
e regolamentari previste dagli artt. 6, 7, 48, c. 3, e nel mancato esercizio
di funzioni di
indirizzo politico-amministrativo in ordine alle linee fondamentali di
organizzazione
degli uffici (artt. 42, c. 1, 48, c. 2, 50, c. 1) volte ad evitare vuoti di
potere gestorio-amministrativo,
non giustifica e non legittima interferenze da parte di organi politici
nell'ambito delle competenze proprie della dirigenza amministrativa in
violazione del
principio inderogabile affermato nell'art. 107 del d.lgs. n. 267 del 2000;
45. ai sensi delle disposizioni contenute negli artt. 48, 107 e 89 del
d.lgs. n. 267 del
2000 gli atti di gestione dei rapporti di lavoro adottati dalla Giunta
Comunale sono
inefficaci in quanto adottati da organo estraneo all'apparato burocratico
amministrativo del Comune e per questo del tutto privo di poteri di gestione
dei
rapporti di lavoro che fanno capo al Comune.
46. In conclusione, sulla scorta delle considerazioni svolte vanno accolti
il primo, il secondo, il terzo ed il quinto motivo di ricorso dovendo ritenersi che
l'atto con il quale
la Giunta Municipale ha inteso risolvere il rapporto di lavoro della
Si. è
inefficace perché adottato da un organo di governo del Comune privo, in
quanto tale,
dei poteri di gestione del rapporto stesso.
47. Dall'accoglimento del primo, del secondo, del terzo e del
quinto motivo
di
ricorso consegue l'assorbimento del quarto motivo, con il quale la
ricorrente addebita
alla sentenza impugnata di non avere tenuto conto dell'esistenza delle
specifiche
figure professionali da essa indicate che avrebbero potuto adottare gli atti
di gestione
relativi al suo rapporto di lavoro.
48. La sentenza impugnata va cassata in ordine ai motivi accolti in quanto
la Corte
territoriale, pur ritenendo correttamente che, ai sensi dell'art. 5, c. 2, del D.Lgs. n. 165
del 2001 e dell'art. 107, c. 3, del D.Lgs n. 267 del 2000, il potere di
risoluzione del
rapporto di lavoro è radicato in capo alla figura dirigenziale, in
difformità rispetto ai
principi di cui ai punti dal n. 39 al n. 45 di questa sentenza, ha
attribuito rilevanza
alla circostanza che né nel Regolamento né altrove era rinvenibile alcuna
disposizione
che individuasse il dirigente competente a risolvere il rapporto di lavoro
della
Si..
49. La Corte territoriale, inoltre, nel richiamare il principio affermato da
questa
Corte, nelle sentenze n. 20981 del 2009 e n. 2168 del 2004, secondo il quale
il
procedimento instaurato da soggetto od organo diverso dall'ufficio
competente per i
procedimenti disciplinari è illegittimo, con conseguente nullità della
sanzione irrogata
in violazione delle regole inderogabili sulla competenza, non ha tenuto
conto del fatto
che tale principio non esclude affatto la possibilità che altre figure
professionali proprie
dell'apparato burocratico amministrativo ed estranee agli organi di governo
del
Comune possano intervenire nella gestione del rapporto di lavoro instaurato
con la
Si. e adottare il provvedimento risolutivo.
50. Occorre precisare che l'inefficacia del provvedimento risolutorio
adottato dalla
Giunta Municipale non comporta la conversione del rapporto dedotto in
giudizio da
rapporto di lavoro in prova in rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato.
51. Al riguardo va osservato che, non essendo in discussione nella
fattispecie in
esame la validità della clausola appositiva del patto di prova e non potendo
omologarsi
la disciplina del recesso per mancato superamento della prova alla
giustificazione del
licenziamento per giusta causa o giustificato motivo (Cass. 26679/2018,
23061/2017,
143/2008), deve escludersi che alla inefficacia dell'atto di recesso
adottato da organo
incompetente consegua la ricostituzione del rapporto, ovvero la sua
conversione-trasformazione
in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
52. Va al riguardo richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale
di
questa Corte secondo cui l'art. 2096 c.c. ed i principi elaborati dalla
giurisprudenza
sulla base di detta norma, non sono, infatti, applicabili allo "speciale"
rapporto di
pubblico impiego alle dipendenze di pubbliche amministrazioni, risultando
l'istituto
della prova regolato da diverse, specifiche norme secondo la salvezza
formulata dal
d.lgs. n. 165 del 2001, art. 2, rapporto in relazione al quale, per effetto
del rinvio
contenuto nell'art. 70, comma 13, del d.lgs. n. 165/2001, la disciplina
dell'assunzione
in prova è dettata dall'art. 28 del d.P.R. n. 487/1994 e dalla
contrattazione collettiva
(Corte costituzionale sentenze nn. 313/1996, 309/1997, 89/2003, 199/2003; Cass. nn.
26679/2018, 22396/2018, 21376/2018, 9296/2017, 17970/2010, 17970/2010, che
nella specie è intervenuta a disciplinare la materia con l'art. 15 del CCNL
10.04.1996
per la dirigenza degli enti locali).
53. L'obbligo di motivare il recesso, imposto dalle parti collettive alle
amministrazioni, non esclude né attenua la discrezionalità dell'ente nella
valutazione
dell'esperimento, non incide sulla ripartizione degli oneri probatori, né
porta ad
omologare il recesso per mancato superamento della prova al licenziamento
per giusta
causa o giustificato motivo, essendo finalizzato solo a consentire la
«verificabilità
giudiziale della coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato,
alla finalità della
prova e, dall'altro, all'effettivo andamento della prova stessa», fermo
restando che
grava sul lavoratore l'onere di dimostrare il perseguimento di finalità
discriminatorie o
altrimenti illecite o la contraddizione tra recesso e funzione
dell'esperimento
medesimo (Cass. nn. 26679/2018, 23061/2017, 21586/2008, 19558/2006). Finalità
queste escluse dalla sentenza impugnata e non oggetto di censure sul punto.
54. In conclusione, la sentenza impugnata va cassata in ordine ai motivi
accolti e la
causa va rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione
che dovrà
fare applicazione dei principi di diritto richiamati nei punti dal n. 39 al
n. 45 e nei punti
dal n. 50 al n. 53 di questa sentenza. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può
essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività
edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a
realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di
controllo preventivo più limitate per la loro più modesta
incisività sull'assetto territoriale. L'opera deve essere
infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza
che sia consentito scindere e apprezzare separatamente i
suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di
interventi su preesistente opera abusiva.
Si è inoltre specificato che l'unitarietà dell'intervento
edilizio è tale quando
riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi
diversi, le quali, pur non
essendo parte integrante o costitutiva di un altro
fabbricato, costituiscano, di fatto,
un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente
contribuisce a
realizzarne la destinazione.
---------------
2. Alcuni motivi di ricorso riguardano le medesime questioni e
potranno, pertanto, essere trattati unitariamente.
Sulla natura dell'intervento e l'esistenza del vincolo
paesaggistico (primo
motivo di ricorso del RI.) va premesso che, come
chiaramente emerge dalla mera lettura dell'imputazione, l'intervento edilizio
realizzato deve essere
unitariamente considerato.
Giova ricordare, a tale proposito, che, come è stato
ripetutamente affermato da
questa Corte, il regime dei titoli abilitativi edilizi non
può essere eluso attraverso la
suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole
opere che concorrono a
realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di
controllo preventivo più limitate per
la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti
considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia
consentito scindere e
apprezzare separatamente i suoi singoli componenti e ciò
ancor più nel caso di
interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147
del 19/04/2017, Tomasulo,
Rv. 270256; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc.
Casciato, Rv. 263473; Sez. 3,
n. 1 5442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri, Rv.
263339; Sez. 3, n. 5618 del
17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585
del 22/04/2010, Tulipani,
non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv.
247175; Sez. 3, n.
4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365).
Si è inoltre specificato che l'unitarietà dell'intervento
edilizio è tale quando
riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi
diversi, le quali, pur non
essendo parte integrante o costitutiva di un altro
fabbricato, costituiscano, di fatto,
un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente
contribuisce a
realizzarne la destinazione (così Sez. 3, n. 23183 del
29/03/2018, Erbaggio, non
ancora massimata) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'edificazione in zona agricola si riferisce ad
interventi in evidente collegamento funzionale con la
destinazione del fondo.
Si osservava, a tale proposito, che, con riferimento ad una
ipotesi di
lottizzazione, si era in precedenza rilevato come la
realizzazione di un intervento
edilizio in zona agricola è finalizzato alla conduzione del
fondo in ragione della sua
destinazione ed è a tale dato essenziale della oggettiva
correlazione tra immobile
realizzato e conduzione del fondo che deve farsi riferimento
e non anche alle
condizioni soggettive di chi richiede il titolo abilitativo.
Si poneva quindi in evidenza che, pur in presenza di una
formale qualifica, ciò
che rileva è la effettiva destinazione del manufatto,
richiamando tuttavia l'attenzione
sul fatto che non si è mai escluso il rilievo assunto, in
tali casi, dal requisito
soggettivo, tanto da affermare che, in tema di reati
edilizi, non è sufficiente il
possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore
agricolo professionale
(ai sensi dell'art. 1, comma quinto-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio
del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i
requisiti soggettivi per il
rilascio di tale permesso devono esistere al momento della
richiesta ed al momento
del rilascio del titolo abilitativo, ritenendo, altresì, che il possesso dei requisiti
soggettivi di imprenditore
agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio
del permesso di costruire
in zona agricola, ma anche al momento della voltura del
titolo abilitativo in favore di
terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle
opere all'agricoltura.
Si è conseguentemente giunti ad affermare il principio
secondo il quale, per
l'edificazione in zona agricola, la destinazione del
manufatto e la posizione
soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono
entrambi rilievo ai fini
della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello
strumento urbanistico e, di
conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità
ai fini del rilascio della sanatoria.
---------------
3. Ciò posto, va rilevato che, come accertato nel giudizio
di merito, le opere
sono state realizzate, in forza di titolo edilizio ormai
decaduto, in zona classificata
come E2 agricola ed hanno, pacificamente, destinazione
residenziale, realizzando,
comunque, una cubatura di 380 mc, superiore a quella
assentibile, pari a mc 153,09.
Determinante risulta, ai fini della liceità dell'intervento
edilizio, la natura e la
destinazione dello stesso.
Pare opportuno ricordare, a tale proposito, quanto già
affermato dalla
giurisprudenza di questa Corte in una decisione richiamata
anche dalla sentenza
impugnata (Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Innamorati e
altri, Rv. 269159) e nella
quale si è esplicitamente affermato che l'edificazione in
zona agricola si riferisce ad
interventi in evidente collegamento funzionale con la
destinazione del fondo.
Si osservava, a tale proposito, che, con riferimento ad una
ipotesi di
lottizzazione, si era in precedenza rilevato come la
realizzazione di un intervento
edilizio in zona agricola è finalizzato alla conduzione del
fondo in ragione della sua
destinazione ed è a tale dato essenziale della oggettiva
correlazione tra immobile
realizzato e conduzione del fondo che deve farsi riferimento
e non anche alle
condizioni soggettive di chi richiede il titolo abilitativo
(Sez. 3, n. 15605 del
31/03/2011, Manco e altri, Rv. 250151).
Si poneva quindi in evidenza che, pur in presenza di una
formale qualifica, ciò
che rileva è la effettiva destinazione del manufatto,
richiamando tuttavia l'attenzione
sul fatto che non si è mai escluso il rilievo assunto, in
tali casi, dal requisito
soggettivo, tanto da affermare che, in tema di reati
edilizi, non è sufficiente il
possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore
agricolo professionale
(ai sensi dell'art. 1, comma quinto-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio
del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i
requisiti soggettivi per il
rilascio di tale permesso devono esistere al momento della
richiesta ed al momento
del rilascio del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 46085 del
29/10/2008, Monetti e altro, Rv.
241770), ritenendo, altresì, che il possesso dei requisiti
soggettivi di imprenditore
agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio
del permesso di costruire
in zona agricola, ma anche al momento della voltura del
titolo abilitativo in favore di
terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle
opere all'agricoltura (Sez. 3, n.
33381 del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri, Rv.
253659).
Si è conseguentemente giunti ad affermare il principio
secondo il quale, per
l'edificazione in zona agricola, la destinazione del
manufatto e la posizione
soggettiva di chi lo realizza sono elementi che assumono
entrambi rilievo ai fini
della rispondenza dell'opera alle prescrizioni dello
strumento urbanistico e, di
conseguenza, anche per l'eventuale valutazione di conformità
ai fini del rilascio della sanatoria.
Si tratta di un principio che il Collegio condivide e che
intende pertanto ribadire.
Nel caso specifico, entrambi i requisiti della destinazione
dell'edificio e della
qualifica soggettiva del proprietario committente
difettavano, avendo i giudici del
merito accertato in fatto che le opere consistevano, in
realtà, nella realizzazione di
una villa con piscina avente inequivoca destinazione
residenziale e che la richiesta
del titolo abilitativo era stata avanzata da soggetto (il
MA.) che aveva
fittiziamente assunto la veste di richiedente al solo fine
di consentire la realizzazione delle opere di cui avrebbe
poi effettivamente beneficiato il RI., il quale non
possedeva la qualifica soggettiva necessaria per conseguire
il permesso di costruire in zona agricola (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto
l'indicazione dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza
temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare
che
una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga
realizzata quando la
situazione fattuale e normativa è mutata, per tale ragione i
lavori devono quindi
essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel
permesso di costruire.
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del
permesso di costruire
che, come indicato dalla lettera della legge, opera di
diritto per il mero decorso del
termine, senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono
illeciti, perché
realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma
terzo dell'articolo 15 d.P.R.
380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della
parte dell'intervento non
ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di
nuovo permesso per le
opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino
tra quelle realizzabili
mediante segnalazione di inizio attività e che si procede,
ove necessario, anche al
ricalcolo del contributo di costruzione.
---------------
4. Va altresì rilevato che, alla luce dei principi appena
ribaditi, risulta del tutto
infondato l'ulteriore assunto, contenuto nel ricorso del
RI. (secondo motivo),
secondo il quale l'assenza delle condizioni soggettive per
l'edificazione in zona
agricola avrebbe, quale unica conseguenza, l'impossibilità
di ottenere l'esonero dai
contributi di costruzione.
Va peraltro ricordato che questa Corte ha anche già
stabilito che, essendo stato
emanato, con delibera della Giunta regionale della Puglia n.
1748 del 15.12.2000, il Piano urbanistico territoriale tematico per il
paesaggio (PUTT/P), si è
verificata, una volta entrato in vigore quest'ultimo, la
clausola risolutiva espressa
della efficacia della legge regionale della Puglia 56/1980
(così, Sez. 3, n. 8635 del
18/9/2014 (dep. 2015), Pmt in proc. Manzo e altri, Rv.
262512) che il ricorrente
richiama ed i cui contenuti, in ogni caso, non conducevano a
conclusioni diverse da
quelle richiamate nelle menzionate pronunce.
Inoltre, come si ricava dall'imputazione, il permesso di
costruire indebitamente
conseguito risultava anche decaduto di validità in
conseguenza della mancata
comunicazione nei termini dell'inizio dei lavori.
Tale evenienza, che non risulta in alcun modo posta in
discussione, assume
comunque rilievo.
Come è noto l'indicazione dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza
temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare
che
una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga
realizzata quando la
situazione fattuale e normativa è mutata, per tale ragione i
lavori devono quindi
essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel
permesso di costruire (cfr. Sez.
3, n. 12316 del 21/02/2007, Minciarelli, Rv. 236336).
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del
permesso di costruire
che, come indicato dalla lettera della legge, opera di
diritto per il mero decorso del
termine, senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono
illeciti, perché
realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma
terzo dell'articolo 15 d.P.R.
380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della
parte dell'intervento non
ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di
nuovo permesso per le
opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino
tra quelle realizzabili
mediante segnalazione di inizio attività e che si procede,
ove necessario, anche al
ricalcolo del contributo di costruzione (v. Sez. 3, n. 43175
del 04/05/2017, Botti, Rv.
271310)
Si tratta, dunque, di un ulteriore dato inequivocabilmente
indicativo del fatto che
l'esecuzione delle opere è avvenuta in difetto di valido
permesso di costruire.
Quanto evidenziato rende altresì evidente l'infondatezza
della tesi, prospettata
in ricorso, secondo la quale si tratterebbe di opere in
parziale difformità, ma una
simile evenienza va comunque esclusa anche in considerazione
della eccedenza di
cubatura riscontrata ed indicata nell'imputazione (380 metri
cubi in luogo dei 153,09
assentibili) che mette chiaramente in luce, pur a voler per
assurdo considerare
valido il permesso di costruire, la totale difformità delle
opere eseguite, dovendosi
intendere per tale, come indicato nell'art. 31 del d.P.R.
380/2001, l'esecuzione di interventi che comportano la
realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso
per caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche o di
utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero
l'esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte
di esso con specifica rilevanza ed autonomamente
utilizzabile (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve escludersi la
possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata,
caratterizzata dal fatto che i
suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di
specifici interventi aventi lo
scopo di far acquisire alle opere il requisito della
conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali
provvedimenti devono
ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001
si riferisce esplicitamente
ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere
sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al
momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del
provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della PA., consistente
nell'applicazione alla fattispecie
concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a
formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di
ordine discrezionale.
---------------
5. Va poi rilevato come la tipologia dell'intervento e
l'evidente contrasto con la
destinazione di zona non ne avrebbero comunque consentito la
sanatoria, la cui
validità viene invece affermata nel secondo motivo di
ricorso del RI. e nel
terzo motivo di ricorso del MA. rilevando,
sostanzialmente, l'ammissibilità
della sanatoria c.d. condizionata.
Invero, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, deve escludersi la
possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata,
caratterizzata dal fatto che i
suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di
specifici interventi aventi lo
scopo di far acquisire alle opere il requisito della
conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali
provvedimenti devono
ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001
si riferisce esplicitamente
ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere
sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al
momento della presentazione
della domanda di sanatoria. Inoltre, il rilascio del
provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della PA., consistente
nell'applicazione alla fattispecie
concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a
formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di
ordine discrezionale (v. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 -
dep. 29/12/2015, Carratu'
e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 7405 del 15/1/2015, Bonarota,
Rv. 262422; Sez. 3, n.
47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973; Sez. 3, n.
19587 del 27/04/2011,
Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009, Peoloso, non massimata;
Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e
altro, Rv. 238020; Sez. 3, n.
48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro, Rv. 226897 ed
altre prec. conf.).
Anche tale principio è pienamente condiviso dal Collegio e
va qui confermato al
fine di assicurarne la continuità.
Le opere abusivamente realizzate, dunque, non sono in ogni
caso suscettibili di sanatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il reato urbanistico ha natura di reato
permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei
lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione
dell'attività edificatoria abusiva.
Si è poi precisato che la cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei
lavori per completamento
dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o
imposta (ad esempio, mediante
sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i
lavori continuano dopo
l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio.
Si è inoltre chiarito che l'ultimazione dei lavori coincide
con la conclusione dei
lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci
e gli infissi.
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio
concretamente funzionale che
possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come
si ricava dal disposto del
primo comma dell'articolo 25 del d.P.R. 380/2001, che fissa
"entro quindici giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il
termine per la presentazione allo sportello unico della
domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere
devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non
potendosi, in base al
concetto unitario di costruzione, considerare separatamente
i singoli componenti.
Tali caratteristiche riguardano,
inoltre, anche le parti che
costituiscono annessi dell'abitazione.
---------------
6. Resta da aggiungere, con riferimento ai motivi di ricorso
fin qui esaminati,
che tanto il RI., quanto il MA. pongono in dubbio
la sussistenza del
vincolo paesaggistico, contestando le diverse conclusioni
cui sono pervenuti i giudici del gravame sulla base di una
consulenza tecnica in atti e la documentazione
di riferimento.
Si tratta, tuttavia, di un accertamento in fatto, compiuto
dai giudici del merito,
che tiene evidentemente conto della ubicazione delle opere
sulla base di emergenze
processuali che non è consentito sottoporre ad autonoma
valutazione nel giudizio di
legittimità.
7. Per ciò che concerne, poi, la prescrizione dei reati, di
cui trattano il terzo
motivo di ricorso del RI., il primo ed il secondo motivo
di ricorso del MA., il primo motivo di ricorso del MI., ed il
ricorso del TA.,
rileva il Collegio come, anche sul punto, la sentenza
impugnata sia immune da
censure, perché giuridicamente corretta e conforme alla
giurisprudenza di questa
Corte.
Si è detto, a tale proposito, che il reato urbanistico ha
natura di reato
permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei
lavori di costruzione e
perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria
abusiva (v. Sez. U, n. 17178 del
27/02/2002, Cavallaro, Rv. 221398).
Si è poi precisato (ex pl. Sez. 3, n. 38136 del 25/09/2001, Triassi, Rv. 220351) che
la cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei
lavori per completamento
dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o
imposta (ad esempio, mediante
sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i
lavori continuano dopo
l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (v.
anche Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo, Rv. 260498).
Si è inoltre chiarito che l'ultimazione dei lavori coincide
con la conclusione dei
lavori di rifinitura interni ed esterni, quali gli intonaci
e gli infissi (Sez. 3, n. 32969 del
8/7/2005, Amadori, non massimata sul punto ed altre prec.
conf. nella stessa
richiamate. V. anche Sez. 3, n. 48002 del 17/09/2014, Surano,
Rv. 261153).
Deve trattarsi, in altre parole, di un edificio
concretamente funzionale che
possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come
si ricava dal disposto del
primo comma dell'articolo 25 del d.P.R. 380/2001, che fissa
"entro quindici giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il
termine per la presentazione allo sportello unico della
domanda di rilascio del certificato di agibilità. Le opere
devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non
potendosi, in base al
concetto unitario di costruzione, considerare separatamente
i singoli componenti
(Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv.
223365; Sez. 3 n. 34876 del
23/6/2009, Anselmo, non massimata; Sez. 3, n. 5618 del
17/11/2011 (dep. 2012),
Forte, Rv. 252125). Tali caratteristiche riguardano,
inoltre, anche le parti che
costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del
27/01/2010, Vitali, Rv.
246221).
Nel caso di specie la Corte di appello ha correttamente
escluso l'ultimazione
delle opere sulla base dell'inequivoco dato fattuale
dell'assenza, all'atto del
sequestro eseguito il 03/03/2014, di "regolare e funzionante
impianto elettrico", dando
conto dell'assenza "non solo delle mascherine e dei corpi
interni ma anche il
collegamento tra tutti i cavi" (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla
presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio
dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della
s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con
eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine
perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che
è inapplicabile alla prima delle indicate categorie di
interventi.
In relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis
del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque,
di un unico potere, che è quello sanzionatorio da
esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.
---------------
L’omesso pagamento dei diritti di segreteria integra un
vizio regolarizzabile ex post su invito
dell’amministrazione, e, di certo, non infirmante la
presentata c.i.l.a., insuscettibile, cioè, di elidere in
radice la legittimazione degli interventi eseguiti.
---------------
Premesso che:
- col ricorso in epigrafe, La Re. di S. Ma. di
An. Ro. s.p.a. (in appresso, La Re. di S. Ma.)
impugnava, chiedendone l’annullamento, previa sospensione,
le note del Settore Pianificazione e Sviluppo del Territorio
del Comune di Scafati prot. n. 20941 del 17.04.2018 e prot. n. 27731 del 22.05.2018, recanti, rispettivamente,
l’archiviazione della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n.
14647 (avente per oggetto interventi di manutenzione
straordinaria, consistenti nella sostituzione delle lamiere
di copertura sovrastanti una porzione dello stabilimento
produttivo sito in Scafati, alla via ..., n. 6, e censito
in catasto al foglio 2, particelle 63 e 506), e la
conseguente diffida dall’esecuzione degli interventi
contemplati nella predetta c.i.l.a., nonché l’accertamento
dell’abusività di questi ultimi;
- il gravato divieto di esecuzione dei lavori era,
segnatamente, motivato in base ai rilievi che:
a) in
relazione alla c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647,
non figuravano versati i diritti di segreteria, non
potendosi considerare all’uopo utilizzabili quelli già
corrisposti dalla Re. di S. Ma. in relazione alla già
archiviata c.i.l.a. del 15.02.2018, prot. n. 8631;
b)
i lavori contemplati nella c.i.l.a. del 19.03.2018, prot.
n. 14647, risultavano attingere il medesimo manufatto
riguardato dal procedimento di accertamento di conformità
avviato con istanza del 06.11.2015, prot. n. 31733, ed
ancora in itinere;
- il parimenti gravato accertamento di abusività degli
interventi eseguiti sine titulo era motivato, oltre che in
base ai su indicati rilievi, anche in ragione della
riscontrata mancanza della documentazione
tecnico-amministrativa e fotografica a corredo della
comunicazione di fine lavori prot. n. 20530 del 16.04.2018;
- avverso siffatte determinazioni la ricorrente lamentava,
in estrema sintesi, che:
- il provvedimento inibitorio di
cui alla nota del 17.04.2018, prot. n. 20941, sarebbe
stato notificato all’interessata soltanto in data 19.04.2018, ossia dopo lo spirare (in data 18.04.2018) del
termine perentorio di 30 giorni dalla comunicazione ex art.
23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001;
- ai fini della
presentazione della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n.
14647, il pagamento dei diritti di segreteria sarebbe stato
regolarmente effettuato e, comunque, la sua omissione
sarebbe stata suscettibile di regolarizzazione;
- gli
interventi controversi non avrebbero attinto la porzione di
manufatto riguardata dall’istanza di sanatoria prot. n.
31733 del 06.11.2015;
- alla comunicazione di fine
lavori non andrebbe allegato altro se non il documento di
identità del dichiarante;
...
Considerato, in limine, che:
- il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla
presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio
dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della
s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con
eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine
perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che
–a dispetto degli assunti di parte ricorrente– è
inapplicabile alla prima delle indicate categorie di
interventi;
- in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis
del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque,
di un unico potere, che è quello sanzionatorio da
esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia;
- eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione
in ordine alla legittimità degli interventi comunicati con
c.i.l.a. –quali quelli in questa sede impugnati– non
rivestono, quindi, carattere provvedimentale (cfr., in tal
senso, TAR Veneto, Venezia, sez. II, n. 415/2015; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, n. 1625/2016);
- ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto
e attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in
via giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella
misura in cui –come, appunto, nella specie– prefigurano, a
guisa di contestazioni preventive, le susseguenti
determinazioni sfavorevoli dell’amministrazione;
- di qui, dunque, l’ammissibilità delle censure rassegnate
dalla ricorrente in ordine ai presupposti di ritenuta
illegittimità della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n.
14647;
Considerato, in merito a tali censure, che:
- l’omesso pagamento dei diritti di segreteria ha potuto
integrare un vizio regolarizzabile ex post su invito
dell’amministrazione, e, di certo, non infirmante la
presentata c.i.l.a., insuscettibile, cioè, di elidere in
radice la legittimazione degli interventi eseguiti;
- come perspicuamente illustrato dalla Re. di S. Ma.
mediante le riproduzioni grafiche riportate nella relazione
di consulenza tecnica di parte esibita in giudizio, gli
interventi contemplati nella c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647, risultano aver attinto una porzione di
manufatto distinta da quella riguardata dall’istanza di
sanatoria prot. n. 31733 del 06.11.2015;
- a corredo della comunicazione di fine lavori non è
normativamente richiesta l’allegazione di altro documento se
non di quello di identità del dichiarante;
Ritenuto che:
- stante la ravvisata fondatezza dei profili di censura
dianzi scrutinati, ed assorbiti quelli ulteriori, il ricorso
in epigrafe va accolto, con conseguente annullamento degli
atti con esso impugnati;
- appare equo compensare interamente tra le parti le spese
di lite (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.08.2018 n. 1215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Non è dequalificato l’ingegnere scalzato dal geometra
nell’accorpamento degli uffici tecnici comunali.
L'ingegnere capo dell'ufficio tecnico di un Comune scalzato
da un geometra non ha diritto alla restituzione delle
precedenti funzioni.
L'art. 109 del d.lgs. n. 267/2000 che disciplina al primo comma gli incarichi dirigenziali in
senso stretto, conferibili cioè al personale con qualifica
di dirigente, ed al secondo comma, applicabile ai comuni di
minori dimensioni, consente l'attribuzione delle funzioni «a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai
responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente
dallo loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni
diversa disposizione».
Detti incarichi, pur attribuendo le
funzioni e le responsabilità di cui ai commi 2 e 3 dell'art.
107 del richiamato decreto legislativo, sono riconducibili
all'area delle posizioni organizzative
che «si concretano nel conferimento di incarichi relativi
allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità
professionali e culturali corrispondenti alla direzione di
unità organizzative complesse e all'espletamento di attività
professionali e nell'attribuzione della relativa posizione
funzionale».
Le posizioni organizzative, che trovano compiuta
disciplina nella normativa contrattuale (artt. 8 e seguenti
del CCNL 31.03.1999 per il personale del comparto delle
autonomie locali), hanno natura temporanea, possono essere
revocate prima della scadenza in relazione a mutamenti
organizzativi dell'ente o a risultati negativi della
gestione, sono attribuite tenendo conto «della natura e
delle caratteristiche dei programmi da realizzare, dei
requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della
capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale
della categoria D» (art. 9 CCNL 31.03.1999).
Le stesse, quindi, esprimono una funzione ad tempus,
che non determina un mutamento di area e dì profilo
professionale ma comporta solo un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico,
senza che «la restituzione ai compiti propri della qualifica
possa concretare dequalificazione».
Dalla natura delle posizioni organizzative
discende che,
così come accade per il conferimento degli incarichi
dirigenziali in senso stretto, non è configurabile un
diritto soggettivo del dipendente al conferimento della
funzione, in quanto l'Amministrazione è solo «tenuta al
rispetto dei criteri di massima indicati dalle fonti
contrattuali e all'osservanza delle clausole generali di
correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.
civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità
e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., senza
tuttavia che la predeterminazione dei criteri di valutazione
comporti un automatismo nella scelta, la quale resta
rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro».
---------------
RILEVATO CHE
1. la Corte di Appello di Ancona ha respinto l'appello di
Lo.Na. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città
che aveva rigettato il ricorso proposto nei confronti del
Comune di Camerano volto ad ottenere, «previo annullamento o disapplicazione degli atti amministrativi lesivi della
posizione di lavoro rivestita dalla ricorrente di Capo
Settore Ufficio Tecnico-Urbanistico», il ripristino delle
precedenti funzioni e la condanna dell'amministrazione
convenuta al pagamento delle differenze retributive nonché
al risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, subiti in
conseguenza della dequalificazione professionale;
2. la Corte territoriale ha premesso che l'ufficio diretto
dall'ing. Na. era stato unificato con quello in precedenza
affidato al geom. Fr., al quale il Comune aveva poi
assegnato la direzione della nuova struttura, denominata
Gestione del Territorio e del Patrimonio;
3. ha ritenuto la scelta organizzativa non sindacabile in
sede giudiziale ed ha evidenziato che l'appellato aveva
indicato ragioni idonee a giustificare sia l'unificazione
degli uffici, sia l'affidamento dei poteri di direzione al
soggetto prescelto;
4. ha rilevato che l'incarico dirigenziale è necessariamente
temporaneo ed il dirigente, spirato il termine fissato, non
può pretenderne la conferma né ha un diritto soggettivo ad
essere reintegrato nelle precedenti funzioni;
5. il giudice di appello ha aggiunto che il potere
discrezionale del datore di lavoro incontra un limite nel
necessario rispetto dei principi di correttezza e buona fede
che, però, nella specie non potevano dirsi violati solo
perché la appellante era in possesso di un titolo di studio
superiore rispetto a quello posseduto dal concorrente, posto
che non era stato neppure dedotto che la dirigenza
dell'ufficio implicasse necessariamente attività riservate
all'iscritto all'albo professionale;
...
7. occorre premettere che, in ragione della funzione del
giudizio di legittimità di garantire l'osservanza e
l'uniforme interpretazione della legge, nonché sulla base
del principio generale desumibile dall'art. 384 c.p.c., la
Corte di cassazione, nell'esercizio del potere di
qualificazione in diritto dei fatti, può ritenere fondata o
infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una
ragione giuridica diversa da quella specificamente
prospettata dalle parti e della quale si è discusso nei
gradi di merito, con il solo limite che tale individuazione
deve avvenire sulla base dei fatti esposti nel ricorso per
cassazione, principale o incidentale, e nella stessa
sentenza impugnata e fermo restando che l'esercizio del
potere di qualificazione non deve confliggere con il
principio del monopolio della parte nell'esercizio della
domanda e delle eccezioni in senso stretto (in tal senso
Cass. n. 11868/2016; Cass. n. 3437/2014; Cass. n.
9143/2007);
8. nel caso di specie la norma di riferimento va individuata
nell'art. 109 del d.lgs. n. 267/2000 che, come già
evidenziato da questa Corte (Cass. n. 21890/2016),
disciplina al primo comma gli incarichi dirigenziali in
senso stretto, conferibili cioè al personale con qualifica
di dirigente, ed al secondo comma, applicabile ai comuni di
minori dimensioni, consente l'attribuzione delle funzioni «a seguito di provvedimento motivato del sindaco, ai
responsabili degli uffici o dei servizi, indipendentemente
dallo loro qualifica funzionale, anche in deroga a ogni
diversa disposizione»;
9. detti incarichi, pur attribuendo le funzioni e le
responsabilità di cui ai commi 2 e 3 dell'art. 107 del
richiamato decreto legislativo, sono riconducibili all'area
delle posizioni organizzative (Cass. nn. 21890/2016; Cass.
19045/2015; Cass. n. 19009/2010; Cass. S.U. n. 16540/2008)
che «si concretano nel conferimento di incarichi relativi
allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità
professionali e culturali corrispondenti alla direzione di
unità organizzative complesse e all'espletamento di attività
professionali e nell'attribuzione della relativa posizione
funzionale» (Cass. S.U. n. 16540/2008);
10. le posizioni organizzative, che trovano compiuta
disciplina nella normativa contrattuale (artt. 8 e seguenti
del CCNL 31.03.1999 per il personale del comparto delle
autonomie locali), hanno natura temporanea, possono essere
revocate prima della scadenza in relazione a mutamenti
organizzativi dell'ente o a risultati negativi della
gestione, sono attribuite tenendo conto «della natura e
delle caratteristiche dei programmi da realizzare, dei
requisiti culturali posseduti, delle attitudini e della
capacità professionale ed esperienza acquisiti dal personale
della categoria D» (art. 9 CCNL 31.03.1999);
11. le stesse, quindi, esprimono una funzione ad tempus,
che non determina un mutamento di area e dì profilo
professionale ma comporta solo un mutamento di funzioni, le
quali cessano al cessare dell'incarico (Cass. 21890/2016),
senza che «la restituzione ai compiti propri della qualifica
possa concretare dequalificazione» (Cass. n. 19009/2010);
12. dalla natura delle posizioni organizzative discende che,
così come accade per il conferimento degli incarichi
dirigenziali in senso stretto, non è configurabile un
diritto soggettivo del dipendente al conferimento della
funzione, in quanto l'Amministrazione è solo «tenuta al
rispetto dei criteri di massima indicati dalle fonti
contrattuali e all'osservanza delle clausole generali di
correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.
civ., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità
e di buon andamento, di cui all'art. 97 Cost., senza
tuttavia che la predeterminazione dei criteri di valutazione
comporti un automatismo nella scelta, la quale resta
rimessa alla discrezionalità del datore di lavoro» (Cass. n.
2141/2017);
13. la sentenza impugnata è, quindi, conforme a diritto
nella parte in cui evidenzia, sia pure sulla base di un
diverso percorso argomentativo, che va corretto ex art. 384,
comma 4, cod. proc. civ., che non potevano essere censurate
nel merito le scelte discrezionali compiute dal Comune di
Camerano quanto alla riorganizzazione degli uffici ed al
conferimento dell'incarico, avvenuto nel rispetto delle
norme di legge, essendo il destinatario della nomina
pacificamente inquadrato nell'area D e non risultando che la
direzione dell'ufficio di nuova istituzione richiedesse
necessariamente l'iscrizione all'albo degli ingegneri;
14. il ricorso principale, che non coglie pienamente la
ratio della decisione, è tutto incentrato sulla violazione
di norme che non hanno specifica attinenza alla fattispecie,
perché riguardano o i requisiti attualmente richiesti per
l'accesso all'area D, che non rilevano in quanto,
evidentemente, il destinatario dell'incarico ha ottenuto
l'inquadramento nella qualifica funzionale e, poi, nell'area
sulla base della normativa vigente al momento
dell'instaurazione del rapporto di impiego, o la disciplina
dettata in tema di appalti pubblici, parimenti irrilevante
non potendosi confondere la direzione dell'ufficio, che
attiene agli aspetti organizzativi, con l'attività di
progettazione che, eventualmente, può essere svolta dalle
stazioni pubbliche appaltanti;
15. l'assunto della ricorrente principale, secondo la quale
il laureato in ingegneria doveva necessariamente essere
preferito al geometra, non considera la disciplina dettata
dalla contrattazione collettiva, che individua nel requisito
culturale solo uno dei parametri che l'ente è tenuto a
valutare al momento del conferimento dell'incarico;
16. il regolamento del Comune di Camerano, il cui contenuto
è riportato nel ricorso, riproduce sostanzialmente le
previsioni della contrattazione collettiva lì dove
stabilisce che la nomina è disposta previa valutazione:
della professionalità acquisita nello svolgimento di
attività rilevanti agli effetti dell'incarico da conferire,
della formazione culturale, della natura e delle
caratteristiche dei programmi da realizzare, delle
attitudini e delle capacità professionali del singolo
dipendente in relazione ai risultati conseguiti in
precedenza, del curriculum professionale;
17. si tratta, quindi, di una valutazione complessiva della
storia professionale dei dipendenti a confronto, sicché
nessuno dei parametri indicati, singolarmente valutato, può
essere ritenuto decisivo ai fini del giudizio di prevalenza
dei titoli dell'uno rispetto a quelli posseduti dall'altro
(Corte di cassazione, Sez. lavoro,
ordinanza 07.08.2018 n. 20617). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 fonda il potere del
competente dirigente o del responsabile di provvedere alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, in
ipotesi di accertamento di inizio o esecuzione di opere
realizzate senza titolo su aree assoggettate da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o
adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere
e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia
residenziale pubblica (L. n. 167 del 1962) nonché in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il comma 3, fermo rimanendo le ipotesi di cui all’illustrato
comma 2, sancisce il potere di immediata sospensione dei
lavori, con effetto fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi, allo scopo di evitare che il protrarsi dei
lavori per edificare opere sine titulo possa produrre danni
irreversibili o, comunque, particolarmente gravosi
nell’attività di rimozione.
Va tuttavia chiarito che l’ordinanza di demolizione può ma
non deve essere necessariamente preceduta dall’ordinanza di
sospensione, rientrando nel potere discrezionale del
dirigente o del responsabile valutare l’utilità di
sospendere i lavori, qualora questi siano in corso.
Sebbene il legislatore concepisca separatamente la
sospensione dei lavori e la demolizione delle opere abusive,
ciò non esclude che l’autorità amministrativa emani l’atto
sanzionatorio senza attendere il decorso dei 45 giorni
previsti come termine di efficacia della sospensione. Infatti il
suddetto termine non ha carattere dilatorio, ragion per cui
la sanzione può essere applicata anche immediatamente, se
non emergono particolari esigenze istruttorie.
L’eccesso di cautela, consistente nel disporre
congiuntamente la sospensione dei lavori e la demolizione,
dimostra semmai la sostanziale inutilità della sospensione,
se non vi sono lavori in corso, e comunque non comporta
l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione, in base al
principio generale dell’utile per inutile non vitiatur.
Nel caso
controverso peraltro non vi era da disporre alcuna
sospensione atteso che il manufatto presunto abusivo era già
stato realizzato.
---------------
L'ordinanza di demolizione è motivata in maniera adeguata
con l'affermazione dell'accertato carattere abusivo
dell'intervento edilizio in zona vincolata, della puntuale
descrizione delle opere abusive compiute nonché
dell'individuazione della violazione commessa, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione
degli abusi edilizi e ambientali, sicché la stessa non
necessita di ulteriore specifica indicazione che dia conto
delle ragioni d’interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati.
---------------
Come più volte chiarito da costante e condivisa
giurisprudenza, l'attività di
repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione
di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato
dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione,
essendo sufficiente fare riferimento all'accertato carattere
abusivo delle opere che s’ingiunge di demolire nonché alle
norme legislative e regolamentare che sono state violate.
---------------
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, gli atti di
repressione degli abusi edilizi hanno natura urgente e
strettamente vincolata, essendo dovuti in assenza di titolo
per l'avvenuta trasformazione del territorio, con la
conseguenza che, ai fini della loro adozione, non sono
richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario;
pertanto, tali atti non necessitano della comunicazione di
avvio del procedimento di cui all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza di demolizione di un'opera
abusiva che non sia stata preceduta da siffatta
comunicazione, posto che, da un lato, l'obbligo di
comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi di attività
vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art.
21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, laddove al
contrario la si considerasse dovuta, non subisce conseguenze
nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
---------------
1.- Con il primo motivo, il ricorrente deduce: violazione e falsa
applicazione dell’art. 27, comma 3, d.p.r. 380/2001.
1.1.- L’amministrazione, nonostante abbia accertato i lavori
per realizzare un locale pertinenziale al fabbricato, ha
ordinato immediatamente il ripristino dello stato dei
luoghi, senza prima intimare la sospensione dei lavori come
richiesto dal menzionato art. 27; in questo modo ha omesso
di compiere un’adeguata istruttoria volta all’accertamento
definitivo della presunta violazione ovvero della conformità
delle opere. Il provvedimento indicherebbe, inoltre, in
maniera erronea i dati catastali del cespite, a conferma
della superficialità dell’istruttoria condotta.
1.2.- Il motivo è infondato.
L’art. 27, comma 2, d.p.r. 380/2001 fonda il potere del
competente dirigente o del responsabile di provvedere alla
demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi, in
ipotesi di accertamento di inizio o esecuzione di opere
realizzate senza titolo su aree assoggettate da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o
adottate, a vincolo di inedificabilità, o destinate ad opere
e spazi pubblici ovvero ad interventi di edilizia
residenziale pubblica (L. n. 167 del 1962) nonché in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il comma 3, fermo rimanendo le ipotesi di cui all’illustrato
comma 2, sancisce il potere di immediata sospensione dei
lavori, con effetto fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi, allo scopo di evitare che il protrarsi dei
lavori per edificare opere sine titulo possa produrre danni
irreversibili o, comunque, particolarmente gravosi
nell’attività di rimozione.
Va tuttavia chiarito che l’ordinanza di demolizione può ma
non deve essere necessariamente preceduta dall’ordinanza di
sospensione, rientrando nel potere discrezionale del
dirigente o del responsabile valutare l’utilità di
sospendere i lavori, qualora questi siano in corso.
Sebbene il legislatore concepisca separatamente la
sospensione dei lavori e la demolizione delle opere abusive,
ciò non esclude che l’autorità amministrativa emani l’atto
sanzionatorio senza attendere il decorso dei 45 giorni
previsti come termine di efficacia della sospensione (cfr.
questa Sezione, 04.11.2015, n. 5107). Infatti il
suddetto termine non ha carattere dilatorio, ragion per cui
la sanzione può essere applicata anche immediatamente, se
non emergono particolari esigenze istruttorie.
L’eccesso di cautela, consistente nel disporre
congiuntamente la sospensione dei lavori e la demolizione,
dimostra semmai la sostanziale inutilità della sospensione,
se non vi sono lavori in corso, e comunque non comporta
l’illegittimità dell’ingiunzione di demolizione, in base al
principio generale dell’utile per inutile non vitiatur (cfr.
Cons. Stato, sez. II, 18.01.2006, n. 408).
Nel caso
controverso peraltro non vi era da disporre alcuna
sospensione atteso che il manufatto presunto abusivo era già
stato realizzato.
1.3.- Riguardo alla contestazione circa l’erronea menzione
dei dati catastali, in disparte la considerazione che
l’ordinanza di demolizione non li riporta, l’identificazione
del manufatto e della sua collocazione non sembra lasciare
adito a dubbi. L’ordinanza impugnata contiene la puntuale
descrizione degli abusi realizzati, cosicché non può
predicarsi la necessità di alcuna ulteriore specificazione.
...
5.- Con il sesto motivo, il ricorrente deduce:
violazione del d.lgs. n. 42/2004; eccesso di potere per
erroneità dei presupposti, carenza d’istruttoria, mancanza
d’interesse pubblico.
5.1.- Con il provvedimento impugnato non sono addotte
ragioni concrete di pubblico interesse ostative alla
permanenza delle strutture, alla luce della circostanza che
le opere realizzate non avrebbero particolare incidenza sul
territorio, posto che l’abuso non comporterebbe alcun carico
urbanistico.
5.2.- La censura è infondata.
In primo luogo, per le ragioni sopra illustrate, non sono
condivisibili le premesse del ragionamento condotto dal
ricorrente, posto che l’opera realizzata sine titulo, nel
comportare un aumento di superficie e di volume edificati,
non è neutrale rispetto all’impatto urbanistico sul
territorio.
5.3.- In secondo luogo, la circostanza che l’opera abusiva
ha prodotto un incremento plano-volumetrico in zona
paesaggisticamente vincolata rende inammissibile il rilascio
in via postuma dell’autorizzazione paesaggistica, per
effetto delle prescrizioni inderogabili contenute agli
articoli 167, comma 4, e 146, comma 4, del d.lgs. n. 42 del
2004.
Come chiarito sul punto da consolidata e condivisa
giurisprudenza, l'ordinanza di demolizione è motivata in
maniera adeguata con l'affermazione dell'accertato carattere
abusivo dell'intervento edilizio in zona vincolata, della
puntuale descrizione delle opere abusive compiute nonché
dell'individuazione della violazione commessa, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione
degli abusi edilizi e ambientali, sicché la stessa non
necessita di ulteriore specifica indicazione che dia conto
delle ragioni d’interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati (ex multis, questa Sezione 02.01.2018, n. 4; Idem
06.03.2017 n. 1303; Cons. Stato, Sez. IV,
26.08.2014 n. 4279; id., sez. V, 11.07.2014 n. 3568;
TAR Salerno, sez. II, 13.07.2017 n. 1179; TAR Napoli,
sez. VI, 25.11.2016 n. 5486; TAR Torino, sez. I, 22.11.2016 n. 1435).
6.- Quanto sopra è sufficiente per superare anche il settimo
motivo di ricorso col quale il ricorrente deduce la
violazione degli artt. 3 e ss. L. n. 241/1990, per difetto
di motivazione e d’istruttoria.
6.1.- A suo avviso, il provvedimento impugnato difetta di
elementi essenziali quali l’individuazione della norma
ostativa al rilascio o quantomeno delle eventuali
disposizioni regolamentari che il comune ha ritenuto
violate.
6.2.- Sul punto, nel rinviare alle argomentazioni dedotte
con l’esame del motivo precedente, va solo aggiunto che,
come più volte chiarito da costante e condivisa
giurisprudenza anche di questa Sezione, l'attività di
repressione degli abusi edilizi costituisce manifestazione
di potere non discrezionale, bensì del tutto vincolato –ancorato semmai ad un mero accertamento tecnico dello stato
dei luoghi- che non necessita di particolare motivazione,
essendo sufficiente fare riferimento all'accertato carattere
abusivo delle opere che s’ingiunge di demolire nonché alle
norme legislative e regolamentare che sono state violate (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI,
06.09.2017, n.
4243; questa Sezione, 03.05.2018, n. 2991).
...
7.- Infine, con l’ultimo motivo, parte ricorrente
deduce la violazione degli artt. 6, 7, 8 L. n. 241/1990.
7.1.- L’amministrazione comunale ha omesso la comunicazione
di avvio del procedimento sanzionatorio del presunto abuso
edilizio, impedendo all’interessato la possibilità di
partecipare al procedimento.
7.2.- Il motivo è infondato.
Secondo costante e condivisa giurisprudenza, anche di questa
Sezione, gli atti di repressione degli abusi edilizi hanno
natura urgente e strettamente vincolata, essendo dovuti in
assenza di titolo per l'avvenuta trasformazione del
territorio, con la conseguenza che, ai fini della loro
adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario; pertanto, tali atti non necessitano
della comunicazione di avvio del procedimento di cui
all'art. 7 L. n. 241/1990.
E', quindi, legittima l'ordinanza
di demolizione di un'opera abusiva che non sia stata
preceduta da siffatta comunicazione, posto che, da un lato,
l'obbligo di comunicazione non è ravvisabile nelle ipotesi
di attività vincolata e, dall'altro, ai sensi dell'art.
21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, l'omissione della
comunicazione di avvio del procedimento, laddove al
contrario la si considerasse dovuta, non subisce conseguenze
nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 28.09.2017, n. 4533; questa Sezione,
01.02.2018, n. 708;
idem, 10.01.2015, n. 107; Tar Napoli, sez. IV; 03.05.2017, n. 2320).
8.- Per quanto sopra, il ricorso introduttivo va respinto (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il ricorso a provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia consegue al mero accertamento di un intervento
realizzato senza il prescritto titolo abilitativo, a nulla
rilevando la conformità urbanistica o meno delle opere
realizzate.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di richiedere
la sanatoria, qualora ne sussistano i presupposti, senza che
da ciò discenda l’obbligo per l’autorità amministrativa di
valutare preventivamente la eventuale conformità delle opere
abusive alla disciplina edilizia vigente.
Peraltro, la domanda di accertamento di conformità –ai
sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001- non incide sulla
validità della sanzione applicata, la cui legittimità è
valutabile in base ai presupposti di fatto e di diritto
sussistenti al momento della sua emanazione; la stessa
comporta semmai unicamente la sospensione temporanea degli
effetti sino alla definizione sulla domanda medesima, in ciò
distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono che
paralizzano le procedure sanzionatorie e giudiziarie in
virtù di disposizioni di legge eccezionali che non sono
estensibili oltre i casi espressamente previsti.
L’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta quindi in uno
stato di momentanea quiescenza, per il tempo occorrente allo
scrutinio della domanda di accertamento, fermo restando che
solo in caso di concessione della sanatoria l’ingiunzione a
demolire risulta nei fatti ed in diritto superata.
Qualora invece, a conclusione del procedimento, la
domanda sia -tacitamente o espressamente- respinta,
l’ordine demolitorio riacquista la sua efficacia, con una
nuova decorrenza del termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione.
Ciò in quanto l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001
riconnette al decorso del termine di sessanta giorni, ivi
stabilito, la formazione del provvedimento tacito di diniego
che l’interessato ha l’onere di impugnare. Nel caso di
specie, il ricorrente non deduce di avere impugnato il
silenzio-rifiuto formatosi.
Del resto, una diversa soluzione interpretativa
comporterebbe per il soggetto destinatario del provvedimento
la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà
amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un
provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato,
mediante la mera presentazione di una istanza.
---------------
2.- Con il secondo motivo il ricorrente deduce:
violazione ed omessa applicazione degli artt. 36 e 37 d.p.r.
380/2001; difetto d’istruttoria; difetto di motivazione,
violazione del giusto procedimento di legge.
2.1.- Il provvedimento impugnato risulta adottato in assenza
di sufficiente istruttoria ed, in particolare, in mancanza
di qualsiasi indagine tesa a stabilire l’eventuale
sanabilità dell’opera compiuta, considerato anche che,
osserva il ricorrente, gli interventi per cui è causa
risulterebbero pienamente conformi agli strumenti
urbanistici comunali vigenti.
Il ricorrente aveva inoltre già provveduto a richiedere, ai
sensi del menzionato art. 36, la concessione edilizia in
sanatoria delle opere compiute che si assumono abusive con
istanza assunta al prot. n. 32893/12 del 9 novembre 2012 con
la conseguenza che l’amministrazione prima di attivare i
propri poteri repressivi dovrebbe preventivamente
pronunciarsi su tale istanza.
2.2.- Il motivo è infondato.
2.2.1.- Il ricorso a provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia consegue al mero accertamento di un intervento
realizzato senza il prescritto titolo abilitativo, a nulla
rilevando la conformità urbanistica o meno delle opere
realizzate.
Vero è piuttosto che l’interessato ha l’onere di richiedere
la sanatoria, qualora ne sussistano i presupposti, senza che
da ciò discenda l’obbligo per l’autorità amministrativa di
valutare preventivamente la eventuale conformità delle opere
abusive alla disciplina edilizia vigente.
Peraltro, la domanda di accertamento di conformità –ai
sensi dell’art. 36 d.p.r. 380/2001- non incide sulla
validità della sanzione applicata, la cui legittimità è
valutabile in base ai presupposti di fatto e di diritto
sussistenti al momento della sua emanazione; la stessa
comporta semmai unicamente la sospensione temporanea degli
effetti sino alla definizione sulla domanda medesima (cfr.
Cons. St., sez. VI, 02.02.2015, n. 466), in ciò
distinguendosi dagli speciali procedimenti di condono che
paralizzano le procedure sanzionatorie e giudiziarie in
virtù di disposizioni di legge eccezionali che non sono
estensibili oltre i casi espressamente previsti.
L’efficacia dell’ordine sanzionatorio resta quindi in uno
stato di momentanea quiescenza, per il tempo occorrente allo
scrutinio della domanda di accertamento, fermo restando che
solo in caso di concessione della sanatoria l’ingiunzione a
demolire risulta nei fatti ed in diritto superata.
2.2.2.- Qualora invece, a conclusione del procedimento, la
domanda sia -tacitamente o espressamente- respinta,
l’ordine demolitorio riacquista la sua efficacia, con una
nuova decorrenza del termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione (cfr. Questa Sezione, 06.04.2017, n. 1891).
Ciò in quanto l’art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001
riconnette al decorso del termine di sessanta giorni, ivi
stabilito, la formazione del provvedimento tacito di diniego
che l’interessato ha l’onere di impugnare. Nel caso di
specie, il ricorrente non deduce di avere impugnato il
silenzio-rifiuto formatosi.
Del resto, una diversa soluzione interpretativa
comporterebbe per il soggetto destinatario del provvedimento
la possibilità di paralizzare ad libitum la potestà
amministrativa, determinando la definitiva inefficacia di un
provvedimento autoritativo, ogni qual volta sia adottato,
mediante la mera presentazione di una istanza (cfr. questa
Sezione, 05.09.2017, n. 4251) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenza richiede un oggettivo
nesso funzionale e strumentale tra la cosa accessoria e
quella principale, tale che la prima non è suscettibile di
autonoma e separata utilizzazione e sempre che l’opera
secondaria non comporti alcun maggiore carico urbanistico né
un apprezzabile aumento di volumetria, incidente anche sulla
protezione dei luoghi accordata dalla tutela paesaggistica.
Il Consiglio Stato ha anche chiarito come la nozione di pertinenza, quale
risulta dall'art. 7, comma 2, lett. a), D.L. 23.01.1982
n. 9, convertito dalla L. 25.03.1982 n. 94, debba essere
interpretata in modo compatibile con i principi della
materia e non può quindi valere a sottrarre al regime del
permesso di costruire la realizzazione di opere di rilevante
consistenza urbanistica solo perché destinate a servizio ed
ornamento del bene principale; proprio con riferimento ad un
nuovo manufatto si afferma che il rapporto pertinenziale non
può esonerare dalla concessione edilizia, opere che, da un
punto di vista edilizio ed urbanistico, si pongono come
ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto
alla res principalis.
E’, infatti, "soggetta a concessione
edilizia (ora permesso di costruire) ed al conseguente
rispetto delle prescrizioni urbanistiche relative al tipo
d'intervento, la realizzazione di un manufatto edilizio
destinato a soddisfare esigenze non temporanee del soggetto attuatore e, al contempo, ad alterare in modo permanente
l'assetto urbanistico di zona, indipendentemente dalla
natura dei materiali adoperati".
---------------
3. – Con il terzo motivo il ricorrente deduce:
violazione del combinato disposto degli artt. 36 e 37 d.p.r.
n. 380/2001; L. n. 765/1967 e L. n. 122/1989 “Legge Tognoli”
e seguenti; eccesso di potere per presupposto erroneo ed
omessa attività istruttoria.
3.1.- Il ricorrente ha realizzato un locale box da destinare
a garage o parcheggio di pertinenza dell’immobile di
proprietà, non munito di locali da adibire al ricovero o
alla sosta per i veicoli di proprietà o di coloro che
accedono all’immobile, pertanto nei limiti della deroga
consentita dall’art. 9 L. n. 122/1989.
3.2.- Con il quarto motivo il ricorrente deduce:
violazione e falsa applicazione della legge regionale n. 19
del 2001; della L. n. 122/1989; eccesso di potere per omessa
istruttoria.
La normativa regionale in materia dispone che la
realizzazione di parcheggi da destinare a pertinenze di
unità immobiliari è soggetta a semplice denuncia di inizio
attività (art. 6 Legge reg. n. 19/2001).
3.3.- I due motivi, in considerazione dell’omogeneità dei
contenuti negli stessi presenti, possono essere trattati
congiuntamente.
Il ricorrente contesta che le opere in questione
costituiscano un intervento di nuova edificazione, in quanto
avrebbe realizzato un manufatto di natura pertinenziale,
consistente nell’esecuzione di un locale box da destinare a
garage dell'immobile principale. A suo avviso, quindi, il
manufatto non richiederebbe il rilascio del permesso di
costruire ma la denunzia di inizio attività, il cui difetto
comporterebbe l'applicazione della sanzione pecuniaria e non
già di quella demolitoria.
3.4.- L’assunto non può essere preso in considerazione ed è
smentito dai rilievi svolti dalla locale Polizia municipale.
Le opere eseguite senza titolo non sono indifferenti sotto
il profilo urbanistico, come pretenderebbe il ricorrente,
avendo quest’ultimo realizzato, in assenza di concessione
edilizia, la seguente struttura che si presenta ben diversa
da un semplice box per il ricovero delle auto o comunque da
una semplice pertinenza. La stessa consiste infatti nella
seguente opera: “manufatto composto da Piano terra, formato
da struttura in ferro con copertura in lamiere coibentate a
falda, tompagnatura già intonacata internamente ed
esternamente solo abbozzato, infissi (quattro avvolgibili in
ferro), pavimenti, impianti tecnologici, vano bagno ancora
privo di infisso ma già completo dei pezzi igienici, il
tutto già tenuto in uso, su una superficie di mq. 102,00 ca.
e per una volumetria di mc. 326 ca.".
L'intervento in questione ha dunque prodotto un nuovo
consistente aumento plano-volumetrico, a verosimile uso
abitativo, con conseguente trasformazione dell'assetto del
territorio e consistente aggravio sul carico urbanistico.
3.5.- Risulta pertanto non pertinente perché non applicabile
al caso di specie, la normativa di carattere speciale e
derogatorio in tema di spazi destinati a parcheggio di cui
alla L. n. 122/1989 ed alla legge regionale n. 19 del 2001,
la cui applicazione è stata invocata dal ricorrente.
Le opere realizzate avrebbero quindi imposto, in linea con
l’art. 10 d.p.r. 380/2001, il rilascio di un permesso di
costruire, non mostrandosi sufficiente la denuncia di inizio
attività.
3.5.- Vi è peraltro da considerare che il manufatto in
questione rientra:
- in “Zona R.U.A.” del Piano territoriale paesistico, nella quale
sono previsti unicamente interventi conservativi";
- nella "perimetrazione Zona Rossa”, nella quale ai sensi della L.R. Campania n. 21 del 2003 è vietato il rilascio di titoli
edilizi abilitanti la realizzazione di interventi
finalizzati all'incremento dell'edilizia residenziale.
3.6.- In adesione all'orientamento della giurisprudenza
amministrativa, anche di questa Sezione, la nozione di
pertinenza richiede un oggettivo nesso funzionale e
strumentale tra la cosa accessoria e quella principale, tale
che la prima non è suscettibile di autonoma e separata
utilizzazione e sempre che l’opera secondaria non comporti
alcun maggiore carico urbanistico né un apprezzabile aumento
di volumetria, incidente anche sulla protezione dei luoghi
accordata dalla tutela paesaggistica (cfr., sentenze della
Sezione del 29.05.2018 n. 3536 e del 03.05.2017 n.
2381).
Il Consiglio Stato ha anche chiarito come (sez. II, 2102.1996, n. 1895), la nozione di pertinenza quale
risulta dall'art. 7, comma 2, lett. a), D.L. 23.01.1982
n. 9, convertito dalla L. 25.03.1982 n. 94, debba essere
interpretata in modo compatibile con i principi della
materia e non può quindi valere a sottrarre al regime del
permesso di costruire la realizzazione di opere di rilevante
consistenza urbanistica solo perché destinate a servizio ed
ornamento del bene principale; proprio con riferimento ad un
nuovo manufatto si afferma che il rapporto pertinenziale non
può esonerare dalla concessione edilizia, opere che, da un
punto di vista edilizio ed urbanistico, si pongono come
ulteriori, in quanto occupano aree e volumi diversi rispetto
alla res principalis.
E’, infatti, "soggetta a concessione
edilizia (ora permesso di costruire) ed al conseguente
rispetto delle prescrizioni urbanistiche relative al tipo
d'intervento, la realizzazione di un manufatto edilizio
destinato a soddisfare esigenze non temporanee del soggetto attuatore e, al contempo, ad alterare in modo permanente
l'assetto urbanistico di zona, indipendentemente dalla
natura dei materiali adoperati" (Cons. Stato, sez. V, 20.03.2000, n. 1507; TAR Campania, sez. IV, 22.02.2003,
n. 1398) (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Laddove le opere sono state eseguite in
assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica, in tale ipotesi la giurisprudenza ha elaborato un
principio di indifferenza del titolo necessario
all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando
la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni
caso: ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto
in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e,
pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001 deve essere sanzionato.
Detto articolo riconosce,
infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed
edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di
demolizione in presenza di opere realizzate in zone
vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al
fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento
edilizio non autorizzato.
E ciò mediante l’esercizio di un
potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità
in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da
esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA,
prive di autorizzazione paesaggistica.
---------------
Con riferimento al preteso ricorso alla sanzione pecuniaria,
quest’ultima può essere applicata quale rimedio sostitutivo
solo in ipotesi di assoluta impossibilità tecnica
dell’originaria sanzione demolitoria, laddove, nella specie,
non sono stati evidenziati impedimenti all’abbattimento del
fabbricato in questione.
Peraltro, come già evidenziato in precedenti occasioni dalla
Sezione, la valutazione circa la possibilità di dar corso o
meno alla misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra
la demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione
pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione.
La possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria –disciplinata dall'art. 34, comma 2, d.p.r. 380
del 2001- viene infatti valutata dall'Amministrazione
soltanto in un secondo momento, successivo ed autonomo
rispetto alla diffida a demolire, ossia quando il
destinatario non vi abbia spontaneamente ottemperato e
l'organo competente emani l'ordine di demolizione in danno
delle opere edili costruite.
Di conseguenza, l’esito negativo di siffatta valutazione non
può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma al più
della fase di esecuzione in danno.
---------------
4.- Con il quinto motivo il ricorrente deduce:
violazione degli artt. 33 e 37 d.p.r. 380/2001; omessa
istruttoria, violazione del giusto procedimento.
4.1.- L’ente comunale resistente, senza prima compiere
un’adeguata attività istruttoria, ha qualificato l’opera fra
quelle sottoposte al regime sanzionatorio previsto dall’art.
33 in commento e non dell’art. 37. In ogni caso, l’art. 33,
comma 2, d.p.r. 380/2001 dispone la sostituzione della
sanzione ripristinatoria con quella pecuniaria, per
l’ipotesi in cui il ripristino dello stato dei luoghi non
sia possibile o sia eccessivamente gravoso.
4.2.- Il motivo è infondato.
Il comune ha correttamente ordinato il ripristino dello
stato dei luoghi, facendo ricorso al menzionato art. 27
d.p.r. 380 del 2001, norma che configura l’esercizio
doveroso del potere repressivo degli abusi edilizi in zona
vincolata, anche a prescindere dal titolo occorrente (cfr.,
per tutte, la sentenza della Sezione del 24.10.2017 n.
4966, secondo cui: …le opere “…sono state eseguite in
assenza di titolo edilizio e di autorizzazione paesaggistica
e, in tale ipotesi, la giurisprudenza ha elaborato un
principio di indifferenza del titolo necessario
all’esecuzione di interventi in zone vincolate, affermando
la legittimità dell’esercizio del potere repressivo in ogni
caso ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto
in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo e,
pertanto, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380
del 2001 deve essere sanzionato. Detto articolo riconosce,
infatti, all’amministrazione comunale un generale potere di
vigilanza e controllo su tutta l’attività urbanistica ed
edilizia, imponendo l'adozione di provvedimenti di
demolizione in presenza di opere realizzate in zone
vincolate in assenza dei relativi titoli abilitativi, al
fine di ripristinare la legalità violata dall’intervento
edilizio non autorizzato. E ciò mediante l’esercizio di un
potere-dovere del tutto privo di margini di discrezionalità
in quanto rivolto solo a reprimere gli abusi accertati, da
esercitare anche in ipotesi di opere assentibili con DIA,
prive di autorizzazione paesaggistica”; cfr. anche, questo
TAR, Sez. VI , 26.03.2015 n. 1815).
Risulta quindi non pertinente il richiamo all’art. 33 d.p.r.
380/2001.
4.3.- In ogni caso, con riferimento al preteso ricorso alla
sanzione pecuniaria, quest’ultima può essere applicata quale
rimedio sostitutivo solo in ipotesi di assoluta
impossibilità tecnica dell’originaria sanzione demolitoria
(ex multis, TAR Napoli, sez. II, 07.03.2012, n. 1133),
laddove, nella specie, non sono stati evidenziati
impedimenti all’abbattimento del fabbricato in questione.
Peraltro, come già evidenziato in precedenti occasioni dalla
Sezione (cfr, sentenza 10.05.2010, n. 3418), la
valutazione circa la possibilità di dar corso o meno alla
misura ripristinatoria e la conseguente scelta tra la
demolizione d'ufficio e l'irrogazione della sanzione
pecuniaria costituisce solo un'eventualità della fase
esecutiva, successiva alla disposta ingiunzione.
La possibilità di sostituire la demolizione con la sanzione
pecuniaria –disciplinata dall'art. 34, comma 2, d.p.r. 380
del 2001- viene infatti valutata dall'Amministrazione
soltanto in un secondo momento, successivo ed autonomo
rispetto alla diffida a demolire, ossia quando il
destinatario non vi abbia spontaneamente ottemperato e
l'organo competente emani l'ordine di demolizione in danno
delle opere edili costruite.
Di conseguenza, l’esito negativo di siffatta valutazione non
può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma al più
della fase di esecuzione in danno (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che la
notificazione del verbale di accertamento
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha
alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via
ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di
demolizione.
Non è quindi necessario che lo stesso venga notificato al
responsabile dell'abuso prima di adottare il provvedimento
con cui si disponga l'acquisizione gratuita, rilevando solo
l'accertamento formale dell'inottemperanza, pienamente
idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la
trascrizione nei registri immobiliari del titolo
dell'acquisizione.
---------------
In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001 –che ha
sostituito il previgente art. 7, comma 3, L. 47/1985-
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime, per
esplicita previsione legislativa, è un effetto automatico
alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, senza
che occorra alcuna precisazione.
Quest’ultima è invece richiesta in vista dell'acquisizione,
in ampliamento all'area propriamente di sedime del manufatto
abusivo, dell'ulteriore -e solo eventuale- area necessaria,
fino ad un massimo di dieci volte la superficie occupata
dalle opere abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le
prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il destinatario dell’ingiunzione può, infatti, impedire
simile effetto, demolendo l'opera contestata e rendendo così
impossibile la futura acquisizione; ne deriva che detta
precisazione è adempimento che si riversa sui provvedimenti
successivi all'ordinanza di demolizione allo scopo di
rendere edotto l’interessato delle esatte conseguenze alle
quali va incontro nel caso in cui non la esegua.
E’ chiaro quindi che la mancata individuazione dell’area
ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione a
demolire e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma
impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi
oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso
controverso, non risultino elementi adeguati per determinare
l’esatta estensione di siffatta ulteriore area.
----------------
L’acquisizione al patrimonio del comune è un effetto
automatico che la legge collega all’inadempimento alla
presupposta ordinanza di demolizione, senza che quindi sia
necessaria una motivazione circa la sussistenza
dell’interesse pubblico perseguito, posto che quest’ultimo è
già insito e comunque dato per prevalente dal legislatore
stesso.
----------------
Può quindi passarsi all’esame del ricorso per motivi
aggiunti, con il quale parte ricorrente impugna l’ordinanza
di acquisizione dell’opera abusiva, unitamente al verbale di
accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolire.
10.- Con il secondo motivo, il ricorrente censura la
violazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001; l’eccesso di potere
per omessa istruttoria e sviamento.
10.1.- Il provvedimento di acquisizione non risulta
preceduto dall’accertata inottemperanza all’ingiunzione a
demolire; osserva il ricorrente che il verbale
d’inottemperanza del 14.08.2014, non gli sarebbe stato
notificato.
10.2.- Il motivo è infondato.
L’accertamento dell’inottemperanza è puntualmente avvenuto
ed è stato trasfuso nel verbale del Comando dei vigili
urbani, prot. n. 260/PMG del 07.08.2014. Al riguardo,
considerata la sua valenza meramente ricognitiva, risulta
irrilevante la circostanza della mancata notifica del
verbale d’inadempienza.
Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che la
notificazione del verbale di accertamento
dell'inottemperanza all'ordinanza di demolizione non ha
alcun contenuto dispositivo, limitandosi a constatare in via
ricognitiva e vincolata l'inadempimento dell'ordine di
demolizione. Non è quindi necessario che lo stesso venga
notificato al responsabile dell'abuso prima di adottare il
provvedimento con cui si disponga l'acquisizione gratuita,
rilevando solo l'accertamento formale dell'inottemperanza,
pienamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in
possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del
titolo dell'acquisizione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.12.2008 n. 6174; Cassazione penale, sez. III, 28.11.2007 n. 4962).
11.- Con il terzo motivo, parte ricorrente deduce la
violazione dell’art. 31 d.p.r. 380/2001 e dell’art. 3 L. n.
241/1990; l’erroneità e l’illegittimità del provvedimento
per carenza dei presupposti, per motivazione erronea,
sviamento, illogicità.
11.1.- L’attività istruttoria eseguita dall’amministrazione
comunale appare sommaria, approssimativa e comunque non
idonea alla corretta individuazione del bene, tale da
inficiare l’intero procedimento. Sul punto, benché il
legislatore abbia introdotto l’obbligo di indicare, nel
provvedimento ablatorio, l’area che viene acquisita di
diritto, ai sensi dell’art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001,
l’amministrazione non avrebbe esattamente identificato il
bene oggetto di acquisizione.
11.2.- Il motivo è infondato.
11.2.1.- Il provvedimento individua puntualmente il
manufatto abusivo da acquisire, posto che sia i richiami
degli atti preordinati alla sanzione sia il provvedimento
stesso indicano in modo chiaro la consistenza dell'abuso, la
particella ed il foglio su cui lo stesso insiste, senza
possibilità di equivoci.
Una precisazione va condotta riguardo alla tenuta
apprensione dell’“area ulteriore”.
In base all'art. 31, comma 3, d.p.r. 380/2001 –che ha
sostituito il previgente art. 7, comma 3, L. 47/1985-
l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale degli
immobili abusivi e della relativa area di sedime, per
esplicita previsione legislativa, è un effetto automatico
alla mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, senza
che occorra alcuna precisazione. Quest’ultima è invece
richiesta in vista dell'acquisizione, in ampliamento
all'area propriamente di sedime del manufatto abusivo,
dell'ulteriore -e solo eventuale- area necessaria, fino ad
un massimo di dieci volte la superficie occupata dalle opere
abusive, per realizzarne di analoghe, secondo le
prescrizioni della restante parte del comma 3.
Il destinatario dell’ingiunzione può, infatti, impedire
simile effetto, demolendo l'opera contestata e rendendo così
impossibile la futura acquisizione; ne deriva che detta
precisazione è adempimento che si riversa sui provvedimenti
successivi all'ordinanza di demolizione allo scopo di
rendere edotto l’interessato delle esatte conseguenze alle
quali va incontro nel caso in cui non la esegua (TAR
Campania, Napoli, sez. III, 05.09.2017, n. 4249; 03.07.2017, n. 3570;
06.03.2017, n. 1303).
E’ chiaro quindi che la mancata individuazione dell’area
ulteriore non incide sulla legittimità dell’ingiunzione a
demolire e nemmeno su quella successiva di acquisizione, ma
impedisce semmai che l’effetto appropriativo si propaghi
oltre l’area di sedime, qualora, come accade nel caso
controverso, non risultino elementi adeguati per determinare
l’esatta estensione di siffatta ulteriore area.
11.2.2.- Nella fattispecie in esame, l’ordinanza di
demolizione chiarisce che, a norma del comma 2 dell’art. 31
d.p.r. 380/2001, l’area oggetto dell’abuso sarà acquisita di
diritto e che, a norma del comma 3 del medesimo art. 31,
“l’area acquisita non sarà superiore a dieci volte la
superficie utile abusivamente costruita”; manca tuttavia
ogni precisazione circa l’esatta estensione di tale
ulteriore area.
Nell’ordinanza di acquisizione, tuttavia, la dichiarazione
di apprensione del bene è limitata (“entra in possesso, ad
ogni effetto di legge”) all’“opera abusiva eseguita,
ricadente nelle part.lle n. 1909 del F. 6”.
E’ chiaro quindi che, dal tenore del provvedimento,
l’acquisizione si circoscrive al manufatto abusivo ed alla
relativa area di sedime, quale effetto automatico, ex lege,
dell’inadempimento all’ingiunzione a demolire, senza
estendersi all’area ulteriore, sia perché quest’ultima era
solo indicata genericamente nell’ordinanza di demolizione,
con conseguente impossibilità per il destinatario di potere
esattamente conoscere quale porzione del fondo complessivo
sarebbe stata appresa dal comune in caso di inottemperanza,
sia perché l’ordinanza di acquisizione non ne fa alcun
cenno.
12.- Con il quarto motivo, il ricorrente censura la
violazione dell’art. 3 per carenza di motivazione e
d’istruttoria sulla persistenza dell’interesse pubblico;
nonché la violazione dell’art. 7 per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Il motivo è infondato.
Sul punto, il Collegio ritiene sufficiente richiamarsi a
quanto illustrato nell’analisi degli ultimi tre motivi di
censura del ricorso introduttivo.
E’ appena il caso di aggiungere che l’acquisizione al
patrimonio del comune è un effetto automatico che la legge
collega all’inadempimento alla presupposta ordinanza di
demolizione, senza che quindi sia necessaria una motivazione
circa la sussistenza dell’interesse pubblico perseguito,
posto che quest’ultimo è già insito e comunque dato per
prevalente dal legislatore stesso (TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 21.06.2018 n. 4125 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Licenziamento disciplinare – Provvedimento espulsivo
proporzionato rispetto ai fatti contestati – Registrazioni
di conversazioni in orario di lavoro e sul posto di lavoro
coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi –
Violazione della normativa sulla privacy – Tutela della
propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio
da contestazioni disciplinari non cristalline – Consenso non
richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto
in sede giudiziaria - Condotta legittima – Escluso illecito
penale e disciplinare.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente
sottolineato,
in termini generali, come la rigida previsione del consenso
del titolare
dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si
tratti di far
valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di
attuazione
risultano disciplinate dal codice di rito".
Ciò sulla scorta dell'imprescindibile
necessità di
bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una
parte e
della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e
pertanto di
contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati
con le
formalità previste dal codice di procedura civile per la
tutela dei diritti
in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente
lavoristico è stato ulteriormente precisato che
la
registrazione
fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle
riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha
natura di
prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come
in quello
penale.
Si è, quindi, ritenuto, alla luce della
giurisprudenza
delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione
fonografica di
un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di
trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe,
è prova
documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro
suggerimento o
su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni
caso, di
registrazione operata da persona protagonista della
conversazione,
estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere
testimonianza nel processo.
E' stato, altresì, chiarito che l'iporesi derogatoria di cui
all'art. 24
del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal
consenso
dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei
dati, pur non
riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione
viene eseguita,
sia necessario, per far valere o difendere un diritto.
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano
trattati
esclusivamente per tali finalità e per il periodo
strettamente
necessario al loro perseguimento.
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è
stato
ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi
difensiva va
verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua
oggettiva
inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla
e non alla
sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo
riguardo alla
ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio.
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato
alla pura e
semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle
attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili,
ancor prima che la controversia
sia stata formalmente instaurata mediante citazione o
ricorso.
---------------
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale
ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato
tutte le
dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni
dal medesimo
effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha
considerato
operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso
non fosse
richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto
in sede
giudiziaria.
Così ha evidenziato che la condotta era stata
posta in
essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione
all'interno
dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari
non proprio cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto
che
diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile
situazione di non
avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta
pregiudicata dalla condotta altrui'.
---------------
3.2. Va innanzitutto chiarito
che, sulla base della
normativa a
tutela della privacy (d.lgs. 30.06.2003, n. 196, oggetto
di
successivi aggiornamenti), per 'trattamento' dei dati
personali si deve
intendere qualunque operazione o complesso di operazioni,
effettuati
anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti
la raccolta,
la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione,
l'elaborazione, la modificazione, la selezione,
l'estrazione, il raffronto,
l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione,
la diffusione,
la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non
registrati in una banca di dati -art. 4 lett. a)- e che
per 'dato personale' si deve
intendere qualunque informazione relativa a persona fisica,
identificata o identificabile, anche indirettamente,
mediante
riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un
numero di
identificazione personale -art. 4 lett. b)- e così,
dunque, qualunque
informazione che possa fornire dettagli sulle
caratteristiche, abitudini,
stile di vita, relazioni personali, orientamento sessuale,
situazione
economica, stato civile, stato di salute etc. della persona
fisica ma
anche e soprattutto le immagini e la voce della persona
fisica.
Ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 196/2003, il trattamento
di dati
personali da parte di privati o di enti pubblici economici è
ammesso
solo con il consenso espresso dell'interessato.
L'art. 167, co. 1, sotto la rubrica 'trattamento illecito di dati', apre
il capo II (dedicato agli illeciti penali) del titolo III
(rubricato
'sanzioni') del d.lgs. n. 196/2003. La norma prevede due
distinte
condotte tipiche, diversamente sanzionate: l'una relativa al
trattamento illecito di dati personali da cui derivi
nocumento al
titolare dei dati stessi e l'altra consistente nella
comunicazione o
diffusione dei dati illecitamente trattati,
indipendentemente dal
potenziale nocumento che ne derivi a terzi. Entrambe le
condotte
presuppongono un preventivo trattamento dei dati personali
altrui,
realizzato in violazione delle prescrizioni dettate, tra gli
altri, dall'art.
23 del medesimo d.lgs..
Ai sensi dell'art. 4, co. 1, lett. m), la condotta di
'diffusione'
consiste, poi, nel 'dare conoscenza dei dati personali a
soggetti
indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro
messa a
disposizione o consultazione'.
Il trattamento dei dati personali, ammesso di norma in
presenza
del consenso dell'interessato, può essere eseguito anche in
assenza di
tale consenso, se, come statuisce l'art. 24, co. 1, lettera
f), è volto a
far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria o per
svolgere le investigazioni difensive previste dalla legge n.
397/2000, e ciò a
condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tali
finalità e
per il periodo strettamente necessario al loro
perseguimento.
Si tratta, come è di tutta evidenza, della previsione di una
deroga
che rende l'attività, se svolta nel rispetto delle
condizioni ivi previste,
di per sé già a monte lecita.
In tale ipotesi, e dunque laddove il trattamento dei dati
personali
operato in assenza del consenso del titolare dei dati
medesimi sia
strettamente strumentale alla tutela giurisdizionale di un
diritto da
parte di chi tale trattamento effettua e pertanto sia
finalizzato
all'esercizio delle prerogative di difesa, è evidentemente
anche
insussistente il presupposto delle condotte incriminatrici
previste
dall'art. 167, co. 1, del d.lgs. n. 196/2003.
La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente
sottolineato,
in termini generali, come la rigida previsione del consenso
del titolare
dei dati personali subisca "deroghe ed eccezioni quando si
tratti di far
valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di
attuazione
risultano disciplinate dal codice di rito" (Cass., Sez. U.,
08.02.2011, n. 3034). Ciò sulla scorta dell'imprescindibile
necessità di
bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una
parte e
della tutela giurisdizionale del diritto dall'altra e
pertanto di
contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati
con le
formalità previste dal codice di procedura civile per la
tutela dei diritti
in giudizio.
In linea con tale impostazione ed in ambito più strettamente
lavoristico è stato ulteriormente precisato che la
registrazione
fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nel genus delle
riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod. civ., ha
natura di
prova ammissibile nel processo civile del lavoro così come
in quello
penale.
Si è, quindi, ritenuto (v. Cass. 29.12.2014,
n. 27424
ed i richiami in essa contenuti a Cass. 22.04.2010, n.
9526 ed a Cass. 14.11.2008, n. 27157), alla luce della
giurisprudenza
delle Sezioni penali di questa S.C., che la registrazione
fonografica di
un colloquio, svoltosi tra presenti o mediante strumenti di
trasmissione, ad opera di un soggetto che ne sia partecipe,
è prova
documentale utilizzabile quantunque effettuata dietro
suggerimento o
su incarico della polizia giudiziaria, trattandosi, in ogni
caso, di
registrazione operata da persona protagonista della
conversazione,
estranea agli apparati investigativi e legittimata a rendere
testimonianza nel processo (espressamente in tal senso v.
Cass. pen.
n. 31342/2011; Cass. pen. n. 16986/2009; Cass. pen. n. 14829/2009;
Cass. pen. n. 12189/2005; Cass. pen., Sez. U., n. 36747/2003).
E' stato, altresì, chiarito che l'iporesi derogatoria di cui
all'art. 24
del d.lgs. n. 196/2003 che permette di prescindere dal
consenso
dell'interessato sussiste anche quando il trattamento dei
dati, pur non
riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione
viene eseguita,
sia necessario, per far valere o difendere un diritto (Cass.
20.09.2013, n. 21612).
Unica condizione richiesta è che i dati medesimi siano
trattati
esclusivamente per tali finalità e per il periodo
strettamente
necessario al loro perseguimento (cfr. la sopra richiamata
Cass., Sez.
U., n. 3033/2011 nonché Cass. 11.07.2013, n. 17204 e
Cass. 10.08.2013, n. 18443).
Quanto poi al concreto atteggiarsi del diritto di difesa, è
stato
ritenuto che la pertinenza dell'utilizzo rispetto alla tesi
difensiva va
verificata nei suoi termini astratti e con riguardo alla sua
oggettiva
inerenza alla finalità di addurre elementi atti a sostenerla
e non alla
sua concreta idoneità a provare la tesi stessa o avendo
riguardo alla
ammissibilità e rilevanza dello specifico mezzo istruttorio
(v. la già
citata Cass. n. 21612/2013).
Inoltre, il diritto di difesa non va considerato limitato
alla pura e
semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle
attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili,
ancor prima che la controversia
sia stata formalmente instaurata mediante citazione o
ricorso (cfr. la
già citata Cass. n. 27424/2014).
Non a caso nel codice di
procedura
penale il diritto di difesa costituzionalmente garantito
dall'art. 24
Cost. sussiste anche in capo a chi non abbia ancora assunto
la qualità
di parte in un procedimento: basti pensare al diritto alle
investigazioni
difensive ex art. 391-bis cod. proc. pen. e ss., alcune
delle quali
possono esercitarsi addirittura prima dell'eventuale
instaurazione di
un procedimento penale (cfr. art. 391-nonies cod. proc. pen.),
oppure
ai poteri processuali della persona offesa, che -ancor
prima di
costituirsi, se del caso, parte civile- ha il diritto, nei
termini di cui
all'art. 408 cod. proc. pen. e ss., di essere informata
dell'eventuale
richiesta di archiviazione, di proporvi opposizione e, in
tal caso, di
ricorrere per cassazione contro il provvedimento di
archiviazione che
sia stato emesso de plano, senza previa fissazione
dell'udienza
camerale.
Nella fattispecie qui in esame, la Corte territoriale, con
accertamento non censurabile in questa sede, dopo aver
premesso
che quelle di cui si discuteva erano registrazioni di
colloqui ad opera
del Ch., vale a dire di una delle persone presenti e
partecipi ad
essi, ha ritenuto che il suddetto dipendente avesse adottato
tutte le
dovute cautele al fine di non diffondere le registrazioni
dal medesimo
effettuate all'insaputa dei soggetti coinvolti ed ha
considerato
operante la deroga relativa all'ipotesi per cui il consenso
non fosse
richiesto, trattandosi di far valere o difendere un diritto
in sede
giudiziaria.
Così ha evidenziato che la condotta era stata
posta in
essere dal dipendente 'per tutelare la propria posizione
all'interno
dell'azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari
non proprio cristalline' e per 'precostituirsi un mezzo di prova visto
che
diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile
situazione di non
avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta
pregiudicata dalla condotta altrui'.
Il tutto in un contesto
caratterizzato da un
conflitto tra il Ch. ed i colleghi di rango più elevato
e da
inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni
lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni
disciplinari (cfr.
pag. 9 della sentenza, ultimo capoverso fino al primo di
pag. 10) in
cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva
risultare
particolarmente difficile a causa di eventuali possibili
'sacche di omertà' come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di
istruttoria (cfr. pag. 10 della sentenza, penultimo
capoverso).
Ed allora, si trattava di una condotta legittima, pertinente
alla tesi difensiva del lavoratore e non eccedente le sue finalità,
che come tale
non poteva in alcun modo integrare non solo l'illecito
penale ma
anche quello disciplinare, rispondendo la stessa alle
necessità
conseguenti al legittimo esercizio di un diritto, ciò sia
alla stregua
dell'indicata previsione derogatoria del codice della
privacy sia, in
ipotetica sua incompatibilità con gli obblighi di un
rapporto di lavoro e
di quelli connessi all'ambiente in cui esso si svolge, sulla
base
dell'esistenza della scriminante generale dell'art. 51 cod.
pen., di
portata generale nell'ordinamento e non già limitata al mero
ambito
penalistico (e su ciò dottrina e giurisprudenza sono, com'è
noto, da
sempre concordi -cfr. la già richiamata Cass. n. 27424/2014-).
Altro sarebbe stato -sia ben chiaro- se si fosse trattato
di
registrazioni di conversazioni tra presenti effettuate a
fini illeciti (ad
esempio estorsivi o di violenza privata): ma non è questo il
senso
della contestazione disciplinare per cui è causa che, per
quanto si
rileva dal contenuto della stessa testualmente riportato
nella
sentenza impugnata, aveva avuto ad oggetto la 'gravissima'
ed
'intollerabile' violazione della legge sulla privacy
'comportante l'ipotesi
del trattamento illecito dei dati punibile con la reclusione
da 6 a 24 mesi'.
Né, invero, risulta provato che il Ch., come si legge
sempre
nella contestazione disciplinare, a metà dicembre 2012,
avesse
scattato foto nella zona dell'ingresso merci al solo scolo
di prendere in
giro un suo collega di lavoro.
Nella specie, dunque, la condotta legittima del Ch. non
poteva in alcun modo ledere il vincolo fiduciario sotteso al
rapporto di
lavoro, fondato, come di regola, sulle capacità del
dipendente di
adempiere in modo puntuale l'obbligazione lavorativa,
dovendo
escludersi che i fatti al medesimo addebitati nella lettera
di
contestazione potessero configurare inadempimenti
contrattuali di
sorta (perché qui iure suo utitur neminem laedit) o -peggio- azioni
delittuose.
4.1. Le considerazioni che precedono consentono, poi, di
ritenere
fondato il primo motivo del ricorso principale (con
assorbimento del
secondo).
4.2. La condotta del Ch., in sé lecita, non poteva
rilevare in
sede disciplinare.
Del tutto evidente è che il clima di tensione e sospetti
venutosi a
creare tra gli 'ignari colleghi' dopo la 'rivelazione' delle
registrazioni e
cioè una situazione facente capo al prestatore di lavoro ma
non
costituente inadempimento, al più poteva assumere rilevanza,
in una
prospettiva del tutto diversa, in termini di obiettiva
incompatibilità del
dipendente con l'ambiente di lavoro, se tale da rendere
insostenibile
la situazione incidendo negativamente sulla stessa
organizzazione del
lavoro e sul regolare funzionamento dell'attività, e dunque,
ove
ricorrenti i relativi presupposti, quale giustificato motivo
oggettivo di
licenziamento (cfr. Cass. 25/07/2003, n. 11556; Cass. 11.08.1998, n. 7904), non certo sotto il profilo disciplinare.
Ed allora va considerato che nella locuzione 'insussistenza
del
fatto contestato' di cui dell'art. 18, co. 5, della legge n.
300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92/2012 il fatto
deve intendersi in senso
giuridico e non meramente materiale.
In primo luogo, va tenuto presente che il mero fatto - come
giustamente osservato da certa dottrina - non ha mai un
proprio
autonomo rilievo nel mondo giuridico al di fuori della
qualificazione
che, in maniera espressa od implicita, ne fornisca una data
norma.
Non lo si può apprezzare e non può produrre effetti
giuridici senza
riferimenti normativi. Diversamente, per definizione ricade
nell'irrilevante giuridico.
Ad analogo risultato conduce l'approccio ermeneutico sotto
una
visuale strettamente processualistica.
Per consolidata giurisprudenza (cfr., per tutte, Cass., Sez.
U., 10.01.2006, n. 141) giusta causa o giustificato motivo di
licenziamento sono fatti impeditivi o estintivi del diritto
del
dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro, vale a dire
eccezioni
(non a caso, ex art. 5 legge n. 604/66 la giusta causa o il
giustificato
motivo di licenziamento devono essere provati dal datore di
lavoro).
E tutte le eccezioni, proprio perché tali, sono composte da
un
fatto (inteso in senso storico-fenomenico) e dalla sua
significatività
giuridica (in termini di impedimento, estinzione o
modificazione della
pretesa azionata dall'attore).
In altre parole, per sua stessa natura l'eccezione non ha
mai ad
oggetto un mero fatto, ma sempre un fatto giuridico.
Lo stesso punto d'arrivo è suggerito in un'ottica
sostanzialistica e
di coerenza interna del vigente art. 18 St. lav., nonché di
compatibilità costituzionale.
Infatti, se per insussistenza del fatto contestato si
intendesse
quella a livello meramente materiale si otterrebbe
l'illogico effetto di
riconoscere maggior tutela (quella reintegratoria c.d.
attenuata di cui
all'art. 18, co. 4) a chi abbia comunque commesso un
illecito
disciplinare (seppur suscettibile di mera sanzione
conservativa alla stregua dei contratti collettivi o dei
codici disciplinari applicabili)
rispetto a chi, invece, non ne abbia commesso alcuno, avendo
tenuto
una condotta lecita.
L'esito sarebbe quello di una irragionevole disparità di
trattamento, in violazione dell'art. 3 Cost., oltre che di
una intrinseca
e inspiegabile aporia all'interno della medesima
disposizione di legge.
Va allora ribadito il principio già affermato da questa
Corte
secondo cui: "L'insussistenza del fatto contestato, di cui
all'art. 18 St.
lav., come modificato dall'art. 1, co. 42, della l. n. 92
del 2012,
comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del
carattere di
illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza
che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra
sanzione
espulsiva e fatto di modesta illiceità" (cfr. Cass. 13.10.2015, n.
20540; Cass. 20.09.2016, n. 18418 e le più recenti
Cass. 26.05.2017, n. 13383 e Cass. 31.05.2017, n. 13799) (Corte
di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza
10.05.2018 n. 11322). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il nomen iuris
utilizzato dall’Amministrazione all'adottato atto non vincola l’interprete
che, anzi, deve procedere alla (ri)qualificazione
dell’attività posta in essere dall’Amministrazione sulla
base della natura sostanziale del provvedimento in concreto
adottato e del potere esercitato.
---------------
Il provvedimento impugnato deve essere riqualificato alla
stregua di un’ordinanza contingibile e urgente rientrante
nell’ambito dei poteri del Sindaco ex art. 54 dlgs 267/2000.
Sicché, il ricorso deve essere accolto per l’assorbente
rilievo dell’incompetenza del Dirigente del settore tecnico,
restando salva, come già rilevato in sede cautelare, la
possibilità che l’Amministrazione adotti i provvedimenti
anche urgenti ed extra ordinem ritenuti necessari a
fronteggiare la situazione e a limitare i rischi per la
pubblica incolumità.
---------------
Con il primo motivo del ricorso, che riveste anche carattere preliminare,
parte ricorrente ha contestato la competenza del Dirigente
responsabile del servizio tecnico per essere competente,
invece, il Sindaco atteso che il provvedimento gravato
sarebbe in realtà un’ordinanza sindacale ai sensi degli
artt. 50 e 54 del TUEL.
Al riguardo il Comune resistente rileva in contrario che le
attività prescritte ai proprietari dei fondi a valle, tra
cui la ricorrente, avrebbe natura di ordinaria manutenzione
del territorio e come tale sarebbe riconducibile alle
prerogative tipiche di cui all’art. 107 del TUEL e non
quindi alle competenze ascrivibili agli organi di indirizzo
politico né ai poteri extra ordinem del Sindaco.
Che non si
tratti di ordinanza contingibile e urgente risulterebbe,
poi, anche dal tenore del provvedimento gravato che riserva
l’adozione di un’ordinanza sindacale al caso in cui i
proprietari non ottemperino al provvedimento gravato.
Il motivo merita positiva considerazione.
Giova preliminarmente riportare il testo dell’art. 54 del
d.lgs. n. 267/2000 nella parte che qui rileva: <<Il sindaco,
quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato
provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei
principi generali dell'ordinamento, al fine di prevenire e
di eliminare gravi pericoli che minacciano l'incolumità
pubblica e la sicurezza urbana>>, il successivo comma 4-bis,
dispone, tra l’altro, che: <<provvedimenti adottati ai sensi
del comma 4 concernenti l'incolumità pubblica sono diretti a
tutelare l'integrità fisica della popolazione>>.
Come già evidenziato in sede cautelare il provvedimento
impugnato deve essere riqualificato alla stregua di
un’ordinanza contingibile e urgente rientrante nell’ambito
dei poteri del Sindaco appena citati.
Rileva, infatti, il Collegio che il nomen iuris
utilizzato dall’Amministrazione non vincola l’interprete
che, anzi, deve procedere alla (ri)qualificazione
dell’attività posta in essere dall’Amministrazione sulla
base della natura sostanziale del provvedimento in concreto
adottato e del potere esercitato.
Nella fattispecie si deve ritenere che il Dirigente comunale
abbia adottato una statuizione che risulta riconducibile al
paradigma prefigurato dalla citata disposizione normativa,
atteso che è lo stesso provvedimento gravato ad individuare
l’incolumità pubblica quale interesse pubblico primario
oggetto di considerazione nell’atto.
Del resto la stessa riserva di adottare in caso di mancata
ottemperanza un provvedimento contingibile e urgente ai
sensi dell’art. 54 TUEL, contrariamente a quanto rilevato
dall’Amministrazione, costituisce evidenza che in realtà
l’interesse pubblico avuto di mira coincide con quello che
avrebbe giustificato l’adozione di un’ordinanza sindacale;
anzi, sotto questo aspetto, il rinvio ad un successivo
provvedimento sindacale costituisce un’inversione rispetto
alla fisiologica successione degli atti nella materia de
qua, tenuto conto che l’urgenza di tutelare l’incolumità
pubblica avrebbe semmai giustificato la preventiva adozione
di un’ordinanza sindacale, sulla base di un’istruttoria
sommaria come quella svolta nella specie, salva poi, in un
secondo momento, l’adozione di provvedimenti, adottati sulla
base di un’istruttoria più approfondita, volti a realizzare
una situazione fattuale dotata di maggiore stabilità.
L’attribuzione al Sindaco della competenza ad adottare
provvedimenti extra ordinem, peraltro, risponde ad esigenze
sostanziali non obliterabili, atteso che solo il Sindaco ai
sensi dell’art. 54 TUEL è abilitato ad agire, si legge,
quale “ufficiale di Governo”, ed è dunque in tale veste che
egli può derogare a specifiche previsioni di legge; un
potere di tale latitudine non può non accompagnarsi alla
responsabilità politica che solo il Sindaco, nella struttura
comunale è nella posizione di assumere.
Sotto questo profilo, contrariamente a quanto rilevato
dall’Amministrazione intimata, non rileva la concreta
tipologia di attività che la ricorrente, unitamente agli
altri proprietari interessati, è stata chiamata a compiere
sulla base dell’ordinanza, atteso che ciò che qualifica il
provvedimento adottato è l’interesse pubblico per la cui
tutela si agisce e la natura contingibile ed urgente della
statuizione, a prescindere dalle concrete azioni imposte ai
destinatari.
Peraltro, le prescrizioni contenute nella gravata ordinanza
non possono essere considerate meramente ordinarie,
trattandosi di interventi anche strutturali e non sempre
specificamente individuati volti nel loro complesso ad
evitare il pericolo di smottamenti.
Tale provvedimento, ai sensi dell’art. 54 TUEL, doveva
essere quindi essere necessariamente adottato dal Sindaco
che non può in tale ambito essere surrogato né delegare
altri soggetti, trattandosi, come detto, di una prerogativa
strettamente legata alla sua posizione.
In definitiva il ricorso deve essere accolto per
l’assorbente rilievo dell’incompetenza del Dirigente del
settore tecnico, restando salva, come già rilevato in sede
cautelare, la possibilità che l’Amministrazione adotti i
provvedimenti anche urgenti ed extra ordinem ritenuti
necessari a fronteggiare la situazione e a limitare i rischi
per la pubblica incolumità (TAR Molise,
sentenza 02.05.2018 n. 251 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Allontanarsi dal luogo di lavoro senza timbrare il
cartellino integra truffa.
L’omessa segnalazione di allontanamenti
intermedi del dipendente impedisce il controllo di chi è
tenuto alla retribuzione, sulla quantità e qualità della
prestazione lavorativa svolta, per il recupero del periodo
di assenza, se previsto, e per la detrazione del compenso
mensile, dando luogo appunto al reato di truffa.
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1. Il ricorso è inammissibile in quanto generico e
manifestamente infondato.
2. Il ricorrente introduce censure alle valutazioni di
merito che sono insindacabili nel giudizio
di legittimità, quando il metodo di valutazione delle prove
sia conforme ai principi
giurisprudenziali e l'argomentare scevro da vizi logici,
come nel caso di specie (Sez. U., n. 24
del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del
31.05.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U.
n. 47289 del 24.09.2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. 5,
12634/2006 rv. 233780; Sez. 2 ,
7856/2016, rv. 269217).
Inoltre le doglianze riproducono
pedissequamente gli argomenti
prospettati nel gravame, ai quali la Corte d'appello,
attraverso una lettura critica delle
risultanze dell'istruttoria dibattimentale per come
interpretate dal giudice di prime cure, ha
dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e
corrette in diritto, che il ricorrente
non considera e si limita a censurare genericamente.
Nello specifico, in sentenza, si è dato atto degli artifici
e raggiri posti in essere dal Va. il
quale timbrava il cartellino figurando in servizio e
tuttavia si allontanava dal lavoro durante
l'orario di servizio (come risulta da rilievi fotografici e
dalle annotazioni di P.G. non contestati)
a nulla rilevando che egli avesse, in altre occasioni,
mostrato la propria disponibilità lavorativa
anche oltre l'orario, poiché nella specie il Va. avrebbe
dovuto segnalare il proprio
allontanamento come prescritto per tutti i dipendenti
comunali.
Infatti l'omessa segnalazione di allontanamenti intermedi
del dipendente impedisce il controllo
di chi è tenuto alla retribuzione , sulla quantità e qualità
della prestazione lavorativa svolta,
per il recupero del periodo di assenza, se previsto, e per
la detrazione del compenso mensile,
dando luogo appunto al reato di truffa (Sez. 2, 10/06/2016,
n. 46964 non massimata; Sez. 2
34776/2016, rv. 267855; Sez. 2, n. 1121/1989, rv. 183150).
Deve chiarirsi ulteriormente, in proposito, che
l'omissione
di cui si tratta è giuridicamente
rilevante, poiché il dipendente pubblico, nella specie, è
tenuto ad uniformarsi ai principi di correttezza, anche
nella fase esecutiva del contratto e, pertanto, ha l'obbligo
giuridico di
portare a conoscenza della controparte del rapporto di
lavoro non soltanto l'orario di ingresso e
quello di uscita, ma anche quello relativo ad allontanamenti
intermedi sempre che questi,
conglobati nell'arco del periodo retributivo, siano
economicamente apprezzabili: tale obbligo va
adempiuto tramite i sistemi all'uopo predisposti e, quindi
anche mediante la corretta
timbratura del cartellino segnatempo o della scheda
magnetica, ove installati, salvo che siano
adottate altre procedure equivalenti, a condizione che
queste siano formali e probatoriamente
idonee ad assolvere alla medesima funzione.
La Corte di legittimità ha posto l'accento sul fatto che
anche l'indebita percezione di poche
centinaia di euro, corrispondente alla porzione di
retribuzione conseguita in difetto di
prestazione lavorativa, costituisce un danno economicamente
apprezzabile per
l'amministrazione pubblica e che danno apprezzabile non è
sinonimo di danno rilevante, non
limitandosi il concetto alla mera consistenza quantitativa
ma investendo tutti gli aspetti
pregiudizievoli per il patrimonio (Sez. 5. 8426 /2013 Rv.
258987) (Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 05.03.2018 n. 9900). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
GUASTO MECCANICO DELL’IMPIANTO DI DEPURAZIONE:
NON ESONERA DA RESPONSABILITÀ IL TITOLARE.
Rifiuti - Liquidi immessi in acque superficiali a causa di
un guasto dell’impianto - Caso fortuito - Esclusione -
Responsabilità del titolare dell’impianto
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 45, cod. pen.
In tema di immissione di rifiuti in
acque superficiali, esclusa la rilevanza del caso fortuito
in presenza di un guasto meccanico nel funzionamento
dell’impianto di depurazione, il mancato intervento o la
negligenza da parte del terzo, incaricato di curare il
sistema di gestione e controllo dell’impianto, non vale ad
escludere la responsabilità del titolare dell’impianto da
cui ebbe a promanare lo sversamento illecito in quanto
costui ha l’obbligo di impedire l’evento dovendo perciò
predisporre tutte le misure necessarie per fronteggiare ogni
evento per sua natura prevedibile o evitabile, compreso
l’occasionale malfunzionamento del sistema di depurazione
dei reflui.
Nella specie,
il tribunale dichiarava M. e P. colpevoli del reato di
gestione non autorizzata di rifiuti per aver effettuato
un’immissione
abusiva di rifiuti speciali non pericolosi in acque
superficiali.
Nel proposto ricorso per cassazione, i due imputati
sostenevano
che erroneamente erano stati ritenuti responsabili del
reato in relazione alla loro rispettiva qualifica di
amministratore
unico, quanto alla M., e di direttore tecnico della società,
quanto al P.; invocavano il caso fortuito asserendo che
erroneamente
era stata esclusa qualsiasi rilevanza al comprovato
concorso di cause plurime, da sole sufficienti a determinare
l’evento e, quindi, idonee ad interrompere il nesso causale
tra
la condotta e l’evento.
In secondo luogo i ricorrenti sostenevano, quanto ai ruoli
rivestiti in azienda, che la sentenza era carente sotto il
profilo
motivazionale; in particolare, il tribunale aveva attribuito
una
responsabilità anche all’amministratore unico, unitamente al
direttore tecnico dell’impianto, responsabile dell’impianto
per
la parte tecnica, senza tenere conto della delega conferita
dall’amministratore unico; in ogni caso, in sentenza non si
faceva alcun cenno ad eventuali ingerenze
dell’amministratore,
che si occupava esclusivamente dell’amministrazione e
gestione in senso generale della società, nella gestione
tecnica
dell’impianto che, tenuto conto dell’evento verificatosi,
avrebbe implicato scelte operative e certamente
specialistiche;
l’aver quindi attribuito alla M. una corresponsabilità,
attribuendole
“un ruolo tecnico più defilato” costituiva un errore in
assenza di elementi probatori in forza dei quali fosse stato
possibile attribuire un ruolo tecnico minore in capo
all’amministratore
unico al fine di estendere a quest’ultima il giudizio di
responsabilità in cooperazione.
In relazione al primo motivo di ricorso, incentrato sul c.d.
fortuitus, essendosi dedotto che vi era stato un occasionale
malfunzionamento del complesso sistema di gestione -curato
da una società terza rispetto a quella presso cui l’evento
ebbe a
verificarsi- il Collegio ha osservato che la motivazione,
con cui
la sentenza impugnata aveva escluso la rilevanza del caso
fortuito e la mancanza di “colpa”, era corretta e
condivisibile
atteso che l’eventuale ascrivibilità dell’evento al mancato
intervento ed alla negligenza nel predisporre il sistema di
gestione e controllo dell’impianto in capo alla società T. -cui
sarebbe stata, nell’ottica difensiva, imputabile in via
esclusiva
la responsabilità dell’accaduto- non valeva tuttavia ad
escludere
la responsabilità della società titolare dell’impianto da
cui
ebbe a promanare lo sversamento illecito.
A carico di quest’ultima, infatti, ricadeva certamente
l’obbligo
di impedire l’evento, donde il nesso di causalità tra la
condotta
(non importa se omissiva o commissiva) del o dei soggetti
titolari della relativa posizione di garanzia non veniva
meno per
effetto dell’eventuale negligenza della T., configurandosi,
in tal
caso, un concorso di cause ex art. 41, comma 1, cod. pen.
Del resto, ha ricordato la Corte, il guastomeccanico -quand’anche
dovuto, come nel caso in esame, a più fattori concausali-
non esonera da responsabilità il titolare dell’impianto essendo in
tal caso ascrivibile una responsabilità non certo “oggettiva”, ma
indubbiamente “colposa”, posto che il fatto in sé del guasto
nel
funzionamento dell’impianto di depurazione, senza che sia
individuabile una causa, per sua natura imprevedibile od
inevitabile,
lungi dall’escludere, vale a comprovare l’insufficienza
delle misure predisposte e, dunque, a dimostrare la
responsabilità
del soggetto, quanto meno a titolo di colpa.
In relazione al secondo motivo, limitatamente alla posizione
del P., la Suprema Corte ha sostenuto che nessun rilievo
poteva muoversi alla sentenza impugnata quanto alla
posizione
del predetto, qualificato come direttore tecnico cui
spettava la gestione “tecnica” dell’impianto.
Invece, quanto alla posizione della M., amministratore unico
della società, la quale era stata ritenuta responsabile dal
giudice
di merito per il “ruolo tecnico più defilato”, il Collegio
ha
rilevato che effettivamente la sentenza impugnata appariva
carente sotto il profilo motivazionale, non specificando il
giudice
le ragioni per le quali alla stessa era stato attribuito
detto
ruolo, non rinvenendosi nel percorso argomentativo elementi
probatori o di natura indiziaria idonei a pervenire a tale
approdo,
né avendo il giudice motivato sotto il profilo dell’omessa
vigilanza sull’operato del direttore tecnico o sulla
presunta
“culpa in vigilando” della M., profili in base ai quali
avrebbe
potuto essere giustificata una responsabilità
dell’amministratore
unico della società.
L’impugnata sentenza è stata annullata con rinvio per
colmare
il deficit motivazionale in ordine all’individuazione di
profili di
effettiva corresponsabilità della M. nella gestione della
fonte di
rischio costituita dall’impianto, in presenza di un
soggetto, il P.,
delegato espressamente alla gestione tecnica dell’impianto
della società (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017 n. 31262
- Ambiente & sviluppo 8-9/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
AUTOLAVAGGIO: NATURA PERSONALE
DELL’AUTORIZZAZIONE ALLO SCARICO DEI REFLUI.
Acque - Attività di autolavaggio - Carattere personale
dell’autorizzazione
allo scarico dei reflui - Mutamento di titolarità
dell’impresa - Necessità del rilascio di una “nuova”
autorizzazione
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Attesa la natura personale
dell’autorizzazione allo scarico dei reflui, deve escludersi
che, in caso di mutamento della titolarità dell’impresa da
cui promana lo scarico, possa considerarsi automaticamente
autorizzato il soggetto subentrante essendo invece
necessario il rilascio di una “nuova” autorizzazione allo
scarico dei medesimi reflui.
Il Tribunale
condannava tal L. per aver effettuato uno scarico in
pubblica fognatura senza autorizzazione dei reflui derivanti
da
attività di autolavaggio.
Nel proposto ricorso per
cassazione il L. così riassumeva le vicende amministrative che avevano
interessato l’attività: la società amministrata
dall’imputato
era subentrata nella titolarità dell’attività svolta dalla
società
N.E.C. in forza di atto del 29.03.2010; la società
cedente era
titolare di autolavaggio, per il cui svolgimento era stata
autorizzata
con atto del 15.04.2009; tale autorizzazione era stata
preceduta dall’autorizzazione allo scarico rilasciata dal
gestore
del servizio pubblico integrato; la società cedente aveva
iniziato
l’attività di autolavaggio senza rilievi da parte della
P.A.;
quando il L. era subentrato alla N.E.C. non aveva chiesto la
voltura dell’autorizzazione allo scarico, voltura che era
stata
richiesta solo in data 16.06.2011 ed esitata
positivamente
il 21.06.2011 conseguendone, secondo il ricorrente, che,
trattandosi di una voltura, l’autorizzazione allo scarico
già concessa
alla N.E.C. era proseguita in capo al L. senza soluzione di
continuità. Al definitivo, secondo il ricorrente nessuno
scarico
abusivo poteva ritenersi sussistente.
La Cassazione ha motivato l’annullamento con rinvio per le
ragioni che seguono.
In primo luogo, è stato rilevato che era condivisibile
quanto
argomentato dall’imputato alla luce della lettura della
documentazione
amministrativa, da cui risultava che la società cedente era
titolare di un’autorizzazione allo scarico dei reflui
derivanti dall’attività
di autolavaggio di auto “al pubblico”, antecedente al
subentro del L. nel 2010. Ma nel contempo, è stato osservato
che era corretto quanto affermato dal Tribunale vale a dire
che,
all’atto del subentro del L. (ossia, alla data del giugno
2011, in cui
questi ebbe a “volturare” la precedente autorizzazione)
questi
non poteva ritenersi autorizzato allo scarico.
Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza,
l’autorizzazione
allo scarico è rilasciata intuitu personae e, quindi, chi
subentra
al precedente titolare è tenuto a munirsi di una nuova e
specifica autorizzazione, non potendosi limitare alla mera
richiesta di “volturare” a suo favore quella già in essere.
Si è
infatti detto che, in tema di scarichi di acque reflue da
insediamento
produttivo, il titolare di una nuova impresa, subentrata
ad altra non può giovarsi dell’autorizzazione rilasciata al
precedente
titolare dell’impresa sostituita, ma deve munirsi di
nuova specifica autorizzazione.
Nella specie, la domanda del giugno 2011 presentata dal L.
si
limitava alla mera richiesta di “voltura” della precedente
autorizzazione
allo scarico, e perciò non poteva considerarsi equipollente
ad una nuova richiesta di autorizzazione. Neppure
rilevava la circostanza che nel 2013, in sede di “rinnovo”
richiesto dal L., l’ente gestore del servizio di pubblica
fognatura
avesse sostanzialmente confermato che l’autorizzazione
rilasciata
nel 2009 consentiva al L. di “scaricare” i reflui derivanti
dal lavaggio delle autovetture.
Tuttavia, confermata sul piano oggettivo la sussistenza del
reato contestato, la Suprema Corte ha ritenuto che la
motivazione
del Tribunale sull’elemento soggettivo dovesse essere
rivalutata sotto il profilo dell’eventuale buona fede
“scusante”
idonea a determinare il venir meno dell’elemento psicologico
del reato per cui si procede. Infatti, il tribunale non
aveva
considerato l’incidenza che, sul convincimento soggettivo
del reo, aveva indubbiamente esplicato il comportamento
complessivo della Pubblica Amministrazione -che peraltro
non aveva mai svolto osservazioni in ordine alla legittimità
della procedura seguita dall’interessato (in particolare,
per
quanto concerne la “voltura” della precedente
autorizzazione)- sicché egli era stato sostanzialmente “indotto” dalla
stessa
Amministrazione a proseguire nell’attività di gestione
dell’autolavaggio
abusivamente svolta.
La tematica andava perciò rivista alla luce della
giurisprudenza
che ha affermato che, nei reati contravvenzionali,
l’ignoranza
da parte dell’agente sulla normativa di settore e
sull’illiceità
della propria condotta è idonea ad escludere la sussistenza
della colpa, se indotta da un fattore positivo esterno
ricollegabile ad un comportamento della pubblica
amministrazione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2017
n. 31261 - Ambiente &
sviluppo 8-9/2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
ALVEO FLUVIALE, SDEMANIALIZZAZIONE.
Corso d’acqua, fenomeno alluvionale, area abbandonata dalle
acque, perdita della demanialità dell’area
Art. 942 cod. civ.; Legge 05.01.1994, n. 37
A seguito della deviazione o dello
spostamento del corso dell’acqua, una porzione di terreno,
che prima costituiva parte integrante dell’alveo, cessa di
appartenervi, di talché anche l’ipotesi del ritiro di una
sola sponda comporta la perdita della demanialità del
relativo terreno, ai sensi dell’art. 942 cod. civ., nella
formulazione anteriore alle modifiche introdotte con la
Legge n. 37 del 1994.
Un Comune
ingiungeva la demolizione di un fabbricato in
quanto insistente su area demaniale, costituita dall’alveo
di
un fiume.
La controversia oggetto della pronuncia in commento concerne
la demanialità o meno di detta area in seguito ad un
fenomeno alluvionale; concerne, quindi, la perdita o meno
della demanialità dell’area in questione, in quanto
abbandonata
dalle acque correnti.
All’esito del giudizio di merito, veniva affermata la natura
demaniale dell’area.
Pertanto l’ingiunto ricorreva in cassazione, la quale
accoglie il
ricorso.
La Suprema Corte, nel premettere che l’accertamento della
natura demaniale di un terreno in seguito ad un fenomeno
alluvionale non può certo determinarsi soltanto sulla base
delle
risultanze catastali e delle trascrizioni formate in epoca
precedente
alla realizzazione del fenomeno alluvionale, si concentra
sulla norma dettata dall’art. 942 cod. civ.
L’originaria versione della norma prevedeva che “il terreno
abbandonato dall’acqua corrente, che insensibilmente si
ritira
da una delle rive portandosi sull’altra, appartiene al
proprietario
della riva scoperta, senza che il confinante della riva
opposta
possa reclamare il terreno perduto”.
L’articolo in questione è stato poi modificato (ad opera
Legge 05.01.1994, n. 37) nel senso che i terreni abbandonati
dalle
acque correnti “appartengono al demanio pubblico”.
La novella, quindi, esclude la c.d. sdemanializzazione dei
terreni
in questione.
Al riguardo la Cassazione osserva però, contrariamente a
quanto invece affermato nella decisione impugnata, che la
nuova disposizione è priva di efficacia retroattiva (si veda
al
riguardo Cass., 06.02.2007, n. 2608; Cass., SS.UU., 26.07.2002, n. 11101; Cass., 14.01.1997, n. 300).
Ciò posto, la pronuncia impugnata afferma che gli alvei dei
fiumi e dei torrenti, costituiti da quei tratti di terreno
sui quali
l’acqua scorre fino al limite delle piene normali, rientrano
nell’ambito del demanio idrico, per cui (in tal senso di
vada
Cass., 29.03.1976, n. 1127; Cass., SS.UU., 18.12.1998, n. 12701):
- le sponde o rive interne -ossia quelle zone soggette ad
essere
sommerse dalle piene ordinarie- sono comprese nel concetto
di alveo e costituiscono quindi beni demaniali;
- le sponde e rive esterne, le quali, essendo soggette alle
sole
piene straordinarie, appartengono ai proprietari dei fondi
rivieraschi,
e sulle quali può perciò insistere un manufatto occupato
da persone.
Tutto ciò considerato, la Cassazione afferma che la
questione
della perdita o meno della demanialità dell’area
abbandonata dalle acque correnti, nella vigenza dell’art.
942 cod. civ., nel testo anteriore alla novella del 1994,
va risolta nel senso che l’alveo abbandonato
fisiologicamente
perdeva, comunque, il suo connotato “naturale” di
demanialità.
Ciò, alla luce di una lettura coordinata della norma
contenuta
nell’art. 942 cod. civ., nel quadro dei principi regolatori
delle
vicende dei beni demaniali: difatti, spiegano i Giudici di
legittimità,
in quel contesto normativo, la demanialità veniva
estesa al terreno interessato dallo scorrimento delle acque
pubbliche in considerazione dalla funzione, che esso
assumeva,
di supporto e contenimento del corso ordinario del
fiume, per cui veniva automaticamente meno in conseguenza
di fenomeni non transitori incidenti in senso terminativo
su quella funzione (in tal senso Cass., 09.10.1991,
n. 10607).
Peraltro, aggiunge la Cassazione richiamando l’art. 942
cit.,
l’abbandono della sponda di un fiume, che non abbia
carattere
transitorio, e che non venga determinata da attività
antropica, comporta la perdita della demanialità anche
quando a detto abbandono non corrisponda una perdita di
terreno da parte del confinante della riva opposta, che, ai
fini
della rilevata perdita di funzione di supporto e di
contenimento,
non assume alcun rilievo (si veda in argomento
Cass., 17.07.1969, n. 2640).
In conclusione, deve quindi affermarsi che a seguito della
deviazione o dello spostamento del corso dell’acqua, una
porzione di terreno, che prima costituiva parte integrante
dell’alveo, cessa di appartenervi, di tal che anche
l’ipotesi
del ritiro di una sola sponda comporta la perdita della
demanialità
del relativo terreno, ai sensi dell’art. 942 cod. civ.,
nella
formulazione anteriore alle modifiche introdotte con la
Legge n. 37 del 1994 (Corte
di
Cassazione, SS.UU. civili,
sentenza
13.06.2017 n. 14645
- Ambiente & sviluppo 8-9/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO DI RIFIUTI: “ASSOLUTA OCCASIONALITÀ”.
Rifiuti - Trasporto di materiale ferroso - Qualificazione
della condotta posta in essere dal soggetto attivo -
Rilevanza della “assoluta occasionalità” - Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Anche una sola condotta integrante una
delle ipotesi alternative tipizzate dalla all’art. 256,
comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 è sufficiente per integrare il
reato a tali fini fattispecie penale, ma la stessa deve
costituire una “attività”, tale non essendo, in ragione
proprio della testuale espressione usata dal legislatore, la
condotta caratterizzata da «assoluta occasionalità» (nella
specie è stata annullata con rinvio la condanna di un
soggetto che era stato colto a trasportare 100 kg di
materiale ferroso( tipo rame) ricavato dalla pulizia della
cantina e del garage di un amico).
Tal R.M.
veniva condannato dal Tribunale per il reato di cui
all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 per avere
trasportato
100 kg di materiale ferroso (tipo rame) in mancanza della
prescritta autorizzazione.
Nel proposto ricorso, il R. premetteva che era stato
incaricato
di provvedere alla pulizia della cantina e del garage
dell’amico
C.e di essersi poi recato con gli oggetti di rame derivanti da
tale
attività presso un deposito di rottami per verificarne le
possibilità
di rivendita.
Ciò posto, deduceva violazione dell’art. 256, comma 1, e
mancanza di motivazione quanto allo status soggettivo
rispetto alla natura propria del reato e alla qualificazione
del
trasporto. Censurava in particolare che la sentenza, al fine
di
desumere la sussistenza della veste soggettiva richiesta,
avesse affermato essere stato utilizzato un mezzo apposito
di trasporto: al riguardo, la sentenza non spiegava perché
la
vettura usata (una Ford Fiesta) era appunto «mezzo apposito»
e non invece il mezzo appositamente usato per spostarsi
mentre, con riguardo agli altri elementi ordinariamente
indicativi
dello svolgimento di un’attività imprenditoriale, ovvero
natura e provenienza dei materiali e quantità e qualità dei
soggetti, nulla la sentenza aveva affermato.
La Cassazione ha ritenuto la fondatezza del ricorso con cui
si
contestava, in sostanza, la riconducibilità della condotta
realizzata
dall’imputato all’interno della previsione dell’art. 256,
comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006.
Infatti, analizzando i requisiti che la condotta posta in
essere
dal soggetto attivo deve possedere per essere qualificata
come “attività di gestione di rifiuti” penalmente
sanzionata,
la Corte ha ricordato che, pur se sia sufficiente a tali
fini anche
una sola condotta integrante una delle ipotesi alternative
tipizzate dalla fattispecie penale, la stessa deve,
tuttavia,
costituire una “attività”, tale non essendo, dunque, in
ragione
proprio della testuale espressione in tal modo usata dal
legislatore,
la condotta caratterizzata da assoluta occasionalità.
In particolare, la rilevanza della “assoluta occasionalità”
ai fini
dell’esclusione della tipicità deriva non già da una
arbitraria
delimitazione interpretativa della norma, bensì, appunto,
dal
tenore della fattispecie penale, che, punendo la “attività”
di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione, concentra il disvalore d’azione su un
complesso
di azioni, che, dunque, non può coincidere con la
condotta assolutamente occasionale.
Quanto allora alla individuazione di una tale
caratteristica,
idonea a sottrarre la condotta al disvalore di natura
penale, la
Suprema Corte ha ribadito che l’assoluta occasionalità non può
essere affermata od esclusa semplicemente sulla base della
natura giuridica del soggetto agente (privato, imprenditore,
ecc.) dovendo invece essere valutati indici dai quali poter
desumere un minimum di organizzazione che escluda la natura
esclusivamente solipsistica della condotta (tra gli altri,
il dato
ponderale dei rifiuti oggetto di gestione, la necessità di
un
veicolo adeguato e funzionale al trasporto di rifiuti, ecc.).
Secondo la Cassazione, la sentenza impugnata, pur avendo
correttamente dato atto della necessità, ai fini della
configurabilità
del reato ascritto all’imputato, di un minimo di
organizzazione
della condotta (ciò che consentirebbe di escludere
l’assoluta occasionalità), non aveva dato esaustiva e logica
motivazione di ciò: infatti, a fronte di un trasporto
incontrovertibilmente
generato dalla dismissione di quanto era contenuto
nel locale cantina del C., che aveva affidato a R. gli
oggetti che
ivi si trovavano e di cui voleva disfarsi (ovvero, di una fattispecie
significativamente indicativa, in linea astratta, di
assoluta occasionalità),
ha innanzitutto valutato, da un lato, il quantitativo
non esiguo di 100 kg (senza tuttavia considerare che lo
stesso
era appunto, come risultante dalla stessa sentenza, quanto già
contenuto nella cantina sgombrata, a quanto pare, in un
unico
contesto temporale) e, dall’altro lato ha ritenuto a tal
fine
predisposto un mezzo apposito di trasporto senza tuttavia
precisare perché, a fronte della ovvia necessità di disporre
di
un mezzo (atteso che, diversamente, non si sarebbe neppure
in presenza di un “trasporto”), la utilizzazione della non
meglio
qualificata Ford Fiesta significherebbe apprestamento di un
mezzo apposito.
È perciò seguito l’annullamento con rinvio al Tribunale per
nuovo esame (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.05.2017
n. 24115 -
Ambiente & sviluppo 7/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RACCOLTA DEI RIFIUTI IN FORMA AMBULANTE.
Rifiuti - Raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante
- Disciplina in deroga - Esclusione
Art. 266, D.Lgs. n. 152/2006; art. 6, Legge n. 210/2008
In tema di raccolta e trasporto di
rifiuti in forma ambulante in genere e, nel caso dei rifiuti
metallici, di attività effettuata antecedentemente
all’entrata in vigore del comma1-bis dell’art. 188 D.Lgs. n.
152/2006, occorre che il detentore sia in possesso del
titolo abilitativo per l’esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n.
114, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del
commercio cui sia effettivamente applicabile detta
disciplina e che detti rifiuti non siano qualificabili come
pericolosi o non siano riconducibili, per le loro
peculiarità, a categorie autonomamente disciplinate.
Nella specie,
tre persone erano state condannate dalla
Corte d’Appello di Palermo per il reato di cui agli artt.
110 cod. pen., 6 lett. d), Legge n. 210/2008 per aver
effettuato, in assenza di valido titolo abilitativo,
l’attività
di raccolta e trasporto di rifiuti speciali pericolosi,
quali
componenti meccaniche intrise di olio lubrificante ed una
fotocopiatrice, rifiuto di apparecchiature elettriche ed
elettroniche.
Nel proposto ricorso, il L.V. rappresentava che era in
possesso di tutte le autorizzazioni necessarie allo
svolgimento
dell’attività di commercio ambulante di rottami ferrosi
(d.i.a. presentata al SUAP del Comune di Palermo,
visura storica della Camera di commercio, certificato di
attribuzione di partita IVA), sicché avrebbe potuto
legittimamente
trasportare i rottami ferrosi che formavano
oggetto del suo commercio, trovando applicazione quanto
disposto dall’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006.
La Suprema Corte non è stata della stessa opinione.
Invero, il Tribunale aveva preso in esame il contenuto
dell’autorizzazione
al commercio in possesso del L.V., dando conto
della genericità dei contenuti ed escludendo che la stessa
potesse ritenersi valido titolo per il trasporto dei
rifiuti. Dal
diretto esame del materiale fotografico agli atti, emergeva
che
oggetto del trasporto, oltre alla fotocopiatrice, erano “due
blocchi di motore di autovettura con le relative coppe
dell’olio
montate, intrisi di olio minerale”, con la conseguenza che i
suddetti rifiuti andavano qualificati come pericolosi e non
rientravano, quindi, tra quelli oggetto dell’autorizzazione
al
commercio ambulante in possesso del prevenuto.
La Cassazione ha quindi ricordato i principi affermati in
passato
in ordine al commercio ambulante di rifiuti. Si è in
particolare
affermato (Sez. 3, n. 29992 del 24/6/2014, P.M. in proc.
Lazzaro, in questa Rivista 2014, 817) che la condotta
sanzionata
dall’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006 è riferibile a
chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo
abilitativo, una
attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli
articoli
208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo
Decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o
consequenziale
all’esercizio di una attività primaria diversa che
richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi
indicati e
che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità ed,
inoltre,
che la deroga prevista dall’art. 266, comma 5, per l’attività
di
raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi,
effettuata in
forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione
che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per
l’esercizio
di attività commerciale in forma ambulante, ai sensi del D.Lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall’altro, che si tratti di
rifiuti che
formano oggetto del suo commercio.
La Corte ha poi rilevato che, tenendo presente quanto
stabilito
dal D.Lgs. n 114/1998, deve farsi in primo luogo riferimento
alla definizione, contenuta nell’art. 4, comma 1, lett. b)
di
“commercio al dettaglio”, descritto come “l’attività svolta
da chiunque professionalmente acquista merci in nome e
per conto proprio e le rivende, su aree private in sede
fissa o
mediante altre forme di distribuzione, direttamente al
consumatore
finale” e che la disciplina astrattamente applicabile è
quella regolata dal Titolo X, relativo al commercio al
dettaglio
su aree pubbliche, queste ultime definite, dall’art. 27,
comma
1, lett. b), come “le strade, i canali, le piazze, comprese
quelle
di proprietà privata gravate da servitù di pubblico
passaggio ed
ogni altra area di qualunque natura destinata ad uso
pubblico”.
L’attività commerciale esercitabile è, inoltre, quella
indicata
dall’art. 18, comma 1, lett. b) e, cioè, quella che può
essere
svolta “su qualsiasi area purché in forma itinerante” e
soggetta
all’autorizzazione di cui al successivo comma 4, rilasciata,
in base alla normativa emanata dalla Regione, dal
Comune nel quale il richiedente, persona fisica o giuridica,
intende avviare l’attività. Veniva ulteriormente chiarito
che il
raccordo tra le disposizioni in tema di commercio e l’art.
266,
comma 5, D.Lgs. n. 152/2006, considerato il tenore letterale
delle prime, è reso particolarmente arduo, pur evidenziando
che ciò non autorizza una forzata estensione dell’ambito di
operatività della disciplina dettata dal D.Lgs. n. 114/1998,
che
risulta compiutamente definita, né di quella dell’art. 266,
comma 5 che, riguardando la materia dei rifiuti, richiede
una
lettura orientata all’osservanza dei principi generali
comunitari
e nazionali e, prevedendo un’esclusione dal regime generale
dei rifiuti, impone sicuramente un’applicazione restrittiva.
La sentenza ha pertanto puntualizzato che l’applicazione
della
disciplina derogatoria in esame non può prescindere dal
contenuto
letterale dell’art. 266, comma 5 e, segnatamente,
dell’ultima parte della disposizione, laddove l’esonero
dall’osservanza
della disciplina generale è chiaramente circoscritta ai soli
rifiuti che formano oggetto del commercio del soggetto
abilitato, con la conseguenza che la verifica del settore
merceologico
entro il quale il commerciante è abilitato ad operare
deve essere oggetto di adeguata verifica, così come la riconducibilità
del rifiuto trasportato all’attività autorizzata.
Su questa premessa, la Corte ha specificato che la sentenza
sopra richiamata n. 29992/2014 aveva delimitato l’ambito di
efficacia della deroga di cui all’art. 266, comma 5, D.Lgs.
n. 152/2006 alle sole ipotesi in cui sia effettivamente
applicabile
la disciplina sul commercio ambulante di cui al D.Lgs.
n. 114/1998 e tale applicabilità sia dimostrata
dall’interessato
ed accertata in fatto dal giudice del merito, escludendosi,
conseguentemente, che l’attività di raccolta e trasporto di
rifiuti urbani e speciali prodotti da terzi consistenti, per
lo più,
in rottami ferrosi possa rientrare nella nozione di
commercio
ambulante come individuata dal menzionato decreto del 1998
(cfr. Cass. n. 2872 del 17.12.2014, Massa, in questa
Rivista, 2015, 598).
Inoltre, dando conto della successiva introduzione, ad opera
dell’art. 30 Legge n. 221/2015, all’interno dell’art. 188
D.Lgs.
n. 152/2006, del comma 1-bis, il cui ultimo periodo recita
testualmente che “alla raccolta e al trasporto dei rifiuti
di
rame e di metalli ferrosi e non ferrosi non si applica la
disciplina
di cui all’articolo 266, comma 5”, la Corte ha chiarito che il
reato
di cui all’art. 256 è configurabile anche in relazione alle
condotte
non autorizzate di raccolta e trasporto di rifiuti metallici
esercitate in forma ambulante, poste in essere prima
dell’entrata in vigore del menzionato comma 1-bis dell’art.
188, specificando che la valutazione della rilevanza penale
delle condotte anteriori alla novella richiede tuttora
l’accertamento
dell’esistenza e validità del titolo abilitativo al
commercio
e della riconducibilità del rifiuto all’attività
autorizzata,
mentre tale verifica non occorre per le condotte successive,
avuto riguardo all’inapplicabilità “tout court” della deroga
di cui
al citato comma quinto dell’art. 266 (cfr. Cass. n. 23908
del 19.04.2016, P.M. in proc. Butera e altri, in questa
Rivista,
2016, 594).
Alla luce di quanto richiamato, osservato che, nel caso di
specie, indipendentemente dalla pericolosità o meno del
rifiuto, emergeva chiaramente, dalla semplice lettura del
capo di imputazione, che i rifiuti trasportati dagli
imputati,
trattandosi di una fotocopiatrice e di parti meccaniche di
autovetture,
rientravano, rispettivamente, nella categoria dei rifiuti
elettrici ed elettronici (RAee), disciplinati dal D.Lgs. 14.03.2014, n. 49 e tra quelli ricompresi nelle disposizioni
riguardanti i
veicoli fuori uso: tali categorie particolari di rifiuti,
separatamente
apprezzate dal legislatore per la loro particolarità, non
possono rientrare tra quelle considerate ai fini della
deroga
medesima, se non altro perché la loro gestione risulta
disciplinata
in ragione della particolarità del rifiuto, cosicché
correttamente
i giudici del merito avevano escluso l’operatività della
deroga di cui all’art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006
escludendo
perciò che tali rifiuti possano essere raccolti, trasportati
e commercializzati in forma ambulante (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.04.2017 n. 19209
- Ambiente & sviluppo 6/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RESIDUI DA DEMOLIZIONE.
Rifiuti - Residui da demolizione - Classificazione come
sottoprodotti - Esclusione
Art. 184-bis, 256, D.Lgs. n. 152/2006
I residui da demolizione non sono
classificabili come sottoprodotti non rientrando la
demolizione nella nozione di “processo di produzione”. In
ogni caso, ai fini del rispetto dei requisiti dettati
dall’art. 184-bis, D.Lgs. n. 152/2006, non ricorre la
certezza della riutilizzazione in un processo produttivo se
il materiale non sia reimpiegato nel «successivo processo
produttivo nel medesimo cantiere edile», bensì sia interrato
negli scavi di fondazione di un nuovo manufatto.
La Corte
d’Appello confermava la sentenza del Tribunale con la
quale gli imputati erano stati condannati perché, in
concorso
tra loro, avevano realizzato una discarica abusiva mediante
lo
smaltimento di materiale proveniente da demolizione di un
capannone; il Giudice di secondo grado aveva tuttavia
riqualificato
il fatto come violazione dell’art. 256, comma 1, lett. a),
D.Lgs. n. 152/2006, anziché del comma 3.
Nel proposto ricorso per cassazione, gli imputati, dopo aver
richiamato l’evoluzione normativa in tema di sottoprodotti e
terre e rocce da scavo e la nuova definizione di
sottoprodotto,
asserivano che i materiali smaltiti nel caso di specie
rientravano
in questa categoria perché erano stati generati dalla
demolizione di un immobile preesistente, con ricostruzione
di un nuovo immobile, ed erano stati reimpiegati, con
impatto
ambientale nullo.
La Cassazione, nel ritenere i ricorsi infondati, ha
ricordato che è
stata più volte affermata la non riconducibilità dei residui
da
demolizione alle categorie delle materie prime secondarie o
dei sottoprodotti, quando non siano destinati, fin dalla
loro
produzione, all’integrale riutilizzo senza trasformazioni
preliminari
o compromissione della qualità ambientale.
La Corte ha poi ribadito che i materiali provenienti da
demolizione
debbono essere qualificati come rifiuti, in quanto
oggettivamente
destinati all’abbandono, salvo che l’interessato non
fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti
dalla legge per l’applicazione di un regime giuridico più
favorevole,
quale quello relativo al “deposito temporaneo” o al
“sottoprodotto”.
La sentenza ha quindi sostenuto che la prospettazione
difensiva,
quanto alla ricorrenza delle condizioni per ricondurre i
materiali oggetto dell’imputazione alla categoria dei
sottoprodotti
(o a quella delle “materie prime secondarie”), era in parte
incompleta, perché non prendeva compiutamente in
considerazione
i requisiti di cui alle lettere c) e d), dell’art. 184-bis e
in
parte smentita dalla giurisprudenza che, quanto ai requisiti
delle lettere a) e b), afferma che gli stessi non possono
essere
ritenuti sussistenti per i residui da demolizione, non
rientrando
la demolizione nella nozione di “processo di produzione”.
Quanto, infine, alla certezza della riutilizzazione in un
processo
produttivo, la Corte ha replicato alla difesa che affermava
che il
materiale era stato reimpiegato nel «successivo processo
produttivo nel medesimo cantiere edile», che, invece, si
trattava
del semplice interramento negli scavi di fondazione di parte
di detti materiali (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2017
n. 16431 -
Ambiente & sviluppo 6/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
IMBRATTAMENTO “COLPOSO” DI COSE ALTRUI.
Movimentazione dei rifiuti – Rifiuti di plastica trasportati
dal vento – Profilo colposo dell’addebito – L’imbrattamento
colposo non è previsto dalla legge come reato – Deturpamento
e imbrattamento di cose altrui di cui all’art. 639, c.2,
cod. pen. – Reato getto pericoloso di cose ex art. 674, cod.
pen. – Qualificazione giuridica del fatto, configurabilità
del reato ed esclusione.
Art. 632, 674, cod. pen.
Non integra la contravvenzione di cui
all’art. 674 cod. pen. il fatto che rifiuti in plastica,
trasportati dal vento, invadano una proprietà viciniore,
bensì il delitto di imbrattamento di cose altrui di cui
all’art. 639, comma 2, cod. pen. (nella specie, si è
tuttavia ritenuto che era evidente il profilo colposo
dell’addebito sicché la sentenza impugnata è stata annullata
perché l’imbrattamento colposo non è previsto dalla legge
come reato).
Il Tribunale
condannava il legale rappresentante dell’impresa
L.M. per la contravvenzione di cui all’art. 674 cod. pen.
perché,
nella attività di movimentazione dei rifiuti, aveva
imbrattato la
proprietà di un vicino attraverso i rifiuti in plastica
trasportati dal
vento.
La Cassazione ha ritenuto fondate le critiche sollevate
dalla
difesa in ordine al profilo sotto il quale è stata ravvisata
la
violazione della norma penale. Il Tribunale infatti aveva
affermato
che «la dispersione dei rifiuti che invasero in modo
apprezzabile il terreno del S., per la quantità e qualità
dei rifiuti
era idonea a creare gli effetti dannosi richiesti dall’art.
674,
cod. pen., sotto il profilo dell’imbrattamento del terreno
altrui».
La Corte ha invece rilevato che l’imbrattamento delle cose è
conseguenza della condotta estranea alla fattispecie
dell’art.
674 cod. pen., trattandosi, invece, di evento tipico del
delitto
di deturpamento e imbrattamento di cose altrui di cui
all’art.
639, comma 2, cod. pen. Il fatto storico è stato perciò
riqualificato
come delitto e poiché era evidente il profilo colposo
dell’addebito, la sentenza è stata annullata perché il fatto
(imbrattamento colposo) non è previsto dalla legge come
reato (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 15.02.2017 n. 7166
- Ambiente & sviluppo 4/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
RIUTILIZZO DI MACERIE E RIFIUTI SPECIALI.
Rifiuti - Rifiuti da demolizione di fabbricato -
Riutilizzazione degli stessi, unitamente ad altri rifiuti,
per compattare una strada carraia - Reato
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra il reato di cui all’art. 256,
D.Lgs. n. 152/2006 collocare in una strada carraia, mediante
opere di compattamento eseguite con l’ausilio di mezzi
meccanici, rifiuti speciali costituiti da macerie derivanti
da opere di costruzione e demolizione di fabbricato
frammisti a plastica, ferro, vetro.
Nella specie due soggetti erano stati condannati per avere
effettuato attività di gestione di rifiuti speciali non
pericolosi,
costituiti da macerie derivanti da opere di costruzione e
demolizione
di fabbricato frammisti ad altri rifiuti speciali: era,
infatti,
emerso che i rifiuti erano stati smaltiti sul manto della
strada
carraia mediante opere di compattamento eseguite con
l’ausilio
di mezzi meccanici.
Nel contestare con apposito ricorso tale decisione, uno dei
prevenuti asseriva di avere immesso nella strada carraia
macerie
di demolizione provenienti dai lavori edili che aveva in
corso
e perciò riteneva che nessuna preventiva autorizzazione da
parte della provincia occorresse per riutilizzare questi
materiali.
La Suprema Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza
dell’impugnazione perché il giudice di prime cure aveva
posto in luce la circostanza che nella strada erano stati
posizionati “veri e propri rifiuti” atteso che, unitamente
alle macerie, erano presenti plastica, ferro, vetro e che,
in
ogni caso, le macerie collocate dall’imputato non
provenivano
dai lavori edili che stava eseguendo nel terreno di sua
proprietà: infatti, secondo quanto riferito da un teste,
l’imputato stava procedendo alla realizzazione ex novo
del manufatto, mentre quelle presenti nella carraia erano
macerie da demolizione da classificare pacificamente come
rifiuti (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.01.2017 n. 4187
- Ambiente & sviluppo 4/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
IGNORANZA DELLA NORMATIVA DI SETTORE: QUANDO È
SCUSABILE.
Rifiuti - Conferimento di rottami ferrosi - Legge penale -
Ignoranza - Scusabilità - Condizioni - Fattispecie
art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 5, cod. pen.
In tema di gestione abusiva di rifiuti,
l’ignoranza da parte dell’agente sulla normativa di settore
è idonea ad escludere la colpa soltanto se indotta da un
fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento
della pubblica amministrazione (nella fattispecie,
l’imputata, cui era stato contestato il trasporto e
conferimento di 180 quintali di rottami di vario tipo,
avrebbe dovuto quanto meno informarsi presso l’autorità
competente se la propria condotta necessitasse di
autorizzazione, come in effetti previsto dalla normativa di
settore).
Nel caso di
specie si discuteva dell’attività svolta da tal
N.F. che, tra il mese di novembre 2011 e il marzo 2012, benché
non iscritta all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali,
aveva
conferito in un centro di raccolta di rottami ferrosi 180
quintali
di rottami di vario tipo. Il Tribunale l’aveva condannata
per il
reato di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., e 256, comma 1,
lett. a),
D.Lgs. n. 152/2006.
Nel ricorrere avverso detta sentenza, la prevenuta invocava
la
propria buona fede basata sulla invocata applicabilità della
Circolare della Provincia di Cuneo del 03.07.2006 che,
interpretando
l’(allora) art. 58, comma 7-quater, D.Lgs. n. 22/1997
(oggi art. 266, comma 5, D.Lgs. n. 152/2006) alla luce
dell’abrogazione
della norma (l’art. 121 TULPS) istitutiva del registro
degli esercenti dei mestieri girovaghi, aveva escluso dagli
obblighi in materia di raccolta e trasporto di rifiuti «i
nomadi,
coloro che esercitano mestieri girovaghi, le persone senza
fissa dimora, le associazioni “no profit”, le Parrocchie e,
in
generale, tutti coloro che svolgono tali attività, ma che
non
costituiscono impresa».
La Cassazione ha respinto il ricorso ribadendo quanto
sostenuto
nella sentenza n. 35314 del 20.05.2016, Oggero, la
cui motivazione è stata riportata per la sovrapponibilità
del
caso a quello scrutinato: «dev’essere qui ricordato, con le
Sezioni Unite di questa Corte, che a seguito della sentenza
23.03.1988 n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la
quale l’ignoranza della legge penale, se incolpevole a
cagione
della sua inevitabilità, scusa l’autore dell’illecito, vanno
stabiliti
i limiti di tale inevitabilità.
Per il comune cittadino tale
condizione
è sussistente, ogni qualvolta egli abbia assolto, con il
criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di
informazione”,
attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento,
per conseguire la conoscenza della legislazione
vigente in materia.
Tale obbligo è particolarmente rigoroso
per tutti coloro che svolgono professionalmente una
determinata
attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di
una
“culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per
l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre,
cioè,
che da un comportamento positivo degli organi amministrativi
o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale,
l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza
dell’interpretazione
normativa e, conseguentemente, della liceità
del comportamento tenuto.
Ne discende, dunque, che, per chi
non svolga professionalmente una attività nel settore di
interesse
-qual è l’imputata nella vicenda in esame-, la scusabilità
dell’ignoranza della legge penale comporta necessariamente
che questi assolva con il criterio dell’ordinaria diligenza
-come
sottolineato dalle Sezioni Unite-, al cosiddetto “dovere di
informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile
accertamento, per conseguire la conoscenza della
legislazione
vigente in materia (...)
Da ultimo, e conclusivamente
sul punto, non può mancarsi di rilevare come anche al
privato
cittadino che intenda svolgere un’attività di gestione di
rifiuti
(nella specie, raccolta di rifiuti prodotti da terzi e
consegna per
fini di lucro degli stessi ad un operatore professionale) è
infatti
richiesto l’assolvimento di quella diligenza che richiede la
cd.
conoscenza parallela nella sfera laica o conoscenza da
profano
(sorta nel diritto tedesco come Parallelwertung in der
Laiensphäre),
nel senso che, per l’attribuibilità a titolo di colpa del
fatto all’agente, occorre certamente che questi si
rappresenti
anche gli aspetti che fondano la rilevanza giuridica delle
situazioni
di fatto richiamate dalla fattispecie, e quindi è necessario
che il reo abbia avuto consapevolezza -sia pure, appunto,
secondo la “conoscenza parallela nella sfera laica”- che
ciò
che stava commerciando costituisse un bene soggetto ad un
particolare regime di gestione. E, nel caso in esame, non
può
mettersi in dubbio che, anche senza una particolare
avvedutezza,
per poter commercializzare 430 kg. di rifiuti metallici
occorresse quantomeno informarsi presso l’autorità se ciò
poteva esser fatto del tutto liberamente o se occorresse
invece una qualche forma di autorizzazione, nella specie
l’iscrizione
all’Albo Gestori, come previsto dalla normativa di settore,
non essendosi peraltro trattato (...) della modesta
gestione di un rifiuto costituito “una lattina vuota
raccolta da
terra” o di un episodio isolato di chi si disfi “di un
armadio
blindato” rivendendolo al centro di recupero”, ma di una
condotta che, riferito ad un singolo conferimento, aveva
riguardato
quantitativi eccedenti ben quattro volte quello massimo
annuale normalmente consentito dall’art. 193,comma quinto,
d.lgs. n. 152 del 2006».
La Corte ha perciò concluso nella presente vicenda che il
ritenere di poter lecitamente effettuare senza
autorizzazione
più trasporti di rifiuti, in misura pari a 180 quintali con
continuità
ed in perfetta buona fede, sol perché così aveva sostenuto
una
circolare della Provincia e due sentenze di merito, non soddisfa
il requisito dell’errore scusabile; il rimprovero, di natura
alternativamente
colposa, è anche (e soprattutto) quello di non aver
approfondito il piano dell’indagine accontentandosi (ed in
qualche modo profittando) di una circolare e di un paio di
pronunce giurisdizionali per sottrarsi all’obbligo
quantomeno
di informarsi e/o di provare a chiedere il rilascio
dell’autorizzazione
o comunque l’iscrizione all’Albo.
Onde evitare che ciascun consociato si faccia misura
dell’ambito
di applicabilità della legge penale, è necessario che il
dubbio sul precetto si trasformi in granitica certezza della
liceità del proprio agire tale da escludere ogni benché
minimo
margine di dubbio. È altresì necessario che tale certezza
sia
instillata esclusivamente dall’esterno e non costituisca,
invece, il frutto, ragionato o meno, di un personale
convincimento.
In presenza anche solo di un minimo dubbio, l’azione
resta il frutto di un’opzione interiore ben precisa che
tiene in
conto la possibilità della natura antidoverosa dell’azione
stessa (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.01.2017 n. 2996
- Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
EMISSIONI OLFATTIVE MOLESTE DA IMPIANTO
AUTORIZZATO.
Emissioni in atmosfera - Molestia olfattiva - Reato -
Immissioni nei limiti regolamentari - Irrilevanza
Art. 674 cod. pen.
Il rappresentante legale di una azienda
che emette fumi, ancorché al di sotto dei limiti di legge,
può essere condannato per il reato di cui all’art. 674 cod.
pen. se l’attività sprigiona un odore fastidioso che mina il
benessere di chi abita nelle vicinanze.
Il Tribunale condannava tale U., responsabile della gestione
di
un impianto di microforatura ad aghi caldi, per la
contravvenzione
di cui all’art. 674 cod. pen. per avere provocato, in casi
non consentiti dalla legge, emissioni di gas atte ad
offendere le
persone abitanti in prossimità del suddetto impianto.
La sentenza veniva impugnata sotto tre distinti profili. In
primo
luogo, il ricorrente deduceva l’erronea applicazione della
Legge penale in relazione all’art. 674 cod. pen. e
dell’allegato
I alla Parte V del TUA: il Tribunale aveva erroneamente
ritenuto
integrato il reato in una ipotesi di emissioni olfattive,
promananti
da un impianto autorizzato e rispettoso dei relativi limiti
d’emissione, originate da sostanze corrispondenti alle
previsioni
autorizzative da un punto di vista “tipologico e
quantitativo”,
definite come “Composti organici sotto forma di gas
vapori o polveri”.
Trattandosi di composti “organici”, era
ovvio
che non poteva trattarsi di sostanze inodori. Pertanto,
l’immissione
autorizzata di determinate tipologie e quantità di
sostanze volatili era comprensiva, negli stretti limiti
autorizzati,
anche della loro manifestazione all’olfatto, anche perché,
diversamente opinando, dovrebbe irragionevolmente
concludersi
che l’ordinamento permetta e, all’un tempo, punisca uno
stesso identico comportamento.
In secondo luogo, il ricorrente evidenziava che la sentenza
individuava i limiti riportati nell’autorizzazione quale
parametro
per misurare la tollerabilità delle emissioni, ma,
attraverso il
richiamo al criterio della c.d. “stretta tollerabilità”,
obliterava
l’esistenza di limiti autorizzati. Invece, l’unico criterio
utilizzabile,
al di fuori del riferimento a regole positivamente
legificate
(cui sottintenderebbe l’inciso “nei casi non consentiti
dalla
legge”), sarebbe quello della “normale tollerabilità” di cui
all’art. 844 cod. civ., che imporrebbe di valutare se
sussistono
accorgimenti tecnici trascurati, ovvero se, all’opposto,
siano
altri soggetti, come le stesse persone offese, a non
rispettare
quei limiti.
Inoltre, facendo applicazione del criterio della “normale
tollerabilità”
previsto dall’art. 844 cod. civ. il Tribunale avrebbe
dovuto valorizzare il legittimo “preuso” del sito da parte
dell’azienda,
che, nel tempo, aveva adeguato le esigenze della
produzione alle migliori tecniche disponibili, quantomeno
ritenendo
insussistente l’elemento soggettivo del reato.
Il ricorso è stato rigettato.
La sentenza in rassegna ha infatti ricordato che la stessa
Sezione della Cassazione si è già pronunciata sull’argomento
affermando che, anche nel caso in cui un impianto sia munito
di autorizzazione per le emissioni in atmosfera, in caso di
produzione di “molestie olfattive” il reato di getto
pericoloso
di cose è, comunque, configurabile, non esistendo una
normativa
statale che preveda disposizioni specifiche e valori
limite in materia di odori. Di conseguenza, non può
riconoscersi
automatica valenza scriminante alla produzione di
emissioni odorigene pur realizzata nell’ambito
dell’ordinario
ciclo produttivo dell’impresa, ancorché regolarmente
autorizzato.
Non è stato condiviso neppure l’assunto difensivo secondo cui
l’unicità e la coerenza dell’ordinamento non potrebbero
consentire
che da un lato sia permesso e, dall’altro, sia punito uno
stesso identico comportamento, atteso che l’attività
autorizzata
potrebbe essere in ogni caso realizzata con modalità tali da
garantire, grazie all’adozione di puntuali accorgimenti
tecnici, il
mancato prodursi di emissioni moleste o fastidiose.
Con riferimento alla tesi che, anche a voler ritenere
astrattamente
configurabile la contravvenzione, nel caso in cui ricorra
un provvedimento che autorizzi determinate emissioni,
nondimeno, per ritenere integrata la fattispecie in esame,
si
doveva far ricorso, al fine di valutare la liceità delle
emissioni
olfattive, al criterio della normale tollerabilità di cui
all’art. 844
cod. civ., la Corte ha obiettato che discendeva dalla
premessa
già sviluppata, secondo cui non esiste una normativa statale
che preveda disposizioni specifiche e valori limite in
materia di
odori, l’affermazione secondo cui il parametro alla stregua
del
quale valutare la legittimità dell’emissione deve essere
individuato
nel criterio della “stretta tollerabilità”, attesa la
inidoneità
di quello della “normale tollerabilità” previsto dall’art.
844 cod. civ., ad assicurare una protezione adeguata
all’ambiente
ed alla salute umana.
Infine, la Corte ha ribadito che il Tribunale aveva
correttamente
deciso sulla base delle sole testimonianze delle persone
offese perché «la natura di reato di pericolo concreto e il
peculiare criterio di valutazione della tollerabilità delle
emissioni
olfattive, comporta che sia sufficiente l’apprezzamento
diretto delle conseguenze moleste da parte anche solo di
alcune persone, dalla cui testimonianza il giudice può
logicamente
trarre elementi per ritenere l’oggettiva sussistenza del
reato a prescindere dal fatto che tutte le persone siano
state
interessate o meno dallo stesso fenomeno o che alcune non
l’abbiano percepito affatto; non essendo nemmeno necessario
un accertamento tecnico» (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.01.2017 n. 2240
- Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
REALIZZAZIONE DI TERRAPIENO CON RIFIUTI: È
SMALTIMENTO.
Rifiuti - Ammasso residui di demolizioni edili su un terreno
- Utilizzo dei rifiuti per realizzare un terrapieno -
Attività di smaltimento - È tale
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Integra il reato di gestione di rifiuti,
il riutilizzo di residui di demolizioni edili per la
realizzazione di un terrapieno e per la stabilizzazione di
una scarpata perché questa attività costituisce uno
smaltimento sottoposto ad autorizzazione di legge.
P.A. e P.N.
venivano condannati per avere, la seconda quale
proprietaria di un fondo in Comune di Recaldone ed il primo
quale usufruttuario del medesimo fondo, proceduto alla
gestione di rifiuti, costituiti da residui di demolizioni
edili,
riutilizzandoli per la realizzazione di un terrapieno e per
la
stabilizzazione di una scarpata, in tal modo provvedendo al
loro smaltimento in assenza delle autorizzazioni di legge;
la
sola P.N. era ritenuta responsabile anche per avere
abbandonato
sullo stesso terreno un’autovettura di sua proprietà
invece che procederne alla rottamazione presso un centro a
ciò autorizzato.
Procedendo all’esame delle censure formulate dai due
ricorrenti,
la Cassazione ha rilevato che, in primo luogo, essi
deducevano
l’insufficienza probatoria in ordine alla commissione
dei fatti ascritti: tale doglianza, oltre ad essere
inammissibile in
Cassazione, era comunque destituita di fondamento avendo il
Tribunale adeguatamente dimostrato che i prevenuti avevano
utilizzato una rilevantissima quantità di rifiuti (pari a
circa 1000
tonnellate), costituiti da residui di demolizioni edili, dei
quali gli
stessi avevano evidentemente consentito per lungo tempo a
terzi il deposito all’interno del terreno del quale essi
erano,
rispettivamente, proprietaria ed usufruttuario, al fine di
colmare
una depressione esistente sullo stesso attraverso la
realizzazione di un terrapieno.
Per la Suprema Corte la rilevantissima quantità di rifiuti
depositati
all’interno del fondo di pertinenza dei due imputati era
sicuro indice, tanto più in quanto il fondo in questione era
limitrofo alla abitazione degli imputati, del fatto che il
deposito
non era avvenuto nella mera negligente tolleranza dei due
ricorrenti, ma era da costoro espressamente consentito
dato l’utile che essi contavano di trarne, cioè il
livellamento
del terreno attraverso la realizzazione del terrapieno
formato
dall’ammasso dei detriti ivi conferiti.
La Cassazione ha invece ritenuto fondato il motivo di
impugnazione
avente ad oggetto la mancanza di un’autonoma
rilevanza penale della condotta attribuita alla sola P.N. e
consistente
nello smaltimento della carcassa della vettura a
lei intestata.
Infatti, «in relazione al reato contestato
alla
prevenuta, cioè la violazione dell’art. 256, comma 1, D.Lgs.
n. 152/2006 anche la eventuale pluralità sia di condotte
realizzate
fra quelle indicate dalla norma citata sia di generi di
rifiuti
speciali da esse implicati (tutti caratterizzati, peraltro,
dalla
comune appartenenza alla categoria dei rifiuti speciali non
pericolosi), in quanto si tratta di fattori unificati da un
unico
intento ed in quanto cronologicamente ascrivibili ad
un’unica
complessiva volizione, non consente di sussumere le varie
condotte o le varie tipologie di materiale costituenti il
corpo del
reato ciascuna in un’autonoma fattispecie di reato, dovendo,
invece, le stesse essere unificate in un’unica
contravvenzione,
il cui effettivo grado di gravità sarà, peraltro,
determinato, caso
per caso, anche in funzione della eterogeneità e della
pluralità
delle condotte poste in essere nonché della entità più o
meno
ampia e più o meno varia del, o dei materiali oggetto di
illecito
trattamento».
La Corte ha perciò concluso che la condotta posta in essere
dalla P., consistente nello smaltimento della carcassa della
sua
autovettura, non costituiva altro che una diversa modalità
di
realizzazione, quanto all’oggetto materiale, della più ampia
attività criminosa a lei attribuita sub a) della rubrica
contestata,
senza che in essa fosse dato rinvenire un’autonoma rilevanza
rispetto alla precedente condotta (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.01.2017 n. 1945
- Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ASSENZA DI LIMITI DI LEGGE E CRITERIO DELLA
STRETTA
TOLLERABILITÀ.
Emissioni moleste - Sostanze volatili - Creolina - Assenza
di limiti di legge all’emissione - Criterio da impiegare per
giudicare della liceità dell’emissione
Art. 674, cod. pen.
Tra le emissioni di gas, vapori o fumo
atte ad offendere o imbrattare o molestare persone rientrano
tutte le sostanze volatili che, come la creolina, emanano
odori provocanti disturbo, disagio o fastidio alle persone.
Non risultando stabiliti limiti di legge all’emissione di
tale sostanza, il criterio da impiegare per giudicare della
liceità o meno della stessa è quello della “stretta” e non
della “normale” tollerabilità.
B.L. ricorreva avverso la sentenza di condanna per il reato
di cui
all’art. 674 cod. pen. contestatogli per avere versato in
luogo di
pubblico transito una sostanza di tipo “creolina”,
lamentando
l’errata applicazione di legge con riferimento alla ritenuta
sussistenza
del reato. In particolare, deduceva che, a seguito di
petizioni con le quali l’imputato ed altri residenti si
erano
lamentati delle scarse condizioni igieniche del paese, il
Comune aveva autorizzato l’uso della creolina quale
disinfettante.
Censurava poi il ragionamento del Tribunale secondo
cui la fattispecie era inquadrabile nella prima parte
dell’art. 674
cod. pen. senza che assumesse alcun rilievo la liceità
dell’emissione inquinante: a detta del ricorrente, in
presenza
di una regolare autorizzazione amministrativa, si
realizzerebbe
una sorta di inversione dell’onere probatorio a fronte del
quale
occorre dimostrare che l’emissione abbia comunque superato
i parametri della normale tollerabilità sicché è irrilevante
il
disagio che il soggetto particolare e non invece la
collettività
intera, abbia ricevuto per effetto di un’azione di per sé
già
lecita.
La Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso.
Seppure, contrariamente a quanto argomentato dal Tribunale,
la condotta contestata di utilizzo della creolina dovesse
essere
inquadrata nella seconda parte dell’art. 674 cod. pen. e non
nella prima giacché, tra le emissioni di gas, vapori o fumo
atte
ad offendere o imbrattare o molestare persone rientrano
tutte
le sostanze volatili che, come quella di specie, emanano
odori
provocanti disturbo, disagio o fastidio alle persone, ciò
non
muta la conclusione cui è correttamente giunto il Tribunale
in
ordine alla illiceità dell’uso stesso: infatti, non
risultando
stabiliti dei limiti di legge, oltre i quali l’uso della
sostanza di
specie (autorizzato, a quanto sembra, sia pure in un secondo
tempo dalla stessa amministrazione comunale) non potesse
andare, il criterio da impiegare per giudicare della liceità
o
meno della stessa è quello della “stretta” e non della
“normale”
tollerabilità.
Le doglianze sul punto del ricorrente erano perciò
infondate,
mentre l’assunto difensivo circa l’occasionalità delle
condotte era smentito in fatto da quanto argomentato in
sentenza circa l’uso ripetuto delle sostanze (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.01.2017 n. 798
- Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO ABUSIVO E CONFISCA DEL VEICOLO DI
TERZO.
Rifiuti - Trasporto abusivo - Confisca del veicolo
utilizzato - Oneri del terzo proprietario del veicolo che
invoca la restituzione delle cose sequestrate
Art. 256, 259, D.Lgs. n. 152/2006
Il terzo che invochi la restituzione del
veicolo sequestrato in quanto utilizzato per trasportare
rifiuti, qualificandosi come proprietario o titolare di
altro diritto reale, è tenuto a provare i fatti costitutivi
della sua pretesa e, in particolare, oltre alla titolarità
del diritto vantato, anche l’estraneità al reato e la buona
fede, intesa come assenza di condizioni in grado di
configurare a suo carico un qualsivoglia addebito di
negligenza da cui sia derivata la possibilità dell’uso
illecito del bene.
Nell’impugnare la sentenza del Tribunale che lo aveva
condannato
per avere eseguito un trasporto non autorizzato di rifiuti
(costituiti da sedie a sdraio, lavatrici, contenitori in
ferro, telai
ed una scocca di un veicolo Ape 50), l’imputato lamentava la
violazione dell’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs. n.
152/2006
per l’errata affermazione della propria responsabilità
nonostante
l’occasionalità del trasporto, e la violazione dell’art.
260-ter dello stesso Decreto per l’illegittimità della
confisca
del veicolo utilizzato, di proprietà di un terzo, e di cui
non
avrebbe potuto essere disposta la confisca, essendo stato,
nel frattempo, restituito alla proprietaria.
Il ricorso è stato rigettato.
In relazione al primo motivo, la Corte ha sottolineato
l’irrilevanza,
ai fini della configurabilità del reato, della mancanza di
una veste professionale in capo all’autore del trasporto o
della qualifica di imprenditore e ha sostenuto la
sufficienza
anche di una sola condotta tipica per poter ritenere
integrato
il reato.
In ordine al secondo motivo, la Corte ha osservato, prima di
tutto, che la mancanza della disponibilità materiale del
veicolo,
restituito alla proprietaria prima della pronunzia della
sentenza
impugnata, che impedirebbe, ad avviso del ricorrente, di
disporne la confisca (nella specie obbligatoria), non
costituisce
condizione per l’adottabilità del provvedimento ablatorio,
non
essendo ciò previsto né dall’art. 240 cod. pen. né dall’art.
259,
D.Lgs. n. 152/2006, ma attiene, piuttosto, qualora il bene
non
sia sottoposto a vincolo, alla fase di esecuzione della
confisca,
per la quale occorrerà la ricerca e la materiale apprensione
del
bene, ma non impedisce di disporla, né la condiziona.
In merito alla prospettata estraneità del proprietario del
veicolo
al reato, la Cassazione ha ribadito che, al fine di evitare
la
confisca obbligatoria del mezzo di trasporto, il terzo
estraneo
al reato, individuabile in colui che non ha partecipato alla
commissione dell’illecito ovvero ai profitti che ne sono
derivati,
ha l’onere di provare la sua buona fede, ovvero che l’uso
illecito della res gli era ignoto e non è collegabile ad un
suo
comportamento colpevole o negligente.
Nella vicenda in esame, il Tribunale aveva escluso
l’estraneità
della terza proprietaria del veicolo al reato ed anche che
la
stessa avesse dimostrato di non aver posto in essere una
condotta negligente, evidenziando come la proprietaria
fosse la moglie dell’imputato e fosse a bordo del veicolo, a
fianco all’imputato, allorquando il veicolo venne fermato in
occasione del trasporto dei rifiuti (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.12.2016 n. 55286 -
Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO E SCARICO ABUSIVO: REATO ANCHE SE
OCCASIONALE.
Rifiuti - Trasporto e scarico abusivi di rifiuti originati
in maniera occasionale e consequenziale ad altra attività
primaria -Autore del reato- Titolare dell’impresa -
Fattispecie
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La configurabilità del reato di cui
all’art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006, prescinde dalla
qualifica rivestita dall’agente, non trattandosi di un reato
cosiddetto proprio, e quindi può essere commesso anche da
chi si trovi a realizzare la condotta incriminata non nello
svolgimento di un’attività primaria, ma in maniera
occasionale e consequenziale ad altra attività principale
(nella specie, i titolari di un’impresa operante nell’ambito
delle costruzioni edili avevano trasportato e scaricato in
un terreno di loro proprietà rifiuti costituiti da
sfabbricidi, elettrodomestici in disuso e mobili
deteriorati, originati dall’attività svolta).
I soci di un’impresa che avevano trasportato e raccolto in
un terreno di loro proprietà rifiuti costituiti da
sfabbricidi, elettrodomestici
in disuso e mobili deteriorati, venivano condannati
per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett. a), D.Lgs.
n. 152/2006.
Impugnando la sentenza, gli imputati deducevano che il reato
loro contestato presupponeva lo svolgimento di un’attività
organizzata di raccolta e smaltimento dei rifiuti, laddove
il
fatto accertato, a tutto voler concedere,
riguardava un episodio
isolato e non un atto di gestione di una discarica.
La Corte ha osservato che la quantità e la qualità dei
rifiuti
depositati presso il terreno in questione - pacificamente
riconducibile
ai due ricorrenti - era certamente frutto di reiterati
conferimenti di materiali, verosimilmente originati
dall’attività
svolta dai prevenuti, operanti nell’ambito delle costruzioni
edili.
La sentenza non ha accolto la tesi sostenuta dai ricorrenti,
secondo la quale, non svolgendo costoro stabilmente
un’attività connessa alla gestione ed allo smaltimento dei
rifiuti, non era possibile configurare nella loro condotta
il reato contestato; infatti, secondo la costante
giurisprudenza, la violazione dell’art. 256, comma 1,
prescinde dalla qualifica rivestita dall’agente, non
trattandosi di un reato cosiddetto proprio, essendo invece
un reato comune che può, pertanto, essere commesso anche da
chi si trovi a realizzare la condotta incriminata non nello
svolgimento di un’attività primaria, ma in maniera
occasionale e consequenziale ad altra attività principale (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.12.2016 n. 52833
- Ambiente & sviluppo 3/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
REFLUI DA AUTOLAVAGGIO.
Acque - Attività di autolavaggio - Reflui prodotti - Natura
di acque industriali - Sversamento su terreno - Reato
Art. 137, D.Lgs. n. 152/2006
Le acque reflue non ricollegabili al
metabolismo umano o non provenienti dalla attività domestica
hanno carattere industriale, per cui il relativo sversamento
sul terreno integra il reato di scarico abusivo.
Il rappresentante di una società di autolavaggio veniva
condannato
per la contravvenzione di cui all’art. 137, D.Lgs. n. 152/2006 (così riqualificata l’originaria contestazione di cui
all’art.
256, comma 1) per avere effettuato senza la prescritta
autorizzazione,
un versamento diretto sul nudo terreno delle acque
reflue provenienti da un’attività di autolavaggio svolta
dalla
suddetta società: secondo quanto riferito dal teste di
polizia
giudiziaria, in occasione di un controllo effettuato da
personale
dell’Arpac era emerso che l’impianto di depurazione, costituito
da diverse cisterne in cui sarebbero dovuti confluire i
reflui
dell’attività del predetto esercizio, presentava un tubo
sottotraccia, il quale faceva, in realtà, defluire le acque
accumulate
verso un canale limitrofo e, in parte, sul nudo terreno;
tutto ciò senza che vi fosse alcuna autorizzazione allo
scarico
dei reflui sul suolo.
Così accertati i fatti, il giudice di merito aveva
inquadrato la
fattispecie nell’alveo dell’art. 137 e, accanto al dato
oggettivo
dello sversamento dei reflui sul suolo, aveva ravvisato
anche
un profilo di colpa, consistente nel mancato apprestamento
delle cautele necessarie ad evitare che gli scarichi
derivanti
dall’attività aziendale, pacificamente qualificabili come
“rifiuto”, finissero sul nudo terreno.
Secondo il ricorrente, che aveva proposto ricorso per
cassazione
avverso la predetta sentenza, il giudice aveva applicato
una errata nozione di “scarico”, atteso che mentre
l’originaria
formulazione dell’art. 74, comma 1, lett. ff), D.Lgs. n.
152/2006
qualificava come scarico “qualsiasi immissione di acque reflue
in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo,
indipendentemente
dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo
trattamento di depurazione”, il nuovo testo,
conseguente alla modifica apportata con il D.Lgs. n. 4/2008
restringeva la relativa nozione, definendo lo scarico come
“qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un
sistema stabile di collegamento che collega senza soluzione
di
continuità il ciclo di produzione delle acque reflue con il
corpo
recettore”.
Pertanto, considerato che in occasione del sopralluogo era
stato constatato che le acque dell’attività di autolavaggio
refluivano nelle vasche per lo smaltimento, mentre nel tubo
rinvenuto dagli accertatori erano confluite anche le acque
piovane, la ricordata nozione di scarico, ad avviso del
ricorrente,
era inapplicabile al caso di specie.
Il ricorso è stato rigettato.
Infatti, secondo la Cassazione, diversamente da quanto
opinato
dal ricorrente, la fattispecie incriminatrice applicabile al
caso di specie era stata correttamente rinvenuta, dal primo
giudice, in quella di cui al comma 1 dell’art. 137, a mente
del
quale, nella versione applicabile ratione temporis alla
presente
vicenda processuale, viene sanzionato colui il quale “apra o
comunque effettui nuovi scarichi di acque reflue
industriali,
senza autorizzazione, oppure continui ad effettuare o
mantenere
detti scarichi dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa
o revocata”.
Le acque reflue provenienti dallo svolgimento dell’attività
produttiva dell’autolavaggio devono essere qualificate come
“industriali”.
Già sotto la vigenza della Legge n. 319/1976, si era
individuato
il criterio distintivo tra insediamenti civili e
insediamenti produttivi
sulla base dell’assimilabilità o meno dei rispettivi
scarichi,
per tipo e qualità dei reflui, a quelli provenienti da
insediamenti abitativi.
Con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 156/2006, l’art.
74, comma 1,
lett. h), come modificato dal D.Lgs. 16.01.2008, n. 4,
definisce le acque reflue industriali come quelle
provenienti da
edifici o installazioni in cui si svolgono attività
commerciali o di
produzione di beni, differenti, qualitativamente, dalle
acque
reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento.
Secondo la giurisprudenza, nella nozione in esame rientrano
perciò tutti i reflui derivanti da attività che non
attengono
strettamente al prevalente metabolismo umano ed alle attività
domestiche, il cui scarico è presidiato dalla mera sanzione
amministrativa ex art. 133, comma 2.
Conseguentemente rientrano tra le acque reflue industriali
quelle provenienti da attività artigianali e da prestazioni
di
servizi a condizione che le caratteristiche qualitative
degli
stessi siano diverse da quelle delle acque domestiche e ciò
indipendentemente dal grado o dalla natura
dell’inquinamento.
Dunque, per determinare le acque che derivano dalle attività
produttive occorre procedere a contrario, vale a dire
escludere
le acque ricollegabili al metabolismo umano e provenienti
dalla
realtà domestica: è questo il caso degli impianti di
autolavaggio,
i quali hanno natura di insediamenti produttivi e non di
insediamenti civili in considerazione della qualità
inquinante
dei reflui, diversa e più grave rispetto a quella dei
normali
scarichi da abitazioni, e per la presenza di residui quali
oli
minerali e sostanze chimiche contenute nei detersivi e nelle
vernici eventualmente staccatesi da vetture usurate.
La Corte ha, dunque, concluso che lo sversamento sul suolo
di
tali acque, operato, senza autorizzazione, attraverso il
tubo
interrato rinvenuto dagli accertatori era certamente idoneo
a
integrare la fattispecie criminosa di che trattasi, restando
del
tutto irrilevante il dato relativo alla presenza degli
idrocarburi
che, pur rilevata in occasione del controllo, rappresentava
un
elemento estraneo all’ambito applicativo della fattispecie
incriminatrice ritenuta applicabile nella specie (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.12.2016 n. 51889
- Ambiente & sviluppo 2/2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
TRASPORTO SENZA FORMULARIO.
Rifiuti - Trasporto senza il prescritto formulario di
identificazione dei rifiuti e senza l’iscrizione
all’apposito Albo Gestori Ambientali - Causa di non
punibilità per particolare tenuità del fatto - Applicabilità
- Condizioni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 131-bis, cod. pen.
La speciale causa di non punibilità
prevista dall’art. 131-bis cod. pen. è applicabile anche
alla contravvenzione di cui all’art. 256, comma 1, lett. a)
D.Lgs. n. 152/2006 (contestata in relazione al trasporto di
rifiuti da demolizione edile senza il prescritto formulario
di identificazione dei rifiuti e senza l’iscrizione
all’apposito Albo Gestori Ambientali). Infatti, anche con
riferimento a tale fattispecie è possibile riscontrare un
complesso di elementi connotanti la specifica vicenda nella
sua dimensione storico-fattuale tali da fare apprezzare come
in concreto particolarmente tenue la condotta penalmente
rilevante non essendo affatto indifferente, ad esempio, che
la condotta in questione afferisca o meno ad una attività di
gestione di imponenti quantità di rifiuti realizzata con
caratteristiche professionali o che l’agente l’abbia svolta
o meno con carattere di continuità o, ancora, che si sia
immediatamente attivato o meno per ristabilire l’ordine
giuridico violato attraverso il conferimento del materiale
in discarica.
A seguito di un casuale controllo da parte degli agenti
della
Polizia provinciale, tal O. era stato colto mentre, alla
guida del
proprio autocarro, stava effettuando il trasporto di rifiuti
da
demolizione edile senza aver redatto il prescritto
formulario di
identificazione dei rifiuti e senza essere iscritto
all’apposito
Albo Gestori Ambientali per il trasporto di rifiuti,
previsto
dall’art. 212, comma 8, D.Lgs. n. 152/2006.
Nel frangente, interpellato dagli operanti, O. dichiarò di
aver
inteso fare, con il trasporto del materiale, “un favore ad
un
amico”. Dai successivi accertamenti, era emerso che, in
precedenza,
il conducente era stato titolare di una ditta individuale,
la quale risultava essere stata iscritta nel Registro delle
Imprese sino al 2003 e che, subito dopo il controllo di
polizia,
aveva provveduto a depositare i rifiuti presso un sito
autorizzato
a riceverli.
Nel corso del dibattimento, O., diversamente da quanto aveva
riferito agli operanti nell’immediatezza del fatto, dichiarò
che le
macerie provenivano da un intervento edile svolto presso la
sua abitazione e che, al momento del controllo, egli stava
conferendo il materiale in una cava.
Secondo il giudice di primo grado, le condotte descritte
dovevano
ritenersi idonee ad integrare il reato di cui all’art. 256,
comma 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006, non avendo O.
ottemperato alla disposizione che prevede, per i produttori
iniziali di rifiuti “non pericolosi” che effettuano
operazioni di
raccolta e trasporto dei propri rifiuti e per coloro che
svolgono
attività di trasporto di detti rifiuti per conto terzi,
l’obbligo di
iscriversi in un’apposita sezione dell’Albo Gestori
Ambientali
per il trasporto di rifiuti. Obbligo che, secondo la
giurisprudenza
di legittimità, sussisterebbe anche in caso di piccoli
lavori edili o, comunque, di un solo trasporto occasionale
e/o
saltuario.
Sotto il profilo soggettivo, il giudice aveva ravvisato un
profilo
di colpa nella circostanza che l’imputato operasse,
quantomeno
di fatto, nel settore edile e che, in passato, egli avesse
svolto attività di impresa in maniera professionale, come
dimostrato dal dato relativo alla cancellazione della sua
ditta
dal Registro delle imprese artigiane nel corso del 2003;
sicché
avrebbe dovuto conoscere dell’esistenza del predetto obbligo
di iscrizione.
Il giudice aveva, infine, ritenuto che la natura di reato di
pericolo
e la finalità propria della contravvenzione prevista dal
T.U.
ambientale non consentivano “di valutare come inoffensivo
il descritto comportamento neppure sotto il profilo
dell’art.
131-bis cod. pen.”.
Il prevenuto censurava la sentenza lamentando, in primo
luogo, l’errata interpretazione ed applicazione dell’art.
131-bis cod. pen.: sul punto deduceva, infatti, che aveva posto
in
essere “un singolo, unico e sporadico episodio dovuto al
trasporto di macerie derivanti dal rifacimento di una zona
della propria abitazione”; sicché, sotto tale profilo, si
trattava
di condotta non abituale. Inoltre, l’imputato non aveva
alcun
precedente penale e aveva provveduto immediatamente al
pagamento della sanzione amministrativa irrogatagli: elementi
che connotavano il fatto in termini di una particolare
tenuità e
che, dunque, giustificavano la concessione della speciale
causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis cod. pen.
In secondo luogo, il ricorrente deduceva la mancanza
dell’elemento
soggettivo perché il Tribunale non aveva tenuto conto
del fatto che l’attività nel settore edile era stata svolta
in anni
ormai risalenti nel tempo e che trattavasi di attività di
traslochi
civili e, dunque, del tutto diversa da quella contestatagli.
Il Supremo Collegio ha concluso nel senso che il ricorso era
parzialmente fondato.
Innanzitutto, i giudici romani si sono soffermati sul
secondo
motivo di impugnazione, attinente a profili che concernevano
la configurabilità dell’elemento soggettivo del reato,
osservando
che questo era stato correttamente ravvisato nella
circostanza che Olivo avesse operato, quantomeno di fatto,
nel settore edile sicché era pienamente conforme alle regole
che disciplinano i meccanismi di imputazione colposa del
reato
e, in particolare, al criterio cardine c.d. dell’homo ejusdem
condicionis ac professionis, che l’imputato fosse chiamato a
rispondere della mancata acquisizione di un titolo formale,
quale la menzionata iscrizione nell’Albo, della cui
necessità
avrebbe dovuto essere pienamente a conoscenza proprio in
ragione dell’attività svolta.
Passando al primo motivo di ricorso, la Corte ha ritenuto
che la
motivazione espressa dal giudice di merito fosse “totalmente
eccentrica rispetto alla traiettoria ricostruttiva delineata
dal
Giudice di legittimità nella sua massima espressione
nomofilattica,
dal momento che la sentenza impugnata esclude
arbitrariamente
dall’ambito di operatività dell’istituto i reati della
stessa specie di quello per cui oggi è processo,
disattendendo
platealmente la soluzione ermeneutica accolta dalle Sezioni
Unite, qui condivisa”.
La Corte ha ricordato, infatti, che la speciale causa di non
punibilità è applicabile anche alla contravvenzione
contestata,
in relazione alla quale l’oggetto del rimprovero penale
consiste
non nell’offesa al bene ambientale quanto nella violazione
di
un obbligo, quello della preventiva iscrizione nell’Albo
Gestori
Ambientali per il trasporto di rifiuti, funzionale alla
possibilità di
esercitare forme di controllo amministrativo sulla idoneità
tecnica del soggetto alla gestione dei rifiuti.
Ciò posto, la sentenza ha rilevato che anche con riferimento
alla fattispecie contravvenzionale in esame è possibile
riscontrare,
al di là del dato formale della omessa iscrizione, un
complesso di elementi connotanti la specifica vicenda nella
sua dimensione storico- attuale, tali da fare apprezzare
come
in concreto particolarmente tenue la condotta penalmente
rilevante: non essendo affatto indifferente, ad esempio, che
la condotta in questione afferisca o meno ad una attività di
gestione di imponenti quantità di rifiuti realizzata con
caratteristiche
professionali o che l’agente l’abbia svolta o meno con
carattere di continuità o, ancora, che si sia immediatamente
attivato o meno per ristabilire l’ordine giuridico violato
attraverso
il conferimento del materiale in discarica ed il pagamento
delle sanzioni amministrative ecc.
La pronuncia impugnata è stata perciò annullata, con rinvio,
per nuovo esame sull’applicabilità della speciale causa di
non
punibilità (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
30.11.2016 n. 50751
- Ambiente &
sviluppo 2/2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 33, co. 2, c.p.a., le sentenze di primo grado sono esecutive, salvo il ricorso allo strumento previsto dall’art. 98 c.p.a., in assenza del quale non sussiste alcuna ragione per mettere in discussione l’esecutività della sentenza di primo grado sancita dalle norme di legge ed il relativo obbligo gravante sull’amministrazione, tenuta all’esecuzione. Ne deriva che, a fronte del diniego di accertamento di sanatoria e di condono del Comune (...), gli interventi edilizi contestati dall’ente locale, per essere stati realizzati in assenza di titoli autorizzatori, sono abusivi. L’ente locale, in definitiva, non è obbligato ad attendere necessariamente l’esito del giudizio di appello, attesa la natura esecutiva della sentenza pronunciata in primo grado. Ne consegue che i presupposti che hanno portato al diniego di sanatoria e all’adozione dell’ordinanza di demolizione non possono essere rimessi in discussione, risultando, per questo, inammissibili le censure del ricorrente nella parte in cui ripropongono doglianze avverso i suddetti provvedimenti, come avviene con riferimento al documento programmatico per la rigenerazione urbana dell’area su cui insiste il manufatto abusivo. ---------------
Il procedimento penale è distinto da quello
amministrativo. Consolidata è in tal senso la
giurisprudenza nell’affermare che il profilo
amministrativo e quello penalistico, entrambi
connessi e conseguenti alla realizzazione di
opere o manufatti abusivi, operano su distinti
piani e secondo diverse cadenze temporali.
---------------
A fronte del pregresso accertamento di abusi
edilizi realizzati su area sottoposta a
vincolo cimiteriale (e, dunque, in violazione
del vincolo di inedificabilità ex lege),
l’amministrazione comunale è tenuta ad
ultimare il procedimento sanzionatorio
avviato, adottando, a seguito dell’emanazione
dell’ingiunzione di demolizione, i
provvedimenti e gli atti materiali ulteriori,
diretti a darvi piena attuazione.
---------------
... per l'annullamento: - della nota prot. n. 29157 del 20.08.2015 della Ripartizione Tecnica, Ufficio Edilizia Privata del Comune di Bisceglie a firma del Dirigente, arch. Gi.Lo., con cui si comunica l’esecuzione di lavori in danno, per demolizione di opere abusive realizzate in Bisceglie,
... n. 51 a carico del sig. Di Li. An., di cui alla Determina Dirigenziale n. 111 del 10.07.2015; - di ogni altro atto presupposto, connesso e/o consequenziale con quelli impugnati nonché per l’accertamento del diritto ad ottenere la sospensione di ogni procedimento a seguito dell’ordinanza di sospensione dell’ordine di demolizione pronunciata dalla Corte di Appello di Bari, Terza Sezione Penale (proc. pen. n. 2498/2007) ed in pendenza di giudizio di appello presso il Consiglio di Stato (8773/2009) avverso la sentenza n. 1825/2008 resa sul ricorso n. 2044/2006 del TAR Puglia - Bari, Sez. III. ... 1.- Il sig. An. Di Li., con il ricorso notificato il 21.09.2015 e depositato il successivo 25.09.2015, ha impugnato la nota in epigrafe specificata, con cui il Comune di Bisceglie ha comunicato l’esecuzione di lavori in danno per la demolizione di opere abusive, realizzate sull’immobile di sua proprietà, censito al catasto al fg. 2, p.lle nn. 1533 e 1056 sub 1, sito in Strada
..., n. 51. La comunicazione segue la determina nr. Reg. generale 799 del 10.07.2015, con cui è stata approvata la spesa per l’esecuzione dei suddetti lavori in danno, attesa la mancata esecuzione da parte del sig. Di Liddo dell’ordinanza di demolizione n. 255 del
03.07.2007. Espone al riguardo quanto segue : a) che il Comune, in precedenza, ha negato la sanatoria delle opere abusive, in quanto realizzate in zona di inedificabilità assoluta per previsione del vigente PRG e per disposizione dell’art. 338 R.D. 1265/1934; b) che avverso il suddetto diniego è stato proposto ricorso, respinto con sentenza n. 1825/2008, pronunciata da questo TAR, avverso la quale è tuttora pendente appello innanzi al Consiglio di Stato; c) che le medesime opere abusive sono state oggetto di un procedimento penale e che l’ordine di demolizione impartito in tale sede è stato sospeso dalla Corte d’Appello di Bari. I motivi di ricorso si fondano sull’asserito eccesso di potere sotto vari profili da parte dell’amministrazione comunale, principalmente per non avere tenuto conto della sospensione dei procedimenti sanzionatori in sede penale. 2. - Con ordinanza n. 607 del 22.10.2015 è stata accolta l’istanza cautelare. 3.- Con atto depositato il 18.11.2015 si è costituito in giudizio il Comune di Bisceglie, replicando, con memoria del
04.06.2016, alle censure del ricorrente. 4. - Alla pubblica udienza del 7.07.2016, la causa è stata trattenuta in decisione. 5. - Il ricorso è infondato e deve, pertanto, essere respinto. Dirimenti sono le seguenti considerazioni: 5.1. –
La sentenza n. 1825/2008 con cui è stato respinto il ricorso avverso il diniego di sanatoria delle opere abusive e l’ordinanza di demolizione, sebbene appellata, è allo stato esecutiva, non avendo parte ricorrente, soccombente, chiesto alcun provvedimento sospensivo nel giudizio di appello.
Come già chiarito dalla Sezione in precedente pronuncia “Ai sensi dell’art. 33, co. 2, c.p.a., le sentenze di primo grado sono esecutive, salvo il ricorso allo strumento previsto dall’art. 98 c.p.a., in assenza del quale non sussiste alcuna ragione per mettere in discussione l’esecutività della sentenza di primo grado sancita dalle norme di legge ed il relativo obbligo gravante sull’amministrazione, tenuta all’esecuzione. Ne deriva che, a fronte del diniego di accertamento di sanatoria e di condono del Comune (...), gli interventi edilizi contestati dall’ente locale, per essere stati realizzati in assenza di titoli autorizzatori, sono abusivi. L’ente locale, in definitiva, non è obbligato ad attendere necessariamente l’esito del giudizio di appello, attesa la natura esecutiva della sentenza pronunciata in primo grado” (TAR Bari sez. III, sent. 315 del 10.03.2016). Ne consegue che i presupposti che hanno portato al diniego di sanatoria e all’adozione dell’ordinanza di demolizione non possono essere rimessi in discussione, risultando, per questo, inammissibili le censure del ricorrente nella parte in cui ripropongono doglianze avverso i suddetti provvedimenti, come avviene con riferimento al documento programmatico per la rigenerazione urbana dell’area su cui insiste il manufatto abusivo. 5.2. – Il procedimento penale è distinto da quello amministrativo. Consolidata è in tal senso la giurisprudenza nell’affermare che il profilo amministrativo e quello penalistico, entrambi connessi e conseguenti alla realizzazione di opere o manufatti abusivi, operano su distinti piani e secondo diverse cadenze temporali (cfr.
ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 28.06.2016, n. 2865; Tar Lazio, Roma, I-quater, 13.06.2016 n. 6744 e
02.04.2015, n. 4970). A nulla rileva, pertanto, quanto riferito dal ricorrente sul procedimento penale relativo alla realizzazione delle medesime opere. 5.3. – A fronte del pregresso accertamento di abusi edilizi realizzati su area sottoposta a vincolo cimiteriale (e, dunque, in violazione del vincolo di inedificabilità
ex lege), l’amministrazione comunale è tenuta ad ultimare il procedimento sanzionatorio avviato, adottando, a seguito dell’emanazione dell’ingiunzione di demolizione, i provvedimenti e gli atti materiali ulteriori, diretti a darvi piena attuazione. Per tutto quanto esposto il ricorso deve essere respinto (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 27.07.2016 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
NO ALLA SANATORIA PARZIALE IN QUANTO CONTRASTANTE CON LA
NECESSITÀ DELLA C.D. DOPPIA CONFORMITÀ.
Non è ammissibile il rilascio di un
permesso di costruire in sanatoria ex artt. 36 e 45 T.U.
Edilizia, relativo soltanto a parte degli interventi abusivi
realizzati, ovvero parziale, atteso che ciò contrasta
ontologicamente con gli elementi essenziali
dell’accertamento di conformità, i quali presuppongono la
già avvenuta esecuzione delle opere e la loro integrale
conformità sia alla disciplina vigente al momento delle
realizzazione che a quella in vigore al momento
dell’accertamento di conformità.
La Corte Suprema si sofferma nuovamente, con la sentenza
in esame, sulla questione giuridica della c.d. sanatoria
parziale, ossia sulla possibilità da parte
dell’Amministrazione
di rilasciare un permesso di costruire in sanatoria limitato
solo a parte delle opere, oggetto dell’istanza di
accertamento
di conformità.
La vicenda processuale segue alla
sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la
sentenza del Tribunale che aveva dichiarato due soggetti
responsabili del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001,
art.
44, lett. b); gli stessi erano stati tratti a giudizio per
rispondere
dell’edificazione, in un medesimo fabbricato, di un
ulteriore
locale seminterrato, parzialmente idoneo ad uso residenziale
(suddivisione in quattro vani, provvisti di finestre,
predisposizione degli impianti tecnologici), nonché al piano
terra di un’ulteriore superficie di mq. 37 circa non
prevista
in progetto, tale da determinare una palese difformità
planimetrica.
La Corte d’Appello rilevava che la valenza del
permesso di costruire in sanatoria ai sensi del d.P.R. n.
380
del 2001, artt. 34 e 36, era un problema da affrontare in
sede
di esecuzione, anche per quanto riguarda la concreta
eseguibilità rispetto alle porzioni di immobile preesistenti
e
legittimamente edificate. Gli imputati proponevano ricorso
per cassazione deducendo che il presupposto per
l’applicazione
della sanzione demolitoria era la permanenza della
violazione, ma se questa viene sanata in via amministrativa
(mediante corresponsione, tra l’altro, di somme che a loro
volta hanno carattere anche sanzionatorio) seppure in forma
non estintiva del reato, l’ordine di demolizione (per la
sua natura di portata amministrativa) non potrebbe essere
emesso dalla P.A., né tanto più dal Giudice penale, stante
la sua funzione sostitutiva. Evidenziavano che nel caso di
specie difettavano i presupposti per disporre la demolizione
di opere sanate, se pure con provvedimento privo di
efficacia
estintiva sul piano penale.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, precisando che la rilevanza penale della
così detta doppia conformità, che discende dal regime del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, ex art. 36, ha come
riferimento
le opere realizzate nella loro integralità, ed è a questa e
alla situazione di fatto accertata che occorre avere
riguardo
per valutare la portata estintiva anche dei profili penali
delle
condotte realizzate.
Il Tribunale aveva dunque correttamente
considerato -con motivazione fatta propria dei Giudici
di appello- secondo il modello decisionale della c.d.
doppia conforme che le opere abusivamente realizzate non
potevano essere valutate come conformi agli strumenti
urbanistici,
in quanto nel permesso in sanatoria era precisato
che esso veniva rilasciato per le opere di cui al piano
interrato
destinato a garage e a deposito, in base al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 36, e, per l’ampliamento, in base
all’art. 34 T.U. cit.: da qui, dunque, la sanatoria solo
parziale delle opere, priva di effetto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 09.05.2016 n. 19121
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
INESISTENTE NELLA GIURISPRUDENZA CEDU UN DIRITTO ASSOLUTO
ALL’INVIOLABILITÀ DEL DOMICILIO CHE PARALIZZI LA DEMOLIZIONE.
Non è desumibile dalla giurisprudenza
della Cedu l’esistenza di un diritto “assoluto”
all’inviolabilità del domicilio al punto tale da renderlo
intangibile anche a “interferenze” legittime finalizzate a
ristabilire l’ordine giuridico violato, qual è la esecuzione
di un ordine di demolizione di un immobile abusivo.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
su un tema di grande attualità ed interesse nella
giurisprudenza,
relativo alla compatibilità tra l’ingiunzione a demolire
e il diritto all’abitazione garantito dalla normativa
sovranazionale
(segnatamente, dall’art. 8 della Convenzione
e.d.u.).
La vicenda processuale trae origine dal
provvedimento
con cui il tribunale rigettava l’istanza di annullamento
dell’ingiunzione a demolire emessa dal P.M. avente ad
oggetto un immobile qualificato come abusivo nella sentenza
di condanna emessa dal locale tribunale nei confronti
di C.D., sentenza con cui era stata disposta la demolizione
dell’immobile abusivo; il giudice, nel respingere l’istanza,
non accoglieva nemmeno la subordinata richiesta di
sospensione
dell’ingiunzione a demolire fino alla definizione
del procedimento amministrativo di competenza del comune,
e in ogni caso fino al passaggio in giudicato della sentenza
relativa al procedimento instaurato davanti al TAR
avente ad oggetto il provvedimento di accertamento
dell’inottemperanza
all’ordine di demolizione.
Contro la sentenza
proponevano ricorso per cassazione gli eredi del de
cuius destinatari dell’ingiunzione a demolire, i quali
sostenevano
-per quanto qui di interesse- che la ordinanza fosse
criticabile laddove affermava che per il soddisfacimento
dell’esigenza abitativa, gli stessi ben avrebbero potuto
acquistare
o realizzare un manufatto non abusivo, ovvero utilizzare
tramite locazione un immobile ad uso abitativo.
Sul
punto, gli stessi osservavano che l’art. 47 Cost. prevede
che l’inviolabilità del domicilio costituisca principio
fondante
della convivenza democratica, essendo del resto divenuto
il diritto all’abitazione un punto fermo della
giurisprudenza
costituzionale; in particolare a ciò andrebbe aggiunto
che detta inviolabilità è tutelata dall’art. 8 CEDU sotto il
profilo del diritto al rispetto della propria vita privata e
familiare
e del proprio domicilio, citando il noto Caso Giacomelli
c. Italia del 02.11.2006, di talché quand’anche
sussistesse
l’interesse pubblico in ordine al ripristino di una
situazione
di legalità dei luoghi e, dunque, in ordine alla demolizione
del manufatto abusivo di proprietà degli eredi del
C.D., questo dovrebbe essere necessariamente bilanciato
con il diritto di uno di essi a continuare a dimorare nel
predetto
immobile, non potendo egli soddisfare altrimenti il diritto
all’abitazione in considerazione delle sue precarie
condizioni
economiche.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare -per quanto qui di
interesse- osservando come, diversamente, dalla giurisprudenza
della Cedu, si ricava proprio il principio opposto,
avendo infatti la Corte di Strasburgo -nel noto caso Sud
Fondi c. Italia del 20.01.2009 riguardante la confisca
dei terreni e immobili frutto di illecita attività
lottizzatoria-
affermato che l’interesse dell’ordinamento è quello di
abbattere
l’immobile abusivamente realizzato, sottolineando i
giudici europei come sia sufficiente, per ripristinare la
conformità
rispetto alle disposizioni urbanistiche dei lotti
interessati
“demolire le opere incompatibili con le disposizioni
pertinenti”, anziché procedere alla confisca dei medesimi.
Proprio da tale inciso è quindi evidente, per gli Ermellini
(v.
anche Cass. pen., Sez. III, 21.12.2009, n. 48924, T.
e altri, in CED, n. 245765), come la stessa Corte europea
consideri del tutto legittimo il ricorso alla sanzione
ripristinatoria
della demolizione che, in quanto rivolta a ristabilire
l’ordine giuridico violato, prevale sul diritto (rectius,
interesse
di mero fatto) all’abitazione dell’immobile abusivamente
realizzato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 06.05.2016 n. 18949
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
L’AZIONE EX ART. 2932 C.C.
La dichiarazione -in preliminare o in
atto successivo e prodotto in giudizio- degli estremi del
titolo edificatorio, costituisce una condizione dell’azione
prevista dall’art. 2932 c.c.: infatti, l’art. 17, comma 2,
L. n. 47/1985, laddove richiede tali dichiarazioni o
allegazioni, a pena di nullità, per la stipulazione degli
atti tra vivi aventi a oggetto diritti reali (che non siano
di servitù o di garanzia) relativi ad edifici o loro parti,
indirettamente influisce anche sui presupposti necessari per
la pronuncia della sentenza di esecuzione in forma specifica
del preliminare, la quale -avendo funzione sostitutiva di
un atto negoziale dovuto- non può realizzare un effetto
maggiore e diverso da quello che sarebbe stato possibile
alle parti o un effetto che, comunque, eluda le norme di
legge che governano, nella forma e nel contenuto,
l’autonomia negoziale delle parti.
Un Tribunale rigettò la domanda d’esecuzione specifica
dell’obbligo di conclusione d’un contratto di compravendita,
proposta ex art. 2932 c.c. da un’immobiliare contro
l’acquirente
in forza del preliminare sottoscritto.
La Corte distrettuale rigettò l’appello chiarendo che nello
specifico erano assenti gli estremi del permesso di
costruire
o in sanatoria a norma dell’art. 46, comma 1, d.P.R. n.
380/2001 (T.U. Edilizia), sicché non poteva aversi sentenza
ex art. 2932 c.c.
La società attrice, soccombente nei due giudizi di merito,
chiede la cassazione della sentenza, con ricorso che la S.C.
respinge.
Osserva la S.C. che l’accatastamento di un immobile non è
indice della sua regolarità urbanistica, poiché l’Ufficio
tecnico
comunale e il Catasto sono due amministrazioni diverse,
con compiti distinti avendo -il primo- finalità di
accertamento
dell’ordinato sviluppo urbanistico in base a quanto
previsto dagli strumenti urbanistici, nonché l’accertamento
della salubrità dell’immobile destinato ad essere abitato o,
comunque, frequentato da persone e -il catasto- finalità
essenzialmente fiscali.
Né questa motivazione potrebbe essere contraddetta, o
superata,
dalla dichiarazione notarile annessa alla trascrizione
dell’atto introduttivo del giudizio, secondo cui la
trascrizione
ha avuto a oggetto gli immobili descritti nella citazione
e nel contratto preliminare che sono stati perfettamente
identificati, perché, non solo tale dichiarazione non
equivale
alla quella prevista dall’art. 17, comma 2, L. n. 47/1985
ma, soprattutto, perché dal contenuto della stessa, così
come
descritto sinteticamente dalla ricorrente, non possono
desumersi gli estremi del permesso di costruire o, comunque,
del permesso in sanatoria, di cui fa parola in giudizio.
La Corte di cassazione richiama la propria costante
giurisprudenza,
per la quale in assenza della dichiarazione, nel
preliminare o in un atto, successivamente prodotto in
giudizio,
degli estremi della concessione edilizia e/o della
concessione
in sanatoria dell’abuso edilizio, il Giudice non può
pronunciare la sentenza di trasferimento coattivo di diritti
reali su edifici o loro parti, prevista dall’art. 2932 c.c.,
perché
l’art. 17, comma 2, L. n. 47/1985 (cfr.: ora l’art. 46 del
d.P.R. 06.06.2001, n. 380) richiede che le predette
dichiarazioni
o allegazioni, a pena di nullità, per la stipulazione
degli atti tra vivi aventi per oggetto diritti reali (che
non
siano di servitù o di garanzia), relativi ad edifici o loro
parti,
indirettamente influisce anche sui presupposti necessari
per la pronuncia della sentenza di esecuzione in forma
specifica
del preliminare di una vendita immobiliare, che,
avendo funzione sostitutiva di un atto negoziale dovuto,
non può realizzare un effetto maggiore e diverso da quello
che sarebbe stato possibile alle parti o un effetto che,
comunque,
eluda le norme di legge che governano, nella forma
e nel contenuto, l’autonomia negoziale delle parti.
Detto limite, considerato l’interesse pubblico all’ordinata
trasformazione del territorio e le peculiari caratteristiche
della sentenza e l’autorità del giudicato che questa è
destinata
ad acquistare, incide direttamente sulle condizioni
dell’azione
prevista dall’art. 2932 c.c., senza alcun rilievo
dell’astratta
possibilità di una successiva sanatoria della nullità,
e va conseguentemente rilevato d’ufficio e, anche in sede
di legittimità, sempre che la soluzione della questione
relativa alla sua esistenza non richieda indagini non
compiute
nei precedenti gradi di giudizio e siano acquisiti agli atti
tutti gli elementi di fatto dai quali esso possa desumersi (Corte
di
Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza 29.04.2016 n. 8489
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
IRREGOLARITÀ EDILIZIA ED EFFETTI CIVILISTICI CADUCANTI SUL
CONTRATTO.
La nullità del preliminare di vendita
avente a oggetto un immobile irregolare sotto il profilo
urbanistico sussiste al cospetto di un’irregolarità
urbanistica grave, quale può essere l’assenza di permesso a
costruire (o l’equiparata difformità totale) attesa, in
ragione del combinato disposto, dagli artt. 1346 e 1418 c.c.,
l’impossibilità giuridica dell’oggetto, tale da giustificare
legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla
conclusione dell’atto definitivo di compravendita.
Un privato convenne in Tribunale il promissario venditore
d’un immobile con cui aveva sottoscritto una scrittura
privata per un appartamento con annesso garage, chiedendo
fosse accertato l’integrale pagamento del prezzo ed emessa
sentenza costitutiva di trasferimento della titolarità del
bene.
Il promissario venditore si costituì eccependo la nullità
del contratto per indeterminatezza dell’oggetto e, ancora,
asserendo che il prezzo versato era solo un anticipo, tenuto
conto del valore di mercato del bene. Era semmai
controparte, promissaria acquirente, a essere inadempiente
all’obbligo di corresponsione del prezzo sì che il contratto
andava risolto, al più, per fatto e colpa dell’attore. In
ogni caso, concluse assumendo la nullità del contratto,
posto che il diritto di superficie che asseritamente
trasferito non era assistito da forma scritta.
Il Tribunale accolse la domanda attrice e dichiarò
trasferito il bene conteso, ritenendo che la scrittura
privata avesse i requisiti di un contratto preliminare di
vendita. Accertava altresì che l’abitazione era stata
oggetto di concessione in sanatoria e, quanto al garage, che
era stata presentata domanda di condono con i relativi
pagamenti dell’oblazione (L. n. 326/2003) a nulla rilevando
che la regolarizzazione urbanistica dell’immobile fosse
avvenuta dopo la stipula del preliminare, sulla base della
sopravvenuta disciplina del condono degli abusi edilizi.
La sentenza era appellata dal convenuto soccombente, con
gravame che la Corte territoriale respinse. La vicenda è
sottoposta allo scrutinio della S.C. dal convenuto,
soccombente nei due gradi di merito.
La Cassazione respinge il ricorso.
Per quanto interessi questa Rivista, è ritenuto infondato il
motivo con cui si ritiene che la normativa di cui all’art.
40 della L. n. 47/1985 sia estensibile anche al contratto
preliminare di vendita. Ricorda la S.C. l’ormai consolidato
principio per il quale la nullità prevista dal combinato
disposto degli artt. 40 e 47, L. n. 47/1985, riguarda i soli
contratti a effetti traslativi e non coinvolge il
preliminare di vendita che abbia a oggetto un immobile
abusivo. Ciò non soltanto per una ragione letterale, in
quanto la norma in questione attiene solo agli atti
traslativi dei diritti reali sull’immobile (e non agli atti
a efficacia obbligatoria) ma per il rilievo che,
successivamente al contratto preliminare, può intervenire la
concessione in sanatoria degli abusi edilizi commessi o
essere prodotta la dichiarazione prevista dalla stessa
norma, ove si tratti di immobili costruiti anteriormente al
01.09.1967, data di entrata in vigore della “legge ponte”
con la conseguenza che - in queste ipotesi - rimarrebbe
esclusa la sanzione di nullità per il successivo contratto
definitivo di vendita (Cass. n. 59/2002, n. 6018/1999, n.
1501/1999, n. 8335/1997).
Il che è accaduto nella fattispecie in esame, laddove dopo
la stipulazione del preliminare, è intervenuta -come non è
contestato- la concessione in sanatoria per l’abitazione e,
quanto al garage, era stata presentata domanda di condono
con i relativi pagamenti dell’oblazione ex lege n.
326/2003, sicché -com’era consentito stipulare validamente
il contratto definitivo- allo stesso modo poteva essere
emessa sentenza che producesse gli effetti di questo ai
sensi dell’art. 2932 c.c. (Cass. n. 2204/2013; n.
28456/2013; n. 13117/2010 n. 14489/2005).
Fermo quanto detto, il Supremo collegio si afferma che la
nullità del preliminare di vendita avente a oggetto un
immobile irregolare dal punto di vista urbanistico, può,
tutt’al più, sostenersi di fronte ad una irregolarità
urbanistica grave, come può essere l’assenza di permesso a
costruire (o l’equiparata difformità totale), attesa, in
ragione del combinato disposto, dagli artt. 1346 e 1418 c.c.,
l’impossibilità giuridica dell’oggetto, tale da giustificare
legittimamente il rifiuto del promittente acquirente alla
conclusione dell’atto definitivo di compravendita.
La S.C. si sofferma su di un precedente distonico rispetto
alla giurisprudenza maggioritaria sopra rassegnata,
costituito dalla sent. 17.10.2013, n. 23591, secondo la
quale il preliminare di vendita di un immobile irregolare
dal punto di vista urbanistico è nullo, per la comminatoria
disposta dagli artt. 40, comma 2 e 47, L. n. 47/1985 che,
sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata
efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia
meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la
stipulazione di un contratto definitivo nullo per
contrarietà a norme imperative.
Espressamente, tuttavia, il Collegio, ritiene di doversene
discostare perché l’affermazione di cui alla sentenza
indicata, integra gli estremi di un obiter dictum, e
la situazione esaminata dalla sentenza citata attiene a
ipotesi diversa da quella in esame, posto che in quel caso
l’irregolarità urbanistica riguardava un’opera abusiva non
sanata.
Comunque, perché non può non esser rilevato che rimane
insuperabile l’indicazione letterale di cui all’art. 40, L.
n. 47/1985 laddove si afferma che la nullità riguarda
esclusivamente i contratti ad effetti traslativi e il
contratto preliminare è un tipico contratto ad effetti
obbligatori (Corte di
Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza
29.04.2016 n. 8483
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
CONDIZIONI PER L’OPERATIVITÀ DELLE NORME RIGUARDANTI LE
OPERE IN CONGLOMERATO CEMENTIZIO ARMATO.
La realizzazione di un manufatto con
struttura portante realizzata con travi e pilastri di legno
e pareti perimetrali costruite in muratura, che non comporti
la utilizzazione né di cemento armato né di altri elementi
strutturali in metallo, non è soggetta alla normativa in
materia di conglomerato cementizio armato, che concerne
esclusivamente la disciplina penale di manufatti la cui
tenuta statica sia assicurata tramite l’uso e l’applicazione
di opere in cemento armato ovvero di elementi strutturali in
acciaio o in altri metalli con funzione portante.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
concerne il tema della applicabilità della normativa sulle
opere in cemento armato, delimitandone il campo di
applicazione.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza
con cui la Corte d’Appello aveva confermato la decisione
con la quale il Tribunale aveva dichiarato la penale
responsabilità
di P.S. in ordine ai reati di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, comma 1, lett. b), artt. 64, 65, 71 e 72 del
medesimo d.P.R. ed ancora artt. 93, 93 e 95 sempre del
d.P.R. n. 380 del 2001, per avere egli realizzato, in
assenza
della prescritta concessione edilizia, su di un preesistente
manufatto, una sopraelevazione della superficie di circa 30
mq con pilastri e travi in legno e con pareti perimetrali in
muratura, per avere eseguito la predetta opera in assenza
di un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato,
senza la direzione tecnica di un professionista abilitato e
senza avere presentato la preventiva denunzia agli uffici
competenti così violando, altresì, la normativa applicabile
per le costruzioni in zona sismica. Contro la sentenza
questi
proponeva ricorso per cassazione, in particolare contestando
il procedimento di formazione della prova.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto la tesi difensiva, tuttavia rilevando la
insussistenza
del reato di realizzazione da parte del prevenuto delle
opere in violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64,
65, 71 e 72, in assenza di un progetto esecutivo redatto da
tecnico abilitato, senza che la direzione dei relativi
lavori
fosse stata assunta da tecnico a ciò abilitato ed in assenza
della preventiva denunzia delle realizzande opere al Comune
ovvero all’Ufficio provinciale del Genio civile. Le
disposizioni
delle quali è stata contestata la violazione, precisano i
Supremi Giudici, concernono infatti esclusivamente la
disciplina
penale di manufatti la cui tenuta statica sia assicurata
tramite l’uso e l’applicazione di opere in cemento armato
ovvero di elementi strutturali in acciaio o in altri metalli
con funzione portante (Cass. pen., Sez. III, 17.04.2014, n. 17022), sicché le stesse apparivano, pertanto,
eterogenee
rispetto alla realizzazione di un manufatto che per
avere una struttura portante realizzata con travi e pilastri
di
legno e pareti perimetrali costruite in muratura, non aveva
comportato la utilizzazione né di cemento armato né di altri
elementi strutturali in metallo (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.04.2016 n. 17085
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
PERIODO DI SOSPENSIONE DEL PROCESSO PER ISTANZA DI SANATORIA
E RILEVANZA DELLA RICHIESTA DI PARTE SULLA PRESCRIZIONE.
Il periodo di sospensione del processo,
previsto nel caso di presentazione di istanza di
“accertamento di conformità”, ex art. 36, d.P.R. n. 380 del
2001 (già art. 13 della L. n. 47 del 1985), deve essere
considerato ai fini del computo dei termini di prescrizione
del reato edilizio; ne consegue che in caso di sospensione
del processo disposta su richiesta dell’imputato o del suo
difensore oltre il termine previsto per la formazione del
silenzio- rifiuto ex art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001, opera
la sospensione del corso della prescrizione a norma
dell’art. 159, comma 1, n. 3, doc. pen.
Il tema affrontato dalle Sezioni Unite della Corte di
cassazione
con la sentenza in esame attiene alla necessità di
computare o meno il periodo di sospensione del termine di
prescrizione nel caso in cui il processo rimanga sospeso
nel caso di presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità.
La vicenda processuale traeva origine dalla
sentenza con cui la Corte d‘Appello aveva confermato la
decisione con la quale il Tribunale aveva affermato la
responsabilità
penale dell’imputato per il reato di cui all’art.
110, d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 10 e 44, c.p., per avere
eseguito un intervento edilizio in assenza di valido titolo
abilitativo; in particolare, si imputava al predetto la
realizzazione,
in difformità dalla concessione edilizia, riguardante
la costruzione di civili abitazioni, negozi e box, del
successivo
rinnovo e della variante per completamento e modifica
dell’immobile di una serie di interventi.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, osservando,
in particolare, che, nel corso del giudizio di primo grado,
il
Tribunale non avrebbe dovuto accogliere l’istanza di
sospensione
del processo penale avanzata dal difensore a seguito
della presentazione, all’amministrazione comunale, in
data 08.05.2009, di una richiesta finalizzata
all’accertamento
di conformità delle opere realizzate, che aveva comportato
un rinvio dal 07.06.2012 al 29.01.2014, in
attesa della definizione del relativo procedimento
amministrativo.
Si lamentava, dunque, del fatto che la Corte d’Appello
avrebbe erroneamente tenuto conto di tale periodo di
sospensione, non computandolo, quindi, nel calcolo del
termine massimo di prescrizione, come invece sollecitato
dal pubblico ministero in udienza e dallo stesso difensore,
non considerando che, all’atto della richiesta di
sospensione
del processo, il termine di 60 giorni previsto per il
rilascio
del titolo abilitativo sanante (L. n. 47 del 1985, art. 36,
ora d.P.R. n. 380 del 2001, art. 45) era ormai spirato; con
la
conseguenza che, al più, la Corte d’Appello avrebbe potuto
tenere conto, ai fini della sospensione, solo di un periodo
pari a 120 giorni, che non avrebbe però impedito la
declaratoria
di prescrizione del reato.
Aggiungeva, poi, che non
essendo stata accertata la “condonabilità astratta
dell’opera”,
anche sotto tale profilo non poteva ritenersi operante il
periodo di sospensione calcolato dal giudice del merito e
richiamava, a tale proposito, la giurisprudenza della Corte
di cassazione in materia (Cass. pen., Sez. III, 13.07.2006, n. 40434, G., in CED, n. 236270; Cass. pen., SS.UU.,
24.11.1999, n. 22, Sadini, in CED, n. 214792).
Il ricorso veniva assegnato alla Sezione competente, la
quale, tenuto conto delle diverse disposizioni in materia di
condono edilizio e sanatoria conseguente ad accertamento
di conformità, operata una diffusa disamina dei precedenti
giurisprudenziali, aveva rilevato la sussistenza di un
contrasto
interpretativo sulla applicabilità anche alla disciplina
della sanatoria di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 36 e
45, (in precedenza, L. n. 47 del 1985, artt. 13 e 22) di
effetti
sulla prescrizione analoghi a quelli conseguenti dalla
sospensione
del processo che si determinano in caso di condono
edilizio (disciplinato dalla L. n. 47 del 1985, artt. 44 e
38, ovvero dalla L. n. 724 del 1994, art. 39, o L. n. 326
del
2003, art. 32). E cioè, in caso di non condonabilità delle
opere, non può ritenersi operante la sospensione del
procedimento
penale, indipendentemente dal fatto che il giudice
l’abbia disposta o negata, dovendosi, nel primo caso,
ritenere la sospensione inesistente.
Era stata
conseguentemente
pronunciata ordinanza di rimessione alle Sezioni
Unite, affinché fosse precisato se il periodo di sospensione
per i reati edilizi, disposta dal giudice a seguito di
presentazione
della istanza di concessione in sanatoria per accertamento
di conformità di opere originariamente o successivamente
non assentibili, fosse assoggettato o meno all’identico
regime previsto per le sospensioni disposte dal giudice
in relazione ad istanze avanzate dal privato in via
amministrativa
dirette ad ottenere il condono edilizio per opere
originariamente o successivamente non condonabili.
In
particolare, si richiedeva di verificare se il periodo di
sospensione
disposto dal giudice nelle ipotesi di presentazione
di istanza per l’accertamento di conformità ai sensi del
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 36, debba, o meno, essere
considerato,
in tutto o in parte, ai fini del computo dei termini
di prescrizione del reato edilizio e se, in caso di
successive
istanze di rinvio del processo dinnanzi al giudice penale ed
all’esito negativo della domanda amministrativa di rilascio
della concessione edilizia in sanatoria, si applichino, o
meno,
le disposizioni previste dall’art. 159, comma 1, n. 3,
c.p., per effetto di richieste di rinvio su istanze del
privato.
La Cassazione, nel dichiarare inammissibile la tesi
difensiva,
dopo aver richiamato l’attenzione sulle differenze
intercorrenti
tra la disciplina del “condono edilizio”, di cui alle L.
28.02.1985, n. 47, L. 23.12.1994, n. 724, e L.
24.11.2003, n. 326 (quest’ultima di conversione,
con modificazioni, del D.L. 30.09.2003, n. 269), e
quella della “sanatoria” conseguente ad accertamento di
conformità, disciplinata dall’art. 36 del T.U. dell’edilizia
(d.P.R. 06.06.2001, n. 380), ha ricordato come entrambe
le procedure presuppongono periodi di sospensione,
diversamente
disciplinati, che assumono specifico rilievo riguardo
al computo del termine massimo di prescrizione
del reato, pervenendo ad affermare -con particolare
riferimento
al caso sottoposto all’esame della S.C.- che erra
quella giurisprudenza (Cass. pen., Sez. F, 09.08.2013, n.
34938, B., in CED, n. 256714), che, pur partendo da un
presupposto corretto e, cioè, che la sospensione ex lege
del procedimento, in pendenza della domanda di sanatoria,
è limitato a soli sessanta giorni, giunge però a conclusioni
non condivisibili laddove sembra fondare la riconosciuta
illegittimità
del differimento oltre il sessantesimo giorno sul
presupposto che la decorrenza di detto termine comporti il
silenzio-rigetto, considerando quindi ogni ulteriore rinvio
(e
la conseguente sospensione dei termini di prescrizione),
anche se espressamente richiesto al giudice, come
ingiustificato.
Una simile affermazione, puntualizzano gli Ermellini,
non tiene conto del fatto che, nonostante il decorso
del termine ed il significativo silenzio
dell’amministrazione
competente, questa non perde il potere di rilasciare
comunque,
in presenza dei presupposti di legge, il permesso
di costruire in sanatoria, cosicché una eventuale richiesta
di rinvio in previsione dell’accoglimento della domanda già
presentata risulterebbe pienamente giustificato,
considerato,
peraltro, i vantaggiosi effetti per l’imputato che
conseguono
al rilascio del titolo abilitativo postumo.
La scelta dei
Supremi Giudici si è quindi orientata nel senso di ritenere
condivisibile l’altro orientamento (Cass. pen., Sez. III, 28.05.2014, n. 41349, Z., in CED, n. 260753), secondo
cui, in presenza di un rinvio disposto su richiesta della
difesa
e giustificato dalla pendenza del procedimento
amministrativo,
successivamente non perfezionatosi, di sanatoria
edilizia di un immobile abusivo, l’operatività della
sospensione
ai fini del computo dei termini di prescrizione è stata
estesa per l’intera durata del differimento.
Tale ultimo
orientamento ritiene, dunque, del tutto incongrua
un’interpretazione
della norma “che consenta alla stessa parte che
ha chiesto ed ottenuto il rinvio della udienza, pur in
mancanza
dei presupposti legittimanti, di lamentare la correlata
considerazione della sospensione della prescrizione proprio
da tale rinvio derivante” (analoghe considerazioni erano
state svolte, in precedenza, in Cass. pen., Sez. III, 08.05.2013, n. 26409, C., in CED, n. 255579), pur distinguendo le
diverse ipotesi in cui il rinvio sia stato invece disposto
per
impedimento della parte o del difensore, ovvero, in pendenza
di sanatoria e oltre il sessantesimo giorno dall’avvio
del relativo procedimento amministrativo, sia disposto
d’ufficio
dal giudice, in mancanza di richiesta di parte,
riconoscendo,
in tali casi, una operatività del rinvio limitata a soli
sessanta giorni (Corte
di
Cassazione, SS.UU. penali,
sentenza 13.04.2016 n. 15427
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL RILASCIO DELLA “COMPATIBILITÀ PAESAGGISTICA” NON
DETERMINA AUTOMATICAMENTE LA NON PUNIBILITÀ DEI REATI
PAESAGGISTICI.
In tema di reati paesaggistici, il
rilascio del provvedimento di compatibilità paesaggistica
non determina automaticamente la non punibilità dei predetti
reati, in quanto compete sempre al giudice l’accertamento
dei presupposti di fatto e giuridici legittimanti
l’applicazione del cosiddetto condono ambientale.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la
sentenza
in esame è quello della possibilità che il c.d.
provvedimento
di compatibilità paesaggistica abbia quale effetto
“automatico” la non punibilità dei reati paesaggistici
previsti
dalla disciplina attualmente vigenti.
La vicenda processuale
trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello
aveva respinto l’impugnazione proposta da P.A.M. nei
confronti
della sentenza del Tribunale con cui era stata condannata
per i reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
lett. c, d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93, 94 e 95 e D.Lgs.
n.
42 del 2004, art. 181 (per avere realizzato, in zona sismica
e sottoposta a vincolo archeologico, in assenza del permesso
a costruire e della autorizzazione della Sovrintendenza
ai beni culturali ed ambientali, e senza dare avviso
all’Ufficio del Genio civile, opere edili consistite nel
tamponamento
di una veranda, mediante vetrate installate sui
muri di parapetto e realizzazione di una parete in
muratura).
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione in
particolare dolendosi, per quanto qui di interesse, per
l’insufficiente
considerazione del parere di compatibilità ambientale
espresso dalla Soprintendenza ai beni culturali ed
ambientali, ed anche la mancanza di motivazione in ordine
alla sua disapplicazione per carenza dei relativi
presupposti
di fatto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando come
l’emissione del provvedimento di compatibilità ambientale da
parte della P.A. non elide il potere-dovere del giudice di
verificare
la sussistenza dei presupposti del condono ambientale
in termini di fatto e di diritto, e, nel caso di specie, la
ricorrente,
realizzando un nuovo vano, destinato ad un utilizzo
abitativo, ha posto in essere un intervento che ha
comportato
aumento di superfici utili e volumi, con la conseguente
inapplicabilità del condono ambientale, cui consegue
anche l’inammissibilità del relativo motivo di ricorso,
che con tali considerazioni ha omesso di confrontarsi
(sull’inesistenza
dell’automatismo, v. Cass. pen., Sez. III, 27.05.2008, n. 27750; conformi: Cass. pen., Sez. III, 19.09.2013, n. 44189; Id., Sez. III, 29.11.2011-13.01.2012,
n. 889) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 06.04.2016 n. 13730
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE VIOLAZIONI COMMESSE IN ZONE VINCOLATE SONO SANZIONABILI
ANCHE QUANDO REALIZZATE MEDIANTE OPERE NON IMMEDIATAMENTE
VISIBILI.
In tema di reati paesaggistici, il reato
di cui all’art. 181 del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, si
configura anche relativamente ad opere realizzate, in
difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte
a vincolo, atteso che il citato art. 181 vieta l’esecuzione
di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici, e che
pure attraverso tali opere si realizza una modificazione
sebbene non immediatamente visibile, dell’assetto del
territorio.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della rilevanza penale di interventi
edilizi eseguiti in zone paesaggisticamente vincolate e, più
specificamente, dell’inclusione tra gli interventi vietati
di quelli non immediatamente visibili.
La vicenda
processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per
occuparsi della questione segue alla sentenza con cui la
Corte d’Appello aveva confermato la condanna dell’imputato
per il reato di esecuzione di un manufatto di mq. 102 in
area soggetta a vincolo paesaggistico in quanto dichiarata
di notevole interesse pubblico, in violazione del D.Lgs. n.
42 del 2004, art. 181, comma 1-bis).
Contro la sentenza
l’imputato si doleva della condanna in quanto l’esecuzione
di opere interne non determinava violazione delle norme a
tutela del paesaggio ed il manufatto oggetto della
contestazione era già stato integralmente realizzato nel
2004 e successivamente era stato solo rifinito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando come le
violazioni commesse in zone vincolate siano sanzionabili
anche quando vengano realizzate mediante opere non
immediatamente
visibili.
Sul punto si registra una giurisprudenza
pressoché costante della S.C. secondo cui l’autorizzazione
preventiva dell’autorità preposta alla tutela del vincolo
è necessaria anche per i lavori da eseguirsi nel sottosuolo
delle aree qualificate quali beni paesaggistici ai sensi
del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Cass. pen., Sez. III, 30.03.2006, n. 11128, S., in CED, n. 233675; da ultimo:
Cass. pen., Sez. III, 10.02.2015, n. 5954, C., in CED, n.
264371) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
06.04.2016 n. 13726
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
UN’ISTANZA DI CONDONO ANCORA IN FASE ISTRUTTORIA PUÒ
INFICIARE L’ORDINE DI DEMOLIZIONE E COSTITUIRE VALIDO MOTIVO
PER SOSPENDERLA.
In tema di condono edilizio di opere
abusive, in presenza di una istanza di condono o di
sanatoria successiva al passaggio in giudicato della
sentenza di condanna, il giudice dell’esecuzione investito
della questione è tenuto ad una attenta disamina dei
possibili esiti e dei tempi di definizione della procedura;
ne consegue, pertanto, che è illegittima l’affermazione con
cui il giudice dell’esecuzione rigetti l’istanza di revoca
e/o di sospensione dell’esecuzione in base all’assunto per
cui un’istanza di condono ancora in fase istruttoria non
inficia l’ordine di demolizione né può costituire valido
motivo per sospenderla.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
concerne un tema ricorrente nell’esegesi giurisprudenziale
di legittimità, rappresentato dalla individuazione dei
poteri-doveri che il giudice dell’esecuzione deve attivare quando
si trova dinanzi ad un’istanza di revoca e/o di sospensione
dell’ordine di demolizione di un manufatto abusivo.
La
vicenda
processuale trae origine dal provvedimento reso a
seguito di incidente di esecuzione, con cui il G.E.
rigettava
l’istanza di revoca/sospensione dell’ordine di demolizione
delle opere eseguite da A.C., condannato con sentenza
irrevocabile,
istanza presentata dagli aventi causa di quest’ultimo.
Contro la ordinanza proponevano ricorso per
Cassazione gli eredi, in particolare osservando come parte
importante della consistenza dell’immobile di cui
all’ingiunzione
a demolire era oggetto di condono edilizio in forza di
due istanze proposte ex lege n. 326 del 2003: dette pratiche
non risultavano ancora essere state vagliate dal Comune
di Scafati, che aveva attestato nel 2011 la congruità dei
versamenti effettuati e lo stato delle istanze; il g.e. si
sarebbe
limitato a affermare che un’istanza di condono ancora
in fase istruttoria non inficia l’ordine di demolizione né
può
costituire valido motivo per sospenderla.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto sul punto la tesi difensiva, ritenendo
sindacabile
l’affermazione del g.e. secondo cui un’istanza di condono
ancora in fase istruttoria non inficia l’ordine di
demolizione
né può costituire valido motivo per sospenderla. Nella
specie,
le istanze di condono ex lege n. 326 del 2003 risultavano
presentate ambedue nel 2004 e, a distanza di oltre 10
dieci anni, le stesse non erano state definite né
risultavano
adottati provvedimenti dell’Amministrazione incompatibili
con l’esecuzione dell’ordine di demolizione, risultando solo
un provvedimento risalente al 2011 in cui veniva attestata
la congruità dei versamenti e la pendenza in fase
istruttoria
delle pratiche di condono.
Ne discende, per la Cassazione,
che il g.e. risulta essersi sottratto al compito, al
medesimo
incombente, di accertare il possibile risultato delle due
istanze di condono presentate e se esistevano o meno cause
ostative al suo accoglimento. Le ultime notizie sullo stato
delle pratiche di condono in questione, infatti, risalivano
alla comunicazione del Comune del 2011 in cui il predetto
Ente attestava la congruità dell’oblazione versata e la
pendenza
in fase istruttoria delle istanze predette.
Il giudice,
decidendo a distanza di quasi quattro anni dalle ultime
notizie,
risalenti al giugno 2011, avrebbe dovuto accertare alla
data della decisione (febbraio 2015) quale fosse lo stato
delle predette pratiche e se sussistessero cause ostative al
loro accoglimento (in giurisprudenza, sui poteri-doveri
del
giudice dell’esecuzione in consimili ipotesi, v.: Cass. pen.,
Sez. III, 23.10.2007, n. 38997, D.S., in CED, n. 237816) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
05.04.2016 n. 13521
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
NECESSITA DEL P.D.C. L’OGGETTIVA E PERMANENTE DESTINAZIONE
DI UN’OPERA A RICOVERO DI MEZZI ED
ATTREZZI PER LA PANIFICAZIONE.
La natura precaria di un manufatto non
può essere desunta dalla temporaneità della destinazione
dell’opera come attribuitale dal costruttore, ma deve
risultare dalla intrinseca destinazione materiale della
stessa ad un uso realmente precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, non risultando
peraltro sufficiente la sua rimovibilità o il mancato
ancoraggio al suolo anche in ipotesi di struttura priva di
fondazioni e munita di ruote.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno di richiedere il
permesso di costruire in relazione ad un’opera ritenuta
dal suo utilizzatore come essenzialmente destinata a
esigenze
temporanee e, dunque, connotate da precarietà.
La vicenda processuale trae origine dalla ordinanza con
cui il Tribunale del riesame rigettava il ricorso avverso il
decreto emesso dal Giudice per le indagini preliminari
del Tribunale con il quale -in relazione all’imputazione
provvisoria del reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art.
44, lett. b)- era stato disposto il sequestro preventivo di
due strutture in ferro con copertura di lamiera coibentata
aventi dimensioni di mt. 9x2,50 e mt. 9x3,50 con altezza
di mt. 3,50, poggiate su ruotini in gomma ed utilizzate
dall’indagato, gestore di un’attività di panificazione, per
il
ricovero di mezzi ed attrezzi funzionali alla predetta
attività.
Contro la ordinanza aveva proposto ricorso l’indagato,
in particolare sostenendo che erroneamente il Tribunale
aveva ritenuto che il manufatto oggetto del provvedimento
di sequestro fosse destinato ad un uso momentaneo
per esclusiva volontà del proprietario e non per le proprie
caratteristiche intrinseche. In particolare, argomentava
che l’utilizzo dell’opera, come emergente dalle foto in atti
e dal verbale redatto dalla Polizia Municipale, per quanto
di non esigue dimensioni, non era finalizzato al ricovero
di mezzi ed attrezzi per la panificazione ma solo alla
temporanea
messa al riparo della farina nelle giornate di
pioggia: tale circostanza rendeva evidente la natura
precaria
del bene e l’insussistenza dei presupposti per l’adozione
del provvedimento di sequestro.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha
affermato
il principio di cui in massima, osservando come
correttamente
il Tribunale non aveva riconosciuto carattere precario
al manufatto in sequestro, valorizzando, alla luce delle
evidenti emergenze processuali, sia le rilevanti dimensioni
dell’opera che l’oggettiva e permanente destinazione della
stessa a ricovero di mezzi ed attrezzi per la panificazione,
sottolineando, pertanto, che l’opera era solo
soggettivamente
destinata ad un uso temporaneo e che costituiva
circostanza irrilevante ai fini della valutazione di non
precarietà
l’asserita facile rimovibilità della stessa (in precedenza,
nel senso che, ai fini del riscontro del connotato della
precarietà e della relativa esclusione della modifica
dell’assetto
del territorio, non sono rilevanti le caratteristiche
costruttive,
i materiali impiegati e l’agevole rimovibilità, ma le
esigenze temporanee alle quali l’opera eventualmente
assolva:
Cass. pen., Sez. III, 25.02.2009, n. 22054, F., in CED, n.
243710) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.04.2016 n. 13491
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LE DEROGHE ALL’EDIFICABILITÀ IN ZONA PAESAGGISTICAMENTE
VINCOLATA RIGUARDANO SOLO I VINCOLI IMPOSTI EX LEGE AD
INTERE CATEGORIE DI BENI.
Non rientrano nella nozione di “aree
boscate”, quindi inedificabili, quelle aree che, alla data
del 06.09.1985, erano classificate come zone A e B, o
come zone diverse, purché ricomprese nei piani pluriennali
di attuazione, sempre che il vincolo paesaggistico non sia
stato imposto con provvedimento amministrativo di carattere
specifico. Ne consegue che il regime derogatorio di
edificabilità previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42,
art. 142, comma 2, non riguarda i vincoli paesaggistici
ordinari imposti con provvedimento amministrativo, ma
concerne in via esclusiva i vincoli imposti per legge ad
intere categorie di beni paesaggisticamente vincolati.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla
interessante
questione della individuazione delle condizioni
in presenza delle quali è applicabile il regime derogatorio
di edificabilità previsto dal D.Lgs. 22.01.2004, n.
42, art. 142, comma 2.
La vicenda processuale che ha
fornito l’occasione alla Corte per affrontare la questione
segue alla sentenza con cui il Gip del Tribunale aveva
prosciolto gli imputati dai reati di:
a) abuso d’ufficio -contestato in relazione alla redazione e all’approvazione
della variante generale del piano regolatore comunale,
nella quale si erano qualificate quali zone B (di
completamento
edilizio) alcune porzioni di territorio, in violazione
del D.M. n. 1444 del 1968, art. 2, che prevede, per la
suddetta qualificazione, limiti di rapporto tra superficie
coperta e superficie fondiaria, nonché di densità
territoriale,
e in violazione della L.R. dell’Umbria n. 27 del
2000, art. 15 e art. 39, comma 7, del piano territoriale di
coordinamento provinciale, che fanno divieto assoluto di
edificazione nelle zone coperte da boschi e qualificate
come aree boscate-, il tutto al fine di procurare un
ingiusto
profitto ai proprietari delle varie particelle, consistente
nella possibilità di realizzare fabbricati in zona boschiva,
e all’amministrazione comunale, consistente nella
percezione dei relativi oneri di edificabilità; con
l’aggravante
di aver commesso il fatto al fine di commettere gli
ulteriori reati per cui si procede;
b) per il solo
responsabile
dell’ufficio tecnico, anche dai reati di abusi d’ufficio e
da ulteriori violazioni urbanistiche e paesaggistiche,
perché,
al fine di procurare un ingiusto profitto ai proprietari
delle varie particelle e all’amministrazione, rilasciava una
serie di permessi di costruire e autorizzazioni
paesaggistiche
analiticamente indicati nella stessa imputazione,
nonché induceva in errore i destinatari degli stessi atti in
merito alla possibilità di edificazione, a fronte della
consistenza
boschiva dei terreni, determinandoli alla realizzazione
di opere edilizie in assenza di autorizzazione paesaggistica
e permesso a costruire validi;
c) per il solo segretario
comunale, dei reati di abuso d’ufficio e ulteriori
violazioni urbanistiche e paesaggistiche, per avere
rilasciato
permessi a costruire, inducendo in errore i destinatari
degli stessi atti in merito alla possibilità di
edificazione,
a fronte della consistenza boschiva dei terreni,
determinandoli
alla realizzazione di opere edilizie in assenza di
autorizzazione paesaggistica e permesso a costruire validi.
Contro la sentenza, proponeva ricorso per Cassazione
il P.M., sostenendo che l’errore nel quale sarebbero caduti
gli imputati concerneva non i fatti presupposto per
l’applicazione delle norme, ma il contenuto e la portata
delle norme, con particolare riferimento alla possibilità di
riqualificare le zone del territorio. In particolare, la
superficie
edificata e cubatura presente in ordine alle aree in
questione non consentiva l’attribuzione della qualifica di
zona di completamento edilizio e la presenza del vincolo
paesaggistico apposto con decreto ministeriale escludeva,
in forza della normativa regionale e del piano territoriale,
che si applicasse la deroga di carattere generale afferente
all’edificabilità.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, confermando la sentenza di
proscioglimento
e dando continuità al principio di diritto, già
in precedenza affermato dalla stessa Cassazione secondo
cui non rientrano nella nozione di “aree boscate”,
quindi inedificabili, quelle aree che, alla data del 06.09.1985, erano classificate come zone A e B, o come
zone diverse, purché ricomprese nei piani pluriennali
di attuazione, sempre che il vincolo paesaggistico non
sia stato imposto con provvedimento amministrativo di
carattere specifico (v., in senso conforme: Cass. pen.,
Sez. III, 04.05.2010, n. 16871, C., in CED, n. 247151) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.04.2016 n. 13475
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL COMPROPRIETARIO HA IL POTERE DI PORRE IL VETO
ALL’ESECUZIONE DI OPERE NON ASSENTITE SULL’AREA IN COMUNIONE.
Il comproprietario ha il potere di porre
il veto all’esecuzione di opere non assentite sull’area in
comunione e, se questi è il coniuge del comproprietario
committente dell’opera, non può non tenersi conto della
stretta comunanza di interessi, che rendono il coniuge, di
norma, naturalmente partecipe di tutte le deliberazioni di
rilevanza familiare, a meno che l’interessato non provi, al
contrario, che tali presupposti non ricorrano nel caso
concreto, per una qualsiasi ragione.
Si inserisce in un orientamento ormai consolidato della
Cassazione la sentenza qui commentata, in cui la Corte
puntualizza i criteri applicabili al fine di individuare la
responsabilità
del proprietario in comunione legale di un immobile
abusivamente realizzato.
La vicenda processuale
traeva origine dalla sentenza con cui i giudici di merito
avevano
ritenuto l’imputato colpevole:
a) del reato di cui all’art.
110 c.p. e d.P.R. n. 309 del 1990, art. 44, per aver
effettuato,
in qualità di comproprietaria, in assenza del prescritto
titolo
abitativo, in zona sismica soggetta a vincolo paesaggistico,
una nuova costruzione, le cui dimensioni sono meglio
indicate nel capo di imputazione;
b) del reato di cui agli
artt. 81 cpv. e 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 64,
commi 2 e 3, art. 71, art. 93, comma 1, art. 94, commi 1 e
4 e art. 95, per aver realizzato dette opere in conglomerato
cementizio armato non preventivamente denunciate al Genio
Civile, senza la preventiva autorizzazione dell’Ufficio
tecnico della Regione e senza che i lavori fossero diretti
da
un ingegnere, architetto, geometra iscritto all’albo, in
assenza
del necessario progetto esecutivo redatto da tecnico
abilitato;
c) del reato di cui all’art. 110 c.p., D.Lgs. n.
42 del
2004, artt. 134, 141 e 181, per avere eseguito i lavori in
zona
sottoposta a vincolo paesaggistico e senza il rilascio
della prescritta autorizzazione- Rilevavano i giudici che
l’imputata
ed il marito erano stati tratti a giudizio per i reati
edilizi
contestati e nelle more del procedimento il marito era
deceduto; la stessa era stata ritenuta responsabile per i
reati contestati, per averli realizzati in concorso con il
coimputato
deceduto, come era emerso dagli atti del procedimento,
in particolare dalle testimonianze assunte.
Contro
la sentenza proponeva ricorso per Cassazione l’interessata,
in particolare sostenendo l’errore in cui erano incorsi i
giudici
di merito quanto alla sua responsabilità, non essendo
stati indicati gli elementi dai quali desumere che la stessa
avesse preso parte alla realizzazione del manufatto, essendo
unico soggetto responsabile il marito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto la tesi difensiva, così facendo applicazione
di un principio, ormai da ritenersi consolidato nella
giurisprudenza della Cassazione.
Ed infatti, la
giurisprudenza
della S.C. è nel senso che l’individuazione del
committente dei lavori, quale soggetto responsabile
dell’abuso
edilizio, può essere desunta da elementi oggettivi
di natura indiziaria, come ad esempio, dalla qualità di
proprietario o comproprietario, posto che solo il
proprietario
o altro titolare del diritto reale sul suolo o sul
fabbricato
su cui vengono eseguiti i lavori può assumere la veste
di committente (Cass. pen., Sez. III, 24.05.2007,
n. 35376, D.F., in CED, n. 237405; Id., Sez. III, 24.02.2009, n. 15926, D., in CED., n. 243467; Id., Sez. III,
10.02.2000, n. 7314, I. ed altro, in CED, n. 216971).
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva fatto
applicazione
dei principi sopra richiamati ed aveva correttamente
ritenuto che l’imputata fosse anch’essa corresponsabile
dei reati in questione, perché aveva accertato,
sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti che la
stessa fosse stata committente dell’opera, avendo un
interesse
personale e diretto alla realizzazione del manufatto
abusivo, che le avrebbe consentito di svolgere l’attività
di stoccaggio e deposito delle merci connesse alla sua
attività di commercio di materiali edilizi.
Infatti, dalle
testimonianze
escusse, era emerso che il capannone abusivo
era stato realizzato dopo la stipula del contratto di
comodato da parte della stessa imputata e tale manufatto
era stato realizzato in una zona agricola con una volumetria
nettamente superiore a quella prevista dal piano
regolatore, ma con destinazione certamente commerciale
perché connessa all’attività svolta dall’imputata e
finalizzata al commercio all’ingrosso di materiali per
l’edilizia (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.04.2016 n. 13231
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
ULTIMAZIONE DELL’OPERA ABUSIVA ED INDIVIDUAZIONE DEL DIES A
QUO DI DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
La realizzazione di un impianto sportivo
in zona agricola configura la violazione del d.P.R. n. 380
del 2001, art. 44, lett. b), atteso che la disposizione di
cui alla L. n. 493 del 1993, art. 4 (ai sensi della quale
gli interventi su aree destinate ad attività sportiva senza
creazione di volumetria sono subordinati alla semplice
denuncia di inizio attività) trova applicazione su aree già
destinate ad attività sportive e che la materia è ora
esclusivamente regolata dal T.U. edilizia.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C.
verte, in particolare, sulla necessità o meno di ottenere un
preventivo permesso di costruire per la realizzazione di un
impianto sportivo in zona agricola.
La vicenda processuale
trae origine dalla ordinanza con cui il tribunale del
riesame
aveva respinto l’istanza proposta contro il decreto con cui
il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
disponeva
il sequestro preventivo di un campo di calcio o di calcetto,
con “porte”, recinzione fissata stabilmente al suolo,
panchine e casette di legno ad uso spogliatoio, realizzato
dall’indagata in aperta campagna, in assenza del permesso
di costruire con aggravio del carico urbanistico e con
cambiamento
di destinazione d’uso del terreno su cui le opere
insistono, avente destinazione agricola, in relazione
all’imputazione
provvisoria per il reato di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44, lett. b).
Contro la ordinanza proponeva
ricorso
per Cassazione l’indagata, in particolare deducendo il
carattere provvisorio, privo di rilevanza edilizia, delle
opere
realizzate senza modificazione della morfologia del terreno,
in assenza di lavori di scavo o sbancamenti e che le casette
di legno, costituenti pertinenze del limitrofo Centro
Riabilitativo,
erano destinate a ricovero o deposito di attrezzi e
non già a spogliatoi.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso dell’interessato, in particolare
ricordando
come non soltanto le opere difettavano del requisito
della precarietà, che -com’è pacifico- va individuato in
relazione
alla oggettiva ed intrinseca destinazione dell’opera,
essendo necessario che essa soddisfi esigenze temporanee,
e non esclusivamente in relazione alle caratteristiche
dei materiali utilizzati per la realizzazione (ex multis:
Cass.
pen., Sez. III, 25.02.2009, n. 22054; Id., Sez. III,
26.11.2014, n. 996; Id., Sez. III, 04.04.2003, n.
24898, N., in CED, n. 225380).
Difetta va anche per la
Cassazione
il requisito della pertinenzialità delle opere abusive,
richiamando il principio, costantemente affermato dalla
stessa Cassazione, per cui in materia edilizia, affinché un
manufatto presenti il carattere della pertinenza, si
richiede
che abbia una propria individualità, che sia oggettivamente
preordinato a soddisfare le esigenze di un edificio
principale
legittimamente edificato, che sia sfornito di autonomo
valore di mercato, che abbia ridotte dimensioni, che sia
insuscettibile
di destinazione autonoma e che non si ponga
in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, elementi
non riscontrati nel caso in esame (ex multis: Cass. pen.,
Sez. III, 30.05.2012, n. 25669, Z., in CED, n. 253064) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2016 n. 12920
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA REVOCA DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE SI BASA SU PRESUPPOSTI
DIVERSI DALLA SOSPENSIONE DEL MEDESIMO.
In tema di esecuzione, deve distinguersi
tra revoca dell’ordine di demolizione da un lato e
sospensione del medesimo dall’altro, nel senso che, mentre
la prima è condizionata all’intervento di atti
amministrativi incompatibili con la esecuzione della
demolizione, la seconda discende dal fatto che sia
ragionevolmente prospettabile che, nell’arco di breve tempo,
questi stessi provvedimenti incompatibili vengano adottati.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata in cui i
giudici di legittimità individuano gli elementi
differenziali
tra la revoca e la sospensione dell’ordine di demolizione
dell’immobile abusivamente realizzato.
La vicenda
processuale
traeva origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, in
funzione di Giudice dell’esecuzione, respingeva la richiesta
di revoca dell’ingiunzione a demolire emessa dal P.M. presso
il Tribunale, sul rilievo che l’ordine di demolizione, pur
avendo natura di sanzione amministrativa, resta
caratterizzato
dalla natura giurisdizionale dell’organo al quale
l’esercizio
di tale potere-dovere è attribuito, che il momento da
decorrere dal quale deve essere data esecuzione all’ordine
disposto dal giudice con la sentenza di condanna è quello
del passaggio in giudicato della stessa e che, infine,
doveva
essere esclusa l’applicabilità all’ordine di demolizione
della disciplina della prescrizione di cui alla L. n. 689
del
1981, art. 28.
Contro l’ordinanza proponeva ricorso per
cassazione l’indagato sostenendo, per quanto qui di
interesse,
l’illegittimità del rigetto in quanto l’ordine di
demolizione
ben avrebbe dovuto e potuto essere revocato e sospeso
dal giudice dell’esecuzione ricorrendone i presupposti
di legge.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha confermato la ordinanza, così facendo applicazione di
un principio, ormai da ritenersi consolidato nella
giurisprudenza
della Cassazione. In particolare, i giudici di Piazza
Cavour hanno rilevato come nella fattispecie in esame il
ricorrente
non aveva allegato alcuna concreta circostanza riconducibile
all’una o dell’altra ipotesi (revoca o sospensione),
sicché la censura si appalesava prima ancora che infondata,
del tutto generica, in quanto non si comprendeva
a quali incompatibili “atti amministrativi che abbiano
sanato
o condonato la costruzione” si intendesse fare riferimento
(in precedenza, sulla distinzione delle condizioni
legittimanti
la revoca rispetto alla sospensione dell’ordine di
demolizione,
v.: Cass. pen., Sez. III, 24.03.2010, n. 24273,
P.G. in proc. P., in CED, n. 247791; Id., Sez. III, 26.09.2007,
n. 38997) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.03.2016 n. 12915
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ESECUZIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSEGUENTE ALLA
VIOLAZIONE DELLE NORME ANTISISMICHE NON SPETTA ALL’A.G.
PENALE.
In caso di realizzazione di opere
edilizie in difformità delle norme previste dallo stesso
d.P.R. n. 380 del 2001, ma all’art. 83 ss. (ossia nella
sezione intitolata “Norme per le costruzioni in zone
sismiche”), o dalle fonti integrative da questo previste, la
esecuzione della sanzione amministrativa della demolizione
disposta dal giudice con la sentenza di condanna non spetta
all’Autorità giudiziaria penale, ma compete all’ufficio
tecnico della Regione o a quello del genio civile.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata nella
quale i giudici di legittimità si soffermano sulla
individuazione
dei soggetti cui spetta eseguire l’ordine di demolizione
in caso di violazione della normativa antisismica.
La
vicenda
processuale traeva origine dalla ordinanza con cui il
Tribunale aveva respinto l’incidente di esecuzione volto ad
ottenere la revoca o la sospensione dell’ingiunzione a
demolire,
ordinata dalla Procura presso il Tribunale. Contro la
ordinanza proponeva ricorso per Cassazione il P.M., in
particolare
sostenendo che la competenza del giudice penale
a disporre l’ingiunzione sussisterebbe esclusivamente per
le violazioni di cui alla L. n. 47 del 1985, mentre per le
altre
farebbe capo al Ministero competente o ad altro ufficio,
trattandosi di sanzione amministrativa (nella specie, la
competenza era appunto della Regione).
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto il ricorso del P.M., rilevando come la legge, che
pure prevede, nell’art. 98, l’irrogazione della sanzione
amministrativa
demolitoria da parte dell’A.G. penale, con il decreto
o la sentenza di condanna (allorquando le opere siano
state eseguite in difformità alle norme prescritte dalla
legge medesima), contiene anche, al successivo art. 99,
precise disposizioni relative all’esecuzione delle sanzione
suddetta (così come delle “prescrizioni” che siano state,
eventualmente ed in alternativa, dettate dal giudice
penale),
attribuendo il relativo compito all’ufficio tecnico della
regione o a quello del genio civile, secondo le competenze
vigenti, autorità facultate ad avvalersi della forza
pubblica,
ponendo, altresì, le relative spese a carico del
“condannato”.
E proprio ai fini di tale esecuzione il successivo art.
101 prevede la trasmissione a dette autorità della copia
della sentenza o del decreto penale esecutivi, entro gg. 15
dalla intervenuta irrevocabilità o esecutività degli stessi,
mentre l’art. 102 istituisce un fondo in un apposito
capitolo
dello stato di previsione della spesa del Ministero dei
LL.PP., prevedendo, infine, le modalità di recupero delle
spese di esecuzione.
A fronte di tale specifica e dettagliata disciplina,
inequivocamente
evidenziante la precisa scelta del legislatore di demandare
all’autorità amministrativa l’esecuzione delle sanzioni
de quibus, ancorché pronunziate dal giudice penale,
non possono ritenersi applicabili i principi affermati dalla
giurisprudenza di legittimità, in tema di esecuzione del,
pur
analogo (ma non del tutto), ordine di demolizione di cui
alla
L. n. 47 del 1985, art. 7, ultimo comma, in materia
urbanistico-edilizia, ora sostituito dal d.P.R. n. 380 del 2001, art.
31, comma 9.
Infatti, osservano i Supremi Giudici, pur
trattandosi,
nell’uno e nell’altro caso, di provvedimenti formalmente
giurisdizionali e sostanzialmente sanzionatori
amministrativi,
deve tuttavia osservarsi che è lo stesso d.P.R. n.
380 del 2001 a considerare la specialità delle norme
riguardanti
le costruzioni in zona sismica rispetto alle altre, per le
quali la statuizione demolitoria pronunziata dal giudice non
è accompagnata da ulteriori modalità per l’esecuzione
d’ufficio.
Non a caso, a tal proposito, la giurisprudenza di
legittimità
ha puntualizzato che il principio secondo il quale
l’esecuzione
del provvedimento adottato dal giudice, applicativo
di sanzione amministrativa, deve ritenersi demandato
alla giurisdizione dell’A.G. penale, ai sensi degli artt.
655
ss. c.p.p., deve ritenersi operante “salvo che la legge non
disponga altrimenti in modo espresso” (così, testualmente,
leggesi nella motivazione di Cass. pen., SS.UU., 24.07.1996, n. 15), P.M. in proc. Monterisi, in CED, n. 205336).
E, nella specie, la legge dispone in modo espresso,
attribuendo tale esecuzione ad autorità amministrative ben
individuate (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.03.2016 n. 12298
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
TERMINI PER ESPLICARE LE RISERVE D’APPALTO E CONSEGUENZE IN
CASO DI VIOLAZIONE.
Ai sensi dell’art. 54, comma 3, R.D. n.
350/1895 l’appaltatore che abbia firmato con riserva il
registro di contabilità, deve, nel termine di quindici
giorni, esplicarla scrivendo e firmando nel registro le
corrispondenti domande di indennità e indicando, con
precisione, le cifre di compenso cui crede di aver diritto e
le ragioni di ciascuna domanda, posto che tardiva
esplicazione non è idonea a riaprire i termini di legge e
osta all’utile coltivazione della riserva stessa.
Un’impresa, appaltatrice pubblica, convenne in Tribunale
un Consorzio per un’area di sviluppo industriale al fine di
ottenerne la condanna al pagamento dei maggiori oneri
sostenuti
nell’esecuzione delle lavorazioni di viabilità, rete
idrica e fognaria. Esponeva che il Consorzio, in corso
d’opera,
aveva apportato alcune varianti, con corrispondente
incremento dei costi, e aveva disposto due sospensioni dei
lavori con proroga di 407 giorni per la consegna dell’opera.
Ancora, che era rimasta senza esito la richiesta di
definizione
bonaria della controversia con il conseguente ricorso
all’autorità
giudiziaria per il riconoscimento del maggior credito
indicato in venti riserve iscritte nel registro di
contabilità.
Il Consorzio, nel costituirsi, eccepì la tardività di talune
riserve
e chiese il rigetto della domanda; in subordine, la
riduzione
della somma pretesa, con gli interessi legali dalla
domanda ma esclusa la rivalutazione monetaria.
Il Tribunale condannava il Consorzio al pagamento di una
somma minima rispetto all’iniziale domanda.
In accoglimento parziale del gravame proposto dall’impresa,
la Corte d’Appello condannava il Consorzio al pagamento
di una modica altra somma, con interessi e rivalutazione,
compensate le spese del doppio grado.
Avverso la sentenza d’appello, l’impresa propone ricorso
per Cassazione, che la S.C. respinge.
Osserva che correttamente i Giudice di merito hanno rilevato
e motivato la necessità dell’immediata iscrizione della
riserva, all’atto stesso della sospensione dei lavori né può
prospettarsi avanti il Giudice di legittimità una
contestazione
sull’apprezzamento fattuale operato nelle precedenti sedi
giudiziarie circa i fatti che sono a fondamento di tali
riserve.
Parimenti infondata è la violazione dell’art. 54, comma 3,
R.D. n. 350/1895, vigente ratione temporis, ai sensi del
quale
l’appaltatore, se abbia firmato con riserva il registro di
contabilità, deve, nel termine di quindici giorni,
esplicarla
scrivendo e firmando nel registro le corrispondenti domande
di indennità ed indicando, con precisione, le cifre di
compenso cui crede di aver diritto e le ragioni di ciascuna
domanda. La tardiva esplicazione non è idonea a riaprire i
termini di legge e osta all’utile coltivazione della riserva
stessa (Corte di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
18.03.2016 n. 5438
- Urbanistica e appalti 7/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
MAI INVOCABILE LA BUONA FEDE PER CHI COMMETTE UN ABUSO
EDILIZIO E NON SI PREMURA DI INFORMARSI ALL’UFFICIO
COMPETENTE.
Nell’ipotesi di esecuzione di un
intervento edilizio in assenza di permesso di costruire non
ricorrono gli estremi dell’esimente della buona fede
allorquando l’imputato abbia male interpretato una pur
chiara disposizione di legge e non si sia premurato di
consultare il competente ufficio per conoscere quali
adempimenti egli avrebbe dovuto compiere.
Il tema preso in esame dalla Cassazione è quello della
possibile
applicabilità della causa di non punibilità della buona
fede con riferimento ai reati edilizi.
La vicenda
processuale
traeva origine alla sentenza con cui il Tribunale condannava
l’imputato reputandolo colpevole dei reati di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 10 e 31, art. 44, lett. b),
artt.
64, 65, 71, 72, 75, 93, 94 e 95 per aver, rispettivamente,
realizzato un capannone in cemento armato, senza denuncia
al comune competente, senza progetto e relazione
illustrativa,
senza la direzione dei lavori da parte di un professionista
autorizzato, in zona sismica ed in assenza del permesso.
L’impugnazione dell’imputato era respinta dalla
Corte d’Appello che riconfermava la penale responsabilità,
anche sotto il profilo soggettivo, rimarcando come, sulla
base del verbale di sequestro, l’immobile abusivo si
presentasse
appena ultimato alla data del sopralluogo, realizzato
con blocchi di lapil-cemento, con copertura di putrelle
e tubolari di ferro con sovrapposte lamiere grecate.
Siffatto
intervento edilizio era incompatibile secondo la Corte
d’Appello
con una condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile,
tanto più che l’imputato, proprietario e residente in loco,
aveva piena disponibilità, giuridica e di fatto, del fondo.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
l’imputato,
in particolare dolendosi del fatto che la Corte d’Appello
aveva trascurato di considerare l’elemento psicologico
del reato, che era nella specie mancato, giacché egli
non aveva avuto alcuna possibilità di venire a conoscenza
della necessità del permesso di costruire.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso dell’imputato, osservando come fosse
stato attentamente valutato l’elemento soggettivo,
giungendosi
ad affermare l’insussistenza di qualunque ipotesi
di buona fede, sulla scorta di una serie di motivate ragioni
(in primis, la mancata colpevole adozione delle cautele del
caso, considerato che l’imputato ben avrebbe potuto
avvalersi
dell’opera di un professionista del ramo).
D’altronde,
aggiungono i Supremi Giudici, neppure può essere, nel caso
di specie, invocato un errore sul fatto che costituisce
reato ex art. 42, comma 4, c.p. (rectius, art. 47 c.p.),
giacché
il convincimento dell’imputato, secondo cui non sarebbe
occorso il permesso di costruire era meramente soggettivo
e non risultava legato ad alcuna comunicazione da
parte della P.A. Sul punto, infatti, è stato già in
precedenza
affermato dalla Cassazione che, per trovare applicazione il
principio enunciato dalla Corte costituzionale con la sent.
24.03.1988, n. 364 (con la quale detta Corte ha
dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p. nella parte
in
cui non esclude dalla inescusabilità dell’ignoranza della
legge penale l’ignoranza inevitabile) è necessario che dagli
atti del processo risulti che l’agente abbia fatto tutto il
possibile
per uniformarsi alla legge, sicché nessun rimprovero,
neppure di semplice leggerezza, gli possa essere mosso, e
che, pertanto, la violazione della norma sia avvenuta per
cause del tutto indipendenti dalla sua volontà (v., sul
punto:
Cass. pen., Sez. III, 01.03.1991, n. 2698, S., in CED, n.
186513) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.03.2016 n. 11361
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
INDIVIDUAZIONE DEL TERMINE TEMPORALE PER ISCRIVERE RISERVE
NEI REGISTRI DI CONTABILITÀ.
L’appaltatore pubblico è tenuto a
iscrivere riserva contestualmente all’insorgenza e alla
percezione del fatto dannoso e per i fatti produttivi di un
danno continuativo, percepibile con la normale diligenza,
sicché esso non è esonerato dall’obbligo di proporre
tempestiva riserva in caso di ritardata consegna dei lavori,
salva la decorrenza del relativo termine dal momento in cui
si manifesta obiettivamente, secondo indici di media
diligenza e di buona fede, la rilevanza causale del fatto
rispetto al maggior onere incontrato dall’appaltatore, il
quale è poi tenuto ad esplicare la riserva nelle successive
registrazioni e nel conto finale.
Con atto di diffida, un’impresa appaltatrice di lavori
pubblici
invitò la P.A. committente a provvedere alla risoluzione
amministrativa delle riserve, apposte sul secondo stato di
avanzamento dei lavori e sullo stato finale dei lavori, ai
sensi
dell’art. 31-bis della L. n. 109/1994 (applicabile ratione
temporis) significando che, in mancanza, l’atto in questione
avrebbe dovuto intendersi come domanda di arbitrato, ex
art. 32 della stessa legge.
La stazione appaltante comunicava “di respingere e rigettare
in toto le riserve formulate dall’impresa”.
Era quindi radicato un giudizio arbitrale.
Con lodo non definitivo, il Collegio rigettava le eccezioni
preliminari e pregiudiziali proposte dalla P.A. dichiarando
la
rituale instaurazione del giudizio e disponendo la sua
prosecuzione
per l’esame del merito.
Con lodo definitivo il Collegio accoglieva parzialmente la
domanda dell’impresa condannando l’Ente al pagamento
di una somma di circa centomila euro, per riserve iscritte.
Le due decisioni erano gravate, per nullità ex art. 829
c.p.c.
con ricorso che era accolto dalla Corte d’Appello: ivi il
giudice
dichiarava l’improcedibilità del giudizio arbitrale, per
violazione degli artt. 31-bis e 32, L. n. 109/1994, e la
conseguente
nullità dei lodi impugnati.
Avverso tale pronuncia era radicato un ricorso per
Cassazione
dall’Impresa, accolto con rinvio dalla sent. n.
14971/2007.
Il giudizio avanti la Corte di rinvio si concludeva con
sentenza
con la quale la Corte territoriale, ritenendo rituale e
procedibile il giudizio arbitrale espletato e tempestive le
riserve
proposte dalla ditta appaltatrice, rigettava l’appello
principale proposto dalla P.A. e l’appello incidentale
proposto
dall’impresa.
Per la cassazione di questa sentenza di rinvio ha proposto
ricorso la Stazione appaltante nei confronti degli aventi
causa dell’originario appaltatore.
La S.C. accoglie il ricorso, nuovamente cassando con rinvio
la sentenza impugnata.
È condivisa la dedotta violazione e falsa applicazione degli
artt. 53 e 54, R.D. n. 350/1895, nonché l’insufficiente e
contraddittoria motivazione su un fatto decisivo della
controversia,
in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5,
c.p.c.
In sostanza, il ricorrente deduce che la Corte di rinvio
avrebbe errato nel ritenere -peraltro con motivazione del
tutto inadeguata- “tempestiva” la prima riserva, seppure
annotata nel registro di contabilità nel secondo stato di
avanzamento dei lavori, laddove il primo era stato
sottoscritto
dall’impresa senza riserva alcuna.
Osservano i Giudici di legittimità che nei pubblici appalti
è
obbligo dell’impresa inserire una riserva nella contabilità
contestualmente all’insorgenza e percezione del fatto
dannoso.
In relazione ai fatti produttivi di danno continuativo,
la riserva va iscritta contestualmente o immediatamente
dopo l’insorgenza del fatto lesivo, percepibile con la
normale
diligenza, mentre il “quantum” può essere successivamente
indicato. Ne consegue che, ove l’appaltatore non
abbia la necessità di attendere la concreta esecuzione dei
lavori per avere consapevolezza del preteso maggior onere
che tale fatto dannoso comporta, è tardiva la riserva
formulata
solo nello stato di avanzamento dei lavori successivo
(Cass. n. 5540/2004; n. 10949/2014).
Deve, pertanto,
ritenersi
che l’appaltatore non sia esonerato dall’obbligo -che non è circoscritto agli elementi di natura strettamente
contabile ma riguarda conseguentemente tutti i fatti che
siano comunque idonei a produrre spesa (Cass. n.
9380/1990)- di proporre tempestiva riserva in caso di
ritardata
consegna dei lavori, salva la decorrenza del relativo
termine dal momento in cui si manifesta obiettivamente,
secondo indici di media diligenza e di buona fede, la
rilevanza
causale del fatto rispetto al maggior onere incontrato
dall’appaltatore, il quale è poi tenuto ad esplicare la
riserva
nelle successive registrazioni e nel conto finale (Cass.
n. 5300/1981; n. 26916/2008).
Nel caso di specie, solo dopo tre mesi dalla consegna dei
lavori l’impresa comunicava alla Stazione appaltante
l’impossibilità
di accedere ai fondi interessati alla realizzazione
dell’opera pubblica a causa dell’indisponibilità delle aree,
derivante dal mancato compimento degli atti espropriativi
da parte dell’ente (accesso potutosi avere solo cinque mesi
dopo la consegna dei lavori). Nondimeno, il direttore dei
lavori
redigeva il primo stato di avanzamento dei lavori,
sottoscritto
senza riserve e approvato dalla Stazione appaltante.
Solo nel secondo SAL l’impresa, accanto a riserve legate
alla sospensione dei lavori per ragioni metereologiche,
annotava l’iniziale pretesa, che era esplicata in seguito e
reiterata nello stato finale.
Chiosano i Giudici di legittimità che non può revocarsi in
dubbio che l’appaltatrice era perfettamente in grado -essendo
decorsi ben cinque mesi dalla consegna degli stessi- di quantificare il pregiudizio subito per effetto
dell’inadempimento
iniziale realizzato dall’ente appaltante, e di effettuare
anche le sue determinazioni in ordine all’eventuale
prosecuzione dell’appalto, atteso il carattere istantaneo
(pur se suscettibile di produrre effetti continuativi)
dell’inadempimento
posto in essere dall’ente, per non avere il medesimo
tempestivamente perfezionato le necessarie procedure
espropriative.
La riserva formalizzata dopo ben otto
mesi dalla consegna dei lavori, con riferimento non alla
sospensione
disposta dalla direzione ma a fatti che potevano
(e dovevano) essere dedotti immediatamente, avendone
avuto l’impresa piena e iniziale conoscenza è da reputarsi,
pertanto, tardiva.
In tema di appalti pubblici, dal combinato disposto del R.D.
25.05.1895, n. 350, artt. 53, 54 e 64 (applicabile
ratione
temporis) si ricava la regola secondo cui sono soggette
all’onere di riserva non solo tutte le possibili richieste
inerenti
a partite di lavori eseguite e alle contestazioni tecniche
o giuridiche circa la loro quantità e qualità ma anche (e
soprattutto) quelle attinenti ai pregiudizi sofferti
dall’appaltatore
ed ai costi aggiuntivi dovuti affrontare, sia a causa
dello svolgimento (anomalo) dell’appalto, sia a causa delle
carenze progettuali per le conseguenti maggiori difficoltà
che le stesse hanno ingenerato sia, infine, per i
comportamenti
inadempienti della stazione appaltante. E invero, l’onere
della riserva assolve alla funzione di consentire la
tempestiva
e costante evidenza di tutti i fattori che siano oggetto
di contrastanti valutazioni tra le parti e perciò
suscettibili
di aggravare il compenso complessivo, ivi comprese
le pretese di natura risarcitoria (Cass. n. 15013/2011).
È
evidente pertanto, che la sottoscrizione della riserva dopo
la registrazione dello stato di avanzamento dei lavori viene
a vanificare la stessa ragion d’essere del sistema, fondato
sulla tempestiva comunicazione all’amministrazione delle
ulteriori pretese economiche dell’impresa appaltatrice (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 16.03.2016 n. 5253
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
ESPROPRIAZIONE:
LIQUIDAZIONE DELL’INDENNITÀ D’ESPROPRIAZIONE AL VALORE DI
MERCATO E ONERE DELLA PROVA.
La necessità di ancorare l’indennità per
le aree non edificabili agli effettivi valori di mercato
(per effetto della sentenza della Corte cost. n. 181/2011)
presuppone che i ricorrenti provino il valore venale del
bene: infatti, anche se la sussistenza dei requisiti per
applicarsi quei parametri può costituire un punto fermo, è
precluso al Giudice di legittimità, in difetto di attività
assertiva sul punto, verificare la congruità del ristoro in
concreto offerto o giudicare della pretesa ad un ristoro
quantitativamente maggiore di quello ottenuto nelle sedi di
merito.
Un Tribunale condannò un Comune a pagare ad alcuni privati
un importo quale risarcimento del danno per la perdita
della proprietà d’un loro fondo, interessato da lavori di
realizzazione
di una scuola media, oltre ad altra somma per il
deprezzamento del residuo fondo rimasto in loro proprietà.
Dopo aver riscontrato un’ipotesi di occupazione acquisitiva
(il decreto di espropriazione era stato emesso dopo la
realizzazione
dell’opera ed alla scadenza dei termini d’occupazione
legittima), liquidava il dovuto ai sensi dell’art. 5-bis,
comma 7-bis, L. n. 359/1992, in base alla natura
edificatoria
del fondo e al valore posseduto alla data di perfezionamento
dell’illecito, determinando altresì il risarcimento per
la diminuzione di valore della porzione residua in
considerazione
della perdita dell’attitudine edificatoria, secondo le
risultanze della CTU disposta in corso di causa.
La sentenza appellata dai privati quanto alla liquidazione
del risarcimento nel periodo d’occupazione illegittima della
porzione residua del fondo e nella parte in cui dichiarava
l’acquisto della proprietà in capo al Comune di quella parte
irreversibilmente trasformata. La decisione del Tribunale
era gravata in via incidentale dal Comune.
La Corte dichiarava l’inammissibilità dell’appello
incidentale
e della domanda volta a conseguire il danno da
spossessamento
per la porzione irreversibilmente trasformata, rigettando
nel resto l’appello principale. La Corte infatti, pur
qualificando l’intervenuta occupazione come usurpativa,
considerava che la valutazione dell’area dovesse essere
pur sempre operata tenendo conto della distinzione tra
aree edificabili e non, mentre nello specifico il suolo
occupato
era destinato a edilizia scolastica: circostanza idonea
a escludere la natura edificatoria del suolo, dovendosi
perciò
ritenere infondata la pretesa al maggior risarcimento
formulata dagli appellanti principali con riferimento alla
supposta natura edificabile del fondo in oggetto.
Contro tale sentenza i privati hanno proposto ricorso per
Cassazione, al quale resiste il Comune.
Il ricorso è respinto.
Osservano i Supremi Giudici che per un esatto inquadramento
deve anzitutto precisarsi che a seguito della domanda
introdotta dai privati, per il risarcimento del danno da
perdita di proprietà, del loro fondo toccato dai lavori di
realizzazione
dell’edificio scolastico, il Tribunale -ravvisando
un’ipotesi di occupazione acquisitiva e ritenuta la natura
edificatoria del fondo- liquidava il dovuto secondo il
criterio
dell’art. 5-bis, comma 7-bis, D.L. n. 333/1992. Con tale
sentenza quindi si dichiarava l’intervenuto acquisto della
proprietà in capo al Comune.
L’assunto era gravato dai privati con doglianza condivisa
dalla Corte di merito, che qualificava l’occupazione come
“usurpativa” per la riscontrata nullità della dichiarazione
di
pubblica utilità, in ragione del fatto che non erano fissati
i
termini di cui all’art. 13 della L. n. 2359/1865.
Osserva la S.C., con la sentenza in commento, che nonostante
tale diversa qualificazione la Corte territoriale ha
respinto
il gravame negando che nel caso potesse riconoscersi
una natura edificabile al fondo e precisando che alcun
giudicato interno poteva ritenersi formato sulla natura
edificatoria del bene “essendo stato contestato il criterio risarcitorio
e l’ammontare del dovuto, che variano, appunto,
in relazione alla natura del bene”.
Per quanto interessa la Rivista, deve essere segnalato
l’argomentare
con cui è respinto il terzo motivo di ricorso.
Ivi è dedotta l’erroneità della statuizione per la necessità
di
adeguarla, in ogni caso, alla sent. n. 181/2011 con la quale
la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale
l’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992 e, per derivazione, l’art. 40, commi 2
e 3, d.P.R. n. 327/2001.
Sotto tale profilo, osservano i
Giudici
di legittimità che la necessità di ancorare l’indennità
per le aree non edificabili agli effettivi valori di mercato
(adeguando in tal caso i valori monetari agli effetti
derivanti
dalla sentenza Corte cost. n. 181/2011) presuppone che i
ricorrenti -che nel caso in esame hanno già ottenuto, per
effetto della sentenza di primo grado, un risarcimento
calcolato
ex art. 5-bis, comma 7-bis, L. n. 359/1992- precisino
e provino il valore venale del bene, perché non edificabile.
Infatti, anche se tale qualificazione può costituire un
punto
fermo, è da ritenersi precluso al Giudice di legittimità il
verificare,
in difetto di attività assertiva sul punto, e il giudicare
la congruità del ristoro in concreto offerto, o ancora
giudicare
se sia possibile un ristoro quantitativamente maggiore di
quello ottenuto nelle sedi di merito (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 16.03.2016 n. 5247 - Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
IL RESPONSABILE DELL’UFFICIO TECNICO DEL COMUNE HA UNO
SPECIFICO DOVERE DI VIGILANZA SULLA CORRETTA ESECUZIONE DEI
LAVORI.
Il responsabile dell’ufficio tecnico del
Comune ha, in prima persona, il dovere di controllare
l’esatta esecuzione dei lavori ed il rispetto della
normativa urbanistico-edilizia generale e locale e di
adottare i provvedimenti del caso per il ripristino dello
status quo.
Interessante la questione affrontata dalla Cassazione nel
caso in esame, con cui i Supremi Giudici chiariscono in
maniera inequivocabile l’esistenza di una posizione di
garanzia
gravante in capo al responsabile dell’ufficio tecnico
del Comune rispetto alla vigilanza sul regolare assetto del
territorio.
La vicenda processuale traeva origine alla
sentenza
con cui la Corte d’Appello riformava -per quel che
qui ancora interessa- la sentenza del Tribunale che aveva
condannato l’imputato per il reato di cui al D.Lgs. n. 42
del
2004, art. 181, comma 1-bis nonché per il reato di abuso
d’ufficio, assolvendolo dal primo per non aver commesso il
fatto e dal secondo perché il fatto non sussiste.
La Corte
d’Appello, dopo aver affermato che l’unica responsabile
del reato ambientale doveva reputarsi la coimputata,
rilevava,
in ordine al reato di abuso d’ufficio ascritto all’imputato -per aver, nella qualità di responsabile dell’ufficio tecnico
comunale, rilasciato alla D. un’autorizzazione per la
sostituzione
delle tende solari ricadenti in suolo pubblico e
successivamente
altra autorizzazione, per la posa temporanea
di pannelli paravento, in violazione delle norme di legge e
regolamentari, omettendo di astenersi, in presenza di un
interesse proprio e di prossimi congiunti, comproprietari
dell’immobile interessato e successivamente di esercitare i
poteri di vigilanza sui lavori e di disporre la rimozione
delle
opere abusive- osservava che l’autorizzazione alla
sostituzione
delle tende preesistenti non avrebbe avuto attinenza
con la violazione ambientale, cui era correlata
l’imputazione,
mentre la successiva autorizzazione (del tutto corretta,
sotto il profilo amministrativo) non avrebbe implicato alcun
obbligo di astensione dell’imputato, solo perché
comproprietario
dell’immobile concesso in locazione alla D., l’unica
a trarne effettivo beneficio. D’altronde, nella predetta
qualità, l’imputato neppure avrebbe potuto avere uno
specifico
dovere di vigilanza sulla corretta esecuzione dei lavori,
spettando la stessa ad altro organo, la Polizia Municipale.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il
P.M., in particolare osservando, sotto il profilo del dovere
di vigilanza, che sarebbe spettato al responsabile
dell’ufficio
tecnico comunale proprio il dovere di vigilanza
sull’attività
urbanistico edilizia, come previsto dal d.P.R. n. 380 del
2001, art. 27, al fine di assicurare il rispetto delle
prescrizioni
stabilite dagli strumenti urbanistici e delle modalità
esecutive
fissate nei titoli abilitativi, tanto che, una volta
accertato
l’abuso, il responsabile dell’ufficio ha il dovere di
ordinare
la sospensione dei lavori e di adottare i provvedimenti
di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
In
definitiva,
la Corte d’Appello aveva trascurato di considerare
come il delitto di abuso d’ufficio si perfezioni anche
mediante
una condotta omissiva, allorquando si tratti del
mancato esercizio di un potere esplicitamente attribuito al
pubblico funzionario da una norma di legge o regolamentare.
La Cassazione, nell’affermare sul principio di cui in
massima,
ha rigettato il ricorso del P.M., tuttavia ritenendo
corretta l’interpretazione fornita quanto alla sussistenza
del
predetto dovere di vigilanza.
Sul punto, i Supremi Giudici
hanno rilevato che l’affermazione che il responsabile
dell’ufficio
tecnico non avesse alcun specifico dovere di vigilanza
sulla corretta esecuzione dei lavori era erronea. Invero,
il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 27 prevede testualmente:
“1. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio
comunale
esercita, anche secondo le modalità stabilite dallo
statuto o dai regolamenti dell’ente, la vigilanza
sull’attività
urbanistico- edilizia nel territorio comunale per
assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi.
2. Il dirigente o il
responsabile,
quando accerti l’inizio di opere eseguite senza titolo
su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre
norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità,
o destinate ad opere e spazi pubblici ovvero ad interventi
di edilizia residenziale pubblica di cui alla L. 18.04.1962, n. 167, e successive modificazioni ed
integrazioni,
provvede alla demolizione e al ripristino dello stato
dei luoghi. Qualora si tratti di aree assoggettate alla
tutela
di cui al R.D. 30.12.1923, n. 3267, o appartenenti ai
beni disciplinati dalla L. 16.06.1927, n. 1766, nonché
delle aree di cui al D.Lgs. 29.10.1999, n. 490, il
dirigente
provvede alla demolizione ed al ripristino dello stato
dei luoghi, previa comunicazione alle amministrazioni
competenti
le quali possono eventualmente intervenire, ai fini
della demolizione, anche di propria iniziativa.
3. Ferma
rimanendo
l’ipotesi prevista dal precedente comma 2, qualora
sia constatata, dai competenti uffici comunali d’ufficio
o su denuncia dei cittadini, l’inosservanza delle norme,
prescrizioni
e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile
dell’ufficio, ordina l’immediata sospensione dei
lavori, che ha effetto fino all’adozione dei provvedimenti
definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e
notificare
entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei
lavori”.
Era dunque chiaro che l’imputato aveva, in prima persona,
il dovere di controllare l’esatta esecuzione dei lavori ed
il rispetto
della normativa urbanistico-edilizia generale e locale
e di adottare i provvedimenti del caso per il ripristino
dello status quo.
Trattasi di questione non del tutto pacifica nella
giurisprudenza
di legittimità (nel senso dell’esistenza di una posizione
di garanzia: Cass. pen., Sez. III, 28.04.2004, n.
19566, D’A. e altri, in CED, n. 228888; in senso difforme,
invece: Cass. pen., Sez. III, 09.03.2011, n. 9281, B., in
CED, n. 249785) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 14.03.2016 n. 10491
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
CESSIONE DEL TITOLO EDILIZIO E TRASLAZIONE DEI RELATIVI
ONERI PATRIMONIALI VERSO LA P.A..
Nel caso di cessione di un titolo
edilizio, il soggetto acquirente subentra in ogni diritto e
obbligazione facente capo ai venditori, e per l’effetto è
tenuto al pagamento delle somme previste nella concessione
edilizia e a prestare fideiussione a garanzia dei pagamenti,
in sostituzione delle fideiussioni in origine prestate.
Un privato convenne, avanti il Tribunale ordinario,
un’impresa
edile, per accertare che la stessa era subentrata nelle
obbligazioni, già gravanti in capo a sé, verso un Comune e
relative al pagamento di somme dovute in forza di una
concessione edilizia, oltre ad altri importi da essa
derivati.
Nello specifico, l’attore sostenne di aver ottenuto un
titolo
edificatorio per la ristrutturazione di un edificio e che
esso
prevedeva il versamento di oneri di urbanizzazione da pagare
in quattro rate, decorrenti dalla data di rilascio della
concessione, oltre alla prestazione di fideiussione bancaria
a garanzia degli oneri. La concessione, ancora, imponeva il
versamento della quota di contributo sul costo di
costruzione,
di cui era pure previsto il pagamento rateale. L’attore
assunse, ancora, di aver contratto a favore del Comune la
fideiussione bancaria prevista a garanzia delle obbligazioni
scaturenti dal rilascio della concessione.
Sicché l’attore
pagata ogni rata relativa a oneri d’urbanizzazione- aveva
venduto il terreno e il sovrastante fabbricato all’impresa
convenuta, che aveva notiziato il Comune dell’acquisto del
bene assicurando altresì che sarebbe subentrata in ogni
diritto,
dovere e onere assunto dal venditore e chiedendo
che fosse rilasciata nuova concessione edilizia direttamente
ad essa impresa acquirente.
Nondimeno, l’impresa convenuta non provvide né al pagamento
degli oneri, né del costo di costruzione, né prestò la
fideiussione sostitutiva di quella in origine prevista in
capo
al proprio dante causa (odierno attore): in ragione di ciò,
il
Comune pretese dal privato - originario titolare - quanto
dovuto per contributo nel costo di costruzione e gli
interessi
maturati.
Si costituì l’impresa, sostenendo che gli oneri di
urbanizzazione
per il rilascio dell’originaria concessione edilizia erano
rimasti a carico dei venditori, come pattuito nel contratto
di
compravendita. La convenuta si era solo limitata, prima
della vendita, a ottenere, nell’interesse proprio ma a nome
dei venditori, una variante modificativa della concessione
edilizia, assumendosi gli oneri relativi esclusivamente a
tale
variante.
Nel corso dell’istruttoria testimoniale, emerso il
contrario,
la convenuta con separata citazione conveniva gli attori al
medesimo Tribunale e, richiamati i fatti di causa,
evidenziava
che per mero errore aveva versato al Comune anche
una parte degli oneri di urbanizzazione e del contributo nel
costo di costruzione, relativi alla prima concessione,
chiedendo
pertanto il rimborso delle somme versate a tale titolo.
Riuniti i due giudizi, il Tribunale dichiarava che l’impresa
convenuta era subentrata in ogni diritto e obbligazione
facente
capo ai venditori, sicché essa era tenuta al pagamento
delle somme previste nella concessione edilizia sin dal
momento dell’acquisto, come del resto era tenuta a prestare
fideiussione a garanzia dei pagamenti, in sostituzione
delle fideiussioni in origine prestate dai privati,
rigettando
così anche la domanda proposta con separato atto di
citazione
da parte della società.
La sentenza era oggetto di appello dell’impresa, che la
Corte
territoriale respinse.
La questione approda all’esame della S.C., con ricorso
dell’impresa
soccombente nel doppio grado di merito, al quale
gli intimati non resistono.
I giudici di legittimità accolgono il gravame limitatamente
al primo motivo di ricorso, recante censura di nullità della
sentenza in ragione dell’omessa pronuncia sul terzo motivo
d’appello, relativo alla liquidazione delle spese di lite
fatta
dal Tribunale.
Per il resto, la Corte nomofilattica conferma le due
statuizioni
di merito, respingendo le censure d’indole urbanistica
e edilizia.
In particolare, nel respingere il terzo motivo (contenente
doglianza d’insufficiente, illogica e contraddittoria
motivazione
della sentenza impugnata, laddove ha provveduto
all’interpretazione
della volontà delle parti), la S.C. afferma
che emerge dagli atti che i privati -originari attori-
ottennero
una concessione edilizia con la quale il Comune autorizzava
la ristrutturazione di un complesso edilizio. Alienato
l’immobile alla società ricorrente ed essendo questa
interessata,
anziché alla ristrutturazione, alla realizzazione di
una serie di villette a schiera, fu chiesta e ottenuta una
variante
all’originaria concessione, per la costruzione delle
villette
in questione. Peraltro tale variante è scaturita da una
richiesta presentata da parte della stessa impresa
ricorrente,
sebbene ancora intestata agli originari proprietari: questo
perché l’atto di trasferimento della proprietà dell’immobile
è intervenuto solo in tempo successivo alla variante.
La domanda che ha generato il presente giudizio scaturisce
dalla pretesa degli originari titolari del bene (attori in
primo grado) di accertare che, a seguito dell’atto di
trasferimento,
la società acquirente doveva farsi carico non solo
degli ulteriori oneri concessori e del contributo di
costruzione,
come determinati nella variante ma anche di quelli
scaturenti
dal rilascio della primigenia concessione.
La Corte d’Appello ciò ha affermato, con sentenza condiviso
dalla Cassazione.
Questo, con argomenti che si fondano tanto nella lettura di
più punti del contratto di compravendita, quanto
nell’infondatezza
della tesi -avanzata dall’impresa- per cui la variante
(per essa, richiesta dagli originari proprietari) era da
considerarsi
una nuova concessione, sicché l’impresa stessa
doveva far fronte solo agli oneri derivanti da quest’ultima.
Tale ultima argomentazione era anzitutto smentita
dall’istruttoria
testimoniale, le quali deponevano nel senso che
l’effettiva volontà delle parti fosse quella di assicurare
al
costruttore acquirente la possibilità di realizzare il
diverso
progetto contemplato nella variante, assumendosi tutti gli
oneri di natura concessoria. Era poi da disattendere, in
diritto,
la tesi per la quale la variante costituiva era per “nuova
concessione”, atteso che la somma degli oneri di
urbanizzazione
e del contributo nel costo di costruzione, relativi
ai provvedimenti adottati, era pari all’importo dovuto con
riguardo alla volumetria scaturente dalla realizzazione
delle
villette a schiera, essendosi il Comune limitato, in
occasione
del rilascio della variante, a calcolare esclusivamente gli
oneri necessari per far fronte alla complessiva volumetria
scaturente dal progetto edificatorio della società
ricorrente,
al netto di quanto già determinato in occasione del rilascio
della prima concessione.
Né poteva trascurarsi la
circostanza
che, non avendo i venditori compiuto alcuna attività
di trasformazione urbanistica, l’obbligo di contribuzione
non poteva che essere posto a carico di chi in concreto
aveva compiuto tale attività, e cioè la società appellante (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 14.03.2016 n. 4947
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
COMMITTENTE RESPONSABILE DELL’ABUSO EDILIZIO ANCHE SE
OTTIENE IL RILASCIO DI UN ILLEGITTIMO PERMESSO DI COSTRUIRE.
Le responsabilità gravanti ex lege sul
titolare del permesso di costruire, sul
committente e sul costruttore, costituenti a
carico dei soggetti indicati dalla norma una posizione di
garanzia diretta sulla quale si fonda l’addebito, di natura
anche colposa, per il reato edilizio, non è esclusa dal
rilascio del titolo abilitativo in contrasto con la legge o
con gli strumenti urbanistici e, a maggior ragione, non lo è
in caso di intervento realizzato direttamente in base a
denunzia di inizio di attività, atto non pubblico
proveniente dal privato e non dalla pubblica
amministrazione, e ciò a prescindere dalle determinazioni
che quest’ultima possa assumere al riguardo, soprattutto se
l’opera realizzata costituisce attuazione del programma
progettuale ed è dunque riconducibile all’ideazione del
committente.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, su un tema
particolare, relativo alla delimitazione della
responsabilità del committente nel campo degli illeciti
edilizi.
Prima di soffermarci sulla, interessante, pronuncia resa
dalla S.C., è opportuno qui ricordare che ai fini
dell’individuazione dei soggetti responsabili degli abusi
edilizi di natura amministrativa e penale, la normativa
vigente stabilisce all’art. 29 del T.U. in materia edilizia
n. 380/2001, che il titolare del permesso di costruire, il
committente e il costruttore sono responsabili della
conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle
previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo.
Tale disposizione costituisce quasi una presunzione juris
tantum, stabilendo a priori i soggetti tenuti a
rispondere dell’abuso; ciò anche in ragione del fatto che la
disciplina concerne reati di natura contravvenzionale e non
delittuosa, punibili indistintamente a titolo di dolo o
colpa. I soggetti elencati nella suddetta norma sono tenuti
al pagamento delle sanzioni pecuniarie e, solidalmente, alle
spese per l’esecuzione in caso di demolizione delle opere
abusivamente realizzate, sempre fatto salvo che dimostrino
di non essersi resi responsabili dell’illecito.
Costoro, per espressa previsione legislativa, non possono
dismettere il ruolo di garanti della legalità né possono
avvalersi di assunzioni di responsabilità da parte di terzi.
Si tratta di una sorta di “responsabilità di posizione”
dovendo, il soggetto che riveste una specifica qualifica,
preoccuparsi in prima persona del rispetto della normativa
urbanistico/edilizia. Tuttavia, questa “responsabilità di
posizione” legislativamente prevista non trasforma gli
illeciti edilizi in reati propri, in quanto i reati in
materia edilizia contemplati dall’art. 44, lett. b) e c),
d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. edilizia) devono essere
qualificati come reati comuni e non come ipotesi
incriminatrici a soggettività ristretta, salvo che per i
fatti commessi dal direttore dei lavori o per la fattispecie
di inottemperanza all’ordine di sospensione dei lavori
impartito dall’autorità amministrativa.
Il bene tutelato da dette norme incriminatrici, ovvero la
salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio,
può essere, dunque, indifferentemente offeso da chiunque si
renda autore di attività determinanti trasformazioni
urbanistiche ed edilizie territoriali e non soltanto da quei
determinati soggetti che si trovino in possesso delle
particolari qualità soggettive indicate dall’art. 29 del
T.U. in materia edilizia (d.P.R. n. 380 del 2001).
In ragione di quanto argomentato, si rende necessario
definire con maggiore precisione ognuna delle singole
qualifiche soggettive, in particolare, per quanto qui di
interesse, il committente.
Relativamente alla posizione di quest’ultimo è necessario
solamente specificare che costui risponde dell’illecito
penale previsto dall’art. 44, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 ove
non vigili sull’osservanza, da parte dell’esecutore, della
normativa edilizia, in quanto questi è titolare di una
specifica posizione di garanzia derivante dalla predetta
normativa.
In sostanza, la responsabilità del committente trova
fondamento proprio nell’omissione di vigilanza cui questi è
tenuto, in considerazione del fatto che l’opera soddisfa un
suo preciso interesse (Cass. pen., Sez. III, 21.12.2011, n.
47434, R., in CED, n. 251636).
Tanto premesso, nel caso in esame, l’imputato rispondeva del
reato di cui agli artt. 40, cpv., 110, c.p., 44, lett. c),
d.P.R. 06.06.2001, n. 380 perché, quale proprietario
committente, in concorso con due pubblici ufficiali del
Comune di C. d. P. (che avevano archiviato il procedimento
amministrativo finalizzato all’accertamento dell’abuso
edilizio, così concorrendo alla sua realizzazione), con i
progettisti, i direttori dei lavori e il titolare
dell’impresa esecutrice degli stessi, aveva ristrutturato,
mediante soprelevazione e suddivisione di due unità
immobiliari, il villino di sua proprietà, sito in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, in assenza di valido
titolo edilizio essendo illegittima la D.I.A. perché in
contrasto con la normativa in materia di distanze tra
fabbricati (art. 9, D.M. n. 1444 del 1968 e 26 delle N.T.A.
del P.R.G.), posto che la soprelevazione era stata
realizzata ad una distanza inferiore a 10 metri rispetto al
fabbricato adiacente.
L’imputato aveva contestato la sua responsabilità, ritenendo
non essere responsabile del reato contestatogli. La
Cassazione, nell’enunciare il principio di cui in massima,
ha dunque ribadito che il titolare del permesso di
costruire, il committente e il costruttore sono responsabili
della conformità delle opere alla normativa urbanistica,
alle previsioni di piano nonché, unitamente al direttore dei
lavori, a quelle del permesso e alle modalità esecutive
stabilite dal medesimo (art. 29, d.P.R. n. 380 del 2001).
Nella specie, l’opera realizzata costituiva attuazione del
programma progettuale ed era dunque riconducibile
all’ideazione del committente. Da qui, pertanto, il rigetto
della tesi difensiva (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.03.2016 n. 10106
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
OBBLIGO D’INFORMATIVA DI IRREGOLARITÀ EDILIZIE O
URBANISTICHE IN CASO DI COMPRAVENDITA IMMOBILIARE.
È onere della parte venditrice di un
immobile notiziare l’acquirente di eventuali irregolarità
edilizie o urbanistiche, indipendentemente dalla concreta
rappresentazione nel corso delle trattative della specifica
finalità che spinge quest’ultimo al perfezionamento
dell’operazione, posto che quest’ultimo soggetto ha
interesse ad ottenere la proprietà di un immobile idoneo ad
assolvere la sua funzione economico-sociale e a soddisfare i
bisogni che ne inducono all’acquisto, ossia a conseguire la
fruibilità e la commerciabilità del bene, rispetto alla
quale il certificato di abitabilità -indispensabile ai fini
della piena realizzazione della funzione socio-economica del
contratto di compravendita immobiliare- deve ritenersi
essenziale: onde il suo rifiuto di stipulare la
compravendita definitiva dell’immobile privo del suddetto
certificato di abitabilità è da ritenersi giustificato.
Il promissario acquirente di un immobile convenne in
Tribunale
il venditore del bene, chiedendo dichiararsi la legittimità
del proprio recesso dal preliminare di compravendita
immobiliare e la condanna della parte convenuta, promittente
alienante, alla corresponsione del doppio della caparra
versata.
Il contratto riguardava un immobile che l’attrice deduceva
non conforme a quello promesso in vendita.
Il Tribunale accolse le domande attrici ritenendo che, in
disparte
la questione della contestata presenza di alcune planimetrie
dell’immobile tra i documenti, allegati al preliminare,
il recesso dell’attrice fosse legittimo perché, con
riferimento
al bene promesso in vendita, erano emerse delle irregolarità
urbanistiche e che, in definitiva, due delle tre unità
abitative di cui si componeva l’immobile erano prive dei
requisiti costruttivi e volumetrici idonei al conseguimento
del certificato di abitabilità.
Ancora, il Tribunale
rilevava
che la promittente alienante aveva omesso di comunicare
tali carenze e che pertanto trovava giustificazione
l’applicazione
della disciplina prevista dall’art. 1385, comma 2, c.c.
La sentenza era oggetto di gravame che la Corte d’Appello
respinse, evidenziando peraltro che solo all’esito dello
scambio di corrispondenza intercorso tra le parti (dopo la
stipulazione del preliminare e le verifiche catastali e
urbanistiche)
la promissaria acquirente aveva avuto modo di accertare
che l’immobile non era confacente alla finalità per
cui era stato acquistato. Per l’effetto, correttamente il
Tribunale
aveva ritenuto inadempiente la venditrice, per non
aver messo a conoscenza la controparte della reale
situazione
dell’immobile, avendo particolare riguardo al profilo
concernente l’utilizzabilità a scopo abitativo dello stesso.
Era, infatti, obbligo della promittente alienante
evidenziare
a controparte i limiti della fruibilità di tutti i locali
costituenti
l’immobile oggetto dell’affare.
La sentenza della Corte d’Appello è oggetto di ricorso per
Cassazione, che la S.C. respinge.
Anzitutto, per ragioni di rito, sono disattesi i motivi
poggianti
sulla dedotta interpretazione delle risultanze istruttorie,
qui prospettati come vizio di “omessa e insufficiente
motivazione circa un fatto controverso e decisivo” nonché
di violazione e falsa applicazione del combinato disposto
degli artt. 1385 e 1355 c.c. In proposito, la Corte di
cassazione
rammenta che il vizio di violazione di legge consiste
nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del
provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata
da una norma di legge e quindi implica necessariamente
un problema interpretativo della stessa. Viceversa,
l’allegazione
di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta,
tramite le risultanze di causa, è estranea all’esatta
interpretazione
della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione
del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede
di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi -violazione di legge
in
senso proprio a causa dell’erronea ricognizione
dell’astratta
fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della
legge in ragione della carente o contraddittoria
ricostruzione
della fattispecie concreta- è segnato dal fatto che solo
quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla
contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass.,
SS.UU., n. 10313/2006; Cass. n. 8315/2013).
Nel merito, la S.C. respinge il ricorso osservando che
l’inidoneità
del bene, oggetto di compromesso, allo scopo pattuito
è palese alla luce della documentazione di causa: l’edificio
non si prestava allo scopo per il quale s’intendeva
acquistarlo. Inoltre, rileva un inadempimento del promittente
venditore che non ha posto l’altra parte a conoscenza
della reale situazione urbanistica del bene -compresa
l’utilizzabilità
a scopo abitativo di tutte o alcune delle sue zone- in osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede
delle parti, che nella fattispecie imponevano di informare
l’aspirante acquirente della mancanza anche solo parziale
delle caratteristiche ricercate del bene da acquisire.
Del resto, indipendentemente dalla concreta rappresentazione
nel corso delle trattative dello specifica finalità che
spinge il promissario acquirente al perfezionamento
dell’operazione,
quest’ultimo soggetto ha interesse ad ottenere
la proprietà di un immobile idoneo ad assolvere la sua
funzione
economico sociale e a soddisfare i bisogni che inducono
all’acquisto, ossia a conseguire la fruibilità e la
commerciabilità
del bene, rispetto alla quale il certificato di abitabilità
deve ritenersi essenziale: onde il suo rifiuto di stipulare
la compravendita definitiva dell’immobile privo del
suddetto certificato di abitabilità è da ritenersi
giustificato
(Cass. 11.05.2009, n. 10820; Cass. 19.12.2000,
n. 15969).
In altri termini, come sottolineato anche dalla
più autorevole dottrina, il possesso del certificato di
abitabilità
è indispensabile ai fini della piena realizzazione della
funzione socio- economica del contratto (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 10.03.2016 n. 4717
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
APPALTI:
FORMA DEL CONTRATTO DI PATROCINIO.
In tema di contratti della P.A., che
devono essere stipulati ad substantiam per iscritto, il
requisito della forma del contratto di patrocinio è
soddisfatto con il rilascio al difensore, a mezzo di atto
pubblico, di procura alle liti ai sensi dell’art. 83 c.p.c.
qualora sia puntualmente fissato l’ambito delle controversie
per le quali opera la procura stessa: spetta al giudice di
merito esaminare il fatto decisivo, costituito dall’idoneità
della procura (quale negozio unilaterale di conferimento
della rappresentanza processuale) e dell’atto difensivo
(redatto e sottoscritto dal difensore) a integrare la
proposta e la correlativa accettazione del contratto valido
sotto il profilo formale.
Un Giudice di pace, nel decidere sull’opposizione proposta
da una Camera di commercio avverso il decreto ingiuntivo
emesso nei suoi confronti, su istanza di un avvocato,
dichiarò
il diritto di quest’ultimo ad ottenere il pagamento
dei compensi professionali in dipendenza di prestazioni
professionali dal medesimo rese in favore dell’Ente.
La sentenza fu riformata dal Tribunale, in sede di gravame,
ritenendosi che la procura generale conferita al
professionista
fosse inidonea a soddisfare le prescrizioni di legge, non
individuando con esattezza l’oggetto del contratto perché
genericamente riferita a ogni causa di recupero crediti: per
il che, ad avviso del Tribunale, difettava il necessario
collegamento
tra essa e l’atto defensionale.
Ricorre, per la cassazione della sentenza, il libero
professionista,
con ricorso che la S.C. accoglie.
È dedotta la violazione degli artt. 16 e 17, R.D. n.
2440/1923 oltre che degli artt. 1325, 1326 ss. c.c. i quali
-secondo l’insegnamento del Giudice nomofilattico- ben
consentono il perfezionamento di contratto di patrocinio, in
forma scritta, attraverso da un lato il rilascio di procura
alle liti, generale o speciale, e, dall’altro, la redazione
del singolo
atto di difesa sottoscritto dal difensore, e cioè, nello
specifico,
degli atti con i quali il legale aveva espletato il
contratto
d’opera intellettuale, ricevuto per il recupero dei crediti
dell’Ente.
Parimenti, si censura la considerazione del Giudice di
merito
per il quale la procura non individuava con esattezza
l’oggetto del contratto, essendo stata genericamente
riferita
a tutte le cause di recupero crediti.
La S.C., nel richiamare un proprio recente arresto (Cass.,
Sez. VI-3, 24.02.2015, n. 3721), afferma che la
doglianza
inerente l’omessa considerazione che lo ius postulandi
era stato espressamente conferito anche per “intraprendere
azioni esecutive, intervenire in quelle da altri iniziate
e dare loro impulso” e che il professionista aveva
utilizzato
la procura proprio per costituirsi in un processo esecutivo,
coglie un deficit motivazionale che è ragionevolmente
frutto di un corrispondente deficit nell’iter cognitivo
del decidente, il quale ha ritenuto generica la procura
senza
valutarne un profilo essenziale sia in astratto, sia, quel
che più conta, in concreto, in relazione, cioè, all’attività
difensiva
svolta e posta a base della domanda di pagamento.
Sicché, deve applicarsi il principio di diritto per il quale
in
tema di contratti della P.A., che devono essere stipulati ad
substantiam per iscritto, il requisito della forma del
contratto
di patrocinio è soddisfatto con il rilascio al difensore, a
mezzo di atto pubblico, di procura generale alle liti ai
sensi
dell’art. 83 c.p.c., qualora sia puntualmente fissato
l’ambito
delle controversie per le quali opera la procura stessa.
In
relazione a tal principio, il giudice del merito deve
esaminare
il fatto decisivo, costituito dall’idoneità della predetta
procura quale negozio unilaterale di conferimento della
rappresentanza processuale, e dell’atto difensivo in
concreto
redatto e sottoscritto dal difensore, a integrare la
proposta
e la correlativa accettazione di un contratto di patrocinio
tra l’ente pubblico e il professionista, valido anche sotto
il profilo formale.
In proposito, la Corte di Legittimità ricorda che sulla
questione
dell’idoneità del rilascio della procura ad lites, seguita
dall’atto difensivo sottoscritto dall’avvocato, a sopperire
alla formale sottoscrizione del contratto di patrocinio,
sono
già intervenute numerose pronunce, tra l’altro in giudizi
tra
le stesse parti, che hanno ribadito il principio appena
richiamato
(tra le tante, Sez. VI-3, nn. 7796; 10674; 10753;
15454; 15925 del 2015; Sez. VI-2, nn. 1628; 4235; 4236;
4359; 4360; 4361; 4362; 4363; 4364; 4363; 4365; 4366; 4367;
4560; 4561; 4562 del 2016) (Corte
di
Cassazione, Sez. VI civile,
sentenza 08.03.2016 n. 4563
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
REATI URBANISTICI E PAESAGGISTICI SONO REATI PROPRI SE
RIFERITI ALLA POSIZIONE DEL DIRETTORE DEI LAVORI.
Sebbene i reati previsti in tema di
realizzazione di opere edilizie in assenza delle prescritte
autorizzazioni, siano esse specificamente connesse alla
normativa di tutela urbanistica ovvero siano riferite a
quella a garanzia del patrimonio paesaggistico ed
ambientale, devono essere qualificati come reati comuni e
non come reati a soggettività ristretta, va precisato che
siffatto principio cessa tuttavia di avere validità per quel
che concerne la posizione del direttore dei lavori, per il
quale deve, viceversa, ritenersi che la specifica qualifica
rivestita sia elemento necessario ai fini della integrazione
del reato, trattandosi, pertanto, limitatamente a tale
soggetto, di un reato proprio.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della natura giuridica dei reati in
materia edilizia e paesaggistica, ossia se gli stessi
possano
essere ritenuti come propri ovvero che reati comuni.
La
vicenda
processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per
occuparsi della questione segue alla sentenza che aveva
confermato la dichiarazione di penale responsabilità degli
imputati -per quanto qui di interesse del direttore dei
lavori- in relazione al reato di cui al D.Lgs. n. 42 del 2004,
art.
181, comma 1-bis per avere eseguito alcuni interventi
edilizi
in zona di particolare pregio paesistico, in assenza della
prescritta autorizzazione.
In particolare, quanto al reato
in
materia di tutela del paesaggio, rilevava la Corte d’Appello
che non poteva accogliersi la linea difensiva del direttore
dei lavori, secondo la quale egli aveva operato solo sulla
carte, come direttore dei lavori, senza avere presenziato né
partecipato alla realizzazione di opere abusive.
Contro la
sentenza proponeva ricorso per cassazione il direttore dei
lavori, in particolare sostenendo che egli, avendo svolto
solo
le mansioni di direttore dei lavori, ignorava la esistenza
del vincolo paesaggistico, né tale esistenza poteva essere
a lui opposta sulla sola base del fatto che lo stesso
sarebbe
stato negligente nel non informarsi, data la natura
delittuosa
del reato non punibile a titolo di mera colpa e che, se la
sua responsabilità si fondava sulla qualifica rivestita di
direttore
dei lavori, nel suo caso la cessazione della permanenza
del reato doveva certamente essere ancorata alla
data del 21.01.2005, data di cessazione della efficacia
del permesso a costruire rilasciato per le opere in
questione
e, pertanto, anche data di scadenza del suo incarico.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto il ricorso del direttore dei lavori, in
particolare
osservando come appariva non adeguatamente motivata
la sentenza della Corte d’Appello nella parte in cui, pur
essendo
stato correttamente rilevato che costituisce, ai sensi
del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29, comma 2, fattore
esimente
la penale responsabilità del direttore dei lavori il fatto
che questi abbia rinunziato all’incarico conferitogli dalla
committenza dei lavori, segnalando contestualmente la
irregolarità
di questi, non si era, parimenti, rilevato che, essendo
venuto meno l’incarico del G. di direttore dei lavori
per effetto della intervenuta decadenza del permesso a
costruire
ai sensi del d.P.R. n. 380 del 2000, art. 15 la sua
responsabilità
non poteva essere collegata esclusivamente al
mancato rispetto dei doveri di diligenza connessi alla
qualifica,
non più rivestita, di direttore dei lavori (v., sulla natura
di reato proprio se riferito alla posizione del direttore
dei lavori:
Cass. pen., Sez. III, 19.12.2007, n. 47083, T., in
CED, n. 238471).
Si noti, peraltro, che, successivamente
alla
sentenza in esame, la Corte costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 181, comma 1-bis,
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e
del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della L. 06.07.2002,
n.
137), nella parte in cui prevede “: a) ricadano su immobili
od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche
siano
stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito
provvedimento emanato in epoca antecedente alla
realizzazione
dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per
legge ai sensi dell’articolo 142 ed”.
Con l’intervento del
giudice delle leggi, quindi, ne consegue la parificazione
della risposta sanzionatoria (secondo l’assetto già
sperimentato
dal legislatore al momento della codificazione),
con la riconduzione delle condotte incidenti sui beni
provvedimentali
alla fattispecie incriminatrice di cui al comma
1, salvo che, al pari delle condotte incidenti sui beni
tutelati
per legge, si concretizzino nella realizzazione di lavori
che
comportino il superamento delle soglie volumetriche indicate
al comma 1-bis (Corte cost., sent. 23.03.2016, n. 56) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.03.2016 n. 9134
- Urbanistica e appalti 6/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
AL FINE DEL RISPETTO DEI LIMITI DI ALTEZZA DI UN FABBRICATO
IL CALCOLO VA OPERATO FACENDO RIFERIMENTO AL PIANO DI POSA
DELL’EDIFICIO.
In tema di costruzione di un fabbricato
ai fini del rispetto dei limiti di altezza, il relativo
calcolo va operato facendo riferimento al piano di posa
dell’edificio che, dovendo essere perfettamente orizzontale,
deve, se il piano naturale di campagna sia inclinato e
presenti livelli diversi, essere determinato calcolando la
media delle misure dei vari punti del perimetro esterno
della costruzione.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene ad una questione, invero non molto
scandagliata
dalla Cassazione, della individuazione dei criteri di
calcolo per la verifica del rispetto dei limiti di altezza
di un
edificio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza
con cui il tribunale aveva condannato C.A.M., A.L. e M.R.
V. alla pena di € 2000 di ammenda avendoli riconosciuti
responsabili,
in concorso tra loro, dei reati di cui al d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), per avere
realizzato
un edificio in parziale difformità dal permesso a costruire
loro rilasciato, e cit. d.P.R., artt. 93 e 95, per avere
realizzato
il predetto edificio senza avere preventivamente depositato
gli atti progettuali presso l’ufficio competente del Genio
civile.
Il Tribunale aveva rilevato che, sebbene non fosse
stato acquisito agli atti del fascicolo il progetto
assentito,
era plausibile che l’altezza complessiva fosse stata
stabilita
con riferimento al piano di campagna, non potendo
evidentemente essa misurarsi a partire dalla faccia
superiore
dell’ancora realizzando marciapiede, come, invece, ritenuto
dalla difesa degli imputati, secondo la quale, peraltro
il marciapiede in questione avrebbe avuto un’altezza
rispetto
al piano di campagna non di 10 cm ma di 38 cm, posto
che, chiarisce il Tribunale, in tal modo la misura
dell’altezza
dell’edificio verrebbe condizionata dall’altezza del
marciapiede
realizzato in adiacenza, potendo la maggiore altezza
del manufatto essere compensata da una maggiore altezza
del marciapiede.
Contro la sentenza avevano proposto ricorso
gli interessati, in particolare dolendosi del fatto che il
Tribunale si fosse sostituito alla autorità amministrativa
nell’affermare
che il calcolo dell’altezza del manufatto in questione
doveva essere fatto a partire dalla quota del piano di
campagna grezzo e non, come ritenuto dal Comune,
attributario
delle competenze amministrative in materia di definizione
delle quote urbanistiche e degli allineamenti, a partire
dalla quota della superficie del costruendo marciapiede.
La Cassazione, nel respingere la tesi difensiva, ha
affermato
il principio di cui in massima, ritenendo preferibile a
quello del quale si erano fatti portatori gli imputati, cioè
che l’altezza dell’edificio va calcolata al netto della
altezza
del marciapiede circostante, in quanto solo il primo
criterio,
assicurando la univoca oggettività del piano di impostazione
del manufatto, non suscettibile di variazioni legate alle
diverse scelte costruttive del marciapiede nei singoli punti
in cui esso è realizzato, appare più conforme ad assicurare,
sotto il profilo del decoro della edilizia urbana, il
rispetto di
un criterio uniforme di calcolo in maniera che si evitino
difformità,
sia pure contenute, nei livelli di colmo degli edifici,
difformità che sarebbero legate a scelte, anche
eventualmente
interessate, coinvolgenti l’altezza di elementi accessori
all’edificio quale potrebbe essere appunto il circostante
marciapiede; ciò tanto più in un’ipotesi in cui, come nella
presente fattispecie, il marciapiede ancora non era stato
realizzato e nella quale, pertanto, la sua maggiore o minore
altezza rispetto al piano sottostante potrebbe incidere su
pregresse scelte costruttive, rendendo lecito, attraverso
una sapiente modulazione dei livelli costruttivi di esso,
ciò
che, invece tale originariamente non era (V., in senso
conforme,
la remota ma sempre attuale: Cass. pen., Sez. III, 08.02.1983,
n. 1272, C., in CED, n. 157387) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.03.2016 n. 9133
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
URBANISTICA:
QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELLE CONVENZIONI URBANISTICHE,
TEMPI E GIURISDIZIONE CIRCA LE CONTROVERSIE DA ESSE NASCENTI.
L’atto d’obbligo assunto dal privato per
la costruzione di opere di urbanizzazione e la cessione di
aree in esecuzione di uno strumento urbanistico
particolareggiato va inquadrato nell’ambito delle intese tra
privato e P.A., quale mezzo per assolvere gli impegni
imposti a suo carico dalle norme edilizie, circa il quale è
esperibile azione ai sensi dell’art. 2932 c.c., di fronte al
Giudice amministrativo, oggi ai sensi dell’art. 133 c.p.a.,
condizionatamente al fatto che non sia decorso il tempo
previsto dalla convenzione o, in difetto, dall’art. 8, comma
5, n. 3, L. n. 765/1967, vigente ratione temporis.
Un Comune convenne in Tribunale un privato e -premettendo
che con atto unilaterale d’obbligo costui si era impegnato
a eseguire opere di urbanizzazione su un fondo di
sua proprietà e a cedere gratuitamente alcune aree- espose
che tali obblighi erano rimasti inadempiuti e chiese
emettersi sentenza traslativa ex art. 2932 c.c. delle aree
in
questione.
Il Tribunale adito accolse la domanda ma la decisione fu
riformata
dalla Corte d’Appello che, con la sentenza qui impugnata,
dichiarò prescritta la pretesa osservando: che le
opere di urbanizzazione avrebbero dovuto essere eseguite
entro dieci danni dal rilascio della relativa licenza
edilizia;
che tale dies a quo era certamente anteriore al giorno in
cui constava che le opere erano state per la gran parte
eseguite,
con la definitiva impossibilità per il Comune di rilasciare
la licenza stessa; che il diritto alla cessione gratuita
delle aree, quale contributo per le opere di urbanizzazione
secondaria, era immediatamente esigibile, già alla stipula
dell’atto d’obbligo.
Per la cassazione della sentenza ricorre il Comune, con
ricorso
che la S.C. respinge.
Osserva la Corte di cassazione che i due motivi di gravame
sono infondati, il primo, e inammissibile, il secondo.
Occorre, in punto premettere che l’atto d’obbligo assunto
dal privato -di cui il Comune ha lamentato l’inosservanza,
chiedendo l’emissione di una sentenza ex art. 2932 c.c. in
materia esperibile (SS.UU., n. 4683/2015)- va inquadrato in
relazione al suo stesso oggetto e nell’ambito delle intese
tra privato e P.A., con il quale il primo assume l’obbligo
di
eseguire (o comunque esegue) una determinata prestazione
o di effettuare una cessione gratuita di aree, come mezzo
per la realizzazione delle opere di urbanizzazione, e
dunque,
per assolvere gli “impegni” imposti a suo carico dalle
norme edilizie. Ancora, che ogni questione relativa alla
giurisdizione
del giudice ordinario adito, a conoscere di detta
controversia, è preclusa, essendosi, sul punto, formato il
giudicato interno (SS.UU., n. 24883/2008).
Il contenuto di tali intese, in base all’art. 8 della L. n.
765/1967, vigente ratione temporis, è composto di una parte
necessaria e non negoziabile (concernente la previsione
attuativa delle opere di urbanizzazione) e di una parte
disponibile
(rivolta alla determinazione dei modi e dei tempi
esecutivi) per i quali la norma si limita a stabilire che
tale
tempo non deve essere superiore ai dieci anni.
Risulta dall’impugnata sentenza che, relativamente alle
aree su cui dovevano essere eseguite le opere di
urbanizzazione
primaria, tale tempo è stato fissato dal costruttore in
dieci anni a decorrere dalla data di rilascio della relativa
licenza
edilizia, mentre la cessione gratuita dell’area per le
opere di urbanizzazione secondaria è stata dichiarata
immediatamente
esigibile, a semplice richiesta del Comune.
Ma, conclude la S.C., anche a voler seguire la
prospettazione
del ricorrente in riferimento alle aree indicate quali
strade
(pattuizione del termine di dieci anni per il costruttore, e
successivo termine di dieci anni per la relativa richiesta
del
creditore) va, ad abundantiam, rilevato che a norma
dell’art.
31 della L. n. 1150/1942, quale sostituito dall’art. 10,
comma 1, L. n. 765/1967, l’obbligato non poteva procedere
all’esecuzione delle opere di urbanizzazione del terreno
in assenza di specifico titolo abilitativo edilizio, mai
stata rilasciato,
sicché la relativa prestazione risultava, in definitiva,
inesigibile, con conseguente infondatezza della domanda (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
04.03.2016 n. 4264
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ORDINE DI DEMOLIZIONE NON È SOGGETTO AL TERMINE DI
PRESCRIZIONE PREVISTO PER LA PENA NÉ PER LA SANZIONE
AMMINISTRATIVA.
In materia di reati concernenti le
violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto
abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di
carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione
stabilita dall’art. 173 c.p. per le sanzioni penali, né alla
prescrizione stabilita dalla L. n. 689 del 1981, art. 28 che
riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità
punitiva.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C.
verte, in particolare, sulla suscettibilità dell’ordine di
demolizione
di declaratoria di estinzione come previsto in generale
per le pene e per le sanzioni amministrative pecuniarie.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui
la Corte d’Appello rigettava la richiesta proposta da A.M.G.
di sospensione o revoca dell’esecuzione della sentenza
emessa dalla Corte stessa. I giudici rilevavano, per quanto
qui di interesse, che l’ingiunzione emessa dal PG non era
soggetto ai termini di prescrizione delle sanzioni penali
accessorie,
trattandosi di atto esecutivo di una sanzione
amministrativa,
essendo certa la competenza a tal fine del PG
stesso.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione
il condannato, in particolare sostenendo che la Corte
d’Appello non avesse minimamente dato conto della
qualificazione
dell’ordine di demolizione quale pena accessoria
con natura amministrativa e peraltro rilevando che, ancorché
si volesse aderire a consimile prospettazione giuridica,
comunque anche la sanzione amministrativa doveva
considerarsi
estinta ai sensi della L. n. 689 del 1981, ex art. 28,
essendo tale questione anch’essa completamente obliterata
dalla motivazione dell’ordinanza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibile il ricorso, in particolare,
ponendosi
in linea con una consolidata giurisprudenza di legittimità
la quale afferma che in materia di reati concernenti
violazioni edilizie, l’ordine di demolizione del manufatto
abusivo non è sottoposto alla disciplina della prescrizione
stabilita dall’art. 173 c.p. per le sanzioni penali, avendo
natura
di sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio,
priva di finalità punitive e con effetti che ricadono sul
soggetto
che è in rapporto col bene, indipendentemente dal
fatto che questi sia l’autore dell’abuso (Cass. pen., Sez.
III
15.12.2015, n. 49331, P.M. in proc. D., in CED, n.
265540; si noti che, in motivazione, la S.C. ha precisato
che tali caratteristiche dell’ordine di demolizione
escludono
la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di
“pena” elaborata dalla giurisprudenza della Cedu) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.02.2016 n. 8183
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
EDILIZIA PRIVATA -
PUBBLICO IMPIEGO:
ANCHE LA MACROSCOPICA ILLEGITTIMITÀ DELL’ATTO COMPIUTO È
ELEMENTO DI PROVA DEL DOLO INTENZIONALE NELL’ABUSO D’UFFICIO.
In tema di abuso d’ufficio, la prova del
dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa,
può essere desunta anche da elementi sintomatici come la
macroscopica illegittimità dell’atto compiuto, non essendo
richiesto l’accertamento dell’accordo collusivo con la
persona che si intende favorire, in quanto l’intenzionalità
del vantaggio ben può prescindere dalla volontà di favorire
specificamente quel privato interessato alla singola vicenda
amministrativa.
Ormai consolidata la giurisprudenza della Corte di
cassazione
sulla questione giuridica oggetto di esame da parte
dei giudici di legittimità con la sentenza qui annotata, in
cui viene ad essere nuovamente affrontato il tema della
individuazione
degli elementi da cui è desumibile l’elemento
soggettivo normativamente richiesto ai fini della punibilità
del reato di abuso d’ufficio.
La vicenda processuale traeva
origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello, pur
riformando
la sentenza di primo grado dichiarando prescritti i
reati, aveva confermato le statuizioni civili della sentenza
che aveva riconosciuto R.G. e P.F. responsabili dei reati
agli stessi ascritti, ricondotti, quanto al primo, all’egida
dell’art.
323 c.p. e, quanto al secondo, alle ipotesi di reato,
realizzate in concorso con M.A., di cui al d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44 (capo B), art. 481 c.p. in reazione al d.P.R.
n.
380 del 2001, art. 29 (capo C) e art. 633 c.p. (capo D).
Le
situazioni in fatto sottese alle dette contestazioni
inerivano
ai lavori di ricostruzione di un edificio, adibito a bar,
andato
distrutto per effetto di un incendio, lavori, questi
realizzati
da M.A. sotto la direzione del P., il quale aveva anche
redatto
la relazione tecnica allegata alla relativa DIA. Detti
lavori
ricadevano su suolo di proprietà demaniale e dunque
non di proprietà del M. e riguardavano, infine, un manufatto
abusivo, oggetto di precedente condono, negativamente
esitato perché la relativa domanda era stata dichiarata improcedibile.
Da qui l’affermazione di responsabilità dei due
predetti imputati, per avere il R., quale responsabile del
procedimento in capo all’amministrazione competente,
attestato
la conformità dei lavori alla DIA; il P., per aver concorso
con il M., nella violazione del citato d.P.R. n. 380 del
2001, art. 44 nonché nel falso di cui al capo C e
nell’arbitraria
occupazione del bene demaniale interessato dai citati
lavori di ricostruzione, oggetto del capo D della rubrica.
Contro la sentenza proponevano ricorso per Cassazione gli
interessati, in particolare sostenendo, quanto alla
regolarità
edilizia dell’edificio distrutto, che la stessa si fondava
su
una pratica di condono lontana nel tempo, seguita da una
attività di esercizio commerciale ivi svolta senza soluzione
di continuità, sintomo esterno di regolarità edilizia del
cespite.
E tanto costituiva fonte di evidenza probatoria tale
da giustificare l’applicazione dell’art. 129, comma 2,
c.p.p.,
quantomeno sotto il versante del dolo. Quanto al P., si
evidenziava
che l’imputato avrebbe asseverato la Dia presentata
dal M. in termini non coincidenti al vero perché tratto
in inganno dalle dichiarazioni del concorrente oltre che in
ragione dei medesimi documenti, richiamati anche nel ricorso
dell’altro imputato, che assentivano logicamente l’ipotesi
della proprietà del bene in capo al detto M., anche
alla luce della pregressa attività commerciale svolta presso
il citato immobile, anche questa legittimante l’idea della
regolarità
edilizia del cespite andato distrutto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha dichiarato inammissibili i ricorsi, ritenendo che
rispetto
alla oggettività di tali elementi in fatto, che, in termini
diacronici
(la originaria natura abusiva del manufatto desumibile
dalla presenza del condono e la causale della perdita
di efficacia del condono stesso, legata alla assenza di un
titolo
legittimante) fotografavano sul piano logico, con
immediatezza,
i presupposti fondanti la consapevole violazione
di legge realizzata nel rendere la rassegnata attestazione
conformità.
Priva di rilievo era anche la rimarcata assenza
del dolo specifico, trascurando i due imputati di
considerare
che anche sul punto la sentenza di primo grado conteneva
una assorbente ed esaustiva motivazione ancorata alla
macroscopicità della violazione riscontrata letta attraverso
il prisma garantito rapporti di conoscenza tra imputato e
terzo: ciò rendeva dunque originariamente infondato in
diritto
il motivo di appello con il quale si contestava il dolo
solo in ragione della mancata dimostrazione di una
collusione
tra agente qualificato e terzo favorito, dato notoriamente
inconferente avuto riguardo all’elemento soggettivo proprio
dell’abuso d’ufficio (v., in termini: Cass. pen., Sez. VI,
27.08.2014, n. 36179, D., in CED, n. 260233) (Corte
di
Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 26.02.2016 n. 8043
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
RESPONSABILITÀ DEL COSTRUTTORE E DEL COMMITTENTE VERSO IL
PROPRIETARIO LIMITROFO PER VIOLAZIONE DI NORME EDILIZIE.
Anche nel regime anteriore alla L. n.
47/1985, l’art. 31 della legge urbanistica fondamentale
prevedeva la responsabilità sia del committente che
dell’assuntore dei lavori, tenuto, pertanto, a rispondere in
solido con il primo ai sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c.
verso il proprietario confinante per danni derivanti
dall’esecuzione di un opera edilizia: invero, la rilevanza
giuridica della “licenza” e poi “concessione” edilizia, ora
“permesso di costruire”, si esaurisce nell’ambito del
rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente,
mentre nei rapporti tra privati rileva sempre e soltanto il
diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive
dell’opera e le norme edilizie che la disciplinano, ai sensi
dell’art. 871 c.c., che possono attribuire ai privati un
diritto soggettivo.
Alcuni privati convennero al Tribunale civile i proprietari
di
un fondo limitrofo chiedendone la condanna al risarcimento
per i danni derivati alla loro proprietà dalla realizzazione
d’un edificio, confinante con la villetta degli attori,
edificato
in violazione delle distanze legali di cui agli artt. 872
ss.
c.c., delle NTA e del Regolamento edilizio comunale. Il
Tribunale
accolse la domanda, condannando in solido i convenuti
al pagamento di un’ingente somma, maggiorata di
interessi e spese.
La sentenza era gravata da uno soltanto degli originari
convenuti
e l’appello era parzialmente accolto dalla Corte
territoriale
che ridusse la somma a meno del dieci per cento rispetto
all’iniziale condanna. Questo -sulla scorta di quanto
emerso in CTU- ritenendo fondate le doglianze degli
originari
attori limitatamente le violazioni al regolamento edilizio
comunale quanto ad altezza dell’edificio realizzato dagli
originari
convenuti e all’ampiezza del cortile interno.
Per la cassazione di questa sentenza ricorrono -con
separati
ricorsi- gli originari attori, ai quali resistono gli
originari
convenuti con controricorso e ricorso incidentale.
La S.C. anzitutto dichiara inammissibili i ricorsi
principali
successivi al primo, perché radicati oltre il termine utile
per
la proposizione del mezzo incidentale -in violazione del
canone
di unicità del processo d’impugnazione (art. 333) e
ossia, nel giudizio per Cassazione, nel termine di quaranta
giorni dalla notifica di cui al combinato disposto degli
artt.
370 e 371 c.p.c. (Cass., SS.UU., 11219/1997; Cass. nn.
12381/1999; 11966/2000; 21829/2007)- e rigetta, per ragioni
di merito prettamente civilistiche il ricorso principale,
involgente
censure relative alla quantificazione della condanna
di dipendenza di una dedotta violazione del canone di
solidarietà nell’adempimento dell’obbligazione dedotta in
giudizio, questione peraltro ormai coperta da giudicato
interno.
Venendo al ricorso incidentale, tempestivamente radicato,
con il primo e secondo motivo -qui esaminati congiuntamente- è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli
artt. 55, 61 e 63 del Regolamento edilizio oltre che degli
artt. 872, 1223, 1226, 2043, 2056 e 2697 c.c.; dell’art. 100
c.p.c. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione
su un punto decisivo della controversia.
In buona sintesi i ricorrenti censurano l’impugnata sentenza
laddove - sulla scorta degli esiti di CTU - ha ritenuto
eccessiva
l’altezza del fabbricato e, questo, non perché fosse
più alto della misura massima prevista dall’art. 55 del
Regolamento
edilizio ma perché era più alto della misura indirettamente
imposta dalle dimensioni del cortile (in violazione
degli artt. 61 e 63 del Regolamento succitato).
L’ampiezza
del cortile avrebbe, dunque, condizionato l’altezza
del fabbricato in questione e il mancato accoglimento di
questo profilo da parte della Corte territoriale
determinerebbe
vizio di sentenza, al pari del fatto che il cortile era di
gran lunga inferiore alle misure poste dal Regolamento per
poterlo qualificare come tale: detta area, per vero, poteva
al più considerarsi una “chiostrina” (ossia un piccolo
spazio
interno degli edifici di abitazione, destinato ad arieggiare
e
illuminare scale e ambienti di servizio).
La Corte disattende gli assunti contenuti nel ricorso
incidentale,
così confermando integralmente la sentenza d’appello.
Osserva la S.C. che le valutazioni circa la natura e la
qualificazione del cortile, compiute dalla Corte
territoriale
sulla scorta della CTU costituiscono valutazione riservata
al
Giudice del merito: lo stabilire se, in concreto, una
determinata
area possa rientrare nell’una o nell’altra delle anzidette
categorie di spazi si risolve certamente in un giudizio di
fatto
che sfugge al sindacato della Cassazione, quando -come
nella specie- sia sorretto da congrua e corretta
motivazione
(Cass. n. 2571/1971).
Del pari, costituisce giudizio di
fatto, demandato al merito, quello reso sulla portata e le
caratteristiche di un edificio, quali risultanti da un
progetto
edilizio, presentato a un Comune e prodotto agli atti di
causa.
Comportando tali censure una richiesta di rivisitazione del
giudizio di fatto, operato dalla Corte d’Appello, esse sono
ritenute inammissibili in sede di legittimità.
Venendo all’incidentale, i Supremi Giudici osservano che
esso pure merita accoglimento.
È ivi dedotta la violazione dell’art. 6, L. n. 47/1985;
dell’art.
29, d.P.R. 380/2001; dell’art. 11 delle Preleggi; degli artt.
2043 e 2055 c.c. nonché l’omessa, insufficiente e
contraddittoria
motivazione su un punto decisivo. Al definitivo, i
ricorrenti
incidentali lamentano che i giudici di merito abbiano
ravvisato la responsabilità del costruttore per i danni
sofferti dai privati sebbene l’art. 6, L. n. 47/1985 (oggi
l’art.
29, d.P.R. n. 380/2001) -che pur prevede la responsabilità
solidale del costruttore- non fossero ancora entrate in
vigore
all’epoca dei fatti, risalenti agli anni 1968-1969.
Ancora,
a rafforzare la tesi, è qui dedotto il fatto che il
costruttore
sarebbe subentrato nell’attività edificatoria dopo il
rilascio
del titolo edilizio e i lavori sarebbero stati eseguiti
nella
piena vigenza di detto titolo, annullato solo nel 1979, a
seguito
di ricorso straordinario al Capo dello Stato.
Nel disattendere la censura, la Cassazione osserva che anche
nel regime precedente alla legge n. 47/1985, l’art. 31
della legge urbanistica (L. n. 1150/1942) prevedeva, la
responsabilità
sia del committente sia dell’assuntore dei lavori,
tenuto, pertanto, a rispondere in solido con il primo ai
sensi degli artt. 2043 e 2055 c.c.
A nulla, in senso contrario, rileva che il modello delineato
dalla L. n. 1150/1942 inerisse a lavori interamente svolti
in
forza di un titolo concessorio (ossia dopo la L. n. 10/1977)
e non più (come nel modello delineato dalla legge
urbanistica
fondamentale del 1942) in forza di una “licenza edilizia”.
Sotto tale profilo, merita osservarsi come la Corte di
legittimità
qui affermi che la rilevanza giuridica della “licenza” e
poi “concessione” edilizia, ora “permesso di costruire”, si
esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e
privato richiedente, mentre nei rapporti tra privati rileva
sempre e soltanto il diretto raffronto tra le
caratteristiche
oggettive dell’opera e le norme edilizie che la disciplinano
ai sensi dell’art. 871 c.c., che possono attribuire ai
privati
un diritto soggettivo, in difetto del quale nella materia in
esame non può farsi luogo al risarcimento del danno, anche
se non sono integrative come quelle, rilevanti nella
specie, relative all’altezza degli edifici di quelle dettate
dal
codice civile in materia di distanze tra le costruzioni (cfr.
Cass. nn. 4889/1993; 10702/1994; 10173/1998;
13170/2001; 5411/2015).
Per tali ragioni, conclude la S.C. con riferimento al caso
concreto, la responsabilità solidale del costruttore per
l’illecito
derivante dalla violazione delle norme edilizie su indicate
era configurabile anche nel regime giuridico previgente,
applicabile alla fattispecie concreta ratione temporis
sicché
la doglianza dedotta in ricorso deve essere disattesa (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
26.02.2016 n. 3811
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUALI SONO GLI ATTI TIPICI DELLA P.A. CHE CONSENTONO DI
EVITARE L’ESECUZIONE DELL’ORDINE DI DEMOLIZIONE?
Gli atti tipici della P.A. idonei ad
evitare la esecuzione della sentenza di condanna nella parte
in cui impone la demolizione della opera abusiva sono, oltre
alla intervenuta demolizione dell’immobile ad opera della
stessa pubblica amministrazione, la intervenuta concessione
in sanatoria e la delibera del consiglio comunale che abbia
dichiarato la conformità del manufatto con gli interessi
pubblici urbanistici ed ambientali.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata in cui i
giudici di legittimità si soffermano, da un lato, sulla
individuazione
degli atti amministrativi che inibiscono l’esecuzione
dell’ordine di demolizione del manufatto abusivo e
dall’altro,
sulla specificazione di quale sia l’onere incombente
al condannato per poterne beneficiare.
La vicenda
processuale
traeva origine dall’ordinanza con cui il Tribunale, in
funzione di giudice dell’esecuzione, aveva dichiarato
inammissibile
l’istanza proposta da V.F.M.C. di revoca/sospensione
dell’ordine di demolizione, in forza della sentenza di
condanna della medesima per reati edilizi, emessa dal
medesimo
tribunale, divenuta irrevocabile, ritenendo che la
circostanza che il giudice amministrativo avesse annullato
l’ordinanza comunale di demolizione delle opere, non potesse
avere alcuna valenza ostativa, posto che la sentenza
penale avendo valenza di giudicato ha accertato che le
opere erano destinate a realizzare una volumetria
“intollerabile”,
mentre l’incidente di esecuzione proposto mirava
nella sostanza a sottoporre di nuovo la questione di merito,
costituendo una impugnativa al giudicato stesso.
Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’interessato,
in particolare, ritenendo l’insussistenza dei presupposti
per
disporre la revoca in quanto con sentenza TAR era stata
annullata l’ordinanza comunale che aveva disposto la
rimessione
in pristino dei luoghi, posto che la giurisprudenza
è ormai concorde nel considerare l’ordine di demolizione
sottratto alla regola del giudicato e la sentenza TAR
aveva
esaminato la questione della volumetria, ritenendo che,
ferma restando la consistenza delle opere come accertate,
le stesse sarebbero sottoposte al regime della SCIA di cui
al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22 la cui mancanza è
sanzionabile
con la sanzione amministrativa e non con l’ordine di
demolizione.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha annullato la ordinanza, così facendo applicazione di un
principio, ormai da ritenersi consolidato nella
giurisprudenza
della Cassazione, secondo cui l’ordine di demolizione
del manufatto abusivo impartito con la sentenza di condanna
o di patteggiamento, deve essere revocato quando
sopravvengano
atti amministrativi con esso del tutto incompatibili,
mentre va sospeso qualora sia concretamente prevedibile
e probabile l’emissione, entro breve tempo, di atti
amministrativi incompatibili (fr., ex multiis, Cass. pen.,
Sez.
III, 19.06.2013, n. 29447, R., in CED, n. 255873; Id.,
Sez. III, 18.05.2006, n. 17066, S., in CED, n. 234321),
fermo restando il potere-dovere del giudice dell’esecuzione
di verificare la legittimità dell’atto concessorio sotto il
duplice
profilo della sussistenza dei presupposti per la sua
emanazione
e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla
legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (così
Cass. pen., Sez. III, 21.10.2014, n. 47402, C. ed
altro,
in CED, n. 260972).
Peraltro, hanno aggiunto i Supremi
Giudici, è principio consolidato nella giurisprudenza della
Cassazione che in tema di esecuzione non sussiste un onere
probatorio a carico del soggetto che invochi un
provvedimento
giurisdizionale favorevole, ma solo “un onere di
allegazione, il dovere, cioè, di prospettare e indicare al
giudice
i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi
all’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi
accertamenti”
(così, ex multiis, Cass. pen., Sez. I, 22.09.2010, n. 34987, D.S., in CED, n. 248276; in linea con
tale assunto, in materia cfr. Sez. III, 29.05.2013, n.
25832, S. e altro, in CED, n. 256295).
Orbene, nel caso di
specie l’interessato aveva adempiuto all’onere di
allegazione
richiesto, ma a ciò non aveva fatto seguito l’esperimento
dei poteri istruttori esercitabili d’ufficio dal giudice
dell’esecuzione,
che di contro aveva erroneamente ritenuto preclusivo
ad ogni valutazione il giudicato della sentenza di
condanna posta in esecuzione (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.02.2016 n. 6433
- Urbanistica e appalti 5/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
SULL’EFFICACIA, EQUIPARABILE A LEGGE, DELL’ART. 9, D.M. N.
1444/1968 E SULLE RELATIVE CONSEGUENZE.
In tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, poiché
emanato su specifica delega contenuta nell’art. 41-quinquies
della legge urbanistica fondamentale 17.08.1942, n.
1150, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue
disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità,
altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle
contrastanti previsioni dei regolamenti edilizi, ai quali si
sostituiscono per inserzione automatica.
I comproprietari di un immobile convennero al Tribunale
civile
una società immobiliare proprietaria di altro immobile
multipiano, realizzato sulla particella a confine con quella
di loro proprietà.
Gli attori assumevano che la convenuta, nel realizzare il
proprio immobile, aveva violato le norme sulla distanza fra
edifici previste dai locali strumenti urbanistici. L’assunto
era contestato dall’immobiliare che -in via riconvenzionale- si doleva del fatto che fossero gli attori ad avere
realizzato
a confine un box in violazione delle norme sulla distanza,
del quale era chiesta la rimozione.
L’adito Tribunale accertato che -rispetto all’immobile
degli
attori- quello della convenuta era a distanza di m. 8,705,
quindi inferiore a quella prescritta di mt. 10,00, la
condannava
al ripristino mediante arretramento, rigettando la
riconvenzionale.
Avverso la succitata decisione interponeva appello
l’immobiliare,
al quale resistevano gli originari attori, proponendo
a loro volta un appello incidentale.
La Corte di merito rigettava entrambi i gravami.
Per la cassazione della succitata decisione ricorre la
società
immobiliare, soccombente in doppio grado di merito.
Resistono gli originari attori, con controricorso e ricorso
incidentale.
Lamenta l’immobiliare ricorrente, per la materia d’interesse
di questa Rivista, la violazione dell’art. 873 c.c. e
dell’art. 27
delle N.T.A. del P.R.G.C. Segnatamente, prospetta che l’art.
27 citato dopo aver previsto l’obbligo della distanza di
dieci
metri fra costruzioni, prevede al terzo comma quali siano le
distanze minime dei fabbricati dai confini, stabilendo che
negli interventi di nuova costruzione tal distanza minima
“deve essere di mt. 5”, prevedendo altresì la deroga dal
“rispetto
delle prescrizioni contenute nel presente articolo per
gli interventi di nuova costruzione sul lotto confinante con
altro già edificato senza il rispetto delle prescrizioni”.
Nella sostanza, ad avviso di parte ricorrente, l’impugnata
sentenza sarebbe viziata per violazione di legge e difetto
motivazionale, in dipendenza della mancata applicazione
della suddetta norma locale, avente valore asseritamente
derogatorio di quella generale, ricavabile in punto dal D.M.
n. 1444/1968.
La censura non è condivisa dalla S.C., che non manca di
osservare come -con riguardo a entrambi i profili- addotti
nel motivo qui in esame la Corte distrettuale abbia fatto
buon governo delle norme e dei principi ermeneutici
applicabili,
correttamente risolvendo la questione.
La norma locale, infatti, non può rivestire alcun “valore
derogatorio”
e quindi non poteva consentire né rendere legittimo
il denunciato intervento edilizio della parte ricorrente.
È infatti ben noto che in tema di distanze fra costruzioni,
l’art. 9, comma 2, D.M. 02.04.1968, n. 1444, essendo
stato emanato su delega contenuta nell’art. 41-quinquies
della legge urbanistica fondamentale (L. 17.08.1942,
n. 1150), come aggiunto dall’art. 17 della L. 06.08.1967,
n. 765, ha efficacia di legge dello Stato sicché le sue
disposizioni
in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e
distanza
tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni
dei regolamenti edilizi, ai quali si sostituiscono per
inserzione
automatica (in punto, cfr. Cass., SS.UU., sent. 07.07.2011,
n. 14953) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
12.02.2016 n. 2848
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
TEMPI E MODI D’ISCRIZIONE DELLE RISERVE D’APPALTO.
L’onere di iscrizione delle riserve è
subordinato non alla materiale disponibilità, da parte
dell’imprenditore, del registro di contabilità o dell’invito
da parte del committente a sottoscriverlo, bensì
all’obbiettiva insorgenza di fatti ritenuti lesivi per
l’impresa: sicché esso non cessa nell’ipotesi di
indisponibilità, seppur momentanea, del registro di
contabilità, perché in tale caso la riserva va iscritta in
documenti contabili equivalenti, come il verbale di
sospensione o ripresa dei lavori, o quelli contenenti stati
di avanzamento, ordini di servizio o anche mediante
tempestiva comunicazione alla P.A.
Un Consorzio d’imprese, aggiudicatario d’un pubblico appalto
di lavori, convenne in giudizio la committenza chiedendo
l’accertamento della nullità di alcune condizioni generali
e speciali di contratto, in relazione all’appalto stipulato
fra le parti, sostenendone la vessatorietà perché
predisposte
in via unilaterale dalla P.A. appaltante in violazione
dell’art. 1341 c.c. In ragione di ciò, l’attore chiese la
condanna
della committente al pagamento delle maggiori
somme dovute per effetto dell’anomala dinamica contrattuale
causato da condotta esclusivamente imputabile alla
convenuta.
Segnatamente, l’attore censurò le modalità
d’esecuzione
del contratto, stipulato a seguito di un bando di
gara pubblicato su G.U.C.E. e G.U.R.I.; le varianti
apportate
alle tipologie di lavori indicati nei documenti contrattuali
e
nel bando di gara; le penali applicate per ritardo inizio e
ultimazione
dei lavori; il ribasso d’asta applicato anche ai
nuovi prezzi concordati in violazione delle pattuizioni
contrattuali;
il ribasso d’asta applicato anche agli oneri per la
sicurezza; il mancato pagamento di alcune lavorazioni.
Il Tribunale accolse parzialmente la domanda e -previa
declaratoria
di nullità delle clausole impugnate- condannò la
committente al pagamento, a favore del Consorzio attore,
di una cospicua somma.
La sentenza fu oggetto d’appello principale della P.A.
committente
e incidentale del Consorzio.
La Corte di merito accolse il primo gravame e respinse il
secondo, ritenendo valide le clausole sulle quali le pretese
poggiavano e la cui nullità costituiva il presupposto
dell’accoglimento
(parziale) in prime cure: in estrema sintesi, secondo
il Giudice d’appello, il contratto era a relazione perfetta
e non per adesione, sicché l’art. 1342, comma 2, c.c.
era inapplicabile (con operatività di ogni clausola pattizia).
Ancora, in reiezione dell’appello incidentale, reputava
infondata
ogni altra domanda proposte in prime cure dal
Consorzio appellato.
Per la Cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso
principale il Consorzio e incidentale condizionato la
Stazione
appaltante.
La S.C. respinge il principale, con assorbimento
dell’incidentale
condizionato.
Per quanto attiene alla materia trattata da questa Rivista,
la
complessa vicenda interessa la dedotta violazione dell’ art.
1341 c.c.; dell’art. 2, L. n. 109/1994; dell’art. 52, R.D.
n.
350/1895; degli artt. 2909 c.c. e 112 c.p.c.
Il mezzo di gravame è articolato in tre distinte censure,
tutte
miranti a contestare l’impugnata sentenza anche sotto il
profilo del vizio di motivazione, laddove la Corte
territoriale
ha affermato la validità delle clausole e delle condizioni
di
contratto, invocate dalla committente a sostegno
dell’eccezione
di decadenza dell’impresa dalla facoltà di opporre riserve,
questione già proposta nei due gradi del giudizio di
merito. In particolare, con il primo e terzo profilo di
censura
-esaminati congiuntamente- l’impresa ricorrente ha dedotto
l’erroneità della qualificazione giuridica del contratto
de quo come “a relazione perfetta” anziché “per adesione”,
attesa la predisposizione unilaterale di ogni clausola da
parte della Stazione appaltante, in assenza di trattative e
senza quella specifica approvazione scritta che l’art. 1341
c.c. esige per la validità della clausola stessa.
La Corte di cassazione condivide la qualificazione del
contratto
come “a relazione perfetta” e non “per adesione”.
Osserva che il richiamo della disciplina fissata in un
distinto
documento, effettuato dalle parti contraenti sulla premessa
della piena conoscenza del medesimo e al fine
dell’integrazione
del rapporto negoziale nella parte in cui difetti di una
diversa regolamentazione, assegna alle previsioni di quella
disciplina, per il tramite di una “relatio perfecta”, il
valore di
clausole concordate, sicché le sottrae all’esigenza della
specifica approvazione per iscritto di cui all’art. 1341
c.c.
Né, in senso opposto, può rilevare l’eventuale unilateralità
della predisposizione del suddetto documento che resta
superata dalla circostanza che entrambi i contraenti si
siano
accordati per farne proprio il contenuto (Cass. nn.
9392/1992; 3479/1997; 19130/2006; 21142/2007;
26201/2010; 7197/2011).
Nel concreto, correttamente la
Corte d’Appello ha accertato in fatto, con motivazione
logica
e adeguata -incensurabile in sede di legittimità- che le
clausole delle condizioni generali e speciali di contratto
erano
“accettate e conosciute dal Consorzio appaltatore” in
quanto richiamate nel contratto come parti integranti dello
stesso, secondo il modello del contratto a relazione
perfetta.
Del resto, lo stesso ricorrente, pur deducendone la genesi
unilaterale a opera di controparte, non ha potuto
disconoscere
che i documenti (a partire dal bando pubblicato
in G.U.C.E. e G.U.R.I.) erano noti all’aggiudicatario prima
della stipula del contratto di appalto, tanto che furono
sottoscritti
per accettazione. Sicché ben può ritenersi, ad avviso
della S.C., che in presenza di un rinvio recettizio,
concordato
tra le parti, alle clausole contenute nelle Condizioni
generali e nelle Condizioni speciali, sia integrata la
fattispecie
del contratto per relazione perfetta e non quella del
contratto per adesione. Dal che, la correttezza della
valutazione
del Giudice territoriale in ordine all’inapplicabilità della
disciplina delle clausole vessatorie e, qual conseguenza,
alla decadenza dell’appaltatore dal diritto di opporre
riserve.
Con distinto profilo, la ricorrente impresa deduce che tali
clausole, da cui sarebbe derivata la decadenza dal diritto
di
opporre riserve, quand’anche valide, sarebbero comunque
inoperanti in ragione dell’omessa tenuta, da parte della
Stazione appaltante, del registro di contabilità,
indispensabile
ai fini di formalizzare dette riserve, la cui istituzione
sarebbe
stata obbligatoria ex art. 52, R.D. n. 350/1895 allora
vigente, ritenuta non applicabile dal Giudice d’appello.
In
mancanza di tale registro, il Consorzio non sarebbe decaduto
dalle maggiori pretese economiche, come viceversa
eccepito dalla Stazione appaltante e ritenuto nella sentenza
gravata.
Il Supremo Collegio disattende l’assunto, ricordando che
dal combinato disposto degli artt. 16, 54 e 64 del R.D. n.
350/1895 e dell’art. 26, d.P.R. n. 1063/1962 si trae il
principio
che l’appaltatore, ove voglia contestare la
contabilizzazione
dei corrispettivi effettuata dalla P.A. committente o
avanzare pretese atte a incidere sul compenso spettante, è
tenuto a iscrivere tempestiva e puntuale riserva nel
registro
di contabilità o in altri idonei documenti contabili.
L’onere
è subordinato dalla legge non alla materiale disponibilità,
da parte dell’imprenditore, del registro di contabilità o
dell’invito
da parte del committente a sottoscriverlo, bensì
all’obiettiva
insorgenza di fatti ritenuti lesivi: se ne ha che esso
non cessa neppure nell’ipotesi d’indisponibilità, seppur
momentanea, del registro di contabilità, perché in tale caso
l’imprenditore dovrà iscrivere la riserva in documenti
contabili
equivalenti, come il verbale di sospensione o ripresa dei
lavori, o quelli contenenti gli stati di avanzamento, o
ordini
di servizio, o anche mediante tempestiva comunicazione
all’Amministrazione con apposito atto scritto inviato per
raccomandata (cfr. Cass. nn. 4502/1998; 19499/2010;
8242/2012) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 09.02.2016 n. 2537
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
APPALTI:
IL PROVVEDIMENTO DI AGGIUDICAZIONE O LA SOTTOSCRIZIONE DEL
CAPITOLATO NON SANANO IL REQUISITO DELLA FORMA SCRITTA PER I
CONTRATTI CON LA P.A..
Né la sussistenza d’una precedente
delibera di conferimento dell’incarico o di aggiudicazione,
né la sottoscrizione del solo capitolato d’appalto -in
quanto atti interni diretti a essere trasfusi e recepiti nel
successivo contratto di appalto- soddisfano il requisito
della forma scritta ad substantiam, che occorre per ogni
contratto d’appalto concluso con la P.A..
Un’impresa convenne al Tribunale civile un’Amministrazione
Comunale, domandando la risoluzione, per inadempimento,
di un “contratto d’appalto” a suo dire “stipulato”
per noleggio d’apparecchi di controllo della velocità
stradale
e chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti
oltre a un importo pari al 30% delle somme incassate
sui verbali di accertamento, come da previsione di
contratto.
Il Tribunale accolse parzialmente la domanda, condannando
il Comune al pagamento di una minor somma.
Fallita l’originaria attrice, la sentenza era appellata -per
quanto di soccombenza- dalla curatela che ripropose domande
e difese di prime cure. Il Comune, a sua volta, avanzò
appello incidentale per la parte di domanda accolta dal
Tribunale, argomentando l’inesistenza di qualsiasi contratto
intercorso tra le parti.
La Corte d’Appello disattendeva il gravame principale e
accoglieva
l’incidentale. Riteneva, infatti, che tra la “appaltatrice”
e Comune non fosse intervenuto alcun contratto
scritto, in violazione degli artt. 1350 c.c. nonché 16 e 17
del R.D. n. 2440/1923 che, come è noto, prescrivono obbligo
di forma scritta ad substantiam per i contratti degli enti
pubblici, con esenzione di quelli di fornitura e secondo
l’uso
del commercio (art. 17).
La statuizione è gravata con ricorso per Cassazione, che la
S.C. respinge, disattendendo la tesi del Fallimento per il
quale il Giudice d’appello avrebbe errato a ritenere che tra
società in bonis e Comune non fosse mai intervenuto
contratto
scritto, per l’effetto sostenendo che non vi sarebbe
stata violazione alcuna degli articoli che impongono forma
scritta per i contratti con la P.A. Secondo il ricorrente,
infatti,
il contratto sarebbe stato rinvenibile nel capitolato
d’appalto,
sottoscritto dal Sindaco e dall’Impresa, a valle d’una
deliberazione di Giunta Municipale.
La Corte di cassazione non manca di osservare che ogni
contratto stipulato dalla P.A., anche quando essa agisca
“iure privatorum” richiede forma scritta “ad substantiam” e
che tale esigenza non è surrogabile dalla deliberazione
dell’organo
collegiale dell’ente pubblico che abbia autorizzato
il conferimento dell’incarico, dell’appalto o della
fornitura:
perché atto interno e preparatorio del negozio; perché privo
di sottoscrizione delle parti; perché da esso non può
desumersi
la concreta regolazione dei rapporti e le prestazioni
da eseguire, specie in ordine al compenso da corrispondere.
Sicché, il contratto privo di forma scritta “ad substantiam”
-per il combinato disposto degli artt. 1350 c.c. e degli
artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923- è nullo ed insuscettibile
di sanatoria, dovendosi escludere ogni rilevanza a convalide
o ratifiche successive, o a manifestazioni di volontà
implicita
o desumibile da comportamenti puramente attuativi
(ex plurimis, Cass. nn. 7422/2002; 5234/2004; 19070/2006;
26826/2006; 22537/2007; 6555/2014; 5263/2015).
Ciò detto con riguardo all’inadeguatezza della delibera
giuntale, non diverso discorso va fatto quanto alla
sottoscrizione
del mero capitolato d’appalto, trattandosi di atto
interno, diretto a essere trasfuso e recepito nel successivo
contratto di appalto, da stipularsi in forma scritta tra
l’ente
e l’appaltatore (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
08.02.2016 n. 2416
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
ESPROPRIAZIONE:
DETERMINAZIONE DELLE INDENNITÀ PER LE AREE EDIFICABILI NON
RESIDENZIALI.
Per la determinazione dell’indennità
d’esproprio, l’adozione del criterio previsto, per le aree
edificabili, dall’art. 5-bis, D.L. n. 333/1992 richiede che
l’immobile sia previsto, nello strumento urbanistico
generale vigente, in zona edificabile anche se a fini
diversi dall’edilizia residenziale privata, purché la
destinazione impressa al fondo sia realizzabile anche a
iniziativa privata non configurandosi, in tal caso, un
vincolo conformativo della proprietà a fini pubblicistici:
tale destinazione è idonea a consentire l’esplicazione dello
ius aedificandi, con ricadute virtuose sulla determinazione
dell’indennità in caso di esproprio e senza possibilità che
su tale determinazione possano avere effetto pianificazioni
anteriori e non più attuali.
Una Corte d’Appello, pronunciandosi sulla domanda di
determinazione
delle indennità di espropriazione e occupazione
nei confronti di un interporto, liquidò in un cospicuo
importo
le due relative indennità.
Reiette le eccezioni sollevate dalla convenuta circa la
tardività
della domanda e l’applicabilità dell’art. 16, D.Lgs. n.
504/1992, osservò che il terreno in questione doveva
considerarsi
legalmente edificabile per effetto di una variante
con la quale era stato recepito l’accordo di programma per
la realizzazione dell’interporto, respingendo la tesi della
controparte espropriante secondo cui, invece, si sarebbe
dovuto tener conto della destinazione urbanistica anteriore
alla suddetta variante e rilevando altresì che, in base allo
strumento urbanistico, gli interventi sull’area potevano
essere
attuati anche da privati.
Alla determinazione del valore unitario la Corte di merito
pervenne attraverso l’utilizzazione dei dati emergenti dalla
consulenza tecnica d’ufficio disposta in quel giudizio.
Quanto all’indennità di occupazione, l’eccezione di parte
convenuta circa la disponibilità del bene in capo all’ente
espropriato anche dopo la formale immissione nel possesso
è stata rigettata, affermandosi che non erano state fornite
prove adeguate a superare la presunzione della perdita
della materiale disponibilità del bene, derivante dal
relativo
verbale.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’interporto, al
quale si oppone l’espropriato mediante ricorso controricorso
e ricorso incidentale.
La S.C. rigetta il ricorso principale e accoglie
l’incidentale,
decidendo senza rinvio l’ammontare delle somme dovute.
La ricorrente denuncia anzitutto vizi motivazionali,
violazione
e falsa applicazione della L. n. 865/1971 e dell’art. 5-bis
L. n. 359/1992, per avere la gravata sentenza qualificato il
terreno occupato, originariamente agricolo, come
edificabile,
valorizzando così la destinazione assegnatagli.
Osserva, a risposta, la S.C. come la censura sia
inammissibile,
perché essenzialmente intesa a criticare la ricognizione
giuridica del terreno come operata dalla Corte territoriale.
Non possono, in sede di legittimità, avere ingresso profili
di doglianza inerenti a vizi motivazionali, salve
macroscopiche
distonie: il problema dell’edificabilità è squisitamente
giuridico e la sua verifica è attribuita al giudice sulla
base
dell’interpretazione del sistema normativo e della
disciplina
amministrativa del territorio, cui è legato il problema
valutativo
degli immobili espropriati.
La Corte di cassazione disattende anche l’argomentazione
per cui la Corte di merito nel determinare le indennità non
avrebbe potuto tener conto di un vincolo preordinato a
esproprio discendente già dal precedente P.R.G. ed a un
risalente
accordo di programma (poi recepito nel piano
particolareggiato).
Richiama, a fondamento della reiezione del
mezzo, l’orientamento già espresso di recente in relazione
ad analoghe fattispecie (Cass. 20.03.2014, n. 6558;
Cass. 17.09.2015, n. 18239) e ricorda che ai fini
della determinazione dell’indennità espropriativa,
l’adozione
del criterio previsto per le aree edificabili dall’art. 5-bis
del D.L. n. 333/1992, richiede, quale condizione necessaria
e sufficiente, che l’immobile sia previsto, nello strumento
urbanistico generale, come zona edificabile, pur se a fini
diversi
dall’edilizia residenziale privata e a tipologia vincolata,
purché la destinazione impressa al fondo sia realizzabile
anche ad iniziativa privata, non configurandosi, in tal
caso,
un vincolo conformativo della proprietà a fini
pubblicistici.
La stessa destinazione a insediamenti industriali, sia pur
mediati dalla programmazione pubblicistica, è idonea a
consentire l’esplicazione dello ius aedificandi, con
ricadute
virtuose sulla determinazione dell’indennità in caso di
esproprio (Cass. 24.04.2007, n. 9891; id. 15.07.2011,
n. 15658). L’esigenza di sterilizzazione del valore
dall’incidenza
della destinazione espropriativa, inoltre, non può far
risalire a pianificazioni anteriori non più attuali (Cass.
28.11.2001, n. 15114): sicché, quel che determina la
qualità del suolo è la destinazione dello strumento
urbanistico
vigente (Cass. 05.06.2006, n. 13199).
La Corte di Legittimità respinge anche la terza censura,
inerente la determinazione dell’indennità di occupazione
sulla base di un tasso di interesse pari al cinque per cento
annuo: sotto tale profilo si era denunciata la violazione
dell’art.
20, comma 4, L. n. 865/1971, in considerazione della
difformità di tale saggio rispetto a quello legale. Come già
precisato (Cass. 28.01.2011, n. 2100), con riferimento
al principio affermato nella nota sent. n. 493/1998 delle
Sezioni
Unite, tanto detta decisione, quanto quelle successive
che hanno affrontato la questione, hanno ripetutamente
avvertito che l’indennità di occupazione deve essere
liquidata
in misura corrispondente a una percentuale di quella
dovuta per l’espropriazione, che ben può corrispondere al
saggio corrente degli interessi legali, e che tuttavia ciò
non
implica che essa debba necessariamente adeguarsi alle
fluttuazioni di tale saggio nel periodo considerato, essendo
quello degli interessi legali soltanto un generico criterio
di
valutazione lasciato al prudente apprezzamento del giudice
di merito, purché fornisca congrua motivazione -nella
specie
neppure censurata- della scelta adottata (cfr. anche
Cass. 05.09.2008, n. 22395; Cass. 19.04.2005, n.
8197).
Di contro, la S.C. accoglie il motivo incidentale con cui si
denuncia la errata decurtazione dell’indennità (nella misura
del 25%) in quanto ricorrerebbe un’ipotesi di intervento di
riforma economico-sociale ai sensi della L. n. 244/2007. In
proposito, si richiama il costante orientamento -seguente
a Corte cost. n. 348/2007- del criterio indennitario di cui
all’art.
5-bis, D.L. n. 333/1992 e all’art. 37, commi 1 e 2,
d.P.R. n. 327/2001: lo jus superveniens, costituito
dall’art.
89, lett. a), L. n. 244/2007, si applica retroattivamente
per i
soli procedimenti espropriativi in corso, e non anche per i
giudizi in corso (Cass., SS.UU., 28.02.2008, n. 5265).
Nello specifico, la vicenda espropriativa si è conclusa,
sotto
il profilo amministrativo, con l’emanazione del decreto di
espropriazione nel 2005; il giudizio di opposizione alla
stima,
al quale non si applica la disciplina sopra richiamata,
venne intrapreso nel febbraio del 2006, ed era quindi già
pendente allorché venne emanata la novella del 2007.
In disparte ciò, va in ogni caso ribadito che, affinché
sussista
il presupposto dell’intervento di riforma economico-sociale
(che giustifica la riduzione predetta) esso deve riguardare
l’intera collettività o parti di essa geograficamente o
socialmente predeterminate ed essere, quindi, attuato in
forza di una previsione normativa che in tal senso lo
definisca
(Cass. 23.02.2012, n. 2774, in tema di edilizia
convenzionata; Cass. 28.01.2011, n. 2100, relativa a
terreno inserito in zona p.i.p.) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
28.01.2016 n. 1623
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
LAVORI DI SOMMA URGENZA NON SEGUITI DA APPROVAZIONE E
OBBLIGAZIONI VERSO L’IMPRESA ESECUTRICE.
Qualora sia stata disposta per ragioni
di somma urgenza l’immediata esecuzione di lavori ex art.
147, d.P.R. n. 554/1999 e a essa non ne abbia fatto seguito
l’approvazione nei termini previsti dalla stessa norma,
l’opera non per questo viene acquisita gratuitamente al
patrimonio dell’ente pubblico, poiché sorge a carico di
quest’ultimo un’obbligazione non ex contractu ma ex lege
(art. 147, comma 5, d.P.R. n. 554/1999, norma a tutela del
terzo affidatario) avente a oggetto il pagamento dei soli
costi di produzione di quanto effettivamente realizzato, e
in questi ultimi vanno inclusi quelli per la mano d’opera, i
materiali, le spese di trasporto e la remunerazione normale
dell’attività organizzativa, restando invece escluso ogni
margine di compenso imputabile a profitto dell’imprenditore
affidatario dei lavori.
Un Istituto Autonomo Case Popolari oppose un decreto
ingiuntivo
contro di essa ottenuto avanti il Tribunale Ordinario
da un’impresa per il pagamento d’una somma a titolo
di corrispettivo per lavori edili appaltati in via
d’urgenza. A
sostegno dell’opposizione, IACP sostenne la mancanza di
un contratto scritto e l’illiquidità del credito, in ragione
del
non intervenuto collaudo delle opere.
Il Tribunale rigettò l’opposizione.
La Corte d’Appello, di contro, accolse il gravame di IACP,
precipuamente motivando che il contratto inter partes era
nullo per carenza di forma scritta, requisito non certo
soddisfatto
dalla dichiarazione di somma urgenza delle opere
firmata, per la P.A. committente, dal responsabile del
procedimento.
Tale modello procedurale non solo era divergente
dalla previsione normativa posta, per l’appalto di lavori,
all’art. 147 del d.P.R. n. 554/1999, allora applicabile,
che prevedeva la redazione di una perizia per giustificare
tali lavori ma, addirittura, non risultava neppure
regolarizzata
la spesa (come viceversa prescritto dall’art. 23, comma
3, D.L. n. 66/1989, convertito con modificazioni in L. n.
144/1989, il cui contenuto è stato poi trasfuso nell’art.
35,
comma 3, D.Lgs. n. 77/1995 e ora è all’art. 191, comma 3,
D.Lgs. n. 267/2000 - T.U. Enti Locali) secondo cui per i
lavori
di somma urgenza disposti dalle amministrazioni comunali
e provinciali l’ordinazione fatta a terzi deve essere
regolarizzata entro trenta giorni, senza possibilità di
proroga.
La violazione di un tale obbligo posto in capo alla P.A. -per la Corte di merito- poteva essere fatta valere non solo
dal contraente ma anche dalla stessa Amministrazione,
perché volta a evitare debiti fuori bilancio. Ove non
esercitata
nel termine perentorio di trenta giorni, non poteva
ritenersi
utilmente radicato alcun valido rapporto tra P.A. e terzo,
neppure in caso di affidamenti d’urgenza.
Contro tale sentenza l’impresa ricorre per Cassazione, con
ricorso che i giudici di legittimità accolgono nei limiti
che si
passano a esporre per quanto d’interesse di questa Rivista.
Premette la S.C., a sintesi dei primi quattro motivi, che la
questione accede all’individuazione della disciplina
applicabile
nel caso di lavori che, disposti per ragioni di somma
urgenza,
non siano stati seguiti da tempestiva regolarizzazione.
In ordine a ciò, osserva che la sentenza di merito non
ha né affermato né escluso l’effettivo presupposto fattuale
della “somma urgenza” dei lavori commissionati dal RUP
dello IACP, limitandosi a ritenere inesistente il vincolo
obbligatorio
tra le parti, in ragione della carente forma scritta
e del mancato rispetto delle previsioni di cui all’art. 147,
d.P.R. n. 554/1999, in difetto di perizia giustificativa e
di regolarizzazione
contabile nei trenta giorni successivi.
Se pure è certa la necessità di una forma scritta -
applicabile
anche agli IACP quali enti pubblici non economici ai sensi
dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 - diverso opinare
è fatto dalla S.C., rispetto al Giudice d’appello, sul
procedimento
di cui all’art. 147, d.P.R. n. 554/1999 per trarne effetti
vincolanti per l’ente.
Se, parimenti, non è disputato che detto procedimento sia
mancato -e con ciò sia mancata anche la regolarizzazione
della spesa e la relativa copertura contabile- ritiene che
siano controverse le conseguenze giuridiche dell’esecuzione
di lavori che si collocano tra due estremi in sé pacifici,
ossia la dichiarazione di somma urgenza dei lavori (firmata
dal responsabile del procedimento dell’IACP) e l’infruttuoso
scadere del termine di regolarizzazione della spesa.
Proprio in ragione del fatto che gli IACP siano enti
pubblici
non economici (ma non enti territoriali locali), la Corte di
Legittimità ritiene applicabile ratione temporis l’art. 147,
comma 1, d.P.R. n. 554/1999, che dispone (per quanto qui
interessi) che in circostanze di somma urgenza, tali da non
consentire alcun indugio che chi -fra il responsabile del
procedimento e il tecnico che per primo si reca sul luogo-
può disporre, contemporaneamente alla redazione del verbale
di cui al precedente articolo 146, l’immediata esecuzione
dei lavori nel limite di € 200.000 o di quanto
indispensabile
per rimuovere lo stato di pregiudizio alla pubblica
incolumità,
contestualmente definendo con l’affidatario il
prezzo delle prestazioni ordinate.
In difetto di preventivo
accordo, la norma prevede il procedersi con il metodo
previsto
all’art. 136 per il quale il RUP o il tecnico incaricato
compila, entro dieci giorni dall’ordine di esecuzione dei
lavori,
una perizia giustificativa degli stessi e la trasmette,
assieme
al verbale di somma urgenza, alla Stazione appaltante
che provvede alla copertura della spesa e all’approvazione
dei lavori. Se un lavoro intrapreso per motivi di somma
urgenza non riporti l’approvazione del competente organo
della Stazione appaltante, si procederà - per il comma 5 di
tale articolo - alla liquidazione delle spese relative alla
parte
dell’opera o dei lavori realizzati.
La corretta esegesi di tale norma conduce a ritenere che
l’opera disposta per ragioni di somma urgenza ma poi non
approvata, non per questo viene acquisita gratuitamente al
patrimonio dell’ente pubblico, poiché sorge a carico di
quest’ultimo un’obbligazione non ex contractu ma ex lege,
avente ad oggetto il pagamento dei soli costi di produzione
di quanto effettivamente realizzato. Questo, perché l’art.
147, comma 5, d.P.R. n. 554/1999 costituisce norma a tutela
del terzo affidatario dei lavori, sicché non rilevano le
ragioni
della mancata approvazione. Deve quindi concludersi
che il mancato perfezionamento della fattispecie, da
qualsiasi
ragione sia dipesa, non fa venir meno il diritto dell’affidatario
dell’opera o dei lavori al pagamento nei limiti previsti
dalla stessa norma in esame.
La S.C., infine, puntualizza cosa debba intendersi con
l’espressione
“pagamento dei soli costi di produzione di
quanto effettivamente realizzato”, contenuta nell’art. 147,
comma 5: essa comprende tutti i costi di produzione, ossia
mano d’opera, materiali e spese di trasporto, remunerazione
dell’attività organizzativa dell’imprenditore, restando
invece
escluso ogni margine di compenso imputabile a profitto
(per tale intendendosi non l’ordinaria remunerazione
dell’imprenditore ma l’eventuale surplus, di matrice
lucrativa,
tra i costi, che tale remunerazione normale comprendono,
e i ricavi) (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
21.01.2016 n. 1073
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
NESSUNA CITTADINANZA ALLA C.D. SANATORIA CONDIZIONATA IN
EDILIZIA.
Deve escludersi la possibilità della
cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto
che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di
specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle
opere il requisito della conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia che non posseggono, poiché tali
provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto il
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 36 si riferisce esplicitamente
ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell’opera, sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
La Corte di cassazione torna ad occuparsi, nella sentenza
qui esaminata, del tema della possibile ammissibilità
nell’attuale
disciplina edilizia della c.d. sanatoria condizionata.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
per occuparsi della questione segue alla sentenza per la
contravvenzione di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
lett. b), di condanna di C.A. ed G.A., imputati in concorso
tra loro, quali comproprietari committenti, per la
realizzazione,
in zona sismica, classificata “E1 agricola semplice”
di un immobile suddiviso in più unità immobiliari destinate
a civili abitazioni.
Contro la sentenza gli stessi
proponevano
ricorso per cassazione, in particolare lamentando che la
Corte d’Appello non aveva adeguatamente valutato la
segnalata
ingerenza del Pubblico Ministero procedente nella
procedura di rilascio di un permesso di costruire in
sanatoria
per le opere realizzate e che avrebbe impedito di portare
a loro conoscenza le condizioni cui il rilascio del titolo
sarebbe
stato sottoposto.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando come
risultava
dalla sentenza che il P.M., rinvenuto negli atti del
procedimento,
perché inviato in copia alla Procura, il parere
espresso ai fini della sanatoria, aveva segnalato al
dirigente
dello Sportello Unico del Comune di Mercato San Severino
la impossibilità del rilascio di una sanatoria sottoposta a
condizioni e lo aveva invitato ad ingiungere ai responsabili
la demolizione o la riduzione in pristino delle “parti
dell’immobile
che si ritengono non sanabili opere da realizzare, in
concreto, previa autorizzazione di questa Autorità
Giudiziaria”.
Tale comunicazione, rilevava la Cassazione, era senz’altro
fondata su un presupposto corretto (la impossibilità
di sottoporre la sanatoria a condizioni) ma giungeva a
conclusioni
errate laddove, nell’intimare al destinatario di porre
in essere la procedura demolitoria imposta dalla legge, ne
limitava sostanzialmente l’esecuzione alle sole opere non
sanabili.
È infatti indubbio -proseguono i Supremi Giudici-
che le opere abusive devono essere unitariamente considerate
nel loro complesso, senza che sia consentito scindere
e considerare separatamente i singoli componenti, la cui
eliminazione potrebbe consentire di ricondurre l’immobile
ad una conformità con lo strumento urbanistico e la
disciplina
edilizia che prima non aveva. In altre parole, l’immobile
realizzato era interamente abusivo e non poteva ritenersi
in alcun modo sanabile stante l’evidente contrasto con lo
strumento urbanistico.
Neppure la riconduzione a conformità
mediante l’eliminazione di alcune parti o, come indicato
nel parere dell’amministrazione comunale, la modifica
della destinazione d’uso previa demolizione e la riduzione
del numero dei piani avrebbero potuto determinare effetti
sananti, ciò proprio per l’impossibilità di riconoscere
alcuna
cittadinanza giuridica in materia edilizia alla c.d.
sanatoria
condizionata (giurisprudenza costante: Cass. pen., Sez. III,
15.01.2015, n. 7405, B., in CED, n. 262422; Id., Sez.
III, 21.10.2014, n. 47402, C. e altro, in CED, n.
260973; Id., Sez. III, 27.04.2011, n. 19587, M. e altro,
in
CED, n. 250477; Id., Sez. III, 24.02.2009, n. 23726,
P., inedita; Id., Sez. III, 04.10.2007, n. 41567 del,
P.M.
in proc. R. e altro, in CED, n. 238020; Id., Sez. III, 13.11.2003, n. 48499, P.M. in proc. D., in CED, n.
226897) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.12.2015 n. 51013
- Urbanistica e appalti 4/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
ULTIMAZIONE DELL’OPERA ABUSIVA ED INDIVIDUAZIONE DEL DIES A
QUO DI DECORRENZA DEL TERMINE DI PRESCRIZIONE.
La permanenza del reato di edificazione
abusiva termina, con conseguente consumazione della
fattispecie, o nel momento in cui, per qualsiasi causa -volontaria o imposta- sono ultimati o vengono sospesi i
lavori abusivi, ovvero, se questi sono proseguiti anche dopo
l’accertamento e fino alla data del giudizio, in quello
della emissione della sentenza di primo grado.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della S.C.
verte, in particolare, sull’individuazione del momento
iniziale
da cui inizia a decorrere il termine di prescrizione per
l’esecuzione
di un opera edilizia abusiva. La vicenda processuale
trae origine dalla sentenza di appello che confermava
il giudizio di colpevolezza formulato in ordine al reato di
cui
al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b), per aver
eseguito opere in totale difformità dal permesso di
costruire.
Contro la sentenza proponeva ricorso per Cassazione
l’imputato, in particolare per aver erroneamente la Corte
d’Appello confermato la condanna, pur difettando ogni
prova circa la realizzazione di lavori, da parte del
medesimo,
successivamente al 14.02.2007, allorquando egli
aveva comunicato al Comune la sospensione delle opere;
al riguardo, la sentenza si sarebbe espressa con
affermazioni
del tutto apodittiche, che non avevano tenuto conto
del verbale di sopralluogo, nel quale si dava atto
dell’assenza
di qualsivoglia attività edilizia in corso: il reato,
pertanto,
si era prescritto a far data dal febbraio 2007.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto il ricorso dell’interessato, in particolare
ricordando
come deve ritenersi “ultimato” soltanto l’edificio
concretamente
funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità
o abitabilità, di modo che anche il suo utilizzo effettivo,
ancorché accompagnato dall’attivazione delle utenze e
dalla presenza di persone al suo interno, non è sufficiente
per ritenere sussistente l’ultimazione dell’immobile
abusivamente
realizzato, coincidente generalmente con la conclusione
dei lavori di rifinitura interni ed esterni (Cass. pen.,
Sez. III, 17.09.2014, n. 48002, S., in CED, n.
261153; Cass. pen., Sez. III, 27.01.2010, n. 8172, V.,
in CED, n. 246221).
Nel caso di specie, rilevano i Supremi
Giudici, le opere erano iniziate in forza del permesso di
costruire
n. 9/2005 rilasciato il 13.01.2005, ed erano state
poi oggetto di una comunicazione di sospensione del 14.02.2007 per asserite difficoltà economiche in capo al
committente; orbene, la motivazione redatta dalla Corte
d’Appello per sostenere la realizzazione di lavori abusivi
anche
in epoca successiva a tale data risultava, invero, illogica
ed apodittica, specie alla luce dei pacifici esiti
dell’accertamento
del 12.04.2011, che avevano dato atto sì di un
immobile allo stato rustico, privo di impianti e di opere di
rifinitura,
ma anche della completa assenza in loco di operai,
strumenti o materiali.
In particolare, per un verso la
sentenza
sosteneva che “è contrario a logica oltre che ai fatti che
il Q. abbia costruito -con notevole dispendio economico-
e abbandonato in via definitiva il completamento dell’opera,
non avendo fornito neppure una generica giustificazione
di tale ipotetica condotta, anzi avendo ammesso la
sospensione
dei lavori per mancanza di liquidità”; quel che,
però, ben poteva costituire -secondo la Cassazione-
proprio
quella giustificazione che il Collegio di merito affermava
invece non esser stata fornita, dal che l’evidente
illogicità
dell’argomento.
Per altro verso, ed in modo palesemente
apodittico, la pronuncia concludeva che “è logico ipotizzare
che -come sovente accade- (il ricorrente, n.d.e.) abbia
sospeso i lavori, come comunicato al Comune, per tale
transitorio motivo, riservando di continuare a costruire,
sebbene “a più riprese”, a seconda delle proprie
disponibilità
economiche”.
Quanto precede, peraltro, senza indicare
alcun elemento di prova, alcuna risultanza istruttoria -invero
necessaria- a dimostrazione del fatto che i lavori abusivi
erano stati effettivamente realizzati anche dopo il 14.02.2007; sì da poter portare il
dies a quo della consumazione del reato alla data
dell’accertamento dei tecnici comunali (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.12.2015 n. 50449
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA RECINZIONE DI UN FONDO RUSTICO NON RICHIEDE IL P.D.C.
SOLO QUANDO VENGA ATTUATA CON OPERE NON PERMANENTI.
In tema di reati edilizi, la recinzione
di un fondo rustico non necessita del permesso di costruire
solo nel caso in cui la stessa venga attuata con opere non
permanenti, mentre il provvedimento abilitativo è sempre
richiesto quando venga realizzata con materiale tipicamente
edilizio, tra cui rientra la zoccolatura di calcestruzzo.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla
questione
della possibilità di eseguire l’intervento di recinzione
di un fondo rustico senza necessità di richiedere
preventivamente
il permesso di costruire.
La vicenda processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per affrontare la
questione
segue alla sentenza di condanna pronunciata nei
confronti dell’imputato per aver recintato il fondo agricolo
di circa mq. 2.000 costruendovi abusivamente un muro di
cinta alto circa mt. 2,75. Contro la sentenza, proponeva
ricorso
per Cassazione l’imputato, dolendosi per il fatto che,
come confermato dal responsabile dell’ufficio tecnico
comunale,
il Comune non aveva mai richiesto per tale tipo di
opere il permesso di costruire, sicché, ad avviso della
difesa,
era stato illegittimamente disapplicato dal giudice il
provvedimento autorizzativo così ottenuto.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, confermando la sentenza di condanna
ed escludendo che si potesse trattare di intervento edilizio
non subordinato a permesso di costruire. In particolare, i
giudici di legittimità hanno affermato che la realizzazione
di
un muro di recinzione necessita del previo rilascio del
permesso
a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua
struttura e all’estensione dell’area relativa, lo stesso sia
tale
da modificare l’assetto urbanistico del territorio, così
rientrando
nel novero degli “interventi di nuova costruzione” di
cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, lett. e) (Cass. pen.,
Sez.
III, 11.11.2014, n. 52040, in CED, n. 261521).
In
particolare, nel valutare la realizzazione di un muro di
recinzione
in cemento armato di dimensioni ben più modeste di
quello che ci occupa, si è affermata la necessità della
concessione
edilizia (oggi permesso per costruire) di fronte
all’erezione
al confine di un fondo rustico di un muro in cemento
armato, o comunque in mattoni e malta cementizia,
anche alto fuori terra solo ottanta centimetri,
affermandosi,
invece, che la concessione non è necessaria se la recinzione
è realizzata con opere non permanenti, quali ad esempio
semplici paletti conficcati nel terreno e filo spinato o un
muretto cosiddetto a secco (Cass. pen., Sez. III, 25.01.1988,
n. 5395, in CED, n. 178306) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.12.2015 n. 50447
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUALI SONO I SOGGETTI CUI PUÒ ESSERE IMPUTATA LA
RESPONSABILITÀ PENALE PER LA VIOLAZIONE DELLE NORME
ANTISISMICHE?
In tema di reati antisismici, il reato
di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95, può essere
commesso da chiunque violi o concorra a violare gli obblighi
imposti e, quindi, anche dal proprietario, dal committente,
dal titolare della concessione edilizia, dal direttore e
dall’assuntore dei lavori.
Di particolare interesse la sentenza qui commentata nella
quale i giudici di legittimità si soffermano sulla
individuazione
dei soggetti potenzialmente responsabili delle violazioni
penali in materia antisismica.
La vicenda processuale
traeva origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello
aveva confermato la condanna nei confronti di T. quale
legale
rappresentante di una società proprietaria di una struttura
alberghiera, P. quale progettista e direttore dei lavori
ed i G. quali soci amministratori della società esecutrice
dei lavori, per aver realizzato innovazioni non autorizzate
in
un’area demaniale marittima di mq 40, destinata ad area
scoperta (zona verde), con sottostante ripostiglio interrato
di mq 16,67 ed in concessione al T., consistite nella
realizzazione
di uno sbancamento con demolizione del sottostante
ripostiglio, nella demolizione di una pensilina, nella
realizzazione di un unico vano interrato in cemento armato,
nella realizzazione di una nuova pavimentazione dell’area
scoperta con cemento armato e nella realizzazione,
all’interno
del vano, di due pozzetti di drenaggio collegati
all’impianto
di pompaggio posto nel retrostante locale.
Dette
opere risultavano, in particolare, realizzate in assenza
della
prescritta denuncia e attestato di deposito da parte
dell’amministrazione
provinciale competente. Contro la sentenza
proponeva ricorso per Cassazione il T., ritenendo
ascrivibile al solo committente e non anche al progettista e
direttore dei lavori il reato antisismico di cui al d.P.R.
n.
380 del 2001, artt. 93 e 94.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha osservato come il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 95,
attribuisce
la responsabilità del reato a chiunque violi le disposizioni
richiamate, cosicché la violazione assume la natura
di reato comune, che può essere quindi realizzato dal
proprietario,
dal committente, dal titolare della concessione
edilizia e da qualsiasi altro soggetto che abbia la
disponibilità
dell’immobile o dell’area su cui esso sorge, nonché da
coloro che abbiano esplicato attività tecnica ed iniziato la
costruzione senza il doveroso controllo del rispetto degli
adempimenti di legge (Cass. pen., Sez. III, 24.05.2007, n. 35387, T., in CED, n. 237537; Id., Sez. III, 10.12.1999, n. 887, (dep. 2000), S., in CED, n. 215602;
Id., Sez. III, 10.04.1997, n. 4438, B., in CED, n.
208031).
Con particolare riferimento alla figura del direttore dei
lavori, si è affermato che “(...) il direttore dei lavori
risponde del
reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 93 e 94,
essendo
anch’egli destinatario del divieto di esecuzione dei
lavori in assenza della autorizzazione ed in violazione
delle
prescrizioni tecniche contenute nei decreti ministeriali di
cui agli artt. 52 e 83, del citato D.P.R., atteso che le
disposizioni
sulla vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche,
prevedendo un complesso sistema di cautele rivolto ad
impedire
l’esecuzione di opere non conformi alle norme tecniche,
ha determinato una posizione di controllo su attività
potenzialmente lesive in capo al direttore dei lavori”
(Cass.
pen., Sez. III, 15.06.2006, n. 33469, O. ed altri, n.
CED,
n. 235122; v. anche Cass. pen., Sez. III, 05.12.2013,
n. 7775, (dep. 2014), D., in CED, n. 258854; Id., Sez. III,
20.12.2011, n. 6675 (dep. 2012), L.P., in CED, n.
252021).
A conclusioni analoghe si è pervenuti anche con
specifico riguardo agli assuntori dei lavori (Cass. pen.,
Sez.
F, 24.07.2008, n. 35298, S., in CED, n. 240665; Id.,
Sez.
III, 24.05.2007, n. 35387, T., in CED, n. 237537; Id.,
Sez. III, 06.06.2003, n. 33558, M., in CED, n. 225555) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.12.2015 n. 49991
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
VARIANTI IN CORSO D’OPERA E APPROVAZIONE DELLA P.A.
COMMITTENTE.
L’omessa indicazione, nell’ordine
impartito dalla Direzione Lavori, dell’approvazione da parte
della P.A. committente, pur finalizzata a esplicitare la
rispondenza di esso ai voleri dell’Amministrazione, non è
decisiva ai fini di valutazione circa la legittimità dello
stesso, non dovendo necessariamente sussistere al momento in
cui esso sia stato impartito, potendo di contro tale
“superiore approvazione” sopravvenire rispetto al momento
d’emissione della perizia suppletiva e di variante.
Un’Amministrazione appaltò a un’impresa i lavori di
costruzione
dello stadio comunale e annessa pista d’atletica, con
regolare contratto seguito da consegna del cantiere
accettata
senza riserve.
In corso d’opera il direttore dei lavori ordinò
all’appaltatore,
con ordine di servizio, l’esecuzione di lavori diversi da
quelli
previsti in capitolato d’opera e in contratto, che furono
eseguiti
ma non pagati dall’Ente.
Se ne ebbe la nascita d’un contenzioso giudiziale radicato
dall’appaltatore e sfociato nella sentenza in commento.
A ragione del proprio diniego, il Comune asserì la mancanza
di forma scritta alla variante contrattuale. Era pur vero
che esso, con delibera giuntale del 1990, autorizzò il D.L.
a
redigere detta perizia di variante e suppletiva, e che la
stessa
fu poi approvata con delibera giuntale del 1991. Tuttavia,
tale ultimo provvedimento fu, poco dopo, oggetto di
revoca con altra delibera (in ragioni delle spese
conseguenti)
a propria volta revocata con altra deliberazione del 1992,
che determinò la reviviscenza degli originari provvedimenti,
appunto legittimanti la variante da parte del D.L. Tuttavia
l’Ente finanziatore (Cassa depositi e prestiti) -informato
di
quest’ultima scelta- comunicò alla P.A. appaltante che la
perizia non poteva essere finanziata, determinando una
maggiorazione di spesa superiore al 30% rispetto
all’iniziale
importo delle lavorazioni: per il che, formulava al Comune
una richiesta di revoca e variazione del quadro progettuale
complessivo.
Al definitivo, il Comune eccepiva, da un lato, l’improcedibilità
della richiesta di pagamento (posto che le opere non
erano state né ultimate, né collaudate) e, dall’altro,
l’illegittimità
dell’ordine di servizio emesso dal D.L. in assenza
dell’autorizzazione
del committente al momento della propria
emissione, circostanza nota allo stesso appaltatore.
Il Tribunale di Cosenza, aderendo alle difese della
convenuta,
respinse l’attorea domanda.
La sentenza fu oggetto di appello, parimenti respinto.
Osservò la Corte distrettuale che ai fini dello scrutinio
della
legittimità dell’ordine impartito dal D.L., mancando una
contestuale e specifica approvazione scritta da parte del
Comune (in violazione di quanto previsto dall’art. 13, comma
2, d.P.R. n. 1063/1962 e dell’art. 342, allegato F, L. n.
2248/1865, allora vigenti) e senza che dall’ordine di
servizio
emergesse una situazione di “assoluta o urgente necessità”
delle opere, le quali -di contro- consistevano nella
modifica
sostanziale dell’originario originario con consistente
aumento di spesa, il credito dell’appaltatore non poteva
essere
liquidato sia carenza dei requisiti formali (preventiva
approvazione della P.A.) sia per il mancato collaudo delle
opere stesse.
L’impresa ricorre, contro la definitiva statuizione in
merito,
avanti la Suprema Corte di cassazione, che accoglie il
ricorso,
cassando con rinvio al sentenza impugnata.
La ricorrente deduce, anzitutto la violazione e la falsa
applicazione
della legislazione sui lavori pubblici all’epoca vigente
(L. n. 2248/1865; R.D. n. 350/1895; d.P.R. n.
1063/1962) oltre ai sempre attuali canoni di affidamento e
di validità ed efficacia degli atti amministrativi.
Ciò, sulla base del presupposto che il Comune nel 1992
avesse revocato le precedenti deliberazioni, lasciando come
pienamente valide e operanti quelle poste a base della
validità della perizia di variante e suppletiva redatta dal
D.L. e in forza della quale la prestazione era stata resa,
con
una scelta amministrativa che certo non poteva essere
compressa dalla nota della Cassa depositi e prestiti
attinente
al finanziamento delle opere.
Giusta disposizioni di legge addotte in motivo di gravame,
l’appaltatore era tenuto a eseguire gli ordini di servizio
impartiti
dal D.L., seppur non in origine compresi nel contratto
purché muniti -come nel caso- della “superiore
approvazione”,
essendo del tutto inconferente, come viceversa
puntualizzato dalla Corte d’Appello, sia la sussistenza
delle
ragioni d’urgenza che il mancato collaudo delle opere.
Ancora, la ricorrente censura l’insufficienza della
motivazione,
tanto con riferimento all’esclusione “apodittica” delle
ragioni d’urgenza, quanto circa la mancata approvazione
del finanziamento da parte della Cassa depositi e prestiti e
le ragioni di come quest’ultima potesse far venir meno gli
effetti della delibera comunale di riapprovazione della
perizia
di variante e suppletiva.
Il Supremo Collegio osserva che i due motivi di ricorso, fra
loro strettamente connessi, possono essere esaminati in
via congiunta siano meritevoli di accoglimento.
Infatti, si osserva, che l’esercizio dello ius variandi
della
P.A. nell’appalto pubblico incontra i limiti dettati (ratione
temporis) dall’art. 342 ss. della L. n. 2248/1865 (allegato
F)
e dagli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 1063/1962. Alla luce di
tali
previsioni, le variazioni al progetto dell’opera pubblica
possono
legittimamente intervenire in tre casi, ivi specificamente
nominati. Fra essi, l’ordine scritto del D.L. con “superiore
approvazione” dell’Amministrazione appaltante e,
ancora, il caso in cui ciò sia reputato utile o necessario,
mediante l’approvazione da parte del D.L. di una perizia
suppletiva.
Nel caso di specie, osserva il Giudice di Legittimità,
l’impresa
ricorrente invoca, al contempo, sia l’esistenza di un
ordine scritto del D.L., sia l’esistenza d’una perizia di
variante
approvata dal Comune. La Corte di merito non ha
espresso alcuna considerazione a proposito della legittimità
(o meno) delle altre due ipotesi di esercizio dello ius
variandi,
pure avanzate e riscontrate nella stessa premessa
motivazionale della decisione.
Non condivisibile, in particolare, è ritenuta l’esclusione
della
legittimità della prima di tali ipotesi di esercizio dello
ius
variandi della P.A. (inerente alla variazione prodotta
dall’ordine
scritto del D.L., con “superiore approvazione” del Comune,
ex art. 342, comma 1, L. n. 2248/1865, all. F), perché
l’omessa indicazione dei profili formali dell’approvazione
da parte della P.A. nell’ordine impartito dalla Direzione
Lavori, pur avendo il preciso fine di esplicitare la
rispondenza
di esso ai voleri dell’appaltante, non è decisivo per la
legittimità
dell’ordine non dovendo esso necessariamente
sussistere al momento in cui il D.L. abbia impartito
l’ordine
scritto.
Tale specificato in precedenti sentenze della Cassazione,
infatti, tal requisito può intervenire anche in momento
successivo,
a sanatoria dell’ordine di servizio formalmente dato.
Infatti, non solo alla luce degli articoli artt. 21-octies e
nonies
della L n. 241/1990 (non ancora applicabili ratione temporis
alla fattispecie controversa) ma sulla base dei principi
che sono ad essi sottesi -previgenti in sede
giurisprudenziale
perché immanenti nel sistema- e applicabili al caso
qui esaminato, la S.C. già in passato affermò che anche in
caso di ordine non scritto opera il principio di sanatoria
(Cass., Sez. I, n. 5172/1994).
È quindi errato fare
riferimento
alla carenza di “superiore approvazione” al momento
dell’emissione della perizia, omettendo di considerare la
sopravvenienza della stessa in un momento successivo, in
via di autotutela per sanatoria avvenuta in un momento di
poco posteriore.
Né, per il resto, può avere rilievo ai fini della valenza
del
rapporto contrattuale variato per effetto della perizia,
l’aspetto
relativo alla mancata copertura tramite finanziamento
che è questione attinente al solo rapporto di provvista
tra P.A. e soggetto finanziatore, al quale è estranea
l’impresa appaltatrice (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 18.12.2015
n. 25524 -
Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
SOLO UNA S.C.I.A. PER GLI INTERVENTI DI DEMOLIZIONE E
RICOSTRUZIONE CON VOLUMETRIA NON SUPERIORE A QUELLA
COMPLESSIVA PREESISTENTE.
Un intervento di demolizione e
ricostruzione con volumetria non superiore a quella
complessiva preesistente, e dunque certamente non incidente
sul carico urbanistico, quale elemento considerato dalla
norma evidentemente determinante, non poteva (già prima
delle ultime modifiche intervenute con il D.L. 21.06.2013, n. 69, art. 30, conv. in L.
09.08.2013, n. 98), e
non può, a maggior ragione oggi -atteso che si prescinde,
per gli immobili non sottoposti a vincoli, anche dalla
modifica della sagoma-, non rientrare nelle
ristrutturazioni edilizie “leggere”, come tali
assoggettabili a mera segnalazione certificata di attività,
ove siano stati rispettati gli ulteriori requisiti
contemplati dall’art. 22 T.U. edilizia.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla individuazione del titolo edilizio
necessario
per gli interventi di demolizione e ricostruzione dei
manufatti che non alterino in eccesso la volumetria
preesistente.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza
del Tribunale che aveva assolto P.S. dal reato di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), in
relazione
alla realizzazione in assenza di permesso di costruire di
un fabbricato con blocchi di cemento prefabbricato e
basamento
in calcestruzzo, proscioglimento pronunciato per
non essere il fatto previsto dalla legge come reato. Contro
la sentenza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in
particolare sostenendo che nella fattispecie contestata,
caratterizzata
dalla integrale demolizione dell’edificio originario
per il quale si sarebbe dovuta sostituire la copertura
realizzata
in fibra d’amianto con realizzazione di un nuovo manufatto
con sagoma differente e volume totale inferiore al
precedente, il giudice aveva erroneamente qualificato
l’intervento,
anziché di ristrutturazione edilizia, per il quale è
necessario il permesso a costruire, come di “manutenzione
straordinaria”, ritenendo applicabile la relativa norma come
modificata dal cosiddetto decreto legge “sblocca Italia”; il
giudice, secondo il P.M., non aveva però considerato, da
un lato, la nozione di ristrutturazione di cui al d.P.R. n.
380
del 2001, art. 3, lett. d), e, dall’altro, il fatto che,
invece, la
nozione di manutenzione straordinaria riguarda l’esecuzione
di un’attività di conservazione del costruito che non incide
sull’uso preesistente del territorio, ovvero opere interne
e singole unità immobiliari delle quali non si devono
alterare
i volumi e le superfici né modificare le destinazioni di
uso.
La Cassazione, pur accogliendo la tesi del P.M., ha tuttavia
respinto il ricorso per ragioni diverse, affermando il
principio
di cui in massima. In particolare, ricordano gli Ermellini,
l’art. 3, comma 1, lett. d), T.U. edilizia, come modificato
dal
D.L. n. 69 del 2013, art. 30, comma 1, lett. a), convertito
con modificazioni nella L. n. 98 del 2013, prevede che
rientrino
all’interno degli interventi di ristrutturazione edilizia
“anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza”; sicché deve ritenersi che il
legislatore,
come segnalato dall’inequivoco riferimento alla
“demolizione e ricostruzione” del preesistente edificio,
quand’anche di uguale volumetria, abbia inteso comunque
ricomprendere l’intervento in questione in quello di
ristrutturazione
edilizia e non già di manutenzione edilizia, non
potendo ritenersi che l’ambito applicativo della
disposizione,
rimasta sul punto significativamente inalterata anche a
seguito della modifica impressa alla L. n. 164 del 2014,
art.
3, comma 1, lett. b), abbia subito riduzioni anche solo di
carattere interpretativo tali da escluderne appunto la
attività,
tipicamente considerata, di abbattimento e ricostruzione.
E ciò, a maggior ragione, ove si consideri che il tratto
essenziale degli interventi di manutenzione straordinaria
continua a consistere nella finalizzazione degli stessi alla
“rinnovazione e sostituzione di parti anche strutturali
degli
edifici”, di per sé non compatibile con una condotta, ben
diversa, di abbattimento e ricostruzione dell’intero
edificio.
Ritenuto dunque che l’intervento posto in essere rientrava
in quello di ristrutturazione edilizia, va però osservato
per la
Cassazione che lo stesso, per gli elementi di fatto
incontroversi
che lo hanno caratterizzato, ovvero, in particolare, il
mancato aumento della volumetria, non richiedeva il rilascio
del permesso a costruire, bensì, al momento dei fatti,
di una mera d.i.a., ovvero, alla data odierna, di una
s.c.i.a.
(v., in senso conforme: Cass. pen., Sez. III, 16.03.2010,
n. 20350, M., in CED, n. 247177; Id., Sez. III, 17.02.2010, n. 16393, C., in CED, n. 246757; Id., Sez. III,
03.06.2014, n. 40342, Q., in CED, n. 260551) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.12.2015 n. 48947
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
SUL DIBATTUTO TEMA DELLA FORMA SCRITTA PER IL CONTRATTO DI
PATROCINIO DIFENSIVO.
Per gli incarichi professionali di
difesa in giudizio della P.A. il requisito della forma
scritta ad substantiam deve ritenersi soddisfatto con il
rilascio della procura ex art. 83 c.p.c., poiché l’esercizio
della rappresentanza giudiziale mediante redazione e
sottoscrizione dell’atto difensivo realizza, attraverso
l’incontro della volontà delle parti, l’accordo contrattuale
secondo le modalità richieste ai fini dell’identificazione
del contenuto negoziale e del controllo dell’autorità
tutoria (in senso parzialmente difforme, cfr. Cass., Sez. I,
01.12.2015, n. 24447).
Un avvocato convenne in giudizio un’Amministrazione
provinciale
per sentirla condannare al pagamento degli onorari
dovutigli per attività professionale prestata in un giudizio
d’appello e, in subordine per ottenere l’indennizzo da
ingiustificato
arricchimento ex art. 2041 c.c.
L’Amministrazione convenuta eccepì la mancanza di forma
scritta dell’incarico, necessaria ad substantiam per i
contratti
della P.A. ex art. 16, R.D. n. 2440/1923.
Il Tribunale di Potenza rigettò la domanda principale e
dichiarò
inammissibile quella subordinata.
Parimenti fu rigettata dalla Corte d’Appello l’impugnazione
proposta dal professionista.
In particolare, la Corte escluse la possibilità di
attribuire valenza
di necessario “atto scritto” nella procura alle liti
rilasciata
dal Presidente della provincia seguente le delibere
giuntali di autorizzazione dell’incarico: questo, perché
essa
è da ritenersi un atto unilaterale recettizio al quale
avrebbe
dovuto fare riscontro l’accettazione in forma scritta del
professionista,
non potendosi desumere tale accettazione -per fatti concludenti- dall’espletamento dell’attività
professionale
o da un atto difensivo sottoscritto dall’avvocato,
per mancanza dei requisiti di contenuto a tal fine
necessari.
Né, del resto, la mera procura alle liti è equiparabile al
contenuto
del contratto, mancando di alcuni elementi essenziali
dello stesso, prima fra tutti la indicazione della
controprestazione
economica, ossia del compenso per onorari
professionali.
Parimenti inammissibile, per la Corte d’Appello è la
subordinata
proposta ai sensi dell’art. 2041 c.c., essendo insegnamento
radicato quello per cui ai sensi dell’art. 23, D.L.
n. 66/1989 (conv. in L. n. 144/1989) l’effettuazione di
spese
da parte degli enti territoriali è subordinata ad apposita
delibera
di autorizzazione, in mancanza della quale il rapporto
non è riferibile all’Amministrazione ma intercorre
esclusivamente
tra il privato e l’amministratore o il funzionario che
abbia consentito la prestazione. Neppure giova alla domanda
l’invocata applicazione dell’art. 5 D.Lgs. n. 342/1997
che ha ammesso il riconoscimento a posteriori della
legittimità
dei debiti fuori bilancio ma l’ha subordinato alla specifica
deliberazione, nella specie assente.
La questione approda al vaglio del Giudice di legittimità,
il
quale accoglie il gravame cassando con rinvio la sentenza
impugnata.
Osserva la S.C. che ai fini dell’esclusione del diritto al
compenso
dovuto per l’attività professionale prestata in adempimento
dell’incarico conferitogli dall’Ente pubblico, la sentenza
di merito ha richiamato il consolidato orientamento
della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la
stipulazione
di un contratto di prestazione d’opera professionale
da parte della P.A. richiede (artt. 16 e 17, R.D. n.
2440/1923) la redazione di uno specifico documento recante
la sottoscrizione del professionista e del titolare
dell’organo
titolare del potere di rappresentanza dell’Ente pubblico
verso i terzi, dal quale possa desumersi la concreta
instaurazione
del rapporto con le necessarie determinazioni
sulle rispettive prestazioni. Tali requisiti non sono propri
della delibera d’incarico (alla quale non può attribuirsi
valenza
di proposta contrattuale suscettibile di accettazione
anche per fatti concludenti) che è atto con efficacia
interna
avente quale unico destinatario l’organo legittimato a
manifestare
all’esterno la volontà dell’ente ed è revocabile
(Cass., Sez. I, nn. 6555/2014; 24679/2013; 1167/2013).
In applicazione di tale principio, la Corte di merito ha
però
anche escluso anche la possibilità di ricollegare la
stipulazione
del contratto alla procura alle liti perché essa comunque
richiede un’espressa accettazione del destinatario, nella
forma prescritta dalla legge, non ravvisabile nella mera
condotta difensiva (ossia per fatti concludenti).
Quest’ultima affermazione -osservano i Supremi Giudici-
però si pone in aperto contrasto con il principio, più volte
affermato con riferimento agli incarichi professionali di
difesa
in giudizio dell’Amministrazione, secondo cui il requisito
della forma scritta ad substantiam deve ritenersi
soddisfatto
con il rilascio della procura ai sensi dell’art. 83 c.p.c.,
posto che l’esercizio della rappresentanza giudiziale
mediante
la redazione e la sottoscrizione dell’atto difensivo
realizza, attraverso l’incontro della volontà delle parti,
l’accordo
contrattuale secondo le modalità richieste ai fini
dell’identificazione
del contenuto negoziale e del controllo dell’autorità
tutoria.
Se è vero, infatti, che la procura ad litem,
quale negozio unilaterale di conferimento della
rappresentanza
in giudizio, si differenzia dal sottostante contratto di
patrocinio, avente natura di negozio bilaterale finalizzato
all’attribuzione
dell’incarico professionale, è anche vero, però,
che quando la procura, rilasciata per iscritto dal cliente
ai sensi dell’art. 83 cit., sia accettata dal legale
attraverso il
concreto esercizio del potere rappresentativo emergente
dalla sottoscrizione degli atti difensivi (citazione,
ricorso o
comparsa), il collegamento necessario, funzionale e di
contenuto,
tra questi ultimi e la prima consente di ritenere concluso
il contratto di patrocinio, sussistendone tutti i requisiti,
dall’incontro di volontà tra le parti alla funzione
economico-
sociale del negozio, all’oggetto ed alla forma che rende
possibile l’assoggettamento al controllo (Cass., Sez. VI, nn.
3721/2015; n. 2266/2012; Sez. II, n. 8500/2004).
Né può rilevare, in senso contrario, la mancanza di
qualsiasi
riferimento all’ammontare del corrispettivo: l’attribuzione
dello jus postulandi, abilitando il procuratore a scegliere,
anche negli sviluppi della causa, la condotta processuale
più rispondente agli interessi del rappresentato, è di per
sé
sufficiente anche a determinare, il contenuto dell’attività
richiesta,
indipendentemente dalla mancata indicazione degli
atti da compiere, la cui individuazione è rimessa al
difensore,
nell’esercizio della discrezionalità tecnica che gli
spetta nell’impostazione della lite, ferma restando la
riserva
alla parte degli atti che comportino disposizione del
diritto
controverso (Cass., Sez. III, n. 5905/2006; Cass., Sez. II,
n.
722/1995).
Alla mancata determinazione del compenso
può del resto sopperirsi attraverso il riferimento alle
tariffe
forensi la cui applicabilità, in assenza di uno specifico
accordo
tra le parti, è sufficiente ad escludere l’incertezza in
ordine alla controprestazione dovuta dalla Amministrazione,
quantificabile solo in via approssimativa al momento
della stipulazione del contratto, in quanto correlata al
compimento
degli atti difensivi resi necessari dall’evoluzione
del giudizio, e proprio per tale motivo idonea a
giustificare
la previsione della copertura finanziaria mediante generica
imputazione al capitolo di bilancio riguardante le spese
processuali (Cass. SS.UU., n. 11098/2002; Sez. I, n.
11859/1999) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
09.12.2015 n. 24859
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
COSTITUISCE REATO LA RICOSTRUZIONE DI UN “RUDERE” SENZA IL
PREVENTIVO RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE.
Integra il reato di cui al d.P.R. n. 380
del 2001, art. 44, lett. c), la ricostruzione di un “rudere”
senza il preventivo rilascio del permesso di costruire (o
con permesso di costruire illecito o rilasciato in
violazione del parametro di legalità urbanistica ed
edilizia, costituito anche dalle prescrizioni degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi ed -in
quanto applicabili- da quelle della stessa legge), sia
perché trattasi di intervento di nuova costruzione e non di
ristrutturazione di un edificio preesistente, dovendo
intendersi per quest’ultimo un organismo edilizio dotato di
mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura, sia
perché non è applicabile il D.L. n. 69 del 2013, art. 30 (conv.
in L. n. 98 del 2013), che richiede, nelle zone come nella
specie vincolate, l’esistenza dei connotati essenziali di un
edificio (pareti, solai e tetto) o, in alternativa,
l’accertamento della preesistente consistenza dell’immobile
in base a riscontri documentali, alla verifica dimensionale
del sito o ad altri elementi certi e verificabili, nonché,
in ogni caso, il rispetto della sagoma della precedente
struttura.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la
sentenza
in esame è quello, assai controverso soprattutto in
passato, della individuazione del titolo edilizio necessario
per la ricostruzione di un c.d. rudere.
La vicenda
processuale
trae origine dalla ordinanza con la quale il tribunale
della libertà aveva confermato il decreto di sequestro
preventivo
emesso dal giudice per le indagini preliminari che
aveva sottoposto a vincolo un manufatto insistente su
terreno
sito nel comune di (omissis) per i reati di cui all’art.
323 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c),
essendo
emerso, secondo la prospettazione accusatoria, che il Comune
aveva rilasciato in favore della ricorrente il permesso
di costruire n. 1 del 2010 (corredato di autorizzazione
paesaggistica
in relazione al vincolo ambientale ivi esistente e
di attestazione di deposito del progetto presso l’ufficio
del
genio civile ai fini dell’esecuzione dei lavori in zona
sismica)
con cui era stato assentito il restauro ed il risanamento
conservativo di un fabbricato sito in zona agricola ed il
successivo 07.12.2011 era stata assentita una variante al
predetto titolo abilitativo in relazione alla sistemazione
esterna dell’area.
Il giudice per le indagini preliminari
aveva
disposto il sequestro ritenendo sussistente a carico degli
indagati il fumus del reato di cui al cit. d.P.R., art. 44,
lett.
c), ed il fondato pericolo che la libera disponibilità
dell’immobile
potesse agevolare la prosecuzione dei lavori con
conseguente aggravamento degli effetti della condotta
criminosa,
trattandosi di opera non ultimata.
Contro la sentenza,
per quanto qui di interesse, proponeva ricorso per
cassazione l’indagata dal momento che gli elementi di prova
forniti dalla difesa permettevano di ritenere sussistente ictu oculi una ipotesi di “ristrutturazione leggera” essendo
state rispettate le condizioni fissate dalla L. n. 98 del
2013,
art. 30, attesa l’agevole rilevabilità della preesistente
consistenza
dell’immobile nonché della sua sagoma. Avendo la
difesa fornito documentazione che attestava in termini di
certezza la preesistenza del fabbricato (atto di vendita del
manufatto denominato “fabbricato ex mulino”), la
preesistente
consistenza ed il rispetto la sagoma precedente attraverso
elementi certi e verificabili (misura dell’immobile al
catasto e foto ante operam, nonché perizia giurata del
consulente
tecnico), ne conseguiva un difetto di motivazione
da parte del giudice del riesame che avrebbe motivato in
maniera del tutto apodittica in ordine a quanto provato
dalla
ricorrente circa l’insussistenza delle ipotesi di reato
contestate.
In altri termini, considerati i documenti forniti dalla
difesa, il tribunale cautelare avrebbe omesso di prendere in
considerazione la documentazione storica dell’immobile
dalla quale era facilmente desumibile la preesistente
consistenza
di esso, con la conseguenza che la motivazione del
provvedimento impugnato deve ritenersi del tutto apparente.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, osservando come ricada in zona
agricola,
con la conseguenza che il lotto minimo richiesto dalla
L.R. Lazio n. 38 del 1999, art. 55, comma 6, per
l’esecuzione
in zona agricola di una nuova costruzione, è pari a
30.000 m2 e che dagli accertamenti effettuati dagli operanti
era risultato che la indagata è proprietaria di terreni, di
cui al manufatto oggetto di intervento, aventi una
superficie
totale di 10.422 m2 e dunque inferiore al predetto lotto
minimo, sicché correttamente era è stato ritenuto
sussistente
il fumus commissi delicti in relazione alla contravvenzione
contestata alla indagata (in precedenza, sull’argomento:
Cass. pen., Sez. III, 03.06.2014, n. 40342, Q., in CED, n.
260552) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.12.2015 n. 48232
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA TRASFORMAZIONE DI UN TERRAZZINO CON OPERE STABILI NON HA
NATURA PRECARIA ED È SOGGETTA A PERMESSO DI COSTRUIRE.
La trasformazione di un terrazzino in
veranda, mediante collocazione di una struttura in
alluminio, vetri e copertura in materiale coibentato, con
conseguente creazione di un ambiente diviso in due da una
tramezzatura in cartongesso e contiguo ad un appartamento
già esistente con rimozione degli infissi dalla loro
originaria collocazione, non ha natura precaria né
costituisce intervento di manutenzione straordinaria o di
restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire (o,
nella regione Sicilia, a concessione edilizia).
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame,
sull’individuazione
delle condizioni e dei requisiti in presenza dei
quali la realizzazione di una veranda ottenuta mediante
trasformazione
di un terrazzino richiede il preventivo rilascio
di un titolo abilitativo edilizio.
La vicenda processuale
segue
alla sentenza con la quale la Corte d’Appello, in
accoglimento
del solo appello proposto dal Procuratore Generale,
aveva riformato la sentenza resa dal tribunale che aveva
condannato l’imputato per il reato previsto dall’art. 81
cpv.
e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), per
avere
realizzato, senza il prescritto permesso a costruire, le
seguenti opere edilizie comportanti trasformazione edilizia
del territorio comunale: un ampliamento della superficie di
mq 10 circa, mediante collocazione di una struttura in
alluminio
e vetri e copertura in materiale coibentato.
Tale ambiente
è risultato diviso in due da una tramezzatura in cartongesso
ed era contiguo all’appartamento già esistente in
quanto erano stati rimossi gli infissi dalla loro
collocazione
originaria. Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione
l’imputato, in particolare sostenendo come errata era
la conclusione cui è pervenuta la Corte d’Appello quando
aveva affermato che, se anche tale veranda fosse stata
preesistente (e lo era), tali lavori sarebbero stati da
qualificare
come rimozione e ricostruzione di una preesistente
opera abusiva, come tale necessitante del permesso di
costruire,
facendo in tal modo dipendere il concetto tecnico
di manutenzione straordinaria ovvero di ricostruzione dalla
precedente liceità o meno del manufatto.
Obiettava
l’imputato
che, se così fosse, l’elemento distintivo tra i lavori di
manutenzione straordinaria ovvero di ristrutturazione
disciplinati
dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3 e gli interventi di
nuova costruzione individuati dal cit. d.P.R., art. 10
sarebbe
rappresentato dalla abusività o meno delle opere precedenti,
violando in tal modo la ratio del provvedimento legislativo,
che invece prescinde del tutto da tale circostanza.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, ribadendo che la trasformazione di un
balcone o di una terrazza, anche di modesta superficie, in
veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di
pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce
realizzazione di una pertinenza, né intervento di
manutenzione
straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a
concessione edilizia ovvero a permesso di costruire, la cui
realizzazione, in assenza di titolo abilitativo, integra il
reato
previsto dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 (Cass. pen.,
Sez.
III, 15.01.2014, n. 1483, S., in CED, n. 258295; Id.,
Sez. III, 23.01.2003, n. 3160, M., in CED, n. 223295;
Id., Sez. III, 28.10.2004, n. 45588, P.M. in proc.
D’A.,
in CED, n. 230419; Id., Sez. III, 26.04.2007, n. 35011,
C., in CED, n. 237532; Id., Sez. III, 13.01.2000, n. 3879,
S., in CED, n. 216221) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.12.2015 n. 48221
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
INDICAZIONE UNILATERALE DEL COMPROPRIETARIO DI UNO SPAZIO
COMUNE DA DESTINARSI A PARCHEGGIO DELLA PROPRIA UNITÀ
IMMOBILIARE, AI FINI DEL RILASCIO DEL TITOLO EDILIZIO.
Ai fini del rilascio di una concessione
edilizia l’indicazione fatta da un solo comproprietario,
senza accordo con i rimanenti, di un’area comune come zona
destinata a parcheggio destinato in via esclusiva alla
propria unità immobiliare non rileva agli effetti dell’art.
41-sexies della legge urbanistica n. 1150/1942 (modificato
dalla L. n. 122/1989) per il valido rilascio del titolo
abilitativo edilizio, perché lede il diritto del
comproprietario pretermesso.
Un privato convenne in giudizio altri privati chiedendo -sul
presupposto che gli stessi avessero commesso violazioni
edilizie in un immobile- la condanna dei convenuti al
ripristino
e al risarcimento dei danni.
Il Tribunale rigettava la domanda.
La Corte d’Appello, pronunciandosi sul gravame, lo
rigettava.
La questione è quindi sottoposta al vaglio della Corte di
cassazione, che accoglie il ricorso cassando la sentenza
con rinvio.
Il Giudice di Legittimità condivide la censura che attiene
alla
violazione e falsa applicazione dell’art. 41-sexies della
legge urbanistica (n. 1150/1942) come novellato dall’art. 2,
comma 1, L. n. 122/1989; oltre che degli artt. 1102 e 1108
c.c. Questo perché è stata indicata nella richiesta di
titolo
edificatorio -necessaria ai sensi della L. n. 122 cit.-
un’area
da adibire a parcheggio che è in comproprietà, senza
tuttavia aversi il consenso del comproprietario.
In buona sintesi il ricorrente domanda alla S.C. se
costituisca
atto eccedente l’ordinaria amministrazione l’indicazione,
da parte di uno solo dei comproprietari, di un’area in
comunione come area destinata a parcheggio ex art. 41-sexies
legge urbanistica (modificato dalla L. n. 122/1989, c.d.
legge Tognoli), per il quale “nelle nuove costruzioni ed
anche
nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono
essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura
non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi
di costruzione”, ai fini del rilascio della concessione
edilizia.
Il Supremo Collegio condivide l’assunto affermando che il
comproprietario di un’area in comunione non può, in mancanza
di accordo con tutti i rimanenti comproprietari, indicare
-a fini edificatori- come area destinata a parcheggio
la medesima area in comunione, poiché ciò lede il diritto
del comproprietario ricorrente, pretermesso nell’indicazione
di destinazione dell’area in comunione.
Ciò è ancor più
vero alla luce del contenuto dell’art. 41-sexies, comma 2,
legge urbanistica n. 1150/1942 (come aggiunto dall’art. 12,
comma 9, L. n. 246/2005) per il quale “gli spazi per
parcheggi
realizzati in forza del primo comma non sono gravati
… da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità
immobiliari”.
Questo, in violazione del principio generale per cui l’atto
amministrativo è emesso con salvezza del diritto dei terzi.
La Corte di cassazione, in aggiunta, osserva che non può
portare a difforme conclusione l’assunto -contenuto nella
sentenza gravata- per il quale alla stregua della
disciplina
generale sulla comunione, non sia ravvisabile alcuna
violazione
nell’indicazione da parte di due comproprietari di una
parte dell’area comune a parcheggio salva l’ipotesi che vi
sia un’occupazione stabile del suolo comune con lesione di
altri diritti.
In proposito, la S.C. afferma il principio
che
un’area comune, in quanto tale, non è suscettibile di uso
particolarmente intenso ed individualistico e esorbitante
dall’ordinario da parte di uno solo dei comproprietari
specie
quando l’indicazione a fini edificatori dell’area comune
a parcheggio -in assenza della concorde volontà di tutti i
comproprietari- incida in modo che non può ritenersi
irrilevante
sulla stessa natura comune del bene. Del resto,
l’indicazione
(anche in parte) a parcheggio di un’area comune
grava in ogni caso la medesima di un vicolo che andrebbe
apposto, perpetuandosi la comunione, solo col consenso
unanime dei comproprietari (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
02.12.2015 n. 24519
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
NON ESCLUDE LA NECESSITÀ DEL TITOLO ABILITATIVO LA
CIRCOSTANZA CHE IL MANUFATTO SIA CONFORME AL REGOLAMENTO
EDILIZIO.
L’asserita conformità della operazione
rispetto a quanto previsto da una norma contenuta nel
Regolamento edilizio non esclude la necessità del titolo
abilitativo richiesto dalla legge, atteso che un’attività
che è prevista come illegittima da una disposizione
legislativa statale non può certamente degradare in attività
consentita per effetto di una disposizione avente rango
normativo inferiore alla precedente.
Ne consegue che la
attività di ristrutturazione edilizia con variazione di
destinazione d’uso che comporti il cambio di categoria
edilizia derivante dalla realizzazione di nuove opere edili
necessita di permesso a costruire, per come derivante dalla
previsione legislativa contenuta nel d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 10, comma 1, lett. c).
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla
disciplina
edilizia e, più specificamente, sull’annosa questione
dei rapporti intercorrenti tra normativa primaria e
normativa
secondaria e sull’incidenza di quest’ultima rispetto alla
liceità dell’opera edilizia.
La vicenda processuale segue
alla
sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva parzialmente
riformato la sentenza del tribunale pronunciata nei
confronti
di due imputati cui era stata contestata, in concorso
fra loro, la violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
lett. b), in relazione all’art. 10, comma 1, lett. a), dello
stesso
d.P.R., per avere realizzato su di un terreno di loro
proprietà,
in assenza del titolo abilitativo, la ristrutturazione di
un immobile preesistente con il suo ampliamento e la
variazione
di destinazione d’uso da rurale ad abitativo.
Contro
la sentenza proponevano ricorso per cassazione gli
interessati,
in particolare sostenendo, per quanto qui di interesse,
che il regolamento edilizio del Comune consentiva il
cambiamento
della destinazione ad uso residenziale degli annessi
con destinazione non agricola e, nel caso in esame, il
manufatto preesistente non poteva considerarsi rurale in
quanto mai destinato a tale scopo, poiché servente un altro
immobile ove gli imputati avevano, oltre che le residenze,
la sede della loro impresa edile, il che, peraltro,
giustificava
la presenza sul posto di attrezzi e macchinari destinati a
tale
impresa, senza che ciò implicasse la attualità dello
svolgimento
dei lavori edili.
La Cassazione ha rigettato il ricorso e, nell’affermare il
principio
di cui in massima, ha ricordato come non poteva
svolgere una qualche efficacia scriminante l’asserita
conformità
della operazione rispetto a quanto previsto dal ricordato
art. 6 del Regolamento edilizio: non va, infatti,
dimenticato,
precisano gli Ermellini, che un’attività che sia
prevista come illegittima da una disposizione legislativa
statale non può certamente degradare in attività consentita
per effetto di una disposizione avente rango normativo
inferiore
alla precedente (in precedenza, v.: Cass. pen., Sez.
III, 28.01.2015, n. 3953; Id., Sez. III, 26.09.2014, n.
39897) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
01.12.2015 n. 47310
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
URBANISTICA:
È LOTTIZZAZIONE ABUSIVA FRAZIONARE E PREDISPORRE UN TERRENO
AGRICOLO PER REALIZZARE PIÙ EDIFICI A DESTINAZIONE
RESIDENZIALE.
Integra il reato di lottizzazione
abusiva il frazionamento e la predisposizione di un terreno
agricolo alla realizzazione di più edifici aventi natura e
destinazione residenziale, in quanto trattasi di attività
edificatoria fittiziamente connessa alla coltivazione ed
allo sfruttamento produttivo del fondo ed incompatibile con
l’originaria vocazione dell’area.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui
esaminata,
di una questione assai ricorrente nella giurisprudenza
di legittimità, in particolare riguardante l’individuazione
delle condizioni e dei limiti in presenza dei quali può
integrarsi l’illecito lottizzatorio.
La vicenda processuale
che ha fornito l’occasione alla Corte per occuparsi della
questione segue alla ordinanza con cui il tribunale
rigettava
l’istanza presentata nell’interesse di G.Z., G.P. e G. E.,
confermando il decreto di sequestro preventivo emesso
dal G.I.P. presso il medesimo tribunale avente ad oggetto
le particelle n. 349 e 351 censite nel Foglio 35 del Comune
di (omissis), su cui era stato edificato un immobile,
ipotizzando
a carico degli indagati la sussistenza del reato di
cui all’art. 110 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001, art. 30,
comma
1, e art. 44, lett. c), D.Lgs. n. 42 del 2004, artt. 146 e
181, per aver concorso, quali acquirenti delle predette
particelle, con gli originari proprietari del terreno, con i
tecnici incaricati dei frazionamenti e con i dirigenti degli
uffici tecnici comunali firmatari dei permessi di costruire,
predisponendo e realizzando in (omissis), una trasformazione
urbanistica del territorio mediante il frazionamento,
l’acquisto e la vendita di una serie di lotti di terreno
censiti
ai fogli di mappa 35 e 46 del Catasto dei terreni di
(omissis),
sia attraverso l’edificazione materiale, su detti lotti e
su altri non precedentemente frazionati, di manufatti
destinati
univocamente, per caratteristiche costruttive degli
immobili e delle opere di urbanizzazione realizzate, per i
materiali utilizzati e per la predisposizione di arredi e
finiture
di pregio, a residenza estiva e/o seconda casa, in
violazione
di una serie di disposizioni meglio descritte nel capo
di imputazione cautelare; ancora, con riferimento agli
odierni ricorrenti, per aver realizzato in un’area,
originariamente
di proprietà di E. F., censita in catasto alle predette
particelle, una villa per residenza estiva con annessa
piscina,
in totale difformità dal p.d.c. n. 171/2011 e dalla
s.c.i.a. n. 12/2012, difformità consistite nella
realizzazione
di apposita apertura, poi chiusa con materiale in cartongesso,
tra zona ad abitazione e zona a deposito agricolo,
così determinando una continuità tra di essi e una univoca
destinazione ad abitazione, anche in considerazione
dell’utilizzazione nella zona a deposito agricolo degli
stessi
valori funzionali, tecnici ed impiantistici della zona ad
abitazione e della realizzazione di spazi, rifiniture
(porte,
armadio a muro) ed impiantistica (numero di prese e punti
luce) simili ad una stanza da letto dell’abitazione, nonché
di due bagni al loro esclusivo servizio, con la
predisposizione
di water, bidet, lavandino e doccia.
Contro l’ordinanza
proponevano ricorso per cassazione i due indagati,
in particolare dolendosi, per quanto qui di interesse,
che il tribunale del riesame:
a) non avrebbe spiegato come
e quando i due indagati abbiano posto in essere la
condotta penalmente rilevante di lottizzazione abusiva;
b)
nulla avrebbe detto in ordine all’incidenza effettiva e
concreta
che avrebbero avuto i lavori incriminati sul preesistente
assetto territoriale a seguito dei lavori su esso eseguiti
dai due attuali ricorrenti né perché la zona su cui esso
insiste non sarebbe adeguatamente urbanizzata per
accogliere lo stesso nella sua apparente nuova dimensione;
c) censurabile sarebbe la motivazione del tribunale del
riesame in particolare laddove afferma che “al di là
dell’autonomia
dell’immobile dei ricorrenti per la presenza di
un pozzo artesiano e di un bombolone per la fornitura di
gpl, è sufficiente segnalare la necessità di dotare la zona
di illuminazione, di impianto fognario, di adeguato sistema
di viabilità, ecc.”, ciò in quanto non avrebbe indicato
quali sarebbero le opere di urbanizzazione cui far fronte a
seguito dei lavori posti in essere sul proprio lotto dagli
indagati,
avendole solo ipotizzate, ciò in quanto il tribunale
del riesame ha considerato solo la più vasta area in cui si
inserisce il singolo lotto in questione, tant’è che secondo
i
giudici del riesame ciò che denoterebbe l’illecito
lottizzatorio
non sarebbero le singole opere realizzate nel lotto
dai due indagati, quanto piuttosto il complesso di
interventi
fatti sulla più ampia area che comprende il loro lotto;
d) proprio per tale ultima ragione, i giudici del riesame
avrebbero dovuto svolgere una più accurata valutazione
della sfera soggettiva dei due indagati, dovendosi
dimostrare
una loro compartecipazione per lo meno in termini
di colpa, all’attività lottizzatoria e non limitata alle
singole
opere da questi poste in essere sul loro singolo lotto di
terreno, esame che sarebbe mancato nel provvedimento
impugnato che sarebbe giunto a conclusioni contraddittorie
non potendosi apprezzare alcun genere di valutazione
circa il rimprovero da muovere agli attuali indagati;
e)
difetterebbe,
ancora, pur dopo le risultanze della ct. dell’ing.
S. (unico elemento di novità indicato dai giudici del
riesame) una valutazione delle posizioni inerenti i due
attuali
ricorrenti, circa la reale natura della loro condotta ed
il rispettivo grado di colpevolezza sull’intera opera di
lottizzazione,
non essendo dato comprendere da quale circostanza
sia ricavabile che i due indagati sapessero o dovessero
sapere di concorrere ad una complessiva attività
di lottizzazione;
f) i giudici del riesame non avrebbero
ancora
considerato che ai due indagati non poteva essere
mosso alcun rimprovero di colpa, essendo gli stessi
acquirenti
di un singolo lotto non derivante da precedente
frazionamento, non residenti in zona ma a centinaia di
chilometri di distanza, i quali si sarebbero avvalsi a
tecnici
esperti e alla pubblica autorità, non potendo quindi
attribuirsi
agli stessi alcuna colpa per non aver adempiuto ai
doveri d informazione e conoscenza richiesti dall’ordinaria
diligenza e di non avere assunto le necessarie informazioni
sulla sussistenza di un titolo abilitativo e sulla
compatibilità
dell’intervento con gli strumenti urbanistici, avvalendosi
sempre di tecnici che avrebbero dovuto compensare
la loro ignoranza.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, osservando, per quanto qui di
interesse, come l’area in questione, oggetto di sequestro,
è stata investita da opere edilizie da parte degli stessi
tecnici
progettisti, direttori dei lavori, ditte esecutrici,
nell’ambito
di un’operazione evidentemente unitaria, che ha
previsto per tutti gli interessati la presentazione di
richieste
di permesso di costruire e di successive varianti in
corso d’opera per modifiche degli spazi interni, nonché
richieste
di cambio di destinazione d’uso per la trasformazione
delle vasche di raccolta dell’acqua in piscine, con la
surrettizia trasformazione dei vani a destinazione agricola
in vani residenziali, in totale difformità dai permessi di
costruire
rilasciati, donde l’evidente configurabilità dell’illecito
lottizzatorio.
In particolare, il terreno edificatorio
acquistato
dai due indagati insisteva su un’area oggetto di preliminari
frazionamenti di aree agricole più ampie, tutte
censite nel Foglio 35 del Catasto comunale, frazionamenti
che avevano determinato la creazione di lotti di dimensioni
difficilmente compatibili con attività agricole, posto che
si trattava di area ricadente in zona omogenea E del
programma
di fabbricazione del Comune, destinata ad usi
agricoli, precisamente in zona agricola di tipo B2, nella
quale sono consentite solo costruzioni a servizio diretto
dell’agricoltura o costruzioni adibite alla conservazione o
trasformazione dei prodotti agricoli, annesse ad aziende
agricole che lavorano prevalentemente prodotti propri ovvero
svolte in cooperazione, ed all’esercizio di macchine
agricole.
Da qui, dunque, l’indubbia sussistenza del fumus
del reato (in precedenza, in senso conforme: Cass.
pen., Sez. III, 19.04.2011, n. 15605, M. e altri, in
CED, n. 250151) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.11.2015 n. 46536
- Urbanistica e appalti 3/2016). |
ESPROPRIAZIONE:
EFFETTI DELL’ATTO DI CESSIONE VOLONTARIA DI UN IMMOBILE
SENZA DETERMINAZIONE DEL PREZZO.
La cessione volontaria di un immobile,
se priva dei criteri per la determinazione del prezzo,
costituisce espressione d’autonomia negoziale a norma
dell’art. 1322 c.c., il cui esercizio preclude al privato di
proporre tanto la domanda di conguaglio, quanto quella di
rideterminazione del prezzo, riferito al valore venale, ex
art. 39, L. n. 2359/1865, previa declaratoria di nullità di
quello pattuito.
Un privato convenne in giudizio un Istituto provinciale per
l’edilizia abitativa premettendo che, in attuazione di
quanto
previsto in una delibera di Giunta provinciale, l’Ente
convenuto
avesse approvato un piano per realizzare quindici alloggi
e che in esso rientrasse anche un immobile di sua
proprietà, ceduto al convenuto in esecuzione d’una
convenzione
per effetto della quale vi era possibilità di riacquistare,
a prezzo prestabilito in atto, una parte dell’immobile
ristrutturato. L’attore lamentò che l’Ente avesse disatteso
tale obbligo di cessione alle condizioni concordate,
sostenendosi
di contro -da parte dell’Ente- ciò essere divenuto
impossibile per effetto di una legge sopravvenuta.
In ragione di questo, il privato chiese la declaratoria di
nullità
della clausola determinativa del prezzo della cessione e
la sua sostituzione con quanto previsto dalle norme
imperative
in tema d’indennità d’espropriazione e, in subordine,
la declaratoria di nullità delle convenzioni per difetto di
causa
o la loro risoluzione per il venir meno del relativo
presupposto.
Il Tribunale rigettò le domande, con decisione confermata
dalla Corte d’Appello.
La Corte di merito affermò che la procedura speciale (art. 82, legge provinciale di Trento n. 16/1983) qui applicata
non era equiparabile alla cessione volontaria prevista dalla
legislazione in materia espropriativa, in assenza del
subprocedimento
di determinazione dell’indennità: per l’effetto,
il contratto stipulato tra le parti a trattativa privata
costituiva
una compravendita di diritto comune, con la conseguenza
che non era possibile la chiesta sostituzione automatica
dei criteri legali, nel frattempo intervenuti, a quelli
pattuiti.
Per la cassazione di tale sentenza, ricorre il privato, con
ricorso
che la S.C. parimenti rigetta.
Merita osservarsi, a commento della sentenza, come la
S.C. disattenda la censura -mossa dal ricorrente alla
sentenza
gravata- per cui la mancanza del sub-procedimento
di determinazione dell’indennità di esproprio comporterebbe
la conseguenza che il contratto traslativo dell’immobile,
intercorso fra le parti, costituisca una compravendita di
diritto
privato. In proposito i Supremi Giudici rilevano la
correttezza
della statuizione resa in sede d’appello, posto che
ogni diversa prospettazione, come sollevata dal ricorrente,
non solo è contraria al dettato normativo (che disciplina in
modo rigido l’intero procedimento espropriativo) ma anche
ai canoni costituzionali di legalità, imparzialità e tutela
del
terzo, che devono, sempre, improntare l’attività della P.A.
Del resto, osserva la sentenza, anche la cessione volontaria
che non indichi i criteri di determinazione del prezzo
costituisce
espressione d’autonomia negoziale a norma dell’art.
1322 c.c., il cui esercizio preclude al privato di proporre
tanto la domanda di conguaglio, quanto quella di
rideterminazione
del prezzo (riferito al valore venale, ex art. 39
della L. n. 2359/1865), previa declaratoria di nullità di
quello
pattuito (Cass. n. 10952/2014).
Ancora, il Collegio aggiunge che, pur essendo rivolta a
conseguire l’interesse collettivo generale, l’attività
negoziale
della P.A., per tutto quel che riguarda la disciplina dei
rapporti che dalla stessa scaturiscono, rimane assoggettata
ai principi ed alle regole del diritto comune: in primo
luogo
a quella secondo cui formatasi la volontà contrattuale
secondo la disciplina dettata nella convenzione recepita o
nella normativa richiamata, l’intero rapporto è retto e deve
svolgersi secondo quella disciplina (Cass. n. 7779/2012) (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza
23.11.2015 n. 23866
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
INCARICHI PROGETTUALI:
NECESSITÀ DI FORMA SCRITTA PER IL CONFERIMENTO DI INCARICHI
DI PROGETTAZIONE, INAMMISSIBILITÀ DI UNA DOMANDA RESIDUALE
DI ARRICCHIMENTO INDEBITO A FAVORE DELL’AZIONE TIPICA EX
ART. 191 T.U. ENTI LOCALI.
In tema di spese degli enti locali,
effettuate senza il rispetto delle condizioni di cui agli
artt. 23, commi 3 e 4, D.L. 02.03.1989, n. 66 (conv. con
modificazioni in L. 24.04.1989, n. 144, e riprodotto,
senza sostanziali modifiche, prima dall’art. 35, D.Lgs. n.
77/1995, e poi dall’art. 191, D.Lgs. n. 267/2000)
l’insorgenza del rapporto obbligatorio, ai fini del
corrispettivo, direttamente con l’amministratore o il
funzionario che abbia consentito la prestazione, determina
l’impossibilità di esperire nei confronti del Comune
l’azione di arricchimento senza causa, stante il difetto del
necessario requisito della sussidiarietà.
Un progettista convenne avanti il Tribunale Ordinario
un’Amministrazione comunale, chiedendo che fosse accertata
la redazione di un progetto da parte dell’attore, con
declaratoria del diritto alla corresponsione del compenso e
condanna al relativo pagamento. In subordine, l’attore
chiese accertarsi e dichiararsi che la redazione del
progetto
fosse ben eseguita e accettata dall’Ente, con la condanna
del Comune ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Il Tribunale rigettava le domande attrici.
Proponeva appello il privato, che la Corte territoriale
rigettava.
A sostegno di questa decisione la Corte distrettuale
osservò che l’incarico professionale era stato - per
ammissione
attorea - affidato oralmente, sicché doveva affermarsi
la nullità del titolo azionato, per mancanza di un requisito
essenziale ex artt. 16 e 17, R.D. n. 2440/1923 e, ancora,
che l’azione residuale di indebito arricchimento di cui
all’art.
2041 c.c. non era possibile sussistendo nello specifico
un’azione tipica a tutela di una parte nei confronti
dell’altra.
La questione approda in Cassazione, con ricorso del privato
che la Suprema Corte respinge.
Anzitutto, ricordando che la mancanza di forma scritta
determina
la nullità del contratto di conferimento d’incarico
tra P.A. e progettista, per contrarietà a norme imperative.
Né, in senso contrario, può opinarsi che il ricorrente non
fosse un professionista esterno all’Ente ma, all’epoca,
incardinato
in esso qual responsabile dell’Ufficio tecnico comunale,
seppure a tempo determinato e con compenso
mensile a fattura. Questo, benché l’incarico di
progettazione
fosse stato conferito dalla Giunta direttamente all’UTC,
del quale il ricorrente era per vero responsabile, tuttavia
essendo
l’attività di progettazione estranea ai compiti di quell’ufficio.
Pertanto, se detta attività non rientrava tra quelle
dell’UTC, l’incarico di cui si discute doveva conferirsi,
prescindendo
dalla circostanza che il professionista ne fosse
responsabile, con contratto redatto a pena di nullità in
forma
scritta, nel rispetto della generale regola di cui all’art.
16, R.D. n. 2440/1923, secondo un insegnamento (Cass. n.
15296 del 06.07.2007) per il quale tale disposizione
opera
qualora il contratto d’opera professionale sia stipulato con
la P.A. che agisca secondo regole di diritto privato.
Con riferimento alla domanda ex art. 2041 c.c., proposta in
via subordinata, la Suprema Corte osserva che essa, per la
propria natura residuale, non è di possibile introduzione
nel
presente giudizio, essendo esperibile l’azione nei confronti
dell’amministratore o del funzionario con il quale il
privato
aveva concluso il contratto “verbale” di incarico, in
rappresentanza
del Comune. Questo, in applicazione del disposto
dell’art. 23, D.L. n. 66/1989. Il Comune, quindi, non può
ritenersi
vincolato a un contratto concluso senza l’osservanza
della procedura di legge e la previa deliberazione delle
spese, sicché detto sinallagma -stipulato al di fuori delle
condizioni previste dalla legge- non vincolava l’Ente ma
l’amministratore o il funzionario responsabile
dell’acquisizione
del servizio, cui andava diretta l’azione di recupero
della subita diminuzione patrimoniale (Cass. 29.07.2009, n. 17550).
E, proprio in considerazione del fatto che nel caso in esame
era possibile l’azione diretta di recupero della subita
diminuzione
patrimoniale nei confronti dell’amministratore o
del funzionario responsabile dell’acquisizione del servizio,
era doveroso da parte del ricorrente procedersi per quella
via (Corte
di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.11.2015 n. 23503
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA RIMESSIONE IN PRISTINO DELLO STATO DEI LUOGHI NON
ESTINGUE IL REATO EDILIZIO MA SOLO LA CONTRAVVENZIONE
PAESAGGISTICA.
La rimessione in pristino stato delle
aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici, pur
se accompagnata dalla successiva demolizione del manufatto
abusivo, non estingue il reato edilizio ma, esclusivamente,
la contravvenzione paesaggistica prevista dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1; ne consegue che non
è applicabile analogicamente all’art. 44 in esame la
disciplina dettata in materia di reati paesaggistici dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, comma 1-quinquies, la quale
ha una funzione premiale, diretta ad incentivare il recupero
degli illeciti minori e a far riacquistare alla zona
vincolata il suo originario pregio estetico.
La Corte di
cassazione si occupa, nella sentenza qui esaminata,
della possibilità estensione applicativa della causa
estintiva del reato paesaggistico, rappresentata dalla rimessione
in pristino dello stato dei luoghi, ai reati edilizi.
La vicenda processuale che ha fornito l’occasione alla Corte
per occuparsi della questione segue alla sentenza con
cui la Corte d’Appello confermava la pronuncia emessa dal
Tribunale nei confronti di D.R.G. e A.F., con la quale
questi
erano stati ritenuti responsabili dei reati di cui all’art.
110
c.p., d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c); agli
stessi
-nelle rispettive qualità di committente e direttore dei
lavori- era contestata l’esecuzione di opere in difformità del
permesso di costruire ed in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico.
Gli stessi erano stati invece assolti da ulteriori
imputazioni perché il fatto non sussiste, e prosciolti da
quella di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 64 e 71, per
l’avvenuta rimessione in pristino.
Contro la sentenza
proponevano
ricorso per Cassazione i due imputati, in particolare
sostenendo che la Corte d’Appello aveva confermato la
condanna disattendendo le risultanze processuali relative
alla s.c.i.a. in variante, ed alla natura “leggera” di
questa.
La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, osservando come i ricorsi si limitassero
a censure generiche e fumose, con le quali richiamavano,
in senso contrario, talune asserite emergenze istruttorie,
delle quali, quindi, si sarebbe dovuto tener conto (“La
Corte dimentica ogni assunto difensivo svolto sulla s.c.i.a.
in variante, sul fatto che trattasi di variante leggera, che
la
Ma.Li.A. ha ottenuto tutte le autorizzazioni necessarie e
che la variante era stata chiesta in corso d’opera essendo
oggi l’immobile ancora allo stato rustico”).
Ma,
all’evidenza,
per i Supremi Giudici, si tratta di argomentazioni del tutto
prive di pregio (in precedenza, sull’argomento: Cass.
Pen., Sez. III, 06.05.2014, n. 37168, A., in CED n.
259943; Cass. Pen., Sez. III, 12.05.2011, n. 25026, S., in
CED n. 250675) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.11.2015 n. 45269
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
RAPPORTI FRA JUS AEDIFICANDI E DIRITTO DI PROPRIETÀ - NATURA
DI OBBLIGAZIONE PROPTER REM DEGLI ONERI DI URBANIZZAZIONE.
La subordinazione dello jus aedificandi
a un provvedimento della P.A. (cd. titolo abilitativo
edilizio) non inerisce in via immediata al diritto di
proprietà, limitandosi a stabilire i limiti e a verificare i
presupposti per l’esercizio di quel diritto, attuando il
principio costituzionale della funzione sociale della
proprietà mediante imposizione di un contributo al
proprietario: in questo senso, l’assunzione, da parte del
proprietario del fondo, degli oneri relativi alle opere di
urbanizzazione è un’obbligazione “propter rem”, sicché dette
opere devono essere eseguite da coloro che sono proprietari
al momento del rilascio della concessione edilizia, o dai
loro aventi causa, i quali ben possono essere soggetti
diversi da quelli che stipularono una Convenzione
urbanistica.
Una società immobiliare proprietaria di un terreno
edificabile
aveva stipulato con un Comune una Convenzione di
Lottizzazione nel 1986. Avendo già realizzato, in attuazione
della Convenzione, gran parte della volumetria ammessa,
adempiendo agli obblighi onerosi dalla stessa previsti, era
residuata una volumetria edificabile di circa 47.000 mc su
una superficie di 10.120 mq.
In seguito a un procedimento di esecuzione immobiliare,
tale area era stata venduta all’asta e assegnata, con
decreto
di trasferimento del Giudice dell’Esecuzione assunto in
data 23.04.2002 ad altra società immobiliare acquirente
la quale - con successivo atto di compravendita - ne aveva
trasferita la proprietà ad un’altra società terza.
L’immobiliare che in origine aveva sottoscritto la
Convenzione
convenne le due società sopravvenute nella proprietà
del terreno contestando che, unitamente alla proprietà
dell’area,
fosse stato trasferito anche lo ius aedificandi connesso
e conseguente al Piano di Lottizzazione. Chiedeva, così,
che fosse accertato e riconosciuto che i diritti volumetrici
nascenti dalla convenzione erano tuttora di sua competenza
e che, per l’effetto, l’atto con il terreno era da ultimo
pervenuto
nella disponibilità dell’attuale proprietaria costituiva
una vendita di cosa altrui ex art. 1478 c.c. In via
subordinata,
instava ex art. 2041 c.c., per la condanna della Leonardo
a indennizzare l’attrice di tutte le somme sborsate e di
tutti gli oneri sopportati per ottenere, in sede di
convenzione
di lottizzazione, lo ius aedificandi pari a mc. 47.000.
Il Tribunale rigettava la domanda, non condividendo la tesi
dell’attrice secondo cui, avendo sostenuto i costi derivanti
dal Piano di Lottizzazione dell’intera area, solo ad essa
spetterebbe la titolarità dello ius aedificandi, anche
rispetto
alla porzione di terreno che sottoposta a vendita forzata e
quindi trasferita.
Osserva il giudice di prime cure che il diritto di edificare
costituisce,
dal punto di vista privatistico, uno dei corollari del
diritto di proprietà, indipendentemente dai rilievi
pubblicistici
che attengono al governo del territorio.
La sentenza era oggetto d’appello, che la Corte di merito
respinse.
Nel confermare che lo ius aedificandi è corollario del
diritto
di proprietà, si osservò che in senso contrario non potevano
trarsi argomenti dalla disciplina relativa al diritto di
superficie,
stante la tipicità dei diritti reali, e neppure dall’art.
1, comma 21, L. n. 380/2004 posto che la medesima legge
in seguito precisa che in caso di accoglimento dell’istanza
presentata ex art. 21, la traslazione del diritto di
edificare
su area diversa comporta la contestuale cessione al comune,
a titolo gratuito, dell’area (originaria) interessata dal
vincolo
sopravvenuto.
Il decreto del G.E., chiosò la Corte d’appello, aveva
trasferito
l’area comprensiva di ogni sua caratteristica, compresa
la volumetria edificabile a essa pertinente (sia pure
residua
rispetto a quella prevista in relazione all’intero,
originario
comparto edificatorio), atteso che il terreno era stato
trasferito
nello stato di fatto e diritto in cui si trovava: che fosse
stata trasferita anche la particolare capacità edificatoria,
sia pure nella parte residua, lo si desumeva sia
dall’avvenuto
richiamo al certificato di destinazione urbanistica
rilasciato
dal Comune, sia dal valore di mercato attribuito all’area,
secondo quanto in proposito chiarito dal C.T.U., il quale
aveva tenuto conto dell’avvenuta realizzazione delle opere
di urbanizzazione primaria e del possibile rilascio della
concessione edilizia.
La circostanza che nel successivo atto
di vendita fra le due sopravvenute proprietarie fosse
specificato
che la vendita comprendeva anche i diritti volumetrici
derivanti dalla prima Convenzione non era altro che una
precisazione: ogni questione relativa alle modalità di
determinazione
del prezzo di vendita all’incanto del terreno ed
alla sua quantificazione da parte del CTU avrebbe potuto e
dovuto essere svolta esclusivamente in sede esecutiva,
certo non nella presente.
Quanto alla subordinata ex art. 2041 c.c. la Corte respinse
la domanda perché l’attribuzione patrimoniale non era
affatto
priva di giusta causa, essendo l’acquisto dell’area
intervenuto
in forza d’un ben preciso titolo, peraltro di formazione
giudiziale (per effetto della vendita all’incanto), e, per
di più, al prezzo di mercato indicato da un imparziale CTU.
La sentenza è oggetto di ricorso per Cassazione, che la
Suprema
Corte rigetta.
Osservano i Supremi Giudici che già con le sentenze della
Corte Cost. n. 5/1980 e n. 127/1983 si è escluso che -in
base alle leggi che hanno disposto la conformazione edilizia
del territorio e condizionato l’edificabilità dei suoli al
rilascio
di concessione- lo ius aedificandi inerisca in via
immediata
al diritto di proprietà, potendo l’edificabilità delle aree
essere stabilita solo con provvedimento della P.A.
L’istituto della concessione edilizia, introdotto con la L.
n.
10/1977, non ha però scisso lo jus aedificandi dal diritto
di
proprietà, limitandosi a stabilire i limiti all’esercizio di
quel
diritto, in relazione alla funzione sociale della proprietà
e
nel rispetto del parametro costituzionale. L’imposizione di
un contributo al proprietario, da corrispondere al Comune,
s’inquadra nell’adempimento di doveri inderogabili di
solidarietà
economica e sociale e politica, sicché la partecipazione
agli oneri di urbanizzazione non è illegittima se si
mantiene nei limiti della ragionevolezza.
Per i suoli destinati all’edilizia residenziale privata,
l’edificazione
avviene, per lo più, su domanda del proprietario dell’area
il quale, alle condizioni di legge, ha diritto ad ottenere
il titolo edificatorio: infatti il titolo legittimante per
il rilascio
della concessione edilizia (L. n. 77 del 2010, art. 4) e ora
del permesso di costruire (T.U. n. 380 del 2001, art. 11) è
anzitutto la proprietà.
Ma il diritto di costruire non trova fonte nel provvedimento
amministrativo che si limita a verificare i presupposti per
l’esercizio del diritto secondo quanto prescritto dalle
norme
di legge e dagli strumenti urbanistici. Né a difforme
conclusione
può portare l’art. 23, L. n. 1150/1942 in tema di comparto
edificatorio, previsto dall’art. 870 c.c., che è un mezzo
di attuazione del piano regolatore particolareggiato e
rende possibile l’edificazione privata attraverso la
formazione
di consorzi tra proprietari rappresentanti almeno i tre
quarti del valore dell’intero comparto, nonché
l’espropriazione
delle aree appartenenti ai proprietari non aderenti:
essa, all’art. 28 prevede, in caso di mancanza di piano
particolareggiato,
l’autorizzazione ad edificare da parte del Comune.
La ricostruzione della disciplina urbanistica relativa al
diritto
di costruire non è contraddetta dalle successive norme
che, in effetti, hanno preso in considerazione la categoria
dei diritti edificatori e la possibilità di trasferimento
della
capacità edificatoria in modo autonomo dal diritto di
proprietà.
D’altro canto, osserva la S.C., la L. n. 308/2004 (art. 1,
comma 21) prevede che qualora, per effetto di vincoli
sopravvenuti
e diversi da quelli di natura urbanistica, non sia
più esercitabile il diritto di edificare che sia stato già
assentito,
è facoltà del titolare del diritto chiedere di esercitare lo
stesso su altra area del territorio comunale, di cui abbia
acquisito
la disponibilità a fini edificatori. Il successivo comma
22 dispone che in caso d’accoglimento dell’istanza in
tal senso presentata, la traslazione del diritto di
edificale su
area diversa comporta la contestuale cessione al Comune,
a titolo gratuito, dell’area interessata dal vincolo
sopravvenuto.
In effetti, come previsto anche dalla L. n. 244/2007 (art.
1,
comma 258) si tratta di norme dettate per attuare la c.d.
perequazione urbanistica -secondo modalità previste
dall’Amministrazione
negli strumenti urbanistici- consentendo
alla P.A. di ottenere la cessione gratuita di area destinata
alla realizzazione di interessi pubblici senza procedere a
espropriazione ma dando in corrispettivo la traslazione dei
diritti edificatori su altra area di proprietà del cedente.
Ma, conclude la Suprema Corte, nella specie non è decisivo
il riferimento ai diritti edificatori, posto che il
proprietario
dell’area in oggetto (la ricorrente, che ha subito
l’espropriazione
immobiliare a seguito di un procedimento esecutivo)
non era rimasto titolare dei diritti edificatori ossia della
capacità
edificatoria del terreno nel momento in cui la proprietà
dello stesso era stata trasferita, atteso che in assenza
di una diversa regolamentazione la volumetria edificabile
era trasferita con il diritto di proprietà di cui essa
rappresentava
una componente ex art. 832 c.c.: in altri termini,
con l’atto d’aggiudicazione è stata trasferita la piena
proprietà
del bene pignorato secondo quanto previsto dall’art.
2912 c.c.
Sotto un ultimo profilo, la Corte di Legittimità respinge il
terzo motivo di ricorso, osservando che l’assunzione, da
parte del proprietario del fondo, degli oneri relativi a
opere
di urbanizzazione costituisce un’obbligazione propter rem,
dovendo dette opere essere eseguite da coloro che sono
proprietari al momento del rilascio della concessione
edilizia,
i quali ben possono essere soggetti diversi da quelli
che stipularono la convenzione, per avere da questi
acquistato
una parte del suolo su cui far sorgere singoli (o gruppi di)
lotti (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 12.11.2015 n. 23130
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
PER ESEGUIRE CON S.C.I.A. GLI INTERVENTI DI RISTRUTTURAZIONE
EDILIZIA È NECESSARIO ACCERTARNE LA PREESISTENTE CONSISTENZA.
L’utilizzazione del termine
“consistenza”, da parte del legislatore, nel d.P.R. n. 380
del 2001, art. 3, comma 1, lett. d) inevitabilmente include
tutte le caratteristiche essenziali dell’edificio
preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva,
etc.); ne consegue che, in mancanza anche di uno solo di
tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva,
dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto
dalla norma, dovendosi, altresì, aggiungere che detta
verifica non può essere rimessa ad apprezzamenti meramente
soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su
dati parziali, ma deve, invece, basarsi su dati certi,
completi ed obiettivamente apprezzabili.
La S.P. si sofferma, con la sentenza in esame, sulla
questione,
oggetto di attenzione nella legislazione più recente,
della realizzabilità in forma semplificata di interventi
edilizi
di ristrutturazione edilizia. La vicenda processuale segue
alla
sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva confermato
la responsabilità penale di M.V., C.G. e P.O. in ordine
al reato di cui all’art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001,
art.
44, lett. c) per avere, in concorso tra loro, il C. quale
proprietario
committente, il P. quale direttore dei lavori ed il
M. quale responsabile della ditta esecutrice dei lavori,
realizzato,
su area soggetta a vincolo paesaggistico, opere
edilizie in variazione essenziale rispetto a quanto
assentito
con il permesso di costruire n. 42/2010, rilasciato dal
Comune,
consistenti in un vano delle dimensioni esterne di
m. 3,50 x 2,30 in conci di tufo, privo di copertura,
addossato
lungo il prospetto sud a due ambienti preesistenti e
ricostruiti.
Contro la sentenza proponevano ricorso per cassazione
gli imputati, in particolare sostenendo che i giudici
del merito avrebbero erroneamente ritenuto l’illegittimità
del permesso di costruire e quella del successivo permesso
in sanatoria in considerazione dell’impossibilità
dell’intervento
su un manufatto consistente in rudere e rilevando
che, avuto riguardo alle modifiche apportate al testo unico
dell’edilizia ad opera del D.L. n. 69 del 2013, sussistevano
i
presupposti per la realizzazione dell’intervento, essendosi
dimostrata, nel corso del giudizio di merito, la possibilità
di
individuare la preesistente consistenza dell’edificio.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, hanno rigettato il ricorso, in particolare precisando che
con
gli interventi modificativi apportati dal citato D.L. n. 69
del
2013 (noto anche come “decreto del fare”), si è notevolmente
ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando
l’obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili
vincolati
ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli
edifici
crollati o demoliti.
Il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 3,
comma
1, lett. d), nella formulazione attualmente vigente, così
definisce gli interventi di ristrutturazione: “interventi
rivolti
a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico
di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi
comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni
elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la
modifica
e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito
degli interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi
anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione
con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla
normativa
antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici,
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del D.Lgs. 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli
interventi
di demolizione e ricostruzione e gli interventi di
ripristino
di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima
sagoma dell’edificio preesistente”.
A tale proposito, la giurisprudenza della Cassazione ha
avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora
vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia
consistenti
nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di
essi,
eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi
assoggettati
a permesso di costruire se non è possibile accertare
la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora
ricadano
in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l’obbligo
di rispettare anche la precedente sagoma dell’edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della
s.c.i.a. se si tratta di opere che non rientrano in zona
paesaggisticamente
vincolata e rispettano la preesistente volumetria,
anche quando implicano una modifica della sagoma
dell’edificio (Cass. Pen., Sez. III, 03.06.2014, n.
40342, Q., in CED, n. 260551).
Va richiamata l’attenzione
anche sul fatto che detti interventi impongono, quale
imprescindibile
condizione, che sia possibile accertare la
preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è
crollato
e che tale accertamento dovrà essere effettuato con il
massimo rigore e dovrà necessariamente fondarsi su dati
certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica,
cartografie
etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile
la consistenza del manufatto preesistente (Cass.
Pen., Sez. III, 22.01.2014, n. 5912, M. e altri, in CED,
n. 258597; Id., Sez. III, 25.062015, n. 26713, P.,
inedita).
Da qui, dunque, il rigetto del ricorso, posto che
correttamente
i giudici del merito avevano stigmatizzato la singolarità
del procedimento autorizzatorio che aveva riguardato
l’intervento edilizio realizzato dai ricorrenti laddove, in
presenza
di un manufatto ormai in condizioni di rudere, si era,
con unico provvedimento, autorizzato il ripristino e,
successivamente, la ristrutturazione (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.11.2015 n. 45147
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
ESPROPRIAZIONE:
EFFETTI DELLA SOPRAVVENUTA REVOCA DELLA DICHIARAZIONE DI
P.U. SULL’INDENNITÀ CORRISPOSTA E SUL BENE OCCUPATO.
In caso di revoca della dichiarazione di
p.u. dopo la percezione dell’indennità di esproprio da parte
del privato e sia avvenuta la presa di possesso del bene da
parte dell’espropriante, ogni successivo atto che a ciò si
ricollega diventa inefficace in forza del suddetto
provvedimento terminativo della procedura espropriativa,
sicché la somma anticipata all’espropriando resta priva di
causa e ingiustificata, al pari della protratta occupazione
del bene da parte del soggetto espropriante, divenuta priva
di causa, con l’effetto che entrambi sono obbligati alle
rispettive restituzioni, secondo le regole ordinarie.
Il Ministero della Difesa convenne avanti il Tribunale
civile alcuni
privati per sentir dichiarare l’inefficacia dell’accordo
stipulato
con il loro dante causa, con cui era stata concordata
e corrisposta un’indennità d’esproprio per alcuni terreni e,
per l’effetto, sentir condannare i convenuti alla
restituzione
della somma da essi percetta in attuazione del predetto
accordo.
Di questi terreni era stata, a suo tempo, ordinata
l’occupazione
d’urgenza al fine di realizzare l’ampliamento di un
aeroporto nel quale era prevista l’installazione di una base
NATO: opera dichiarata di pubblica utilità con d.P.R. n.
27/1989. Nel prosieguo, gli organi della Nato annullarono il
progetto sicché il Ministero ordinò la cessazione delle
attività
espropriative, che non si erano concluse, non essendo stato
emesso il decreto di esproprio, e, con d.P.R. n. 817/1993 fu
revocata la dichiarazione di p.u. per ragioni di interesse
pubblico.
In ragione di questo, venne intimato ai proprietari di
rientrare in possesso dei beni e di restituire l’indennità
percepita,
così rimasta priva di giustificazione causale.
Sulla scorta di tali premesse fattuali, il Tribunale
dichiarò l’inefficacia
dell’accordo sull’indennità d’esproprio; condannando
i privati a restituire l’indennità maggiorata d’interessi
legali dal giorno della domanda giudiziale; ordinò alla P.A.
il rilascio dei terreni e condannò il Ministero a pagare
alcune
somme a titolo risarcitorio.
Il gravame del Ministero fu parzialmente accolto dalla Corte
d’appello. Per quanto qui rilevi, la Corte rigettò
l’eccezione di
difetto di giurisdizione ordinaria sollevata dai privati;
qualificò
la pattuizione originaria come un accordo bonario sul
quantum
dell’indennità di esproprio (e non una cessione volontaria)
avente efficacia esclusivamente endo-procedimentale e
perciò inidoneo a produrre effetti traslativi della
proprietà del
bene e a far sorgere nei privati il diritto all’emissione
del decreto
di esproprio, con la conseguenza che il medesimo accordo
era diventato inefficace poiché il procedimento ablativo
non era concluso ed erano sorti a carico delle parti
reciproci
obblighi restitutori.
La Corte, così determinò le somme
dovute ai privati a titolo d’indennità di occupazione
legittima
e di risarcimento dei danni recati ai terreni e a un
fabbricato
nel periodo dall’immissione in possesso alla data di
cessazione
degli effetti della dichiarazione di p.u., nonché a titolo
di risarcimento dei danni per il successivo periodo in cui
il
Ministero aveva trattenuto i beni senza titolo, avendo
intimato
ai privati di riprenderli solo in seguito, con offerta
reale. Di
contro, per il periodo successivo, ad avviso della Corte
territoriale
i privati non avevano diritto a risarcimenti, avendo
illegittimamente
resistito alla richiesta di rientrare nel possesso
dei beni ed essendo venuta meno l’imputabilità al Ministero
dell’inadempimento all’obbligo restitutorio.
La sentenza di merito è oggetto di gravame da parte dei
privati, al quale resiste il Ministero proponendo a sua
volta
ricorso incidentale.
Il Supremo collegio respinge entrambi i ricorsi, così
confermando
la statuizione resa al definitivo grado di merito.
In disparte i motivi dichiarati inammissibili, la sentenza
afferma
-in merito agli interessi oggetto di domanda- che
qualora sia sopravvenuta la revoca della dichiarazione di
pubblica utilità dopo la percezione dell’indennità di
esproprio
da parte del proprietario espropriando per effetto di un
“accordo amichevole” e sia avvenuta la presa di possesso
del bene da parte dell’espropriante (in virtù di occupazione
d’urgenza), ogni successivo atto che a ciò si ricollega
diventa
inefficace in forza del suddetto provvedimento terminativo
della procedura espropriativa. Per l’effetto, la somma
anticipata all’espropriando diventa priva di causa e
ingiustificata
al pari della protrazione dell’occupazione del
bene da parte del soggetto espropriante (divenuta priva di
causa) con l’effetto che entrambi sono obbligati alle
rispettive
restituzioni, secondo le regole ordinarie.
La restituzione della somma ricevuta dal privato a titolo
d’indennità di espropriazione è retta dalle regole ordinarie
sulla ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c.,
applicabile
anche nel caso di sopravvenienza della causa che
renda indebito il pagamento (Cass., Sez. Un., nn. 5624 e
14886/2009).
In ordine al parallelo aspetto della decorrenza di tali
interessi,
la S.C. qui afferma la necessità di superare un orientamento
(Cass. n. 4745/2005; n. 1581/2004; n.
13424/2015) dovendosi invece dare seguito all’indirizzo
(inaugurato da Cass. n. 7586/2011 e seguito incidentalmente
da Cass. n. 16657/2014) secondo il quale, in tema
di ripetizione d’indebito oggettivo, l’espressione “domanda”
di cui all’art. 2033 c.c. non va intesa come riferita
esclusivamente alla domanda giudiziale ma anche ad atti
stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai
sensi
dell’art. 1219 c.c., dovendosi considerare l’accipiens (in
buona fede) quale debitore e non come possessore, con
conseguente applicazione dei principi generali in materia di
obbligazioni e non di quelli inerenti la tutela del possesso
ex art. 1148 c.c. (Corte
di
Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 09.11.2015
n. 22852 -
Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
L’INCARICATO DELLA VENDITA DELL’IMMOBILE E TITOLARE DI UNA
PROCURA A VENDERE PUÒ ESSERE RITENUTO RESPONSABILE DEL REATO
EDILIZIO.
In tema di violazioni edilizie, ai fini
della consumazione dei reati in materia edilizia non è
necessario il diritto di proprietà o la titolarità di
diritti reali sull’immobile o sull’area di sedime, ciò
perché committenza o autori diretti delle opere abusive non
necessitano, in sede penale, di qualifiche formali o
situazioni giuridiche soggettive riconosciute in altri rami
dell’ordinamento e ad esse preesistenti.
Ne consegue che si
può essere committenti o autori materiali delle opere senza
essere proprietari del bene o senza avere con esso un
rapporto giuridicamente qualificato, trattandosi, del resto,
di fenomeno che il legislatore ben conosce e disciplina (artt.
936 e 937 c.c.), atteso che ciò che conta è la disponibilità
materiale del bene di proprietà altrui oggetto di
intervento.
La questione
giuridica oggetto di esame da parte della S.C.
verte, in particolare, su una questione invero abbastanza
inusuale in giurisprudenza, relativa alla responsabilità per
abusi edilizi di soggetto non proprietario dell’immobile.
La
vicenda processuale trae origine dalla impugnazione della
sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la
condanna per il reato continuato di cui all’art. 81 cpv. c.p.,
D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1, (capo
A) e art. 44, lett. c), (capo B) e d.P.R. 06.06.2001, n.
380, artt. 93, 94 e 95 (capo C), per la realizzazione, in
zona
sismica e sottoposta a vincolo paesaggistico, della chiusura
di un terrazzo mediante una struttura portante in ferro e
copertura di pannelli di lamierino coibentato, chiusa su
tutti
i lati con infissi e vetrate ad ante scorrevoli, senza
permesso
di costruire, senza l’autorizzazione dell’autorità preposta
al vincolo, senza darne preavviso scritto agli uffici
comunali
e senza autorizzazione della Regione.
Ricorrendo in
Cassazione,
l’imputato si doleva per l’affermazione della sua
responsabilità,
unicamente dedotta dal fatto che egli fosse
stato incaricato della vendita dell’immobile e titolare di
una
procura a vendere; in sostanza, l’imputato sosteneva che si
trattasse di un elemento indiziario sfornito delle
caratteristiche
di gravità, precisione e concordanza con altri elementi
di prova e che non poteva, pertanto, essere valutato alla
stregua di una prova piena, non essendo egli proprietario
dell’immobile, non vi abitava, la procura era stata
rilasciata
nel 2008, le opere abusive erano di recente fattura.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, osservando come fosse stato
obiettivamente
dimostrato come l’imputato fosse l’unico soggetto
ad avere la materiale detenzione del fabbricato, in forza
di una procura a vendere rimasta non eseguita dal lontano
2002, rilasciatagli dal proprietario residente negli USA e,
quindi, come tale, non in grado, per effetto della distanza
dai luoghi di interesse per il procedimento, di curare gli
adempimenti connessi alla gestione dell’immobile di sua
proprietà e persino le attività di committenza funzionali
alla
abusiva edificazione di un manufatto di non irrilevanti
proporzioni,
quale quello per cui è processo.
I Giudici avevano
poi sostenuto in modo netto che l’imputato aveva la
disponibilità
esclusiva dell’immobile in forza di una procura speciale
a vendere e, oltretutto, a fronte di un dato certo (la
disponibilità
dell’immobile da parte dell’imputato in base ad
un titolo esistente) non era compito dell’accusa dimostrare
un fatto negativo (l’assenza del proprietario), essendo
onere
della difesa provare il contrario (fatto positivo). Sulla
questione non constano precedenti in termini (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.10.2015 n. 43608
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
QUALI SONO GLI INDICI IN BASE AI QUALI VALUTARE L’ATTRIBUIBILITÀ
DEL REATO URBANISTICO AL PROPRIETARIO EXTRANEUS?
Ai fini della configurabilità della
responsabilità del proprietario del fondo sul quale risulti
essere stato realizzato un manufatto abusivo, gli indici da
prendere in considerazione, in via esemplificativa, sono i
seguenti:
a) il dato della piena disponibilità, giuridica e di fatto, del
suolo;
b) l’interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (in
applicazione del principio del “cui prodest”);
c) i rapporti di parentela o di affinità tra esecutore dell’opera
abusiva e proprietario; d) l’eventuale presenza “in loco” di
quest’ultimo;
d) l’espletamento di attività di materiale vigilanza
dell’esecuzione dei lavori;
e) l’eventuale presentazione di istanza di condono edilizio e di
permesso in sanatoria;
f) il regime patrimoniale dei coniugi;
g) la nomina di custode in caso di sequestro del cantiere e la
correlata accettazione dell’incarico.
Si tratta, in ultima analisi, di una valutazione globale di
tutte quelle situazioni e comportamenti, sia positivi che
negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della
colpa e prove di una compartecipazione, anche solo morale,
all’esecuzione delle opere da parte del proprietario.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui
esaminata,
del tema, abbastanza ricorrente nella giurisprudenza di
legittimità, della individuazione degli elementi “indiziari”
o
“probatori” che consentono di attribuire una responsabilità
per la realizzazione di un abuso edilizio al proprietario
non
committente.
La vicenda processuale che ha fornito
l’occasione
alla Corte per occuparsi della questione segue alla
sentenza di condanna, confermata anche in grado d’appello,
nei confronti di una donna, imputata dei reati di cui alla L. n.
47 del 1985, art. 20, lett. b); L. n. 1086 del 1971, artt.
13 e
14 e L. n. 64 del 1974, artt. 17 e 20 nonché del reato di
violazione
dei sigilli (art. 349 cpv. c.p.). Contro la sentenza la
stessa proponeva ricorso per cassazione, in particolare
dolendosi
dell’attribuibilità di tutti i reati e rilevandosi come, a
fronte di specifiche contestazioni da parte della difesa
circa
l’effettiva sua partecipazione alla commissione dei reati,
la
Corte d’Appello non aveva dato alcuna risposta limitandosi
al richiamo della sentenza di primo grado ed, in
particolare,
disattendendo la tesi della mera connivenza non punibile.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto sul punto il ricorso, in particolare osservando
che
anche il proprietario “estraneo” (privo, cioè, delle
qualifiche
soggettive specificate al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 29
riferito
al committente, al titolare del permesso di costruire ed al
direttore
dei lavori) può essere ritenuto responsabile del reato
edilizio, a condizione che risulti un suo contributo
soggettivo,
anche di tipo morale, all’altrui abusiva edificazione da
valutarsi
secondo le regole generali sul concorso di persone nel
reato.
I giudici di Piazza Cavour hanno, quindi, elencato i
richiamati
indici sulla cui base è possibile attribuire la
responsabilità
al non proprietario (v., nella giurisprudenza: Cass. pen.,
Sez. III, 08.10.2004, n. 216, F., in CED Cass., n.
230660;
Cass. pen., Sez. III, 12.04.2005, n. 21121, R., in CED
Cass., n. 231954; Cass. pen., Sez. III, 11.11.2014, n.
5204, L. ed altro, in CED Cass., n. 261522).
A tali criteri ermeneutici
si era attenuta la Corte d’appello che, oltre a richiamare
la sentenza di primo grado, aveva soprattutto, valorizzato
un dato oggettivo rappresentato dalla nomina dell’imputata a
custode del cantiere e della relativa accettazione
dell’incarico
in ben due occasioni (la prima volta all’atto
dell’apposizione
dei sigilli e la seconda volta dopo il sopralluogo che ne
aveva accertato la violazione) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 28.10.2015 n. 43378
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
LEGITTIMA LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DI UN CONSIGLIERE
COMUNALE PER DANNO ALL’IMMAGINE PATITO DAL COMUNE A SEGUITO
DELL’ABUSO D’UFFICIO DEL SINDACO.
È risarcibile il “danno all’immagine” ad
organi del Comune in un’amministrazione locale in cui la
gestione della cosa pubblica sia stata caratterizzata da
violazioni di norme penali.
La Corte di cassazione si occupa, nella sentenza qui
esaminata,
del tema, invero non molto diffuso nella giurisprudenza
di legittimità, della possibilità per i consiglieri comunali
di costituirsi
parte civile nel processo penale intentato nei confronti
di un amministratore locale per comportamenti illeciti
commessi nella gestione delle pratiche edilizie.
La vicenda
processuale che ha fornito l’occasione alla Corte per
occuparsi
della questione segue alla sentenza della Corte d’Appello
che aveva riformato la decisione emessa dal Tribunale
di Latina dichiarando non doversi procedere in ordine ai
reati
di cui ai capi A (art. 323 c.p., imputato F.), B (artt. 110
e 323
c.p., imputati CH. e C.), C (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380
del
2001, art. 44, lett. c), imputati F., C. e CH.) e D (art.
110 c.p.
e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181, imputati C. e CH.) della
rubrica
perché estinti per prescrizione, rideterminando la pena
per il residuo reato di cui al capo E (artt. 110 e 81 cpv
c.p.,
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 e D.Lgs. n. 42 del 2004,
art.
181, comma 1-bis imputati CH. e C.), rispetto al quale
confermava
l’ordine di demolizione e rimessione in pristino,
nonché condannando gli appellanti alla rifusione delle spese
del grado sostenute dalle parti civili costituite.
Le
condotte
contestate riguardavano la realizzazione di alcuni
interventi
edilizi in zona a destinazione agricola e soggetta a vincolo
paesaggistico, che si ritenevano realizzati in forza di
titoli abilitativi
rilasciati in spregio alla legge, configurandosi così anche
il delitto di abuso d’ufficio. Contro la sentenza,
proponevano
ricorso per cassazione gli amministratori locali, in
particolare
lamentando che la Corte d’Appello avrebbe omesso
di pronunciarsi circa la richiesta di declaratoria di
nullità dell’ordinanza
dibattimentale con la quale era stata ammessa la
costituzione di parte civile, la quale non indicava, così
come
la sentenza di primo grado, il nesso di causalità tra i
fatti
contestati ed il pregiudizio subito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha accolto sul punto il ricorso osservando come, in
relazione
alla questione concernente la costituzione di parte civile
dei consiglieri comunali di minoranza ed il riconosciuto
diritto
al risarcimento del danno nel giudizio di merito, in
generale
le condotte accertate in capo ad un sindaco sono
idonee a determinare un vulnus alla immagine dell’ente
locale,
avente una sua ricaduta anche sul consiglio comunale
e, di riflesso, sui singoli consiglieri, considerato che il
danno può manifestarsi, in alcuni suoi profili, anche
successivamente
alla consumazione del reato, nel momento
della divulgazione della notizia della sua realizzazione
(v., in
termini: Cass. pen., Sez. VI, n. 2963/05 del 04.10.2004,
A., in CED Cass., n. 231031).
Nella fattispecie in esame,
invece,
il Tribunale aveva osservato, ribadendo quanto già affermato
nell’ordinanza con la quale aveva ammesso la costituzione
di parte civile dei consiglieri comunali di minoranza,
denuncianti, che un danno all’immagine era ravvisabile
quale conseguenza delle illecite condotte degli imputati
nell’esercizio di poteri pubblici di amministrazione, tutela
e controllo dell’ordinato sviluppo del territorio e delle
sue risorse
paesaggistico-ambientali, aggravato dalla risonanza
mediatica di notizie amministrative che rappresentavano
l’amministrazione locale malamente gestita.
Tali
affermazioni
erano state ribadite dalla Corte d’appello, che aveva
affermato non la sussistenza della potenzialità di un danno,
bensì quella di un danno effettivo senza però fornire
adeguata
motivazione sulle ragioni di tale convincimento.
Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso per colmare detto
vuoto motivazionale (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.10.2015 n. 43102
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
IN PRESENZA DI INTERVENTI EDILIZI IN ZONA VINCOLATA È
INDIFFERENTE DISTINGUERE TRA INTERVENTI ESEGUITI IN
DIFFORMITÀ TOTALE O PARZIALE E QUELLI IN VARIAZIONE
ESSENZIALE.
In presenza di interventi edilizi in
zona paesaggisticamente vincolata, ai fini della loro
qualificazione giuridica è indifferente la distinzione tra
interventi eseguiti in difformità totale o parziale ovvero
in variazione essenziale, in quanto il d.P.R. 06.06.2001,
n. 380, art. 32, comma 3, prevede espressamente che tutti
gli interventi realizzati in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo abilitativo,
inclusi quelli eseguiti in parziale difformità, si
considerano come variazioni essenziali e, quindi, quali
difformità totali.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in esame attiene alla necessità o meno di distinguere, ai
fini
della qualificazione giuridica, tra le diverse tipologie di
interventi edilizi ove gli stessi siano eseguiti in zona
paesaggisticamente
vincolata.
La vicenda processuale trae origine
dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato
quella emessa dal tribunale con la quale gli imputati
erano stati condannati per il reato (capo a) previsto dal
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, comma 1, lett. c),
perché -il B. della sua qualità di committente dei lavori,
il
P. della sua qualità di direttore dei lavori e l’E.C. nella
sua
qualità di esecutore dei lavori- realizzavano presso un
immobile
alcune opere in difformità dal permesso di costruire
e su area sottoposta a vincolo ambientale (nella specie,
traslazione
della rampa carrabile ed arretramento del muro di
sostegno e diverso andamento dello stesso rispetto al muro
di fascia preesistente) nonché del reato (capo b) previsto
dal D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181, comma 1-bis),
perché, nelle qualità sopraindicate, eseguivano le predette
operazioni su beni immobili che per loro caratteristiche
paesaggistiche sono state dichiarate di notevole interesse
pubblico con D.M. 28.01.1949, in assenza di
autorizzazione
paesaggistica ambientale.
Contro la sentenza proponevano
ricorso per cassazione gli imputati, in particolare
sostenendo l’evidente travisamento del fatto compiuto dal
tribunale nella parte motiva della propria pronuncia nel
senso che gli stessi erano stati tratti a giudizio per
rispondere
del delitto previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181,
comma 1-bis, con riferimento alla creazione di due opere in
difformità rispetto al permesso di costruire su area
sottoposta
a vincolo ambientale (e più precisamente era stata loro
contestata la traslazione della rampa carrabile assentita e
l’arretramento del muro con diverso andamento dello stesso
rispetto al muro di fascia preesistente), laddove il
tribunale,
pur a fronte di tali chiare e dettagliate contestazioni,
aveva invece più volte posto l’accento, nella parte motiva
della propria pronuncia, sulla palese violazione della norma
di cui sopra con specifico riferimento alla presunta
realizzazione
di “un macroscopico vuoto strutturale sotto la rampa”
che aveva determinato, secondo le valutazioni del giudice
di prima istanza “un evidente e diverso impatto ambientale
(si vedano le fotografie) che doveva essere preventivamente
sottoposto al vaglio dell’autorità competente”.
A
fronte dell’argomentazione difensiva in forza della quale
l’intervento edilizio parzialmente difforme rispetto al
permesso
di costruire si era reso necessario a causa di un errore
di progettazione dell’opera, circostanza certamente
non volta a negare la difformità dalla stessa ma solo ed
unicamente a porre l’accento sulla inidoneità di tale
variazione
edilizio-costruttiva a ledere il bene giuridico tutelato
dalla norma contestata, ovverosia il paesaggio, la Corte
d’Appello aveva completamente stravolto tale deduzione
ripristinando
l’automatismo argomentativo fatto proprio dal
giudice di primo grado, ovverosia quello in forza del quale
per la configurabilità del reato fosse sufficiente ogni
variazione
rispetto al titolo edilizio.
La Cassazione, respingendo il ricorso degli imputati, ha
affermato
il principio di cui in massima, evidenziando come
la Corte d’Appello aveva correttamente osservato che -al
di là dalla realizzazione del “macroscopico vuoto
strutturale
sotto la rampa” in ordine al quale ha ritenuto configurabile
un parziale equivoco motivazionale da parte del primo
giudice- le contestazioni incorporate nel capo di imputazione
(che infatti non faceva cenno a vuoti strutturali) erano
state
riscontrate come effettivamente realizzate (peraltro anche
ammesse) e quindi correttamente addebitate agli imputati
sul fondamentale rilievo che le opere “difformi” investivano
immobili che, per le loro caratteristiche paesaggistiche,
erano stati dichiarati di notevole interesse pubblico, con
la
conseguenza che tutti gli interventi realizzati in zona
sottoposta
a vincolo paesaggistico eseguiti in difformità dal titolo
abilitativo, inclusi quelli eseguiti in parziale difformità,
dovevano considerarsi come variazioni essenziali e quindi
quali opere eseguite in difformità totale, attesa la natura
di
pericolo del reato contestato al capo b), per la
configurabilità
del quale non è necessario un effettivo pregiudizio per
l’ambiente.
Né l’errore progettuale autorizzava gli imputati
ad eseguire le opere difformi, dovendosi interrompere la
fase
esecutiva, depositare la richiesta di variante progettuale
e attendere determinazioni degli organi competenti sulla
tutela del territorio e del paesaggio.
La Corte d’Appello
aveva quindi ritenuto -in conformità, del resto, a quanto
sostenuto anche dal primo giudice- che i reati contestati
fossero integrati nei loro elementi costitutivi per il solo
fatto
della realizzazione delle opere difformi indicate nel capo
di
imputazione e che quindi non aveva alcun rilievo (e, per
tale
ragione, la Corte d’Appello aveva parlato di un parziale
equivoco motivazionale) l’ulteriore effetto, accennato dal
tribunale, che era conseguito dalle difformità contestate,
ossia la realizzazione di un macroscopico vuoto strutturale
sotto la rampa (in precedenza, in senso conforme al
principio
di cui in massima v.: Cass. Pen., Sez. III, 06.05.2014, n. 37169, L., in CED, n. 260181; Cass. Pen., Sez. III,
15.01.2014, n. 1486, P.M. in proc. A. e altri, in CED,
n. 258297; Cass. Pen., Sez. III, 17.02.2010, n. 16392, S. ed
altro, in CED n. 246960) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.10.2015 n. 42978
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA CASSAZIONE DELIMITA, DOPO IL C.D. DECRETO DEL FARE, LA
NOZIONE DI INTERVENTI DI RESTAURO E RISANAMENTO CONSERVATIVO.
Nel concetto di “interventi di restauro
o di risanamento conservativi” per i quali non occorre il
permesso di costruire, possono essere annoverate soltanto le
opere di recupero abitativo, che mantengono in essere le
preesistenti strutture, alle quali apportano o un
consolidamento o un rinnovo di elementi costitutivi, anche
attraverso l’inserimento di nuovi, occorrendo però, che
complessivamente siano rispettate tipologia, forma e
struttura dell’edificio medesimo.
La S.C. si sofferma, con la sentenza in esame, sul concetto
di “interventi di restauro o di risanamento conservativi”
per
i quali non occorre il permesso di costruire, affrontandola
dopo le modifiche apportate alla normativa urbanistica dal
c.d. decreto del fare.
La vicenda processuale segue alla
sentenza con la quale la Corte d’Appello aveva confermato
la pronuncia con la quale il tribunale aveva condannatogli
imputati per i reati di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p.,
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. b) e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e, segnatamente, per avere il primo,
quale proprietario committente, il secondo, quale geometra
progettista e direttore dei lavori, eseguito -in assenza di
permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica-
lavori
di ristrutturazione comportanti notevoli modifiche ed
ampliamento dell’immobile preesistente.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione il direttore dei lavori,
essendo nelle more deceduto il proprietario, in particolare
sostenendo che la sentenza era erronea laddove aveva
ritenuto
che gli interventi in questione, secondo la disciplina
urbanistica ed edilizia, fossero “estranei al concetto di
interventi
di restauro o di risanamento conservativo”.
La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, ricordando che per la disciplina
urbanistica
ed edilizia, ivi compresa quella di cui alla L. 21.12.2001, n. 443, art. 1, comma 6 e al d.P.R.
06.06.2001, n. 380, art. 3, comma 3, art. 1 e art. 10, comma 1,
(Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari
in materia edilizia d’ora in poi T.U.E.), integra l’ipotesi
di ristrutturazione
edilizia ai sensi della L. 05.08.1978, n.
457, art. 31, con conseguente necessità della concessione
(ora permesso di costruire) la realizzazione di un organismo
edilizio in parte diverso dal precedente, sull’ovvio rilievo
che non è subordinato al preventivo rilascio del
provvedimento
“concessorio” solo l’intervento che non comporti
aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei
prospetti o delle superfici.
Nel vigore della normativa
antecedente
il “c.d. decreto del fare” (L. 09.08.2013, n. 98)
erano menzionate anche le modifiche delle sagome,
espunte dall’ambito di operatività della norma (art. 10
T.U.E.), che elenca gli interventi subordinati al rilascio
del
permesso di costruire.
Secondo quanto emerso dal sopralluogo
e dalla consulenza all’uopo disposta dal pubblico ministero,
si accertava invece che gli interventi edilizi realizzati
consistevano: in rilevanti lavori di sbancamento di roccia,
con incremento dell’area di scavo ed ampliamento della
superficie e della volumetria del piano interrato,
originariamente
costituito da una sola piccola cantina, così trasformando
il vecchio immobile in una costruzione su due livelli,
con altezza complessiva superiore (m. 5,50 in luogo dei
precedenti 4,90); lavori di modifica del prospetto,
consistiti
in parziale chiusura della finestra centrale del prospetto
nord, aumento delle dimensioni di un’apertura del prospetto
sud, parziale apertura di finestre sul prospetto ovest e
realizzazione di una intercapedine di dimensioni
notevolmente
maggiori di quelle previste dal progetto (mq 60 in
luogo di mq 21), risolvendosi l’intervento, con tutta
evidenza,
in lavori del tutto estranei al concetto di “interventi di
restauro o di risanamento conservativi”.
In precedenza, nel
senso che la ristrutturazione edilizia, poiché non vincolata
al rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali
dell’edificio,
differisce sia dalla manutenzione straordinaria,
che non può comportare aumento della superficie utile o
del numero delle unità immobiliari, o, ancora, modifica
della
sagoma o mutamento della destinazione d’uso, sia dal
restauro e risanamento conservativo, che non può modificare
in modo sostanziale l’assetto edilizio preesistente e
consente soltanto variazioni d’uso “compatibili” con
l’edificio
conservato, v. Cass. Pen., Sez. III, 28.05.2010, n.
20350, M., in CED, n. 247178; Cass. Pen., Sez. III, 26.11.2014, n. 49221, Pmt
ed altro, in CED n. 261216) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.10.2015 n. 42963
- Urbanistica e appalti 2/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
C’È AGGRAVAMENTO DEL CARICO URBANISTICO ANCHE SE L’IMMOBILE
ULTIMATO E CONFORME ALLE DESTINAZIONI DI ZONA È
VOLUMETRICAMENTE CONSISTENTE.
L’incidenza sul carico urbanistico che
giustifica il sequestro preventivo di un manufatto ultimato
si configura anche nel caso in cui lo stesso, seppure
utilizzato in conformità alle destinazioni di zona, presenti
una consistenza volumetrica tale da determinare comunque un
incremento della esigenza di strutture e di opere collettive
correlate.
Altra decisione mensile in rassegna meritevole di
segnalazione
è quella con cui la Corte Suprema, sempre occupandosi
di una questione in tema di rapporti tra il sequestro
preventivo di un immobile ultimato e i presupposti di
configurabilità
del c.d. periculum in mora, si sofferma a specificare
quanto può ritenersi sussistente un aggravio del carico
urbanistico.
La vicenda processuale trae origine
dall’ordinanza
con cui il tribunale del riesame aveva rigettato l’appello,
presentato nell’interesse di B.A. ed V.A., avverso il
provvedimento con il quale il Giudice per le indagini
preliminari
aveva respinto la richiesta di revoca del sequestro
preventivo di un immobile, disposto in relazione ai reati di
a cui agli artt. 323 e 483 c.p., d.P.R. n. 380 del 2001,
art.
44, lett. c), e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181.
Contro
l’ordinanza
proponeva ricorso per cassazione l’indagato, in particolare
osservando che l’opera era ultimata e mancava
ogni aggravio del carico urbanistico, avuto riguardo alla
circostanza
che l’immobile aveva destinazione a deposito,
coincidente con quella assentibile nella zona.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha respinto il ricorso, in particolare osservando come fosse
priva di fondamento la tesi per la quale -premesso che la
natura del manufatto consistente in un deposito, edificio
compreso tra quelli ammessi in zona- non vi sarebbe alcuna
negativa incidenza sul carico urbanistico, perché detto
manufatto, benché eccedente la volumetria realizzabile,
avrebbe un impatto addirittura inferiore a quello
determinato
da un impianto di trasformazione di prodotti.
Ed invero,
il Tribunale aveva posto in evidenza, richiamando anche la
giurisprudenza di legittimità, che l’immobile in questione
era, per destinazione e cubatura, oltre che per la
collocazione
in area sottoposta a vincolo paesaggistico, negativamente
incidente sul carico urbanistico per le mutate esigenze
di opere ed infrastrutture determinate dal maggior
flusso di persone e merci. Detta conclusione, per gli
Ermellini,
risulta corretta.
Invero, deve rilevarsi come, anche a voler
considerare l’immobile sequestrato come pienamente
compatibile con la destinazione di zona, la realizzazione di
una volumetria che supera di oltre 1000 metri cubi, quella
assentibile comporterebbe necessariamente una incidenza
negativa sul carico urbanistico, atteso che, anche se il
manufatto
fosse utilizzato quale deposito per attività agricole, ne
risulterebbe notevolmente incrementata la capacità di
stoccaggio dei prodotti e la superficie utilizzabile, con
tutte
le conseguenze in termini di presenza umana, circolazione
di mezzi di trasporto, esigenze di infrastrutture che un
così
considerevole incremento volumetrico determinerebbe (in
precedenza, sulla nozione di carico urbanistico: Cass. pen.,
Sez. III, n. 36104 del 22.09.2011, P.M. in proc. A.,
in CED Cass., n. 251251; Cass. pen., Sez. III, n. 6599/12
del
24.11.2011, S., in CED Cass., n. 252016) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2015 n. 42717
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
IN QUALI CASI NON È NECESSARIA L’ATTUAZIONE DEL PIANO
PARTICOLAREGGIATO PER IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE?
Salva l’ipotesi di illegittimità dello
stesso piano regolatore, allorché un piano attuativo non sia
previsto come obbligatorio dallo strumento urbanistico
generale, la valutazione della necessità di esso è rimessa
all’ente territoriale, donde il giudice non può sindacare
l’operato dell’ente e ritenere necessario uno strumento
attuativo quando esso non sia ritenuto necessario dal
Comune.
Ne consegue che non è necessaria l’attuazione del piano
particolareggiato per il rilascio del permesso di costruire
nel caso in cui la zona sia sufficientemente urbanizzata ed
il Piano regolatore non richieda in maniera espressa ed
indefettibile la esistenza ed efficacia di detto piano.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sui rapporti tra piano regolatore e piano attuativo previsto
come non obbligatorio dallo strumento urbanistico,
delimitando
i poteri del giudice nell’esercitare il sindacato
sull’operato
dell’Amministrazione.
La vicenda processuale segue
alla ordinanza con cui il tribunale della libertà aveva
confermato
il decreto di sequestro preventivo emesso dal gip; il
vincolo era stato disposto su un vasto appezzamento di
terra allo scopo di impedire il protrarsi del delitto di
lottizzazione
abusiva [d.P.R. 06.06.2001, n. 380 art. 30 e art.
44, comma 1, lett. c)] o, comunque, l’aggravarsi delle
conseguenze
del reato ipotizzato.
Contro la ordinanza proponeva
ricorso per cassazione l’indagato, in particolare
denunciando
che il tribunale cautelare, pur ammettendo che
l’indagato aveva provveduto alla realizzazione delle
condotte
fognarie ed idriche a proprie spese, aveva affermato che
tali opere risultavano ad esclusivo servizio della singola
particella anziché dell’intero comparto edificatorio come
invece
dovrebbe essere per le opere di urbanizzazione primaria
propriamente dette.
Tali affermazioni, secondo l’indagato,
non erano affatto condivisibili e, oltre a infrangere le
specifiche norme previste dal testo unico dell’urbanistica,
inficiavano la motivazione circa le disposizioni contenute
nell’art. 62 norme tecniche attuazione del PRG del comune
di B. che rendono legittima la condotta lottizzatoria
contestata,
ammettendo gli interventi diretti dei privati in zona
classificata B3 dal PRG senza necessità di previa adozione
di piani attuativi.
La Cassazione ha accolto ricorso e, nell’affermare il
principio
di cui in massima, ha osservato come la norma ex art.
62 NTA non prevede, in siffatta zona, l’obbligo di un piano
di lottizzazione convenzionata ma soltanto riserva la
facoltà
discrezionale del consiglio comunale, senza alcuna
obbligatorietà,
di richiedere la predisposizione di un qualunque
“strumento attuativo”, facoltà che non sarebbe stata
esercitata
dal Comune di B. in relazione ai permessi a costruire
richiesti ed ottenuti dall’indagato, con la conseguenza che
in alcuna occasione è stato imposto il piano attuativo nei
casi in cui si è edificato nelle zone omogenee B3, tant’è
che, a breve distanza dal fabbricato sequestrato, come
documentato
dalla planimetria in atti, sorgono altri manufatti
in relazione ai quali non è stata contestata alcuna
lottizzazione
abusiva.
Peraltro, il piano regolatore non è stato
considerato
illegittimo e dunque l’intervento edilizio dell’indagato
sarebbe del tutto regolare e conforme allo strumento
urbanistico vigente. Sul punto, dal testo del provvedimento
impugnato, non risultava che il tribunale della libertà
avesse
assunto una precisa posizione sul punto, né evidenziato
se e come la questione sia stata affrontata e risolta dai
nuovi accertamenti tecnici disposti dal pubblico ministero
a confronto con quelli pure allegati dall’indagato alla
procedura
cautelare, con la conseguenza che sussisteva il lamentato
difetto assoluto di motivazione.
In precedenza, nel
senso di cui al principio affermato in massima v., Cass.
pen., Sez. III, n. 286 del 09.01.2004, P.M. in proc. A.
ed altro, in CED Cass., n. 226831) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2015 n. 42705
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA DEMOLIZIONE DELLE SCALE INTERNE CHE NON MODIFICANO LA
VOLUMETRIA O LA DESTINAZIONE D’USO È ATTIVITÀ DI
MANUTENZIONE STRAORDINARIA.
La demolizione delle scale interne che
interessino l’interno del fabbricato senza modificare la
volumetria o la destinazione d’uso costituisce attività di
manutenzione straordinaria e non è soggetta a p.d.c.; deve,
peraltro, tenersi conto del disposto del d.P.R. n. 380 del
2001, art. 22, come da ultimo novellato dal D.L. n. 133 del
2014, conv. con modd. in L. 11.11.2014, n. 164, che,
ai commi 1, 2 e 2-bis, individua gli interventi soggetti a
SCIA, tra i quali può rientrare anche quello oggetto di
esame.
La Corte Suprema si sofferma, con la sentenza in esame,
sulla questione della rilevanza della recente disciplina
dettata
dalla normativa emergenziale del 2014 in materia edilizia,
segnatamente, sugli interventi edilizi sottoposti a semplice
SCIA.
La vicenda processuale segue alla ordinanza
con la quale il Tribunale aveva rigettato l’istanza di
riesame
proposta nell’interesse di un’indagata avente ad oggetto
l’impugnazione del decreto di sequestro preventivo emesso
dal GIP di due immobili di sua proprietà, procedendosi per
il reato di cui all’art. 110 c.p., art. 44 T.U. Edilizia.
Contro
l’ordinanza proponeva ricorso per cassazione l’indagata, in
particolare sostenendo che, quand’anche si fosse trattato
di zona vincolata, la circostanza appariva irrilevante in
base
alla giurisprudenza di legittimità (in particolare, Cass. pen.,
Sez. III, n. 24236 del 24.06.2010, M. e altro, in CED
Cass., n. 247687), non rientrando l’intervento nelle
“varianti
leggere”, trattandosi di intervento eseguito all’interno
dell’immobile.
La Corte, nell’accogliere il ricorso, ha affermato il
principio
di cui in massima, ricordando che la circostanza della
presentazione della SCIA successiva al sopralluogo avente ad
oggetto la demolizione e ricostruzione della rampa di scale
non poteva dirsi irrilevante agli effetti del fumus; ed,
infatti,
osservano i Supremi Giudici, a parte che la demolizione
delle scale interne che interessino l’interno del fabbricato
senza modificare la volumetria o la destinazione d’uso
costituisce
attività di manutenzione straordinaria e non è soggetta
a p.d.c. (Cass. pen., Sez. III, n. 6957 del 16.06.1988, M., in CED Cass., n. 178589), doveva tenersi conto
del disposto del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, come da
ultimo
novellato dal D.L. n. 133 del 2014, conv. con mod. in
L. 11.11.2014, n. 164, che, ai commi 1, 2 e 2-bis,
individua
gli interventi soggetti a SCIA, tra i quali risulterebbe
rientrare anche quello oggetto di esame, in relazione al
quale poteva anche non discendere la configurabilità del fumus dell’ipotizzato reato, trovando applicazione l’art. 37
T.U. Edilizia che esclude l’applicazione delle sanzioni
penali
cui all’art. 44 T.U. edil. prevedendo solo l’irrogazione di
sanzioni pecuniarie amministrative.
Appariva quindi
assolutamente
necessario verificare non solo se la scala, unitamente
agli altri lavori denunciati con la SCIA rendesse comunque
legittima la procedura di SCIA seguita, ma anche
-circostanza rimasta non sufficiente chiarita- a quali dei
due manufatti la scala si riferisse (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2015 n. 42704
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
EDILIZIA PRIVATA:
LA MERA PROPOSIZIONE DI UN’ISTANZA DI SANATORIA NON COMPORTA
LA REVOCA E NEPPURE LA SOSPENSIONE DELL’ORDINE DI
DEMOLIZIONE.
La mera proposizione di un’istanza di
sanatoria non comporta la revoca e neppure la sospensione
dell’ordine di demolizione, laddove non sia prevedibile un
esito favorevole in tempi ragionevoli dell’istanza, con la
conseguenza che sia la presentazione della domanda di
sanatoria e sia il suo prevedibile e rapido esito positivo
costituiscono circostanze che devono essere quantomeno
allegate ed il relativo onere, quanto al sollecito esito
della domanda, incombe sull’interessato.
La Corte di cassazione torna a pronunciarsi, con la sentenza
in esame, su una ricorrente questione emergente nella prassi
giurisprudenziale di legittimità, riguardante la rilevanza
della
proposizione di un’istanza di sanatoria rispetto ad un
ordine
di demolizione impartito da una sentenza passata in
giudicato.
La vicenda processuale trae origine dall’ordinanza con cui
il giudice dell’esecuzione aveva rigettato la richiesta di
revoca
o sospensione dell’esecuzione dell’ordine di demolizione
delle
opere realizzate dalla ricorrente, condannata con sentenza
irrevocabile. Contro la sentenza proponeva ricorso per
cassazione
l’interessata, in particolare sostenendo che la revoca
dell’ordine di demolizione può essere disposta, oltre che
nel
caso in cui vi siano provvedimenti amministrativi o
giurisdizionali
incompatibili con la demolizione stessa, anche qualora
sia pendente un procedimento di sanatoria, in forza del
quale
può giustificarsi la sospensione dell’ingiunzione di
demolizione,
in vista del suo conseguimento.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima,
ha ricordato che, in tema di reati edilizi, il giudice
dell’esecuzione,
investito della richiesta di revoca o di sospensione
dell’ordine
di demolizione delle opere abusive di cui al d.P.R. n.
380 del 2001, art. 31, in conseguenza della presentazione di
una istanza di condono o sanatoria successiva al passaggio
in giudicato della sentenza di condanna, è tenuto a
esaminare
i possibili esiti ed i tempi di conclusione del procedimento
amministrativo e, in particolare: a) il prevedibile
risultato dell’istanza
e la sussistenza di eventuali cause ostative al suo
accoglimento; b) la durata necessaria per la definizione
della
procedura, che può determinare la sospensione
dell’esecuzione
solo nel caso di un suo rapido esaurimento (ex multis:
Cass. pen., Sez. III, n. 47263 del 25.09.2014, R., in
CED Cass., n. 261212).
È dunque pacifico, hanno concluso i
Supremi Giudici, che la mera proposizione di un’istanza di
sanatoria non comporta la revoca e neppure la sospensione
dell’ordine di demolizione, laddove non sia prevedibile un
esito favorevole in tempi ragionevoli dell’istanza, con la
conseguenza
che sia la presentazione della domanda di sanatoria
e sia il suo prevedibile e rapido esito positivo
costituiscono
circostanze che devono essere quantomeno allegate ed il
relativo onere quanto al sollecito esito della domanda
incombe sull’interessato (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.10.2015 n. 42702
- Urbanistica e appalti 1/2016). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RISARCIMENTO DEL DANNO AMBIENTALE, AZIONE CIVILE,
PRESCRIZIONE.
Rimborso delle spese per la rimessione in pristino e la
bonifica,
risarcimento del danno ambientale, medesimi termini
di prescrizione, danno ambientale, termine decennale
di prescrizione decorrente dalla condanna penale anche
solo generica.
Artt. 2947 e 2953 cod. civ.; art. 18, legge 08.07.1986,
n. 349
Con riferimento alla domanda di rimborso
delle spese
per la rimessione in pristino e la bonifica dei terreni
inquinati
e la domanda avente ad oggetto il risarcimento
del danno ambientale non è condivisibile il principio per
cui al medesimo illecito dovrebbero essere applicati termini
di prescrizione diversi.
Ciò posto, con riferimento
al diritto al risarcimento del danno ambientale, va
affermata
l'applicabilità del termine decennale di prescrizione
qualora sia stata emessa in sede penale condanna
anche solo generica del responsabile al risarcimento dei
danni in favore del danneggiato costituitosi parte civile;
termine che decorre dalla data in cui la sentenza di
condanna
sia divenuta irrevocabile.
Il Ministero dell'Ambiente conveniva in giudizio un’impresa
chiedendone la condanna al pagamento di una somma di
denaro quale rimborso delle spese di messa in sicurezza,
rimozione,
trasporto e smaltimento di materiali inquinanti,
oltre al danno per non avere potuto attingere alle falde
freatiche, a seguito di comportamenti imputabili ai
convenuti.
All’esito della fase di merito, la controversia approdava
in Cassazione, alla quale l’impresa ricorrente esponeva
quanto segue:
1. la domanda di rimborso delle spese per la rimessione in
pristino e la bonifica dei terreni inquinati è domanda
diversa
ed autonoma rispetto a quella avente ad oggetto il
risarcimento
del danno ambientale, con la conseguenza che,
per la domanda relativa al rimborso delle spese, il termine
di prescrizione non può farsi decorrere del passaggio in
giudicato della sentenza penale di appello (nella specie il
giudice penale aveva emesso condanna per danno ambientale,
senza disporre in ordine al rimborso delle spese di
ripristino);
2. il diritto al risarcimento del danno ambientale è
soggetto
al termine di prescrizione di cinque anni (e pertanto, pur
calcolando la decorrenza del termine dalla data del
passaggio
in giudicato della sentenza penale, la domanda andava
nella specie dichiarata tardiva).
La Suprema Corte respinge il ricorso.
Quanto al primo motivo di ricorso, la Corte non ritiene
condivisibile
il principio per cui al medesimo illecito dovrebbero
essere applicati termini di prescrizione diversi in
relazione
alla natura dei danni che ne sono conseguiti.
Difatti, spiegano i Giudici di legittimità in termini
generali,
“il termine di prescrizione si riferisce alla fattispecie
illecita,
non ai relativi effetti, che possono essere i più
disparati”,
con la conseguenza che “una volta accertato l'illecito, sia
le spese di ripristino del bene danneggiato, sia i danni
conseguenti
al deprezzamento, o all'impossibilità di utilizzazione
o di commercializzazione del bene stesso, sia ogni altra
conseguenza dannosa, costituiscono voci risarcitorie
suscettibili
di essere fatte valere in giudizio e soggette alla
medesima disciplina, soprattutto per quanto concerne i
termini
di prescrizione”.
Con particolare riferimento, poi, alla disciplina dei danni
ambientali, la legge 08.07.1986, n. 349, art. 18 non
dispone
alcunché di diverso dai principi sopra riportati, sancendo
invece espressamente, in piena conformità con i
principi generali in tema di responsabilità civile, che il
responsabile
dell'illecito è tenuto a risarcire tutti i danni arrecati,
sia per equivalente in denaro (in base ai principi di cui
agli artt. 2056, 1223, 1226 cod. civ. e ss.), sia anche in
forma
specifica (ex art. 2058 cod. civ.).
Quanto al secondo motivo di ricorso, la Cassazione conferma
l'applicabilità anche all'illecito civile del termine
decennale
di prescrizione, ai sensi dell’art. 2953 cod. civ., qualora
sia stata emessa in sede penale condanna anche solo generica
del responsabile al risarcimento dei danni in favore
del danneggiato costituitosi parte civile; termine che
decorre
dalla data in cui la sentenza di condanna sia divenuta
irrevocabile.
Difatti, in conformità con l’insegnamento della
giurisprudenza
di legittimità (Cassazione civile n. 8154/2003, Cassazione
civile n. 4054/2009 e Cassazione civile n. 6070/2012),
va osservato che “la pronuncia di condanna generica, pur
difettando dell'attitudine all'esecuzione forzata,
costituisce
una statuizione autonoma contenente l'accertamento
dell'obbligo
risarcitorio, strumentale rispetto alla successiva
determinazione del quantum" (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
07.04.2015 n. 6901
- Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: IMMISSIONI RUMOROSE PROVENIENTI DA PARCO
COMUNALE, GIURISDIZIONE.
Immissioni rumorose provenienti da una struttura gestita
da una società in convenzione con il comune, tutela dei
diritti soggettivi lesi, giurisdizione del giudice
ordinario.
Artt. 844 e 2043 cod. civ.; art. 133, comma 1, lett. r) e s),
D.Lgs. n. 104/2010
La domanda volta ad ottenere, ex art.
844 cod. civ., la
cessazione delle immissioni provenienti da una struttura
gestita da una società in convenzione con il comune,
nonché il risarcimento dei danni subiti ex art. 2043 cod.
civ., rientra nella giurisdizione del giudice ordinario;
rientrano invece nella giurisdizione amministrativa soltanto
le controversie che hanno ad oggetto, in concreto,
la valutazione di legittimità di provvedimenti
amministrativi
che siano espressione di pubblici poteri.
Alcuni proprietari di immobili destinati ad abitazione
convenivano
innanzi al Tribunale una Società per ottenere, ex art.
844 cod. civ., la cessazione delle immissioni acustiche
provenienti dal Parco gestito da detta Società, in regime di
convenzione con il Comune.
Il tribunale adito, accogliendo un'eccezione del Comune,
dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario
sul
rilievo che la domanda comportava una valutazione, sia pure
incidentale, delle scelte operate dal Comune nella gestione
del proprio territorio e nell'organizzazione dei pubblici
servizi.
In particolare, il Tribunale esponeva la seguente tesi:
- gli attori hanno svolto "un'azione reale", con la quale
hanno
chiesto la cessazione di ogni attività e un'azione personale
per il risarcimento dei danni arrecati dalle immissioni
rumorose;
- i danni lamentati deriverebbero dalle concrete modalità di
gestione del servizio e dall'atteggiamento del Comune che
rifiutava di intervenire perché le attività svolte erano
state
autorizzate;
- le parti convenute avevano dato vita ad una convenzione
per la gestione del parco finalizzata alla socializzazione
dei
giovani adolescenti;
- la natura del procedimento, il carattere pubblico degli
interessi
coinvolti, le scelte discrezionali operate dalla P.A., il
ricorso a strumenti anche autoritativi e l'incidenza del
progetto
sul territorio riconducono la controversia, a norma
dell’art. 34, D.Lgs. n. 80 del 1998, alla giurisdizione
esclusiva
del giudice amministrativo.
La causa veniva riassunta dinnanzi al TAR il quale sollevava
d'ufficio regolamento di giurisdizione innanzi alla Corte di
Cassazione, ritenendo, diversamente da quanto sostenuto
dal Tribunale, che la stessa spettasse al giudice ordinario.
La Suprema Corte dichiara la carenza di giurisdizione del
giudice amministrativo, rientrando la causa in quella del
giudice ordinario.
I Giudici di legittimità osservano che va applicato il
principio
(si veda al riguardo Cassazione civile, sez. un., n.
4614/2011) secondo cui ai fini del riparto della
giurisdizione
tra giudice ordinario e giudice amministrativo rientrano
nella
giurisdizione amministrativa soltanto le controversie che
abbiano ad oggetto, in concreto, la valutazione di
legittimità
di provvedimenti amministrativi che siano espressione di
pubblici poteri.
Ciò considerato, nel caso di specie, la Cassazione rileva
che:
- che le domande proposte dai cittadini proprietari degli
immobili
vicini al parco in questione non hanno di mira la
legittimità
dei provvedimenti con i quali è stata concessa in
uso alla convenuta la gestione delle strutture poste
all'interno
del Parco, né le scelte amministrative sull'uso del
territorio
o l'illegittimo esercizio di poteri autoritativi;
- gli attori, di contro, hanno chiaramente lamentato gli
effetti
lesivi delle modalità di esercizio delle attività
(autorizzate)
svolte all'interno del parco, dolendosi, in particolare,
dei danni arrecati da immissioni intollerabili connesse
all'uso
degli impianti ivi esistenti;
- in particolare, gli attori hanno chiesto ex artt. 844 e
2043
cod. civ. l'ordine di cessazione dell'attività lesiva nonché
il
risarcimento dei danni.
Da ciò, osserva la Cassazione, discende la carenza di
giurisdizione
del giudice amministrativo, in quanto detta domanda
non investe scelte ed atti autoritativi
dell'amministrazione,
ma un'attività soggetta al rispetto del principio
del neminem laedere (si veda al riguardo Cassazione civile,
sez. un. n. 20571/2013): la domanda attorea è volta alla
sola
tutela dei diritti soggettivi lesi dalle immissioni.
Da ultimo, la Cassazione precisa che anche il codice del
processo amministrativo [art. 133, comma 1, lett. r) e s)],
laddove stabilisce la giurisdizione esclusiva in materia di
esercizio di industrie insalubri o pericolose o danno
all'ambiente,
presuppone sempre che l’azione abbia “ad oggetto
i provvedimenti relativi alla disciplina delle relative
attività e
non le conseguenze della errata o illecita esplicazione
delle
attività esecutive”.
Pertanto, va ribadito che “l'inosservanza da parte della
P.A.
delle regole tecniche o dei canoni di diligenza e prudenza
nella gestione dei propri beni può essere denunciata dal
privato davanti al giudice ordinario non solo per conseguire
la condanna della P.A. al risarcimento dei danni, ma anche
per ottenerne la condanna ad un facere" (si veda al riguardo
Cassazione civile, sez. un., n. 22116/2014 e anche
Cassazione
civile n. 67/2014) (Corte di Cassazione,
Sezz. un. civili,
ordinanza 13.02.2015 n. 2886
- Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: DEROGA AL REGIME ORDINARIO.
Rifiuti - Terre e rocce da scavo - Deroga al regime
ordinario
- Onere probatorio
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Quella delle terre e rocce da scavo è
una disciplina che
prevede l'applicazione di un diverso regime gestionale
in condizioni di favore, con la conseguenza che l'onere
di dimostrare l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni
di legge incombe su colui che l'invoca.
Nella fattispecie, la condotta contestata a M., T., G. e C.
consisteva del deposito incontrollato, su terreno di
proprietà
comunale, di rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi
(terre e rocce, CER 170504 e materiale di risulta contenente
amianto, CER 170605) provenienti dalla bonifica di una
vecchia fornace ubicata ad alcuni chilometri di distanza: in
particolare, il M. aveva effettuato materialmente il
deposito
su incarico del Te., amministratore della A.A. s.r.l.,
della quale era dipendente, ed il G. su incarico del C.,
titolare
dell'omonima impresa.
Avverso la pronuncia della Corte di appello, gli imputati
proponevano separati ricorsi per cassazione. Il M. deduceva
la violazione di legge rilevando che l'art. 256, comma 2,
D.Lgs. n. 152/2006 punisce il reato di abbandono di rifiuti
in quanto commesso da titolari di imprese e di enti, mentre
egli era un mero dipendente della società amministrata dal
coimputato, sicché i giudici di merito avrebbero dovuto
escludere la sua responsabilità. Il T. formulava censure di
contenuto identico a quella ora riportata, mentre il G. e il
C.
deducevano che, avuto riguardo alla natura del materiale
scaricato, era applicabile l'art. 186 risultando, dalle
dichiarazioni
testimoniali del responsabile dell'Ufficio Tecnico Comunale,
che le terre e rocce dovevano essere depositate
solo temporaneamente per poi in cantiere».
I ricorsi sono stati dichiarati inammissibili.
Quanto al motivo di ricorso del M. (il non rivestire la
qualifica
di titolare di impresa o responsabile di ente, che sola
comporta l'applicazione della sanzione penale), la Corte ha
osservato che, per ciò che riguarda il dipendente, questi
risponde
del reato quando abbia causato l'evento o abbia
contribuito alla commissione della condotta stessa. Nel caso
in esame, il M. aveva materialmente effettuato le condotte
di abbandono di rifiuti su incarico del coimputato T.,
suo datore di lavoro e titolare dell'impresa dalla quale
egli
dipendeva e pertanto l'affermazione di responsabilità era
stata correttamente affermata.
Quanto all’applicabilità della disciplina derogatoria
prevista
per la gestione delle terre e rocce da scavo, la Corte ha
osservato
che la disciplina vigente all'epoca dei fatti per cui è
processo prevedeva che le terre e rocce da scavo, anche di
gallerie, potessero essere utilizzate per reinterri,
riempimenti,
rimodellazioni e rilevati a determinate condizioni; in
mancanza anche di una sola di tali condizioni, erano
applicabili
le disposizioni generali sulla gestione dei rifiuti.
Come emerge chiaramente dalle disposizioni in materia,
quella delle terre e rocce da scavo è una disciplina che
prevede
l'applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni
di favore, con la conseguenza che l'onere di dimostrare
l'effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge
incombe comunque su colui che l'invoca.
La Corte ha quindi osservato che era stato fatto buon uso
del principio sopra richiamato, ritenendo non dimostrata la
sussistenza di tutte le condizioni di legge per
l'applicazione
dell'art. 186; peraltro, diversamente da quanto affermato
dai ricorrenti, la sussistenza delle condizioni di
applicabilità
della disciplina sulle terre e rocce da scavo non poteva
certo
ritenersi dimostrata dalle dichiarazioni di un teste e dal
fatto che il materiale depositato venisse definito
vegetale»,
in quanto la normativa all'epoca vigente richiedeva la
coesistenza
di varie e complesse condizioni che, nella fattispecie,
avuto riguardo alla ricostruzione dei fatti effettuata dai
giudici del merito, non risultavano neppure astrattamente
ipotizzabili (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
04.02.2015 n. 5178
- Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SCARICO REFLUI INDUSTRIALI IN FOGNATURA.
Acque - Reflui derivanti da attività di lavorazione marmi -
Scarico in fognatura - Necessità dell’autorizzazione.
Artt. 124 e 137, D.Lgs. n. 152/2006
Deve munirsi di autorizzazione la
società, esercente l'attività
di lavorazione di marmi, che voglia effettuare in
fognatura lo scarico dei reflui derivanti dal processo di
lavorazione contenenti residui polverosi del marmo.
Il Tribunale di Varese dichiarava C.R. responsabile dei
reati
di cui agli artt. 137, comma 1, in relazione all'art. 124
D.Lgs. n. 152/2006 perché in qualità di amministratore unico
dell'omonima società, esercente l'attività di lavorazione
di marmi, effettuava recapito in fognatura di acque reflue
derivanti dal processo di lavorazione contenenti residui
polverosi
del marmo senza la prescritta autorizzazione.
Il giudice fondava la responsabilità del soggetto sulla base
di due sopralluoghi effettuati rispettivamente dall'ARPA e
dall'Ufficio tecnico del Comune: durante il primo
sopralluogo,
si era accertato che le acque reflue provenienti dalla
lavorazione
del marmo unitamente a quelle domestiche venivano
riversate nella fognatura comunale senza alcun preventivo
trattamento; che nel cortile antistante la ditta si trovava
un impianto di decantazione non funzionante perché
non collegato al ciclo aziendale né allacciato alle utenze
elettriche ed idrauliche; che sui terreni antistanti
l'azienda
erano depositate ingenti quantità di marmi e di rifiuti non
pericolosi derivanti dalle lavorazioni aziendali quali pezzi
di
marmo, materiali lapidei ed altri scarti di lavorazione,
mentre
i rifiuti inerti e le polveri di marmo, invece di essere
smaltiti a norma di legge, venivano impiegati come materiale
di riempimento e livellamento di limitrofe aeree boschive,
alcune delle quali, peraltro, neppure di proprietà del
C.
Durante il secondo sopralluogo, si era accertato che
nell'area
di pertinenza dell'edificio adibito alla lavorazione dei
marmi era presente un macchinario per il taglio di blocchi
di pietra senza dispositivi per la raccolta delle acque del
processo che venivano recapitate in una vasca di raccolta
e deposito dei fanghi allacciata alla fognatura comunale;
che sui terreni antistanti la ditta, alcuni di proprietà di
terzi,
continuavano ad essere presenti lastre e blocchi di pietra e
di marmo unitamente a scarti dell'attività di lavorazione
del
marmo ed a residui di attività edilizia come, tra l'altro,
dei
sanitari; che non sussisteva, agli atti del Comune di
Cuveglio,
alcuna richiesta o autorizzazione al recapito degli scarichi
della ditta nella fognatura comunale, essendo stato
rilasciato
un mero nulla osta all'esercizio dell'attività produttiva.
Il ricorso per cassazione dell’imputato è stato respinto in
quanto l'impugnata sentenza aveva spiegato in maniera
del tutto logica e non contraddittoria che la ditta
scaricava
nella fognatura comunale, cui era allacciata, insieme con le
acque domestiche anche le acque reflue industriali senza
alcun preventivo trattamento, visto che al momento del
sopralluogo
l'impianto di decantazione era presente, ma non
attivo perché non collettato.
In tale situazione, era chiaro che la ditta in questione non
potesse avere alcuna autorizzazione allo scarico delle acque
in fognatura né si poteva ritenere equiparabile alla
specifica
autorizzazione imposta dalla legge quella relativa
all'esercizio
dell'attività di lavorazione dei marmi rilasciata alla
C.s.r.l. in data 12.09.2006.
Senza fondamento, infine, era la tesi dell'imputato che
asseriva
di essere legittimato ad effettuare gli scarichi in
fognatura
perché la frase "gli scarichi in fognatura comunale
dovranno avvenire nel rispetto dei limiti previsti dal
vigente
regolamento dell'ente gestore" non significava che l'impresa
fosse automaticamente autorizzata ad effettuare gli
scarichi,
ma soltanto che la stessa, una volta ottenuta
l'autorizzazione,
comunque doveva effettuare lo scarico nel rispetto dei
limiti di legge (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.01.2015 n. 3379
- Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RACCOLTA.
Rifiuti - Nozione di raccolta - Obbligo di autorizzazione -
Sussistenza
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
La nozione normativa di raccolta dei
rifiuti presenta natura
complessa, comprensiva di ogni comportamento
univoco e idoneo a culminare nell'accorpamento e nel
trasporto dei rifiuti, risultando così estesa anche alla
cernita e alla preparazione dei materiali in vista del
successivo
prelevamento.
Anche la raccolta di rifiuti, se
eseguita al di fuori delle prescrizioni amministrative
previste dalla legge, al pari delle altre condotte
sanzionate
dall'art. 256, D.Lgs. n. 152/2006, assume rilevanza
penale perché tutte le attività di gestione dei rifiuti sono
soggette al controllo della pubblica amministrazione
volto ad assicurare che le varie fasi siano compiute senza
arrecare pregiudizio alla salute o all’ambiente.
Nella specie, il tribunale di Massa accertava che nell'ex
cava
di pietra arenaria di proprietà della L.s.r.l. erano stati
rinvenuti
diversi cumuli di rifiuti speciali non pericolosi: un primo
cumulo, costituito da terre e rocce di scavo, frammiste
a detriti edili, cemento armato, fili di ferro, cavi
elettrici e
tubi di plastica, per una volumetria stimata in diverse
centinaia
di metri cubi; un secondo cumulo, costituito invece da
conglomerato bituminoso di varia pezzatura, per una
volumetria
stimata di decine di metri cubi.
La ditta L.s.r.l. non
risultava in possesso delle autorizzazioni necessarie alla
raccolta/stoccaggio dei rifiuti sopra descritti. Da
successivi
accertamenti, era altresì risultato che la L.s.r.l. aveva
proceduto
allo smaltimento di terre e rocce da scavo e di detriti
edili, provenienti dall'ex fabbricato ospedaliero di Fivizzano,
in forza di contratto di appalto stipulato con la S.s.p.a.
Lo
smaltimento era avvenuto mediante il recupero dei rifiuti
da parte della ditta L.s.r.l., con propri mezzi e il
successivo
conferimento degli stessi alla ditta L.s.r.l., soggetto
quest'ultimo
munito delle necessarie autorizzazioni. Il terreno
veniva sgombrato dalla ditta dell'imputato man a mano
che la S.s.p.a. realizzava le palificazioni per costruire la
nuova struttura. La procedura di smaltimento, così
predisposta
tra le due imprese, subiva una modifica quando la
S.s.p.a., dovendo procedere con le palificazioni, aveva
chiesto al L. di proseguire con una certa urgenza allo
sgombero di un'area che quest'ultimo, non avendo consultato
il progetto edilizio, non aveva compreso dovesse essere
prontamente sgomberata. Dinanzi a tale sopravvenuta
circostanza, il L. preferiva procedere velocemente alla
liberazione
dell'area interessata, accumulando provvisoriamente
i detriti presso un terreno di sua proprietà, peraltro
limitrofo
all'area in corso di ristrutturazione (l'ex cava L.),
anziché
procedere con l'usuale conferimento alla ditta L.S.
Sulla base di queste circostanze, il Giudice del merito
aveva
tratto il convincimento che il comportamento del ricorrente
non avesse dato luogo alla formazione di una discarica,
bensì ad un'attività di raccolta non autorizzata in quanto
l'impresa L.s.r.l. non possedeva le autorizzazioni previste
dal D.Lgs. n. 152/2006 per il legittimo svolgimento
dell'attività
di recupero/raccolta dei rifiuti. Per l’effetto, il
Tribunale
condannava L. per il reato di raccolta non autorizzata di
rifiuti,
così diversamente qualificato il reato originariamente
contestato di aver realizzato su un terreno di sua proprietà
una discarica non autorizzata di rifiuti non pericolosi.
Il prevenuto adiva la Cassazione deducendo la
contraddittorietà
e la manifesta illogicità della motivazione sul rilievo
che, avendo il Tribunale escluso la formazione di una
discarica
abusiva ed avendo invece ritenuto la temporaneità
dell'attività
di deposito, lo aveva nonostante ciò condannato:
così facendo, il Tribunale aveva dapprima ammesso la
temporaneità
del deposito e poi sostenuto la configurabilità
della contravvenzione prevista dall'art. 256 dando vita ad
un'affermazione manifestamente illogica e contraddittoria.
Secondo la Corte Suprema il ricorso era manifestamente
infondato.
Infatti il ricorrente inutilmente sosteneva di aver
realizzato
un deposito temporaneo, perciò non punibile, in quanto
non aveva considerato che il Tribunale aveva, da un lato,
escluso anche la sola teorica possibilità che la condotta
fosse riconducibile alla fattispecie del deposito temporaneo
sul fondamentale rilievo che il L. non aveva raccolto e
trasportato
rifiuti propri, bensì rifiuti prodotti da terzi e dall’altro
lato aveva pronunciato la condanna per aver l'imputato
proceduto ad una raccolta non autorizzata di rifiuti sulla
base
di elementi neppure contestati dal ricorrente.
La Cassazione in proposito ha ribadito che la nozione
normativa
di raccolta dei rifiuti presenta natura complessa,
comprensiva di ogni comportamento univoco e idoneo a
culminare nell'accorpamento e nel trasporto dei rifiuti,
risultando
così estesa anche alla cernita ed alla preparazione
dei materiali in vista del successivo prelevamento.
La Corte ha perciò concluso che anche la raccolta di
rifiuti,
se eseguita, come nella specie, al di fuori delle
prescrizioni
amministrative previste dalla legge, al pari delle altre
condotte
sanzionate dall'art. 256, assume rilevanza penale perché
tutte le attività di gestione dei rifiuti sono soggette al
controllo della pubblica amministrazione volto ad assicurare
che le varie fasi siano compiute senza arrecare pregiudizio
alla salute o all’ambiente (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2015 n. 3204
- Ambiente & sviluppo 5/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SOTTOPRODOTTI.
Rifiuti - Sottoprodotti - Onere della prova - Incombe
sull'interessato
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
Ai fini della qualificazione come
sottoprodotto dei residui
derivanti dalla propria attività, incombe sull'interessato
l'onere di fornire la prova che un determinato materiale
sia destinato concertezza, e non come mera
eventualità, ad un ulteriore utilizzo.
Pertanto, quando
non è dimostrato che i materiali abbandonati siano
certamente
destinati, sin dalla loro produzione, all'integrale
riutilizzo senza trasformazioni preliminari o compromissione
della qualità ambientale, integra il reato previsto
dall'art. 256, comma 2, D.Lgs. n. 152/2006 l'abbandono
incontrollato di residui da demolizione.
Nel caso in esame il tribunale, riqualificato il fatto come
deposito
incontrollato di rifiuti ai sensi del comma 2 dell'art.
256 D.Lgs. n. 152/2006, condannava tal G. per aver, nella
qualità di legale rappresentante della "P.s.r.l.", spianato
rifiuti
all'interno dell’area aziendale in assenza di qualsivoglia
autorizzazione.
Era infatti emerso che presso lo stabilimento della ditta
P.s.r.l. erano stati accumulati vari rifiuti, costituiti da
frammenti
di mattoni in calcestruzzo vibrocompresso e fango
derivante sia dall'impianto di filtro pressa e sia dal
taglio
dei predetti mattoni, depositati sul terreno della P.s.r.l.
che
non possedeva alcun registro di carico/scarico, né alcuna
autorizzazione al loro stoccaggio.
Nel ricorrere per cassazione, il prevenuto deduceva che il
tribunale aveva errato nel ritenere che i materiali
rinvenuti
e allocati all'interno dell'azienda, nelle immediate
vicinanze
dei macchinari, e in attesa di essere consegnati,
rientrassero
nel novero dei rifiuti, trattandosi invece di sottoprodotti,
dei quali la P.s.r.l. non aveva alcuna intenzione di
disfarsi,
trattandosi di veri e propri beni, aventi un valore
economico
determinato, in virtù del loro certo utilizzo nel medesimo
ciclo di produzione, previa frantumazione dei soli
frammenti.
Del resto, il riutilizzo dei sottoprodotti, per essere
certo,
non necessariamente deve essere anche immediato in
quanto, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità,
non è prescritta una necessaria contestualità tra produzione
e riutilizzo del sottoprodotto.
I giudici romani hanno respinto il ricorso osservando che il
Tribunale era giunto ad affermare la penale responsabilità
del ricorrente sul rilievo che il materiale rinvenuto fosse
da
considerare alla stregua di un accatastamento di rifiuti di
dimensioni non certo ridottissime, tale, cioè, da non poter
essere ritenuto semplicemente temporaneo o occasionale
e ciò sia perché non era stato rivenuto alcun tipo di
dispositivo
idoneo al loro contenimento e/o alla loro etichettatura;
sia perché i rifiuti erano ammassati alla rinfusa ed in più
parti del terreno; sia perché non era stata rilasciata alcun
tipo
di autorizzazione al loro smaltimento e sia perché non
era stato rinvenuto alcun tipo di macchinario idoneo al loro
recupero e/o riutilizzazione (un dipendente della società,
sentito come teste, aveva infatti riferito che la ditta
aveva
semplicemente l'intenzione di munirsi di un macchinario
necessario al predetto scopo, ma che la stessa non ne era
ancora fornita).
L'obiezione del ricorrente, secondo la quale i materiali
dovevano
ritenersi sottoprodotti in quanto beni da riutilizzare
nel processo produttivo, a giudizio della Cassazione non
solo era è smentita dalle inequivoche acquisizioni
processuali,
ma non era supportata da alcun elemento idoneo a
consentire una verifica dell'allegazione difensiva,
risolvendosi
la stessa in una versione del tutto assertiva, mancando
quindi la prova di una riutilizzazione nel ciclo produttivo
"certa" ed "effettiva" dei materiali rinvenuti, ed essendo
del
tutto evidente come il Tribunale avesse correttamente
escluso che una mera dichiarazione di intenti in tal senso
potesse ritenersi idonea a fondare la prova di una loro
riutilizzazione.
D’altra parte, incombe sull'interessato, l'onere di fornire
la
prova che un determinato materiale sia destinato con
certezza,
e non come mera eventualità, ad un ulteriore utilizzo
e il Tribunale più volte aveva ricordato come la
riutilizzazione
dei frammenti di mattoni, rivenuti nel terreno retrostante
la ditta P., fosse emersa come mera eventualità.
La Corte ha perciò concluso che quando non è dimostrato
che i materiali abbandonati siano certamente destinati, sin
dalla loro produzione, all'integrale riutilizzo senza
trasformazioni
preliminari o compromissione della qualità ambientale,
integra il reato previsto dall'art. 256 l'abbandono
incontrollato di residui da demolizione, che vanno
qualificati
pertanto come rifiuti speciali e non sottoprodotti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2015 n. 3202
- Ambiente & sviluppo 5/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: MATERIALI DA SCAVO.
Rifiuti - Materiali da scavo - Applicabilità della deroga
nel
concorso di tutte le condizioni di cui alla vigente
disciplina -
Onere della prova gravante su chi invoca il regime di favore
Artt. 186 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
I materiali da scavo di cui all'art. 1,
comma 1, lett. b),
D.M. n. 161/2012, prodotti nel corso di attività e
interventi
autorizzati in base alle norme vigenti e che non
provengono da attività o opere soggette a valutazione
d'impatto ambientale o ad autorizzazione integrata
ambientale
sono sottoposti al regime di cui all'art. 184-bis
D.Lgs. n. 152/2006 se il produttore dimostra il concorso
delle condizioni previste dall'art. 41-bis D.L. n. 69/2013
convertito, con modifiche, nella legge n. 98/2013.
Nella specie il Tribunale di Rovereto condannava i legali
rappresentanti di un’impresa di costruzione per la
realizzazione
di un deposito incontrollato, presso i piazzali della
propria azienda, di rifiuti provenienti dalla propria
impresa
nonché da un’altra ditta.
Il Tribunale aveva, tra l’altro, rilevato che nessuna delle
condizioni
richieste dall'art. 186, D.Lgs. n. 152/2006 era soddisfatta,
per cui trovava applicazione la disciplina sui rifiuti.
Nell’atto di impugnazione, i ricorrenti deducevano che i
materiali costituissero un sottoprodotto riutilizzabile e
che il
loro riutilizzo in altro sito costituisse un mero illecito
amministrativo,
sanabile con una semplice comunicazione di
cambio di destinazione.
La Cassazione non è stata dello stesso avviso.
Ha prima di tutto osservato che all'epoca dei fatti (fino
all'ottobre
2011, come risultava dal capo di imputazione), la
disciplina delle terre e rocce da scavo era contenuta
nell'art.
186, D.Lgs. n. 152/2006, norma caratterizzata da una
complessa articolazione.
In questo caso veniva in rilievo la disciplina dell'utilizzo
diretto
di tali materiali in deroga alla disciplina sui rifiuti
subordinata
alla prova positiva, gravante sull'imputato, della
loro riutilizzazione secondo un progetto ambientalmente
compatibile; non era sufficiente, quindi, che le terre e
rocce
non fossero inquinate perché si applicasse la normativa ad
esse inerenti.
Orbene, nella specie, il giudice di merito, oltre a ritenere
che
nessuna delle condizioni richieste dall'art. 186 era
soddisfatta,
aveva osservato che, anche volendo applicare le disposizioni
del D.M. 10.08.2012, n. 161 - la cui entrata in vigore
aveva comportato per espressa previsione legislativa
l'abolizione
dell'art. 186 - pur sempre doveva escludersi che si
trattasse di sottoprodotti perché l'art. 4, comma 1, citato
decreto
aveva specificato i requisiti in base ai quali i materiali
da scavo sono da considerarsi sottoprodotti.
La Cassazione ha poi ricordato che la legge n. 98/2013 (cd.
"Decreto del fare”) ha introdotto rilevanti modifiche alla
normativa di riferimento in materia di gestione dei
materiali
da scavo. In particolare è prevista (art. 41, comma 2, che
ha novellato l'art. 184-bis attraverso l'introduzione del
comma
2-bis) l'applicazione del regolamento n. 161/2012 per i
materiali da scavo che provengono da attività o opere
soggette
a valutazione d'impatto ambientale o ad autorizzazione
integrata ambientale.
In tutti gli altri casi,
indipendentemente
dalla volumetria del materiale scavato, trova applicazione
l'art. 41-bis secondo cui la sottoposizione dei materiali
da scavo al regime dei sottoprodotti è ammessa qualora
il produttore dimostri il rispetto di una serie di
condizioni
(certezza di destinazione di utilizzo, rispetto soglie
contaminazione,
assenza di rischi per la salute, assenza di preventivi
trattamenti, ad eccezione della normale pratica
industriale),
attestata attraverso una dichiarazione sostitutiva di atto
di notorietà ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 da presentare
all'Arpa territorialmente competente.
Nel caso di cui alla riportata sentenza, si era in presenza
di
materiale trasportato e non risultava autocertificato il
rispetto
delle citate prescrizioni, sicché era irrilevante la tesi
del ricorrente che faceva leva su una presenza di limo del
tutto regolare (per la vicinanza del lago) e sull’ipotizzabilità
di un mero illecito amministrativo in mancanza della prova
della sussistenza delle condizioni richieste ai fini
dell’inclusione
dei materiali nella categoria dei sottoprodotti.
La Cassazione ha perciò confermato la sentenza di merito
enunciando il seguente principio di diritto: i materiali da
scavo di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), del regolamento
di
cui al D.M. n. 161/2012, prodotti nel corso di attività e
interventi
autorizzati in base alle norme vigenti e che non
provengono da attività o opere soggette a valutazione
d'impatto
ambientale o ad autorizzazione integrata ambientale
sono sottoposti al regime di cui all'art. 184-bis D.Lgs. n.
152/2006 se il produttore dimostra il concorso delle
condizioni
previste dall'art. 41-bis D.L. n. 69/2013 convertito, con
modifiche, nella legge n. 98/2013 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.01.2015 n. 2440
- Ambiente & sviluppo 5/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: GESTIONE ILLECITA.
Rifiuti - Gestione illecita - Titolare di impresa -
Responsabilità
personale per omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti
- Sussistenza.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
Il reato di illecita gestione dei
rifiuti va attribuito a
chiunque sia coinvolto, a qualsiasi titolo, nel ciclo di
gestione
dei rifiuti ed è ascrivibile al titolare dell'impresa
anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato
dei dipendenti che hanno posto in essere materialmente
la condotta vietata.
Mo.Ga. veniva condannato per aver eseguito varie
operazioni di smaltimento tramite tombamento di rifiuti
speciali non pericolosi composti da terra e rocce da scavo
miste con materiali da demolizioni, tombamenti avvenuti
come sottofondo lungo il tracciato di una realizzanda pista
ciclabile.
La Corte suprema ha respinto il ricorso in cui, tra l’altro,
si
lamentava che il Tribunale aveva addebitato la
responsabilità
del fatto all’imputato a titolo di omessa vigilanza
sull'operato
dei dipendenti della ditta della quale lo stesso Mo.
era legale rappresentante.
Secondo i giudici romani, la responsabilità per il reato di
illecita
gestione dei rifiuti va attribuita a chiunque sia coinvolto,
a qualsiasi titolo, nel ciclo di gestione non soltanto
dei rifiuti ma anche degli stessi "beni da cui originano i
rifiuti",
così ribadendosi il principio di lizzazione e di
cooperazione
di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella
distribuzione,
nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano
i rifiuti.
Il reato previsto dall'art. 256, inoltre, è ascrivibile al
titolare
dell'impresa anche sotto il profilo della omessa vigilanza
sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la
condotta vietata.
Nel caso in esame, il fatto che il M. non si trovasse in
cantiere
il giorno del controllo non assumeva alcuna rilevanza
in quanto l'imprenditore soggiace all'obbligo di vigilanza
sull'operato dei suoi dipendenti tanto più che nessuna
delega specifica a tale fine era stata attribuita ad uno dei
dipendenti (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2015 n. 1716 - Ambiente &
sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RISARCIMENTO DEL DANNO.
Soggetto danneggiato esercente di attività di impresa ma
non proprietario o titolare di diritti reali o personali di
godimento
sul bene, diritto al risarcimento del danno
Artt. 844 e 2043 cod. civ.
La tutela risarcitoria contro danni e
molestie assiste, in
certa misura, anche chi eserciti sul bene, pur senza titolo,
il pacifico godimento; pertanto, proposta dal gestore
di un’attività commerciale, oltre che domanda ex art.
844 cod. civ., anche quella di risarcimento dei danni,
qualora risulti provata l'intollerabilità delle immissioni,
nonché l'effettivo esercizio nel luogo dell'attività
commerciale
in questione, pur se il giudice escluda la legittimazione
ad agire ai sensi dell'art. 844 cod. civ., va accertata
la sussistenza degli estremi per riconoscere il diritto
al risarcimento dei danni in base ai principi generali
in tema di illecito civile.
Un gestore di un un'enoteca con bar e ristorante conveniva
davanti al Tribunale la s.p.a. Poste Italiane, lamentando
che dai bocchettoni dell'aria condizionata siti nell'ufficio
postale contiguo ai suoi locali provenivano intollerabili
immissioni
di aria calda, che investivano alcuni tavoli esterni
ed interni ai suoi locali, allontanando la clientela.
Domandava,
in particolare, la condanna della convenuta:
- a modificare l'impianto;
- a risarcire i danni arrecati (quantificati nella specie in
euro
529.200,00).
All’esito del giudizio di merito, la Corte d’Appello, in
riforma
della pronuncia di primo grado, riteneva che l’attore
non aveva fornito la prova, con riferimento al locale in
questione,
di essere titolare di un rapporto locatizio o di altro
diritto personale di godimento. Di conseguenza, respingeva
tutte le domande.
L’originario attore ricorreva allora in cassazione.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso.
I Giudici di legittimità osservano innanzitutto che:
- il ricorrente risulta avere effettivamente proposto, oltre
che domanda giudiziale ai sensi dell'art. 844 cod. civ.,
anche
domanda di risarcimento dei danni ai sensi dell'art.
2043 cod. civ.;
- il medesimo ricorrente era pienamente legittimato a
proporre
tale domanda, pur non essendo proprietario né titolare
di altro diritto reale con riferimento al locale in
questione;
- risultano acquisite al giudizio le prove
dell'intollerabilità
delle immissioni di calore provenienti dai locali delle
Poste;
- pertanto, l'illiceità del comportamento della società
convenuta
risultava ad ogni modo provata;
- risultavano agli atti anche le prove dell'effettivo
esercizio
nel luogo dell'attività di ristorazione dell’attore
originario
(con la titolarità da parte del medesimo di regolare
autorizzazione
all'uso del suolo pubblico antistante il locale).
Di conseguenza, spiega la Cassazione, ammesso e non
concesso che potesse essere esclusa la legittimazione
dell’attore
ad agire i sensi dell'art. 844 cod. civ., per mancanza
di prova del titolo in base al quale occupava gli spazi
destinati
alla sua attività imprenditoriale, la Corte di appello
avrebbe dovuto accertare se ricorrevano gli estremi per
riconoscere
al medesimo il diritto al risarcimento dei danni
in base ai principi generali in tema di illecito civile.
Non è invece condivisibile subordinare, come fatto dalla
Corte di appello, il diritto al risarcimento dei danni alla
formale
titolarità di un contratto di locazione o di affitto.
Sul punto la Suprema Corte precisa quanto segue:
1. con riferimento al caso di specie:
- i danni di cui l’originario attore ha chiesto il
risarcimento
riguardavano l'esercizio dell'attività di impresa e le
perdite
di introiti conseguenti al fastidio che le immissioni
provenienti
dal vicino locale delle Poste provocavano alla clientela;
- l’attore, invece, non ha chiesto danni riguardanti un
ipotetico
danneggiamento delle strutture murarie o dei locali,
nella loro fisicità;
- pertanto, il soggetto danneggiato e titolare del diritto
al risarcimento
era l'esercente l'attività di impresa, anche non
necessariamente proprietario o titolare di diritti reali o
personali di godimento sui muri;
2. quanto alla tutela risarcitoria contro danni e molestie:
- essa assiste, in certa misura, anche il mero possessore o
detentore del bene, e comunque chi ne eserciti, pur senza
titolo, il pacifico godimento;
- unico limite a detta tutela va ravvisato nell'esigenza di
evitare
che la tutela della situazione di fatto vada a scapito del
titolare della situazione di diritto (si veda in tal senso
Cassazione
civile n. 15458/2011 e Cassazione civile n.
1053/1981).
In conclusione, dunque, anche ammesso che, affermato
dalla Corte di appello, debba ritenersi mancante la prova
che l’attore fosse titolare di un regolare contratto di
locazione
dei muri:
- il giudice del merito avrebbe dovuto accertare se esso
svolgesse o meno nel luogo in questione una lecita attività
commerciale (avendo nel caso di specie ivi la sua sede
legale);
- in caso positivo, lo stesso giudice avrebbe dovuto
riconoscere
al medesimo soggetto il diritto alla tutela risarcitoria
nei confronti di chiunque avesse illegittimamente
pregiudicato
l'esercizio di tale attività;
- per accedere a detta tutela risarcitoria, difatti, resta
ferma
unicamente la necessità che l’attore dimostri la sussistenza
degli altri presupposti richiesti a tal fine dalla legge,
fra cui,
in particolare, la prova dei danni.
Pertanto, la Cassazione annulla, con rinvio, la sentenza
impugnata,
affinché la Corte d’appello decida la controversia
uniformandosi ai principi sopra enunciati (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza
13.01.2015 n. 288
- Ambiente & sviluppo 6/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
DANNO NON PATRIMONIALE.
Immissioni di rumore - Intollerabilità - Risarcimento del
danno non patrimoniale - Diritto al riposo notturno -
Lesione
- Prova per presunzioni.
Artt. 844, 2043 e 2059 cod. civ.
In tema di risarcimento del danno da
immissioni di rumore,
accertata l'effettiva intollerabilità delle stesse, la
prova del danno conseguente alla significativa lesione
degli interessi della persona umana costituzionalmente
garantiti, quali in particolare il diritto al riposo
notturno,
può anche essere raggiunta sulla base di elementi
presuntivi.
Veniva chiesto al Tribunale di accertare l'intollerabilità
delle
immissioni di rumore (schiamazzi e diffusione di musica ad
alto volume fino a notte inoltrata) prodotte dall’attività
di
Piano-Bar, domandando che venisse inibita la prosecuzione
dell'attività di disturbo, nonché che i convenuti fossero
condannati al risarcimento dei danni provocati.
Il Tribunale ha accolto le domande e la decisione è stata
confermata in appello.
Con ricorso per cassazione si denunciava la violazione degli
artt. 2043 e 2059 cod. civ., sul rilievo che la Corte di
appello
aveva statuito la condanna al risarcimento dei danni
sulla base del solo accertamento dell'effettiva sussistenza
di immissioni intollerabili, senza previamente accertare se
da tali immissioni siano effettivamente derivati alle
intimate
danni risarcibili.
In tal modo, si sostiene con il ricorso
per
cassazione, si sarebbero sostanzialmente ravvisati i danni
non patrimoniali in re ipsa, in contrasto con il consolidato
principio giurisprudenziale per cui anche i danni morali ed
esistenziali debbono rigorosamente essere dimostrati nella
loro consistenza ed entità, per dare diritto al
risarcimento.
La Cassazione giudica il motivo infondato, osservando che
la sentenza impugnata ha accertato l'esistenza dei danni
sulla base di elementi presuntivi. Difatti, la Corte
d’appello:
- ha ritenuto che le immissioni sonore "clamorosamente
eccedenti la normale tollerabilità (come accertato dalla
ASL e successivamente tramite CTU)" si sono prodotte per
almeno tre anni nelle abitazioni degli attori, in ore serali
e
notturne;
- da ciò ha dedotto come sia stata determinata "una
significativa
lesione degli interessi della persona umana
costituzionalmente
garantiti ...., quali in particolare il diritto al riposo
notturno, inevitabilmente pregiudicato (se non addirittura
impedito) dalla musica ad alto volume e dagli schiamazzi
...";
- ha accertato altresì che l'entità del danno non è da
ritenere
futile, né è consistita "in meri disagi o fastidi, ovvero
nella
lesione di diritti del tutto immaginari.
La Cassazione aggiunge poi che la giurisprudenza circa la
necessità di fornire la prova specifica del danno da
immissioni
sonore (Cass. civ., sez. III, 10.12.2009, n.
25820), si riferisce solo ai casi in cui il danneggiato
faccia
valere un vero e proprio danno alla salute (cioè un danno
biologico, calcolabile in punti di invalidità e risarcibile
in termini
particolarmente rigorosi, sulla base di specifiche tabelle).
Nella specie, invece, i danneggiati hanno dedotto
“l'indebito,
grave pregiudizio arrecato per almeno tre anni al riposo
notturno, alla serenità e all'equilibrio della mente, ed
alla vivibilità
delle loro case, condizioni tutte che il rumore e il
frastuono
protraentisi per ore mettono seriamente e ingiustamente
a repentaglio e di cui può ritenersi acquisita la prova
anche per presunzioni, sulla base delle nozioni di comune
esperienza” (Corte
di
Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 19.12.2014
n. 26899 -
Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
VERSAMENTO PERICOLOSO DI COSE.
Emissioni - Fuoriuscita di liquami da una fossa settica -
Cose atte a offendere e molestare le persone - Reato -
Condotta commissiva o omissiva - Fattispecie
Art. 674 cod. pen.
Il reato di getto o versamento
pericoloso di cose (prima
parte dell'art. 674 cod. pen.) è configurabile sia in forma
omissiva sia in forma commissiva mediante omissione
(cosiddetto reato omissivo improprio) ogniqualvolta il
pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi anche
dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che
aveva l'obbligo giuridico di evitarlo (fattispecie relativa
a fuoriuscita di liquami da una fossa settica).
La proprietaria di un ristorante pizzeria, che non aveva
realizzato
un idoneo impianto di scarico che generava fuoriuscita
di liquami da una fossa settica, veniva condannata per il
reato
di cui all'art. 674 cod. pen. per aver versato in luogo
privato,
ma di comune uso, liquidi maleodoranti atti a imbrattare
l'area comune e a molestare gli altri proprietari.
Avverso tale pronuncia la predetta proponeva ricorso
lamentando
che l'affermazione di penale responsabilità sarebbe
stata basata dal giudice del merito sul mancato
adempimento di quanto stabilito dal giudice civile in sede
di ricorso ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. e di ciò
che
aveva ordinato l'Ufficio Idrico del Comune.
Aggiungeva che la ritenuta sussistenza dell'elemento
psicologico
del reato mal si conciliava con il fatto che, in attesa
della decisione del Tribunale civile in ordine alla
sussistenza
o meno di una servitù di scarico, si era provveduto
a incaricare periodicamente una ditta di rimuovere i liquami
al fine di scongiurarne la fuoriuscita.
Dalla sentenza del Tribunale risultava che l'emissione di
odori nauseabondi era stata avvertita dalla parte civile,
che
risiede in un appartamento ubicato accanto al ristorante-pizzeria
dell'imputata, in occasione di alcune cene e che,
effettuando una verifica, si era constatato che i reflui
erano
tracimati dalla fossa settica destinata a raccoglierli,
causando
odori nauseabondi che, in un'occasione, avevano
provocato anche un malore ad un ospite.
Il Tribunale aveva poi osservato, con riferimento ai mancati
adempimenti a quanto disposto in via d'urgenza dal giudice
civile e dall'Ufficio idrico del Comune, che gli stessi
erano dimostrati
proprio dalla documentazione prodotta dall'imputata,
dalla quale emergeva l’effettuazione di periodiche rimozioni
di fanghi in luogo di più incisivi interventi, circostanza,
quest'ultima, pacificamente riconosciuta anche in ricorso.
Su queste premesse, la Cassazione ha sostenuto che,
diversamente
da quanto affermato nell'atto di impugnazione,
l'accertamento sulla sussistenza del reato era stata
effettuata
sulla base di plurimi elementi acquisiti nel corso
dell'istruzione
dibattimentale, valutati dal giudice del merito con
argomentazioni coerenti e logiche.
Secondo la Corte suprema, la sentenza era corretta anche
con riferimento all'elemento soggettivo del reato.
L'ipotesi contravvenzionale in esame è qualificata come
reato di pericolo, cosicché per la sua configurazione è
necessaria
esclusivamente l'astratta attitudine delle cose gettate
o versate a cagionare effetti dannosi ed è sufficiente la
colpa, configurabile in tutti i casi in cui venga
riscontrata
l'attivazione di impianti pericolosi ovvero venga accertata
la colposa omissione di cautele atte a impedire il
verificarsi
della situazione di pericolo.
Nella fattispecie, il giudice del merito aveva correttamente
attribuito la fuoriuscita dei liquami ad una negligente o
nulla
manutenzione della fossa settica ed alla deliberata scelta
di non adempiere alle più incisive cautele dettate dal
giudice
civile in via di urgenza e dall'amministrazione comunale.
Così facendo, il Tribunale si era correttamente allineato
alla
giurisprudenza di legittimità in cui ricorre l’affermazione
che il reato di getto o versamento pericoloso di cose,
previsto
nella prima parte dell'art. 674 cod. pen., è configurabile
sia in forma omissiva sia in forma commissiva mediante
omissione (cosiddetto reato omissivo improprio)
ogniqualvolta
il pericolo concreto per la pubblica incolumità derivi
anche dalla omissione, dolosa o colposa, del soggetto che
aveva l'obbligo giuridico di evitarlo (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.11.2014 n. 49213
- Ambiente & sviluppo 5/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: SPIANAMENTO DI INERTI DA DEMOLIZIONI.
Rifiuti - Inerti da demolizioni - Spianamento su terreno
dei rifiuti - Reato - Deposito permanente.
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006.
L'attività di spianamento su terreno di
rifiuti rientra nella
più estesa nozione di gestione di rifiuti non autorizzata
ed in particolare di "deposito permanente".
Il Tribunale condannava per il reato di cui all'art. 256,
comma
2, D.Lgs. n. 152/2006 il titolare di una ditta di
escavazione
e movimento terra che aveva abbandonato e spianato
materiale inerte proveniente da demolizioni su un terreno
di terzi.
La Cassazione, adita dal prevenuto, ha confermato la
condanna
ricordando che già in passato la stessa Corte suprema
aveva sostenuto che l’attività di spianamento del terreno
e di livellamento costituiscono manifestazione esterna
di una gestione di discarica o possono costituirla.
Infatti, nella gestione di una discarica, segnatamente nella
fase iniziale, ben possono rientrare la recinzione, lo
spianamento
dei rifiuti con loro interramento totale o parziale, il
livellamento
del terreno. Ciò non integra un allargamento indebito
della nozione di "gestione" della discarica abusiva,
ma vi rientra a pieno titolo.
Nel caso di specie, il giudice di merito aveva accertato che
l'imputato, con un mezzo meccanico, stava eseguendo sul
terreno di un terzo lo spianamento dei detriti derivanti da
demolizione (nella sua deposizione il teste di PG aveva
parlato
di "spianamento di detriti consistenti in blocchetti di
cemento non frantumati, contenenti ferro, verosimilmente
risultanti da pregressa attività di demolizione").
Le critiche mosse dal ricorrente alla decisione si
risolvevano
perciò in una inammissibile rivisitazione delle circostanze
di fatto e comunque evidenziavano aspetti secondari rispetto
al nucleo essenziale della questione rappresentato
dall'inclusione della attività di spianamento dei rifiuti
nel
concetto di gestione di rifiuti non autorizzata ed in
particolare
di "deposito permanente" (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2014 n. 48020
- Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ELEMENTI RIVELATORI DI UN’IMPRESA.
Rifiuti - Abbandono - Reato commesso dal titolare di
un’impresa - Elementi indicatori dell’impresa di fatto
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il reato di cui all’art. 256, comma 2,
D.Lgs. n. 152/2006 è
configurabile nei confronti di qualsiasi soggetto che
abbandoni
rifiuti nell'ambito di una attività economica
esercitata anche di fatto, indipendentemente da una
qualificazione formale sua o dell'attività medesima, così
dovendosi intendere il "titolare di impresa o responsabile
di ente" menzionato dalla norma.
L'individuazione
in concreto dell'attività imprenditoriale di fatto è
valutazione
di merito che compete al giudice della cognizione
che, a tal fine, potrà e dovrà tener conto di elementi
rivelatori della stessa quali: a) l'utilizzo di mezzi e
modalità
che eccedano quelli normalmente nella disponibilità
del privato; b) la natura e la provenienza dei materiali;
c) la quantità e qualità dei soggetti che hanno posto in
essere la condotta.
Il titolare di impresa, esecutrice delle opere di
demolizione
di una preesistente tettoia, veniva condannato per il reato
256, comma 2, e 255, comma 3, perché aveva abbandonato,
mediante interramento, rifiuti di varia natura su un'area di
proprietà della moglie e perché aveva omesso di rimuovere
detti rifiuti, come disposto con ordinanza del Comune di Lonato.
Nel proporre ricorso per Cassazione, l’imputato deduceva
che i giudici erroneamente avevano ritenuto che non avesse
operato in veste di privato cittadino, bensì di titolare di
impresa, e quindi di imprenditore nell'esercizio delle
proprie
funzioni. Secondo il ricorrente, per distinguere un'attività
imprenditoriale da quella compiuta dal privato era
necessario
prendere in esame tutte le circostanze che in diritto la
rendono tale, come l'agire in presenza di un preciso
contratto
che regoli la prestazione d'opera, oppure il rinvenimento
di un'autorizzazione a compiere determinati lavori.
Qualsiasi altra riflessione circa aspetti diversi
dell'attività,
come valutare il tipo di strumenti impiegati, oppure i
soggetti
coinvolti, era irrilevante ed inadatta a fungere da criterio
discriminante tra l'agire in veste di imprenditore o di
privato,
dato che gli imprenditori possono utilizzare mezzi di
privati nell'esercizio delle loro funzioni e i privati
impiegare
mezzi aziendali per scopi prettamente personali.
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile.
La Cassazione ha infatti ritenuto che fosse corretta la
conclusione
dei giudici di merito che, in replica alla tesi difensiva
della movimentazione di rifiuti di provenienza "domestica",
avevano evidenziato che i rifiuti rinvenuti non erano
relativi
solo alla demolizione della tettoia, ma costituivano il
residuo anche di altre attività, come dimostrava
eloquentemente
il rinvenimento, tra l'altro, di ruote di autocarro, di
serramenti in legno, di reti metalliche; che il P. aveva
effettuato
le demolizione in questione servendosi dei mezzi
aziendali (e in particolare di un escavatore), nonché di due
dipendenti (a proposito dei quali, non era certo credibile
che lavorassero a titolo di gratuito favore, visto che tra
l'altro
si trattava di un giorno feriale).
L'uso dei beni aziendali e la collaborazione dei dipendenti
rendeva evidente che, nel caso in esame, l'attività di
illecito
interro dei rifiuti era avvenuta nell'ambito di un'attività
imprenditoriale.
Andava perciò logicamente escluso che l'imputato avesse
agito privatamente dovendosi ritenere (in particolare per l'esorbitanza dei rifiuti interrati rispetto al manufatto
dichiaratamente
demolito) che egli avesse agito nell'ambito
dell'attività imprenditoriale, sicché correttamente era
stata
ritenuta a suo carico l'ipotesi di reato di cui all'art.
256,
comma 2.
Il Collegio ha ricordato che il reato in esame può essere
commesso dai titolari di impresa o responsabili di enti che
abbandonano o depositano in modo incontrollato non solo
i rifiuti di propria produzione, ma anche quelli di diversa
provenienza e ha escluso che, nella individuazione del
titolare
d'impresa o del responsabile dell'ente, debba farsi
riferimento
alla formale investitura, assumendo rilievo, invece,
la funzione in concreto svolta.
A questo riguardo, la Corte ha chiarito che l'individuazione
in concreto dell'attività imprenditoriale «di fatto» è
valutazione
di merito che compete al giudice della cognizione
che, a tal fine, potrà e dovrà tener conto, com'è avvenuto
nel caso di specie, di elementi rivelatori della stessa
quali:
a) l'utilizzo di mezzi e modalità che eccedano quelli
normalmente
nella disponibilità del privato; b) la natura e la
provenienza
dei materiali; c) la quantità e qualità dei soggetti
che hanno posto in essere la condotta (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 19.11.2014
n. 47662 -
Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RACCOLTA DI RIFIUTI SOLIDI URBANI.
Rifiuti - Raccolta di rifiuti solidi urbani - Violazione
delle
prescrizioni contenute nell’autorizzazione - Riferimento
alla
popolazione complessivamente servita e non agli abitanti
dei singoli comuni
Art. 256, D.Lgs. n. 152/2006
In tema di gestione dei rifiuti, integra
il reato di cui all'art.
256, commi 1 e 4, D.Lgs. n. 152/2006 la raccolta di
rifiuti solidi urbani in violazione delle prescrizioni
contenute
nelle autorizzazioni o in mancanza dei requisiti richiesti
per le iscrizioni o comunicazioni, tra i quali è
compreso anche il rispetto del limite numerico della
"popolazione complessivamente servita" individuato
nella classe di appartenenza del gestore, che deve
intendersi
riferito alla somma complessiva dei residenti
nei comuni serviti e non al numero di abitanti di ciascun
comune.
Un soggetto, iscritto nell'apposito Albo alla categoria 5,
classe A, per la gestione dei rifiuti nell'ambito di una
popolazione
inferiore a 20.000 persone, aveva però effettuato la
raccolta per tre comuni per un territorio che comprendeva
complessivamente 27.256 persone e per questo fatto veniva
condannato per il reato di cui all’art. 256, commi 1 e 4.
L'imputato proponeva ricorso per cassazione lamentando
che il giudice di merito aveva ritenuto che il fatto
integrasse
un reato formale di pericolo, per la cui configurabilità
era sufficiente la mera inosservanza delle prescrizioni, non
essendo richiesto che la condotta fosse anche idonea a
configurare una situazione di concreto pregiudizio per il
bene
giuridico protetto sicché aveva ritenuto irrilevante che il
ricorrente disponesse dì mezzi e spazi adeguati alla
raccolta
dei rifiuti in concreto effettuata (tanto che il 5 gennaio
2011 venne accolta l'istanza di elevazione della classe di
iscrizione nella categoria 1, classe D, di cui al D.M. n. 406
del 1998, artt. 8 e 9).
Eccepiva inoltre che non ricorreva la violazione dell’art.
256, comma 4, in quanto la società, all'epoca dei fatti, era
titolare della prescritta autorizzazione che operava
esclusivamente
un distinguo per classi numeriche di "abitanti":
questa dicitura, diversa da quella di "popolazione",
confermava
la tesi difensiva della legittimità della condotta essendo
l'autorizzazione da intendersi riferita non alla complessiva
popolazione trattata (quella dei tre comuni indicati nella
contestazione), ma al numero di abitanti per ogni singolo
comune con cui si sottoscrive il relativo contratto di
raccolta
di RSU.
Il supremo Collegio ha ritenuto infondata la tesi difensiva
dell’erronea interpretazione del D.M. 28.04.1998, n.
406.
L’art. 8, comma 1, lett. a), di tale decreto ministeriale
dispone
infatti che è richiesta l'iscrizione all'albo delle imprese
che effettuano la gestione dei rifiuti nella categoria 1,
per l'ipotesi di raccolta e trasporto di rifiuti urbani e
assimilati.
A sua volta, l'art. 9 del medesimo decreto prevede che
la categoria 1, di cui al detto art. 8, comma 1, lett. a), è
suddivisa in sei classi "a seconda che la popolazione
complessivamente
servita sia", in particolare, per la classe d)
"inferiore a 50.000 abitanti e superiore o uguale a 20.000
abitanti"; e per la classe e) "inferiore a 20.000 abitanti e
superiore
o uguale a 5.000 abitanti".
Secondo la Corte era dunque evidente, sulla base di
un’esegesi
letterale, del resto corrispondente a quella sistematica
ed alla ratio della disposizione, che questa, con
l'espressione
"popolazione complessivamente servita", avesse riguardo
al totale degli abitanti di tutti i comuni per i quali
viene effettuata la raccolta e non al numero di abitanti del
singolo comune.
Del resto, quest'ultima interpretazione
non avrebbe alcun senso perché la finalità della
disposizione
è chiaramente quella di assicurare che l'impresa che
svolge il servizio disponga, nel complesso, dei mezzi e
delle
strutture sufficienti ad assicurarlo regolarmente, mentre
non si comprende quale finalità avrebbe una norma che
ponesse un limite per i singoli enti serviti, consentendo
all'impresa
di svolgere la raccolta per un numero indeterminato
di abitanti, senza alcun preventivo controllo delle
necessarie
capacità. Contrariamente a quanto sostenuto nel
ricorso, la norma, del tutto razionalmente, richiede proprio
che sia previsto "a monte" il numero complessivo della
popolazione
per la quale potrà essere svolto il servizio,
indipendentemente
dalla circostanza (irrilevante) del numero
degli enti locali in cui questa è suddivisa.
Nella specie, il ricorrente all'epoca dei fatti era iscritto
nella
classe E), e quindi non poteva svolgere il servizio di
raccolta
per una popolazione complessivamente servita superiore
a 20.000 abitanti, mentre solo successivamente ottenne
l'iscrizione
nella classe D) (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.10.2014
n. 43429 -
Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RESPONSABILITÀ DEL PROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Realizzazione e gestione di discarica ad opera di
terzi - Proprietario del fondo - Responsabilità in quanto
tale - Esclusione
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006
Il proprietario di un terreno non
risponde, in quanto tale,
dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui
non si attivi per la rimozione dei rifiuti, mancando una
norma che stabilisca tale obbligo giuridico; la
responsabilità
del proprietario sussiste solo quando compia atti
di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Non soddisfatto della sentenza con cui il tribunale lo aveva
condannato per il reato di cui all’art. 256, comma 1, lett.
a), D.Lgs. n. 152/2006 (per aver, quale comproprietario di
un fondo, effettuato un'attività di raccolta, trasporto,
smaltimento,
commercio ed intermediazione di rifiuti da demolizione
mescolati a terra, ghiaia, pezzi di asfalto, blocchi di
cemento, mattoni, tondini in ferro e piastrelle) l’imputato
adiva la Cassazione censurando la sentenza che aveva
ritenuto
la sua responsabilità in quanto tenuto a vigilare che i
soggetti, cui aveva affidato i lavori edili, osservassero le
norme ambientali in tema di formazione di un deposito
incontrollato.
Il ricorrente non condivideva tale argomentazione in quanto
il tribunale non aveva preso in considerazione alcuni
elementi
e cioè l'esistenza di un accordo tra il ricorrente e la
società Sc.Co. s.r.l., cui erano stati affidati i
lavori,
con cui il Ca. aveva preteso che il materiale da
utilizzare
fosse accompagnato dall'analisi dei terreni (ciò che
denotava l'esercizio del potere di vigilanza del medesimo);
la qualifica sostanziale di committente del ricorrente che
ne avrebbe escluso la responsabilità; infine, il fatto che
egli
aveva provveduto alla nomina di un direttore dei lavori,
ossia
di un soggetto che doveva verificare che tutte le operazioni
materiali venissero svolte in maniera regolare.
Con un secondo motivo, il ricorrente ribadiva la
contestazione
alla ritenuta partecipazione concorsuale al reato
ascrittogli sostenendo di non aver alcun obbligo di
vigilanza
e di denuncia in relazione alla violazione della normativa
sui rifiuti, atteso che la normativa ambientale (il
riferimento
era all'art. 192, D.Lgs. n. 152/2006) attribuisce al
proprietario
dell'area solo l'obbligo di rimozione, avvio a recupero e
smaltimento, ma non una posizione finalizzata ad impedire
la realizzazione od il mantenimento dell'evento lesivo
altrui.
I motivi di ricorso, trattati congiuntamente, attesa
l'omogeneità
dei profili di doglianza mossi all'impugnata sentenza,
sono stati ritenuti fondati dalla Cassazione.
La sentenza impugnata, infatti, fondava la responsabilità
del prevenuto sull'esistenza di un obbligo di vigilanza
quale
proprietario dell'area su cui i rifiuti erano stati
illecitamente
gestiti dai soggetti ai quali il medesimo aveva affidato i
lavori
di movimentazione, sbancamento, etc..
L'obbligo di vigilanza, tuttavia, era fondato sulla non
corretta
esegesi di una decisione della stessa Corte suprema
(Sez. III, n. 47432 del 05.11.2003, Bellesini ed altri,
Ced 226868, secondo cui la responsabilità per la attività di
gestione non autorizzata può scaturire da comportamenti
che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione
di
tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella
predetta
gestione), attinente non alla responsabilità del
proprietario
dell'area, ma del titolare di una impresa edile produttrice
di
rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con
automezzo di proprietà della società, in assenza delle
prescritte
autorizzazioni.
Anche, il riferimento ad una culpa in vigilando non era
pertinente
perché riguardava la responsabilità del titolare di
un'azienda nel caso di abbandono o deposito incontrollato
di rifiuti ad opera dei dipendenti e non di soggetti terzi,
come
nel caso di specie.
La Corte ha chiarito, da un lato, che non era configurabile
un obbligo di controllo a carico del proprietario del fondo,
in quanto gli obblighi di corretta gestione e smaltimento
sono posti esclusivamente a carico dei produttori e dei
detentori
dei rifiuti medesimi. Dall’altro lato, che era pacifico
che, in difetto di diretta partecipazione al reato o di un
contributo
materiale o morale nell'illecita gestione dei rifiuti,
non era configurabile una responsabilità "di posizione" del
proprietario dell'area.
Infatti, come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite
e da successive decisioni, il proprietario di un terreno non
risponde dei reati di realizzazione e gestione di discarica
non autorizzata, anche in caso di mancata attivazione per
la rimozione dei rifiuti, salvo che non compia atti di
gestione
o movimentazione dei rifiuti.
La sentenza è stata perciò annullata con rinvio ad altro
giudice
del tribunale per accertare l'esistenza o meno di elementi
in virtù dei quali la condotta del ricorrente fosse
rivelatrice di una sua partecipazione al reato (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 01.10.2014 n. 40528
- Ambiente & sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: PROPRIETARIO DEL FONDO.
Rifiuti - Abbandono di rifiuti da parte di terzi -
Proprietario
del fondo - Responsabilità in quanto tale - Esclusione -
Comportamenti attivi
Artt. 192 e 256, D.Lgs. n. 152/2006; art. 40, cod. pen.
Il proprietario di un terreno non
risponde, in quanto tale,
dei reati di realizzazione e gestione di discarica non
autorizzata commessi da terzi, anche nel caso in cui
non si attivi per la rimozione dei rifiuti, occorrendo
invece
che il proprietario compia atti di gestione o movimentazione
dei rifiuti.
Il comproprietario di un fondo, dichiarato colpevole per
aver effettuato un'attività di raccolta, trasporto,
smaltimento,
commercio ed intermediazione di rifiuti da demolizione
mescolati a terra, ghiaia, pezzi di asfalto, blocchi di
cemento,
mattoni, tondini in ferro e piastrelle, impugnava la
sentenza
di condanna obiettando in primo luogo che il giudice
lo aveva ritenuto responsabile in quanto tenuto a vigilare,
quale comproprietario dell'area interessata dall'illecita
gestione
dei rifiuti, che i soggetti, a cui aveva affidato i lavori,
osservassero le norme ambientali in tema di formazione di
un deposito incontrollato; in secondo luogo, che il giudice
lo aveva ritenuto responsabile in virtù di una posizione di
garanzia da questi assunta in forza dei contratti stipulati
per la realizzazione dei lavori preso la sua proprietà
nonché
per essere questi tenuto a vigilare quale proprietario del
terreno su cui vennero rinvenuti i materiali indicati.
Il ricorso è stato accolto perché la sentenza, nel fondare
la
responsabilità del ricorrente sull'esistenza di un obbligo
di
vigilanza del medesimo quale proprietario dell'area su cui i
rifiuti erano stati illecitamente gestiti dai soggetti ai
quali il
medesimo aveva affidato i lavori di movimentazione,
sbancamento,
etc., si basava sulla non corretta esegesi di una
decisione della Cassazione (1) secondo cui la responsabilità
per la attività di gestione non autorizzata non attiene
necessariamente
al profilo della consapevolezza e volontarietà
della condotta, potendo scaturire da comportamenti che
violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di
tutte
le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta
gestione,
e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti
alla direzione dell'azienda.
Questa decisione, ha osservato la Corte, attiene non alla
responsabilità del proprietario dell'area, ma del titolare
di
una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e
lo
smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della
società, in assenza delle prescritte autorizzazioni.
Parimenti, il riferimento ad un'ipotesi di culpa in
vigilando,
riguardava la responsabilità del titolare di un'azienda nel
caso di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti ad
opera dei dipendenti di una società di capitale, e non di
soggetti terzi, come nel caso di specie, rispetto ai quali
non
sussisteva alcun rapporto di formale dipendenza. Inoltre,
non era configurabile un obbligo di controllo a carico del
proprietario in quanto gli obblighi di corretta gestione e
smaltimento sono posti esclusivamente a carico dei
produttori
e dei detentori dei rifiuti.
La sentenza ha perciò ribadito che, in difetto di elementi
di
diretta partecipazione al reato o di un contributo materiale
o morale nell'illecita gestione dei rifiuti, non è
configurabile
una responsabilità "di posizione" del proprietario dell'area
come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite della
Cassazione (2) secondo cui i reati di realizzazione e
gestione
di discarica non autorizzata e stoccaggio di rifiuti tossici
e nocivi senza autorizzazione hanno natura di reati
permanenti,
che possono realizzarsi soltanto in forma commissiva;
ne consegue che essi non possono consistere nel mero
mantenimento della discarica o dello stoccaggio da altri
realizzati, pur in assenza di qualsiasi partecipazione
attiva e
in base alla sola consapevolezza della loro esistenza.
E’ stato così sostenuto che il proprietario di un terreno
non
risponde della realizzazione e gestione di una discarica non
autorizzata, anche nel caso di mancata attivazione per la
rimozione
dei rifiuti, salvo che non compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
---------------
Note:
(1) Cass., sez. III, n. 47432 del 05.11.2003, Bellesini
ed altri, ced.
226868.
(2) Cass., n. 12753 del 05.10.1994, Zaccarelli, ced.
199385 (Corte
di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
01.10.2014 n. 40528 - Ambiente &
sviluppo 4/2015). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ORDINANZE DI SGOMBERO.
Rifiuti - Ordinanza sindacale di rimozione dei rifiuti -
Inosservanza
- Responsabilità del destinatario del provvedimento
Art. 14, D.Lgs. n. 22/1997; art. 192, D.Lgs. n. 152/2006;
art. 650, cod. pen.
La sanzione per la violazione dell'ordinanza sindacale di
rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi
di cui all'art. 14, D.Lgs. n. 22/1997 (oggi sostituito
dall’art.
192, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006), va applicata a
chiunque non ottemperi a tale provvedimento, con la
conseguenza che compete al proprietario del terreno, al
fine di evitare di rendersi responsabile dell'inottemperanza
in questione, l'onere di provare l'assenza di una
propria responsabilità nell'abbandono dei rifiuti, onde
determinare la disapplicazione dell'atto da parte del
giudice penale.
Il Tribunale di Teramo, condannava M.I., ed altri soggetti
non ricorrenti, per il reato di cui all'art. 650 cod. pen.,
per
non aver ottemperato all'ordinanza n. 144 emessa il 21.10.2009, per ragioni di igiene, dal sindaco di (omissis).
Nel ricorso per cassazione, l'imputato, destinatario
dell'ordinanza
sindacale, in quanto proprietario di una porzione di
un’area più vasta (composta anche da terreni appartenenti
ad altri soggetti imputati dello stesso reato) sulla quale
era
stata accertata la presenza di una discarica di rifiuti di
vario
genere dei quali era stata ordinata, in via d'urgenza, la
rimozione,
deduceva che, già in sede di interrogatorio, aveva
affermato di non ricordare che la suddetta ordinanza gli
fosse stata mai notificata.
Di conseguenza, il Tribunale
erroneamente
aveva ritenuto, sulla scorta della documentazione
prodotta dal PM solo all'udienza di discussione, che
l'ordinanza sindacale gli sarebbe stata regolarmente
notificata.
Né poteva fondatamente sostenersi che il M. avesse
avuto comunque notizia dell'ordinanza, essendosi recato
sulla località con un geometra per constatare l'eventuale
presenza di rifiuti sul terreno, e ciò in quanto tale
sopralluogo
era stato effettuato nel mese di marzo, ossia dopo
l'esercizio
dell'azione penale nei confronti dell'imputato.
Il ricorrente evidenziava ancora:
a) che il sopralluogo
effettuato
per verificare l'avvenuta ottemperanza all'ordinanza,
era stato eseguito da agenti della polizia municipale
diversi
da quelli che avevano accertato la presenza dei rifiuti e
l'esistenza
della discarica, e che quindi non potevano accertare
se, quanto presente sul terreno, corrispondesse
effettivamente
a quanto trovato in occasione del primo sopralluogo;
b) che mancava una prova certa (rilievo catastale)
che consentisse di affermare che il terreno sul quale era
stata accertata la presenza dei rifiuti, corrispondesse
effettivamente
alle particelle di proprietà del M., che le aveva
acquistate anni prima, ad una vendita fallimentare,
lasciandole
incolte (tant'è che il connesso procedimento penale
promosso nei suoi confronti per costituzione di un deposito
non autorizzato di rifiuti speciali era stato archiviato)
sicché,
senza un positivo accertamento in tal senso, l'autorità
comunale non avrebbe potuto pretendere dall'imputato di
bonificare l'area, invadendo i terreni di terze persone;
c)
che la presenza dei rifiuti di cui trattasi, in quanto
provenienti
da attività edilizia, doveva farsi risalire allo svolgimento
di attività edificatoria alla quale il M., residente
altrove,
era totalmente estraneo.
Il ricorso è stato respinto.
Quanto alla prima questione, la Corte ha, infatti, rilevato
che dall'esame degli atti risultava che l'ordinanza
sindacale
n. 144/2009 era stata notificata al Ma. in data 11.11.2009, ai sensi dell'art. 139 cod. proc. civ., sicché
l'imputato
non poteva fondatamente invocare, a giustificazione
della sua condotta omissiva, la non conoscenza del
provvedimento.
Quanto alla seconda doglianza, acclarato che il Ma.
risultava
il destinatario formale della ordinanza sindacale nonché
proprietario di uno dei terreni ove era stata riscontrata
dall'Autorità comunale la presenza dei rifiuti, la Corte ha
ritenuto
non deducibile, in quanto priva di adeguato riscontro
probatorio, la tesi secondo cui i rifiuti di cui trattasi
non
insistessero sulla porzione di terreno di sua proprietà.
Quando alla obiezione che l’imputato non era il responsabile
della condotta di abbandono, la Cassazione ha sostenuto
che spettava a lui, per evitare di dovere rispondere della
inottemperanza dell'ordine sindacale (di cui non era stato
chiesto l'annullamento in via amministrativa), di provare
l'assenza di una propria responsabilità nell'abbandono, al
fine di ottenere -quantomeno- la disapplicazione della
ordinanza
illegittima (per carenza dei presupposti soggettivi),
mentre onere dell'accusa era solo quello di provare
l'esistenza
della ordinanza sindacale (assistita da presunzione
di legittimità) e l'inottemperanza dei suoi destinatari.
Il ricorrente invece solo nel giudizio di Cassazione aveva
dedotto che il procedimento promosso nei suoi confronti (e
degli altri proprietari) per il reato di deposito non
autorizzato
di rifiuti speciali era stato archiviato, per la mancata
identificazione in modo certo del responsabile del reato,
ma, a prescindere dalla novità della deduzione, non aveva
offerto alcun elemento dimostrativo dell'effettività di tale
assunto (Corte di
Cassazione, Sez. I penale,
sentenza 08.09.2014
n. 37254 -
Ambiente & sviluppo 4/2015). |
CONDOMINIO:
Cause di nullità ed annullabilità delle delibere
assembleari.
Devono qualificarsi nulle le
delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con
oggetto impossibile o illecito (contrario all'ordine
pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con
oggetto che non rientra nella competenza dell'assemblea, le
delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o
servizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei
condomini, le delibere comunque invalide in relazione
all'oggetto.
Devono, invece, qualificarsi annullabili le delibere
con vizi relativi alla regolare costituzione dell'assemblea,
quelle adottate con maggioranza inferiore a quella
prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale,
quelle affette da vizi formali, in violazione di
prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti
al procedimento di convocazione o di informazione
dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità
nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme
che richiedono qualificate maggioranze in relazione
all'oggetto.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione a Sezioni Unite
civili con la
sentenza 07.03.2005 n. 4806,
risolvendo un precedente contrasto esistente in dottrina e
giurisprudenza, chiarendo, pertanto, che la mancata
comunicazione, a taluno dei condomini, dell'avviso di
convocazione dell'assemblea condominiale comporta non la
nullità, ma l'annullabilità della delibera condominiale, che
se non viene impugnata nel termine di trenta giorni previsto
dall'art. 1137, 3° comma, c.c. -decorrente per i condomini
assenti dalla comunicazione e per i condomini dissenzienti
dalla sua approvazione- è valida ed efficace nei confronti
di tutti i partecipanti al condominio.
---------------
5. Prima di procedere all'esame del contrasto, è opportuno
effettuare una, sia pur sintetica, ricognizione
dell'orientamento della Corte e della dottrina in tema di
nullità e annullabilità delle delibere dell'assemblea
condominiale.
5.1. La Corte, in generale, ha affermato che sono da
ritenersi nulle le delibere con vizi relativi alla regolare
costituzione dell'assemblea o alla formazione della volontà
della prescritta maggioranza; quelle con maggioranze
inferiori alle prescritte; le delibere prive degli elementi
essenziali; quelle adottate con maggioranza inesistente,
apparente o inferiore a quella prescritta dalla legge o dal
regolamento condominiale; le delibere con oggetto
impossibile o illecito, a volte specificandolo come oggetto
contrario all'ordine pubblico, o alla morale, o al buon
costume; le delibere con oggetto che non rientra nella
competenza dell'assemblea; le delibere che incidono sui
diritti individuali sulle cose o servizi comuni o sulla
proprietà esclusiva di ognuno dei condomini; le delibere
comunque invalide in relazione all'oggetto.
5.2. Nell'ambito della categoria delle delibere contrarie
alla legge o al regolamento condominiale, la Corte ha
affermato che sono da ritenersi annullabili quelle affette
da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali,
convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di
convocazione o di informazione dell'assemblea; quelle
genericamente affette da irregolarità nel procedimento di
convocazione; le delibere viziate da eccesso di potere o
da incompetenza, che invadono cioè il campo riservato
all'amministratore; le delibere che violano norme che
chiedono qualificate maggioranze in relazione all'oggetto.
6. Secondo la dottrina sono nulle le delibere affette da un
vizio sostanziale, annullabili quelle inficiate da un vizio
di
forma.
6.1. In particolare, premesso che l'art. 1137 c.c. ha
un'ampia portata ma non si riferisce a quelle decisioni
assembleari che sono senza effetto alcuno in forza di
principi generali indiscutibili, e perciò attaccabili in
ogni
tempo da chiunque vi abbia interesse, alcuni autori
ritengono nulle le delibere prive dei requisiti essenziali,
in
quanto prese da assemblee non regolarmente costituite (anche
perché non sono stati invitati tutti i condomini) o
con maggioranze inesistenti o apparenti; ovvero quelle
aventi un oggetto impossibile o illecito; quelle esorbitanti
dalla sfera dei compiti dell'assemblea; quelle che ledono i
diritti di ciascun condomino sulle cose e servizi comuni o
sul proprio piano o appartamento. Considerano annullabili le
delibere affette da vizi formali, prese in violazioni di
prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari attinenti
al procedimento di convocazione e di informazione
dell'assemblea.
6.2. Altri autori, operando un accostamento con i principi
generali e le disposizioni dettate in tema di delibere
societarie, ritengono nulle le delibere aventi ad oggetto
materie sottratte alla competenza della assemblea, la
ripartizione delle spese secondo criteri diversi da quelli
legali, contenuto illecito o impossibile, la menomazione dei
diritti spettanti a ciascun condomino, e quelle contrarie a
norme imperative. Sono, invece, annullabili le delibere
assunte a seguito di un procedimento viziato, ovvero
inficiate da eccesso di potere perché invadono il campo
riservato alla competenza dell'amministratore.
7. Il denunciato contrasto è sintetizzabile nei seguenti
termini.
7.1. Sull'omessa comunicazione dell'avviso, sino al 2000 è
rimasto fermo il principio, affermato dalla Corte in
numerose pronunce (v. fra le tante: Cass. 01.10.1999, n.
10886; 19.08.1998, n. 8199; 12.06.1997, n. 5267; 27.06.1992,
n. 8074; 09.12.1987, n. 9109; 15.11.1977, n. 4984; 16.04.1973,
n. 1079; 12.11.1970, n. 2368), della nullità della
delibera. In alcune sentenze, la sanzione della nullità è
espressamente ricondotta alla difettosa costituzione
dell'organo deliberante, risultando irrilevante l'incidenza
o meno del voto sulle prescritte maggioranze (Cass.
12.02.1993, n. 1780; 15.11.1977, n. 4984). In altre la
nullità è ricondotta all'esigenza che tutti i condomini
siano
preventivamente informati della convocazione dell'assemblea,
così da poter essere partecipi del procedimento di
formazione della delibera stessa, con la conseguenza che non
determinano la nullità le mere irregolarità, quali la
convocazione ad opera di persona non qualificata (Cass.
02.03.1987, n. 2184) o l'incompletezza dell'ordine del giorno
(Cass. 21.09.1977, n. 4035) che danno luogo alla sola
annullabilità. A volte la nullità è fatta discendere
espressamente dall'art. 1136, sesto comma, c.c..
7.2. A partire dal 2000, cambiando orientamento, la Corte
(Cass. 05.01.2000, n. 31; 05.02.2000, n. 1292; 01.08.2003, n.
11739) afferma che la mancata comunicazione dell'avviso di
convocazione dell'assemblea condominiale ad un
condomino determina la semplice annullabilità della
delibera. Il mutamento di indirizzo della Corte trae
argomento:
a) dal combinato disposto degli artt. 1105, terzo comma, e
1109 c.c., in base al quale la mancata preventiva
informazione dei partecipanti alla comunione determina
semplicemente l'impugnabilità, nel termine di decadenza di
trenta giorni, delle deliberazioni assunte da parte dei
componenti della minoranza dissenziente;
b) dal parallelismo
e dall'identità di ratio (individuata nell'esigenza di
certezza dei rapporti giuridici, messa a rischio dalla
possibilità di
dedurre in ogni tempo la nullità) esistente tra la
disciplina in materia di società di capitali (artt. 2377,
2379 c.c.,
logicamente prima della riforma introdotta col D.Lgs.
17.01.2003 n. 6, di cui si dirà in seguito) e quella in
materia
condominiale (art. 1137 c.c.) in tema di delibere
dell'assemblea (dei soci, nel primo caso, e dei condomini,
nel
secondo), la prima delle quali espressamente limita le
ipotesi di nullità delle delibere assunte dall'assemblea dei
soci ai soli casi dell'"impossibilità" e dell'"illiceità"
dell'oggetto.
7.3. In particolare, i vizi dell'oggetto come causa di
nullità sono ricollegati con i confini posti in materia di
condominio al metodo collegiale e al principio di
maggioranza. Secondo la Corte "tanto la impossibilità
giuridica,
quanto la illiceità dell'oggetto derivano dal difetto di
attribuzioni in capo all'assemblea, considerato che la prima
consiste nella inidoneità degli interessi contemplati ad
essere regolati dal collegio che delibera a maggioranza,
ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto stabilito in
concreto, e che la seconda si identifica con la violazione
delle
norme imperative, alle quali l'assemblea non può derogare,
ovvero con la lesione dei diritti individuali, attribuiti ai
singoli dalla legge, dagli atti di acquisto e dalle
convenzioni". Di conseguenza la formula dell'art. 1137 c. c.
deve
interpretarsi nel senso che per "deliberazioni contrarie
alla legge" s'intendono le delibere assunte dall'assemblea
senza l'osservanza delle forme prestabilite dall'art. 1136
(ma pur sempre nei limiti delle attribuzioni specificate
dagli
artt. 1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.).
Inoltre, "mentre
le cause di nullità afferenti all'oggetto raffigurano le
uniche cause di invalidità riconducibili alla "sostanza"
degli atti, alle quali l'ordinamento riconosce rilevanza" e
costituendo vizi gravi non sono soggette a termine per
l'impugnazione; invece "sono inficiate da un vizio di forma
le
deliberazioni quando l'assemblea decide senza l'osservanza
delle forme procedimentali stabilite dalla legge per
assicurare la partecipazione di tutti i condomini alla
formazione della volontà collettiva per gestire le cose
comuni"
e, attinendo al procedimento di formazione, producono un
vizio non grave che, se non fatto valere nei termini
prescritti, non inficia gli atti.
Le diverse cause di invalidità sono state, quindi,
ricondotte al tipo di interesse leso: interessi sostanziali
inerenti
all'oggetto delle delibere, per la nullità; strumentali, in
quanto connessi con le regole procedimentali relative alla
formazione degli atti, per l'annullabilità.
8. Con riferimento al verbale delle delibere dell'assemblea
dei condomini, un vero e proprio contrasto
giurisprudenziale non sembra emergere, registrandosi
soltanto alcune puntualizzazioni e specificazioni.
8.1. Infatti, la Corte, in alcune pronunce (v. ex plurimis:
Cass. 22.05.1999, n. 5014; 19.10.1998, n. 10329) ha
espressamente affermato l'annullabilità ex art. 1137 c.c.
della delibera il cui verbale contiene delle omissioni,
precisando che la redazione del verbale costituisce una
delle prescrizioni di forma che devono essere osservate al
pari delle altre formalità richieste dal procedimento
collegiale (avviso di convocazione, ordine del giorno, etc.),
la
cui inosservanza comporta l'impugnabilità della delibera, in
quanto non presa in conformità della legge.
8.2. Principio che si ritrova implicitamente alla base di
altre pronunce, dove la Corte ha affermato l'annullabilità
delle deliberazioni assembleari nel caso in cui non siano
individuati, e riprodotti nel relativo verbale, i nomi dei
condomini assenzienti e di quelli dissenzienti, ed i valori
delle rispettive quote millesimali (Cass. 22.01.2000, n. 697;
29.01.1999, n. 810).
8.3. E' stato pure affermato che la sottoscrizione del
presidente subentrato in luogo di quello che all'inizio ha
presieduto concreta una irregolarità formale, comportante
annullabilità (Cass. 29.10.1973, n. 2812); e in generale,
la stessa redazione per iscritto del verbale, prescritta
dall'art. 1136, ultimo comma, c.c., non è prevista a pena
di
nullità, tranne il caso in cui la delibera incida su diritti
immobiliari (Cass. 16.07.1980, n. 4615).
9. Parimenti per quanto riguarda le delibere in materia di
ripartizione delle spese (se si esclude l'isolata e
risalente
pronuncia n. 1726 del 04.07.1966) non sembra sussistere
contrasto nella giurisprudenza, atteso che la Corte -a
partire del 1980- ha costantemente distinto, sulla base di
un medesimo criterio, le ipotesi di nullità (v. Cass. 09.08.1996, n. 7359; 15.03.1995, n. 3042;
03.05.1993, n. 5125;
19.11.1992, n. 12375; 05.12.1988, n. 6578; 21.05.1987, n.
4627; 05.10.1983, n. 5793; 05.05.1980, n. 29289) da quelle di
annullabilità (cfr. Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n.
6403; 01.02.1993 n. 1213; 05.08.1988, n. 4851; 08.09.1986, n.
5458), in molti casi facendo espresso riferimento all'art.
1123 c.c. .
9.1. In particolare, partendo dal rilievo che le
attribuzioni all'assemblea ex art. 1135 c. c. sono
circoscritte alla
verificazione ed all'applicazione in concreto dei criteri
stabiliti dalla legge e non comprendono il potere di
introdurre
deroghe ai criteri medesimi, atteso che tali deroghe,
venendo ad incidere sui diritti individuali del singolo
condomino di concorrere nelle spese per le cose comuni
dell'edificio condominiale in misura non superiore a quelle
dovute per legge, possono conseguire soltanto ad una
convenzione cui egli aderisca, la Corte (cfr. Cass.
09.08.1996,
n. 7359; 15.03.1995, n. 3042; 3.5.1993, n. 5125; 19.11.1992,
n. 12375) ha affermato la nullità della delibera che
modifichi i suddetti criteri di spesa (sia nell'ipotesi di
individuazione dei criteri di ripartizione ai sensi
dell'art. 1123 c.c., sia nell'ipotesi di cambiamento dei criteri già fissati
in precedenza).
9.2. Conseguentemente la Corte ha riconosciuto
l'annullabilità della delibera nel caso di violazione dei
criteri già
stabiliti quando vengono in concreto ripartite le spese
medesime (Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n. 6403; 01.02.1993 n. 1213).
10. Il contrasto, che come evidenziato riguarda
essenzialmente l'omessa comunicazione dell'avviso di
convocazione, ex art. 66, 3° comma, disp. att. c.c., ha
visto divisa anche la dottrina, la quale ha assunto
posizioni
di segno diverso sia rispetto all'utilizzo degli artt. 1105
e 1109 c.c., sia rispetto al parallelismo e identità di
ratio con
la disciplina in materia di società di capitali.
10.1. Alcuni autori dubitano della pertinenza del richiamo
all'art. 1105, comma 3, c.c. in tema di comunione:
l'omessa informazione preventiva sull'oggetto della
deliberazione non può, infatti, essere assimilata senz'altro
all'omessa convocazione. Ciò per la decisiva considerazione
che il principio maggioritario in tanto può operare in
quanto tutti gli aventi diritto siano posti in condizione di
intervenire in assemblea, partecipare alla discussione e
alla
votazione. Nei riguardi del condomino non convocato la
riunione assembleare e le relative deliberazioni sarebbero
res inter alios acta. Né può dirsi, sotto altro profilo, che
la convocazione di un condomino attenga, comunque, solo
al procedimento da osservare per la formazione della volontà
assembleare, determinando l'omissione un error in
procedendo.
10.2. Secondo altri autori è stato individuato un riscontro
normativo direttamente afferente al vizio di convocazione
ed espressamente regolato come annullabilità in un settore
non distante dal regime condominiale. Inoltre, il
richiamo risulta utile per la sua diretta attinenza alla
ricostruzione della disciplina codicistica del metodo
collegiale:
nella comunione, come nel condominio, le decisioni comuni
vengono assunte in collegio e l'obbligo di informativa
sulle materie oggetto di discussione è finalizzato al
successivo svolgimento dell'assemblea, di cui l'art. 1105
c.c.
prescrive in definitiva la convocazione; in tal senso è di
rilievo l'azione di annullabilità prevista dall'art. 1109 c.c.
quale rimedio idoneo contro le decisioni illegittime della
maggioranza, poiché nel condominio il metodo collegiale
riveste la medesima rilevanza che nella comunione ordinaria,
ove pure è posto a tutela dei diritti delle minoranze.
10.3. Quanto al parallelismo e identità di ratio con la
disciplina in materia societaria, un orientamento
dottrinario
distingue tra la "mancata convocazione di alcuni" soltanto
dei soci e "mancata convocazione dei soci" (ovvero
mancata convocazione dell'assemblea) non seguita da
assemblea totalitaria, ritenendo che, mentre in quest'ultimo
caso ricorre un'ipotesi di nullità radicale (rectius di
inesistenza), nel primo, invece, una situazione di semplice
annullabilità, ai sensi dell'art. 2377 c.c.. Peraltro, in
generale, si è affermato che il richiamo alla disciplina
della
società per azioni non sembra corretto, essendo il
condominio pervaso dalla logica proprietaria a differenza
della
materia societaria, dove l'interesse del gruppo trova spesso
maggiore tutela dell'interesse del singolo sacrificato in
funzione dello scopo comune.
10.4. Altro orientamento dottrinario, al contrario, ritiene
condivisibile il parallelismo con la disciplina societaria,
avuto riguardo alle invocate esigenze di certezza nei
rapporti tra i condomini e tra il condominio e terzi. Vi è
chi
sostiene che nel condominio (differentemente dalla
disciplina positiva dei contratti e di quella in materia di
società)
l'art. 1137 c.c. assoggetterebbe ad un unico regime decadenziale le violazioni della legge e del regolamento,
senza possibilità di distinzione tra annullabilità e
nullità.
Non manca chi, partendo da una rilettura dell'art.
1139 c.c., che per quanto non espressamente previsto in materia di
condominio rinvia alle norme sulla comunione, e dal
presupposto che tale norma non è di chiusura (altrimenti
sarebbe "di clausura"), ma consente un rinvio interno fra
sistemi laddove sussistano elementi di sufficiente
omogeneità, condividendo le cosiddette concezioni miste del
condominio, giunge a condividere la concezione della
"complessità sistematica", che vede nel condominio "un
sistema di sistemi" e dunque "un istituto giuridico che
trova la sua consistenza nell'avvalersi di regole già
proprie di
altri istituti, quali quelli attinenti ai rapporti fra parti
di proprietà individuale e parti comuni, quelle relative
all'assemblea, quelle infine che si riferiscono
all'amministratore". E, quindi, con riferimento alla
modalità di
convocazione e gestione dell'assemblea, sono da ritenersi in
considerazione, secondo ritenersi in considerazione,
secondo l'autore, anche le norme del codice dettate per la
società per azioni.
11. Ritengono le Sezioni Unite, al fine di risolvere la
questione di diritto e definire il contrasto, che debba
privilegiarsi l'interpretazione secondo la quale la mancata
comunicazione dell'avviso di convocazione
dell'assemblea condominiale, anche ad un solo dei condomini,
comporta non la nullità, ma l'annullabilità della
delibera condominiale, in base alle seguenti considerazioni.
11.1. Conviene premettere che in tema di condominio negli
edifici, il codice non contempla la nullità.
L'art. 1137 c.c., al comma 2, espressamente stabilisce
che, contro le deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può
fare ricorso all'autorità giudiziaria: al comma 3°
aggiunge che il ricorso deve essere proposto, sotto pena di
decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla
data di deliberazione per i dissenzienti e dalla data di
comunicazione per gli assenti.
Il breve termine di decadenza e la individuazione delle
persone legittimate (ben poche) alla impugnazione dimostrano
essere contemplata una ipotesi di annullabilità, posto che
sia in tema di negozio (artt. 1441 e 1442 c.c.), sia in tema di delibere societarie (art. 2377, comma 2°,
c.c.), il termine per la impugnazione e le persone
legittimate a proporre l'azione contrassegnano le ipotesi di
annullabilità; al contrario, per le ipotesi di nullità,
tanto in
tema di negozio (art. 1421 e 1422 c.c.) quanto in tema di
delibere societarie (art. 2379 c.c.) l'azione di nullità
non
è soggetta a termine e, allo stesso tempo, è legittimato ad
esercitarla chiunque vi ha interesse, inoltre la nullità può
essere rilevata d'ufficio dal giudice.
11.2. Dottrina e giurisprudenza ravvisano l'essenza della
nullità nella mancanza o nella grave anomalia di qualche
elemento intrinseco dell'atto, tale da non consentire la
rispondenza alla figura tipica individuata dall'ordinamento.
La nullità è considerata lo strumento con cui la legge nega
fondamento a quelle manifestazioni di volontà
attraverso le quali si realizza un contrasto con lo schema
legale e con gli interessi generali dell'ordinamento. Di
conseguenza, attraverso la sanzione della nullità,
l'ordinamento, esprimendo un giudizio di meritevolezza, nega
la
propria tutela a programmazioni che non rispondono a valori
fondamentali.
11.3. L' art. 1418 c.c. elenca una serie di ipotesi in cui
il contratto, per gli specifici vizi in esso previsti -la
mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325,
l'illiceità della causa, l'illiceità dei motivi nel caso
indicato
dall'art. 1345 e la mancanza nell'oggetto dei requisiti
stabiliti dall'art. 1346- viene espressamente sanzionato
con la
nullità. Altre norme, poi, prevedono tale sanzione ora nello
stesso codice civile, ora in leggi specifiche (cfr. art.
1418, 3° comma).
11.4. Alcune norme di legge vietano il compimento di
determinati negozi, senza però stabilire la specifica
sanzione
in caso di inosservanza del relativo divieto. Si parla in
tali ipotesi di nullità cd. virtuale, argomentandosi dal 1°
comma dell'art. 1418 c.c, il quale dispone che "il
contratto è nullo quando è contrario a norme imperative,
salvo
che la legge disponga diversamente". Ciò vuol dire che se la
legge dispone diversamente, ossia una diversa
sanzione (ad esempio, l'annullabilità), sarà questa sanzione
a doversi applicare; se, però, non è prevista una
sanzione per la violazione di una precisa norma imperativa,
dovrà applicarsi quella della nullità, in quanto ciò è
detto proprio nel 1° comma dell'art. 1418.
11.5. Regole esattamente inverse, invece, valgono in materia
testamentaria, societaria e del lavoro: in tali ambiti,
infatti, è l'annullabilità ad essere virtuale, in quanto le
ipotesi di nullità sono specificamente limitate a singole e
particolari ipotesi (per il testamento cfr. l'art. 606 c.c.; per le società di capitali l'art. 2332 c.c.; per il
rapporto di
lavoro l'art. 2126 c.c.).
12. In materia di condominio, la nullità non prevista è
piuttosto una creazione della dottrina e della
giurisprudenza
per impedire l'efficacia definitiva delle delibere mancanti
degli elementi costitutivi (o lesive dei diritti
individuali): per
la verità, fissare l'efficacia definitiva di una delibera
gravemente viziata per difetto di tempestiva impugnazione
non
sembra giusto.
In assenza di specifica previsione normativa, sembra logico
doversi ammettere la nullità soltanto nei casi più gravi.
12.1. Al riguardo, nell'ambito del condominio negli edifici
acquista rilevanza la distinzione tra momento costitutivo e
momento di gestione. Invero, l'espressione "condominio negli
edifici" designa tanto il diritto individuale sulle cose,
gli impianti ed i servizi comuni attribuito ai proprietari
dei piani o delle porzioni di piano siti nel fabbricato,
quanto
l'organizzazione degli stessi proprietari, cui è affidata la
gestione delle parti comuni. I vizi riscontrabili nel
momento
costitutivo, che riflette l'insorgenza del diritto
individuale e la stessa situazione soggettiva di condominio,
con
conseguente rilevanza della volontà individuale di ogni
singolo partecipante, onde il principio è quello
dell'autonomia, che si avvale dello strumento negoziale,
certamente sono più gravi di quelli verificabili nel momento
di gestione, che riguarda l'organizzazione del condominio
per quanto attiene le sole cose comuni, dove vige il
metodo collegiale e il principio maggioritario, che
comportano la subordinazione della volontà dei singoli al
volere
dei più.
12.2. Come sopra accennato a favore della nullità della
delibera per la mancata convocazione di un solo
condomino, si adducono due argomenti. Anzitutto, la lettera
dell'art. 1136, comma 6°, c.c., secondo cui l'assemblea non
può deliberare se non consta che tutti i condomini sono
stati invitati alla riunione, mediante
comunicazione di cui all'art. 66, 3° comma, disp. att. c.c.. Donde l'inferenza che, in mancanza della convocazione
anche di un solo condomino, non sussisterebbe il potere
dell'assemblea di deliberare. Il principio maggioritario -si
aggiunge- in tanto può operare in quanto tutti i condomini
siano stati posti in condizioni di intervenire in assemblea,
di partecipare alla discussione e alla votazione. D'altra
parte, si conclude, la convocazione non attiene al solo
procedimento, perché nei confronti del non convocato il
procedimento non inizia e quindi non può verificarsi alcun
errore in procedendo: la convocazione attiene alla sostanza
della applicazione del principio maggioritario.
12.3. Gli argomenti non persuadono e nel sistema si
rinvengono considerazioni contrarie di maggior peso.
Premesso che il procedimento di convocazione è unico e non
si frantuma in tanti procedimenti quanti sono i singoli
condomini da convocare, la lettera dell'art. 1136, comma 6°,
c.c. non raffigura un ostacolo insormontabile; la
norma può essere intesa, con riferimento alla funzione, nel
senso che la proposizione secondo cui l'assemblea non
può "validamente" deliberare se tutti i condomini non sono
stati convocati, deve intendersi nel senso che, in difetto
di convocazione di un condomino, la delibera non è
definitivamente valida, essendo suscettibile di impugnazione
(nel prescritto termine di trenta giorni).
12.4. La delibera approvata con il principio maggioritario
non va confusa con la statuizione assunta con il negozio
plurilaterale. Mentre il negozio plurilaterale non è valido,
se non vi partecipano tutte le parti necessarie,
contrassegno precipuo del principio maggioritario è la
imputazione all'intero collegio di quello che è il volere
della
maggioranza; quindi riconoscere l'efficacia della
deliberazione sulla base delle maggioranze prescritte e non
necessariamente sul fondamento della volontà di tutti i
partecipanti. Se in base al metodo collegiale e al principio
maggioritario si vincolano anche tutti i condomini assenti o
dissenzienti non deve menar scandalo la mancata
convocazione di un condomino il quale, peraltro, non resta
privo di tutela, poiché può impugnare quando la
delibera gli viene comunicata.
12.5. Rileva poi la portata del collegato disposto degli
artt. 1105, comma 3°, e 1109 n. 2 e p. ult., c.c., che, in
tema
di comunione, stabilisce l'impugnazione della delibera entro
il termine di decadenza di trenta giorni nel caso di
omessa preventiva informazione a tutti i partecipanti. E'
pur vero che l'art. 1105 c.c. parla di preventiva
informazione e non di convocazione. La terminologia
differente si spiega con la considerazione che nella
comunione non è prevista l'assemblea, ma la semplice
riunione dei comproprietari interessati. Tuttavia la
sostanza
della norma è che il difetto di informazione -certamente
assimilabile alla omessa convocazione- non configura una
causa di nullità, ma di semplice annullabilità. Da qui
risulta ragionevole dubitare che l'art. 1136, comma 6°, c.c.,
disciplinando la stessa fattispecie e usando un formula
consimile, alla mancata convocazione di un condomino
ricolleghi non la annullabilità ma la conseguenza più grave
della nullità.
13. A queste considerazioni specifiche conviene aggiungere
argomenti desunti dalla teoria degli atti giuridici.
Come sopra detto, in generale, si considera nullo l'atto
quando manca ovvero è gravemente viziato un elemento
costitutivo, previsto secondo la configurazione normativa.
Pertanto, a causa dell'assenza ovvero del grave vizio
dell'elemento considerato essenziale, l'atto si considera
inidoneo a dar vita alla nuova situazione giuridica, che il
diritto ricollega al tipo legale, in conformità con la sua
funzione economico-sociale. Per contro, si considera
annullabile l'atto in presenza di carenze o di vizi ritenuti
meno gravi, secondo la valutazione compiuta
dall'ordinamento. Annullabile è, dunque, l'atto che non
mancando degli elementi essenziali del tipo presenta vizi
non gravi, che lo rendono idoneo a dare vita ad una
situazione giuridica precaria, che può essere rimossa.
13.1. In tema di deliberazioni delle società di capitali,
come è noto, le cause di nullità sono circoscritte (art.
2379 c.c.), in funzione della certezza dei rapporti societari, i
quali riguardano un numero cospicuo di persone. Le stesse
esigenze di certezza dei rapporti si rinvengono in tema di
condominio negli edifici, dove i rapporti riguardano i
condomini, che raffigurano un numero di persone maggiore di
quelle che al singolo contratto sono interessate.
Pertanto, appare corretto e coerente con i principi limitare
le cause di nullità ai vizi afferenti alla sostanza degli
atti,
vale a dire alla impossibilità o alla illiceità
dell'oggetto. Tanto la impossibilità giuridica quanto
l'illiceità dell'oggetto
derivano dal difetto di attribuzioni in capo all'assemblea,
posto che la prima consiste nella inidoneità degli interessi
contemplati ad essere regolati dal collegio che delibera a
maggioranza, ovvero a ricevere dalle delibere l'assetto
stabilito in concreto, e la seconda si identifica con la
violazione delle norme imperative, dalle quali l'assemblea
non
può derogare, ovvero con la lesione dei diritti individuali,
attribuiti ai condomini dalla legge, dagli atti di acquisto
o
dalle convenzioni.
13.2. La formula dell'art. 1137 c.c. deve interpretarsi nel
senso che per le deliberazioni contrarie alla legge o al
regolamento di condominio si intendono le delibere assunte
dall'assemblea senza l'osservanza delle forme
prescritte dall'art. 1136 c.c. per la convocazione, la
costituzione, la discussione e la votazione in collegio, pur
sempre nei limiti delle attribuzioni specificate dagli artt.
1120, 1121, 1129, 1132, 1135 c.c.. Sono inficiate da un
vizio di forma le deliberazioni quando l'assemblea decide
senza l'osservanza delle forme procedimentali stabilite
dalla legge per assicurare la partecipazione di tutti i
condomini alla formazione della volontà collettiva per
gestire le
cose comuni. Pertanto, se gli stessi condomini interessati
ritengono che dal provvedimento approvato senza
l'osservanza delle forme prescritte non derivi loro un
danno, manca il loro interesse a chiedere l'annullamento. Il
difetto di impugnazione in termine può assumere significato
di personale successiva adesione alla delibera.
13.3. Sul punto è opportuno soffermarsi brevemente. Per la
verità, la configurazione della mancata convocazione
del condomino come vizio procedimentale, da cui ha origine
la semplice annullabilità, non significa privare della
tutela il condomino non convocato. Invero, essendogli
riconosciuto il potere di impugnare nel termine di trenta
giorni dalla comunicazione, egli ha modo di far valere le
sue ragioni. Peraltro, la configurazione proposta esclude il
rischio che le delibere assembleari possano essere impugnate
anche dopo il trascorrere di un lunghissimo tempo,
sol perché un requisito formale non è stato osservato, con
conseguenze gravissime sulla gestione del condominio.
14. Un ultimo argomento proviene dal nuovo assetto dell'art.
2739 c.c. stabilito dalla riforma societaria.
14.1. In attuazione dei principi e criteri direttivi fissati
dalla legge delega n. 366/2001, il D.Lgs. 17.01.2003,
n.
6, nel regolare le assemblee della società per azioni, ha
dettato nuove norme sui vizi delle deliberazioni,
modificando gli artt. 2377, 2378 e 2379 c.c. e aggiungendo
due nuovi articoli, 2739-bis e 2739-ter, oltre l'art. 2734-bis. Il nuovo sistema ha innovato, in primo luogo, il regime
di invalidità degli atti, sotto il duplice profilo della
causa e
degli effetti, in entrambe le fattispecie di annullabilità e
nullità. In secondo luogo, ha modificato il procedimento di
impugnazione delle delibere invalide, in coerenza con le
nuove norme sul processo in materia di diritto societario, e
affiancando all'azione reale una speciale azione personale e
risarcitoria dei danni causati dalla deliberazione
viziata.
14.2. Nel sistema adottato, la regola generale, come nel
precedente assetto, è quella secondo cui la violazione di
legge o di statuto induce la annullabilità. Invece, la
nullità consegue ad una serie di violazioni particolarmente
gravi
della legge, e la relativa disciplina, anziché richiamare -come faceva il vecchio art. 2379- le regole generali sulla
nullità dei contratti, di cui agli artt. 1421, 1422 e 1423
c. c., contiene disposizioni particolari e introduce nuove
ipotesi. Le ipotesi di nullità sono tre (art. 2379) e per
ciascuna è dettata una disciplina intesa al contenimento
della
fattispecie e delle sue conseguenze; la disciplina comune
consiste nella impugnabilità da parte di chiunque vi abbia
interesse nel termine di tre anni (con l'eccezione di
ipotesi particolari) e alla rilevabilità d'ufficio, nei casi
e nei
termini previsti.
14.3. Secondo i primi commenti la riforma avrebbe
privilegiato l'interesse della società alla stabilità delle
delibere e
l'esigenza del mercato alla stabilità dei rapporti
giuridici, senza pregiudicare peraltro l'interesse dei
singoli soci a
non subire dei pregiudizi per l'illegalità delle delibere
sociali.
15. Avuto riguardo alle considerazioni svolte e ai principi
espressi, queste Sezioni Unite ritengono che debbano
qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi
essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito
(contrario
all'ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le
delibere con oggetto che non rientra nella competenza
dell'assemblea, le delibere che incidono sui diritti
individuali sulle cose o sevizi comuni o sulla proprietà
esclusiva di
ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in
relazione all'oggetto.
Debbano, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare
costituzione dell'assemblea, quelle adottate con maggioranza
inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento
condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione
dell'assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità
nel procedimento di convocazione, quelle che violano
norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione
all'oggetto.
16. Il contrasto giurisprudenziale, pertanto, va risolto
affermandosi che la mancata comunicazione, a taluno dei
condomini, dell'avviso di convocazione dell'assemblea
condominiale comporta non la nullità, ma l'annullabilità
della
delibera condominiale, che se non viene impugnata nel
termine di trenta giorni previsto dall'art. 1137, 3° comma,
c.c. -decorrente per i condomini assenti dalla comunicazione
e per i condomini dissenzienti dalla sua approvazione-
è valida ed efficace nei confronti di tutti i partecipanti
al condominio.
17. Il principio comporta, quindi, il rigetto del primo
motivo di ricorso.
18. Anche il
secondo motivo è da rigettare, perché (come sopra
detto) questa Corte ha costantemente
affermato l'annullabilità ex art. 1137 c.c. della delibera
il cui verbale contiene delle omissioni, anche relative alla
mancata individuazione dei singoli condomini assenzienti,
dissenzienti, assenti e al valore delle rispettive quote
(Cass. 22.01.2000, n. 697; 29.01.1999, n. 810).
19. Infine pure il terzo motivo è infondato, perché la
delibera ha riguardato non la determinazione e fissazione
dei
criteri legali ovvero convenzionali per la ripartizione
delle spese, ma, nell'ambito di tali prefissati criteri, la
ripartizione in concreto tra i condomini delle spese
relative a lavori straordinari ritenuti afferenti a beni
comuni (posti
auto e vano ascensore) e tassa di occupazione di suolo.
E'
stato sempre riconosciuto che la delibera, assunta
nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste
dall'art. 1135, n. 2 e 3, c.c. relativa alla ripartizione
in concreto
delle spese condominiali, ove adottata in violazione dei
criteri già stabiliti, deve considerarsi annullabile, non
incidendo sui criteri generali da adottare nel rispetto
dell'art. 1123 c.c., e la relativa impugnazione va proposta
nel
termine di decadenza (trenta giorni) previsto dall'art. 1137,
comma ultimo c.c. (v. Cass. 09.02.1995, n. 1455; 08.06.1993, n. 6403;
01.02.1993, n. 1213) (Corte di Cassazione, Sezz. unite civili,
sentenza 07.03.2005 n. 4806). |
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