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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di FEBBRAIO 2019

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aggiornamento al 12.02.2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 12.02.2019

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Cos'è la "funzione nomofilattica"??

     Per "funzione nomofilattica" si intende comunemente il compito di “garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”.
     Tale funzione nell'ordinamento italiano è descritta dall'art. 65 della legge sull'ordinamento giudiziario italiano (R.D. 30.01.1941 n. 12): «
La corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri compiti ad essa conferiti dalla legge. ....»
     Come chiaramente indicato dal su indicato articolo, la funzione nomofilattica della Cassazione si articola in due sottofunzioni ben distinte: da un lato garantire l'attuazione della legge nel caso concreto, realizzando la giurisdizione in senso stretto, dall'altro fornire indirizzi interpretativi “uniformi” per mantenere, nei limiti del possibile, l'unità dell'ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza.
     Il controllo degli indirizzi interpretativi obbedisce all'elementare esigenza di garantire la certezza del diritto; tuttavia, stante la grande complessità della materia giuridica, la naturale mutazione dei tempi, delle idee e dei giudici persone fisiche chiamati a ricoprire incarichi nella magistratura di legittimità, non è infrequente osservare mutamenti nella giurisprudenza della Cassazione, che per la loro rapidità e drasticità, potrebbero far pensare -volendo utilizzare un'espressione a effetto- che la nomofilachia non trovi adepti neppure fra le file dei suoi sacerdoti.
     Su queste premesse, è da tempo in corso il dibattito sulla cosiddetta crisi della funzione nomofilattica, cui si è recentemente tentato di porre rimedio con il D.Lgs. 02.02.2006 n. 40, che ha mirato sostanzialmente a dare maggiore peso alle pronunce a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, impedendo alle sezioni semplici di discostarsi da esse, se non rimettendo motivatamente la questione problematica a una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (cfr. art. 374 c.p.c.).
     Con il medesimo provvedimento citato, si è anche dato ampio spazio al principio di diritto enunciato nella sentenza di legittimità, attribuendo in tal modo un ruolo essenziale all'Ufficio del massimario che, in seno all'organizzazione della Corte di cassazione, si occupa della redazione delle massime delle pronunce emanate dalla Corte Suprema di cassazione.
     Malgrado tali importanti innovazioni, tuttavia, la funzione nomofilattica conserva un ruolo autorevole, ma non acquista alcuno spazio autoritativo.
     Il nostro ordinamento resta ispirato a una struttura di civil law e il valore giuridico delle sentenze resta quello di risolvere le controversie fra le parti, i loro eredi e aventi causa e non quello di fissare nuovi principi di diritto vincolanti, come avviene grazie al criterio dello stare decisis negli ordinamenti di common law.
     Si consideri tuttavia che la vera forza nomofillattica non sta tanto e solo nel ruolo istituzionale dell'autorità giurisdizionale che ha emanato la sentenza, ma risiede piuttosto nella capacità di quest'ultima di disegnare un percorso argomentativo solido e convincente e -quel che più conta- in aderenza con le esigenze giuridiche del momento storico.
     Svolgono anche un'essenziale funzione nomofilattica le sezioni riunite della Corte dei conti e il Consiglio di Stato, in adunanza plenaria e adunanza generale (commento tratto da https://it.wikipedia.org).
     Se le cose stanno in questi termini, allora, potremmo mettere un punto fermo su una fattispecie edilizia (abusiva) molto controversa in giurisprudenza e cioè:

La realizzazione abusiva di una piscina interrata (e di locali annessi) in zona vincolata non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria.

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata - Permesso di costruire e autorizzazione paesaggistica - Necessità - Art. 167 e 181 D.Lgs. n. 42/2004.
La realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004).
...
Intervento edilizio - Piscina interrata e pertinenze - Valutazione unitaria delle opere - Artt. 3, 10, 11, 44, d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze (Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363).
Nella fattispecie, anche per una piscina interrata e i locali annessi dal momento che modifica in modo permanente il suolo, è necessario il permesso di costruire (Cass. pen. sez. III 27.01.2004, n. 6930)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere che comportano la trasformazione permanente del suolo inedificato necessitano del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi di nuova costruzione".
Tali interventi, come è noto, sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e), la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo dell'avverbio "comunque").

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E' pacifico che la realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria. Invero, la realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria.
In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n. 42/2004).
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7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa, peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è necessaria per le opere interne, che non sono neppure astrattamente idonee a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede ricordare come non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza 29.05.2018 n. 3545: "
Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità"; detto principio è enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze: Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo, consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una valutazione unitaria, è evidente che dette opere comportassero la trasformazione permanente del suolo inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto, sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio". Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e), la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un superamento della "soglia" indicata dall'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita alla piscina (che, considerate le sue dimensioni, determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con superficie tutt'altro che modesta), conducevano necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di appello, essendo pacifico che anche la realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria (v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep. 22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n. 1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che espressamente afferma come la realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n. 42/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913).

 

Internauti incalliti okkio:
sul posto di lavoro "si lavora"!!

PUBBLICO IMPIEGOTroppo su Facebook: licenziato. Condotta grave rubare tempo alle attività di servizio. Sentenza della Cassazione. La notifica telematica è valida anche con l’invio in Word.
Licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia del pc, l’incolpato non può smentire i 4.500 accessi con password al social in 18 mesi: «condotta contraria all’etica comune». Anche senza il pdf conta che lo scopo sia raggiunto.

Tempi duri per i dipendenti che stanno sempre su Facebook dal pc aziendale. Scatta il licenziamento disciplinare: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una condotta «grave» perché in contrasto con «l'etica comune» e finisce per incrinare la fiducia del datore. Ancora. È valida la notifica telematica anche se alcuni documenti sono inviati in Word: conta il risultato della conoscenza dell'atto.
È quanto emerge dalla sentenza 01.02.2019 n. 3133 della Sez. lavoro della Corte di Cassazione.
Condotte estranee
Bocciato il ricorso della segretaria assunta part-time presso lo studio medico: gran parte della giornata lavorativa risulta trascorsa su Internet per motivi privati; lo dimostrano i circa 4.500 accessi soltanto sul social network blu, sui circa 6 mila totali al web, effettuati nel corso di diciotto mesi dal computer della sua postazione. E risulta «senza dubbio grave» la condotta addebitata perché la lavoratrice approfitta della fiducia del datore che non sottopone il pc della dipendente a rigide verifiche.
A inchiodarla è la semplice cronologia degli accessi alla rete, dunque non un particolare dispositivo di controllo installato sul pc, ma semplici dati che sono registrati da qualsiasi computer: risulta esclusa ogni violazione dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori perché non si configura una verifica sulla produttività o l'efficienza ma finiscono nel mirino condotte estranee alla prestazione.
Credenziali e riferibilità
In effetti la dipendente incolpata non contesta la navigazione in rete durante l'orario di servizio per motivi estranei all'ambito lavorativo: d'altronde al social creato da Mark Zuckerberg si accede solo con password e con l'inserimento delle credenziali la lavoratrice non riesce a smentire che gli accessi contestati siano riferibili a lei.
Inutile dolersi, poi, per la mancata ammissione della consulenza tecnica d'ufficio richiesta per ricostruire l'assetto del personal computer: l'istanza è un mezzo puramente esplorativo, al di là dei dubbi che in assoluto suscita l'ipotesi di identificare chi ha utilizzato il pc con un esame tecnico postumo. Non può poi essere esaminata la violazione delle regole della privacy: è una questione che non risulta sollevata nel corso dei gradi di merito.
Difformità dirimente
Veniamo alla questione processuale. È esclusa la nullità nonostante la violazione delle regole del processo telematico che impongono di notificare atti in formato pdf: risulta dirimente che sia comunque raggiunto lo scopo legale della notificazione. Né rileva che il documento notificato con estensione doc o docx potrebbe essere modificato, diversamente dal pdf: in effetti il ricorso di legittimità deve essere depositato in formato cartaceo e dunque conta soltanto che non vi siano difformità tra quanto notificato in via telematica e ciò che risulta agli atti della Suprema corte.
Alla lavoratrice non resta che pagare le spese di giudizio e il contributo unificato aggiuntivo
(articolo ItaliaOggi del 02.02.2019).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Sull'impugnazione, per dichiararne l'annullamento, del verbale conclusivo di una conferenza di servizi decisoria.
Il modulo procedimentale della conferenza di servizi disciplinato in via generale dall’art. 14 e ss. della legge 07.08.1990 n. 241 ed in special modo quella cosiddetta decisoria (il cui impianto ricostruttivo è rinvenibile nelle disposizioni dell’art. 14, comma 2), che rileva nel presente contenzioso, lungi dal rappresentare un autonomo procedimento amministrativo, costituisce soltanto un modulo organizzativo funzionale per l'acquisizione, circa un provvedimento da adottare, dell'avviso di tutte le amministrazioni preposte alla cura degli interessi coinvolti in quest'ultimo e nel procedimento che lo precede, per un'accelerazione dei tempi procedurali (e dunque per la speditezza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa) attraverso un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici comunque coinvolti.
La conferenza non si identifica con un nuovo organo separato dai singoli partecipanti, non trattandosi di organo collegiale oppure di ufficio speciale della pubblica amministrazione. Essa consiste soltanto in un modulo procedimentale e organizzatorio, ossia in un metodo di azione amministrativa per la gestione di procedure complesse. Pertanto, la stessa non altera le regole che presiedono alla competenza amministrativa e, quindi, l'avviso espresso in tale sede dai rappresentanti delle varie amministrazioni partecipanti è dunque pur sempre imputabile a ciascuna di esse.
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Ne discende, sul piano strettamente processuale, che il ricorso va notificato a tutte le amministrazioni che, nell'ambito della Conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare autonomamente se gli stessi fossero stati adottati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in esame.
Trasponendo siffatte considerazioni al caso di specie, il Collegio osserva che il ricorso andava notificato, oltre che all'amministrazione procedente della conferenza di servizi, a tutte le amministrazioni partecipanti o quantomeno a quelle che avevano espresso un parere dotato di efficienza causale rispetto alle conclusioni della conferenza.
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... per l'annullamento, previa sospensione, del verbale conclusivo della conferenza di servizi decisoria, in forma simultanea ed in modalità sincrona, del 25.07.2018, comunicato in data 27.07.2018, avente ad oggetto: "Giudizio di compatibilità ambientale ed Autorizzazione Integrata Ambientale per il progetto di messa in sicurezza della discarica esistente sita in località Comunica nel Comune di Motta San Giovanni e adeguamento per l'esaurimento".
9. Va premesso che il modulo procedimentale della conferenza di servizi disciplinato in via generale dall’art. 14 e ss. della legge 07.08.1990 n. 241 ed in special modo quella cosiddetta decisoria (il cui impianto ricostruttivo è rinvenibile nelle disposizioni dell’art. 14, comma 2), che rileva nel presente contenzioso, lungi dal rappresentare un autonomo procedimento amministrativo, costituisce soltanto un modulo organizzativo funzionale per l'acquisizione, circa un provvedimento da adottare, dell'avviso di tutte le amministrazioni preposte alla cura degli interessi coinvolti in quest'ultimo e nel procedimento che lo precede, per un'accelerazione dei tempi procedurali (e dunque per la speditezza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa) attraverso un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici comunque coinvolti (ex multis Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.05.2004, n. 2874; Tar Lazio, Roma, Sez. II-quater, 09.02.2015, n. 2338).
La conferenza non si identifica con un nuovo organo separato dai singoli partecipanti, non trattandosi di organo collegiale oppure di ufficio speciale della pubblica amministrazione. Essa consiste soltanto in un modulo procedimentale e organizzatorio, ossia in un metodo di azione amministrativa per la gestione di procedure complesse. Pertanto, la stessa non altera le regole che presiedono alla competenza amministrativa e, quindi, l'avviso espresso in tale sede dai rappresentanti delle varie amministrazioni partecipanti è dunque pur sempre imputabile a ciascuna di esse.
Ne discende, sul piano strettamente processuale, che il ricorso va notificato a tutte le amministrazioni che, nell'ambito della Conferenza, hanno espresso pareri o determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere di impugnare autonomamente se gli stessi fossero stati adottati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in esame” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.07.2014, n. 3646; Tar Campania Napoli, Sez. VII, 14.02.2017, n. 895; Tar Sardegna, Cagliari, Sez. I, 11.07.2014, n. 599).
9.1. Trasponendo siffatte considerazioni al caso di specie, il Collegio osserva che il ricorso andava notificato, oltre che alla Regione, amministrazione procedente della conferenza di servizi, a tutte le amministrazioni partecipanti o quantomeno a quelle che avevano espresso un parere dotato di efficienza causale rispetto alle conclusioni della conferenza (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 01.02.2019 n. 72 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Art. 10-bis anche in caso di rigetto sanatoria ordinaria e/o condono edilizio.
L'istituto del preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
In questi casi non è applicabile la sanatoria processuale, sia per la generale natura discrezionale del potere edilizio in oggetto, sia a fronte dell’impossibilità di escludere a priori, a fronte degli elementi dedotti da parte istante anche in sede giudiziale, che il procedimento potesse concludersi diversamente.
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Considerato in diritto che:
   - l’appello è fondato sotto l’assorbente profilo della dedotta violazione delle garanzie procedimentali;
   - va evidenziata l’illegittimità del diniego di sanatoria, siccome carente sia della formale comunicazione dei motivi istativi sia di adeguato riscontro alle osservazioni che l’interessato avrebbe ben potuto presentare;
   - occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione corretta dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige, non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri, nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato dall’adempimento procedurale in questione (Cons. St., sez. I, 25.03.2015, n. 80 e sez. VI 02.05.2018 n. 2615);
   - infatti, solo il modus procedendi appena descritto permette che la disposizione di riferimento assolva la sua funzione di consentire un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e sterile adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel caso di specie);
   - in linea generale va ribadito che, l'istituto del preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto interessato della piena partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda;
   - nel caso di specie, contrariamente a quanto desumibile dalla sentenza appellata, non è applicabile la sanatoria processuale, sia per la generale natura discrezionale del potere edilizio in oggetto (cfr. in termini anche Consiglio di Stato sez. VI 27.09.2018 n. 5557), sia a fronte dell’impossibilità di escludere a priori, a fronte degli elementi dedotti da parte istante anche in sede giudiziale, che il procedimento potesse concludersi diversamente;
   - se appare in generale necessario garantire il preliminare esame degli elementi istruttori prodotti da parte originaria istante nell’ambito della naturale sede procedimentale, ciò occorre a maggior ragione nel caso di specie;
   - in proposito, gli elementi da approfondire nella naturale e prioritaria sede procedimentale, debitamente evidenziati in sede giudiziale da parte istante, assumono rilievo sotto due profili;
   - per un verso, in relazione alla verifica circa l’effettiva consistenza dell’abuso in questione, prospettato in termini di mera chiusura di spazi parcheggio già coperti;
   - per un altro verso, in relazione alla verifica circa l’invocata applicabilità o meno della legislazione regionale n. 19/2001;
   - alla luce delle considerazioni che precedono l’appello appare fondato sotto il predetto assorbente profilo, con conseguente riforma della sentenza di prime cure ed accoglimento del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.01.2019 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

dite la vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Il regime delle Distanze nelle Città Invisibili di Calvino (novella sulle acque pubbliche, sulla tutela paesaggistica, sui cacciatori, le prede e i capanni nei pressi dei fiumi Potomac e Sand Creek in Provincia di Caserta) (16.01.2019).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 11.02.2019 n. 35, suppl. ord. n. 5, "Istruzioni per l’applicazione dell’«Aggiornamento delle “Norme tecniche per le costruzioni”» di cui al decreto ministeriale 17.01.2018" (C.S.LL.PP., circolare 21.01.2019 n. 7).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.0.2019, "Primo aggiornamento 2019 dell’elenco degli Enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 05.02.2019 n. 1369).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2019, "Tavolo regionale per l’edilizia: aggiornamento" (deliberazione G.R. 04.02.2019 n. 1216).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2019, "Legge regionale 05.12.2008 n. 31 – art. 24-ter - Approvazione delle «Linee guida per la gestione delle malghe e l’esercizio dell’attività d’alpeggio»" (deliberazione G.R. 04.02.2019 n. 1209).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Approvazione delle controdeduzioni alle osservazioni all’integrazione al piano territoriale regionale adottata con d.c.r. x/1523 del 23.05.2017 e della dichiarazione di sintesi finale. Approvazione dell’integrazione del Piano Territoriale Regionale ai sensi della l.r. 31/2014 [articolo 21, comma 4, l.r. 11.03.2005 n. 12 (Legge per il governo del territorio)]" (deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 411).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del giorno concernente l’esclusione delle sanatorie di luoghi di culto nei pgt dei comuni lombardi" (deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 410).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del giorno concernente la promozione delle buone prassi adottate dal comune di Bergamo sugli oneri di urbanizzazione" (deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 409).
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Al riguardo, si leggano anche:
  
● Comune di Bergamo, deliberazione C.C. 23.02.2015 n. 21;
   ● Comune di Bergamo, deliberazione C.C. 30.11.2015 n. 182;
   ● Comune di Bergamo, deliberazione C.C. 25.07.2016 n. 111;
   ● Comune di Bergamo, deliberazione C.C. 05.12.2016 n. 171;
   ● Comune di Bergamo, deliberazione C.C. 17.12.2018 n. 188.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del giorno concernente la promozione delle politiche a sostegno degli interventi di rigenerazione urbana e territoriale" (deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 408).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del giorno concernente la valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico di Regione Lombardia" (deliberazione C.R. 19.12.2018 n. 407).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 6 del 07.02.2019, "Istituzione e adozione della bandiera, della fascia e del segno distintivo della Regione Lombardia" (L.R. 04.02.2019 n. 2).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 05.02.2019 n. 30 "Modifiche ed integrazioni all’allegato del decreto 16.05.1987, n. 246 concernente norme di sicurezza antincendi per gli edifici di civile abitazione" (Ministero dell'Interno, decreto 25.01.2019).

ENTI LOCALI: G.U. 02.02.2019 n. 28 "Ulteriore differimento del termine per la deliberazione del bilancio di previsione 2019/2021 degli enti locali dal 28 febbraio al 31.03.2019" (Ministero dell'Interno, decreto 25.01.2019).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 30.01.2019, "Ordine del giorno concernente le risorse per la rigenerazione urbana e territoriale" (deliberazione C.R. 18.12.2018 n. 299).

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U. 28.01.2019 n. 23 "Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni" (D.L. 28.01.2019 n. 4).

APPALTI: G.U. 22.01.2019 n. 18 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, comunicato).

EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U. 18.01.2019 n. 15, suppl. ord. n. 3, "Ripubblicazione del testo della legge 30.12.2018, n. 145, recante: «Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021», corredato delle relative note".

APPALTI: G.U. 17.01.2019 n. 14 "Attuazione della direttiva (UE) 2014/55 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16.04.2014, relativa alla fatturazione elettronica negli appalti pubblici" (D.Lgs. 27.12.2018 n. 148).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 16.01.2019 n. 13 "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici" (Legge 09.01.2019 n. 3).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 09.01.2019, "Individuazione degli ambiti territoriali ecosistemici e dei parametri gestionali, ai sensi dell’art. 3, comma 5, della legge regionale 17.11.2016, n. 28 «Riorganizzazione del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree regionali protette e delle altre forme di tutela presenti sul territorio»" (deliberazione G.R. 28.12.2018 n. 1124).

ENTI LOCALI: G.U. 04.01.2019 n. 3 "Aggiornamento dei limiti massimi del compenso base spettante ai revisori dei conti in relazione alla classe demografica e alle spese di funzionamento e di investimento degli enti locali" (Ministero dell'Interno, decreto 21.12.2018).

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2019, "Approvazione del prezzario regionale delle opere pubbliche della Regione Lombardia ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50" (deliberazione G.R. 28.12.2018 n. 1129).
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Si leggano anche gli allegati non pubblicati sul BURL:
   A) Volume 1_1 – Opere compiute – civili, urbanizzazione e difesa del suolo
   B) Volume 1_2 – Opere compiute – impianti elettrici e meccanici
   C) Volume 2_1 – Costi unitari e piccola manutenzione – civili e urbanizzazioni
   D) Volume 2_2 – Costi unitari e piccola manutenzione – impianti elettrici e meccanici
   E) Volume specifiche tecniche

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: D. Ponte, Società in house: affidamento, prevalenza dell’attività e scioglimento – I diversi modelli di in house nel codice dei contratti e nel T.U. delle società partecipate (28.01.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, L’autorizzazione e il deposito sismici a sanatoria sono sconosciuti al legislatore statale (nota critica a Cassazione, Sez. III penale, n. 2848 depositata il 22.01.2019) (26.01.2019 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Bottone, Il regime delle Distanze nelle Città Invisibili di Calvino (novella sulle acque pubbliche, sulla tutela paesaggistica, sui cacciatori, le prede e i capanni nei pressi dei fiumi Potomac e Sand Creek in Provincia di Caserta) (16.01.2019).

CORTE DEI CONTI

EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO: Oneri di urbanizzazione: i vincoli di destinazione finanziaria in vista del bilancio di previsione 2019/2021.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal D.P.R. n. 380 del 2001 (oneri di urbanizzazione), a partire dall'01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall'art. 1, comma 460, L. n. 232 del 2016.
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Il Sindaco del Comune di Ugento (LE) ha formulato una richiesta di parere in ordine alla modalità di utilizzo della quota parte dell’avanzo destinato ai sensi del comma 460 dell’art. 1 della legge 232/2016.
In particolare, nella nota sopra richiamata, il Sindaco, premette che con l’art. 1, comma 460, della legge 232/2016, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1 del Decreto Legge n. 148/2017, è stato previsto che a “decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per opere pubbliche”.
Ciò posto, il Sindaco, evidenzia che tali novità limiterebbero “la libertà d’azione degli enti che non potranno più decidere di utilizzare gli oneri per la totalità delle spese di investimento ma solo per quelle contemplate dal comma 460, fuoriuscendo, quindi dagli interventi finanziabili gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le attrezzature informatiche, per i quali dovranno essere individuate nuove fonti di finanziamento, non facili da reperire”.
Il Sindaco chiede pertanto:
   - senza contravvenire i sopra riportati dispositivi normativi, se sia possibile “utilizzare la quota parte dell’Avanzo destinato rinveniente dal rendiconto dell’esercizio precedente regolarmente approvato e generato dai proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, incassati da questo Ente in costanza di vigenza della normativa precedente al comma 460 della legge 232/2016, per il finanziamento della spesa per gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le attrezzature informatiche, eccetera, i quali non sarebbero più finanziabili con i predetti proventi in base alla normativa vigente;
   - come sia possibile, per gli Enti di medio piccole dimensioni ed in costanza della vigente normativa, conciliare le ricorrenti spese per le manutenzioni degli impianti e attrezzatture degli automezzi del sistema informativo eccetera, con il carattere di eccezionalità delle residuali fonti di finanziamento di spesa per investimenti attualmente reperibili
”.
...
Nel caso di specie il secondo quesito è con tutta evidenza inammissibile.
Il primo quesito, invece, relativo all’interpretazione della disciplina relativa al comma 460 della legge 232/2016, appare oggettivamente ammissibile.
Preliminarmente, il Collegio ribadisce tuttavia, che l’attività consultiva non può estendersi, sotto il profilo interpretativo, sino a formulare suggerimenti risolutivi di questioni che involgono singole fattispecie concrete e specifiche, tanto più se, come nel caso di specie, l’intervento della Sezione potrebbe comportare un’ingerenza nell’iter del procedimento spettante esclusivamente alle valutazioni dell’Amministrazione e, inoltre, la soluzione del quesito potrebbe generare interferenze con altre funzioni spettanti a questa Corte.
Il Collegio si soffermerà, quindi, più in generale sui principi di diritto del quadro normativo di riferimento.
Come è noto, il principio dell’”unità”, compreso tra i principi contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118 (allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare la gestione finanziaria, dopo avere affermato che “è il complesso unitario delle entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che– “le entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti contabili non possono essere articolati in maniera tale da destinare alcune fonti di entrata a copertura solo di determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
I principi generali dell’Ordinamento, quindi, affermano inequivocabilmente il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale. L’utilizzazione di entrate in conto capitale per finanziamento di spese correnti, in deroga al principio sopra richiamato, può essere autorizzata solo da specifiche disposizioni di legge quali sono state quelle che, nell’ultimo decennio, hanno riguardato proprio i proventi derivanti dai c.d. “oneri di urbanizzazione”.
Con la deliberazione n. 38/2016/PAR del 09.02.2016, cui si rinvia, la Sezione di controllo per la Lombardia ha ricostruito l’evoluzione legislativa relativa all’utilizzazione dell’entrate in oggetto sino al 2016.
Successivamente, con la deliberazione n. 81/2017/PAR, la stessa Sezione ha ripercorso le disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108 (legge di stabilità per il 2016) dispone che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (legge di bilancio per il 2017, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del Decreto Legge n. 148/2017), dispone viceversa che “
a decorrere dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per opere pubbliche.”
Nel 2017, quindi, tali proventi potevano essere destinati totalmente al finanziamento delle spese correnti elencate dalla legge di stabilità per il 2016, in deroga al principio di generica destinazione a spese di investimento.
A decorrere dal 01.01.2018, viceversa, le entrate derivanti dal rilascio dei titoli abilitativi edilizi e dalle relative sanzioni devono essere destinate esclusivamente agli specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in conto capitale, indicati dal comma 460, così come modificato nel 2017 e quindi, in particolare:
   1. alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
   2. al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate;
   3. a interventi di riuso e di rigenerazione;
   4. a interventi di demolizione di costruzioni abusive;
   5. all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso pubblico;
   6. a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio rurale pubblico;
   7. a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di agricoltura nell'ambito urbano;
   8. a spese di progettazione per opere pubbliche.
Come è stato chiarito da Arconet in risposta alla FAQ n. 28 del 19.02.2018,
l’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n. 232, per le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un insieme di possibili destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell’ente. Si ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una categoria di spese”.
Il Legislatore, quindi, differentemente da quanto avvenuto con riferimento e limitatamente all’utilizzo nel 2016 e nel 2017, ha ritenuto di privilegiare nel 2018 un utilizzo prevalente per spese in conto capitale delle entrate da oneri di urbanizzazione. E nel disciplinare tale principio ha specificato che tale destinazione debba avvenire “senza vincoli temporali”.
In altri termini, come è già stato affermato da questa Corte, quindi,
per effetto della predetta legge dal 2018 “i proventi da “oneri di urbanizzazione” cessano di essere entrate con destinazione generica a spese di investimento per divenire entrate vincolate alle determinate categorie di spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria e secondaria (Corte Conti, Sezione Controllo Lombardia, deliberazione n. 81/2017/PAR).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile affermare, in risposta al quesito formulato nella presente richiesta di parere, che
i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”), a partire dall’01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia, parere 12.12.2018 n. 163).

PATRIMONIOL'art. 3, comma 4-bis, del d.l. n. 95/2012 dev'essere interpretato nel senso che i comuni non possano in ogni caso farsi carico dell'intera spesa per i contratti di locazione per locali da adibire a caserme delle Forze dell'ordine.
Ciò, anche nel caso in cui la contribuzione avrebbe carattere episodico, poiché per un periodo di tempo limitato, finalizzato a poter disporre di un immobile per consentire un intervento di manutenzione straordinaria di uno stabile ordinariamente adibito a caserma.
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La richiesta di parere, formulata dal Sindaco di Tresigallo (FE), concerne la possibilità, da parte di un comune, di stipulare, a seguito di procedura a evidenza pubblica, un contratto di locazione, in veste di conduttore, con un soggetto locatore privato, al fine di poter disporre di un immobile da adibire ad alloggio di servizio da concedere in uso gratuito al Comando dei Carabinieri.
Ciò, per un periodo di tempo limitato, finalizzato a consentire l’esecuzione di un intervento di manutenzione straordinaria avente a oggetto l’edificio ove è ubicata la caserma dell’Arma.
Si domanda, in particolare, se il comune possa farsi carico dell’intera spesa inerente il canone di locazione (con esclusione dei soli oneri per le utenze), spesa che, tuttavia, sarebbe in parte rimborsata da un comune limitrofo il quale, anche in vista di una possibile fusione, condivide con l’ente istante l’interesse al mantenimento di un presidio dei Carabinieri sul territorio.
Il Comune nel caso di specie ha comunque assicurato la disponibilità di locali tali da consentire il presidio operativo ai Carabinieri; la problematica riguarda, pertanto, solo il reperimento di un locale da adibire ad alloggio di servizio.
...
2.1. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo rilevante ai fini del parere.
La legge 28.12.2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”, all’art. 1, comma 500, ha previsto quanto segue: “All’articolo 3 del decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge 07.08.2012, n. 135, dopo il comma 4 è inserito il seguente: ‘4-bis. Per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate’”.
2.2. Questa Sezione, con deliberazione del 12.10.2017, n. 151/2017/PAR, alla quale si rimanda per un approfondimento della problematica, si è già pronunciata in merito alla possibilità, da parte dei comuni, di contribuire al pagamento del canone di locazione delle caserme delle forze dell’ordine appartenenti al territorio di competenza, ospitate presso proprietà private.
In particolare, in essa è stato affermato che “il legislatore si è riferito ad un contributo, quindi ad un mero concorso pro quota, non anche alla possibile assunzione integrale dell’onere in argomento” e che, poiché, la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta, in forza di quanto disposto dalla Costituzione, intestata in via esclusiva allo Stato, la disposizione di cui all’art. 1, comma 500, dev’essere considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità che deroga al riparto delle funzioni delineato dalla Carta fondamentale.
In favore della lettura secondo la quale l’onere in argomento non potrebbe gravare interamente sul comune, oltre alle richiamate considerazioni è utile ricordare l’etimologia del termine “contribuire”, utilizzato dal legislatore, che deriva dal latino, con-tribùere, quindi “dare insieme”.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 91, del 14.12.2017, successiva al richiamato precedente di questa Sezione, ha invece affermato la possibilità, per i comuni, in riferimento alle caserme utilizzate dalle forze dell’ordine, di “contribuire al pagamento del canone di locazione (anche nella sua totalità)”.
Quest’ultima ricostruzione si pone in contrasto con l’interpretazione che questa Sezione ritiene preferibile, tuttavia occorre rilevare come sia stata affermata nell’ambito di un obiter dictum.
Pertanto, non sembra ravvisarsi un contrasto tale da rendere necessario sospendere la pronuncia per rimettere gli atti al Presidente della Corte dei conti, per consentirgli di decidere se deferire la questione alla Sezione delle autonomie (ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10.10.2012, n. 174, secondo il quale per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la citata sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni regionali di controllo si conformano), oppure, in alternativa, chiedere l’adozione, da parte delle Sezioni riunite, di una pronuncia di orientamento generale (ai sensi dell’art. 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, qualora riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del coordinamento della finanza pubblica).
Non sembra incidere sulla risposta da dare al quesito la circostanza che, nel caso oggetto della richiesta di parere operata dal Sindaco di Tresigallo, la contribuzione avrebbe carattere episodico: valgono comunque le considerazioni espresse in ordine al significato da attribuire al termine “contribuire”, utilizzato in merito al pagamento del canone; inoltre, la circostanza che, essendo la sicurezza pubblica materia intestata in via esclusiva allo Stato, la disposizione di cui al già richiamato art. 1, comma 500, dev’essere considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità derogatoria rispetto al riparto di funzioni. Ne consegue che deve ritenersi esclusa la possibilità per uno o più comuni di intestarsi interamente, seppur per un periodo di tempo limitato, gli oneri in questione.
Per completezza si evidenzia come la situazione prospettata abbia a oggetto la contribuzione al pagamento del canone di locazione del solo alloggio di servizio, avendo il comune già assicurato che metterà a disposizione locali idonei allo svolgimento delle attività operative.
Non rileva, infine, la disponibilità da parte del comune limitrofo a farsi carico di parte della spesa per il canone, poiché il legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada comunque sul bilancio statale (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 15.10.2018 n. 118).

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIPubblicazione situazione reddituale e patrimoniale di amministratori della Provincia.
Domanda
Siamo un Comune con popolazione inferiore ai 15mila abitanti e il nostro Sindaco ci ha chiesto di chiarire se, in qualità di componente dell’Assemblea dei Sindaci, è obbligato a pubblicare i suoi redditi nella sezione di Amministrazione Trasparente del portale web della Provincia. Cosa prevede la normativa in merito?
Risposta
La disposizione che regola la pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali è contenuta nell’articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 33/2013 che, in passato, è già stata oggetto di interpretazioni da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
L’ultima formulazione della norma, riveduta con la determinazione n. 241/2017, aveva chiarito che per i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, i titolari di incarichi politici, nonché i loro coniugi non separati e parenti entro il secondo grado non sono tenuti alla pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali, fermo restando l’obbligo di pubblicare le altre informazioni previste: l’atto di nomina o di proclamazione; il curriculum; i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti pubblici o privati, ed i relativi compensi; gli altri eventuali incarichi con oneri a carico della finanza pubblica ed i compensi spettanti.
La disposizione sopra richiamata, rivolta prettamente ai titolari di incarichi politici di Stato, Regioni ed Enti locali, si prestava a dubbi interpretativi, soprattutto in relazione all’applicabilità o meno ai titolari di incarichi politici, non di carattere elettivo.
L’ANAC è intervenuta in materia con la delibera n. 641, del 14.06.2017, di modifica ed integrazione della delibera n. 241 dell’08.03.2017, precisando che i destinatari degli obblighi di pubblicazione di cui sopra, sono tutti i soggetti che partecipano –sia in via elettiva che di nomina– a organi politici di livello statale, regionale e locale.
In particolare, l’Autorità ha previsto che per i sindaci dei comuni con popolazione inferiore ai 15mila abitanti, in quanto componenti ex lege dell’Assemblea dei Sindaci, non sussiste l’obbligo di pubblicazione nella sezione di Amministrazione Trasparente del sito web della Provincia dei dati reddituali e patrimoniali, previsti dall’art. 14, comma 1, lettera f) del decreto legislativo 33/2013.
La risposta al quesito posto, quindi, è che il Sindaco non è obbligato a pubblicare alcuna informazione sui suoi redditi e sul suo patrimonio, ma potrebbe essere tenuto a farlo qualora l’amministrazione disponesse di pubblicare “dati ulteriori” rispetto a quanto richiesto dalla legge, individuando tali dati nell’ambito del Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e per la Trasparenza, in linea con il concetto di trasparenza come accessibilità totale (FAQ ANAC in materia di trasparenza n. 1.9) (12.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProcedure per progressioni verticali e pubblicazione in GU.
Domanda
Le procedure per le progressioni verticali vanno pubblicate in Gazzetta Ufficiale?
Risposta
In riferimento alle procedura di cui all’art. 22, comma 15, del D.Lgs. 75/2017 si ricorda che gli elementi che caratterizzano questa selezione sono:
   a) limite costituito dalla facoltà assunzionale;
   b) procedure selettive;
   c) possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno;
   d) riserva limitata al 20% dei posti, per ciascuna categoria, destinati a nuove assunzioni nel piano dei fabbisogni;
   e) prove;
   f) valutazione positiva per almeno tre anni, attività svolta e risultati conseguiti.
Se tali requisiti sono soddisfatti si prescinde, a nostro parere, dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in quanto trattasi di procedura riservate a personale già reclutato nella P.A.
L’obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana dei bandi di concorso nel pubblico impiego, previsto dall’articolo 4 del d.p.r. 487/1994, integra la previsione generale dell’art. 35, terzo comma, del d.lgs. 165/2001 e s.m.i., recante principi in materia di procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.
La regola generale, che impone l’obbligo di pubblicazione sulla GURI è attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma due e quattro, della Costituzione, ove vengono garantiti nell’accesso agli uffici pubblici condizioni di uguaglianza, buon andamento, imparzialità dell’amministrazione e accesso mediante concorso.
Nella procedura di cui trattasi tali condizioni non devono essere garantite, ad eccezione della selettività, in quanto la procedura è riservata alle professionalità interne, già reclutate nella PA.
Per quanto sopra illustrato si ritiene che sia sufficiente la pubblicazione del bando sul sito dell’ente, nell’area dell’Amministrazione Trasparente, dedicata al personale (07.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTIOre aggiuntive oggetto di valutazione nell’offerta tecnica.
Domanda
È legittimo inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica in un servizio ad alta intensità di manodopera ore aggiuntive rispetto a quelle previste nel capitolato speciale da conteggiare proporzionalmente come criterio quantitativo in base all’offerta presentata dagli operatori?
Risposta
Il quesito in oggetto presenta due questioni di rilievo. La prima attiene alla corretta interpretazione del co. 14-bis dell’art. 95 del codice, come introdotto dal correttivo, che testualmente recita “In caso di appalti aggiudicati con il criterio di cui al comma 3, le stazioni appaltanti non possono attribuire alcun punteggio per l’offerta di opere aggiuntive rispetto a quanto previsto nel progetto esecutivo a base d’asta”, e quindi la sua possibile estensione anche ai servizi, nonché la circoscrizione del termine aggiuntivi. La norma di fatto vieta l’introduzione di opere diverse e ulteriori rispetto a quelle previste in appalto.
Nella relazione illustrativa al correttivo e nello stesso parere del Consiglio di Stato non si trova traccia di motivazioni utili a comprendere l’introduzione del comma 14-bis, che si ritiene, tuttavia, sia finalizzata a realizzare quell’esigenza, già segnalata dalla giurisprudenza (C.d.S. V sez., n. 1601/2015), di evitare che il singolo operatore possa alterare i caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis con proposte che si traducano in una diversa ideazione del contratto in senso alternativo rispetto a quanto voluto dall’Amministrazione aggiudicatrice, al fine di garantire condizioni di parità tra gli operatori.
Una prima apertura verso un’applicazione analogica ai servizi è data dai giudici Veneti, che nella sentenza n. 105 del 01.02.2018, mediante una riformulazione interpretativa del comma, ritengono che ciò che potrebbe essere vietato dall’ipotizzata estensione applicativa dell’art. 95, co. 14-bis al settore degli appalti di servizi, sarebbe la possibilità di valorizzare l’introduzione ad opera dei singoli concorrenti di tipologie di prestazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle richieste e indicate nel capitolato speciale.
Si ritiene che, prescindendo da una mera interpretazione letterale dei termini “opere” e “progetto esecutivo”, il mancato riferimento espresso ai “lavori”, ma soprattutto la contestualizzazione del comma e la sua intrinseca finalità, sia tale da comportare il divieto, nel caso di affidamento di servizi, di attribuire punteggi per servizi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal capitolato, intesi come servizi diversi e ulteriori. Mentre si ritengono legittimamente valutabili le prestazioni migliorative o meramente integrative.
La giurisprudenza ammette ad esempio che il potenziamento di un’ora in più al giorno dell’orario di apertura su base mensile, stante la marginalità rispetto al monte ore complessivo (nel caso di specie di 8/10 ore giornaliere), non alteri il carattere essenziale del servizio, attribuendo tali incrementi la natura di elementi meramente integrativi non assimilabili ad “opere aggiuntive”.
Diverso il caso in cui il criterio non sia così marginale, come ipotizzato nel quesito, e consistente nella valutazione dell’offerta tecnica di ore aggiuntive rispetto a quelle previste nel capitolato, a cui si attribuisca uno specifico punteggio proporzionalmente determinato in base alla diversa offerta presentata dai concorrenti.
In questo caso è difficile sostenere che le prestazioni abbiano carattere meramente migliorativo/integrativo del servizio, ma soprattutto, come dettagliatamente indicato dal TAR Perugia nella sentenza n. 581 del 08.11.2018, la stazione appaltante violerebbe le seguenti disposizioni:
   • Art. 95, cc. 6 e 10-bis, del codice, per l’appiattimento dell’offerta tecnica, e indiretta forma di ribasso economico;
   • inammissibile aggiramento delle disposizioni che mirano alla salvaguardia dei lavoratori, in quanto l’offerta finirebbe per incidere in modo occulto sul costo della manodopera (06.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOConflitto d’interessi per presidente commissione di concorso.
Domanda
Il nostro comune ha bandito un concorso per due posti di categoria D, di cui uno riservato ad un interno, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009. Tra i candidati ammessi al concorso c’è un dipendente di categoria C, in possesso di laurea, in servizio presso il 1° Settore. La Commissione di concorso è presieduta dal funzionario P.O., responsabile del medesimo settore.
Ci si interroga se il funzionario si trovi in situazione di conflitto d’interesse, con obbligo di astensione.
Risposta
La questione oggetto del quesito, riguarda una ipotesi di conflitto d’interessi tra il presidente della Commissione di concorso pubblico e un candidato, interno, che partecipa alla procedura concorsuale. Non v’è dubbio che tra i due soggetti, per ragioni di lavoro, siano intercorsi ed intercorrano tutt’ora dei rapporti professionali, per cui è corretto porsi l’interrogativo.
Per redimere la vicenda, il primo consiglio da fornire è quello di verificare le norme, in materia di conflitto d’interessi, rinvenibili negli atti regolamenti del comune. A tal riguardo può essere utile andare a rivedere cosa si è previsto:
   a) nello Statuto del comune;
   b) nel regolamento dei concorsi;
   c) nel regolamento di organizzazione degli uffici e servizi (ROUS);
   d) nel Codice di comportamento di ente;
   e) nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza.
Per ciò che concerne i riferimenti legislativi nazionali, occorre prendere in considerazione le disposizioni dell’art. 6-bis, della legge 07.08.1990, n. 241 e agli articoli 6 e 7, del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, approvato con DPR 62/2013.
Detto delle regole di tipo “generale” che soprassiedono alla non semplice questione del conflitto d’interessi, anche di natura potenziale, nel caso specifico è bene tenere in debita considerazione, anche, le posizioni assunte, nel tempo, dal giudice amministrativo, il quale ha provveduto ad identificare alcune ipotesi di concreta applicazione, con riferimento alla composizione delle commissione di concorso, in ambito universitario (ma il caso è assimilabile), sostenendo che:
   – l’appartenenza allo stesso ufficio del candidato e il legame di subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il candidato stesso non rientrano nelle ipotesi di astensione di cui all’art. 51 c.p.c. (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628, Consiglio di Stato, sez. V, 17.11.2014 n. 5618; sez. VI, 27.11. 2012, n. 4858);
   – i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni componenti della commissione e determinati candidati non sono sufficienti a configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non potendo le cause di incompatibilità previste dall’art. 51 (tra le quali non rientra l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza) essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale (Consiglio di Stato, sez. VI, 23.09.2014 n. 4789);
   – «la conoscenza personale e/o l’instaurazione di rapporti lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (Cons. Stato, VI, n. 4015 del 2013, cit.)» (Consiglio di Stato, VI, 26.1.2015, n. 327 e da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
   – «perché i rapporti personali assumano rilievo, deve trattarsi di rapporti diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra maestro ed allievo o tra soggetti che lavorano nello stesso ufficio, essendo rilevante e decisiva la circostanza che il rapporto tra commissario e candidato, trascendendo la dinamica istituzionale delle relazioni docente/allievo, si sia concretato in un autentico sodalizio professionale, in quanto tale “connotato dai caratteri della stabilità e della reciprocità d’interessi di carattere economico” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4015 del 2013), in “un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio di imparzialità” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2119)» (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
   – «sussiste una causa di incompatibilità –con conseguente obbligo di astensione– per il componente di una commissione giudicatrice di concorso universitario ove risulti dimostrato che fra lo stesso e un candidato esista un rapporto di natura professionale con reciproci interessi di carattere economico ed una indubbia connotazione fiduciaria» (Cons. Stato Sez. VI, 31.05.2013, n. 3006, TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173);
   – in sede di pubblico concorso l’incompatibilità tra esaminatore e concorrente si può realmente ravvisare non già in ogni forma di rapporto professionale o di collaborazione scientifica, ma soltanto in quei casi in cui tra i due sussista un concreto sodalizio di interessi economici, di lavoro o professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la valutazione del candidato non sia oggettiva e genuina, ma condizionata da tale cointeressenza (TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173, TAR Lazio, Roma Sez. III-bis, 11.07.2013, n. 6945).
Sempre sul medesimo argomento anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) è stata chiamata ad esprimersi e lo ha fatto con:
   a) delibera n. 209 del 01.03.2017;
   b) delibera n. 384 del 29.03.2017;
   c) delibera n. 1186 del 19.12.2018.
La condivisibile posizione dell’ANAC, relativamente a una fattispecie simile a quella prospettata nel quesito, prevede che “ai fini della sussistenza di un conflitto di interessi fra il Segretario generale valutatore e un candidato, la collaborazione professionale, per assurgere a causa di incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità, continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale”.
In conclusione, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che –in assenza di specifiche disposizioni normative comunali, previste in atti regolamentari e statutari o norme del Piano Anticorruzione– non si ravvisa un conflitto d’interessi e il conseguente obbligo di astensione, tra il candidato, dipendente interno, e il presidente della commissione di un concorso pubblico, a meno che, tra i due soggetti, non sia presente una comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità che possa dar luogo a un sodalizio professionale (05.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIOPossibilità di affittare una caserma per i vigili del fuoco e limiti di spesa.
Domanda
Sono l’assessore alla protezione civile di un piccolo comune. La caserma dei Vigili del fuoco presente sul territorio comunale dovrà essere a breve ristrutturata. Nel frattempo il mio ente sta valutando di prendere in affitto da terzi un immobile da adibire a sede temporanea. E’ possibile farlo?
Risposta
Il quesito trova fondamento normativo nell’art. 3 del d.l. 95 del 06/07/2012. In particolare il comma 4-bis stabilisce infatti che: “Per le caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.”.
La legge tuttavia parla di ‘contribuzione’ da parte del comune e non di accollo integrale in capo a sé del canone di locazione. Il che lascia intendere che il concorso all’onere da parte del comune debba essere parziale e non integrale, senza che venga indicata la quota massima di tale concorso.
Sulla questione si è pronunciata recentemente la Sezione regionale Emilia-Romagna della Corte dei conti, a fronte di uno specifico quesito posto da un comune, con proprio parere 15.10.2018 n. 118.
La Corte, nel richiamare il proprio precedente pronunciamento di cui alla deliberazione n. 151/2017/PAR del 12/10/2017 ha affermato che deve ritenersi esclusa la possibilità per uno o più comuni di farsi carico interamente, seppur per un periodo limitato di tempo, dei relativi oneri. Ciò anche in considerazione dell’etimologia del termine ‘contribuire’ che, ricorda la Corte, “(…) deriva dal latino con-tribùere, quindi ‘dare insieme’”.
Il caso esaminato prevedeva che la locazione avesse carattere episodico. La Corte ha tuttavia affermato che la durata della locazione, quand’anche episodica e temporanea, non rileva ai fini del suddetto divieto. Né rileva, conclude la Corte, il fatto che, nel caso esaminato, un comune limitrofo si fosse reso disponibile “(…) a farsi carico di parte della spesa per il canone, poiché il Legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada comunque sul bilancio statale”.
La recente deliberazione della Sezione Emilia-Romagna richiama anche un precedente parere della Sezione Liguria, di cui alla deliberazione n. 91 del 14/12/2017. Quest’ultimo, a fronte di un quesito analogo, pur partendo da presupposti differenti, perveniva tuttavia alla conclusione opposta, affermando infatti che il comune può “contribuire al pagamento del canone di locazione (anche nella sua totalità)” in riferimento alle caserme utilizzate dalle forze dell’ordine.
La Sezione Liguria sostiene infatti che la ratio dell’art. 3, comma 4-bis del d.l. 95/2012 è quella di ridurre il peso finanziario che grava sullo Stato, consentendo ai comuni di contribuire alla relativa spesa per finalità di sicurezza pubblica. La Sezione Emilia-Romagna, pur pervenendo ad una risposta diversa afferma come non vi siano le condizioni per rimettere la questione alla Sezione Autonomie, né alla Sezioni Riunite della Corte affinché si pronuncino in maniera univoca.
In conclusione, fermo restando il contrasto interpretativo fra le due sezioni regionali, è opportuno qui ricordare che, in ogni caso, il canone di locazione dovuto dagli enti locali per immobili ad uso istituzionale di proprietà di terzi, di nuova stipulazione deve essere ridotto del 15 per cento rispetto al canone definito dall’Agenzia del Demanio, quale soggetto chiamato a verificarne la convenienza tecnica ed economica. A stabilirlo è il comma 6 del medesimo art. 3 del d.l. 95/2012.
Infine si rammenta che per i contratti di locazione aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale, già in essere alla data di entrata in vigore del decreto legge, i canoni sono ridotti automaticamente sempre del 15%, fatto salvo il diritto di recesso del locatore (04.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Accesso al rendiconto. Anche nei mini-enti niente paletti ai consiglieri. Il Tuel non pone limiti al diritto di visionare gli atti ed estrarne copia.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, può essere respinta, da parte dell'ufficio finanziario dell'ente, la richiesta di «presa visione della documentazione relativa al bilancio di rendiconto», in quanto il comune, che non ha approvato il Peg, ha una popolazione «inferiore ai 5.000 abitanti»?

Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del 16.03.2010, ha osservato che il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a. trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000 che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Premesso che l'ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per la disciplina di dettaglio per l'esercizio di tale diritto, la maggiore ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il consigliere deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la funzione pubblicistica da questi esercitata.
Ciò in quanto «un pieno controllo sull'attività dell'ente spetta certamente a ciascun consigliere comunale, espressione politica della collettività locale di cui il comune è ente esponenziale» (parere della Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 17/12/2015). A tal fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato all'individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi. Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
In merito al caso di specie, l'articolo 169 del decreto legislativo n. 267/2000 relativo al Piano esecutivo di gestione (Peg), al comma 3, prevede la facoltatività dell'adozione di tale strumento per i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L'art. 227 del medesimo decreto legislativo disciplina il rendiconto di gestione disponendo, al comma 3, una deroga per tale tipologia di comuni in ordine alla predisposizione del conto economico, dello stato patrimoniale e del bilancio consolidato per gli enti che si avvalgono della facoltà di non tenere la contabilità economico-patrimoniale prevista dall'art. 232.
Tali disposizioni non sembra che contengano limitazioni all'accesso nei riguardi dei consiglieri comunali i quali, oltre ad avere diritto di visionare ed eventualmente di estrarre copia di qualsiasi atto che sia in possesso del comune, hanno un diritto a visionare proprio gli specifici atti ai sensi dell'articolo 227 citato - che al comma 2, prevede testualmente che «la proposta è messa a disposizione dei componenti dell'organo consiliare prima dell'inizio della sessione consiliare in cui viene esaminato il rendiconto entro un termine, non inferiore a 20 giorni, stabilito dal regolamento di contabilità».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, non sembra che possa negarsi l'accesso agli atti richiesti
(articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019).

PUBBLICO IMPIEGO: Malattia e congedo straordinario per assistenza familiare.
Domanda
La malattia interrompe il congedo straordinario retribuito per assistenza a familiare portare di handicap grave?
Risposta
La fonte del diritto che disciplina il congedo straordinario retribuito è l’art. 42, comma 5 e seguenti, del d.lgs. 151/2001. Si tratta di uno strumento rivolto a tutelare il diritto indisponibile della persona disabile di ricevere assistenza da parte dei soggetti legittimati indicati dalla norma.
Appare evidente che il presupposto affinché questo possa accadere, siano le buone condizioni di salute del soggetto che realizza l’intento assistenziale. Ma cosa accade se durante il congedo retribuito, il richiedente si ammala?
Va ricordato che la misura del congedo retribuito è pari a due anni (art. 42, comma 5-bis, d.lgs. 151/2001), fruibili continuativamente ma anche in modo frazionato (a giorni interi, ma non ad ore).
Sono pertanto molto diverse le situazioni di fronte alle quali ci si può imbattere.
Può accadere che nei due anni di congedo occorra un episodio morboso di lunga durata, ma può anche accadere che in un periodo frazionato molto breve di congedo straordinario, occorra un evento morboso che attraversa gli stessi periodi di congedo in precedenza programmati.
È indubbio che il giustificativo dell’assenza di un dipendente deve essere riconducibile ad un solo istituto giuridico: malattia o congedo straordinario?
Il dipartimento della Funzione Pubblica, organo competente in materia, non offre soluzioni interpretative che invece l’INPS ha fornito nella circolare n. 64 del 15.03.2001 come segue: “Il verificarsi, per lo stesso soggetto, durante il “congedo straordinario”, di altri eventi che di per sé potrebbero giustificare una astensione dal lavoro, non determina interruzione nel congedo straordinario. In caso di malattia o maternità è però fatta salva una diversa esplicita volontà da parte del lavoratore o della lavoratrice volta ad interrompere la fruizione del congedo straordinario, interruzione che può comportare o meno, secondo le regole consuete, l’erogazione di indennità a carico dell’INPS; in tal caso la possibilità di godimento, in momento successivo, del residuo del congedo straordinario suddetto, è naturalmente subordinata alla presentazione di nuova domanda. A proposito della indennizzabilità o meno dell’evento di malattia o di maternità che consente l’interruzione del congedo straordinario si sottolinea in particolare che, considerato che la fruizione del congedo straordinario comporta la sospensione del rapporto di lavoro, l’indennità è riconoscibile solo se non sono trascorsi più di 60 giorni dall’inizio della sospensione (in linea di massima coincidente, come è noto, con l’ultima prestazione lavorativa)”.
Le indicazioni fornite dall’Inps valgono sicuramente per le aziende private, per le quali l’Inps indennizza il congedo straordinario. Diversa è la condizione della Pubblica Amministrazione, che si fa carico dell’indennità di congedo straordinario e che può cautamente assumere gli indirizzi forniti dall’Inps non trascurando la ratio degli istituti e la valenza sociale degli interessi tutelati (31.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: In tema di presidenza delle commissioni di gara.
Domanda
Nel nostro comune la presidenza delle commissioni di gara viene assegnata a ciascun responsabile di servizio che, normalmente, coincide con la figura del responsabile unico del procedimento. Ora, alla luce della giurisprudenza e degli obblighi di utilizzazione dell’Albo dei commissari vorremmo comprendere se tale prassi operativa può ritenersi ancora corretta.
Risposta
La questione della presidenza e della nomina delle commissioni di gara, effettivamente, riveste nell’odierno grandissima attualità.
Al fine di meglio chiarire la questione è necessario subito evidenziare che con la comunicazione del 09.01.2019 (da parte del presidente dell’ANAC) si è evidenziata l’esigenza di differire la vigenza dell’Albo dei commissari (e le correlate nomine ai sensi degli artt. 77 e 78 del codice dei contratti).
La vigenza dell’albo è stata posposta –con decisione unilaterale– da parte della stessa Authority al 19.04.2019. Semplificando, la posposizione è avvenuta in quanto non sono presenti nelle varie sezioni dell’elenco dei commissari un numero sufficiente (rispetto al fabbisogno delle stazioni appaltanti) di commissari.
Da notare che la stessa ANAC con la segnalazione al Parlamento ha chiesto di modificare l’articolo 77, comma 3, per introdurre un sistema misto: nel senso che in caso di carenza di commissari la stazione appaltante procederà direttamente con la nomina dei commissari –secondo proprie regole interne– purché con presidente del collegio esterno.
In attesa di quanto, le stazioni appaltanti possono procedere autonomamente previa adozione di proprie regole di trasparenza e competenza ai sensi dell’articolo 216, comma 12, del codice dei contratti (norma transitoria).
Su come si debba, in concreto, procedere in giurisprudenza si sono espressi molteplici orientamenti. Tanto il Consiglio di Stato, quanto la giurisprudenza di primo grado, ad esempio, ha (anche) sostenuto che per gli enti locali si applica ancora l’articolo 107 del decreto legislativo 267/2000 (e quindi con assegnazione della presidenza al responsabile del servizio).
È chiaro che con un contenzioso smisurato, il RUP deve ben valutare come comporre la commissione. In relazione alla presidenza, a sommesso avviso, sarebbe opportuno evitare di assegnare tale ruolo a chi materialmente sia stato coinvolto nella redazione degli atti di gara. Ad esempio, se nel caso specifico di cui al quesito vi è coincidenza addirittura con il RUP, secondo chi scrive, bene sarebbe che questo soggetto si limiti a fare il segretario della commissione di gara con assegnazione del ruolo di presidente ad altro responsabile (a rotazione) oppure attingendo (se ad esempio il comune fa parte di una unione di comuni) da organici dei comuni aderenti (sempre che si tratti di responsabili di servizio).
Sui componenti, se si tratta di appalto sotto soglia comunitaria, gli stessi possono essere scelti nell’ambito dell’organico della stazione appaltante (sempre scegliendo soggetti con competenza che non abbiano avuto ruolo alcuno nella predisposizione degli atti di gara né debbano essere coinvolti nell’esecuzione del contratto da assegnare).
In caso di certificata carenza possono essere scelti dall’esterno (ad esempio nel caso di scelta da albi professionali magari anticipando una richiesta di terne).
Nel caso di appalto sopra soglia comunitaria è bene che i commissari siano esterni (adottando le stesse regole appena sintetizzate).
Da notare –a mero titolo informativo– che negli emendamenti al codice (previsti per la conversione del decreto legge semplificazioni n. 135/2018) – si prevede una sorta di affrancamento degli enti locali dall’utilizzo dell’Albo dei commissari con l’applicazione del solo articolo 107 del decreto legislativo 267/2000. Rimarrebbe aperta la questione dei commissari che, attualmente, come detto solo nel sottosoglia possono essere scelti tra i dipendenti interni. Si tratta, evidentemente, di attendere la conversione del decreto per capire se gli emendamenti verranno approvati (30.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PATRIMONIO: Adeguamento del canone di locazione passiva pagati dal Comune.
Domanda
In materia di affitti passivi per immobili adibiti a finalità istituzionali, pagati dal comune a favore di terzi, è stato reintrodotto il loro adeguamento all’indice Istat, che era sospeso a tutto il 31 dicembre scorso?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alla norma contenuta nella manovra estiva varata nel 2012 dall’allora ‘governo Monti’ con il decreto legge n. 95 del 06/07/2012, poi convertito in legge n. 135 del 07.08.2012. In particolare, all’art.  essa prevedeva una serie di misure finalizzate alla razionalizzazione del patrimonio pubblico e alla riduzione dei costi per locazioni passive a carico delle amministrazioni pubbliche.
Il comma 1 introduceva il divieto di adeguare il canone di locazione passivo, dovuto dai soggetti inseriti nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, alla variazione degli indici ISTAT. Tale norma, prevista in origine per il solo triennio 2012-2014 è stata via via confermata anche per gli anni successivi dai vari decreti ‘milleproroghe’ o leggi di bilancio.
La recente legge di bilancio 2019 (n. 145 del 30/12/2018, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 302 del 31/12/2018, il cui testo integrale è reperibile al seguente link) è intervenuta estendendone l’applicazione anche all’anno 2019. A prevederlo è infatti il comma 1133, lett. c) dell’articolo unico che modifica il comma 1 aggiungendo in coda proprio l’anno corrente.
La risposta al quesito è pertanto negativa, ovvero: nulla è cambiato per il 2019 rispetto agli anni precedenti. Anche per il 2019, pertanto, vige il divieto di adeguare i canoni di locazione passivi pagati dall’ente a terzi alla variazione dell’indice ISTAT. Ciò va ad evidente beneficio del bilancio comunale, che si trova pertanto a sostenere una spesa inferiore a quella eventualmente prevista dal contratto di locazione passiva.
È qui solo il caso di ricordare che lo stesso art. 3 del d.l. n. 95 del 06/07/2012 nei commi successivi prevede l’automatica riduzione dei canoni di locazione passiva per immobili ad uso istituzionale, nella misura del 15 per cento rispetto a quelli contrattualmente previsti. Tale riduzione si applica sia per i contratti già in corso alla data di entrata in vigore del decreto, sia per quelli sottoscritti successivamente.
La riduzione del canone di locazione si inserisce infatti automaticamente nei contratti in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ai sensi dell’articolo 1339 del codice civile, anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti. E’ tuttavia fatto salvo il diritto di recesso del locatore. Per i nuovi contratti di locazione, sempre relativi ad immobili da adibirsi a finalità istituzionali, la riduzione del 15 per cento si applica sul canone definito come congruo dall’Agenzia del Demanio.
Tutte queste norme si applicano infatti anche agli enti territoriali, così come previsto dal successivo comma 7 del medesimo articolo, nel testo oggi vigente, introdotto dal d.l. n. 66 del 24/04/2014. La norma trova ovvia applicazione anche per i contratti di locazione in cui l’ente locale sia soggetto attivo (locatore) nei confronti di altra amministrazione pubblica (locatario).
Si pensi al caso in cui il comune abbia sottoscritto un contratto di locazione attiva con il Ministero dell’Interno per un edificio adibito a locale stazione dei carabinieri. Il Ministero, in quanto soggetto passivo di un contratto avente ad oggetto un fabbricato adibito ad uso istituzionale beneficerà della norma di cui sopra, a scapito, questa volta, del comune locatore.
Pertanto, se, ad esempio, il canone di locazione annuo è di € 12.000,00, esso verrà automaticamente ridotto del 15%, ovvero di € 1.800,00. Al comune non verrà riconosciuto neppure l’eventuale adeguamento agli indici ISTAT qualora previsto nel contratto. Il comune avrà pertanto un’entrata di bilancio pari all’85% del canone contrattualmente stabilito, ovvero pari ad € 10.800,00.
In quest’ultimo caso, pertanto, la norma, nata per contenere i costi delle locazioni passive a carico delle pubbliche amministrazioni, penalizza l’ente locale che, in qualità di soggetto attivo del contratto di locazione, subisce una minore entrata di bilancio (28.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Congedo papà anno 2019.
Domanda
Il congedo obbligatorio dei papà è fruibile anche dai lavoratori pubblici o solo dai privati? E cosa cambia nel 2019?
Risposta
Il congedo obbligatorio dei padri lavoratori nasce nella legge Fornero n. 92 del 26.06.2012 e riceve successiva disciplina nelle diverse Leggi di Bilancio che hanno di volta in volta prorogato la disciplina sperimentale, ampliando il congedo di anno in anno.
Si tratta di uno strumento di sostegno alla genitorialità che mira a promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’intero della coppia.
Tuttavia, come ha avuto modo di chiarire anche il Dipartimento della Funzione Pubblica con nota del 20.02.2013, la disciplina che regolamenta questo istituto non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Esistono due diversi tipi di congedo dei padri: quello obbligatorio e quello facoltativo.
La disciplina di dettaglio dell’istituto, contenuta nel decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22.12.2012, ha precisato che, mentre i giorni di congedo obbligatorio sono aggiuntivi rispetto al congedo di maternità, la fruizione, da parte del padre, del congedo facoltativo, è invece condizionata alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum della madre, di un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal padre.
Quindi l’attenzione va rivolta a quei casi in cui un padre lavoratore dipendente di un’azienda privata, goda del congedo facoltativo, “accorciando” in questo modo di pari durata, il congedo obbligatorio della mamma dipendente pubblica.
La disciplina vigente fino al 31.12.2018 è rappresentata in questo modo:

L. n. 92 del 28.06.2012 - Art. 24, comma a)
  
2013-2014-2015: 1 GIORNO OBBLIGATORIO - 2 GIORNI FACOLTATIVI

L. n. 208 del 28.12.2015 - Art. 1, comma 205
  
2016: 2 GIORNI OBBLIGATORI - 2 GIORNI FACOLTATIVI

Legge di Bilancio 2017 - Art. 1, comma 354
  
2017: 2 GIORNI OBBLIGATORI
  
2018: 4 GIORNI OBBLIGATORI - 1 GIORNO FACOLTATIVO

La legge di Bilancio del 2019, modifica e novella il contenuto del comma 354, art. 1, della Legge di Bilancio 2017, prevedendo per l’
anno 2019 quanto segue:
   • 5 giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore dipendente;
   • 1 giorno di congedo facoltativo per il padre lavoratore dipendente (24.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Gli adempimenti pubblicitari negli appalti.
Domanda
Il nostro ente si confronta, praticamente quotidianamente, con le implicazioni derivanti dall’enorme mole di adempimenti pubblicitari in tema di appalti (art. 29 del codice etc.), pertanto ci si è chiesti, in primo luogo, quale sia il collegamento tra tali adempimenti (trasparenza, anticorruzione etc.) e gli atti adottati e, soprattutto, le conseguenze in termini di responsabilità del RUP e dei collaboratori che li omettessero.
Ulteriore questione è se le implicazioni siano le stesse sia nel caso di affidamento diretto sia nel caso di gare vere e proprie e/o di procedure articolate (come le procedure ristrette).
Risposta
La questione degli adempimenti pubblicitari sottesi all’attività contrattuale ed all’attività amministrativa in genere è, effettivamente, dispendiosa (sotto il profilo delle risorse umane e del tempo a disposizione).
Risulta, del resto, anche estremamente attuale considerato che da più parti si anticipa l’esigenza di una ricalibratura e semplificazione anche in tema di obblighi pubblicitari di trasparenza.
La violazione degli obblighi pubblicitari (rinvenibili ad esempio nell’articolo 29 del codice, nella decretazione trasparenza e nella legge anticorruzione) non integra violazioni tali da inficiare i procedimenti di gara ma, evidentemente, rappresentano delle violazioni che –soprattutto in fase di controllo interno successivo (in particolare negli enti locali)– possono determinare anche l’adozione di provvedimenti disciplinari.
Sotto il profilo del procedimento contrattuale, come si rilevava, non si tratta di adempimenti costitutivi dell’efficacia degli atti adottati e, pertanto, non determineranno mai invalidità del procedimento di gara.
La questione –pur con riferimento esplicito alla pubblicazione del provvedimento di nomina della commissione di gara e dei curricula dei commissari (obblighi di pubblicazione previsti dall’articolo 29 del codice dei contratti)– è stata di recente affrontata dal Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 283/2019.
Il giudice di Palazzo Spada, nel caso di specie, a fronte della pretesa nullità della gara per impossibilità di verificare competenza ed eventuali incompatibilità dei commissari, ha puntualizzato che gli obblighi della “trasparenza” sono finalizzati ad assicurare la pubblicità e conoscibilità degli atti ma non anche a condizionarne gli effetti.
È chiaro che la mancata pubblicazione –si pensi a determine di affidamento diretto e/o atti di altre procedure– avrà per effetto quello (potenziale) di dilatare i termini del ricorso (salvo che non se ne dimostri l’intervenuta conoscenza da parte dell’interessato attraverso es. l’articoli 75/76 del codice) anche attraverso la pubblicazione all’albo pretorio on line della stazione appaltante.
Ad esempio, nel caso trattato dal Consiglio di Stato, il giudice rileva che, in ogni caso, nessun danno era stato provocato al ricorrente in quanto la determina di nomina della commissione di gara era stata correttamente pubblicata all’albo pretorio. In ogni caso, in sentenza si è fatta prevalere la sostanza ovvero la necessità di verificare se effettivamente sussistessero o meno incompetenze e/o incompatibilità del collegio.
Sotto il profilo della responsabilità è chiaro che tali omissioni –soprattutto quelle previste in tema di trasparenza– potranno essere rilevate dal responsabile della trasparenza e, come si diceva, per effetto del controllo interno.
Tali inadempimenti potrebbero incidere anche sotto il profilo della performance coinvolgendo, quindi, il dirigente/responsabile del servizio e, pertanto, condizionare la stessa valutazione del RUP da parte di questi soggetti (e quindi avere implicazioni sull’indennità di risultato).
Potrebbe avere anche effetti sulla questione degli incentivi a seconda di come sia stato formulato il regolamento correlato ex art. 113 del codice dei contratti (23.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Conflitti d’interesse negli affidamenti di contratti pubblici.
Domanda
Ci sono norme particolari, oltre quelle previste dalle l. 190/2012, da rispettare in materia di gestione del conflitto d’interessi, nell’ambito degli appalti pubblici?
Risposta
In materia di conflitti d’interesse e obbligo di astensione, nell’ordinamento italiano, sono già presenti alcune norme applicabili a tutte le fattispecie, comprese quelle in cui il conflitto non riguarda direttamente parenti o affini, ma anche altre situazioni di natura potenziale.
Più in dettaglio, ci si riferisce:
   • all’articolo 6-bis, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto dall’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd: legge Severino);
   • ad alcuni articoli del Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (in particolare gli artt. 3, 6, 7, 13, 14 e 16), approvato con DPR 16.04.2013, n. 62;
   • all’art. 35-bis, comma 1, lettera c), del d.lgs. 30.03.2001, n. 165;
   • all’art. 53, comma 14, secondo periodo, del d.lgs. 30.03.2001, n. 165;
   • all’articolo 78, del TUEL, approvato con d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
In aggiunta alle richiamate disposizioni, il legislatore nazionale, ha previsto l’articolo 42 del Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. 18.04.2016, n. 50. L’articolo, rubricato Conflitto di interesse, si compone di cinque commi.
Il comma 1 prevede che le stazioni appaltanti debbono prevedere (nel Piano Anticorruzione) misure adeguate per:
   • contrastare le frodi e la corruzione;
   • individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni.
Tali attività, obbligatorie, devono essere finalizzate ad evitare:
   a) qualsiasi distorsione della concorrenza;
   b) garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori economici.
Il comma 2, definisce che si ha conflitto d’interesse quando il personale che interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’art. 7 del DPR 62/2013 (Codice di comportamento per i dipendenti della pubbliche amministrazioni).
Il comma 3 disciplina che il personale che si trovi nella situazione di conflitto d’interessi, anche potenziale:
   a) è tenuto a darne comunicazione alla stazione appaltante;
   b) ad astenersi dal partecipare alla procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni.
Fatte salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale, la mancata astensione nei casi di cui sopra costituisce, comunque, fonte di responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico.
Il successivo comma 4, prevede che le disposizioni dei primi tre commi, valgono anche per la fase di esecuzione dei contratti pubblici, quindi, a tutti gli adempimenti post gara.
L’ultimo comma, il quinto, obbliga le stazioni appaltanti a vigilare –adottando, quindi, idonee e specifiche iniziative– affinché gli adempimenti di cui ai commi 3 e 4 siano rispettati.
Mettendo assieme tutte le norme che intervengono sulla materia del conflitto d’interessi, in ambito di affidamenti di contratti pubblici, possiamo riassumere le seguenti posizioni:
   • il dipendente pubblico che interviene nella procedura deve valutare (con un’attività di autoanalisi) se si trova in una situazione di conflitto, anche di natura potenziale. La lettura degli articoli 6, 7 e 14 del Codice di comportamento, forniscono un perimetro piuttosto preciso delle varie situazioni in cui il conflitto è effettivamente cogente;
   • qualora si ravvisi una situazione di potenziale conflitto, è dovere del dipendente segnalarla al suo dirigente o responsabile apicale (P.O. negli enti senza dirigenti). Per gli apicali la segnalazione va trasmessa (si consiglia l’uso della casella mail) al Responsabile Anticorruzione dell’ente;
   • colui che riceve la segnalazione di possibile conflitto d’interessi, deve valutare la situazione e comunicare, all’interessato (rispondendo alla mail), se scatta o meno l’obbligo di astensione Se la fattispecie segnalata viene ritenuta pregnate, il dipendente dovrà astenersi dal prendere decisioni o svolgere attività, rispetto a qualsiasi fase della procedura di gara e all’esecuzione del contratto;
   • nella valutazione da compiere se segnalare o meno il possibile conflitto d’interessi, si consiglia di applicare sempre “il principio di prudenza”, dal momento che l’art. 42 del Codice dei contratti pubblici, non a caso, usa la locuzione “che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza”. Nel dubbio, quindi, è meglio segnalare ed attenersi a quanto disposto da chi è tenuto a valutare e decidere sulla situazione;
   • in conclusione, si ricorda che la violazione dell’art. 6-bis, della legge 241/1990, comporta l’avvio di un procedimento penale per abuso d’ufficio, mentre la violazione degli articoli del Codice di comportamento (DPR 62/2013, più codice di comportamento di ente), fa insorgere l’avvio di un procedimento disciplinare (22.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Pubblicazione di documenti nei siti informatici della p.a. e protezione dei dati personali.
La pubblicazione di deliberazioni e determinazioni all’albo pretorio degli enti locali per finalità di pubblicità legale, ai sensi dell’art. 1, c. 15, L.R. n. 21/2003, così come la pubblicazione di documenti per finalità di trasparenza, ai sensi del D.Lgs. n. 33/2013 e di altre disposizioni normative –anche di natura regolamentare– aventi analoga finalità di trasparenza, devono rispettare il principio di “minimizzazione dei dati” personali espresso dall’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, per cui è consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione in atti e documenti sia realmente necessaria e proporzionata al raggiungimento delle finalità perseguite.
L’art. 2-ter (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri), comma 1, del D.Lgs. n. 196/2003, introdotto dal D.Lgs. n. 101/2018, in adeguamento al Regolamento (UE) n. 679/2016, stabilisce che “la base giuridica prevista dall’art. 6, paragrafo 3, lett. b), del regolamento è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”.
Le amministrazioni possono prevedere nel Piano triennale di prevenzione della corruzione integrato con il programma della trasparenza e l’integrità (PTPCT) la pubblicazione di dati ulteriori, per i quali non sussiste uno specifico obbligo di trasparenza. Trattasi, in tal caso, di pubblicazione di documenti non obbligatoria in forza di una norma di legge o di regolamento –il PTPCT è infatti atto programmatorio, la cui natura non pare regolamentare– per cui, ai sensi dell’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, i dati personali ivi contenuti devono essere resi anonimi oscurando il nominativo e le altre informazioni che possano consentire l’identificazione dell’interessato.

Il Comune riferisce di aver previsto nel Piano triennale di prevenzione della corruzione integrato con il programma per la trasparenza e l’integrità 2018-2020 (di seguito, PTPCT) l’obiettivo strategico
[1] di favorire livelli maggiori di trasparenza, prevedendo la pubblicazione di dati ulteriori rispetto a quelli previsti come obbligatori dalla normativa di settore, in particolare la pubblicazione nella sezione dedicata in Amministrazione trasparente dell’intero testo dei provvedimenti adottati, al termine del prescritto periodo di pubblicazione all’albo pretorio.
In particolare, nel PTPCT viene indicato l’obiettivo della pubblicazione integrale dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico (deliberazioni consiliari e giuntali) e delle deliberazioni dirigenziali e viene specificato che “la redazione degli atti soggetti a pubblicazione deve avvenire rispettando la riservatezza e la tutela della privacy, inserendo, se del caso in allegato riservato i dati in questione”.
L’Ente chiede dunque se sia possibile mantenere la suddetta pubblicazione integrale dei provvedimenti nella sezione Amministrazione trasparente, scaduti i termini di pubblicazione all’albo pretorio, “considerato che la redazione dei provvedimenti di cui si tratta, seppur con una certa abitudine a non inserire dati personali
[2] eccedenti, sensibili [3] o non pertinenti da parte dei vari servizi, non può certo garantire l’assoluta certezza nell’oscuramento di tali dati”.
Un tanto alla luce dell’art. 2-ter (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri), comma 1, del D.Lgs. n. 196/2003 (introdotto dal D.Lgs. n. 101/2018), secondo il quale “la base giuridica prevista dall’art. 6, paragrafo 3, lett. b), del regolamento è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”.
La disamina del quesito richiede di prendere in visione la normativa concernente gli obblighi di pubblicazione nell’albo pretorio (L.R. n. 21/2003) e nella sezione Amministrazione Trasparente degli enti locali (D.Lgs. n. 33/2013
[4]), nonché la protezione dei dati personali su questi siti informatici istituzionali, materia oggi disciplinata dal Regolamento (UE) n. 679/2016, a seguito del quale è stato emanato il D.Lgs. 10.08.2018, n. 101, di adeguamento della normativa nazionale [5].
L’art. 1, comma 15, della L.R. n. 21/2003 prevede che “fatte salve le disposizioni statali in materia di pubblicità legale, le deliberazioni e le determinazioni degli enti locali sono pubblicate nei propri siti informatici, ovvero nei siti informatici di altre amministrazioni pubbliche, ovvero di loro associazioni, con le modalità previste dalla legislazione vigente. Le deliberazioni e le determinazioni degli enti locali sono pubblicate, entro sette giorni dalla data di adozione, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”.
Con riferimento all’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 1, comma 15 richiamato, si riportano le considerazioni espresse dal Garante per la protezione dei dati personali in relazione all’art. 124 del TUEL, disposizione statale di ordine generale sugli obblighi di pubblicazione nell’Albo pretorio degli enti locali, con finalità di pubblicità legale
[6].
In particolare, il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che ove la p.a. riscontri l’esistenza di un obbligo normativo che impone la pubblicazione dell’atto o del documento nel proprio sito web istituzionale è necessario selezionare i dati personali da inserire in tali atti e documenti, verificando, caso per caso, se ricorrano i presupposti per l’oscuramento di determinate informazioni
[7].
Ed invero –osserva il Garante– anche in tale ipotesi, i soggetti pubblici sono tenuti a ridurre al minimo l’utilizzazione di dati personali, ed evitare il relativo trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possono essere realizzate mediante dati anonimi e altre modalità che permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità (c.d. “principio di necessità”). Pertanto –prosegue il Garante– anche in presenza di un obbligo di pubblicità è consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione in atti e documenti sia realmente necessaria e proporzionata al raggiungimento delle finalità perseguite dall’atto (c.d. “principio di pertinenza e non eccedenza”)
[8].
Inoltre –osserva ancora il Garante– i soggetti pubblici sono tenuti ad assicurare il rispetto delle specifiche disposizioni di settore che individuano circoscritti periodi di tempo per la pubblicazione di atti e provvedimenti amministrativi contenenti dati personali, rendendoli accessibili sul proprio sito web solo per l’ambito temporale individuato dalle disposizioni normative di riferimento, anche per garantire il diritto all’oblio degli interessati[9].
In particolare –precisa il Garante– l’obbligo di pubblicità di cui all’art. 124 del TUEL (sul piano dell’ordinamento regionale, art. 1, comma 15, L.R. n. 21/2003, n.d.r.) è previsto per 15 giorni consecutivi, decorsi i quali la permanenza nel web di dati personali contenuti nelle deliberazioni degli enti locali diviene illecita[10], salvo che gli stessi atti e documenti non debbano essere pubblicati in ottemperanza agli obblighi in materia di trasparenza ai sensi della normativa vigente
[11].
In proposito, l’ANAC spiega che quando l’amministrazione pubblica nell’albo pretorio on line (per finalità di pubblicità legale n.d.r.) documenti, informazioni e dati per i quali sussistono anche obblighi di trasparenza, è tenuta anche a pubblicarli all’interno della sezione “Amministrazione trasparente”, in quanto l’obbligo di affissione degli atti all’albo pretorio e quello di pubblicazione sui siti istituzionali all’interno della sezione “Amministrazione trasparente” svolgono funzioni diverse. Va anche considerato –osserva l’ANAC– che la durata della pubblicazione dei documenti nell’albo pretorio on line non coincide, poiché inferiore, con la durata della pubblicazione dei dati sui siti istituzionali entro la sezione “Amministrazione trasparente”, che l’art. 8, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013 fissa a cinque anni
[12].
La questione che si pone è di capire quali siano gli obblighi di pubblicazione per finalità di trasparenza ai sensi della normativa vigente, quali fonti possano prevederli e quali principi si debbano osservare per la protezione dei dati personali.
L’ANAC ha predisposto un elenco degli obblighi di pubblicazione per trasparenza previsti dal D.Lgs. n. 33/2013 e da ulteriori disposizioni di legge previgenti e successive
[13]. Per quanto qui di interesse riguardo agli obblighi di pubblicazione di provvedimenti amministrativi, nell’elenco si richiamano gli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 23 del decreto trasparenza, come novellato dal D.Lgs. n. 97/2016, aventi ad oggetto gli elenchi dei provvedimenti degli organi di indirizzo politico e dei dirigenti amministrativi con particolare riferimento ai provvedimenti finali di procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture e servizi e agli accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati o con altre amministrazioni pubbliche [14].
Peraltro –afferma l’ANAC– le amministrazioni possono disporre la pubblicazione nel proprio sito istituzionale di dati, informazioni e documenti per i quali non sussiste uno specifico obbligo di trasparenza. Ciascuna amministrazione individua i c.d. dati ulteriori che devono essere indicati all’interno del Programma triennale per la trasparenza e l’integrità (ora nell’apposita sezione del PTPCT)
[15].
Nel caso in esame, l’Ente ha appunto indicato nel PTPCT dati ulteriori, prevedendo per finalità di trasparenza la pubblicazione dell’intero testo dei provvedimenti adottati nella sezione Amministrazione trasparente, al termine del prescritto periodo di pubblicazione all’albo pretorio e chiede se possa mantenere un tanto.
L’Ente riferisce altresì di aver previsto nel PTPCT che la redazione degli atti soggetti a pubblicazione deve avvenire rispettando la riservatezza e la tutela della privacy, ma al contempo afferma che la redazione dei provvedimenti di cui si tratta, seppur con una certa abitudine a non inserire dati personali eccedenti, sensibili o non pertinenti da parte dei vari servizi, non può certo garantire l’assoluta certezza dell’oscuramento di tali dati.
In proposito, posta la natura di atto programmatorio del PTPCT
[16] ove l’Ente ha indicato i dati ulteriori di che trattasi, si fa osservare che l’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, dà facoltà alle pubbliche amministrazioni di disporre la pubblicazione nel proprio sito istituzionale di dati, informazioni e documenti che non hanno l’obbligo di pubblicare ai sensi del decreto medesimo o sulla base di specifica previsione di legge o regolamento, nel rispetto dei limiti indicati dall’art. 5-bis, procedendo alla indicazione in forma anonima dei dati personali eventualmente presenti.
Precisamente, in forza dell’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, la pubblicazione di dati ulteriori prevista nel PTPCT –e dunque non obbligatoria in forza di una norma di legge o di regolamento– postula che i dati personali ivi contenuti devono essere resi anonimi oscurando il nominativo e le altre informazioni che possano consentire l’identificazione dell’interessato.
Con specifico riferimento, invece, al trattamento
[17] dei dati personali contenuti in documenti la cui pubblicazione sia prevista da norme di legge o di regolamento, si riportano le considerazioni espresse dal Presidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in una nota del 27.11.2018 (doc web 9065601) che, riferite al trattamento dei dati sensibili, possono fornire elementi utili sia sotto il profilo della fonte che può disciplinare il trattamento dei dati personali che di quello dei limiti alla loro diffusione.
Nella nota del 27.11.2018, il Garante osserva che il Regolamento (UE) n. 679/2016 stabilisce all’art. 9 un generale divieto di trattamento di dati sensibili e successivamente prevede una deroga per il trattamento di detti dati necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione e degli Stati membri e secondo i parametri ivi previsti
[18].
In proposito, il Garante richiama l’art. 2-sexies, D.Lgs. n. 196/2003, inserito dal D.Lgs. n. 101/2018, in tema di trattamento di categorie particolari di dati personali per motivi di interesse pubblico rilevante, ove si specifica che si considera rilevante l’interesse pubblico relativo a trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri e che detto trattamento è ammesso qualora sia previsto dal diritto dell’Unione europea ovvero, nell’ordinamento interno, “da disposizioni di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento
[19].
Ebbene, per il Garante la locuzione “nei casi previsti dalla legge” deve essere interpretata come un rinvio a tutti quei casi in cui il soggetto chiamato a disciplinare dette categorie di dati sia –in base a specifica disposizione legislativa– titolare di poteri regolamentari.
Ne consegue che solo enti titolari –in base a disposizione di legge– di potestà regolamentare avente carattere normativo potranno continuare a individuare, con tale fonte, trattamenti di particolari categorie di dati personali.
Dalle considerazioni espresse dal Presidente dell’Autorità Garante di apertura alla potestà regolamentare sul fronte della disciplina del trattamento delle categorie particolari di dati personali, sembra potersi trarre, a maggior ragione, la possibile copertura regolamentare comunale anche per il trattamento (e dunque per la pubblicazione) dei dati personali (diversi da quelli particolari), di cui all’art. 4 del Regolamento (UE) n. 679/2016 richiamato.
A questo riguardo, si osserva che l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di trasparenza, anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto normativo, deve avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali contenuti all’art. 5 del Regolamento (UE) 2016/679; in particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei dati») (par. 1, lett. c) e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati (par. 1, lett. d).
Sul piano dell’ordinamento interno, l’art. 7-bis, comma 4, D.lgs. n. 33/2013, prevede inoltre che «Nei casi in cui norme di legge o di regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione»
[20].
Principi, questi, già richiamati in relazione agli obblighi di pubblicità legale delle deliberazioni comunali nell’Albo pretorio, di cui all’art. 124 del TUEL
[21].
In particolare sotto il profilo della durata, questo comporta che laddove gli atti, documenti e informazioni pubblicati per finalità di trasparenza ai sensi della normativa vigente (anche di natura regolamentare comunale, se così si assume sulla base della nota del Presidente dell’Autorità Garante del 27.11.2018) contengano dati personali –la cui pubblicazione si ribadisce avviene nel rispetto dei principi di trattamento suddetti, dettati da disposizioni di rango comunitario direttamente applicabili n.d.r.– questi ultimi devono essere oscurati, anche prima del termine di 5 anni previsto dall’art. 8, c. 3, richiamato, quando sono stati raggiunti gli scopi per i quali essi sono stati resi pubblici e gli atti stessi hanno prodotto i loro effetti
[22].
Ricostruito il quadro normativo vigente in materia, in relazione allo specifico quesito posto si ritiene –come sopra anticipato– che la pubblicazione integrale dei provvedimenti nella sezione “Amministrazione trasparente” prevista dal Comune nel PTPCT (atto programmatorio, la cui natura non pare regolamentare), dopo la scadenza dei termini di pubblicazione all’albo pretorio on line, comporti necessariamente l’anonimizzazione dei dati personali eventualmente presenti.
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[1] L’Ente richiama nel PTPCT l’art. 1, c. 8, L. n. 190/2012, come novellato dal D.Lgs. n. 97/2016, ai sensi del quale “L'organo di indirizzo definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale per la prevenzione della corruzione […]”.
[2] Ai sensi dell’art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento (UE) 27.04.2016, n. 679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, applicabile dal 25.05.2018 in tutti gli stati membri dell’Unione europea, per “dato personale” si intende “qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.
[3] Ai sensi dell’art. 9, par. 1, del Regolamento (UE) n. 679/2016, i dati sensibili, oggi denominati “categorie particolari di dati personali”, sono i dati che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, i dati genetici, i dati biometrici, i dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona”.
[4] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 33/2013, ai fini della piena accessibilità delle informazioni pubblicate, nella home page dei siti istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
[5] Ai sensi dell’art. 22, c. 6, D.Lgs. n. 101/2018, “dalla data di entrata in vigore del presente decreto, i rinvii alle disposizioni del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo n. 196 del 2003, abrogate dal presente decreto, contenuti in norme di legge e di regolamento, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679 e a quelle introdotte o modificate dal presente decreto, in quanto compatibili”.
[6] L’art. 124, c. 1, del TUEL, come novellato dall’art. 9, c. 5-bis, D.L. n. 179/2012, prevede che tutte le deliberazioni del comune e della provincia sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio (oggi, albo pretorio on line a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 69/2009), nella sede dell’ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge.
La L. n. 69/2009, senza abrogare le precedenti disposizioni in materia di tenuta dell’albo pretorio, ha stabilito che “a far data dal 1° gennaio 2010, gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti aventi effetto di pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”; inoltre “a decorrere dal 01.01.2011 […], le pubblicità effettuate in forma cartacea non hanno effetto di pubblicità legale” (art. 32, commi 1 e 5).
Il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli Affari interni e Territoriali, deliberazione 05.03.2014, ha chiarito che l’obbligo di pubblicità di cui all’art. 124 c.c. riguarda non solo le deliberazioni degli organi di governo (consiglio e giunta municipale) ma anche le determinazioni dirigenziali, richiamando in proposito Cons. St. 15/03/2006, n. 1370.
[7] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento 15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”, parte II, par. 1, in relazione alla pubblicità per altre finalità della P.A. diverse dalla trasparenza.
Vedi anche Formez PA, Q&A (questions and answers) ove si legge che nell’Albo pretorio on line occorre pubblicare gli atti nella loro interezza, avendo però cura di omettere i dati non pertinenti ed eccedenti allo scopo (che nel caso dell’Albo è la pubblicità legale).
[8] I principi di necessità, pertinenza e non eccedenza sono oggi espressi dall’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, rubricato “Principi applicabili al trattamento dei dati personali”, che in particolare al comma 1, lett. c), prevede che i dati personali sono adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati (“minimizzazione dei dati”).
[9] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 2.b.
Si evidenzia che il diritto all’oblio ha ricevuto espressa disciplina dall’art. 17 del Regolamento (UE) n. 679/2016, in forza del quale l’interessato ha diritto di ottenere, senza ingiustificato ritardo, la cancellazione dei dati che lo riguardano da parte del titolare del trattamento al ricorrere delle condizioni ivi previste.
[10] Pertanto –una volta trascorso il periodo di pubblicazione previsto dalle singole discipline di riferimento oppure, in mancanza, decorso il periodo di tempo individuato dalla stessa amministrazione– se gli enti locali vogliono continuare a mantenere nel proprio sito web istituzionale gli atti e i documenti pubblicati, ad esempio nelle sezioni dedicate agli archivi degli atti e/o della normativa dell’ente, devono apportare gli opportuni accorgimenti per la tutela dei dati personali. In tali casi, quindi, è necessario provvedere a oscurare nella documentazione pubblicata i dati e le informazioni idonei a identificare, anche in maniera indiretta, i soggetti interessati (cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 3.a).
[11] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 3.a.
[12] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n. 33/2013.
Ai sensi dell’art. 8, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, “I dati, le informazioni e i documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa vigente sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, e comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti, fatti salvi i diversi termini previsti dalla normativa in materia di trattamento dei dati personali e quanto previsto dagli articoli 14, comma 2, e 15, comma 4, decorsi detti termini, i relativi dati e documenti sono accessibili ai sensi dell’articolo 5”.
[13] L’elenco è allegato alla delibera ANAC 28.12.2016, n. 1310.
[14] In proposito, l’ANAC ha affermato che le amministrazioni possono, sulla base delle evidenze emerse dalle analisi del rischio di corruzione condotte e in ragione delle proprie caratteristiche strutturali e funzionali, pubblicare anche elenchi relativi ad ulteriori provvedimenti finali rispetto a quelli espressamente individuati dall’art. 23, c. 1, del D.Lgs. n. 33/2013 (FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n. 33/2013, cit.).
[15] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n. 33/2013, cit.
[16] Cfr. ANAC, Delibera 02.05.2018, n. 408, secondo cui il PTPCT –che negli enti locali è approvato dalla Giunta (art. 1, c. 8, L. n. 190/2012)– è un atto programmatorio, non costituisce un insieme astratto di previsioni e misure, ma tende alla loro concreta attuazione in modo coordinato rispetto al contenuto di tutti gli altri strumenti di programmazione presenti nell’amministrazione.
[17] Ai sensi dell’art. 4, par. 2, del Regolamento (UE) n. 479/2016, si intende per “trattamento”, “qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insieme di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione”.
[18] Gli artt. 9 del Regolamento (UE) e 2-sexies del D.Lgs. n. 196/2003 specificano che il trattamento dei dati personali particolari necessario per motivi di interesse pubblico rilevante avviene sulla base delle fonti normative ivi previste –diritto dell’Unione o degli Stati membri nel contenuto spiegato– che specifichino i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico rilevante (art. 2-sexies in commento), che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato (art. 9 del Regolamento (UE) n. 679/2016).
[19] Si rileva che la formulazione utilizzata dal legislatore nel comma 1 dell’art. 2-sexies in argomento è analoga a quella di cui al comma 1 dell’art. 2-ter del medesimo D.Lgs. n. 196/2003.
[20] Cfr. ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione (approvato con delibera 21.11.2018, n. 1074), Parte generale, par. 7. In generale, in relazione alle cautele da adottare per il rispetto della normativa in materia di protezione dei dati personali nell’attività di pubblicazione sui siti istituzionali per finalità di trasparenza e pubblicità dell’azione amministrativa, l’ANAC rinvia alle indicazioni fornite dal Garante per la protezione dei dati personali nelle Linee guida n. 243/2014 citate.
In dette Linee guida, il Garante spiega che è consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione in atti e documenti da pubblicare sia realmente necessaria e proporzionata alla finalità di trasparenza perseguita nel caso concreto. Di conseguenza, i dati personali che esulano da tale finalità non devono essere inseriti negli atti e nei documenti oggetto di pubblicazione on line. In caso contrario, occorre provvedere, comunque, all’oscuramento delle informazioni che risultino eccedenti o non pertinenti (Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte I, par. 1).
[21] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 3.a.
[22] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 citate, parte I, par. 7
(22.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

APPALTI: Risvolti contabili dell’aggiudicazione gare indette entro il 31.12.2018.
Domanda
Nel bilancio 2018/2020 avevamo iscritto un’opera pubblica imputandola interamente all’esercizio 2018 in assenza di un preciso cronoprogramma di realizzazione della stessa. Entro il 31/12/2018 l’ufficio tecnico comunale ha tuttavia solo formalmente indetto la procedura di affidamento.
L’ufficio tecnico vuole ora aggiudicare la procedura, posso imputare contabilmente l’impegno conseguente sul 2018 e poi reimputarlo quando provvederò al riaccertamento ordinario dei residui?
Risposta
Alla sola indizione della procedura di affidamento nell’anno 2018 (così come con l’impegno di una delle spese del quadro dell’opera ad esclusione delle spese di progettazione) non risulta possibile impegnare tutta la spesa in assenza di tutti gli elementi costitutivi dell’impegno previsti dal principio generale di competenza finanziaria n. 16 (allegato 1 al d.lgs. 118/2011), ma solo provvedere alla prenotazione del medesimo impegno (infatti non si conosce sicuramente né il fornitore né l’importo preciso) e conseguentemente –come previsto dal punto 5.4 del Principio Contabile Applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al d.lgs. 118/2011)– a determinare sull’anno 2018 il relativo FPV atto alla reimputazione della spesa sull’esercizio 2019.
Passando alla soluzione del caso concreto posto nel quesito, non risulta ora possibile procedere con l’impegno imputandolo all’esercizio precedente a quello in corso. Prima di provvedere allo stesso, si rende necessario procedere ad una variazione di esigibilità della spesa che permetta di avere la disponibilità sull’anno in corso.
Tale variazione (di competenza della Giunta Comunale ai sensi dell’art. 175, c. 5-bis, lettera e), previo parere dell’organo di revisione) se non vi sono residui attivi da reimputare è disposta direttamente senza la necessità di un atto propedeutico. Diversamente, laddove l’Ente abbia già posto in essere un accertamento di entrata sull’anno 2018 (relativo a contributi a rendicontazione e operazioni di indebitamento già autorizzate e perfezionate da reimputare in considerazione dell’esigibilità), prima di porre in essere la variazione di esigibilità è necessario procedere con un atto propedeutico alla stessa: un riaccertamento parziale dei residui.
Tale atto va concretizzato attraverso una determina del responsabile dei servizi finanziari sulla quale dovrà esprimere il suo parere anche l’organo di revisione, all’interno della quale verranno accertati i motivi per cui si rende necessario procedere a tale reimputazione dei residui attivi ed alla conseguente reiscrizione sull’esercizio successivo della correlata spesa.
Resta infine da capire però se l’Ente ha già approvato il Bilancio di Previsione 2019/2021 oppure se si trova in esercizio provvisorio. Ciò in quanto ai sensi dell’art. 163, c. 3, del TUEL: “nel corso dell’esercizio provvisorio … gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali spese correlate riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma urgenza o altri interventi di somma urgenza.“; ovvero gli enti in esercizio provvisorio non potranno in ogni caso addivenire all’aggiudicazione definitiva (che determina il passaggio da impegno provvisorio a definitivo) se non per interventi di somma urgenza (21.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEO: Progressioni verticali.
Domanda
Quali sono le modalità per realizzare le progressioni di carriera?
Risposta
A legislazione vigente esistono due normative che ammettono le progressioni di carriera. La prima è l’art. 24 del d.lgs. 150/2009 (Brunetta):
   Art. 24. Progressioni di carriera
1. Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
2. L’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni
”.
La seconda è l’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 (Madia):
   Art. 22, comma 15
Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati, la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle progressioni tra le aree di cui all’articolo 52del decreto legislativo n. 165 del 2001”.
Nel primo caso la norma fa riferimento ai concorsi pubblici e ammette una riserva non superiore al 50% a favore del personale interno.
In altre parole, l’ente può bandire un concorso per la copertura di due posti (ad esempio: Istruttore Direttivo Amministrativo, Cat. D), di cui uno riservato a personale interno che risulta idoneo nella graduatoria. In questo caso, quindi, la riserva –per forza– deve essere calcolata sui posti messi a concorso svolgendo prima le procedure di mobilità di cui all’art. 34-bis e all’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
Nel secondo caso il riferimento è al 20% dei posti previsti nei piani triennali dei fabbisogni 2018/2020, ma non si parla di posti messi a concorso pubblico.
In questo caso, quindi, la riserva del 20% si può applicare sui posti che l’ente, in base al Piano Triennale del fabbisogni, può assumere nel triennio. Quindi, se i posti sono CINQUE, uno può essere coperto con una procedura selettiva riservata al personale interno.
Ne restano quattro. Se di questi 4 posti, uno viene ricoperto con la mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, ciò non inficia la regolarità della procedura. Il riferimento è all’art. 30, comma 2-bis, perché quella è la procedura di mobilità che è propedeutica all’indizione del concorso pubblico. Si ricorda, infine, che la norma “Madia” è valida solo per il triennio 2018/2020 (17.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Il documento di gara unico europeo DGUE, quando deve essere acquisito.
Domanda
Il documento di gara unico europeo (DGUE) deve essere acquisito per tutti gli affidamenti, oppure esiste una soglia minima di spesa? Al fine di attestare il possesso dei requisiti generali di cui all’art. 80 del d.lgs. 50/2016 è sufficiente la presentazione di tale documento?
Risposta
L’art. 85 del d.lgs. 50/2016 disciplina il Documento di gara unico europeo (DGUE) redatto in conformità al modello di formulario approvato con Regolamento di esecuzione UE 2016/7 della Commissione del 05.01.2016 e secondo lo schema allegato al DM del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti del 18.07.2016 o s.m., al fine di uniformare la modulistica per la partecipazione alle differenti procedure di appalto e nell’ottica di riutilizzo dello stesso, previa conferma delle informazioni ivi contenute.
La dichiarazione circa il possesso dei requisiti generali ed eventualmente speciali per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, deve essere sempre acquisita indipendentemente dal valore dell’appalto, eventualmente nella forma dell’autocertificazione ordinaria ai sensi del D.P.R. 28.12.2000 n. 445, in caso di affidamenti diretti per importo fino a 5.000 euro (paragraofo 4.2.2 delle Linee guida Anac n. 4), ovvero mediante il DGUE per importi superiori.
Si precisa tuttavia che il DGUE, secondo l’attuale schema ministeriale, non prevede tutte le dichiarazioni generali di cui al vigente art. 80, del d.lgs. 50/2016, come risultante dalle modifiche introdotte dapprima dal correttivo, con le lett. f-bis), e f-ter), del comma 5, e poi dall’art. 5 del decreto-legge n. 135 del 2018.
Il DGUE dovrà quindi essere accompagnato dalle seguenti dichiarazioni integrative relative all’art. 80, comma 5, lett. c-bis), c-ter), f-bis) e f-ter) del Codice:
   • di non aver tentato di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a fini di proprio vantaggio oppure di non aver fornito, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero di non aver omesso le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione (art. 80 comma 5, lett. c-bis);
   • di non aver dimostrato significative o persistenti carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili (art. 80, comma 5, lett. c-ter);
   • di non presentare nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere (art. 80, comma 5, lett. f-bis);
   • di non presentare nella procedura di gara in corso e negli affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere (art. 80, comma 5, lett. f-bis);
   • L’operatore economico si trova in una delle seguenti situazioni?
È iscritto nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC per aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure di gara e negli affidamenti di subappalti [art. 80, comma 5, lettera f-ter)]?
[_] SI [_] NO
Se la documentazione pertinente è disponibile elettronicamente, indicare: (indirizzo web, autorità o organismo di emanazione, riferimento preciso della documentazione) (16.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI: Responsabile Trasparenza e Responsabile Protezione Dati.
Domanda
Nel nostro comune (sopra 15.000 abitanti) è stato nominato Responsabile della Prevenzione della Corruzione, il segretario comunale, che è anche Responsabile della Trasparenza.
Dopo il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, abbiamo nominato anche il Responsabile per la Protezione dei Dati che è un dipendente dell’ente.
Che rapporto ci deve essere tra le due figure? È possibile nominare RPD il RPCT?
Risposta
Prima di entrare nel merito specifico del quesito è bene fornire qualche indicazione di contesto.
Quello appena trascorso, si potrebbe definire come l’anno della privacy, dal momento che hanno trovato attuazione le seguenti disposizioni legislative:
   1. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27.04.2016 “relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla protezione dei dati)” pienamente operativo dal 25.05.2018;
   2. Decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, in vigore dal 08.06.2018, recante Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del Consiglio, (trattamento dei dati giudiziari);
   3. Decreto legislativo 10.08.2018, n. 101, in vigore dal 19.09.2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Per ciò che riguarda il trattamento dei dati personali da parte di soggetti pubblici, ai fini della trasparenza, così come disciplinata dal d.lgs. 33/2013, è necessario sottolineare che l’art. 2-ter, del d.lgs. 196/2003 –aggiunto dal d.lgs. 101/2018– dispone che la base giuridica per il trattamento dei dati, effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico “è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”.
Il regime normativo del trattamento dei dati delle persone fisiche, da parte dei soggetti pubblici, pertanto, è rimasto sostanzialmente inalterato, venendo ribadito il principio che il trattamento dei dati risulta consentito unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento, dove previsto da una legge.
Per i comuni, quindi, resta acclarato che, prima di pubblicare nel proprio sito web (Albo pretorio on-line e/o Amministrazione trasparente) dati e documenti contenenti dati personali (sia in forma integrale o in estratto, compresi gli allegati), occorre verificare che la disciplina in materia di trasparenza contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 o in altre normative, anche di settore, preveda un espresso obbligo di pubblicazione.
A completamento della presente premessa, è bene ricordare, tuttavia, che l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di trasparenza –anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto normativo– deve sempre avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili al trattamento dei dati personali
[1], quali quelli di liceità, correttezza e trasparenza; minimizzazione dei dati; esattezza; limitazione della conservazione; integrità e riservatezza tenendo anche conto del principio di “responsabilizzazione” del titolare del trattamento.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario, rispetto alle finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei dati») e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Per ciò che attiene ai rapporti tra Responsabile della Trasparenza e Responsabile della Protezione dei Dati, alcuni spunti di sicuro interesse sono rinvenibili nella delibera ANAC n. 1074 del 21/11/2018 (pubblicata sulla GU n. 296 del 21/12/2018), al Paragrafo 7, rubricato “Trasparenza e nuova disciplina della tutela dei dati personali (Reg. UE 2016/679)”.
In sintesi, nel documento citato che contiene “Approvazione definitiva dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, l’ANAC sostiene che:
   a) se si tratta di due soggetti interni (si ricorda che il RPD potrebbe anche essere soggetto esterno all’ente), è bene le due figure non siano coincidenti nella stessa persona (il Segretario comunale, nei comuni), dal momento che la sovrapposizione dei due ruoli potrebbe determinare una limitazione allo svolgimento delle due attività, tenuto conto dei numerosi compiti e responsabilità che le norme attribuiscono al RPCT e al RPD;
   b) Eventuali eccezioni possono essere ammesse solo in enti di piccoli dimensioni (comuni sotto 5.000 abitanti, per esempio) qualora la carenza di personale renda, da un punto di vista organizzativo, non possibile tenere distinte le due funzioni. In tali casi, le amministrazioni, con motivato e specifico provvedimento (del Sindaco), potranno attribuire allo stesso soggetto il ruolo di RPCT e RPD;
   c) Il RPD, per le questioni di carattere generale riguardanti il trattamento e la protezione dei dati personali, può certamente rappresentare una figura di riferimento anche per il RPCT, anche se non potrà mai sostituirsi ad esso nell’esercizio delle sue specifiche prerogate, stabilite dalle legge 190/2012 e dalle successive disposizioni. Si pensi, al riguardo, alla stesura della sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione o alla definizione delle istanze di riesame, nell’ambito dell’accesso civico generalizzato (cd. FOIA), qualora la decisione del servizio detentore dell’atto o del documento, riguardi profili attinenti alla protezione dei dati. In tali casi, infatti, per obbligo di legge, il RPCT deve richiedere un parere al Garante Privacy italiano ed è tenuto ad attenersi a quanto da esso stabilito, a prescindere da una eventuale e preventiva consultazione che l’ufficio, in prima istanza, possa aver intrattenuto con il RPD.
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[1] Vedi art. 5, Regolamento UE 2016/679 (15.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Obbligo di sopralluogo in sede di gara pubblica.
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Processo amministrativo – Rito appalti - Ricorso cumulativo di ammissione a più lotti – Ammissibilità – Condizione.
   ● Contratti della Pubblica amministrazione – Sopraluogo – Obbligo – Limiti.
  
Contratti della Pubblica amministrazione - Requisiti di partecipazione – Iscrizione camerale – Corrispondenza contenutistica tra iscrizione e oggetto del contratto - Limiti.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara - Per corruzione o per riciclaggio – Grave illecito professionale – Non è tale.
  
E’ ammissibile l'impugnazione dell'unitario provvedimento di ammissione dei concorrenti ai vari lotti, allorché l’ammissione degli operatori economici sia contestata con riferimento ai vari lotti per i medesimi motivi (1).
  
La clausola che preveda a pena di esclusione il sopralluogo non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge, salvo che il sopralluogo ha carattere di adempimento strumentale a garantire anche il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara e che l’obbligo di sopralluogo ha un ruolo sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e più aderente alle necessità dell'appalto (2).
  
L'art. 83, commi 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede l'iscrizione camerale quale requisito di idoneità professionale, anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, con la necessaria conseguenza che vi debba essere congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell'impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di commercio, e l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste; tuttavia, la corrispondenza contenutistica non deve tradursi in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma la stessa va appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto.
  
Ai sensi dell'art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. n. 50 del 2016, letto in combinazione con le linee guida ANAC n. 6, deve escludersi che l’eventuale rinvio a giudizio dell’amministratore o del direttore tecnico di un operatore economico per corruzione o per riciclaggio, nonché l’applicazione di una misura cautelare per i medesimi reati, costituiscano adeguati mezzi di prova della commissione di un grave illecito professionale, che comporta l’esclusione dalla gara; la loro omessa dichiarazione, pertanto, non configura la causa di esclusione dell’operatore ai sensi della successiva lett. c-bis) dell’art. 80.
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   (1) Ha ricordato il Tar che l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a. ha codificato un orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui, in caso di procedura di evidenza pubblica suddivisa in più lotti, l'ammissibilità del ricorso cumulativo proposto avverso gli atti di gara pubblica resta subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni alle differenti e successive fasi di scelta delle imprese affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le pertinenti aggiudicazioni; il cumulo di azioni è quindi ammissibile solo a condizione che le domande si basino sugli stessi presupposti di fatto e di diritto e siano riconducibili nell'ambito del medesimo rapporto o atto.
   (2) Ha chiarito il Tar che l'obbligo di sopralluogo, strumentale a una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi, è infatti funzionale alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta tecnica (Cons. St., sez. V, 19.02.2018, n. 1037).
E’ stato anche sottolineato che l’obbligo per il concorrente di effettuazione di un sopralluogo è finalizzato proprio ad una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi: tale verifica può, dunque, dirsi funzionale anche alla redazione dell'offerta, onde incombe sull'impresa l’onere di effettuare tale sopralluogo con la dovuta diligenza, in modo da poter modulare la propria offerta sulle concrete caratteristiche dei locali (Cons. St., sez. VI, 23.06.2016, n. 2800).
Ha infine aggiunto il Tar che in materia di appalto pubblico di servizi, le uniche fonti della procedura di gara sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, e i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono né modificarle, né integrarle, né rappresentarne un'inammissibile interpretazione autentica; nondimeno, alla luce del principio comunitario di tutela del legittimo affidamento, non può ritenersi che debbano essere esclusi quegli offerenti che, nell'individuare gli immobili presso i quali eseguire i sopralluoghi previsti come obbligatori a pena di esclusione dal disciplinare di gara si siano conformati ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante.
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SENTENZA
3. – Con il primo motivo di ricorso ci si duole che la stazione appaltante abbia ammesso alla gara alcuni candidati benché essi non avessero eseguito il sopralluogo sui luoghi presso i quali il servizio sarà prestato, in contraddizione con la legge speciale di gara.
3.1. – L’art. 3.8 del disciplinare di gara stabilisce che ciascuna delle imprese concorrenti “dovrà, a pena esclusione, recarsi presso gli immobili dove dovrà essere espletato il servizio, al fine di prendere conoscenza delle condizioni dei locali, degli accessi, degli immobili stessi e di tutte le circostanze generali e particolari che potranno influire sull’esecuzione dell’appalto e sulla formulazione dell’offerta economica”.
Secondo parte ricorrente l’amministrazione avrebbe tenuto una condotta illegittima laddove non ha escluso dalla gara i controinteressati, che non hanno adeguatamente documentato di aver effettuato il sopralluogo di tutte le strutture presso le quali è previsto l’espletamento del servizio di lavanolo.
3.2. – Il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V, 26.07.2018, n. 4597) ha di recente ricordato come l’art. 79, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che “quando le offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei documenti di gara e relativi allegati, i termini per la ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono stabiliti in modo che gli operatori economici interessati possano prendere conoscenza di tutte le informazioni necessarie per presentare le offerte.”, così che la clausola che preveda a pena di esclusione il sopralluogo non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista dalla legge, salvo che il sopralluogo ha carattere di adempimento strumentale a garantire anche il puntuale rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di gara e che l’obbligo di sopralluogo ha un ruolo sostanziale, e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di formulare un'offerta consapevole e più aderente alle necessità dell'appalto.
L'obbligo di sopralluogo, strumentale a una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi, è infatti funzionale alla miglior valutazione degli interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la migliore offerta tecnica (Cons. Stato, Sez. V, 19.02.2018 n. 1037).
E’ stato anche sottolineato che l’obbligo per il concorrente di effettuazione di un sopralluogo è finalizzato proprio ad una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi: tale verifica può, dunque, dirsi funzionale anche alla redazione dell'offerta, onde incombe sull'impresa l’onere di effettuare tale sopralluogo con la dovuta diligenza, in modo da poter modulare la propria offerta sulle concrete caratteristiche dei locali (Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2016 n. 2800).
3.3. – Ne consegue che la previsione, a pena di esclusione, dell’obbligo di sopralluogo dei locali in cui il servizio dovrà essere prestato è legittima.
3.4. – Rendendo chiarimenti ad alcuni dubbi prospettati dagli operatori economici, la Stazione Unica Appaltante ha poi precisato che “Il sopralluogo deve essere effettuato almeno presso i P.O. delle Aziende Sanitarie interessate dal servizio, fermo restando che l’operatore economico, in fase di esecuzione del servizio, non potrà lamentare la mancata conoscenza di elementi ambientali e logistici che possono in qualsiasi modo limitare il servizio offerto”.
Ora, è vero che le uniche fonti della procedura di gara sono costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, e i chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante non possono né modificarle, né integrarle, né rappresentarne un'inammissibile interpretazione autentica; esse fonti devono essere interpretate e applicate per quello che oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire rilevanza atti interpretativi postumi della stazione appaltante ad integrare la lex specialis ed essere vincolanti per la Commissione aggiudicatrice (da ultimo, cfr. Cons. Stato, Sez. III, 26.08.2016, n. 3708).
Nondimeno, tenuto conto anche della funzione sostanziale e non meramente formale dell’obbligo di sopralluogo, non può ritenersi che debbano essere esclusi quegli offerenti che, conformandosi ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante, abbiano eseguito il sopralluogo dei soli presidi ospedalieri, per come indicati nell’allegato n. 13 del capitolato tecnico.
D’altra parte, in materia di gare d'appalto, il principio comunitario relativo alla tutela del legittimo affidamento impedisce di sanzionare, con l'esclusione dalla procedura, il concorrente che abbia tenuto una condotta conforme alle indicazioni fornite dalla stazione appaltante, ai fini dell'interpretazione della disciplina di gara (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.04.2011, n. 2446 e Cons. Stato, Sez. V, 02.12.2015, n. 5454) (
TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.02.2019 n. 25 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: All’Adunanza plenaria l’obbligo di ricorrere al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso di servizi ad alta intensità di manodopera.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa - Servizi ad alta intensità di manodopera – Obbligo cogente di utilizzare il.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria la quesitone se il rapporto, nell’ambito dell’art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 tra il comma 3, lett. a (casi di esclusivo utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tra i quali, quello dei servizi ad alta intensità di manodopera) ed il comma 4, lett. b (casi di possibile utilizzo del criterio del minor prezzo, tra i quali quello dei servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato), va incondizionatamente declinato nei termini di specie a genere, con la conseguenza per cui, ove ricorrano le fattispecie di cui al comma 3, debba ritenersi, comunque, predicabile un obbligo cogente ed inderogabile di adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il comma 2 dell’art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 riflette la preferenza accordata dal Legislatore per il criterio selettivo dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo oppure sulla base dell’elemento prezzo o del costo seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita.
Tanto premesso la Sezione si è soffermata sulla latitudine applicativa del comma 4 dell’art. 95 nella parte in cui prevede che può essere utilizzato il criterio del minor prezzo, tra gli altri, per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato. Tanto in ragione del fatto che, a mente della previsione di cui al comma 3° sempre del divisato art. 95, devono essere sempre aggiudicati esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo a) i contratti relativi ai servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, nonché ai servizi ad alta intensità di manodopera, come definiti all'articolo 50, comma 1, fatti salvi gli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a).
Da qui il punto di diritto controverso che mira a sciogliere, sul piano esegetico, il nodo dato dalla relazione di antinomia che si pone tra i due soprarichiamati precetti onde chiarire se il rapporto, nell’ambito dell’art. 95, tra il comma 3 (casi di esclusivo utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tra i quali vi è quello dei servizi ad alta intensità di manodopera) ed il comma 4 (casi di possibile utilizzo del criterio del minor prezzo, tra i quali vi è quello dei servizi standardizzati), sia di specie a genere o viceversa.
I diversi approdi giurisprudenziali fanno invero registrare un significativo contrasto nella definizione della corretta interazione che deve porsi tra i due precetti, essendo stato il suddetto rapporto di antinomia vicendevolmente definito di genere a specie e, dunque, risolto con affermazioni di principio tra loro inconciliabili.
Un primo orientamento giurisprudenziale muove dal valore semantico delle proposizioni normative qui in rilievo e da una lettura sistemica e coordinata dell’art. 95, d.lgs. n. 50 del 2016 con le vincolanti coordinate fissate dal legislatore delegante (l. n. 11 del 2016) per giungere ad escludere in subiecta materia il ricorso al criterio di aggiudicazione del prezzo più basso.
Segnatamente, e prendendo abbrivio da tali premesse, si è ritenuto che il rapporto tra il comma 3 ed il comma 4 dell’art. 95 debba essere declinato come di specie a genere: ove ricorrano cioè le fattispecie di cui al comma 3 (tra cui le prestazioni ad alta intensità di manodopera) si pone, dunque, un obbligo speciale e cogente di adozione del criterio dell'’offerta economicamente più vantaggiosa che, sovrapponendosi e irrigidendo la ordinaria preferenza per tale criterio prevista in via generale dal codice, non ammetterebbe giammai deroghe, nemmeno al ricorrere delle fattispecie di cui al comma 4 ed indipendentemente dallo sforzo motivazionale compiuto dall'amministrazione (Cons. St., sez. III, 02.05.2017, n. 2014; id., sez. V, 16.08.2018, n. 4945).
Ed, invero, fermo il rapporto regola/eccezione intercorrente tra i commi 2 e 4, il successivo comma 3 avrebbe introdotto –come fatto palese dall’utilizzo dell’avverbio esclusivamente- una previsione ulteriormente derogatoria e dunque autonoma, a mente della quale dovrebbe ritenersi esclusa, a priori, la possibilità di affidare i servizi “ad alta intensità di manodopera” mediante criterio del prezzo più basso, imponendosi invece come esclusivo il criterio del miglior rapporto qualità/prezzo.
Di recente si è andato affermando un altro orientamento giurisprudenziale incentrato su un’esegesi del su indicato quadro regolatorio alternativa e contrastante con quella sopra richiamata e che, ribaltando il rapporto genere a specie, assegna alla previsione di cui all’art. 95, comma 4, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui ammette “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate e le cui condizioni sono definite dal mercato” l’utilizzo del criterio del prezzo più basso, una valenza derogatoria rispetto alla stessa previsione speciale di cui al precedente comma 3, concludendo nel senso dell’idoneità della detta previsione derogatoria (ex art. 95, comma 4, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016) a reggere in via autonoma, e dunque a regolare, ogni appalto caratterizzato da “prestazioni standardizzate”, ancorché “ad alta intensità di manodopera”.
Cons. St., sez, III, 13.03.2018, n. 1609 ha, da ultimo, affermato, in riferimento ad una fattispecie sovrapponibile a quella qui in rilievo, peraltro con il coinvolgimento dei medesimi operatori, che “l'art. 95 sul “Criterio di aggiudicazione dell'appalto”, al comma 4, lett. b), espressamente consente, in via di eccezione, che “per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato;” possa farsi l'applicazione del criterio del “minor prezzo”.
Si è in merito ritenuto che “Tale indicazione è palesemente finalizzata a garantire una significativa accelerazione della procedura, soprattutto quando le prestazioni non devono assolutamente differire da un esecutore ad un altro. Il “minor prezzo” resta dunque circoscritto alle procedure per l’affidamento di forniture o di servizi che sono, per loro natura, strettamente vincolate a precisi ed inderogabili standard tecnici o contrattuali, e per le quali non vi è alcuna reale necessità di far luogo all’acquisizione di offerte differenziate. In tali casi può prescindersi da una peculiare e comparativa valutazione della qualità dell’esecuzione, in quanto questa viene fissata inderogabilmente a priori dal committente nell’allegato tecnico”.
In sintesi il rapporto tra il comma 3 ed il comma 4 dell’articolo 95 viene così diversamente ricostruito “…la tipologia di cui alla lett. b) del comma 4 dell’art. 95 attiene ad un ipotesi ontologicamente del tutto differente sia dall’appalto “ad alta intensità di manodopera” di cui all’art. 95, comma 3, lett. a), che concerne prestazioni comunque tecnicamente fungibili; e sia da quelli caratterizzati da “notevole contenuto tecnologico” o di “carattere innovativo” di cui all’art. 95, comma n. 4, lett. c), del codice dei contratti, attinenti tipicamente a prestazioni di contenuto evolutivo”.
Per i contratti con caratteristiche standardizzate non vi sarebbe, dunque, alcuna ragione né utilità di far luogo ad un’autonoma valutazione e valorizzazione degli elementi non meramente economici delle offerte, perché queste, proprio perché strettamente assoggettati allo standard, devono assolutamente coincidere tra le varie imprese.
Nell’economia di tale diversa ed alternativa ricostruzione esegetica il profilo del servizio standardizzato costituirebbe, dunque, un elemento “particolarmente” specializzante, di per stesso idoneo a giustificare, nell’impianto regolatorio dell’articolo 95 del codice dei contratti, lo scorporo dalla previsione operativa di cui al comma 3, già di per sé contraddistinta dalla dignità giuridica di norma speciale, di un nucleo ancor più ristretto di fattispecie da sottoporre a disciplina derogatoria.
In altri termini, l’elemento della “standardizzazione” consentirebbe di isolare, all’interno del più ampio genus dei servizi caratterizzati dall’alta intensità di manodopera, un particolare sotto insieme che il legislatore, in virtù di tali peculiari caratteristiche che connoterebbero la prestazione come tendenzialmente infungibile dal punto di vista tecnico/qualititativo, avrebbe inteso sottoporre a disciplina differenziata siccome più coerente con le suddette intrinseche caratteristiche (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 05.02.2019 n. 882 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dalla gara per omessa dichiarazione sanzione Anac avente ad oggetto l’incapacità a partecipare alle gare.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Omessa dichiarazione sanzione Anac avente ad oggetto l’incapacità a partecipare alle gare – Incapacità successiva alla scadenza dei termini per la presentazione dell’offerta – Va dichiarata.
Ai sensi dell’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016, il concorrente ad una gara pubblica è tenuto, pena l’esclusione dalla gara, ad informare la stazione appaltante dell’intervenuta emanazione di una sanzione Anac avente ad oggetto l’incapacità a partecipare alle gare pubbliche anche se intervenuta successivamente alla scadenza dei termini per la presentazione dell’offerta (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 prevede cause di esclusione dalla gara, obbligatorie o facoltative, fondate sul presupposto che l’operatore economico non dichiari, o dichiari falsamente, alcune condizioni o presupposti specificamente indicati ai commi 1, 2, 4 e 5. La previsione della cause di esclusione per mancata dichiarazione (o falsa dichiarazione) presuppone, dunque, l’emersione, in capo all’operatore economico, di determinati obblighi dichiarativi, il cui contenuto si definisce e si modella alla luce proprio delle citate cause di esclusione.
Il legislatore pretende, dunque, dall’operatore economico che partecipa ad un gara pubblica una serie di informazioni per valutarne l’affidabilità morale e professionale. Si tratta di un’applicazione dei principi di buona fede e correttezza che da tempo sono entrati nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico (Cass. 18.09.2009, n. 20106) e che fanno dell'obbligo di buona fede oggettiva un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (Cass. 15.02.2007, n. 3462).
La giurisprudenza ha, peraltro, chiarito che il principio di buona fede informa tutte le fasi della procedura di gara al punto che, in tema di responsabilità precontrattuale della p.a., l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 5 del 2018) ha affermato, superando il contrario prevalente orientamento, che la responsabilità precontrattuale della p.a. possa perfezionarsi anche prima dell’aggiudicazione, perché la p.a. è tenuta al dovere di buona fede in tutte la fasi della procedura di gara.
La latitudine applicativa del principio di buona fede nelle gare pubbliche è tale che è pacifica anche la sua rilevanza bilaterale: opera nei confronti della p.a., così come nei confronti dei partecipanti alle gare pubbliche.
Del resto, la Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, evidenziava che il principio di correttezza e buona fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità. Ne consegue, dunque, che, così come la stazione appaltante deve comportarsi secondo buona fede in tutte le fasi della procedura di gara, così devono fare anche i partecipanti alle gare pubbliche che devono fornire all’amministrazione tutte le informazioni necessarie affinché questa possa scegliere nel modo più consapevole possibile l’impresa più affidabile.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha omesso un’informazione avente ad oggetto una misura limitativa emessa dall’Anac che ha comportato l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche; misura che, dunque, ha comportato un congelamento, una sospensione, della capacità di partecipare alle gare indette dalla p.a..
L’art. 80, comma 5, lett. f), dispone, peraltro, che le stazioni appaltanti escludono un operatore economico che sia stato soggetto alla sanzione interdittiva di cui all'articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231 o ad altra sanzione che comporta il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, compresi i provvedimenti interdittivi di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81.
La sanzione Anac in parola, comportando l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche, comporta, come effetto automatico, l’incapacità a contrarre con la p.a. nel periodo temporale di efficacia della sanzione (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 04.02.2019 n. 598 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
4. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato nei limiti di seguito specificati e che la ricostruzione offerta dall’amministrazione resistente e dalla controinteressata non possa essere condivisa, in quanto è, da un lato, eccessivamente formalistica e, dall’altro, non in linea con le ragioni ispiratrici dell’art. 80 d.lgs. 50/2016 e dei connessi obblighi dichiarativi.
Quest’ultima norma prevede cause di esclusione dalla gara, obbligatorie o facoltative, fondate sul presupposto che l’operatore economico non dichiari, o dichiari falsamente, alcune condizioni o presupposti specificamente indicati ai commi 1, 2, 4 e 5.
La previsione della cause di esclusione per mancata dichiarazione (o falsa dichiarazione) presuppone, dunque, l’emersione, in capo all’operatore economico, di determinati obblighi dichiarativi, il cui contenuto si definisce e si modella alla luce proprio delle citate cause di esclusione.
Il legislatore pretende, dunque, dall’operatore economico che partecipa ad un gara pubblica una serie di informazioni per valutarne l’affidabilità morale e professionale.
Si tratta di un’applicazione dei principi di buona fede e correttezza che da tempo sono entrati nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico (cfr., Cass., 18/09/2009 n. 20106) e che fanno dell'obbligo di buona fede oggettiva un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.02.2007 n. 3462).
La giurisprudenza ha, peraltro, chiarito che il principio di buona fede informa tutte le fasi della procedura di gara al punto che, in tema di responsabilità precontrattuale della p.a., l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 5/2018) ha affermato, superando il contrario prevalente orientamento, che la responsabilità precontrattuale della p.a. possa perfezionarsi anche prima dell’aggiudicazione, perché la p.a. è tenuta al dovere di buona fede in tutte la fasi della procedura di gara.
La latitudine applicativa del principio di buona fede nelle gare pubbliche è tale che è pacifica anche la sua rilevanza bilaterale: opera nei confronti della p.a., così come nei confronti dei partecipanti alle gare pubbliche.
Del resto, la Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, evidenziava che il principio di correttezza e buona fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando, quindi, come un criterio di reciprocità.
Ne consegue, dunque, che, così come la stazione appaltante deve comportarsi secondo buona fede in tutte le fasi della procedura di gara, così devono fare anche i partecipanti alle gare pubbliche che devono fornire all’amministrazione tutte le informazioni necessarie affinché questa possa scegliere nel modo più consapevole possibile l’impresa più affidabile.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha omesso un’informazione avente ad oggetto una misura limitativa emessa dall’Anac che ha comportato l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche; misura che, dunque, ha comportato un congelamento, una sospensione, della capacità di partecipare alle gare indette dalla p.a..
L’art. 80, comma 5, lett. f), dispone, peraltro, che le stazioni appaltanti escludono un operatore economico che sia stato soggetto alla sanzione interdittiva di cui all'articolo 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231 o ad altra sanzione che comporta il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione, compresi i provvedimenti interdittivi di cui all'articolo 14 del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81.
La sanzione Anac in parola, comportando l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche, comporta, come effetto automatico, l’incapacità a contrarre con la p.a. nel periodo temporale di efficacia della sanzione.
5. Né è possibile ritenere tale misura applicabile solo se interviene entro la scadenza del termine di presentazione delle offerte e reputarla, invece, irrilevante se emessa successivamente.
Il Consiglio di Stato ha, infatti, chiarito che l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche rappresenta “una misura restrittiva che riguarda non il micro-mercato della singola gara e del figurato conseguente contratto, dove l’omissione è avvenuta (e rispetto alla quale già l’esclusione disposta dalla stazione appaltante ha raggiunto l’effetto impeditivo), bensì il ben più ampio mercato generale di tutte le gare per contratti pubblici”.
Tale misura ha un effetto dirompente “sulla capacità settoriale di agire dell’impresa, perché comunque presunta sospettabile di inaffidabilità morale in tema di gare pubbliche”. E’, quindi, una “seria misura di prevenzione settoriale e generale de futuro, non già – malgrado l’invalso uso del termine - una vera e propria “sanzione” che va comminata dall’Anac nel rigoroso rispetto del principio di proporzionalità, proprio in considerazione degli effetti restrittivi che produce sulla capacità dell’impresa".
Si tratta, dunque, di applicare una misura restrittiva che riguarda non il micro-mercato della singola gara e del figurato conseguente contratto, dove l’omissione è avvenuta (e rispetto alla quale già l’esclusione disposta dalla stazione appaltante ha raggiunto l’effetto impeditivo), bensì il ben più ampio mercato generale di tutte le gare per contratti pubblici, in atto o future e per quel certo stabilito tempo" (cfr., Cons. Stato, 23.07.2018 n. 4427).
Tale misura restrittiva operando, quindi, per tutte le gare per contratti pubblici anche in atto, trova immediata applicazione anche nel caso di specie, senza che abbia rilevanza la circostanza che siano scaduti i termini per la presentazione della domanda di partecipazione alla gara.
Qualora si ritenesse, come fa la controinteressata, che l’obbligo dichiarativo opererebbe solo entro la scadenza dei termini per la presentazione della domanda, si limiterebbe ingiustamente l’operatività, comunque, del principio di buona fede, legittimando condotte anche opportunistiche che, comunque, potrebbero condurre la stazione appaltante a scegliere un operatore economico non pienamente affidabile.
Conferma di tale impostazione deriva, oltre che dalla applicazione rigorosa del principio di buona fede alle gare pubbliche, anche dall’art. 80, comma 6, secondo cui le “stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5”. Nel comma 5, lett. f), come visto, è richiamata, quale causa di esclusione, “altra sanzione che comporta il divieto di contrarre con la pubblica amministrazione”.
Ne consegue, dunque, che qualunque operatore economico è tenuto a informare la stazione appaltante dell’intervenuta emanazione di una sanzione Anc avente ad oggetto l’incapacità a partecipare alle gare pubbliche anche se intervenuta successivamente alla scadenza determini per la presentazione dell’offerta.
Nel caso di specie, contrariamente a quanto sostiene la controinteressata, non è emerso che la stazione appaltante fosse venuta, comunque, a conoscenza dell’esistenza della sanzione Anac e avesse deciso, comunque, di aggiudicare la gara alla aggiudicataria.
Ne consegue, dunque, che l’omessa dichiarazione del consorzio controinteressato avrebbe dovuto comportare l’esclusione dello stesso dalla gara.
6. A identica soluzione, peraltro, si giunge anche in considerazione del fatto che la sanzione Anac ha comportato, sia pur temporaneamente, la perdita dei requisiti di partecipazione, così violando il principio, secondo cui i partecipanti alle gare pubbliche devono possedere i requisiti di partecipazione lungo tutto l’arco della procedura di gara. In tal senso, sin dall’Adunanza Plenaria n. 8/2015, è stato ripetutamente affermato che i requisiti generali e speciali devono essere posseduti dagli offerenti, senza soluzione di continuità, dal giorno di scadenza del termine per la presentazione della richiesta di partecipazione alla gara, per tutta la durata di questa, fino all’aggiudicazione definitiva, alla stipula del contratto, nonché durante la sua esecuzione (cfr. anche Consiglio di Stato, sez. VI, 25/09/2017, n. 4470).
Nel caso di specie, la sanzione Anac ha comportato, comunque, il venir meno, per un determinato periodo temporale, dei requisiti di partecipazione in capo all’aggiudicataria.
Ne consegue, pertanto, che il ricorso va accolto anche sotto tale profilo.

EDILIZIA PRIVATA: Il Collegio condivide l'orientamento della giurisprudenza che esclude la qualificazione del muro di contenimento in termini di "costruzione” per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento.
La stessa giurisprudenza ha evidenziato, in particolare, che, per contro, la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente.
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3. Con riferimento alle contestazioni riferite alla realizzazione del muro di contenimento indicato al punto A) del provvedimento impugnato, il Collegio non ignora e, anzi, integralmente condivide l'orientamento della giurisprudenza che esclude la qualificazione del muro di contenimento in termini di "costruzione” per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento.
La stessa giurisprudenza ha evidenziato, in particolare, che, per contro, la parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il naturale dislivello esistente (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II, 10.01.2006, n. 145; Cons. St., Sez. IV, 24.04.2009, n. 2579; Cons. St, Sez. V, 28.06.2000, n. 3637) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.02.2019 n. 554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli atti repressivi degli illeciti edilizi hanno natura doverosa e rigorosamente vincolata, sicché ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e, quindi, non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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5. Neppure sussiste la denunciata illegittimità del provvedimento per omessa comunicazione di avvio del procedimento, per l’assorbente rilievo che gli atti repressivi degli illeciti edilizi hanno natura doverosa e rigorosamente vincolata, sicché ai fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del soggetto destinatario e, quindi, non devono essere necessariamente preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., ex multis, C.d.S., sez. VI, 31.05.2013, n. 3010; TAR Campania Napoli, sez. II, 05.12.2013, n. 5570; 07.06.2013, n. 3026; 02.03.2012, n. 1082) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 02.02.2019 n. 554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Esclusione dell’offerta per violazione dei minimi tabellari.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta anomala – Per violazione dei minimi tabellari – Contraddittorio – Non occorre.
L’accertamento che l’anomalia dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai minimi tabellari ne determina l’esclusione senza necessità di instaurare il contradditorio (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la disposizione di cui all’art. 96, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 richiamata non prevede l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come previsto dall’art. 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96, comma10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione.
Le stazioni appaltanti, ai sensi dell’art. 95, comma 10, secondo periodo del d.lgs. n. 50 del 2016, prima dell’aggiudicazione hanno obbligo di controllare che i costi della manodopera rappresentati nell’offerta vincitrice non siano inferiori ai minimi salariali retributivi indicati nelle “tabelle ministeriali". Per tale verifica la disposizione non richiede alcun contraddittorio né, men che meno, che venga attivato il procedimento di verifica delle offerte anormalmente basse.
La norma di rinvio è contenuta nell’art. 97, d.lgs. n. 50 del 2016 che disciplina detto procedimento; il rinvio però è limitato al disposto di cui al comma 5, lett. d), di tale articolo e, pertanto, non può essere interpretato nel senso che occorre attivare comunque il procedimento citato. Detto rinvio va invece interpretato nel senso che prima dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare il rispetto, da parte dell’offerta vincitrice, dei minimi salariali indicati nelle tabelle ministeriali.
Laddove la verifica dia esito negativo, la disposizione di cui all’art. 96, comma 10, richiamata non prevede l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come previsto dall’arti. 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96, comma 10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.02.2019 n. 165 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Il ricorso è infondato, e si prescinde perciò dalla trattazione dell’eccezione preliminare formulata dalla controinteressata.
In punto di fatto è incontestato che l’offerta della ricorrente presentasse valori della manodopera inferiori a quelli stabiliti dalle “tabelle ministeriali”. La lettura della nota di ANAS 19.10.2018 prot. 554512 evidenzia che la sua esclusione è stata disposta sulla base del combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 97, comma 5, lett. d), del d.lgs. n. 50/2016, e non si è trattato dell’esclusione automatica di un’offerta anomala. Il verbale della Commissione di gara 09.05.2018 evidenzia infatti che alcuna delle offerte presentate nella procedura è risultata anomala.
La stazione appaltante ha quindi inteso esercitare un potere diverso da quello di verifica (ed esclusione) delle offerte anomale.
Questo potere trova fondamento nel citato articolo 95, comma 10, del d.lgs. n. 50/2016 come modificato dall’art. 60, comma 1, lett. e), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, cosiddetto “decreto correttivo”: esso, al secondo periodo, prevede che “le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto all’articolo 97, comma 5, lett. d)” del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Quest’ultima disposizione fa riferimento al costo del personale come indicato nelle tabelle ministeriali di cui all’articolo 23, comma 16, dello stesso decreto; è contenuta nell’articolo dedicato alla valutazione dell’anomalia delle offerte e il comma in cui è inserito prevede che l’offerta debba essere esclusa, alternativamente, se non viene giustificato il basso livello di prezzi proposti oppure se la stazione appaltante ha accertato che l’offerta stessa non rispetta gli elementi indicati alle successive lettere a), b), c) e appunto d).
La disposizione cui rimanda l’articolo 95, comma 10, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016 evidenzia quindi che (anche) i minimi salariali retributivi indicati nelle “tabelle ministeriali” costituiscono un elemento inderogabile delle offerte presentate nelle gare per l’aggiudicazione dei contratti pubblici e, pertanto, in sede di verifica dell’anomalia non possono essere accettate giustificazioni fondate su una riduzione del trattamento salariale dei dipendenti a livelli inferiori a tale parametro.
La disposizione, attraverso il richiamo operato dalla norma di cui al citato articolo 95, comma 10, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016 trova operatività anche laddove la stazione appaltante eserciti il diverso potere previsto da quest’ultima norma. Detto potere è finalizzato a controllare, prima dell’aggiudicazione, che l’offerente vincitore rispetti il medesimo parametro, ovvero che il costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali retributivi indicati dalle “tabelle ministeriali”.
Il dettato normativo, così ricostruito in base ai rimandi contenuti nel testo di legge, appare sufficientemente chiaro e non richiede quindi un ulteriore approfondimento ermeneutico, in base al criterio secondo cui in claris non fit interpretatio.
Le stazioni appaltanti, ai sensi dell’articolo 95, comma 10, secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016, prima dell’aggiudicazione hanno obbligo di controllare che i costi della manodopera rappresentati nell’offerta vincitrice non siano inferiori ai minimi salariali retributivi indicati nelle “tabelle ministeriali". Per tale verifica la disposizione non richiede alcun contraddittorio né, men che meno, che venga attivato il procedimento di verifica delle offerte anormalmente basse. La norma di rinvio è contenuta nell’articolo 97 del d.lgs. n. 50/2016 che disciplina detto procedimento; il rinvio però è limitato al disposto di cui al comma 5, lett. d), di tale articolo e, pertanto, non può essere interpretato nel senso che occorre attivare comunque il procedimento citato.
Detto rinvio va invece interpretato nel senso che prima dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare il rispetto, da parte dell’offerta vincitrice, dei minimi salariali indicati nelle tabelle ministeriali. Laddove la verifica dia esito negativo, la disposizione di cui all’articolo 96, comma 10, richiamata non prevede l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come previsto dall’articolo 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96, comma 10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione.
La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione terza, 29.08.2018 n. 5084 depositata dalla ricorrente a sostegno delle proprie ragioni non è applicabile al caso di specie. Essa infatti aveva ad oggetto l’appello avverso la sentenza del TAR Puglia-Lecce Sezione III, 03.08.2017 n. 1358, la quale è stata resa nell’ambito di un contenzioso riguardante una procedura indetta con determinazione dirigenziale della ASL di Lecce n. 1429 del 03.11.2016.
A questa procedura era quindi applicabile la normativa sull’affidamento dei contratti pubblici nella versione antecedente la modifica operata dall’art. 60, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 56/2017. Nella versione originaria il comma 10 dell’articolo 95 stabiliva che “nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” senza prevedere la verifica preventiva, da parte della stazione appaltante, del rispetto da parte dell’offerta vincitrice dei trattamenti retributivi stabiliti dalle “tabelle ministeriali”.
Tanto è sufficiente alla reiezione del ricorso; per scrupolo di completezza si rileva che, comunque, il divario dalle “tabelle ministeriali” dei costi della manodopera presente nell’offerta della ricorrente non appare comunque giustificabile nemmeno ove venissero presi in considerazione gli elementi da essa proposti a tal fine.
Il mancato obbligo di corrispondere oneri quali l’indennità di trasporto, le trasferte, la previdenza complementare e l’indennità di disagio nonché tredicesima e quattordicesima mensilità viene solo affermato nella dichiarazione resa dal suo legale rappresentante in data 28.12.2018; la relazione in data 24.12.2018 ad opera della DS Co. s.a.s. di Fr. De. St. & C. non è convincente poiché da un lato, si fonda genericamente sull’esperienza maturata dall’impresa ricorrente in lavori simili e il fatto che abbia offerto ribassi anche superiori a quello odierno in alcuni di essi non vale a creare un precedente vincolante, come correttamente replica la difesa della stazione appaltante; d’altro lato, le condizioni di maggior favore e le agevolazioni contributive che giustificherebbero il divario del costo del lavoro contenuto nell’offerta odierna sono affermate, ma non dimostrate come correttamente replica la difesa dell’impresa controinteressata.
Per questi motivi, il ricorso deve essere respinto.

PATRIMONIO: Acquisizione di diritti in relazione ai beni infrastrutturali di proprietà pubblica da parte di soggetto carente della qualifica di operatore di telecomunicazioni.
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Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione – Gara – Assegnazione diritto superficie per dislocazione impianti telefonia mobile – Impugnazione – Operatore titolare autorizzazione servizio di installazione e fornitura di una rete pubblica di comunicazione elettronica – Giurisdizione giudice amministrativo.
  
Telecomunicazione – Servizio di telecomunicazione - Beni infrastrutturali di proprietà pubblica – per predisposizione servizio – Acquisizione diritti – Soggetto primo di qualifica di operatore di telecomunicazioni – Preclusione.
  
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la controversia, instaurata dall’operatore di telefonia mobile, titolare dell’autorizzazione generale per il servizio di installazione e fornitura di una rete pubblica di comunicazione elettronica, il quale censuri l’indizione della gara e i susseguenti atti della procedura, preordinati all’assegnazione ad un soggetto terzo del diritto di superficie, costituito, ai sensi dell’art. 952 c.c., sull’area concessagli in locazione dal Comune, per la dislocazione degli impianti (1).
  
Ai sensi dell’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del 2003, è preclusa, in capo al soggetto carente della qualifica di operatore di telecomunicazioni, l’acquisizione di diritti in relazione ai beni infrastrutturali di proprietà pubblica, necessari per la predisposizione del servizio (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che a tal fine, riveste carattere dirimente il rilievo secondo cui la posizione soggettiva, sottesa all’impugnazione, può assumere consistenza esclusivamente nel contesto dell’azione amministrativa, il cui legittimo svolgimento configura il presupposto costitutivo per il conseguimento del bene della vita, sotteso alla domanda di annullamento; essa, in particolare, è sostenuta da una posizione di interesse legittimo, che, specie in riferimento all’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del 2003, si declina in senso oppositivo, perché intesa a precludere l’assegnazione a terzi del diritto di superficie e, contestualmente, in senso pretensivo, perché volta a preservare le prospettive di futura acquisizione del medesimo diritto, da parte del ricorrente, nella sua qualità di operatore di telecomunicazioni.
   (2) Ad avviso del Tar detti beni, infatti, secondo il principio desumibile dall’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del 2003, sono soggetti ad un regime di indisponibilità relativa, che, consentendo la costituzione e il trasferimento dei diritti ad essi inerenti, dai Comuni e dalle società da questi controllate a favore dei soli operatori, impedisce, finché permane la destinazione loro assegnata, l’alienazione dei medesimi diritti, benché mediante procedure ad evidenza pubblica, nei confronti dei terzi, privi della qualifica richiesta (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 01.02.2019 n. 49 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Valutazioni del prefetto sottese all’informativa antimafia.
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Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.
In sede di emanazione dell’informativa antimafia l’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la logica della prevenzione, richiedono alla Prefettura un’attenta valutazione dei diversi elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono al giudice amministrativo, nel sindacato sulla motivazione, un altrettanto approfondito esame di tali elementi, singolarmente e nella loro intima connessione, per assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato, potere discrezionale (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 (codice antimafia) riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate».
Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Il pericolo –anche quello di infiltrazione mafiosa– è per definizione la probabilità di un evento.
Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi.
Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della Pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può» –si badi: può– desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
La formulazione della fattispecie normativa a struttura aperta, propria dell’informazione interdittiva antimafia, consente all’autorità amministrativa e, ove insorga contestazione in sede giurisdizionale, al giudice amministrativo di apprezzare, in sede di sindacato sull’eccesso di potere, tutta una serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente, elementi che sfuggirebbero, invece, ad una rigorosa, tassativa, asfissiante tipizzazione di tipo casistico, che elenchi un numerus clausus di situazioni “sintomatiche”.
Una simile tecnica legislativa, ove pure sia auspicabile, in abstracto, sul piano della certezza del diritto e della prevedibilità delle condotte anche in materia di prevenzione antimafia, frustrerebbe nel suo «fattore di rigidità», per usare un’espressione dottrinaria, la ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale deve affidarsi anche, e necessariamente, a “clausole generali”, come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori, spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali.
Ha aggiunto la Sezione che la legislazione antimafia può e deve prevenire anche l’insidia della contiguità compiacente accanto a quella c.d. soggiacente e, con essa, le condotte, ambigue, di quegli operatori economici che, pur estranei ad associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale, se è vero che simili condotte non solo sono un pericolo per la sicurezza pubblica e per l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel «fondamentale principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e il valore della persona» (v., per tutte, Corte cost., 07.12.2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato in radice dalla mafia, che ne fa invece un valore negoziabile nel “patto di affari” stipulato con l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse economico, a danno dello Stato.
E tuttavia questo patto, come si è accennato, a discapito del nome è pur sempre una forma di condizionamento, diretto o indiretto a seconda dei casi, esercitato dalla mafia per asservire uomini e mezzi ai suoi fini illeciti e, quindi, una minaccia per la dignità di quegli imprenditori che questo patto stipulano, nell’illusoria prospettiva di un affare, anzitutto contro di sé.
Chi contratta e collabora con la mafia infatti, per convenienza o connivenza, non è mai soggetto, ma solo oggetto di contrattazione.
Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia, esso davvero riposa nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale –e non a caso– opera come limite all’attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma secondo, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o –secondo un climax assiologico di tipo ascendente– in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
E non vi è dubbio che qualsiasi forma di contiguità imprenditoriale alla mafia, sia essa soggiacente o, ancor peggio, compiacente, sia un attentato alla libertà dell’impresa, di ogni impresa che voglia regolarmente operare sul mercato, e alla dignità della persona umana, asservita per ragioni economiche a fini di associazioni pericolosamente operanti in radicale antitesi rispetto allo Stato.
I fenomeni criminali di cui sono espressione le organizzazioni e le attività mafiose, in effetti, hanno progressivamente assunto, nel corso dei decenni, carattere sempre più “asimmetrico”, nel senso che metodi e obiettivi hanno sempre più accentuato i caratteri della adattabilità alle circostanze più favorevoli al profitto ingente e facile, della imprevedibilità di strategie grazie alla estrema flessibilità nel mutamento di operazioni, alleanze e strategie e della graduale, ma costante penetrazione, con una serie di atti apparentemente non eccezionali o eclatanti, nei più diversi contesti della economia legale, e con una proiezione ormai anche internazionale.
Ciò permette alle mafie, rispetto alle tragiche stagioni di sangue degli attacchi frontali allo Stato, di occupare nella quotidianità settori che soltanto con la capillare attività di monitoraggio territoriale riescono ad emergere, grazie agli strumenti che il codice antimafia offre alla Prefettura.
Ecco perché una minaccia asimmetrica, quale quella mafiosa, richiede una “frontiera avanzata” della prevenzione con strumenti che debbono armonizzarsi, adattarsi, modificarsi di contesto in contesto (anche in relazione a storie, tradizioni e metodi di ciascun territorio contaminato) e di settore in settore economico, per affermare sempre il “potere della legge” verso il contropotere perseguito dalle mafie.
Mai detto obiettivo, che risponde a un valore, come detto, supremo nella scala dei valori costituzionali, potrebbe essere irrigidito e imbrigliato entro una casistica fissa e immutabile senza offrire alle associazioni mafiose un comodo appiglio formale, di cui difficile sarebbe il superamento senza un continuo intervento legislativo di aggiornamento che “rincorra” affannosamente, e tardivamente, le nuove strategie mafiose.
Ha ancora chiarito la Sezione di non ignorare per altro verso, nell’ottica di questo equilibrato bilanciamento, gli effetti davvero incisivi, inibitori e finanche paralizzanti per l’attività di impresa, conseguenti all’adozione dell’informazione antimafia, da taluno assimilata o comparata addirittura ad una sorta di “ergastolo imprenditoriale”.
Voci fortemente critiche si sono levate rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23.02.2017, ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’«onda lunga» di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia “generica”, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.
Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate.
L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) del codice antimafia –ma ragionamento analogo deve svolgersi per la seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si riferisce a non meglio precisati «concreti elementi»– non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.
Ritiene il Collegio che questa tesi non possa essere seguita e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni competenza del giudice europeo per l’applicazione del diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte costituzionale per l’applicazione delle disposizioni costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare provvedimenti arbitrari.
Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa provincia in cui ha sede l’impresa o in altra, sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 159 del 2011, «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo.
Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia, sopra ricordata, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che «mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica» (§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (§ 108).
La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” –v. supra § 8.8.– dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini.
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere il passo con il mutare delle circostanze» secondo una nozione di legalità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale «poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 01.03.2018, dep. 09.07.2018, n. 30974).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha così enucleato le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.01.2019 n. 758 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la quiete pubblica - Schiamazzi e rumori molesti - Emissioni sonore - Elementi probatori - Art. 659 cod. pen.. Fattispecie: disturbato di notte del riposo delle persone, cantando a squarciagola e tenendo alto il volume della radio e dell'autovettura parcheggiata sulla pubblica via.
Ai fini della configurabilità della contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen., non sono necessarie né la vastità dell'area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri; Sez. 1, n. 45616 del 14/10/2013, Virgillito).
Orbene, l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (ex multis, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli).
Nella specie, oltre alla persona che aveva segnalato il disturbo, erano stati gli stessi agenti intervenuti sul posto ad aver constatato l'idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone.

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RISARCIMENTO DEL DANNO - Liquidazione del danno morale in relazione a lesioni refertate - Correlazione tra la gravità effettiva del danno e l'ammontare dell'indennizzo.
In tema di liquidazione del danno morale, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (tra tante, Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana).
Nella specie, la Corte di appello ha ritenuto provato il danno morale in relazione alle lesioni refertate, rapportando l'importo liquidato all'intensità del turbamento psichico derivato dalla veemenza e dalla durata della violenza, cessata solo grazie all'intervento di un terzo lì presente e di un'altra pattuglia.
In tal modo, la Corte territoriale ha soddisfatto l'esigenza di ragionevole correlazione tra la gravità effettiva del danno e l'ammontare dell'indennizzo, correlazione motivata attraverso i concreti elementi che hanno concorso al processo di formazione del libero convincimento
(Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, Avenati)
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 29.01.2019 n. 4462 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni di fumi in atmosfera - Sequestro dell'impianto - Contravvenzione di cui all'art. 279, c. 1, d.lgs. n. 152/2006 - Natura di reato permanente - Requisiti della concretezza ed attualità del pericolo.
In tema di emissioni di fumi in atmosfera, avendo la contravvenzione prevista dall'art. 279, comma 1, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 natura di reato permanente, l'esercizio in assenza della prescritta autorizzazione di uno stabilimento ne giustifica il sequestro finalizzato ad impedire la protrazione della condotta illecita.
Pertanto, appare evidente che, quando la permanenza è in atto, risultano pacificamente sussistenti i necessari requisiti della concretezza ed attualità del pericolo richiesti dalla natura della violazione.

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INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni in atmosfera - Esercizio o istallazione di impianto in assenza di autorizzazione - Natura di reato permanente - Consumazione e termine della permanenza - Verifiche della pubblica amministrazione.
La natura permanente del reato di esercizio o istallazione di impianto in assenza di autorizzazione termina col rilascio dell'autorizzazione o, in alternativa, con la cessazione dell'esercizio dell'impianto (v. Sez. 3, n. 8678 del 13/11/2013 (dep. 2014), P.M. in proc. Vollero), ciò in quanto, trattandosi di norma finalizzata alla tutela della qualità dell'aria, l'autorizzazione medesima rappresenta il mezzo attraverso il quale la pubblica amministrazione procede alla preventiva verifica della rispondenza dell'impianto alle prescrizioni della legge (cfr. Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012 (dep. 2013), Rando) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.01.2019 n. 4250 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il termine “comunque non superiore a diciotto mesi”, entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela, deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”, decorso il quale non può più essere legittimamente esercitato il potere di ritiro per vizi di legittimità.
La novella apportata dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124, ha costituito un importante presa di posizione da parte del legislatore e una significativa “pietra miliare” che si è voluto porre nella direzione di questo riconoscimento, nell’ambito del diritto amministrativo.
L’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 è stato così modificato “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Si è dunque previsto un termine “comunque non superiore a diciotto mesi”, entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela.
Esso deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”, decorso il quale non potrà più essere legittimamente esercitato il potere di ritiro per vizi di legittimità.
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E’ controversa la legittimità del provvedimento n. 6367 del 10.07.2018, emanato dal Comune di Praiano, con il quale si è annullato d’ufficio il permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2011.
Nell’ambito della motivazione del provvedimento gravato, il Comune sostiene che, a seguito di una denuncia del 15.02.2018 prot. 1777, è stato dato avvio ad un procedimento volto ad accertare l’effettivo compimento di “lavori abusivi presso la struttura di cui trattasi”.
All’esito della suddetta attività di ispezione e di accertamento, il Comune ha dunque emanato il provvedimento gravato nel presente giudizio.
Avverso tale atto è insorta parte ricorrente, adducendo plurimi motivi di censura e, segnatamente, la violazione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990.
Non si costituiva in giudizio l’ente locale, quantunque regolarmente intimato.
Il motivo di ricorso sopra evidenziato può essere accolto.
La novella apportata dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124, ha costituito un importante presa di posizione da parte del legislatore e una significativa “pietra miliare” che si è voluto porre nella direzione di questo riconoscimento, nell’ambito del diritto amministrativo.
L’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 è stato così modificato “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Si è dunque previsto un termine “comunque non superiore a diciotto mesi”, entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela.
Esso deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”, decorso il quale non potrà più essere legittimamente esercitato il potere di ritiro per vizi di legittimità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 27.06.2018, n. 3940; TAR Lombardia–Brescia, Sez. I, 15.01.2018, n. 32; TAR Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2018, n. 2468; TAR Sardegna, 09.08.2016, n. 678).
Nel caso di specie, questo termine è ampiamente decorso, né emerge in alcun modo che il vizio di legittimità che affliggeva l’atto ritirato in autotutela costituisca la risultante di una falsità dei presupposti, dolosamente perpetrata dal privato (Consiglio di Stato, sez. V, n. 3940 del 2018).
Anche in considerazione della mancata costituzione in giudizio del Comune e, soprattutto, stante l’assenza nel provvedimento gravato di qualsivoglia circostanza che giustifichi il lungo lasso di tempo trascorso tra l’emanazione del provvedimento di permesso di costruire in sanatoria e l’adozione del provvedimento di ritiro, il Collegio ha motivo di constatare l’avvenuta violazione della norma invocata dal ricorrente.
Il motivo di ricorso va dunque accolto, con assorbimento delle altre censure, e va disposto l’annullamento del provvedimento gravato (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 28.01.2019 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, “l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto”.
Oltretutto la difesa della ricorrente non ha specificato quali elementi determinanti avrebbe voluto introdurre nel procedimento, e quindi nessuna effettiva lesione si è prodotta nei confronti di quest’ultima.
Di conseguenza si può fare applicazione del disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
L’ordinanza di ripristino è stata adottata sul presupposto dell’abusività della posa della cancellata in ferro battuto e, trattandosi di atto di carattere del tutto vincolato, si pone quale conseguenza immediata e diretta rispetto alla verifica dell’abusività degli interventi e non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso.
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Quanto alla tutela dell’affidamento della ricorrente per il lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la sua repressione, si può rinviare alla più recente giurisprudenza secondo la quale “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino”.
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3. Quanto alle restanti censure di ricorso con cui si deduce (a) l’omessa comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento, (b) il difetto di motivazione in ordine agli abusi commessi e alla pertinente sanzione, (c) l’omessa tutela dell’affidamento del privato in ragione del lungo lasso di tempo dalla commessione dell’abuso, le stesse sono infondate.
3.1. Secondo un costante indirizzo giurisprudenziale, da cui non vi è ragione di discostarsi, “l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce manifestazione di attività amministrativa doverosa, con la conseguenza che i relativi provvedimenti, quali l’ordinanza di demolizione, costituiscono atti vincolati per la cui adozione non è necessario l’invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell’atto” (TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098; 06.08.2018, n. 1946; 05.03.2018, n. 616; altresì, Consiglio di Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010, n. 7129).
Oltretutto la difesa della ricorrente non ha specificato quali elementi determinanti avrebbe voluto introdurre nel procedimento, e quindi nessuna effettiva lesione si è prodotta nei confronti di quest’ultima.
Di conseguenza si può fare applicazione del disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, secondo il quale un provvedimento non è annullabile per il mancato rispetto della normativa sul procedimento, qualora si tratti di atto vincolato o comunque l’Amministrazione dimostri in giudizio che il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (Consiglio di Stato, V, 21.06.2013, n. 3402; TAR Lombardia, Milano, II, 18.09.2018, n. 2098).
3.2. L’ordinanza di ripristino è stata adottata sul presupposto dell’abusività della posa della cancellata in ferro battuto e, trattandosi di atto di carattere del tutto vincolato, si pone quale conseguenza immediata e diretta rispetto alla verifica dell’abusività degli interventi e non richiede una particolare motivazione né con riguardo all’interesse pubblico alla stessa sotteso e all’ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opera edilizia, né con riguardo alla puntuale indicazione delle norme violate, allorquando dalla descrizione delle stesse emerga la natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 06.08.2018, n. 1946; 02.05.2018, n. 1190).
3.3. Infine, quanto alla tutela dell’affidamento della ricorrente per il lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la sua repressione, si può rinviare alla più recente giurisprudenza secondo la quale “il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
3.4. Quindi, per questa parte il ricorso è infondato.
4. In conclusione, il ricorso deve in parte essere dichiarato inammissibile e in parte deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2019 n. 186 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Immodificabilità dell’offerta e interpretazione della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante.
Il TAR Brescia riafferma il principio per cui –pur vigendo nella materia degli appalti pubblici il principio generale della immodificabilità dell’offerta, a tutela dell’imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, nonché della parità di trattamento tra gli operatori economici– va comunque data continuità all’orientamento secondo cui nelle gare pubbliche è ammissibile un’attività interpretativa della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta, purché si giunga ad esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essi assunti.
Le offerte, intese come atto negoziale, sono quindi suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l’effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente (nella fattispecie vi era una discordanza tra il prezzo indicato in piattaforma elettronica e quello trascritto in un modello tale da rivelare un’ambiguità inspiegabile.
Acclarata l’esibizione di due importi oggettivamente non collimanti, l’indagine compiuta dalla stazione appaltante si è indirizzata nel ricostruire la volontà dell’offerente escludendo che, in realtà, l’accertata divergenza fosse ingiustificata: applicando le due differenti percentuali di sconto praticate alle due grandezze riportate negli atti di gara (importo a base d’asta al netto degli oneri di sicurezza e importo al lordo dei medesimi) si perveniva allo stesso identico valore di offerta)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.01.2019 n. 87 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
La ricorrente si duole dell’illegittimità degli atti della procedura negoziata per l’affidamento dei lavori di riqualificazione dell’impianto sportivo polivalente di Via portico.
La pretesa risarcitoria è priva di fondamento.
1. L’applicazione del paragrafo 14 della lettera di invito, che riconosce la prevalenza del valore indicato nell'allegato “Offerta economica”, presuppone una discordanza tra il prezzo indicato in piattaforma e quello trascritto nel “modello E” tale da rivelare un’ambiguità inspiegabile.
Acclarata l’esibizione di due importi oggettivamente non collimanti, l’indagine compiuta dalla stazione appaltante consente, con ragionevole sicurezza, di ricostruire la volontà dell’offerente e di escludere che, in realtà, l’accertata divergenza sia ingiustificata. Applicando le due differenti percentuali di sconto praticate (14,66222% e 17,234%) alle due grandezze riportate negli atti di gara (importo a base d’asta al netto degli oneri di sicurezza pari a € 633.598,59 e importo al lordo dei medesimi di € 653.286,35) si perviene allo stesso identico valore di offerta, ossia 540.698,98 €.
2. Si concorda sul punto con la difesa dell’amministrazione, nel senso che l’invocata previsione della lex specialis (art. 14) produce i suoi effetti ove il concorrente indichi due valori non corrispondenti i quali non siano altrimenti spiegabili, ossia “riconducibili ad unità” in modo plausibile e credibile; diversamente, non viene in considerazione laddove traspaia, in modo non equivoco, che la volontà del concorrente si è formata attorno al medesimo valore economico (nella fattispecie, il prezzo di € 540.698,98).
Il Collegio ritiene che il giudizio formulato dal Comune non sia semplicemente assistito da attendibilità e verosimiglianza, ma raggiunga il grado di logica certezza. Diversamente opinando, infatti, ed invertendo i termini della questione, non sarebbe possibile dare un significato alla piena e totale corrispondenza dei due valori, ricavati attraverso le semplici operazioni matematiche delle quali si è dato conto (a meno di ravvisare una singolare, e per questo del tutto implausibile, coincidenza).
3. Anche recentemente il Consiglio di Stato (cfr. sez. V – 03/01/2019 n. 72) ha riaffermato il principio per cui <<– vigendo nella materia degli appalti pubblici il principio generale della immodificabilità dell’offerta, a tutela dell’imparzialità e della trasparenza dell’agire della stazione appaltante, nonché della parità di trattamento tra gli operatori economici– andrebbe comunque data continuità all’orientamento consolidato secondo cui delle gare pubbliche è ammissibile un’attività interpretativa della volontà dell’impresa partecipante alla gara da parte della stazione appaltante, al fine di superare eventuali ambiguità nella formulazione dell’offerta, purché si giunga ad esiti certi circa la portata dell’ impegno negoziale con essi assunti; evidenziandosi, altresì, che le offerte, intese come atto negoziale, sono suscettibili di essere interpretate in modo tale da ricercare l’effettiva volontà del dichiarante, senza peraltro attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente”>> (Consiglio di Stato, sez. IV – 06/05/2016 n. 1827; sez. V – 11/01/2018 n. 113).
4. Nel caso di specie, l’amministrazione ha esaustivamente motivato l’ambivalenza, valorizzando unicamente le grandezze numeriche indicate dal concorrente nella propria offerta.
5. La correttezza della condotta dell’amministrazione preclude il positivo apprezzamento della domanda risarcitoria. Non è infatti integrata una condizione fondamentale della fattispecie di cui all’art. 2043 del c.c., ossia la condotta illecita della stazione appaltante: l’attività risulta immune da vizi, con consolidamento dei risultati della procedura selettiva.
6. Da ultimo, si segnala che il mancato rispetto dello stand still si correla all’esecuzione dei lavori fissata già dalla lettera d’invito nel 18.04.2017 (doc. 1 ricorrente pag. 1). Peraltro, le riflessioni suesposte rendono superflui i profili afferenti alla tempestiva proposizione della domanda di reintegrazione in forma specifica e ai ritardi dell’amministrazione nel riscontrare le istanze di ostensione documentale e di autotutela.

PATRIMONIO: Sussiste sempre l’obbligo di ricorrere a procedure competitive per la concessione di un bene pubblico suscettibile di produrre utilità economiche.
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Giurisdizione - Contratti della P.A. – Concessione – Concessione d’uso o gestione di un bene pubblico a privati – Procedimento di scelta del contraente della P.A. – Controversia – Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
  
Contratti della P.A. – Concessione – Concessione d’uso o gestione di un bene pubblico a privati – Procedimento di scelta del contraente – Procedimento ad evidenza pubblica – Necessità.
  
Sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di concessione di beni pubblici e di procedure di scelta del contraente della P.A., quando si tratti della concessione a un’associazione di tartufai dell’uso esclusivo o della gestione di un bene pubblico destinato all'uso collettivo (tartufaia controllata comunale) (1).
  
Le concessioni di beni pubblici –anche nella forma di un comodato d’uso di un vasto terreno comunale adibito a tartufaia controllata- possono essere assentite solo all’esito di una procedura comparativa caratterizzata da idonea pubblicità preventiva, ricadendo nel campo di applicazione dei princìpi di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità (2).
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   (1) Ha chiarito preliminarmente il Tar che, nel caso di specie avente a oggetto la concessione a un’associazione di tartufai dell’uso esclusivo o gestione di un bene pubblico destinato all'uso collettivo (tartufaia controllata comunale), sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, trattandosi sia della materia di concessione di beni pubblici, ex art. 133, comma 1, lett. b), c.p.a., sia del procedimento di scelta del contraente della Pubblica amministrazione, ex art. 133, comma 1, lett. d), punto 1), c.p.a.; viceversa, non sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda di declaratoria d’inefficacia del contratto di comodato d’uso della tartufaia controllata, atteso che la normativa di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a. è di stretta interpretazione, attribuendo una limitata cognizione sul contratto al giudice amministrativo, in via derogatoria, solo nel caso di annullamento dell’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico.
Esula, inoltre, dalla sfera di cognizione del giudice amministrativo, rientrando in quella del giudice ordinario, la questione della contestata inclusione dei terreni privati dei ricorrenti nel perimetro della tartufaia, nonché la questione dei diritti di proprietà sui prodotti della tartufaia discendenti dagli atti di concessione del godimento.
   (2) Il Tar ha affermato che, per l'affidamento a terzi di beni pubblici suscettibili di produrre utilità economiche, occorre una procedura comparativa di evidenza pubblica, anche perché l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati (e persino ad enti pubblici) è subordinata dalla normativa dell’art. 12, l. 07.08.1990, n. 241, alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le Amministrazioni si debbono attenere, sì da evitare ingiustificati privilegi o discriminazioni e per garantire la trasparenza dell'azione amministrativa e la parità di trattamento (Cons. St., sez. V, 23.03.2015, n. 1552).
Ha aggiunto il Tar che l'obbligo di espletare una procedura concorsuale sussiste anche nei casi in cui non siano state formulate preventivamente istanze di terzi per il conseguimento del bene pubblico, atteso che l'interesse all’utilità economica del rapporto concessorio potrebbe manifestarsi solo in seguito all'avvio di una procedura di evidenza pubblica (TAR Molise, sentenza 28.01.2019 n. 38 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
VI - La questione centrale della controversia verte intorno alla normativa di cui all’art. 4, comma 14, della L.R. n. 24/2005 che, in effetti, prevede il rinnovo pressoché automatico e senza procedure di evidenza pubblica -su semplice richiesta degli aventi titolo- delle attestazioni di riconoscimento della tartufaia controllata o coltivata.
Invero, la L.R. 27.05.2005, n. 24, recante la “Nuova disciplina della raccolta, della coltivazione e della commercializzazione dei tartufi”, all’art. 4, prevede quanto segue: “1. La raccolta dei tartufi, nel rispetto delle modalità e nei limiti della presente legge, è libera nei boschi e nei terreni non coltivati e lungo le sponde e gli argini dei corsi d'acqua classificati pubblici dalla vigente normativa. 2. Hanno diritto di proprietà sui tartufi prodotti nelle tartufaie coltivate e controllate tutti coloro che le conducono… 9. Le Amministrazioni Provinciali di Campobasso e Isernia rilasciano, su richiesta di coloro che ne hanno titolo, a seguito parere tecnico della Commissione provinciale di cui all'art. 10, l'attestazione e il riconoscimento di tartufaia controllata o coltivata entro 12 mesi dalla data della richiesta. Alla richiesta di riconoscimento occorre allegare un piano quinquennale di miglioramento e di utilizzazione a firma di un tecnico abilitato…”.
Il comma 14 del citato art. 4 precisa, inoltre, che: “14. Le attestazioni di riconoscimenti già esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge sono rinnovate, su richiesta da presentarsi nei termini di anni 1 dalla data della presente legge”.
A ben vedere, l’art. 4, comma 14, della L.R. n. 24/2005 prevede sì il rinnovo automatico -su semplice richiesta degli aventi titolo- delle attestazioni di riconoscimento della tartufaia controllata o coltivata, ma ciò non equivale a dire che la concessione d’uso o di gestione del bene pubblico possa pacificamente avvenire mediante un affidamento diretto. Quando, infatti, la norma citata, al comma nono, fa riferimento a “coloro che ne hanno titolo” non opera alcuna identificazione tra questi e i possessori o detentori di fatto della tartufaia, lasciando quindi impregiudicata la questione della legittimità dell’affidamento a privati dell’uso o della gestione della tartufaia ricadente sulla proprietà pubblica.
Non sussiste, dunque, nella legge regionale alcun regime derogatorio o di favore o di proroga dell’uso o della gestione privata in concessione del bene pubblico, di guisa che l’affidamento in uso o gestione del bene deve, in effetti, avvenire con le modalità previste per tale affidamento dalla vigente normativa.
VII – L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25.02.2013, n. 5, ebbe a stabilire che
la procedura competitiva è quella che meglio garantisce, in caso di assegnazione di concessioni di beni pubblici -in considerazione della scarsità della risorsa o quando risulti di fatto contingentata- tutti i contrapposti interessi in gioco, fra cui la libertà di iniziativa economica e l'effettiva concorrenza fra gli operatori economici. La mancanza di una procedura competitiva circa l'assegnazione di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico, introduce una barriera di ingresso al mercato, determinando una lesione alla parità di trattamento, al principio di non discriminazione e alla trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei principi euro-unitari di concorrenza e libertà di stabilimento.
È del tutto inconferente che il rapporto giuridico sia definito come comodato d’uso o con altro nomen juris, allorché si tratti della concessione d’uso o di gestione di un bene pubblico a privati.

L'impostazione sopra descritta sembra evidentemente sposare la tesi secondo cui la concessione di beni pubblici, in quanto caratterizzata da un rapporto bilaterale consensuale avente natura contrattuale, integra una fattispecie complessa, la cui costruzione riposa sulla constatazione che all'atto amministrativo di natura concessoria accede una convenzione (o un contratto) in cui sono contenute le clausole disciplinanti il rapporto paritario di diritti e obblighi delle parti.
Alla luce dell’impostazione concettuale che ravvisa nel rapporto tra concedente pubblico e concessionario privato un rapporto di natura contrattuale, si ritiene, in definitiva, che la normativa da applicare in concreto sia rinvenibile nei citati principi euro-unitari, i quali vanno a incidere, in via interpretativa, sulle specifiche norme interne. A seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (TFUE), l'indifferenza alla qualificazione nominale delle fattispecie consente di sottoporre ai principi sull'evidenza pubblica l'affidamento di concessioni su beni pubblici (cfr. Cons. Stato, V, 31.05.2011, n. 3250; Tar Molise I, 26.09.2016 n. 365).
VIII - La modalità di affidamento prescelta, nel caso di specie, esula del tutto dalle previsioni di cui agli artt. 5, comma 1, e 21, comma 4, L.R. Molise 27.05.2005, n. 24 (recante la “Nuova disciplina della raccolta, della coltivazione e della commercializzazione dei tartufi”) che prevedono la costituzione di un Consorzio volontario e la stipulazione di un protocollo di intesa con la Provincia.
Il Consiglio di Stato (Sezione Quinta), con recente decisione n. 2914 del 14.06.2017, proprio per il caso di una tartufaia molisana, nel confermare una sentenza di questo Tar, ha stabilito che
sussiste l’obbligo di gara per la concessione di un bene pubblico suscettibile di produrre utilità economiche, gravando su tutte le Amministrazioni pubbliche in generale l’obbligo di ricorrere a procedure competitive, ogni qualvolta si vada ad assegnare tale bene.
Ciò in quanto l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati va subordinata alla predeterminazione di criteri e modalità cui le Amministrazioni pubbliche si debbono attenere, per evitare ingiustificati privilegi o discriminazioni, nonché per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e la parità di trattamento.

IX - Il riconoscimento di tartufaia controllata, ai sensi del comma 9 dell'art. 4 (recante la “Disciplina della raccolta e riconoscimento delle tartufaie”) della citata L.R. n. 24/2005, è di competenza della Provincia. Detta normativa, infatti, stabilisce che: "Le Amministrazioni Provinciali di Campobasso e Isernia rilasciano, su richiesta di coloro che ne hanno titolo, a seguito parere tecnico della Commissione provinciale di cui all'art. 10, l'attestazione e il riconoscimento di tartufaia controllata o coltivata entro 12 mesi dalla data della richiesta. Alla richiesta di riconoscimento occorre allegare un piano quinquennale di miglioramento e di utilizzazione a firma di un tecnico abilitato". Il progetto, con allegato piano quinquennale, va presentato alla Provincia che lo istruisce e, se del caso, lo autorizza sul presupposto che i richiedenti ne abbiano titolo, ovvero che abbiano la disponibilità dei terreni sui quali la tartufaia deve essere realizzata.
Nel caso di specie, il rinnovo dell’affidamento al Consorzio controinteressato consente a quest’ultimo di esercitare sui suoli comunali in concessione, un'attività di lucro, considerato che il commercio dei tartufi è un settore usualmente remunerativo, di talché va considerato dirimente che -salvo specifici casi giustificati da esigenze superiori nominate dalla legge- non sia legittimo figurare una dazione economica senza causa e per una siffatta concessione sia, comunque, necessaria una procedura di trasparenza ed evidenza pubblica, atta a garantire parità di trattamento di quanti potenzialmente interessati a ottenere la medesima concessione di beni e ad evitare parzialità e preferenze indebite nell’attribuzione.
Per l'affidamento in gestione a terzi di beni pubblici comunque suscettibili di produrre utilità economiche, come nel caso di specie, occorre dunque una gara pubblica o quantomeno una procedura di evidenza pubblica. Su tutte le Amministrazioni pubbliche, in generale, grava l'obbligo di ricorrere a procedure competitive ogni qualvolta si vadano ad assegnare beni pubblici suscettibili di sfruttamento economico. I terreni comunali, pertanto, non possono essere oggetto di un contratto di comodato d'uso né essere suscettibili di sfruttamento economico per la ricerca e la vendita del tartufo, a beneficio esclusivo di un soggetto privato, come il Consorzio controinteressato.
X - Gli impugnati provvedimenti contrastano, peraltro –come correttamente rilevato dai ricorrenti- con l'art. 12 della legge n. 241/1990, ai sensi del quale "La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle Amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi. L'effettiva osservanza dei criteri e delle modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo comma 1".
In definitiva,
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati (e persino ad enti pubblici) va subordinata alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le Amministrazioni si debbono attenere, sì da evitare ingiustificati privilegi o discriminazioni e per garantire la trasparenza dell'azione amministrativa e la parità di trattamento (cfr. Cons. Stato, V, 23.03.2015, n. 1552).
La giurisprudenza amministrativa, a tal riguardo, richiama e condivide i principi espressi dalla Corte di Giustizia (non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza), riconoscendo agli stessi “una portata generale che può adattarsi a ogni fattispecie che sia estranea all'immediato ambito applicativo delle direttive sugli appalti (cfr.: Cons. Stato, V, 23.03.2015, n. 1552). Sulla scorta di tanto, si può affermare che le coordinate qui esposte siano riferibili alle concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, tali cioè da suscitare l'interesse concorrenziale delle imprese e dei privati, fungendo da parametro di interpretazione e, al contempo, di limitazione della vigente normativa in materia di concessione a privati di beni pubblici.
La giurisprudenza amministrativa si è, dunque, perfettamente allineata all'impostazione delle regole dettate dal Trattato (TFUE) e dalla giurisprudenza eurounitaria per le concessioni di beni pubblici, le quali possono essere assentite solo in esito a una procedura comparativa caratterizzata da idonea pubblicità preventiva, ricadendo nel campo di applicazione dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo riconoscimento e proporzionalità. E l'obbligo di espletare una procedura concorsuale sussiste anche nei casi in cui non siano state formulate preventivamente istanze per il conseguimento del bene pubblico, atteso che l'interesse all’utilità economica del rapporto concessorio potrebbe manifestarsi solo in seguito all'avvio di una procedura di evidenza pubblica.
XI – Ne consegue che l'affidamento al Consorzio controinteressato di una vasta porzione di terreno pubblico destinato a tartufaia controllata, avvenuta senza la minima predeterminazione di criteri e modalità cui l'Amministrazione si sarebbe dovuta attenere e in aperta violazione dei detti principi, comporta che devono ritenersi illegittimi e devono, pertanto, essere annullati in parte qua i seguenti impugnati atti e provvedimenti:
   1) la determinazione dirigenziale n. 727 del 02.03.2018, a firma del Direttore del Servizio coordinamento e gestione delle politiche europee per agricoltura, acquacoltura e pesca–attività venatoria, del Dipartimento per il governo del territorio, la mobilità e le risorse naturali della Regione Molise, avente ad oggetto “L.R. 27.05.2005, n. 24 – tartufaia controllata del Consorzio Tuber Macchiagodinese di Macchiagodena – rinnovo attestazione di riconoscimento”;
   2) la nota del Servizio regionale coordinamento agricoltura prot. 19172 del 07.02.2018;
   3) la determinazione dirigenziale n. 2722 del 18.06.2018, a firma del Direttore del Servizio coordinamento e gestione delle politiche europee per l'agricoltura della Regione Molise; tutti, nella parte in cui confermano o rinnovano l'affidamento della conduzione della tartufaia in favore del Consorzio controinteressato.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Astensione obbligatoria di componenti di Commissione di concorso, docente-collega di candidato.
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Concorso – Commissione di concorso – Astensione obbligatoria – Componente di commissione docente-collega di candidato - E’ motivo di astensione.
La particolare vicinanza tra un membro di una Commissione esaminatrice di un pubblico concorso ed un concorrente, che non sia declinabile in termini di generico rapporto di ufficio che non determina ex se una causa di astensione obbligatoria ma che sia qualificata dalla circostanza che entrambi sono docenti che operano nel medesimo dipartimento o area di insegnamento nello stesso istituto scolastico, produce eo ipso un’evidente ipotesi di astensione obbligatoria a mente dell’art. 51 c.p.c. (1).
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   (1) Rileva, ad avviso del Tar, il richiamo più generale all'imparzialità amministrativa, intesa come standard e precetto primario che impone di prevenire situazioni suscettive di ostacolare la serenità e l'equanimità di giudizio in una procedura concorsuale pubblica.
La presenza illegittima ai lavori della commissione del componente versante in situazione di astensione obbligatoria infirma tutte le operazioni concorsuali svolte e impone l’annullamento della procedura (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 25.01.2019 n. 999 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2.1. Ritiene il Collegio fondata la riassunta censura che va quindi accolta.
In punto di fatto va rilevato che parte ricorrente ha prodotto (doc. 9) copia dell’organigramma dell’istituto scolastico “Mo.” di Frosinone, nel quale figurano i nominativi sia del prof. Fa.Sc., componente della commissione dell’impugnato concorso, che del controinteressato Fa.Ro., nonché una comunicazione ricevuta via e-mail il 10.10.2016, nella quale si afferma candidamente che dal citato organigramma “si evince che il commissario Sc. e il candidato Ro. nell’anno del concorso lavoravano nello stesso istituto come colleghi nel medesimo dipartimento o area”.
Consta inoltre alla produzione di parte ricorrente anche il verbale della commissione n. 4 del 26.07.2016, dal quale emerge che il prof. Sc.Fa. era componente della commissione e presente nella predetta riunione.
2.2. Orbene, la delineata situazione di vicinitas ovvero di colleganza, a parere della Sezione determina una lampante causa di astensione del membro commissario, in applicazione dell’art. 51 c.p.c..
Va segnalato in proposito che l’orientamento della sezione è nel senso di ritenere applicabile l’art. 51 del codice di procedura civile alla materia dei pubblici concorsi, essendosi precisato al riguardo che “
Le cause di incompatibilità e di astensione del giudice, codificate dall'art. 51 c.p.c., sono estensibili ed applicabili, in omaggio al principio costituzionale di imparzialità, ad ogni campo dell'azione amministrativa, e segnatamente, quando manchi una disciplina specifica propria, alla materia dei concorsi pubblici e alle relative commissioni, dato che nella composizione di queste ultime particolarmente rilevano esigenze di trasparenza, obiettività e terzietà di giudizio.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III, 14/04/2008, n. 3122, in terminis anche TAR Sardegna, Sez. I, 05/06/2013, n. 459).
Appare pertanto al Collegio evidente che la particolare vicinanza tra il commissario Sc. e il concorrente Ro., non declinabile in termini di generico rapporto di ufficio, che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato non determina ex se una causa di astensione obbligatoria (Consiglio di Stato Sez. VI, 27/04/2015, n. 2119) ma qualificata dalla grave circostanza che entrambi i predetti docenti operavano nel medesimo dipartimento o area di insegnamento nell’ambito dello stesso istituto scolastico (Istituto “Mo.” di Frosinone), produce eo ipso un’evidente ipotesi di astensione obbligatoria a mente dell’art. 51 c.p.c. nonché in ossequio al generale principio di imparzialità, rilevando nella specie il richiamo più generale all'imparzialità amministrativa, intesa come standard e come precetto primario che impone di prevenire situazioni suscettive di ostacolare la serenità e l'equanimità di giudizio in una procedura concorsuale pubblica.
La presenza illegittima ai lavori della commissione del candidato versante in situazione di astensione obbligatoria infirma tutte le operazioni concorsuali svolte e impone l’annullamento della procedura impugnata, ossia il concorso per titoli ed esami finalizzato al reclutamento di personale docente dell’organico dell’autonomia della scuola indetto con DM n. 19/2016 limitatamente alla classe concorsuale B–10.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: La predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge ad elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico.
La mancata predeterminazione dei criteri nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994. Invero, “Nei concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove
”.
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I criteri di valutazione delle prove concorsuali non devono essere espressi in termini generici ed astratti, afferenti a caratteristiche dell’elaborato, ma essere espressi in modo da consentire all’organo valutatore e successivamente al giudice, di apprezzare il quantum di ciascuna caratteristica valutativa nella singola prova e quanto la stessa abbia pesato nell’attribuzione di un determinato punteggio.
In altri termini occorre che i criteri di valutazione si traducano anche in criteri di attribuzione del punteggio ovverosia in criteri motivazionali.

In un caso nel quale i criteri di giudizio erano stati formulati in maniera generica, con riferimento a caratteristiche dell’elaborato, la Sezione ha invece valutato inidonea siffatta opera di generale predisposizione di parametri guida, avendo la commissione “predisposto una serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e generali, che non sono accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e concorso nella formazione del giudizio finale di ogni candidato”
.
Va al riguardo richiamato anche il recente precedente della Sezione secondo il quale
i “Criteri di valutazione [che] ad avviso della Sezione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove.”.
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3. Con il quarto motivo (sub D) i ricorrenti lamentano che i criteri di valutazione delle prove siano stati elaborati e predisposti successivamente alle già effettuate prove, infrangendosi il principio secondo cui i criteri di valutazione debbono essere allestiti prima dell’espletamento delle prove stesse.
In punto di fatto osserva il Collegio come debba darsi per provata ai sensi dell’art, 64 c.p.a., la dedotta circostanza, non avendo il Ministero contraddetto alcunché al riguardo, né ottemperato alla istruttoria disposta con Ordinanza collegiale del 24.08.2018 n. 9035, con la quale si ordinava alla P.A. di depositare copia dei verbali delle prove ed in particolare di quelli relativi alla predisposizione dei criteri di valutazione delle stesse.
La circostanza dedotta risulta quindi non contestata, per cui va posta a fondamento della decisione, ed inoltre va ritenuta provata a mente dell’art. 64, co. 4 c.p.a., a mente del quale il giudice “può trarre argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio”, circostanza, peraltro, della quale il Collegio formulava espresso avvertimento nell’ordinanza istruttoria richiamata.
3.1. Orbene, in punto di diritto ritiene il Collegio fondata la censura.
Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo il principio secondo cui la commissione di valutazione degli elaborati di un concorso ovvero delle qualità di un candidato debba predeterminare nella prima riunione i criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio delle prove e che ciò debba avvenire prima che siano conosciute le generalità di concorrenti, onde scongiurare il rischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su misura in modo da poter favorire taluno dei competitors.
Stabilisce invero l’art 12 del D.P.R n. 487/1994 che “Le commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
Sul punto la Sezione ha di recente ribadito che “3.2.
La predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge pertanto ad elemento essenziale nello svolgimento di un concorso pubblico. La mancata predeterminazione dei criteri nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr., Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “Nei concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R. 09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 03.10.2018 n. 9714).
4. Parimenti fondato e meritevole di accoglimento è il quinto motivo (sub. E), secondo il quale in forza di una nota ministeriale “i criteri sono quelli consueti e correlati alla pertinenza, alla correttezza linguistica, alla completezza e alla originalità” ma siffatti generali criteri avrebbero potuto essere integrati dalla Commissione (oltre che pubblicizzati). Precetto che non è stato seguito, non avendo la commissione proceduto ad alcuna opera di integrazione.
4.1. La fondatezza della doglianza riviene dalla recente giurisprudenza della Sezione, secondo cui i criteri di valutazione delle prove concorsuali non devono essere espressi in termini generici ed astratti, afferenti a caratteristiche dell’elaborato, ma essere espressi in modo da consentire all’organo valutatore e successivamente al giudice, di apprezzare il quantum di ciascuna caratteristica valutativa nella singola prova e quanto la stessa abbia pesato nell’attribuzione di un determinato punteggio.
In altri termini occorre che i criteri di valutazione si traducano anche in criteri di attribuzione del punteggio ovverosia in criteri motivazionali.
In un caso nel quale i criteri di giudizio erano stati formulati in maniera generica, con riferimento a caratteristiche dell’elaborato, la Sezione ha invece valutato inidonea siffatta opera di generale predisposizione di parametri guida, avendo la commissione “predisposto una serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e generali, che non sono accompagnati dalla necessaria fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e concorso nella formazione del giudizio finale di ogni candidato
.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 03.10.2018 n. 9714).
Va al riguardo richiamato anche il recente precedente della Sezione secondo il quale i “Criteri di valutazione [che] ad avviso della Sezione devono essere formulati non in termini generici, generali o astratti riferibili a determinate qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto quelle qualità concorrano a determinare il punteggio stabilito nel bando per le singole prove.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426).
In definitiva anche i motivi quarto e quinto si prospettano fondati e vanno conseguitemene accolti (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 25.01.2019 n. 999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Disciplina regionale lombarda sulla conferenza di servizi e profili di legittimità costituzionale.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia n. 36 del 2017 che modifica l’art. 13 della legge della Regione Lombardia 01.02.2012, n. 1, introducendo il comma 1-quater, secondo cui «Qualora la determinazione da assumere in conferenza di servizi presupponga o implichi anche l’adozione di un provvedimento di competenza di un organo di indirizzo politico, tale provvedimento è acquisito prima della convocazione della conferenza di servizi o successivamente alla determinazione motivata di conclusione della stessa conferenza. In caso di acquisizione successiva del provvedimento di cui al precedente periodo, l’efficacia della determinazione di conclusione della conferenza di servizi è sospesa nelle more della formalizzazione dello stesso provvedimento».
Da questa declaratoria di illegittimità costituzionale deriva quella dell’art. 10, comma 1, lettera d), numero 9), della legge reg. Lombardia n. 36 del 2017 che estende il campo di applicazione dell’impugnato art. 2 al caso di conferenza di servizi nell’ambito di una procedura di valutazione di impatto ambientale.
Secondo la Corte, la norma regionale impugnata non assicura «livelli ulteriori di tutela», e anzi chiaramente sacrifica le finalità di semplificazione e velocità alla cui protezione è orientata la disciplina statale; essa configura inoltre un modello di conferenza di servizi del tutto squilibrato e contraddittorio; squilibrato, perché assegna una netta prevalenza alla valutazione degli organi di indirizzo politico (senza precisare inoltre che cosa avvenga in caso di coinvolgimento di più organi politici); contraddittorio, perché, sebbene la decisione da assumere in conferenza presupponga o implichi un provvedimento di questi organi, la loro valutazione è separata da quella degli altri soggetti interessati; sicché si deve parimenti escludere che il modello così prefigurato costituisca sviluppo coerente e armonioso del quadro definito dalle norme statali interposte
(Corte Costituzionale, sentenza 25.01.2019 n. 9 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 36 del 2017, promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., è fondata.
2.1.– L’art. 2, comma 1, lettera b), –inserendo il comma 1-quater nell’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 1 del 2012– prevede che, qualora la determinazione da assumere in conferenza di servizi «presupponga o implichi» l’adozione di un provvedimento di competenza dell’organo di indirizzo politico, tale provvedimento è scorporato dal modulo procedimentale della conferenza di servizi ed è acquisito prima o dopo la determinazione motivata di conclusione della stessa conferenza, con la conseguenza che in questo secondo caso (acquisizione successiva) l’efficacia della determinazione sarà sospesa fino alla formalizzazione del provvedimento. La norma è impugnata, tra l’altro, per violazione della competenza legislativa statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.).
Si tratta dunque di accertare, innanzitutto, se questi profili della disciplina della conferenza di servizi rientrino nella indicata competenza statale e, in caso di esito positivo di questa prima verifica, se il legislatore lombardo abbia o no previsto un livello ulteriore di tutela rispetto a quanto stabilito dalla normativa statale. Al riguardo rileva quanto disposto dall’art. 29 della legge n. 241 del 1990, il quale, dopo aver genericamente ricondotto ai «livelli essenziali delle prestazioni» le disposizioni della stessa legge concernenti, tra l’altro, la conferenza di servizi (comma 2-ter), prevede che «[l]e regioni e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui ai commi 2-bis e 2-ter, ma possono prevedere livelli ulteriori di tutela» (comma 2-quater).
2.2.– In relazione alla conferenza di servizi, questa Corte –dopo aver precisato che essa costituisce «un modulo procedimentale-organizzativo suscettibile di produrre un’accelerazione dei tempi procedurali e, nel contempo, un esame congiunto degli interessi pubblici coinvolti»– ha affermato che, se «da un lato, risulta agevole desumere come esista un’esigenza unitaria che legittima l’intervento del legislatore statale anche in ordine alla disciplina di procedimenti complessi estranei alle sfere di competenza esclusiva statale affidati alla conferenza di servizi, in vista dell’obiettivo della accelerazione e semplificazione dell’azione amministrativa; dall’altro è ugualmente agevole escludere che l’intera disciplina della conferenza di servizi, e dunque anche la disciplina del superamento del dissenso all’interno di essa, sia riconducibile ad una materia di competenza statale esclusiva, tenuto conto della varietà dei settori coinvolti, molti dei quali sono innegabilmente relativi anche a competenze regionali (es.: governo del territorio, tutela della salute, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali)» (sentenza n. 179 del 2012).
Nella pronuncia citata, questa Corte ha escluso che la norma impugnata in quel giudizio determinasse «uno standard strutturale o qualitativo di prestazioni determinate, attinenti a questo o a quel diritto civile o sociale, in linea con il secondo comma, lettera m), dell’art. 117 Cost.», e ha precisato come essa assolvesse piuttosto «al ben diverso fine di regolare l’attività amministrativa, in settori vastissimi ed indeterminati, molti dei quali di competenza regionale, (quali il governo del territorio, la tutela della salute, l’ordinamento degli uffici regionali, l’artigianato, il turismo, il commercio), in modo da soddisfare l’esigenza, diffusa nell’intero territorio nazionale, di uno svolgimento della stessa il più possibile semplice e celere».
In continuità con tale impostazione, questa Corte ha ulteriormente affermato che non si può escludere che «singoli profili della disciplina della conferenza di servizi siano riconducibili alla competenza legislativa statale in materia di determinazione dei livelli essenziali» (sentenza n. 246 del 2018), coerentemente con quanto disposto dal citato art. 29, comma 2-quater, della legge n. 241 del 1990.
Nell’odierno giudizio si tratta dunque di stabilire se la norma regionale lombarda interferisca con gli anzidetti «singoli profili della disciplina della conferenza di servizi» di competenza del legislatore statale.
Gli artt. 14-ter e 14-quater della legge n. 241 del 1990, indicati come norme interposte dal ricorrente, stabiliscono, rispettivamente, che «[a]ll’esito dell’ultima riunione, e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della conferenza, con gli effetti di cui all’articolo 14-quater, sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi rappresentanti», considerandosi «acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero, pur partecipandovi, non abbia espresso ai sensi del comma 3 la propria posizione, ovvero abbia espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza» (art. 14-ter, comma 7), e che «[l]a determinazione motivata di conclusione della conferenza, adottata dall’amministrazione procedente all’esito della stessa, sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati» (art. 14-quater, comma 1).
Inoltre, «[i]n caso di approvazione unanime, la determinazione di cui al comma 1 è immediatamente efficace», mentre «[i]n caso di approvazione sulla base delle posizioni prevalenti, l’efficacia della determinazione è sospesa ove siano stati espressi dissensi qualificati ai sensi dell’articolo 14-quinquies e per il periodo utile all’esperimento dei rimedi ivi previsti» (art. 14-quater, comma 3).
Le disposizioni statali citate stabiliscono, dunque, le modalità di formazione della determinazione di conclusione della conferenza, disciplinando, tra l’altro, i casi in cui deve considerarsi acquisito l’assenso senza condizioni dei partecipanti, la portata della determinazione stessa (sostitutiva di tutti gli atti di assenso comunque denominati), i suoi effetti (immediati) e le ipotesi di sospensione dell’efficacia.
Questo quadro normativo è il frutto di una lunga e complessa evoluzione legislativa dell’istituto della conferenza di servizi, che ha visto oscillare il legislatore tra un modello a struttura unitaria e uno a struttura dicotomica del suo atto conclusivo. Superando le incertezze che talune formule legislative avevano ingenerato, il testo oggi vigente è chiaro nell’opzione a favore di un modello a struttura unitaria, il quale –nella prospettiva seguita dal legislatore di riforma– bilancia l’esigenza di semplificazione (che trova concreta realizzazione nel principio dell’assenso implicito e nella previsione dell’immediata efficacia della determinazione in caso di approvazione unanime), quella di salvaguardia delle competenze delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati (che è assicurata attraverso la possibilità loro offerta di partecipare alla conferenza e la previsione dei rimedi per le amministrazioni dissenzienti portatrici di interessi sensibili ex art. 14-quinquies della legge n. 241 del 1990), l’interesse del privato proponente o istante, che può essere invitato alla conferenza (art. 14-ter, comma 6, della legge n. 241 del 1990), e il controinteresse dei privati che si oppongono alla conclusione positiva del procedimento, i quali anche possono essere invitati alla conferenza (art. 14-ter, comma 6, della legge n. 241 del 1990).
La disciplina statale che emerge dall’insieme delle disposizioni indicate, nella parte in cui prevede che la determinazione conclusiva della conferenza sostituisca a ogni effetto tutti gli atti di assenso e che sia immediatamente efficace, salvi i casi di dissensi qualificati, definisce «uno standard strutturale [e] qualitativo di prestazioni determinate […] in linea con il secondo comma, lettera m), dell’art. 117 Cost.» (secondo la formula utilizzata nella citata sentenza n. 179 del 2012). Le norme statali sopra richiamate infatti, per un verso, definiscono la “struttura” essenziale della determinazione conclusiva della conferenza di servizi e per l’altro verso, imponendo l’esame contestuale dei diversi punti di vista, investono la “qualità” delle valutazioni effettuate in conferenza che si caratterizzano così, in quel contesto, come equiordinate.
2.3.– La riconducibilità delle norme statali interposte ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. non comporta di per sé l’automatica illegittimità costituzionale delle norme regionali che differiscano da esse, tenuto conto della possibilità per le Regioni di discostarsi dallo standard statale per prevedere «livelli ulteriori di tutela» (art. 29, comma 2-quater, legge 241 del 1990). Si tratta, allora, di verificare se le disposizioni impugnate rechino un livello di maggiore tutela o costituiscano almeno uno sviluppo coerente della tutela offerta da quelle statali.
Nel caso di specie, tuttavia, è agevole constatare che il legislatore regionale –escludendo dalla conferenza la valutazione dell’organo politico inscindibilmente legata alla determinazione da assumere, in quanto quest’ultima “presuppone o implica” la prima– si pone in una logica che, lungi dal potenziare o sviluppare il disegno di semplificazione e accelerazione definito dal legislatore statale, finisce con il vanificare il senso stesso della conferenza e l’efficacia della sua determinazione conclusiva.
In base alla previsione regionale contestata, infatti, la decisione dell’organo di indirizzo politico mantiene la sua autonomia e può arrivare a stravolgere, dall’esterno, l’esito della conferenza, giacché le valutazioni espresse da detto organo (siano esse assunte prima o dopo lo svolgimento della conferenza) prevalgono su quelle degli altri partecipanti. Così disponendo, il legislatore lombardo assegna alla decisione dell’organo di indirizzo politico (estrapolata dalla conferenza di servizi) un valore diverso e maggiore rispetto a quello delle valutazioni espresse dalle altre amministrazioni competenti.
Inoltre, la norma regionale –prevedendo che l’efficacia della determinazione di conclusione della conferenza sia sospesa nelle more della formalizzazione del provvedimento dell’organo politico– tradisce anche sotto un diverso profilo la ratio dell’istituto, eludendo l’esigenza di speditezza e contestualità cui risponde la previsione che non solo impone a tutte le amministrazioni interessate di esprimere il proprio dissenso in conferenza, ma assegna alla determinazione ivi assunta efficacia sostitutiva, a ogni effetto, di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni coinvolte.
Come questa Corte ha recentemente osservato –occupandosi della previsione contenuta in una legge regionale che disciplinava le forme della partecipazione pubblica per la realizzazione di opere, progetti o interventi di particolare rilevanza– la facoltà per la Regione di sospendere l’approvazione o l’attuazione di atti di sua competenza connessi ad un determinato intervento pubblico concreta il «rischio di abuso dell’istituto, consentendo, tramite l’astensione dall’adozione dell’atto di propria competenza, di bloccare la realizzazione dell’opera per un tempo indefinito», e ciò «senza considerare che la sospensione in sé è incompatibile con la logica stessa della partecipazione regionale che, quale che sia l’atto in cui sostanzia, deve rispettare il canone della leale collaborazione, che impedisce di opporre preclusioni pregiudiziali, sia pure temporanee» (sentenza n. 235 del 2018).
In conclusione, la norma regionale impugnata non assicura «livelli ulteriori di tutela», e anzi chiaramente sacrifica le finalità di semplificazione e velocità alla cui protezione è orientata la disciplina statale. Essa configura inoltre un modello di conferenza di servizi del tutto squilibrato e contraddittorio: squilibrato, perché assegna una netta prevalenza alla valutazione degli organi di indirizzo politico (senza precisare inoltre che cosa avvenga in caso di coinvolgimento di più organi politici); contraddittorio, perché, sebbene la decisione da assumere in conferenza presupponga o implichi un provvedimento di questi organi, la loro valutazione è separata da quella degli altri soggetti interessati. Sicché si deve parimenti escludere che il modello così prefigurato costituisca sviluppo coerente e armonioso del quadro definito dalle norme statali interposte.
2.4.– Occorre esaminare ancora l’argomento della difesa regionale secondo cui anche talune leggi statali prevedono la successiva «ratifica» da parte dell’organo rappresentativo di un ente territoriale degli atti di natura tecnica acquisiti in sede di conferenza di servizi, e queste disposizioni non sono state modificate dal decreto legislativo 30.06.2016, n. 127 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124), né dal decreto legislativo 16.06.2017, n. 104 (Attuazione della direttiva 2014/52/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, ai sensi degli articoli 1 e 14 della legge 09.07.2015, n. 114).
La Regione cita in particolare due disposizioni: l’art. 8 del d.P.R. 07.09.2010, n. 160 (Regolamento per la semplificazione ed il riordino della disciplina sullo sportello unico per le attività produttive, ai sensi dell’articolo 38, comma 3, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133), il quale, nel caso di progetti presentati allo sportello unico per le attività produttive che risultino in contrasto con il piano del governo del territorio, stabilisce che, «[q]ualora l’esito della conferenza di servizi comporti la variazione dello strumento urbanistico, ove sussista l’assenso della Regione espresso in quella sede, il verbale è trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente del Consiglio comunale, ove esistente, che lo sottopone alla votazione del Consiglio nella prima seduta utile»; e l’art. 34, comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale dispone che, «[o]ve l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l’adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza».
A ben vedere, tuttavia, nessuna delle due fattispecie risulta pertinente nel caso in esame.
2.4.1.– Quanto all’art. 8 del d.P.R. n. 160 del 2010, l’analogia rispetto alla questione in esame risiederebbe nel fatto che anche in quel caso, qualora l’esito della conferenza comporti la variazione dello strumento urbanistico, sarebbe necessaria una fase ulteriore, affidata all’organo politico, consistente nella deliberazione di variante urbanistica da parte del Consiglio comunale.
La diversità della fattispecie rispetto a quella oggetto delle previsioni regionali contestate nel presente giudizio è evidente: la circostanza che l’esito della conferenza prevista all’art. 8 del d.P.R. 160 del 2010 richieda un successivo procedimento di variante urbanistica, nel quale interverrà la relativa determinazione dell’organo politico, non altera la struttura della conferenza, alla quale l’organo politico nondimeno partecipa. Semplicemente la determinazione finale della conferenza assume anche la valenza di atto di iniziativa per l’attivazione del relativo distinto procedimento di variante.
Per questa ragione, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che, rispetto a tale procedimento, «l’atto conclusivo del procedimento che si articola nella Conferenza non ha carattere decisorio ma costituisce una proposta di variante dello strumento urbanistico (espressamente l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998; implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 160/2010)» (Cons. Stato, sezione quarta, sentenza 20.10.2016, n. 4380; in senso conforme, limitatamente alle più recenti, TAR Lombardia-Milano, sezione seconda, sentenza 28.03.2017, n. 730; TAR Campania-Napoli, sezione ottava, sentenza 24.03.2016, n. 1579).
Se resta così ferma la competenza «attribuita all’organo consiliare del Comune –al quale compete una valutazione ulteriore, necessaria a giustificare sul piano urbanistico la deroga, per il caso singolo, alle regole poste dallo strumento vigente– […] questo non esclude la necessità che ancor prima la conferenza di servizi si esprima in termini favorevoli alla variazione della disciplina pianificatoria» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 30.03.2018, n. 2019).
Così considerata, dunque, la deliberazione del Consiglio comunale non costituisce affatto una fase ulteriore del medesimo procedimento ma inerisce, come detto, a un procedimento distinto, il quale del resto non elide la necessità della partecipazione dello stesso organo politico alla previa conferenza di servizi.
2.4.2.– Ancora meno pertinente è il richiamo dell’art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 267 del 2000, in tema di accordi di programma.
In questo caso, infatti, non solo la fattispecie disciplinata nella disposizione invocata riguarda ancora una volta l’attivazione di un distinto procedimento amministrativo diretto alla variazione dello strumento urbanistico, secondo lo schema visto appena sopra, ma è, ancor prima, lo stesso accostamento del modello della conferenza di servizi a quello dell’accordo di programma a risultare in radice improprio, trattandosi di istituti affatto diversi.
Sicché non è possibile desumere dalla disciplina dell’uno conseguenze relativamente all’altro, come ha chiarito la giurisprudenza amministrativa con riferimento alla disposizione contenuta all’art. 27, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) –il cui testo è poi confluito nell’art. 34 del d.lgs. n. 267 del 2000– sottolineando che la disposizione «si riferisce all’accordo di programma […], il quale consiste nel consenso unanime delle Amministrazioni statali e locali e degli altri soggetti pubblici interessati, ma non può estendersi alla differente ipotesi della Conferenza dei servizi» (Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 28.06.2004, n. 4780).
2.5.– Per le ragioni esposte deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 36 del 2017 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., con assorbimento di ogni altro profilo di censura.
3.– Da questa declaratoria di illegittimità costituzionale deriva quella dell’art. 10, comma 1, lettera d), numero 9), della legge reg. Lombardia n. 36 del 2017, anch’esso impugnato, che –come già detto– si limita a estendere il campo di applicazione dell’impugnato art. 2 al caso di conferenza di servizi nell’ambito di una procedura di valutazione di impatto ambientale.
Di conseguenza –e restando anche in questo caso assorbiti gli altri profili di censura prospettati, e in particolare quello sollevato in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.– deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 1, lettera d), numero 9), della legge reg. Lombardia n. 36 del 2017, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1, lettera b), e 10, comma 1, lettera d), numero 9, della legge della Regione Lombardia 12.12.2017, n. 36 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento regionale ai decreti legislativi n. 126/2016, n. 127/2016, n. 222/2016 e n. 104/2017, relative alla disciplina della conferenza dei servizi, ai regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti e a ulteriori misure di razionalizzazione).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti costituiti da materiale inerte - Trasporto, deposito e abbandono in modo incontrollato sul terreno di terzi - Disciplina normativa dei rifiuti ed emergenziale - Criteri di applicazione - Art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, integra il reato di cui all'art. 6, comma 1, lett. d), della legge n. 210 del 2008, la gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione, nonché il compimento di atti idonei diretti modo non equivoco quali il trasporto a mezzo autocarro, l'abbandono in modo incontrollato e il deposito dei suddetti rifiuti sul terreno di terzi.
...
RIFIUTI - Emergenza rifiuti - Questione di legittimità costituzionale - Disciplina eccezionale e temporanea - Principio della riserva di legge - Art. 6, D.L. n. 172/2008 - Giurisprudenza.
In tema di "emergenza" rifiuti, deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, D.L. 06.11.2008, n. 172 per violazione dell'art. 3 Cost., poiché non lede i principi di uguaglianza e ragionevolezza la scelta normativa del legislatore di differenziare, con la previsione di una disciplina eccezionale e temporanea, l'applicazione della norma penale, apparendo oggettivamente più grave la violazione della disciplina normativa dei rifiuti nelle zone ove vige lo stato di emergenza rispetto alle altre zone del territorio nazionale dove l'emergenza non sussista o sia cessata.
Parimenti manifestamente infondato è l'ulteriore profilo di violazione del principio della riserva di legge, ex. art. 25 Cost., in materia penale poiché la durata ed estensione dello stato di emergenza costituisce mero fatto presupposto da cui dipende l'applicazione della legge penale di cui all'art. 6 del citato decreto e non è elemento costitutivo del reato.

...
RIFIUTI - Stato di emergenza e adozione di norme derogatorie nel settore dei rifiuti - Criteri e presupposti.
Lo stato di emergenza costituisce il necessario presupposto di fatto per l'adozione di norme derogatorie alle ordinarie disposizioni legislative che giustificano un trattamento differenziato e non è elemento normativo della fattispecie che ne delimita l'ambito di applicazione.
Ed invero, la fattispecie penale è prevista dall'art. 6 del d.l. n. 172 del 2008, conv. dalla legge n. 210 del 2018 che punisce, quanto alla condotta tipica, le condotte ivi descritte che riprendono in larga misura quelle condotte già ricomprese nell'art. 256 del d.lgs n. 152 de 2006, condotte che se poste in essere nei territori dove vige la dichiarazione dello stato di emergenza nel settore dei rifiuti, sono punite più severamente.
La dichiarazione dello stato di emergenza, a sua volta, trova i suoi presupposti nella legge n. 252 del 1992 che attribuisce al DPCM la competenza a determinare la durata del medesimo e l'ambito spaziale in vige, cosicché l'atto diviene elemento integrativo della fattispecie penale costituendone un presupposto di fatto dal quale dipende l'applicazione dell'art. 6 del d.l. 172 del 2008
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.01.2019 n. 3582 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Inammissibilità dell’opposizione di terzo se l’opponente è divenuto controinteressato solo dopo la sentenza alla quale si oppone.
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Processo amministrativo – Opposizione di terzo – Controinteressato sopravvenuto – Posizione di controinteressato per effetto della sentenza alla quale ci si oppone – Inammissibilità.
E’ inammissibile l’opposizione di terzo proposta da una società che non è stata parte del giudizio culminato con sentenza che ha annullato l’esclusione dalla gara di altra concorrente con conseguente acquisizione, per effetto di tale sentenza, della veste di controinteressati (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’opposizione di terzo nel processo amministrativo, disciplinata dagli artt. 108 e 109 c.p.a., rappresenta un mezzo straordinario di impugnazione, quando viene proposta, come nel caso di specie, avverso le sentenze (del Tar o del Consiglio di Stato) passate in giudicato.
Presupposti di ammissibilità di tale rimedio impugnatorio sono: 1) che l’opponente non sia stato evocato nel giudizio opposto; 2) che l’opponente sia titolare di una posizione autonoma o incompatibile con quella affermata nella sentenza opposta o sia litisconsorte necessario pretermesso; 3) che la sentenza opposta pregiudichi i diritti o gli interessi legittimi dell’opponente.
Premesso che nel giudizio proposto avverso l’esclusione da una gara non sono configurabili controinteressati, il Tar ricorda che l’opposizione di terzo può essere proposta dai controinteressati “sopravvenuti e occulti”, individuandoli in coloro che abbiano conseguito un titolo abilitativo, un beneficio o uno status derivante da un provvedimento ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato, ovvero in coloro che siano sostanzialmente controinteressati, ma non siano facilmente individuabili dalla lettura dell’atto impugnato.
Proprio in tema di appalti è stata riconosciuta la legittimazione a proporre l’opposizione di terzo, nei confronti di una sentenza resa tra altri soggetti, ai controinteressati pretermessi perché sopravvenuti: il riferimento è ai beneficiari di un atto consequenziale (l’aggiudicazione), quando una sentenza abbia annullato un provvedimento presupposto (id est, il bando di gara) all’esito di un giudizio cui sono rimasti estranei.
Nel caso di specie, però, la situazione è sensibilmente differente, perché l’opponente non è beneficiario di alcun atto consequenziale al provvedimento presupposto annullato, ma, in realtà, vuole contrastare la sentenza del Tar che ha ammesso la controinteressata alla procedura di gara, annullando sul punto il provvedimento di esclusione della stazione appaltante.
L’opponente, quindi, sarebbe divenuta controinteressata, in via sopravvenuta, solo dopo la sentenza del Tar che, annullando il citato provvedimento di esclusione di altra concorrente, ha disposto l’ammissione della stessa alla gara, poi divenuta aggiudicataria in via provvisoria (TAR Campania-Napoli, sez. I, sentenza 24.01.2019 n. 402 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia le conseguenze della mancata indicazione nell'offerta dei costi della manodopera e degli oneri di sicurezza.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi manodopera e oneri sicurezza – Mancata indicazione – Conseguenza – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Alla Corte di giustizia la questione se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente i princìpi di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi) ostino a una disciplina nazionale (quale quella di cui agli artt. 83, comma 9, 95, comma 10 e 97, comma 5 del ‘Codice dei contratti pubblici’ italiano) in base alla quale la mancata indicazione da parte di un concorrente a una pubblica gara di appalto dei costi della manodopera e degli oneri per la sicurezza dei lavoratori comporta comunque l’esclusione dalla gara senza che il concorrente stesso possa essere ammesso in un secondo momento al beneficio del c.d. ‘soccorso istruttorio’, pur nell’ipotesi in cui la sussistenza di tale obbligo dichiarativo derivi da disposizioni sufficientemente chiare e conoscibili e indipendentemente dal fatto che il bando di gara non richiami in modo espresso il richiamato obbligo legale di puntuale indicazione (1).
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   (1) Analoghe rimessioni sono state disposte con ordd. 24.01.2019, n. 2 e n. 3.
Ha ricordato l’Alto consesso che sul punto si sono registrati contrasti giurisprudenziali, sia in primo che in secondo grado.
In appello un primo orientamento interpretativo, sul presupposto per cui il principio enunciato in quella sede fosse limitato alle gare bandite nel vigore del precedente d.lgs. n. 163 del 2006, ha ritenuto che, con l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, la mancata indicazione separata dei costi per la sicurezza aziendale non avrebbe più potuto essere sanata attraverso il soccorso istruttorio, perché la norma avrebbe determinato, al contrario, un automatismo espulsivo incondizionato a prescindere dalla assenza di uno specifico obbligo dichiarativo nella lex specialis.
Per la V Sezione, l’art. 95, comma 10, del Codice dei contratti avrebbe dunque chiarito l’obbligo per i concorrenti di indicare nell’offerta economica i c.d. costi di sicurezza aziendali ed avrebbe superato le incertezze interpretative, in ordine all’esistenza e all’ampiezza dell’obbligo dichiarativo, definite dall’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 3 e 9 del 2015, ritenendo che, con tale escamotage, si finirebbe per consentire “… in pratica ad un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex post il contenuto della propria offerta economica” (sez. V 07.02.2017, n. 815, e nello stesso senso idem 28.02.2018 n. 1228, 12.03.2018, n. 1228, 25.09.2018, n. 653).
In particolare nella ricordata sentenza n. 815 cit. la Sezione V aveva rilevato che:
   - in quei casi l’obbligo di separata indicazione degli oneri per la sicurezza aziendale era stato imposto, a pena di esclusione, ai partecipanti alla procedura di gara dalla lex specialis della procedura, mediante un’espressa previsione contenuta nel disciplinare o nella lettera di invito;
   - l’obbligo emergerebbe comunque con adeguata chiarezza dalla litera legis in quel caso disattesa dalla società appellata;
   - l’appellante avrebbe, poi, ancorato la determinazione del quantum di tali oneri ad un parametro incerto e fluttuante quale l’“un per cento del margine dell’offerta”, per cui il livello delle spese destinate alla tutela della salute e della sicurezza sul lavoro avrebbero potuto essere compromesse in caso in cui “...ricadute economiche della commessa presentino un andamento negativo”;
   - l’obbligo di indicazione sarebbe chiaramente sancito dalla legge e la sua violazione determinerebbe conseguenze escludenti a prescindere dal dato che l’esclusione non sia stata testualmente enunciata dagli articoli 83 e 95 del Codice in quanto precetto posto a “salvaguardia dei diritti dei lavoratori cui presiedono le previsioni di legge, che impongono di approntare misure e risorse congrue per preservare la loro sicurezza e la loro salute
”.
Il secondo orientamento interpretativo ha affermato invece che, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici e nonostante l’espressa previsione di un puntuale obbligo dichiarativo ex art. 95, comma 10, la mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza aziendale non determinerebbe di per sé l’automatismo espulsivo, almeno nei casi in cui tale obbligo dichiarativo non sia espressamente richiamato nella lex specialis, a meno che si contesti al ricorrente di aver presentato un’offerta economica indeterminata o incongrua, perché formulata senza considerare i costi derivanti dal doveroso adempimento degli oneri di sicurezza (come affermato dalla sezione III del Cons. Stato nella sentenza 27.04.2018, n. 2554).
In quella vicenda, la III Sezione, pur nella consapevolezza dell’esistenza di orientamenti non univoci, ha riformato la sentenza in accoglimento dell’appello proposto, evidenziando che l’obbligo codificato nell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 non comporta l’automatica esclusione dell’impresa concorrente che, pur senza evidenziare separatamente nell’offerta gli oneri per la sicurezza aziendali, li abbia comunque considerati nel prezzo complessivo dell’offerta.
In tale direzione sarebbero rilevanti le considerazioni per cui:
   - l’isolato esame dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 non sarebbe in sé decisivo, nemmeno sulla base dei principi contenuti nella sentenza n. 9 del 25.02.2014 dell’Adunanza Plenaria, per affermare il suo carattere imperativo, a pena di esclusione, e l’effetto ipso iure espulsivo della mancata formale evidenziazione di tali costi nel contesto dell’offerta economica;
   - l’art. 95, comma 10, deve essere letto insieme con l’art. 97, comma 5, lett. c), dello stesso Codice, il quale prevede al contrario –e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della nuova disciplina europea– che la stazione appaltante escluda il concorrente solo laddove, in sede di chiarimenti richiesti, detti oneri risultino incongrui;
   - tale soluzione non comporterebbe poi alcuna violazione del disposto dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 cit., in quanto il consentire all’impresa di specificare la consistenza degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti) nel prezzo complessivo dell’offerta non si tradurrebbe in alcuna manipolazione o alterazione in corso di gara dell’offerta stessa contrastante con le regole di trasparenza e parità di trattamento tra le concorrenti;
   - in base al canone interpretativo di cui al brocardo ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit, l’aggiunta di un diverso ed ulteriore adempimento rispetto a quelli tipizzati finirebbe per far dire alla legge una cosa che legge non dice e che, si presume, non voleva dire;
   - se il primo indirizzo privilegia il principio di par condicio competitorum, il secondo orientamento sembrerebbe inteso a salvaguardare i diversi principi di massima partecipazione alle gare e di tassatività e tipicità delle cause di esclusione di cui all’art. 83, comma 8 del nuovo. In base a tale disposizione le cause di esclusione dalla gara, in quanto limitative della libertà di concorrenza, devono essere ritenute di stretta interpretazione, senza possibilità di estensione analogica (cfr. Cons. St., sez. V, n. 2064 del 2013), per cui in caso di equivocità delle disposizioni deve essere preferita l’interpretazione che, in aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza, eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla partecipazione;
   - l’esclusione non potrebbe farsi derivare automaticamente dall’applicazione della legge, non prevedendo l’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 alcuna sanzione espulsiva né richiedendo tale disposizione alcuna “specifica” indicazione degli oneri per la sicurezza interna. Secondo tale orientamento, infatti, ciò non sarebbe casuale in quanto il legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva 2014/247UE, non si è realmente discostato dall’orientamento sostanzialistico del diritto dell’Unione, espressamente posto dall’art. 57 di tale Direttiva), e non ha mai inteso comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo formale – la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna separatamente dalle altre voci dell’offerta – tra le cause di esclusione;
   - la formalistica ipotesi escludente contrasterebbe sia con la lettera dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, non comminante espressamente l’effetto espulsivo, sia con la ratio della norma, la cui finalità è quella di consentire la verifica della congruità dell’offerta economica anche sotto il profilo degli oneri aziendali “concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”, ritenuto dal codice di particolare importanza per la salute dei lavoratori, in sede verifica dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del legislatore europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69, par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e nel Considerando n. 37 della stessa Direttiva, il quale rimette agli Stati membri l’adozione di misure non predeterminate al fine di garantire il rispetto degli obblighi in materia di lavori;
   - la direttiva 2014/24/UE di cui le norme del nuovo Codice costituiscono attuazione avrebbe “replicato” senza sostanziali modifiche la previgente direttiva 2004/18/CE, in virtù della quale la mancanza di indicazioni, da parte degli offerenti, del rispetto di tali obblighi non determinerebbe automaticamente l’esclusione dalla procedura di aggiudicazione;
   - la soluzione automaticamente escludente si porrebbe, quindi, in contrasto con i principi dell’Unione (per tutte Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. VI, 10.11.2016, in C/162/16), ove l’impresa dimostri, almeno in sede di giustificazioni, che sostanzialmente la sua offerta comprenda gli oneri per la sicurezza e che tali oneri siano congrui.
L’Alto Consesso ha evidenziato come ai fini della decisione risulti necessario risolvere alcune questioni relative alla conformità delle disposizioni nazionali dinanzi richiamate con il diritto dell’Unione europea primario e derivato e che sia dunque necessario sollevare una questione per rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Va in primo luogo precisato che questo Giudice ritiene che il pertinente quadro giuridico nazionale imponga di aderire alla tesi secondo cui, nelle circostanze pertinenti ai fini del decidere, la mancata puntuale indicazione in sede di offerta dei costi della manodopera comporti necessariamente l’esclusione dalla gara e che tale lacuna non sia colmabile attraverso il soccorso istruttorio.
Ritiene anche che, ai sensi del diritto nazionale, siccome l’obbligo di separata indicazione di tali costi è contenuto in disposizioni di legge dal carattere sufficientemente chiaro per gli operatori professionali, la mancata riproduzione di tale obbligo nel bando e nel capitolato della gara non potrebbe comunque giovare a tali operatori in termini di scusabilità dell’errore.
Questo Consiglio di Stato si domanda tuttavia se il quadro normativo nazionale in tal modo ricostruito risulti in contrasto con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto dell’Unione europea, con particolare riguardo ai princìpi di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera circolazione, d libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi.
Qui di seguito si indicheranno le ragioni per cui si ritiene che la pertinente normativa nazionale debba necessariamente essere interpretata nel senso di comportare l’esclusione del concorrente che non abbia ottemperato all’obbligo legale di indicare separatamente i costi della manodopera e della sicurezza dei lavoratori, senza che possa essere invocato il beneficio del c.d. ‘soccorso istruttorio’.
Ci si domanderà in seguito se tale interpretazione sia conforme al diritto dell’Unione europea.
Il primo argomento che conferma la conclusione dinanzi richiamata sub 3.4 deriva dalla pertinente giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Si osserva al riguardo che l’illegittimità dei provvedimenti di esclusione di un concorrente per violazione di obblighi da lui non adeguatamente conoscibili è stata ritenuta dalla Corte di giustizia in relazione a ipotesi in cui tali obblighi non emergevano con chiarezza “dai documenti di gara o dalla normativa nazionale” (in tal senso, la sentenza 02.06.2016 in causa C-27/15 – Pippo Pizzo – e la sentenza 10.11.2016 in causa C-140/16 – Edra Costruzioni).
Ma il punto è che attualmente esiste una disposizione del diritto nazionale che fissa in modo del tutto chiaro tale obbligo (si tratta del più volte richiamato art. 95, comma 10, del ‘Codice dei contratti pubblici’ del 2006).
Del resto, nessun argomento sembra sostenere la tesi secondo cui una clausola escludente potrebbe operare solo se espressamente richiamata dal bando o dal capitolato e non anche direttamente in base a una legge adeguatamente chiara, come l’art. 95 comma 10, citato.
Se si aderisse a tale impostazione (non condivisa da questo Giudice del rinvio) si determinerebbe l’effetto, evidentemente contrario al generale principio di legalità, per cui sarebbe la stazione appaltante a scegliere quali disposizioni imperative di legge rendere in concreto operanti e quali no, semplicemente richiamandole ovvero non richiamandole nei bandi e nei capitolati.
Il secondo argomento che conferma la conclusione dinanzi richiamata è di carattere testuale.
L’art. 83, comma 9 del ‘Codice dei contratti pubblici’ italiano (nella formulazione che qui rileva) stabilisce che il soccorso istruttorio è espressamente escluso per le carenze dichiarative relative “all’offerta economica e all’offerta tecnica”.
A sua volta l’art. 95, comma 10, stabilisce in modo espresso che i costi della manodopera e quelli per la sicurezza dei lavoratori costituiscono, appunto, elementi costitutivi dell’offerta economica.
Lo stesso art. 95, comma 10, stabilisce, poi, che i concorrenti hanno l’obbligo di “indicare” tali costi e non soltanto quello –più generico– di “tenerne conto” ai fini della formulazione dell’offerta.
Ne consegue che, in base ad espresse disposizioni del diritto nazionale, la mancata indicazione dei costi per la manodopera e la sicurezza dei lavoratori non sia sanabile attraverso il meccanismo del c.d. ‘soccorso istruttorio’ in quanto tale ancata indicazione è espressamente compresa fra i casi in cui il soccorso non è ammesso.
Il terzo argomento che conferma la conclusione dinanzi richiamata deriva dalla pertinente giurisprudenza nazionale.
In particolare, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014, nell’interpretare il principio legale della tipicità e tassatività delle cause di esclusione dalle pubbliche gare (oggi fissato all’art. 83, comma 8 del ‘Codice’), ha chiarito che nella materia delle pubbliche gare esiste una causa di esclusione per ogni norma imperativa che preveda in modo espresso un obbligo o un divieto (laddove l’obbligo non venga rispettato o il divieto venga trasgredito).
In questi casi –per come chiarito da tale sentenza– la norma imperativa di legge sortisce l’effetto di integrare dall’esterno le previsioni escludenti contenute nel bando e nel capitolato di gara (c.d. effetto di etero-integrazione).
Ebbene, l’art. 95, comma 10, del ‘Codice’ stabilisce –con previsione chiara e di carattere imperativo– che i richiamati oneri debbano essere espressamente indicati in sede di offerta.
Quindi, combinando il principio giurisprudenziale espresso dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 9 del 2014 e l’espresso obbligo legale di indicazione di cui all’art. 95, comma 10, ne consegue che la mancata ottemperanza a tale obbligo legale comporti necessariamente l’esclusione dalla gara.
9.§.4. Il quarto argomento che conferma la conclusione dinanzi richiamata sub 3.4 deriva anch’esso dalla pertinente giurisprudenza nazionale.
In particolare, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2015 (che è stata resa in base al quadro normativo anteriore al nuovo Codice dei contratti pubblici) ha stabilito che “nelle procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara devono indicare nell'offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l'esclusione dell'offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”.
La successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2015 (nel chiarire quanto già affermato dalla precedente sentenza n. 3 del 2015) ha affermato che “non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3 del 2015”;
Sul punto controverso l’Adunanza plenaria è poi tornata con la sentenza n. 19 del 2016 (che è stata invece resa sulla base del quadro normativo successivo all’entrata in vigore del Codice del 2016).
La sentenza in questione (dopo aver premesso di non intendere discostarsi da quanto affermato dalla precedente sentenza n. 9 del 2015, ma di operare un mero chiarimento di carattere temporale) ha stabilito che, in caso di mancata indicazione dei richiamati oneri, il soccorso istruttorio è ammesso, ma solo per le gare indette prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti.
La stessa sentenza, al punto 37, ha affermato che in tali casi il beneficio del soccorso istruttorio si giustifica (per le sole gare indette prima dell’entrata in vigore del Codice del 2016) in quanto “nell’ordinamento nazionale mancava una norma che, in maniera chiara e univoca, prescrivesse espressamente la doverosità della dichiarazione relativa agli oneri di sicurezza”.
Per tali ipotesi il beneficio del soccorso istruttorio si giustificava quindi al fine di assicurare il rispetto dei princìpi di certezza del diritto, di tutela dell’affidamento, di trasparenza, proporzionalità e par condicio.
Tuttavia, una volta introdotta nell’ordinamento nazionale una disposizione (quale l’art. 95, comma 10, del nuovo Codice) la quale enuncia in modo espresso l’obbligo di indicare in modo separato i costi per la sicurezza e quelli per la sicurezza dei lavoratori, è venuta meno la ragione (unica) che aveva indotto l’Adunanza plenaria (con la sentenza n. 19 del 2016) ad ammettere il soccorso istruttorio in caso di mancata indicazione di tali costi da parte del concorrente.
Non a caso, la stessa sentenza n. 19 del 2016 precisava che la questione dovesse considerarsi ormai superata per le vicende sorte dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, “che ora risolve la questione prevedendo espressamente, all’art. 95, comma 10, l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza” (punto 37 della motivazione).
9.§.5. Il quinto argomento che conferma la conclusione sopra richiamata è di carattere sostanziale.
Va premesso al riguardo che l’obbligo di indicare i costi della manodopera e quelli per la sicurezza dei lavoratori risponde all’evidente esigenza di rafforzare gli strumenti di tutela dei lavoratori, di responsabilizzare gli operatori economici e di rendere più agevoli ed efficaci gli strumenti di vigilanza e controllo da parte delle amministrazioni.
Ebbene, in particolare negli appalti ad alta intensità di manodopera (in cui gli oneri lavorativi sono la parte prevalente –o pressoché esclusiva– degli oneri di impresa), il concorrente che formuli un’offerta economica omettendo del tutto di specificare quali siano gli oneri connessi alle prestazioni lavorative non commette soltanto una violazione di carattere formale, ma presenta un’offerta economica di fatto indeterminata nella sua parte più rilevante, in tal modo mostrando un contegno certamente incompatibile con l’onere di diligenza particolarmente qualificata che ci si può ragionevolmente attendere da un operatore professionale.
9.§.6. Per le ragioni sin qui evidenziate deve concludersi nel senso che il quadro normativo nazionale deve necessariamente essere inteso nel senso di comportare l’esclusione del concorrente il quale non abbia ottemperato all’obbligo legale di separata indicazione dei costi della manodopera e della sicurezza dei lavoratori, senza che tale concorrete possa invocare il beneficio del c.d. soccorso istruttorio.
Occorre a questo punto domandarsi se il quadro normativo interno così interpretato e ricostruito risulti compatibile con il diritto dell’Unione europea (Consiglio di Stato, A.P., ordinanza 24.01.2019 n. 1 - ordinanza 24.01.2019 n. 2 - ordinanza 24.01.2019 n. 3 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Illegittima l'escussione della cauzione provvisoria prima dell'aggiudicazione dell'appalto.
Salvo diversa disposizione del bando di gara, l'escussione della cauzione provvisoria può riguardare il solo l'affidatario e può intervenire solamente dopo l'aggiudicazione dell'appalto.
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Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La Mo. s.r.l. unipersonale impugna il provvedimento prot. n. 35802/U del 03.07.2018, con cui A. s.p.a. ha disposto l'escussione della fideiussione provvisoria rilasciata in sede di presentazione dell'offerta al bando n. 22/2018, e la nota prot. 41164/2018U del 02.08.2018, con cui A. s.p.a. ha ribadito l’escussione della garanzia.
L’escussione è stata disposta perché, dopo l’apertura della busta contenente la documentazione amministrativa e prima dell’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica ed economica (il criterio di selezione prescelto è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa: paragrafo 9 del disciplinare di gara), A. s.p.a. ha sottoposto a verifica la posizione della ricorrente e, avendo constatato la mancanza dei requisiti di capacità dichiarati in sede di partecipazione alla gara, con provvedimento prot. n. 33254/2018U del 20/06/18 l’ha esclusa dalla gara.
Con la prima censura la ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 e dell’art. 7.3.A del disciplinare di gara ed eccesso di potere per travisamento dei fatti in quanto l’art. 93 citato consentirebbe l’escussione della garanzia provvisoria solo in riferimento alla figura dell’affidatario e nel solo caso di rifiuto immotivato di addivenire alla stipula del contratto e non anche per il mancato possesso dei requisiti.
Il motivo è fondato nei limiti di quanto in prosieguo specificato.
L’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016, nella versione applicabile ratione temporis ovvero dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 56/2017 (il bando è stato pubblicato nella GUCE il 21/03/2018: allegato n. 3 alla memoria di parte resistente), stabilisce che la garanzia provvisoria “copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159”.
Contrariamente a quanto dedotto nella censura, la garanzia opera anche nel caso di mancanza dei requisiti di ordine generale e speciale, dichiarati in sede di partecipazione alla gara, in quanto tale carenza integra, senza dubbio, la nozione di “fatto riconducibile all’affidatario” che preclude la sottoscrizione del contratto.
Proprio la disposizione in esame, però, colloca l’escussione della garanzia provvisoria nella fase successiva all’aggiudicazione e prima della stipula del contratto.
In quest’ottica l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 deve essere letto in combinato disposto con gli artt. 36, comma 6, e 85, comma 5, e, soprattutto, 32, comma 7, d.lgs. n. 50/2016 che prevedono come obbligatoria la verifica dei requisiti del solo aggiudicatario.
Questo è il motivo per cui l’art. 32, comma 7, d.lgs. n. 50/2016 condiziona l’efficacia dell’aggiudicazione, già intervenuta, al positivo riscontro dei requisiti.
E’, pertanto, in questa fase che, secondo il disposto dell’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016, opera la garanzia provvisoria la quale, nella previsione legislativa, sanziona le ipotesi in cui, anche per la mancanza dei requisiti dichiarati e negativamente verificati, non sia possibile, “dopo l’aggiudicazione” (inciso espressamente previsto dall’art. 93 d.lgs. n. 50/2016 e mancante nel previgente art. 75 d.lgs. n. 163/2006), pervenire alla sottoscrizione del contratto.
Ne consegue che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 non si applica alle ipotesi, quale quella in esame, in cui non è ancora intervenuta l’aggiudicazione ovvero in quelle ipotesi in cui la stazione appaltante procede discrezionalmente, nel corso della gara, alla verifica dei requisiti di uno o più concorrenti.
In senso favorevole alla tesi di parte ricorrente deve essere anche valorizzato il tenore letterale del disciplinare di gara che, coerentemente a quanto previsto dall’art. 93 d.lgs. n. 50/2016, stabilisce che “la cauzione provvisoria copre, e viene escussa per, la mancata stipula del contratto dopo l’aggiudicazione per fatto del concorrente ai sensi dell’articolo 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016” (paragrafo 7.2 pag. 17).
Nemmeno la lex specialis, pertanto, nella fattispecie estende l’ambito applicativo della cauzione provvisoria e, in tal modo, è idonea a giustificare l’incameramento della stessa prima dell’aggiudicazione.
Né, in senso contrario, possono essere richiamate:
   - la sentenza n. 2181/2018 del Consiglio di Stato, menzionata nel gravato provvedimento di escussione della garanzia, in quanto la stessa riguarda un’ipotesi in cui, nei confronti dell’escluso, era stata formulata proposta di aggiudicazione;
   - la sentenza n. 34/2014 dell’Adunanza Plenaria, citata dalla parte resistente nella memoria difensiva, in quanto la stessa concerne una fattispecie in cui l’escussione era stata prevista dalla lex specialis e, per di più, nella vigenza dell’art. 48 d.lgs. n. 163/06 che giustificava l’acquisizione della cauzione provvisoria nei confronti del mero concorrente almeno per la mancanza dei requisiti di ordine speciale;
   - la sentenza n. 8/2012 dell’Adunanza Plenaria che riguardava un aggiudicatario e, comunque, un caso in cui l’escussione era espressamente consentita dalla lex specialis.
La fondatezza della censura esaminata impone l’accoglimento del ricorso (previa declaratoria di assorbimento del secondo motivo, implicitamente proposto in via subordinata) e l’annullamento degli atti impugnati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 23.01.2019 n. 900 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Individuazione da parte del PGT delle destinazioni ammesse.
E' illegittimo un PGT che, una volta attribuita ad un’area destinazione urbanistica “terziario, ha indicato l’unica ammessa su una grande parte dell’area medesima (nella fattispecie: multisala per proiezioni cinematografiche e pubblico spettacolo per almeno il 50% della edificazione ammessa), spingendosi così ad un livello di dettaglio incompatibile con la funzione che è chiamato a svolgere e con la tutela che l’ordinamento riconosce al diritto di proprietà privata (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 23.01.2019 n. 128 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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La società Au.Gu.It. S.p.A., in qualità di proprietaria di un compendio immobiliare sito in Comune di Pandino, già classificato dal previgente strumento urbanistico come zona D1 – aree produttive esistenti e di previsione puntuale (disciplinata articolo 34 delle NTA), ha impugnato la deliberazione consiliare di approvazione del nuovo PGT nella parte in cui classifica l’area come Comparto Terziario 1 – C.T.1. Viale Europa Sud (i.e., centro polifunzionale terziario comprendente multisala per proiezioni cinematografiche e per pubblico spettacolo per almeno il 50% della edificazione ammessa, e per il restante 50% al massimo, esercizi pubblici ed esercizi commerciali di vicinato, uffici, attività per servizi alla persona, con divieto di realizzazione di medie e grandi superfici di vendita o di centri commerciali).
...
Il Collegio ritiene di non aderire alla richiesta di parte ricorrente di trattazione congiunta del presente ricorso con quelli promossi da terzi nei confronti della suvvista Variante al PGT.
E’ ben vero che –come prospettato dalla difesa di Au.Gu.It. S.p.A.- la nuova disciplina urbanistica dell’area di sua proprietà non determina l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del presente ricorso, posto che l’accoglimento –in ipotesi– dell’impugnativa svolta da terzi contro la Variante particolare determinerebbe la riviviscenza della vecchia disciplina qui avversata (cfr., TAR Marche, sentenza n. 434/2014; TAR Sardegna, Sez. II, sentenza n. 340/2011; C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 5801/2005).
Tuttavia, i ricorsi di cui si chiede la riunione non sono avvinti da un rapporto di connessione oggettiva, vertendo su strumenti urbanistici diversi, e soprattutto i giudizi pendono avanti a Sezioni diverse del Tribunale e –a quanto consta– si trovano in fasi processuali diverse, sicché la riunione ritarderebbe inevitabilmente la decisione del presente giudizio.
Passando al merito, il ricorso è fondato nei termini che si vanno a esporre.
In linea generale, la zonizzazione è finalizzata all’ordinato sviluppo del territorio tramite un coordinato ed armonico esercizio dello ius aedificandi che connota il diritto dominicale. L’interesse pubblico è perseguito operando la suddivisione del territorio comunale in zone omogenee, accomunate dalla destinazione urbanistica, individuata per macrocategorie (residenziale, produttivo, direzionale, commerciale …), e da prescrizioni di massima da rispettare nell’edificazione (distanze, altezze, rapporto tra superficie edificata e volume realizzato …).
La L.R. Lombardia n. 12/2005 stabilisce che il Piano di Governo del Territorio – PGT, costituito dal Documento di Piano, dal Piano dei Servizi e dal Piano delle Regole, all’interno delle singoli ambiti territoriali, dopo aver individuato la relativa destinazione urbanistica, per quanto qui di interesse, fissi al più le destinazioni d’uso non ammesse (articoli da 7 a 10 compresi).
Ne consegue che il PGT di Pandino, una volta attribuita all’area di proprietà della ricorrente destinazione urbanistica “terziario”, poteva indicare tra le destinazioni d’uso che rientrano nella categoria “commerciale” quelle vietate.
Viceversa, avendo indicato l’unica ammessa su una grande parte dell’area medesima (multisala per proiezioni cinematografiche e per pubblico spettacolo per almeno il 50% della edificazione ammessa), lo strumento urbanistico generale si è spinto ad un livello di dettaglio incompatibile con la funzione che è chiamato a svolgere e con la tutela che l’ordinamento riconosce al diritto di proprietà privata.
In conclusione, i primi due motivi di impugnazione sono fondati; il ricorso viene pertanto accolto e per l’effetto è annullato in parte qua il PGT impugnato.

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (in specie era stata ritenuta illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche).
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4.2. In relazione al secondo motivo, si osserva che la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario assenso amministrativo (in specie era stata ritenuta illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche) (Sez. 3, n. 16548 del 16/06/2016, dep. 2017, Porcelli, Rv. 269624).
In specie parte ricorrente si è invero limitata ad allegare l'impossibilità di demolizione senza danno alla parte legittima.
In proposito, invece, la stessa ordinanza impugnata (in risposta ai rilievi dell'interessata in ordine alla circostanza che le opere contestate non avevano comportato aumenti di superficie) ha dato invero atto -senza specifica contestazione al riguardo- che la condotta abusiva ascritta alla ricorrente, e ritenuta fondata in sentenza, aveva ad oggetto proprio l'ampliamento della struttura preesistente (non sussistendo comunque prova dell'irreparabilità del pregiudizio).
Su questo specifico profilo in diritto, che escludeva ogni ipotesi di cd. fiscalizzazione anche in relazione alla circoscritta applicabilità dell'art. 34 cit., nulla è stato aggiunto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2019 n. 2855).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzate di scavi e sbancamenti - Lavori edili oggetto di comunicazione al Comune - Accertamento sul cantiere in corso d'opera - Intervento di permanente trasformazione del suolo - Necessità del permesso di costruire e/o dell'autorizzazione paesaggistica - Artt. 6, 44, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
La trasformazione edilizia o urbanistica del territorio che costituisce "intervento di nuova costruzione" soggetto a permesso di costruire ai sensi del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 3, comma 1, lett. e), d.P.R. 380 del 2001, invero, è soltanto quella che determina la permanente modifica del suolo (cfr. le definizioni di cui all'art. 3, comma 1, lett. e.3) e e.7), del citato testo unico; v. anche Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 2017, Palma, che reputa assoggettati a permesso di costruire interventi sul terreno che determinino una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli è proprio). Fattispecie: lavori di scavi e sbancamenti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2019 n. 2849 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Accertamenti e valutazioni di carattere tecnico-scientifico - Deduzioni logiche e massime di comune esperienza e semplici congetture - Differenza - Giurisprudenza.
Qualora non suffragata da valutazioni di carattere tecnico-scientifico, la ricostruzione del tipo di intervento di modificazione dell'assetto del territorio accertato in itinere può ben essere compiuta utilizzando deduzioni logiche e massime di comune esperienza, ma le stesse debbono essere esplicitate per poter valutare la logicità del percorso argomentativo e delle conclusioni.
È, altrimenti, affetta dal vizio di illogicità e di carenza della motivazione la decisione del giudice di merito che, in luogo di fondare la sua decisione su massime di esperienza -che sono caratterizzate da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione- utilizzi semplici congetture, cioè ipotesi fondate su mere possibilità, non verificate in base all' "id quod plerumque accidie ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica
(Sez. 6, n. 36430 del 28/05/2014, Schembri; Sez. 6, n. 1686 del 27/11/2013, dep. 2014, Keller; Sez. 6, n. 6582 del 13/11/2012, dep. 2013, Cerrito)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2019 n. 2849 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deposito "in sanatoria" degli elaborati progettuali e rilascio in sanatoria dell'autorizzazione dell'Ufficio del Genio civile - Reati di violazione della normativa antisismica - Effetti - Giurisprudenza - Artt. 36, 44, 45, 71, 72, 93 e 94 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In materia edilizia, è consolidato il principio secondo cui il deposito "in sanatoria" degli elaborati progettuali non estingue la contravvenzione antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di detti elaborati in quanto l'effetto estintivo è limitato dall'art. 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 alle sole contravvenzioni urbanistiche (Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa.) e, parimenti, il rilascio in sanatoria dell'autorizzazione dell'Ufficio del Genio civile non costituisce causa estintiva dei reati di violazione della normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 del d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 10110 del 21/01/2016, Rv. 266252).
Tale principio è certamente estensibile anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. d.P.R. 380 del 2001 per la violazione della disciplina delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica. Diversamente dalla previsione di cui all'art. 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, non v'è, di fatti, alcuna disposizione che preveda l'estinzione di detti reati nel caso di tardivo adempimento degli obblighi omessi, o, più in generale, di "sanatoria" amministrativa delle violazioni e, in forza della citata disposizione, lo stesso conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -nella specie avvenuto- comporta l'estinzione dei reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e sulle opere di conglomerato cementizio (Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo; Sez. F, n. 44015 del 04/09/2014, Conforti)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.01.2019 n. 2848 - link a www.ambientediritto.it).
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Al riguardo, si legga anche:
  
M. Grisanti, L’autorizzazione e il deposito sismici a sanatoria sono sconosciuti al legislatore statale (nota critica a Cassazione, Sez. III penale, n. 2848 depositata il 22.01.2019) (26.01.2019 - link a www.lexambiente.it).

URBANISTICALa destinazione impressa all’area per quanto stabilito dal P.T.C.P. –ossia l’inserimento parziale della stessa nella Rete verde di ricomposizione paesaggistica, con valenza anche di Rete ecologica, e negli Ambiti agricoli di interesse strategico (A.A.S.)– possiede efficacia prescrittiva e prevalente sullo strumento pianificatorio comunale.
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Secondo la consolidata giurisprudenza, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
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In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano.
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale.
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Del resto, la destinazione impressa all’area risulta coerente con quanto stabilito dal P.T.C.P. –ossia l’inserimento parziale della stessa nella Rete verde di ricomposizione paesaggistica, con valenza anche di Rete ecologica, e negli Ambiti agricoli di interesse strategico (A.A.S.)–, che possiede efficacia prescrittiva e prevalente sullo strumento pianificatorio comunale (da ultimo, TAR Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 37).
In senso contrario, non assume rilievo la circostanza che la Provincia, in sede di predisposizione del parere di compatibilità, abbia suggerito al Comune di valutare la possibilità di rettifica nei casi in cui l’individuazione degli Ambiti agricoli di interesse strategico ricada su aree residenziali edificate, in quanto si tratta di un mero suggerimento –peraltro assunto in fase istruttoria (cfr. all. 12 al ricorso)– che presuppone comunque la necessità di correggere errori oggettivi; come risulta dalla descrizione del contesto, il Comune non ha ritenuto di accogliere tale indicazione (che non può essere considerata alla stregua di una imposizione), considerando all’opposto la necessità di tutelare una zona non ancora completamente antropizzata e dotata di peculiari caratteri da preservare.
Pertanto, le valutazioni effettuate dal Comune appaiono pienamente ragionevoli e assolutamente giustificate e coerenti con i presupposti di fatto e le risultanze istruttorie.
Secondo la consolidata giurisprudenza, difatti, le scelte riguardanti la classificazione dei suoli sono sorrette da ampia discrezionalità e in tale ambito la posizione dei privati risulta recessiva rispetto alle determinazioni dell’Amministrazione, in quanto scelte di merito non sindacabili dal giudice amministrativo, salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, potendosi derogare a tale regola solo in presenza di situazioni di affidamento qualificato del privato a una specifica destinazione del suolo, nel caso non sussistenti (Consiglio di Stato, IV, 12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale ha, oltretutto, evidenziato che all’interno della pianificazione urbanistica devono trovare spazio anche esigenze di tutela ambientale ed ecologica, tra le quali spicca proprio la necessità di evitare l’ulteriore edificazione e di mantenere un equilibrato rapporto tra aree edificate e spazi liberi (così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012, n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli Enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo, per cui l’esercizio dei poteri di pianificazione territoriale ben può tenere conto delle esigenze legate alla tutela di interessi costituzionalmente primari, tra i quali rientrano quelli contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710; altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n. 4716; TAR Lombardia, Milano, II, 18.06.2018, n. 1534).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi che la destinazione di un’area a verde agricolo non implica necessariamente che la stessa soddisfi in modo diretto e immediato interessi agricoli, ben potendo giustificarsi con le esigenze dell’ordinato governo del territorio, quale la necessità di impedire ulteriori edificazioni, ovvero di garantire l’equilibrio delle condizioni di vivibilità, assicurando la quota di valori naturalistici e ambientali necessaria a compensare gli effetti dell’espansione dell’aggregato urbano (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830; 16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2017, n. 451; 30.09.2016, n. 1766).
A questo proposito, è poi utile aggiungere che, anche laddove si fosse al cospetto di aree ampiamente urbanizzate, non per questo se ne può escludere la rilevanza dal punto di vista ambientale, poiché tali dati di fatto si prestano anzi a far emergere un interesse alla conservazione del suolo inedificato, per ragioni di compensazione ambientale (TAR Lombardia, Milano, II, 05.11.2018, n. 2479; 21.02.2017, n. 434)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale.
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In ordine, poi, all’avvenuta limitazione (o azzeramento) delle capacità edificatorie dei lotti di proprietà dei ricorrenti –con la precisazione però che nessuna misura espulsiva è stata disposta nei riguardi di quanto già costruito– deve richiamarsi la costante giurisprudenza secondo la quale, in materia urbanistica, non opera il principio del divieto di reformatio in peius, in quanto in tale materia l’Amministrazione gode di un’ampia discrezionalità nell’effettuazione delle proprie scelte, che relega l’interesse dei privati alla conferma della previgente disciplina ad interesse di mero fatto, non tutelabile in sede giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV, 24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano.
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Quanto, infine, al mancato accoglimento delle osservazioni dei ricorrenti, va ribadito che “le osservazioni presentate in occasione dell’adozione di un nuovo strumento di pianificazione del territorio costituiscono un mero apporto dei privati nel procedimento di formazione dello strumento medesimo, con conseguente assenza in capo all’Amministrazione a ciò competente di un obbligo puntuale di motivazione oltre a quella evincibile dai criteri desunti dalla relazione illustrativa del piano stesso in ordine alle proprie scelte discrezionali assunte per la destinazione delle singole aree; pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le osservazioni pervenute, non può però essere obbligata ad una analitica confutazione di ciascuna di esse, essendo sufficiente per la loro reiezione il mero contrasto con i principi ispiratori del piano” (TAR Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 38; 06.08.2018, n. 1945; altresì, TAR Toscana, I, 06.09.2016, n. 1317)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti.
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5.2. Ulteriormente, la diversa collocazione delle proprietà dei ricorrenti rispetto a quelle di altri soggetti, seppure poste tra loro in rapporto di prossimità, giustifica certamente una differente classificazione urbanistica delle stesse, anche in conseguenza della disomogeneità degli interventi da effettuarsi nei vari comparti edificatori e in ragione della loro consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle zone poste in comparazione, affatto dimostrata nel presente giudizio, non è possibile invocare pretese finalizzate ad ottenere una parità di trattamento, tanto meno in relazione all’assetto urbanistico del territorio, dove l’Amministrazione dispone della più ampia discrezionalità.
Le scelte di pianificazione territoriale, in quanto espressione di tale ampia discrezionalità, sono sindacabili dal giudice amministrativo entro limiti alquanto ristretti: a tale riguardo le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale costituiscono scelte di merito, che non possono essere sindacate dal giudice amministrativo salvo che non siano inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare, con la conseguenza che non è configurabile il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento basata sulla comparazione con la destinazione impressa agli immobili adiacenti (TAR Lombardia, Milano, II, 27.02.2018, n. 567; 30.03.2017, n. 761; 09.04.2015, n. 903; si veda pure Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 122 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Procedimento di approvazione del PGT.
La previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, il quale prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni”;
Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia all’inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.01.2019 n. 122 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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In realtà, a prescindere dalla possibilità o meno per una deliberazione della Giunta regionale di poter modificare un termine previsto dalla legge, va richiamato l’univoco orientamento della Sezione, secondo il quale il termine per l’approvazione del P.G.T. stabilito dall’articolo 13, comma 7 (e 7-bis), della legge regionale n. 12 del 2005 ha carattere ordinatorio e non perentorio e che, conseguentemente, il superamento di tale scadenza non determina il venir meno degli atti della procedura pianificatoria (TAR Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975; 22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032; 19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86; 20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
La Sezione ha, invero, rilevato che della disposizione di legge regionale sopra richiamata deve darsi necessariamente un’interpretazione costituzionalmente orientata, volta a garantire l’osservanza dei principi di ragionevolezza, proporzionalità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della Costituzione), nonché ad assicurare l’esigenza che la legge regionale si attenga ai principi fondamentali desumibili dalla legge statale (articolo 117, terzo comma, della Costituzione), la quale stabilisce l’efficacia a tempo indeterminato della delibera di adozione del piano, fissando unicamente i termini di efficacia delle correlate misure di salvaguardia, peraltro di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n. 380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni, consentite dal tenore letterale della previsione normativa, deve privilegiarsi quella che attribuisce al termine per l’approvazione finale del piano natura ordinatoria, ponendo la sanzione dell’inefficacia in correlazione con la mancata valutazione delle osservazioni pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa cui la Sezione ha aderito, e che va in questa sede ribadita, ha evidenziato che la previsione dell’inefficacia degli atti assunti è collocata incidentalmente nel testo dell’articolo 13, comma 7, della legge regionale n. 12 del 2005, il quale prevede che “entro novanta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni, a pena di inefficacia degli atti assunti, il consiglio comunale decide sulle stesse, apportando agli atti di PGT le modificazioni conseguenti all’eventuale accoglimento delle osservazioni”.
Ciò consente di riferire la sanzione dell’inefficacia all’inosservanza non del termine di novanta giorni, previsto nella prima parte della disposizione, ma alla violazione dell’obbligo, stabilito nella seconda parte della previsione normativa, di decidere sulle osservazioni e di apportare agli atti del P.G.T. le conseguenti modificazioni (cfr. Consiglio di Stato, IV, 10.02.2017, n. 572; TAR Lombardia, Milano, II, 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761; 26.05.2016, n. 1097).

EDILIZIA PRIVATA: Di nuovo alla Corte costituzionale la questione dell’azione esperibile dal terzo leso dalla SCIA.
Il Tar per l’Emilia Romagna, dopo aver riqualificato la domanda di annullamento della SCIA in azione di accertamento ex art. 31 c.p.a., dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale, in quanto i ricorrenti in un giudizio amministrativo, portatori di un interesse legittimo pretensivo, paiono subire una discriminatoria compressione delle facoltà giurisdizionali ordinariamente offerte loro dal codice del processo amministrativo.
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Atto amministrativo – SCIA – Denuncia del terzo – Termine – Assenza – Questione non manifestamente infonda di costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui prevede che la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili limitando la tutela degli interessati alla mera sollecitazione dei poteri di verifica spettanti all'amministrazione e, in caso di inerzia, ad esperire esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
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   (1) I. – Con la sentenza non definitiva in rassegna, il Tar per l’Emilia Romagna ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, in tema di SCIA, sotto il profilo della irragionevole limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale del terzo controinteressato, in quanto il ricorrente in un giudizio amministrativo, portatore di un interesse legittimo pretensivo, sembra subire una compressione discriminatoria delle facoltà giurisdizionali ordinariamente offerte in suo favore dal codice del processo amministrativo.
   II. – Il Collegio, riqualificando la domanda di annullamento della SCIA proposta da parte ricorrente in azione di accertamento ex art. 31 c.p.a. e dichiarando rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter della l. n. 241 del 1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, ha, tra l’altro, osservato che:
      a) le SCIA edilizie:
         a1) sono equiparate dalla legge ad atti di iniziativa privata e non ad atti costitutivi, in quanto confluenti nel silenzio serbato su di essi dall’amministrazione, di corrispondenti provvedimenti autorizzatori impliciti;
         a2) non sono pertanto provvedimenti di cui è possibile ottenere l’annullamento;
         a3) la domanda di annullamento eventualmente proposta è da considerarsi inammissibile in quanto si tratta di atto oggettivamente e soggettivamente privato e la sua non impugnabilità diretta è stata espressamente prevista dal legislatore che, con l’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, ha stabilito che la SCIA e, in generale, le dichiarazioni di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti;
      b) la domanda di annullamento delle SCIA edilizie deve, quindi, essere riqualificata in domanda di accertamento e può essere accertata la fondatezza della pretesa dei ricorrenti, seppur entro i limiti previsti dall’art. 31, comma 3, c.p.a., in relazione all’inerzia dell’amministrazione che non si è attivata al fine di verificare la conformità dello stato di fatto dichiarato rispetto a quello originariamente esistente e, quindi, per attivare i poteri ad essa riconosciuti dalla legge;
      c) nel caso di specie, vi è stata violazione dell’art. 80 del RUE vigente all’epoca della presentazione della SCIA, in quanto il recupero a fini abitativi del sottotetto esistente risulta avvenuto tramite illegittima modificazione in aumento sia dell’altezza di gronda che dell’altezza di colmo;
      d) accertata l’illegittimità dell’inerzia del Comune, occorre determinare il contenuto concreto dell’obbligo posto a carico dell’amministrazione a seguito dell’effetto conformativo derivante dalla sentenza e, in particolare, se l’accertamento giudiziale compiuto:
         d1) costringa l’amministrazione resistente a rimuovere gli eventuali effetti dannosi dell’attività edilizia illegittimamente intrapresa oppure;
         d2) le imponga l’obbligo di adottare i provvedimenti previsti dall’art. 19, comma 3, l. n. 241 del 1990 solo in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della legge sul procedimento amministrativo;
      e) il dato normativo depone nel secondo senso:
         e1) il collegio non può accertare anche la fondatezza della pretesa fatta valere in giudizio dai ricorrenti, nel senso di conformare la successiva attività dell’amministrazione ad un obbligo ineludibile di rimozione degli eventuali effetti dannosi derivati dall’attività edilizia intrapresa, poiché risulta, ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.p.a. che residuano ulteriori margini di discrezionalità esercitabili dal Comune;
         e2) decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, come individuato dal comma 6-bis dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990, l’amministrazione deve adottare i provvedimenti volti alla rimozione degli effetti dannosi soltanto in presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della medesima legge per procedere all’annullamento di ufficio;
         e3) il diverso orientamento che ritiene attivabile il potere inibitorio anziché quello di autotutela non ha un fondamento normativo testuale e deve ricorrere ad alcune forzature interpretative per delineare il complessivo regime impugnatorio di cui dispone il terzo che solleciti il potere inibitorio dell’amministrazione, una volta decorso il termine entro il quale l’amministrazione stessa avrebbe potuto intervenire senza essere costretta ad operare con i limiti dell’autotutela;
      f) di condividere le perplessità sollevate dal Tar per la Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667 (in Urbanistica e appalti, 2017, 528, con note di DAPAS, VIOLA, e in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 328, nonché oggetto della News Us, in data 16.05.2017, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti) che ha rimesso alla Corte costituzionale il vaglio di legittimità dell’art. 19, comma 6-ter della l. n. 241 del 1990, per assenza di previsione espressa di un termine entro il quale sollecitare il potere inibitorio dell’amministrazione, in quanto:
         f1) nessuna delle soluzioni proposte sul termine per sollecitare il potere dell’amministrazione appare fondata su di un adeguato riferimento normativo;
         f2) la tesi secondo cui il termine concesso al controinteressato è lo stesso che la norma assegna all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio ufficioso è inidonea in quanto il dies a quo di tale termine coincide con il ricevimento della segnalazione da parte dell’amministrazione, fase cui il terzo è del tutto estraneo;
         f3) la tesi che sostiene che la facoltà del controinteressato di proporre l’istanza inibitoria è soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni, riprendendo il termine processuale di impugnazione, non è condivisibile in quanto vi è diversità ontologica tra la disciplina processuale e l’attività procedimentale;
         f4) la tesi che richiama il termine annuale di cui all’art. 31, secondo comma, c.p.a. non è condivisibile in quanto, anche in questo caso, si confonde un termine processuale con un termine amministrativo;
      g) con riferimento alla sollecitazione del potere di verifica, non è condivisibile la tesi secondo cui si tratterebbe dell’impulso dell’avvio di un procedimento analogo a quello inibitorio di cui all’art. 19, comma 3, l. n. 241 del 1990 in quanto:
         g1) l’amministrazione beneficerebbe inammissibilmente di una sorta di rimessione in termini rispetto al procedimento attivato sulla base della segnalazione certificata, il cui limite temporale entro il quale intervenire con il potere repressivo è stato definitivamente superato;
         g2) viene introdotto in via pretoria un correttivo normativo per permettere al terzo controinteressato di sostituirsi all’amministrazione, tramite l’utilizzo in via mediata di un potere di azione non consentito al privato dall’ordinamento in luogo dell’ordinario regime di impugnazione di un provvedimento lesivo;
      h) il dato normativo induce a ritenere che:
         h1) la segnalazione certificata non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge;
         h2) si tratta di attività libera, sulla quale l’amministrazione, in virtù dell’interesse tutelato, conserva un potere di controllo più penetrante di quello ordinariamente esercitato sulle libertà garantite ai privati;
         h3) con riferimento alla tutela dei terzi, l’assenza di un provvedimento amministrativo, con il residuare di un mero potere di controllo ex post da parte dell’ente pubblico, condiziona espressamente la possibilità per i privati di paralizzare l’attività di altri privati radicando una controversia concernente l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, in aggiunta o in luogo degli ordinari rimedi esperibili dinanzi al giudice ordinario a tutela della proprietà o del possesso;
         h4) secondo la ratio legis, le iniziative spettanti ai terzi si riflettono sui poteri esercitabili dall’amministrazione, nel senso che se entro trenta giorni dal deposito della SCIA edilizia l’amministrazione non si è attivata, i terzi hanno azione, entro i termini di prescrizione ordinaria, per l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di verificare e manifestare tramite provvedimento espresso la sussistenza o meno delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, una volta che il giudice amministrativo abbia accertato l’astratta fondatezza delle censure tecniche avanzate dagli interessati. Ne deriverà l’adozione di un provvedimento che neghi motivatamente la possibilità di intervento in autotutela oppure l’adozione di un provvedimento che ordini la rimozione degli effetti dannosi dell’attività edilizia intrapresa o diversa sanzione prevista dalle norme di settore;
      i) il comma 6-ter dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990 introduce per legge un’ipotesi di inerzia sanzionabile della pubblica amministrazione, infatti:
         i1) in base all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a., ai sensi dei quali, negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere;
         i2) con la citata disposizione il legislatore ha previsto un caso di obbligatorietà della risposta pubblica rispetto alla sollecitazione dei poteri di autotutela da parte del privato;
      j) l’obbligo di provvedere, una volta accertato, determina un caso di obbligatorietà della risposta pubblica rispetto alla sollecitazione dei poteri di autotutela da parte del privato:
         j1) pertanto, se è decorso, come nel caso di specie, alla data della sollecitazione del potere di verifica da parte del terzo, il termine entro il quale l’amministrazione avrebbe potuto vietare la prosecuzione dell’attività edilizia intrapresa e ordinare la rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, l’accertamento dell’obbligo di provvedere non può che costituire il presupposto per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990;
         j2) il giudice non può quindi conformare l’amministrazione a una specifica condotta né condannarla all’emissione di un determinato provvedimento, dovendosi limitare ad accertare la sussistenza dell’inerzia e la necessità di un riesame;
         j3) l’azione proposta dai terzi non cambia natura qualunque sia il termine entro il quale viene proposta, salvi gli effetti della prescrizione, ma cambiano i poteri successivamente esercitabili dall’amministrazione e i limiti di esercizio del potere di accertamento giurisdizionale;
         j4) una conferma della correttezza della ricostruzione è data dalla circostanza che il legislatore abbia espressamente riconosciuto ai terzi interessati esclusivamente la possibilità di esperire l’azione di accertamento con preclusione non solo dell’accesso all’azione di annullamento, ma anche della possibilità di proporre l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a.;
         j5) il nuovo sistema di tutela del terzo leso da una SCIA edilizia illegittima è stato consapevolmente costruito nei termini di una ridotta forza processuale del controinteressato e non può essere interpretato in modo diverso;
      k) la soluzione ermeneutica descritta:
         k1) ha il pregio di depotenziare i dubbi di incostituzionalità con riferimento alla mancata previsione di un termine decadenziale per l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo, in quanto l’istanza diretta ad attivare le verifiche non effettuate può avvenire in ogni tempo dal deposito dalla SCIA, ma l’intervento repressivo dell’amministrazione, ad eccezione degli abusi edilizi più gravi sanzionati in via autonoma dall’art. 31 del d.p.r. n. 380 del 2001, e non legittimati dalla SCIA deve sottostare a rigorosi limiti temporali e motivazionali ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; si evita quindi che il privato che avvia un’attività edilizia sottoposta a mera segnalazione certificata resti soggetto per un tempo indeterminato e a priori indefinibile ad un intervento repressivo dell’amministrazione;
         k2) espone la disciplina dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990 a un dubbio di costituzionalità nella misura in cui la stessa risulta non idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del terzo;
         k3) comporta che il terzo ha l’onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla pubblica amministrazione, così subendo una procrastinazione del momento dell’accesso alla tutela giurisdizionale e, quindi, un’incisiva limitazione dell’effettività della tutela giurisdizionale in violazione dei principi di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.;
         k4) determina che l’istanza del privato è diretta ad attivare, qualora siano già decorsi trenta giorni dall’invio della segnalazione, non il potere inibitorio di natura vincolata ma il potere di autotutela cui fa riferimento l’art. 19, comma 4, della l. n. 41 del 1990, di carattere ampiamente discrezionale in quanto postula la ponderazione comparativa degli interessi in conflitto con precipuo riferimento al riscontro di un interesse pubblico concreto e attuale che non coincide con il ripristino della legalità violata;
         k5) comporta che il giudice amministrativo non può che limitarsi a una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare, con conseguente compressione dell’interesse del terzo a ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio del potere discrezionale;
l) ne consegue che non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui consente ai terzi lesi dalla SCIA edilizia illegittima di esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1 e 2, c.p.a., solo dopo aver sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione, in quanto:
         l1) per una tutela piena ed effettiva della loro posizione giuridica i terzi interessati dovrebbero avere la possibilità di attivare gli ordinari rimedi giurisdizionali azionabili avverso le iniziative illecite altrui, qualunque sia la modalità di acquisizione del titolo legittimante, senza essere costretti a dover richiedere, prima di agire, l’intermediazione dell’autorità pubblica e senza essere soggetti, dopo aver agito in giudizio, per il mero decorso del tempo concesso all’amministrazione per attivare il potere inibitorio, ai limiti di tutela giurisdizionale derivanti dall’intermediazione aleatoria dell’esercizio del potere discrezionale;
         l2) il legislatore del 2011 ha consapevolmente precluso al terzo interessato l’unica possibilità di intervenire, tramite declaratoria giudiziale di illegittimità, sulla conclusione negativa del procedimento di controllo dei presupposti avviato dall’amministrazione a seguito della segnalazione certificata;
         l3) tale possibilità era stata enucleata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato al fine di non esporre il sistema a profili di incostituzionalità, mediante l’assimilazione ad un provvedimento negativo per silentium della condotta di inerzia mantenuta dall’amministrazione allo spirare del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere inibitorio;
         l4) la modifica legislativa ha, da un lato, impedito al terzo la possibilità di esperire un’azione di natura impugnatoria o di condanna, dall’altro, mediante il richiamo espresso di tutti e tre tali commi, ha limitato la possibilità del giudice di accertare la fondatezza della pretesa ai soli casi di attività vincolata;
         l5) quando il termine per l’esercizio del potere inibitorio è decorso, l’obbligo accertabile in capo all’amministrazione è solo quello previsto dal comma 4 dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990, con la conseguenza che il giudice adito non può predeterminare il contenuto del successivo provvedimento dell’amministrazione, con indubbia e inevitabile lesione del diritto del terzo a una piena ed effettiva tutela giurisdizionale;
         l6) il legislatore ha congegnato un sistema tale da comprimere in giudizio l’esplicazione di tutte le facoltà giurisdizionali normalmente connesse alla posizione soggettiva di interesse legittimo pretensivo del soggetto leso da un comportamento illegittimo dell’amministrazione, escludendo la possibilità, tramite il rinvio ad un successivo esercizio del potere discrezionale, che la violazione di tale interesse legittimo ottenga un’efficace e satisfattiva riparazione già dinanzi al giudice adito.
   III. – Per completezza si segnala:
      m) Tar per la Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667 (cit.), secondo cui:
         m1) “è rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla SCIA, per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost.”;
         m2) l’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990, secondo cui la tutela del terzo a fronte della SCIA è realizzabile esclusivamente attraverso lo strumento del ricorso per silenzio-rifiuto di cui all’art. 31 c.p.a. avverso l’eventuale inerzia serbata dall’Amministrazione, è sospettato di incostituzionalità nella parte in cui, rispetto alla mancata risposta dell’amministrazione alla sollecitazione del potere di controllo, omette di fissare un termine perentorio entro il quale il terzo possa avanzare l’istanza di sollecitazione; in assenza di tale termine la norma pare ammettere una sollecitazione del potere di verifica della SCIA da parte del terzo sine die;
         m3) la mancata fissazione di un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche amministrative viola la necessaria tutela dell’affidamento del segnalato, tutela che viene inquadrata quale principio cardine dell’attività amministrativa in tutti i settori dell’intervento pubblico;
         m4) la norma contrasta con i principi di ragionevolezza e buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., in quanto il disegnato modello procedimentale impone all’amministrazione, quale che sia il momento in cui sopravviene l’istanza del controinteressato, di rivedere la posizione assunta in precedenza (in sede di verifica ufficiosa) circa la legittimità dell’iniziativa segnalata; in proposito si richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui la fissazione di precisi limiti temporali entro cui devono essere adottati i provvedimenti definitivi costituisce «applicazione generale…, sia pure non esaustiva, del principio costituzionale di buon andamento dell'amministrazione negli obiettivi di tempestività, pubblicità, partecipazione dell'azione amministrativa, quali valori essenziali in un ordinamento democratico» (cfr. ad es. Corte cost. 23.07.1997, n. 262, in Urbanistica e appalti 1998, 27 con nota di MEZZABARBA; 16.04.2013, n. 70, in Giurisprudenza Costituzionale 2013, 2, 1057 con nota di RESCIGNO);
         m5) la norma viola il principio di ragionevolezza della scelta legislativa di non prevedere alcun limite temporale alla possibilità che il terzo solleciti il potere inibitorio dell’amministrazione, in quanto si omette di disciplinare un elemento indispensabile alla tenuta complessiva del meccanismo semplificatorio introdotto dal legislatore e da quest’ultimo ascritto ai livelli essenziali delle prestazioni garantite su scala nazionale;
      n) sulla decorrenza del termine per impugnare il silenzio dell’Amministrazione, cfr., tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 03.11.2016, n. 4610 (in Foro it., 2017, III, 143, con nota di MIRRA, in Giur. it., 2017, 737, con nota di NICODEMO, in Foro amm., 2016, 2661, e in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 733), secondo cui “In relazione al tempo, non è perfettamente adattabile lo schema dell'azione avverso il silenzio-inadempimento a quella proposta dal terzo nell'ambito della SCIA. L'art. 31 cod. proc. amm. prevede, infatti, che l'azione si propone entro il termine di un anno dalla conclusione del procedimento. Ma in questo caso il ricorrente, essendo titolare dell'interesse legittimo pretensivo all'adozione di un provvedimento favorevole che ha attivato con la sua istanza, è a conoscenza del momento in cui il procedimento si deve concludere e, conseguentemente, di quando inizia a decorrere il termine di un anno. Nel caso della SCIA, invece, il terzo è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'adozione di atti sfavorevoli per il destinatario dell'azione amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza «diretta» dell'andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica”;
      o) sulla individuazione degli elementi costitutivi della segnalazione del terzo avverso la SCIA, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 625, secondo cui “la segnalazione ex art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990 n. 241 deve contenere elementi minimali di identificazione e qualificazione dell'attività della quale si chiede la verifica, in assenza dei quali l'Amministrazione non soltanto non è obbligata ma non dispone neppure degli elementi conoscitivi essenziali per svolgere le proprie verifiche e emanare un provvedimento”;
      p) sulla natura degli strumenti di semplificazione, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.04.2017, n. 1967, secondo cui “la giurisprudenza del Consiglio di Stato, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di cui all'art. 19, comma 6-ter della legge n. 241/1990, ha ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una DIA, atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente privata (cfr. Cons. St., sez. IV, 13.05.2010, n. 2919; 12.03.2009, n. 1474; 19.09.2008, n. 4513); … è evidente la naturale portata retroattiva della norma sancita dal più volte menzionato art. 19, comma 6-ter”;
     q) sulla natura dei termini del procedimento amministrativo si vedano:
         q1) Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2018, n. 5 (in Foro it., 2018, III, 453, con nota di MIRRA, in Giur. it., 2018, 1983, con nota di COMPORTI, e in Vita not., 2018, 706, nonché oggetto della News US, in data 09.05.2018, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui, tra l’altro: l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990, superando per tabulas il diverso orientamento in passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria 15.09.2005, n. 7 (in Foro it., 2006, III, 1, n. SIGISMONDI, in Foro amm.-Cons. Stato, 2005, 2519, in Urbanistica e appalti, 2006, 61, con nota di CLARICH, FONDERICO, in Riv. corte conti, 2005, fasc. 5, 183, in Giur. it., 2006, 1060, in Riv. corte conti, 2005, fasc. 6, 321, in Riv. amm., 2005, 1014, in Danno e resp., 2006, 903, con nota di COVUCCI, in Giust. civ., 2006, I, 1319, con nota di MICARI, in Rass. dir. farmaceutico, 2006, 287, in Riv. giur. edilizia, 2005, I, 1524, e in Rass. avv. Stato, 2005, fasc. 4, 193, con nota di BALDANZA), ha introdotto la risarcibilità (anche) del c.d. danno da mero ritardo che è fattispecie di danno da comportamento, non da provvedimento; la violazione del termine di conclusione sul procedimento di per sé non determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”), ma rappresenta un comportamento scorretto dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e, dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale del privato, ledendo il diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale, eventualmente arrecandogli ingiusti danni patrimoniali, fermo restando l’onere del privato di fornire la prova, oltre che del ritardo e dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità esistente tra la violazione del termine del procedimento e il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non avrebbe altrimenti posto in essere; “nell’ambito del procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e buona fede sussistono, anche prima e a prescindere dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità di configurare una responsabilità precontrattuale da comportamento scorretto nonostante la legittimità dei singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento”;
         q2) circa la inidoneità della violazione dei termini del procedimento, salvo i casi eccezionali e tipici di termini perentori previsti dalla legge, a determinare ex se la illegittimità del provvedimento si veda Cons. Stato, Ad. plen., 25.02.2014, n. 10 (in Foro it., 2014, III, 213, in Giurisdiz. amm., 2013, ant., 640, in Giur. it., 2014, 1179, con nota di GNES, in Urbanistica e appalti, 2014, 830, con nota di FOÀ, in Dir. E pratica amm., 2014, fasc. 6, 65, con nota di D'INCECCO BAYARD DE VOLO, in Nuovo notiziario giur., 2015, 153) e Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2011, n. 6051 (in Foro it., 2012, III, 636);
         q3) a tal proposito in materia di violazione del termine per la stipula del contratto Cons. Stato sez. V, 31.08.2016, n. 3742, ha affermato che “Il termine di sessanta giorni dal momento in cui diviene definitiva l'aggiudicazione dell'appalto, fissato dall'art. 11 comma 9, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 per la stipula del contratto, non ha natura perentoria, né alla sua inosservanza può farsi risalire ex se un'ipotesi di responsabilità precontrattuale ex lege della Pubblica amministrazione, se non in costanza di tutti gli elementi necessari per la sua configurabilità; infatti le conseguenze che derivano in via diretta dall'inutile decorso di detto termine, sono, da un lato, la facoltà dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla stazione appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o recedere dal contratto; dall'altro, il diritto al rimborso delle spese contrattuali documentate, senza alcun indennizzo” (cfr. di recente nello stesso senso Cons. Stato, sez. III, 26.03.2018 n. 1882; Tar per il Lazio–Roma, sez. III, 16.12.2016, n. 12544);
      r) sulla impossibilità di ammettere impugnativa diretta della SCIA e della DIA e di configurare un provvedimento silenzioso della pubblica amministrazione, per un’ampia ricostruzione si vedano:
         r1) Cons. Stato, sez. IV, 05.07.2017, n. 3281 (in Foro amm., 2017, 1539), secondo cui, tra l’altro: “In materia di dia (dichiarazione d'inizio attività) e di SCIA (segnalazione certificata d'inizio attività) non è configurabile né la formazione di un provvedimento silenzioso ad opera dell'amministrazione né, conseguentemente, l'impugnativa diretta di atti schiettamente privatistici”; “sottoposti a denuncia di inizio di attività sono gli interventi di ristrutturazione edilizia, ossia quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente; tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti; tali interventi comprendono altresì le addizioni funzionali di nuovi elementi agli organismi edilizi esistenti, che non configurino nuovi organismi edilizi, ivi comprese le pertinenze; non sono invece computate, ai fini dell'applicazione degli indici di fabbricabilità fondiaria e territoriale, le addizioni con le quali si realizzino i servizi igienici, i volumi tecnici e le autorimesse legate da vincolo pertinenziale ad unità immobiliari esistenti all'interno dei perimetri dei centri abitati, nonché il rialzamento del sottotetto, al fine di renderlo abitabile”;
         r2) Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2017, n. 2120, secondo cui, tra l’altro “in funzione della disciplina di cui all’art. 19 della legge n. 241/1990 applicabile ratione temporis deve rammentarsi che il comma 3, nel testo vigente al momento dell’emanazione della determinazione dirigenziale, stabiliva (non a caso richiamando le pertinenti disposizioni del t.u. n. 445 del 2000 fra cui in particolare l’art. 75), che l’amministrazione “…, può sempre e in ogni tempo adottare i provvedimenti di cui al primo periodo…”, ossia i “motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa” in caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci;
      s) sulla SCIA e DIA come aspetti centrali della semplificazione burocratica da considerarsi un LEA, si veda Corte cost., 09.05.2014, n. 121 (in Foro it., 2014, I, 2703, in Giur. costit., 2014, 2118, e in Riv. giur. edilizia, 2014, I, 733), secondo cui:
         s1) “è infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 49, comma 4-ter, d.l. 31.05.2010 n. 78, conv., con modif., dall'art. 1, 1º comma, l. 30.07.2010 n. 122, nella parte in cui qualifica la disciplina sulla «segnalazione certificata di inizio attività» (SCIA), come attinente alla tutela della concorrenza, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. e), cost., ne ribadisce la qualificazione come livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, ai sensi dell'art. 117, 2º comma, lett. m), cost., e dispone che la disciplina sulla SCIA sostituisca direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 31.05.2010 n. 78, quella della «dichiarazione di inizio attività» (dia), recata da ogni normativa statale e regionale, in riferimento all'art. 8, 1º comma, n. 5, e all'art. 9 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nonché all'art. 2 d.lgs. 16.03.1992 n. 266”;
         s2) la sostituzione della DIA con la SCIA disposta dal legislatore statale non arreca un vulnus alle competenze dalla provincia autonoma di Bolzano;
         s3) l’affidamento in via esclusiva alla competenza legislativa statale della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni è previsto in relazione ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e si collega al fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In questo quadro, si deve ricordare che l’attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata disposizione costituzionale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto;
         s4) il titolo di legittimazione dell’intervento statale è invocabile in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa statale definisca il livello essenziale di erogazione e con esso è stato attribuito al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di un’adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto. Si tratta non tanto di una materia in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, in relazione alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare in modo generalizzato sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle;
         s5) la disciplina della SCIA ben si presta ad essere ricondotta al parametro di cui all’art. 117, 2° comma, lett. m), Cost. “Tale parametro permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione”;
      t) per una recente ricostruzione e casistica dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 e fattispecie speciali si vedano:
         t1) Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2018, n. 4374 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “in ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività della legge, il termine di diciotto mesi per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non si applica ai provvedimenti di annullamento d'ufficio adottati prima dell'entrata in vigore di tale legge (28.08.2015)”; “la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato (configurabile anche in presenza del solo silenzio su circostanze rilevanti) comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio introdotto, nell'art. 21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, e perciò senza neppure richiedere alcun accertamento processuale penale”; “il termine «ragionevole» per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio decorre soltanto dal momento in cui l'amministrazione sia venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell'atto”; “nel caso di illegittimità del provvedimento determinata dalla non veritiera prospettazione da parte del privato di circostanze di fatto o di diritto, la motivazione dell'annullamento d'ufficio è soddisfatta dal documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”;
         t2) Cons. Stato, sez. V, 27.06.2018, n. 3940 (in Foro it., 2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “le modifiche inserite nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, e che hanno comportato l'introduzione di un termine per l'annullamento d'ufficio, vanno interpretate considerando che un'aspettativa meritevole di tutela rispetto all'esercizio del potere di annullamento d'ufficio non è configurabile quando l'amministrazione sia stata indotta in errore da un comportamento doloso del privato”; “le modifiche introdotte nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124 vanno interpretate nel senso che la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio introdotto, senza la necessità di alcun accertamento processuale penale”; “la falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità dei presupposti del provvedimento non sia imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all'amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato (la sentenza precisa che in tal caso, non essendo applicabile un termine perentorio, l'amministrazione dovrà esclusivamente applicare un canone di ragionevolezza)”;
         t3) Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8 (in Foro it., 2018, III, 6, in Foro amm., 2017, 1980, in Giornale dir. amm., 2018, 67 (m), con nota di TRIMARCHI, e in Urbanistica e appalti, 2018, 45, con nota di MANFREDI, nonché oggetto della News Us in data 23.10.2017, alla quale si rinvia per ulteriori approfondimenti), secondo cui: “nella vigenza dell'art. 21-nonies l. 241/1990, nel testo introdotto dalla l. 15/2005, l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole”; “ai fini dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte”; “nella vigenza dell'art. 27-nonies l. 241 del 1990 -per come introdotto dalla l. n. 15 del 2005- l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
   i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di ritiro;
   ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione risulterà attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il
richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell'esercizio del ius poenitendi);
   iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte
”;
      u) per la natura giuridica e gli strumenti di tutela dei terzi in caso di DIA anteriormente all’intervento del legislatore del 2011 si veda Cons. Stato, Ad. plen., 29.07.2011, n. 15 (in Foro it., 2011, III, 501, con nota di TRAVI, in Urbanistica e appalti, 2011, 1185, con nota di LAMBERTI, in Guida al dir., 2011, fasc. 37, 93 (m), con nota di TOSCHEI, in Riv. giur. edilizia, 2011, I, 513, con nota di SANDULLI, in Giurisdiz. amm., 2011, I, 1063, con nota di ANCORA, in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2309, in Giur. it., 2012, 934 (m), con nota di BOSCOLO, in Giur. it., 2012, 433 (m), con nota di MERUSI, in Dir. proc. amm., 2012, 171, con nota di FERRARA, BERTONAZZI, in Giornale dir. amm., 2012, 153 (m), con nota di GIARDINO, e in Giust. civ., 2012, I, 1357, con nota di COLALEO) secondo cui: “la denuncia di inizio attività (analogamente alla dichiarazione di inizio attività e alla segnalazione certificata di inizio attività) costituisce un atto privato; il silenzio mantenuto dall'amministrazione che avrebbe dovuto inibire l'attività del privato si configura come un provvedimento tacito, nei cui confronti il terzo può proporre azione di annullamento nell'ordinario termine decadenziale e contestualmente azione di adempimento per imporre l'adozione del provvedimento inibitorio”; “ove la denuncia di inizio attività (o, analogamente, la dichiarazione di inizio attività o la segnalazione certificata di inizio attività) produca effetti legittimanti prima della scadenza del termine per l'esercizio del potere inibitorio, il terzo che si ritenga leso può proporre avanti al giudice amministrativo un'azione di accertamento, al fine di ottenere misure cautelari; una volta decorso il termine per l'esercizio del potere inibitorio, tale azione si converte automaticamente in domanda di annullamento del provvedimento tacito negativo” (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza non definitiva 22.01.2019 n. 12 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale l’azione esperibile dal terzo leso dalla Scia.
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Scia – Verifica – Richieste dal terzo – Art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990 – Terzi lesi da Scia – Azioni esperibili – Azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3 c.p.a. – Violazione artt. 3, 24, 103 e 113 Cost. - Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., nella parte in cui consente ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di esperire “esclusivamente” l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a, e, ciò, soltanto dopo aver sollecitato l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar di condividere le perplessità espresse dal Tar Toscana, nell’ordinanza n. 667 del 2017, con cui è stato rimesso alla Corte costituzionale il vaglio di legittimità dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, per assenza di previsione espressa di un termine entro il quale il terzo deve sollecitare il potere inibitorio dell’amministrazione.
Ha aggiunto che però il problema non riguarda soltanto il termine per sollecitare il potere dell'amministrazione, come condivisibilmente rilevato dall'ordinanza appena citata, ma anche il tipo di procedimento attivato dal terzo (ovvero le cd. verifiche). Quanto al termine, non vi è nessuna soluzione, tra quelle proposte dalla giurisprudenza che si è occupata della questione, fondata su di un adeguato riferimento normativo.
In particolare, sono da ritenersi non idonee a risolvere la problematica de qua: la tesi secondo cui il termine concesso al controinteressato per presentare l’istanza sollecitatoria sarebbe lo stesso che la norma assegna all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio ufficioso, in quanto il dies a quo di tale termine coincide con il “ricevimento della segnalazione” da parte dell’amministrazione, fase cui è del tutto estraneo il terzo; la tesi che sostiene che la facoltà del controinteressato di proporre l’istanza inibitoria ex art. 19 comma 6-ter sarebbe soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni (prendendo in prestito il termine processuale di impugnazione), in quanto vi è diversità ontologica tra la disciplina invocata (termine per le proposizione di atto “processuale”) e l’ambito di attività in esame (ricerca di termine per attivazione del privato in sede “amministrativa”); la tesi che richiama il termine annuale di cui all’art. 31, comma 2, c.p.a., in quanto anche in questo caso si confonde un termine processuale (quello dell’art. 31 c.p.a.) con un termine amministrativo (quello per la sollecitazione delle verifiche da parte della p.a.).
Quanto alla sollecitazione del potere di verifica, risulta erronea, ad avviso del Tar, la tesi secondo cui si tratterebbe dell'impulso all’avvio di un procedimento analogo a quello inibitorio di cui all’art. 19, comma 3, l. n. 241 del 1990, per due ordini di motivi.
Invero, da un lato, l'amministrazione beneficerebbe inammissibilmente di una sorta di rimessione nei termini rispetto al procedimento attivato sulla base della segnalazione certificata, il cui limite temporale entro il quale intervenire con il potere repressivo (trenta giorni) è stato nel frattempo definitivamente superato.
Dall'altro, viene introdotto in via pretoria, seppure per apprezzabili motivi, un correttivo normativo per permettere al terzo controinteressato di sostituirsi all'amministrazione, tramite l’utilizzo in via mediata di un potere di azione non consentito al privato dall'ordinamento, in luogo dell'ordinario regime di impugnazione di un provvedimento lesivo.
La lettura del dato normativo testuale –e della ratio legis ad esso sottesa– induce invece ad arrivare ad altra ricostruzione del nuovo sistema di tutela del terzo attualmente vigente in materia di SCIA edilizia.
Innanzitutto, è pacifico ormai, a seguito dell’intervento esplicito del legislatore -che ha aderito alla tesi già in precedenza sposata sul punto dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato-, che la segnalazione certificata non è un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge.
Si tratta sostanzialmente di attività libera, sulla quale però l’amministrazione, in virtù dell’interesse tutelato, conserva un potere di controllo più penetrante di quello ordinariamente esercitato sulle libertà garantite ai privati.
Risulta connaturata a tale nuova prospettazione giuridica una correlativa rimodulazione della tutela dei terzi dinanzi al Giudice amministrativo; l’assenza di un provvedimento amministrativo, con il residuare di un mero potere di controllo ex post da parte dell’ente pubblico, condiziona espressamente la possibilità per i privati di paralizzare l’attività di altri privati radicando una controversia concernente l'esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, in aggiunta o in luogo degli ordinari rimedi esperibili dinanzi al Giudice ordinario a tutela della proprietà e del possesso.
Secondo la ratio legis, dunque, le iniziative spettanti ai terzi interessati si riflettono interamente nei poteri esercitabili dall’amministrazione: se entro trenta giorni dal deposito della SCIA edilizia l’amministrazione non si è attivata, i terzi hanno azione, entro i termini di prescrizione ordinaria, per l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di verificare e manifestare (tramite provvedimento espresso) la sussistenza o meno delle condizioni previste dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, una volta che il Giudice amministrativo abbia accertato l’astratta fondatezza delle censure tecniche avanzate dagli interessati.
Ne deriverà, a seconda delle conclusioni raggiunte ad esito della nuova verifica operata dall’amministrazione, l’adozione di un provvedimento che neghi motivatamente la possibilità di intervento in autotutela, oppure, al contrario, l’adozione di un provvedimento che ordini la rimozione degli effetti dannosi dell’attività edilizia intrapresa o diversa sanzione prevista dalle norme di settore.
Sotto altro profilo, il Tar osserva che la disposizione di cui al comma 6-ter dell’art. 19, l. n. 241 del 1990 introduce per legge un’ipotesi di inerzia sanzionabile della p.a., ai sensi dell'art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.; si rientra cioè in uno degli "altri casi previsti dalla legge”, in cui “chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere” (art. 31, comma 1, sopra citato).
E’ stato cioè previsto un caso di obbligatorietà della risposta pubblica rispetto alla sollecitazione dei poteri di autotutela da parte del privato.
L’obbligo di provvedere, peraltro, una volta accertato, non può che portare ad un esercizio del potere conforme alle norme che regolano tale esercizio.
Se, pertanto, come nel caso di specie, sia decorso, alla data della sollecitazione del potere di verifica da parte del terzo, il termine entro il quale l’amministrazione avrebbe potuto vietare la prosecuzione dell’attività edilizia intrapresa e ordinare la rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, l’accertamento dell’obbligo di provvedere non può che costituire il presupposto per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Correlativamente, il Giudice non può conformare l’amministrazione ad una specifica condotta, né tanto meno condannarla all’emissione di un determinato provvedimento, dovendosi limitare ad accertare la sussistenza dell’inerzia e la necessità di un riesame, alla luce di un vaglio necessario e preliminare sulla fondatezza delle doglianze esposte dall’interessato, e in applicazione, per espresso rinvio legislativo, e seppure con i temperamenti del caso, dei primi tre commi dell’art. 31 c.p.a..
In altri termini, l’azione proposta dai terzi non cambia natura (azione di accertamento dell’obbligo di provvedere), qualunque sia il termine entro il quale viene proposta, e salvi gli effetti della prescrizione, ma a modificarsi sono i poteri successivamente esercitabili dall’amministrazione, e, prima ancora, i limiti di esercizio del potere di accertamento giurisdizionale.
D’altra parte, significativa conferma della correttezza della ricostruzione appena operata, è data proprio dalla circostanza che il legislatore abbia espressamente riconosciuto ai terzi interessati “esclusivamente” la possibilità di esperire l’azione di accertamento, con preclusione, dunque, non solo dell’accesso all’azione di annullamento, ma anche della possibilità di proporre l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento, ex art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a..
Invero, se il procedimento attivato dal terzo leso da una SCIA illegittima fosse sempre e solo quello inibitorio e non quello di autotutela, sarebbe del tutto incomprensibile l’eliminazione dallo strumentario processuale a disposizione del ricorrente dell’unica azione che, una volta che non residuino margini di discrezionalità in favore dell’amministrazione procedente (come normalmente accade a seguito di riconoscimento giudiziale della doverosità dell’intervento repressivo), gli permetterebbe una tutela piena ed immediata.
Sotto altro, concorrente profilo, non è seriamente ipotizzabile uno scenario di tutela tanto asimmetrico da configurare da un lato l’eliminazione di ogni discrezionalità nella successiva esplicazione dei propri poteri da parte dell’amministrazione (intendendo il richiamo al comma 3 dell’art. 31 c.p.a. come limitato al potere giudiziale di accertamento della fondatezza della pretesa, sempre e comunque), e dall’altro l’impossibilità per il ricorrente di ottenere anche una sentenza di condanna al rilascio del provvedimento richiesto.
E’ evidente, invece, che il richiamo esplicito al terzo comma dell’art. 31 c.p.a. costringe il Giudice ad interrogarsi, prima di procedere all’accertamento o meno della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, su quali sia la natura (discrezionale o vincolata) del potere ancora esercitabile dall’amministrazione.
In definitiva, il nuovo sistema di tutela del terzo leso da una SCIA edilizia illegittima è stato consapevolmente costruito nei termini di una ridotta forza processuale del controinteressato, e non può essere interpretato in modo diverso, e costituzionalmente orientato, se non tramite l'inammissibile costruzione pretoria di un regime impugnatorio sprovvisto di base normativa.
Questa soluzione, peraltro:
   - da un lato ha il pregio di depotenziare i dubbi di incostituzionalità sollevati dal Tar Toscana con riferimento alla mancata previsione di un termine decadenziale per l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo –contemporaneamente evitando all’interprete la necessità di “forzare” altri dati normativi, previsti per differenti fattispecie, al fine di individuare il suddetto termine-, in quanto la sollecitazione “privata” delle verifiche non effettuate può avvenire in ogni tempo dal deposito della SCIA, ma l’intervento repressivo dell’amministrazione, ad eccezione degli abusi edilizi più gravi, sanzionati in via autonoma dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 (secondo quanto condivisibilmente affermato dall’Adunanza plenaria n. 9 del Consiglio di Stato), e non legittimati dalla SCIA -la cui portata effettuale deve intendersi limitata ai soli interventi segnalati (cfr. al riguardo, da ultimo, Tar Napoli, sent. n. 914 del 2018)-, deve sottostare a rigorosi limiti temporali e motivazionali, ex art. 21-nonies l. n. 241 del 1990; non si corre il rischio, così, di lasciare che il privato che avvia un’attività edilizia sottoposta a mera segnalazione certificata resti soggetto per un tempo indeterminato e a priori indefinibile ad un intervento repressivo dell’amministrazione;
   - dall’altro, espone la nuova disciplina prevista dall’art. 19 della L. n. 241 del 1990 ad un dubbio di costituzionalità, nella misura in cui la stessa risulta non idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del terzo.
Sotto questo profilo, infatti, il Tar osserva che il terzo ha innanzitutto l'onere, prima di agire in giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla P.A., così subendo una procrastinazione del momento dell’accesso alla tutela giurisdizionale, e, quindi, un’incisiva limitazione dell’effettività della tutela giurisdizionale in spregio ai principi di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.
Inoltre, e soprattutto, l'istanza è diretta ad attivare –qualora, come normalmente accade, siano già decorsi trenta giorni dall’invio della segnalazione, di cui ovviamente il terzo non ha diretta conoscenza- non il potere inibitorio di natura vincolata (che si estingue decorso il termine perentorio di legge), ma il c.d. potere di autotutela cui fa riferimento l’art. 19, comma 4, l. n. 241 del 1990. Tale potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale in quanto postula la ponderazione comparativa, da parte dell’amministrazione, degli interessi in conflitto, con precipuo riferimento al riscontro di un interesse pubblico concreto e attuale che non coincide con il mero ripristino della legalità violata.
Con il corollario, come detto, che nel giudizio conseguente al silenzio o al rifiuto di intervento dell’amministrazione, il giudice amministrativo non può che limitarsi ad una mera declaratoria dell'obbligo di provvedere, senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare. Evidente risulta, allora, la compressione dell’interesse del terzo ad ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale.
In definitiva, se la lesione dell’interesse pretensivo del terzo è ascrivibile alla mancata adozione di un provvedimento inibitorio doveroso, è incongruo che la tutela debba riguardare l'esercizio del diverso e più condizionato potere discrezionale di autotutela. Ne consegue che non è manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost,, nella parte in cui consente ai terzi lesi da una SCIA edilizia illegittima di esperire “esclusivamente” l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 c.p.a, e, ciò, soltanto dopo aver sollecitato l'esercizio delle verifiche spettanti all'amministrazione.
Per una tutela piena ed effettiva della loro posizione giuridica, infatti, i terzi interessati dovrebbero avere la possibilità di azionare gli ordinari rimedi giurisdizionali azionabili avverso le iniziative edilizie illecite altrui, qualunque sia la modalità di acquisizione del titolo legittimante, senza essere costretti a dovere richiedere, prima di agire, l’intermediazione dell’autorità pubblica, e senza essere soggetti, dopo avere agito in giudizio -per il mero decorso del tempo concesso all’amministrazione per attivare il potere inibitorio- ai forti limiti di tutela giurisdizionale derivanti dall’intermediazione aleatoria dell’esercizio del potere discrezionale di autotutela.
Al contrario, come visto, è evidente che il legislatore del 2011, introducendo il comma 6-ter in coda all'art. 19, ha consapevolmente precluso al terzo interessato l'unica possibilità di intervenire, tramite declaratoria giudiziale di illegittimità, sulla conclusione negativa del procedimento di controllo dei presupposti avviato dall'amministrazione a seguito della segnalazione certificata.
Tale possibilità di tutela era stata enucleata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 2011, proprio al fine di non esporre il sistema ai profili di incostituzionalità in sede odierna dedotti, mediante l'assimilazione ad un provvedimento negativo per silentium della condotta di inerzia mantenuta dall'amministrazione allo spirare del termine previsto dalla legge per l'esercizio del potere inibitorio.
Ma la modifica legislativa, come visto, ha da un lato impedito al terzo la possibilità di esperire un'azione di natura impugnatoria o di condanna (gli interessati possono agire soltanto ex art. 31, comma 1, 2 e 3, c.p.a.), dall'altro, mediante il richiamo espresso di tutti e tre tali commi, ha limitato la possibilità del Giudice di accertare la fondatezza della pretesa ai soli casi di attività vincolata.
Tuttavia, quando il termine per l'esercizio del potere inibitorio è nel frattempo decorso -come avvenuto nel caso oggetto della presente controversia-, l'obbligo accertabile in capo all'amministrazione è soltanto quello previsto dal comma 4 dell'art. 19 della legge sul procedimento amministrativo, secondo cui “l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'art. 21-nonies”.
Conseguentemente, il Giudice adito non può predeterminare il contenuto del successivo provvedimento dell'amministrazione, con indubbia e inevitabile lesione del diritto del terzo ad una piena ed effettiva tutela giurisdizionale.
In altri termini, il legislatore ha congegnato un sistema tale da comprimere in giudizio l'esplicazione di tutte le facoltà giurisdizionali normalmente connesse alla posizione soggettiva di interesse legittimo pretensivo del soggetto leso da un comportamento illegittimo dell'amministrazione, escludendo la possibilità, tramite il rinvio ad un successivo esercizio del potere sempre e comunque discrezionale, che la violazione di tale interesse legittimo ottenga un'efficace e satisfattiva riparazione già dinanzi al Giudice adito (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza non definitiva 22.01.2019 n. 12 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Fase istruttoria nel procedimento di approvazione di un piano attuativo.
L’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, all’interno del procedimento che sfocia poi nell’approvazione del Piano attuativo, distingue un autonomo sub-procedimento istruttorio, il cui esito positivo condiziona l’avvio delle successive fasi, di adozione e di approvazione del piano.
Nella fase istruttoria della proposta di Piano attuativo l’Amministrazione deve, quindi, procedere a colmare le eventuali carenze documentali o progettuali, avviando una interlocuzione procedimentale con i soggetti privati interessati e, quindi, perseguendo l’obiettivo di rendere possibile l’attuazione della specifica previsione urbanistica in maniera conforme a quanto previsto dallo strumento pianificatorio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2019 n. 88 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità del diniego comunale, in quanto prima della sua adozione non sarebbe stato affatto instaurato un contraddittorio procedimentale al fine di acquisire gli elementi asseritamente carenti e di integrare in tal modo l’istruttoria, nel rispetto del disposto di cui all’art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, dei principi di buona amministrazione e di buona fede nello svolgimento delle trattative contrattuali; inoltre, si assume anche il notevole ritardo nell’adozione del provvedimento finale rispetto al termine legale massimo individuato in novanta giorni.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 14, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005 stabilisce che “i piani attuativi e loro varianti, conformi alle previsioni degli atti di PGT, sono adottati dalla giunta comunale; nel caso si tratti di piani di iniziativa privata, l’adozione interviene entro novanta giorni dalla presentazione al comune del piano attuativo o della variante. Il predetto termine di novanta giorni può essere interrotto una sola volta qualora gli uffici comunali deputati all’istruttoria richiedano, con provvedimento espresso da assumere nel termine di trenta giorni dalla data di presentazione del piano attuativo, le integrazioni documentali, ovvero le modifiche progettuali ritenute necessarie per l’adeguamento dello stesso alle prescrizioni normative vigenti; in questo caso, il termine di novanta giorni di cui al presente comma decorre nuovamente e per intero dalla data di presentazione della documentazione integrativa, ovvero delle modifiche progettuali richieste; della conclusione della fase istruttoria, indipendentemente dall'esito della medesima, è data comunicazione da parte dei competenti uffici comunali al soggetto proponente. La conclusione in senso negativo della fase istruttoria pone termine al procedimento di adozione dei piani attuativi e loro varianti”.
Dal tenore complessivo della predetta disposizione emerge che
l’Amministrazione in fase di istruttoria della proposta di Piano attuativo debba procedere a colmare le eventuali carenze documentali o progettuali, avviando una interlocuzione procedimentale con i soggetti privati interessati e, quindi, perseguendo l’obiettivo di rendere possibile l’attuazione della specifica previsione urbanistica in maniera conforme a quanto previsto dallo strumento pianificatorio (il comma 1 individua una fase sub procedimentale autonoma di natura istruttoria secondo Consiglio di Stato, IV, 30.05.2013, n. 2968).
In tal senso si può richiamare anche la giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto quali principi fondamentali della materia “governo del territorio”, e quindi inderogabili da parte delle leggi regionali, i contenuti di cui all’art. 24 della legge n. 47 del 1985 –riguardanti, tra l’altro, le norme regionali disciplinanti l’approvazione degli strumenti attuativi di strumenti urbanistici generali–, secondo cui non è possibile depotenziare le forme di pubblicità e di partecipazione dei soggetti pubblici e privati alla predisposizione degli strumenti attuativi degli atti di pianificazione urbanistica generale (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 272 del 14.11.2013).
Anche questa Sezione ha ritenuto che il citato art. 14 della legge regionale n. 12 del 2005, all’interno del procedimento che sfocia poi nell’approvazione del Piano attuativo, distingua un autonomo sub-procedimento istruttorio, il cui esito positivo condiziona l’avvio delle successive fasi, di adozione e di approvazione del piano (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 18.07.2017, n. 1645; 04.10.2016, n. 1804; 10.12.2012, n. 2969).
Nella fattispecie oggetto di scrutinio, l’Amministrazione, nello svolgimento di un’attività connotata da un indubbio tasso di discrezionalità, non ha segnalato in sede procedimentale e prima della predisposizione dell’atto finale negativo alle parti private proponenti né le rilevate carenze istruttorie, né le difformità della proposta rispetto alle prescrizioni contenute nella Scheda d’ambito, contravvenendo in maniera evidente alla normativa ed ai principi in precedenza richiamati e frustrando il diritto di partecipazione delle società istanti al procedimento istruttorio; in tal modo si è impedito alle stesse di poter esporre i propri rilievi o anche persino di emendare i vizi rilevati in sede di esame dagli Uffici (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 13.12.2016, n. 2353).
Ciò appare tanto più rilevante, oltre che in ragione degli evidenziati pregressi contatti intervenuti tra le parti private e l’Amministrazione allo scopo di predisporre la proposta (cfr. punto 5 del ricorso, come chiarito anche in sede di formulazione della richiesta istruttoria: cfr. memoria depositata in giudizio dalla difesa delle ricorrenti il 25.07.2018, pagg. 9-11), soprattutto avuto riguardo alla non ostatività assoluta dei rilievi che hanno indotto l’Amministrazione a respingere la citata proposta.
4.2. In ragione delle suesposte considerazioni, la doglianza deve essere accolta.
5. La fondatezza della predetta censura, avente carattere assorbente, determina l’accoglimento del ricorso e l’annullamento del provvedimento del Dirigente dell’Area Governo del Territorio, Settore Edilizia Privata e Urbanistica del Comune di Desio, prot. 40900/2017 del 16.10.2017, recante il diniego del progetto di Piano attuativo relativo all’Ambito ARU_P02, da cui discende l’obbligo per il Comune di riattivare il procedimento istruttorio per la verifica della accoglibilità della proposta formulata dalle società ricorrenti.

EDILIZIA PRIVATA: Usufruttuario e legittimazione al rilascio del permesso di costruire - Natura del rapporto "qualificato" che intercorre tra usufruttuario e l'immobile - Giurisprudenza.
La particolare natura del rapporto "qualificato" che intercorre tra usufruttuario e l'immobile induce la stessa giurisprudenza amministrativa a riconoscere all'usufruttuario la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che "abbiano titolo per richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo (TAR Campania Napoli Sez. VIII, sentenza 07.03.2011, n. 1318) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Responsabile dell'abuso edilizio - Proprietario non committente - Natura indiziaria della compartecipazione.
In tema di reati edilizi, l'individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili, ad esempio, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione (nella specie proprio in quanto usufruttuario), i rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario e la successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate, come in effetti risulta nella vicenda processuale qui esaminata (Cass. Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014 - dep. 15/12/2014, Langella e altro; Sez. 3, n. 33487 del 05/07/2006 - dep. 05/10/2006, Laforè) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Premesso che affinché sia necessaria l'autorizzazione paesaggistica è sufficiente un vulnus anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è necessaria per le opere interne, che non sono neppure astrattamente idonee a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede ricordare come non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo.
Invero, è stato affermato:
"Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità"; detto principio è enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze".
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7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa, peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è necessaria per le opere interne, che non sono neppure astrattamente idonee a pregiudicare il bene paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede ricordare come non è prospettabile una valutazione atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di realizzazione di una determinata complessiva opera, risultante priva di titolo (cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza 29.05.2018 n. 3545: "
Ne consegue che non è ammissibile una loro considerazione astratta ed atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto divenute parti di un più ampio quadro di illecito sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo regime giuridico di illegittimità"; detto principio è enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e separatamente come pertinenze: Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo, consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una valutazione unitaria, è evidente che dette opere comportassero la trasformazione permanente del suolo inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380 del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto, sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio". Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e), la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un superamento della "soglia" indicata dall'art. 181, comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita alla piscina (che, considerate le sue dimensioni, determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con superficie tutt'altro che modesta), conducevano necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di appello, essendo pacifico che anche la realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria (v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep. 22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n. 1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che espressamente afferma come la realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi come intervento di nuova costruzione non suscettibile di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n. 42/2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913).

EDILIZIA PRIVATA: E' pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il reato edilizio di cui all'art. 20 l. 28.02.1985, n. 47 può essere addebitato solo a chi effettua le opere o a chi le commissiona, con esclusione dell'addebito al nudo proprietario perché non averne impedito il mutamento, non avendone l'obbligo ai sensi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen.: tale obbligo, diversamente, può ben far capo all'usufruttuario.
Del resto,
ciò si giustifica in considerazione della particolare natura del rapporto "qualificato" che intercorre tra questi e l'immobile che, per tale ragione, induce la stessa giurisprudenza amministrativa a riconoscere all'usufruttuario la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che "abbiano titolo per richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo.
A ciò peraltro va aggiunto che
in tema di reati edilizi, l'individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili, ad esempio, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione (nella specie proprio in quanto usufruttuario), i rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario e la successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate, come in effetti risulta nella vicenda processuale qui esaminata.
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10. Può quindi procedersi nell'esame del terzo motivo, con cui si contesta il coinvolgimento dell'imputato rispetto ai fatti ascrittigli, attesa la mancanza di prove in tal senso.
Sul punto, la Corte di appello ha ritenuto l'imputato colpevole per il fatto di essere l'usufruttuario dell'immobile su cui insistevano le opere abusive, e pertanto di avere un interesse alle relative edificazioni, a prescindere da eventuali ricorrenti responsabilità del figlio An..
Trattasi di motivazione del tutto immune dai denunciati vizi, atteso che è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che il reato edilizio di cui all'art. 20 l. 28.02.1985, n. 47 può essere addebitato solo a chi effettua le opere o a chi le commissiona, con esclusione dell'addebito al nudo proprietario perché non averne impedito il mutamento, non avendone l'obbligo ai sensi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen.: tale obbligo, diversamente, può ben far capo all'usufruttuario (Sez. 3, n. 8858 del 20/06/1996 - dep. 02/10/1996, Carli e altro, Rv. 206413).
Del resto, ciò si giustifica in considerazione della particolare natura del rapporto "qualificato" che intercorre tra questi e l'immobile che, per tale ragione, induce la stessa giurisprudenza amministrativa a riconoscere all'usufruttuario la legittimazione al rilascio del permesso di costruire dal momento che l'art. 11 del d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al proprietario anche coloro che "abbiano titolo per richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una relazione qualificata con il bene medesimo (v., in termini, TAR Campania Napoli Sez. VIII, sentenza 07.03.2011, n. 1318).
A ciò peraltro va aggiunto che in tema di reati edilizi, l'individuazione del proprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, desumibili, ad esempio, dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione (nella specie proprio in quanto usufruttuario), i rapporti di parentela o affinità tra terzo e proprietario e la successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate, come in effetti risulta nella vicenda processuale qui esaminata (tra le tante: Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014 - dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 33487 del 05/07/2006 - dep. 05/10/2006, Laforè, Rv. 235124).
Trattasi di principio che, seppure riferito al soggetto che riveste la qualità di proprietario non committente, si presta ad essere applicato anche alla figura dell'usufruttuario non committente.
Ne discende, pertanto, che l'eccezione difensiva, secondo cui, in difetto di ulteriori elementi oltre alla qualità di usufruttuario, non sarebbe stato possibile pervenire a giudizio di condanna, tenuto conto che l'opera la parte destinata ad uso abitativo era in uso esclusivo al figlio dell'imputato, Al., è evidentemente funzionale a richiedere a questa Corte di operare una valutazione di merito, ossia quella di verificare se gli elementi emersi in sede istruttoria fossero o meno idonei a sorreggere un giudizio di responsabilità nei confronti dell'imputato medesimo, operazione, questa, non consentita in sede di legittimità in quanto esula dall'ambito cognitivo di questa Corte, chiamata a valutare le la motivazione della Corte territoriali sia congrua e logica dal punto di vista argornentativo, valutazione cui può darsi positivo riscontro
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.01.2019 n. 1913).

EDILIZIA PRIVATA: In relazione all’eventuale presentazione dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 che renderebbe inefficace l’ordinanza di demolizione gravata, deve rilevarsi che:
   - la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza;
   - all’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata;
   - di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
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In relazione all’eventuale presentazione dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 che renderebbe inefficace l’ordinanza di demolizione gravata, rileva il Collegio, che la “validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione dell’istanza ex art. 36 cit. determina inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica vigente, dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso sia al momento della presentazione della domanda, con conseguente venir meno dell’originario carattere abusivo dell’opera realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso
” (cfr. in questo senso, TAR, Campania Napoli, sez. II, 14.09.2009, n. 4961 e C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 16.01.2019 n. 234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Se è vero che l'art. 3, d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che le informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda (profilo soggettivo), senza necessità, in deroga alla disciplina generale sull'accesso ai documenti amministrativi, di dimostrare un suo particolare e qualificato interesse, è del pari vero (profilo oggettivo) che l’istanza non deve essere del tutto generica, tale da aggravare oltremodo –a causa della mole di informazioni avanzate- il lavoro degli organi amministrativi.
Sul punto la giurisprudenza ha precisato che: “sebbene l'accesso all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno specifico interesse –che è da considerare in re ipsa per ciascun essere umano o ente che lo rappresenti o ne sia emanazione, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005– la richiesta non solo non deve essere formulata in termini eccessivamente generici, per quanto deve essere specificamente individuata con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori …quali le sostanze, l'energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti…; e ancora che “l’istanza non può essere proposta a fini genericamente ispettivi; essa può consistere “anche in una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, a condizione che questo sia specificato, diversamente la richiesta si risolverebbe in “un mero sindacato ispettivo sull’attività del Comune”.
Al fine di evitare forme di controllo sistematico e generalizzato sull’attività amministrativa, la latitudine del riferimento alle misure amministrative è stata dunque temperata dalla necessità che, per integrare propriamente un’informazione ambientale, l’attività amministrativa incida concretamente, in positivo (tutelandoli) o in negativo (compromettendoli) sugli elementi o sui fattori ambientali come individuati ai nn. 1 e 2 dell’art. 2 d.lgs. n. 195/2005.
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... per l'annullamento del silenzio-diniego formatosi in data 15.07.2018 sull’istanza di accesso ambientale ex art. 3 D.vo 195/2005, inviata alla ASL Frosinone in data 15.06.2018;
...
Considerato che la ricorrente rappresenta:
   - di essere un’associazione di promozione sociale iscritta nel registro regionale delle associazioni;
   - che l'art. 3 D.lvo 195/2005 stabilisce che la P.A. è tenuta a rendere disponibile a chiunque ne faccia richiesta anche senza che venga dichiarato interesse le informazioni ambientali detenute;
   - di avere, in ogni caso, un interesse qualificato avendo quale oggetto statutario la tutela dell'ambiente e della sua salubrità;
   - che le informazioni richieste dall'istante ricadono nella fattispecie prevista dall'art. 2, lett. a), n. 1 e n. 6, del D.lvo 195/2005, riguardando i dati ambientali e lo stato della salute e della sicurezza umana nel Comune di Anagni e precisamente in prossimità dell'inceneritore della Ma. Ty. s.p.a.;
Ritenuto, che il ricorso è infondato in quanto:
   - se è vero che l'art. 3, d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che le informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda (profilo soggettivo), senza necessità, in deroga alla disciplina generale sull'accesso ai documenti amministrativi, di dimostrare un suo particolare e qualificato interesse, è del pari vero (profilo oggettivo) che l’istanza non deve essere del tutto generica, tale da aggravare oltremodo –a causa della mole di informazioni avanzate- il lavoro degli organi amministrativi;
   - sul punto la giurisprudenza ha precisato che: “sebbene l'accesso all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la necessità di dimostrare uno specifico interesse –che è da considerare in re ipsa per ciascun essere umano o ente che lo rappresenti o ne sia emanazione, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005– la richiesta non solo non deve essere formulata in termini eccessivamente generici, per quanto deve essere specificamente individuata con riferimento alle matrici ambientali ovvero ai fattori …quali le sostanze, l'energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti… (Cons. St., sez. V, 18.10.2011, n. 5571); e ancora che “l’istanza non può essere proposta a fini genericamente ispettivi; essa può consistere “anche in una generica richiesta di informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, a condizione che questo sia specificato, diversamente la richiesta si risolverebbe in “un mero sindacato ispettivo sull’attività del Comune” (Cons. Stato, 16.02.2007, nn. 668, 669, 670);
   - al fine di evitare forme di controllo sistematico e generalizzato sull’attività amministrativa, la latitudine del riferimento alle misure amministrative è stata dunque temperata dalla necessità che, per integrare propriamente un’informazione ambientale, l’attività amministrativa incida concretamente, in positivo (tutelandoli) o in negativo (compromettendoli) sugli elementi o sui fattori ambientali come individuati ai nn. 1 e 2 dell’art. 2 d.lgs. n. 195/2005;
   - nel caso di specie, l’istanza di accesso proposto dalla ricorrente si presenta affatto generica, sia con riguardo al riferimento ai ”dati epidemiologici e sanitari” perché non sono specificati quali dati si intenda ottenere, sia con riferimento alla “incidenza di malattie” perché non sono indicate le malattie oggetto di indagine, sia ancora con riguardo ai “cittadini che abitano nel raggio di due km dall'impianto inceneritore della società Ma. Ty. s.p.a.”;
Ritenuto, in conclusione, che il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Latina, sentenza 16.01.2019 n. 12 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Danno da ritardo nei procedimenti avviati d’ufficio.
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Risarcimento danni – Danno da ritardo – Procedimento avviato d’ufficio – Configurabilità.
Il danno da ritardo, di cui all’art. 2-bis, l. 07.08.1990, n. 241, può configurarsi anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio (1).
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   (1) Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza plenaria 4 maggio 2018, n. 5 riconosce il danno da ritardo “a prescindere dalla spettanza del bene della vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui incide il provvedimento adottato in violazione del termine di conclusione del procedimento”, ricollegandolo alla “lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione negoziale” e subordinandolo, comunque, a rigorosi oneri di allegazione e prova dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità.
Tale ricostruzione presuppone di regola, come è evidente, la natura imprenditoriale del soggetto che assume essere stato leso dal ritardo dell’amministrazione nell’emanazione del provvedimento (ancorché legittimamente di segno negativo), dovendosi invece ritenere che, negli altri casi, sia indispensabile la prova della spettanza del bene della vita cui si ricollega la posizione di interesse legittimo (Cons. St., sez. IV, 06.11.2018, n. 6266; id., sez. VI, 02.05.2018, n. 2624, id., sez. IV, 17.01.2018, n. 240; id. 23.06.2017, n. 3068; id. 02.11.2016, n. 4580; id. 06.04.2016, n. 1371).
Perché, dunque, possa parlarsi di una condotta della Pubblica amministrazione causativa di danno da ritardo, oltre alla concorrenza degli altri elementi costitutivi della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre che esista, innanzi tutto, un obbligo dell’amministrazione di provvedere entro un termine definito dalla legge a fronte di una fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il provvedimento tardivamente emanato.
E tale obbligo di provvedere sussiste, ai sensi del comma 1 dell’art. 2, l. 07.08.1990, n. 241 laddove vi sia un obbligo di procedere entro un termine definito (“ove il provvedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio...”).
Al contempo, deve ritenersi che –sussistendo i suddetti presupposti– il danno da ritardo, di cui all’art. 2-bis l. n. 241 del 1990, può configurarsi anche nei casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio (e, dunque, vi sia l’obbligo di concluderlo).
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi dell’art. 2-bis, dove solo il secondo di essi (comma 1-bis), si riferisce espressamente al procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione normativa di un termine per l’avvio e per la conclusione del procedimento (supplendo in questo secondo caso, in difetto di previsione, il termine generale di cui all’art. 2, comma 2, l. n. 241 del 1990), sia l’esistenza di una posizione di interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura provvedimentale dell’atto medesimo.
Con riferimento ai procedimenti avviati d’ufficio, ha chiarito la Sezione che la possibilità di configurare il danno da ritardo si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i primi due commi dell’art. 2-bis, dove solo il secondo di essi (comma 1-bis), si riferisce espressamente al procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione normativa di un termine per l’avvio e per la conclusione del procedimento (supplendo in questo secondo caso, in difetto di previsione, il termine generale di cui all’art. 2, comma 2, l. n. 241 del 1990), sia l’esistenza di una posizione di interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura provvedimentale dell’atto medesimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 15.01.2019 n. 358 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Ancora alla CGUE alcuni quesiti interpretativi in tema di società in house.
Il Consiglio di Stato ha nuovamente posto alla Corte di giustizia UE due quesiti interpretativi in tema di affidamento in house, chiedendo in particolare se il diritto europeo osti a una disciplina nazionale che colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto e impedisce, in talune circostanze, ad una pubblica amministrazione di acquisire una quota di partecipazione in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni.
Segnatamente:
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   ● Contratti pubblici – Affidamento in house – Presupposti – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
  
Contratti pubblici – Affidamento in house – Controllo analogo congiunto – Limiti – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
  
Devono essere posti alla Corte di giustizia UE i seguenti quesiti interpretativi:
  
   1) se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n. 50 del 2016) che colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto:
i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché
ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento;
      2) se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate –decreto legislativo n. 175 del 2016-) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipato
(Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 14.01.2019 n. 296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Ancora alla Corte di giustizia l’affidamento in house ex art. 192, comma 2, del Codice dei contratti.
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Contratti della Pubblica amministrazione - In house – Art. 192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio di affidamento subordinato rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
  
Enti pubblici – Partecipazione azionaria in società - Organismo pluriparecipato da altre amministrazioni – Acquisizione di quota di partecipazione – Divieto – Condizioni ex art. 4, comma 1, t.u. n. 175 del 2016 – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
  
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una normativa nazionale (come quella dell’art. 192, comma 2, del ‘Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 50 del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto:
   i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché
   ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento (1).
  
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione se il diritto dell’Unione europea (e in particolare l’art. 12, paragrafo 3 della Direttiva 2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a una disciplina nazionale (come quella dell’art. 4, comma 1, del Testo Unico delle società partecipate, approvato con d.lgs. n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo pluripartecipate (2).
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Analoghe rimessioni sono state disposte dalla sez. V con ordd. 07.01.2019, n. 138 e 14.01.2019, n. 296.
   (1) La Sezione dubita che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea.
In particolare, l’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):
   a) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’ rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti tendenzialmente precluso), cui la società in house invece supplirebbe;
   b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la collettività connessi all’opzione per l’affidamento in house (dimostrazione che non sarà invece necessario fornire in caso di altre forme di affidamento –con particolare riguardo all’affidamento tramite gare di appalto-).
Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
Il restrittivo orientamento evidenziato dalla normativa italiana del 2016 si colloca in continuità con orientamenti analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (sin dall’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008).
Giova ricordare che con sentenza 17.11.2010, n. 325 la Corte costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere “limitazioni dell'affidamento diretto più estese di quelle comunitarie” (per restringere ulteriormente le eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo inderogabile).
La stessa giurisprudenza costituzionale ha ribadito con ulteriori pronunce che l’affidamento in regIme di delegazione interorganica costituisce “un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte cost. 20.03.2013, n. 46).
Si tratta a questo punto di stabilire se questo restrittivo orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con particolare riguardo al principio della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita dall’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull’aggiudicazione dei contratti di concessione).
Ha osservato al riguardo la Sezione che, in tema di acquisizione dei servizi di interesse degli organismi pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui contestuale applicazione può comportare antinomie:
   a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che vincoli di particolare modalità gestionale derivanti dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.: regime di affidamento con gara) rispetto a un'altra (ad es.: regime di internalizzazione ed autoproduzione);
   b) (dall’altro) il principio della piena apertura concorrenziale dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Si osserva che il principio sub b) sembra presentare una valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia, rispetto al principio della libertà nella scelta del modello gestionale).
Infatti, la prima scelta che viene demandata alle amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato.
Se questi sono gli esatti termini entro della questione, e se si considera che l’in house providing è per sua natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione e autoproduzione, risulta che lo stesso in house providingrappresenta non un’eccezione residuale, ma una normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo, che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza.
Insomma, da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti in house (sostanziale forma di autoproduzione) non sembrano posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti con gara; al contrario, sembrano rappresentare una sorte di prius logico rispetto a qualunque scelta dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o esternalizzazione dei servizi di proprio interesse.
In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha chiarito a propria volta che l’ordinamento comunitario non pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza della Grande Sezione del 09.06.2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo della Germania federale, la Corte di giustizia ha chiarito che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche” (nell’occasione, la Corte di giustizia ha richiamato i princìpi già espressi con la sentenza della Terza Sezione del 13.11.2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant).
Si pone a questo punto la questione della conformità fra da un lato i richiamati princìpi e disposizioni del diritto dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non addirittura la prevalenza logica del sistema di autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione) e, dall’altro, le previsioni del diritto nazionale italiano (in particolare, il comma 2 dell’art. 192 del Codice degli appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli affidamenti in house in una posizione subordinata e subvalente e –come detto- li ammettono soltanto in caso di dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale forma di gestione.
Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro comportamento economico, si presume senz’altro che le amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per superare questa presunzione occorre dimostrare che il mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione, non è in concreto capace di corrispondere appieno all’esigenza di approvvigionamento.
Le restrittive condizioni poste dal diritto italiano potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta priorità sistematica al principio di messa in concorrenza rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così, ad avviso della Sezione, non pare essere.
Occorre inoltre chiarire se (ferma restando la sostanziale equivalenza, per il diritto dell’UE, fra le diverse forme di approvvigionamento di interesse delle amministrazioni) i singoli ordinamenti nazionali possano legittimamente porre una di tali forme di affidamento e gestione su un piano che si presume subordinato, assegnando comunque la priorità e la prevalenza al principio di apertura concorrenziale rispetto a quello della libera organizzazione delle amministrazioni pubbliche.
   (2) Ha affermato la Sezione che il particolarissimo schema della partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche non sembra in contrasto con il diritto comunitario.
Tale schema, tuttavia, sembra sollevare seri dubbi di contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto dell’UE.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate stabilisce che “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
La disposizione appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di capitali.
La possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’ decida in un secondo momento di acquisire il controllo analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto del servizio in favore della società che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche appare esclusa dal diritto nazionale in quanto se -per un verso- la gestione dei servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’ -per altro verso- la semplice possibilità che l’acquisto del controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio della “stretta necessarietà” –evidentemente da considerare come attuale e non come meramente ipotetica e futura- che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1.
Occorre a questo punto interrogarsi circa la conformità fra il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e il diritto interno (in particolare, l’art. 4, comma 1, cit., interpretato nei detti sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato (
Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 14.01.2019 n. 293 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI: Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale:
   a) “l'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base degli ordinari canoni ermeneutici -criterio della specialità e criterio cronologico- prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000”;
   b) sicché “sebbene l'art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000 attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, proprio in virtù del carattere di specialità riconosciuto all'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, da cui la stessa è disciplinata”.
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V. Il ricorso è fondato.
V.1. Occorre, all’uopo, previamente qualificare il provvedimento impugnato quale ordinanza ambientale, adottata nell’esercizio dei poteri ordinari dell’Amministrazione, sgombrando il campo da ogni apparente commistione, atteso l’improprio e residuale richiamo normativo, con l’esercizio di un potere extra ordinem, esercitabile in condizioni di urgenza e contingibilità, laddove non siano utilmente utilizzabili, al fine di un sollecito soddisfacimento dell’interesse pubblico, gli istituti giuridici tipizzati nell’ordinamento.
V.1.1. Ciò posto, se è vero che in seno al provvedimento gravato l’art. 14 del Codice della Strada è stato richiamato al fine di individuare il soggetto obbligato a provvedere alla pulizia della strada, quale organo concessionario della relativa gestione e della manutenzione, mentre il riferimento all’art. 192 del T.U. 152/2006 è volto a individuare le procedure da seguire per provvedere alla esecuzione degli interventi, risulta fondata, con valore assorbente, l’ultima censura di ricorso con la quale viene dedotto il profilo dell’incompetenza dell’organo procedente.
V.1.2. Si duole, in particolare, parte ricorrente, della violazione dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del d.lgs. n. 152/2006, sostenendo che, in forza di tale disposizione, l’ordinanza ambientale di rimozione dei rifiuti sarebbe di competenza esclusiva del Sindaco, essendo quest’ultima non solo norma di carattere speciale ma anche successivamente emanata rispetto a quella di cui all’art 107 del TUEL che, invece, affida ai dirigenti i compiti di gestione delle attribuzioni amministrative dell’ente locale.
Nel caso di specie, il provvedimento sarebbe stato illegittimamente adottato dal Responsabile del Settore e non dall’organo sindacale.
V.1.3. Orbene, il Collegio non ravvisa validi motivi per discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale:
   a) “l'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base degli ordinari canoni ermeneutici -criterio della specialità e criterio cronologico- prevale sul disposto dell'art. 107, comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000” (TAR Campania, Napoli, sez. V, 15.11.2018, n. 6617);
   b) sicché “sebbene l'art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000 attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi, proprio in virtù del carattere di specialità riconosciuto all'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, da cui la stessa è disciplinata” (TAR Toscana, Firenze, sez. II, 20.04.2018, n. 566).
VI. Sulla base delle sovra esposte considerazioni il ricorso è meritevole di accoglimento, risultando fondato il dedotto vizio di incompetenza (TAR Campania-Napoli, Sez. V, sentenza 14.01.2019 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sull'incarico ad avvocato esterno all'ente per consulenza.
Come già affermato in giurisprudenza nel vigore del D.Lgs. n. 163/2006, “resta inteso che l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare”.
In ossequio al richiamato principio, la giurisprudenza riteneva che “sussiste la giurisdizione del g.a. in caso di affidamento di incarico professionale di consulenza esterna, perché esso non è esercizio di un'attività di mero diritto privato della p.a., bensì di un'attività amministrativa che, come avvenuto nel caso di specie, deve essere adeguatamente pubblicizzata e "procedimentalizzata", pervenendosi all'individuazione del soggetto prescelto mediante procedura comparativa, nella quale i soggetti potenzialmente interessati ad assumere l'incarico si trovano in una posizione di interesse legittimo, non trattandosi pertanto di questione attinente al pubblico impiego, che sarebbe invece attribuita alla giurisdizione del g.o.”.
Il principio trova conferma nel testo del vigente Codice dei Contratti.
Sebbene, infatti, l’art. 17, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 50/2016, preveda che “le disposizioni del presente codice non si applicano agli appalti e alle concessioni di servizi:..d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:…” deve ritenersi che detta esclusione non determini l’inapplicabilità dell’art. 4 della medesima fonte normativa laddove è previsto che “l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”.
Circa tale specifico profilo deve rilevarsi che a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, la giurisprudenza di primo grado, in occasione dell’impugnazione di un affidamento in convenzione per anni due dell’incarico di rappresentanza e difesa del Comune dinanzi alle giurisdizioni amministrative, precisava che “a differenza del precedente codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006), l’art. 17 del vigente codice approvato con d.lgs. n. 50/2016 esclude espressamente dall’applicazione delle regole del medesimo l’affidamento dei servizi legali. Tuttavia a mente dell’art. 4 del medesimo decreto legislativo restano applicabili a tale tipologia di affidamento i <<principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica>>”, riconoscendo la propria giurisdizione.
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... per l'annullamento, per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   1) della nota prot. n. 652 del 28/03/2018 notificata in pari data a mezzo pec all'indirizzo del ricorrente , con cui è stata comunicata la inidoneità della candidatura presenza in relazione all'Avviso pubblico di procedura comparativa per il conferimento di un incarico di consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo – Beni del Patrimonio indisponibile e Appalti-Accreditamenti di servizi sociali;
   2) della determinazione n. 30 del 05/03/2018 conosciuta dal ricorrente in data 19/04/2018, di conferimento dell'incarico per la durata annuale di rappresentanza legale in arbitrato e/o in procedimento di conciliazione e/o in procedimento giudiziario dinnanzi a organi giurisdizionali o Autorità Pubbliche o Enti preposti, nonché di consulenza legale da fornire in previsione o preparazione di uno dei predetti procedimenti o qualora si prospetti la concreta possibilità di loro instaurazione;
   3) dell'avviso pubblico ad oggetto SELEZIONE PER L'AFFIDAMENTO DI INCARICO DI CONSULENZA LEGALE ED ASSISTENZA AD AVVOCATO ESTERNO IN MATERIA DI DIRITTO CIVILE GENERALE – LOCAZIONI E CONCESSIONI, DIRITTO AMMINISTRATIVO – BENI DEL PATRIMONIO INDISPONIBILE E APPALTI –ACCREDITAMENTI DI SERVIZI SOCIALI;
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
   - del Verbale del Consiglio di Amministrazione del 28/02/2018 depositato in giudizio il 18/05/2018 dal quale si “evidenziano le motivazioni di affidamento all'avv.to -OMISSIS- dell'incarico di consulenza legale …”;
...
Con Avviso pubblicato sul sito istituzionale in data 21.02.2018, -OMISSIS-(di seguito Azienda) indiceva una “procedura comparativa per il conferimento di un incarico di consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo –Beni del patrimonio indisponibile e Appalti- Accreditamenti dei servizi sociali”.
L’Avviso specificava l’oggetto dell’incarico in “prestazioni di consulenza specialistica su casi di Locazioni e Concessioni di beni immobili indisponibili adibiti all’erogazione di servizi sociali in regime di appalto e/o accreditamento per la difesa degli interessi dell’Ente” inquadrandole nella tipologia della “prestazione d’opera professionale”.
All’esito delle valutazioni del caso, l’Azienda, con determinazione n. 30 del 05.03.2018, conferiva l’incarico all’Avv. -OMISSIS-, odierna controinteressata e, con nota del 28 marzo successivo, comunicava al ricorrente che la sua candidatura non era stata considerata “la più idonea a soddisfare le esigenze aziendali”.
Con successiva nota del 19.04.2018 l’Azienda, in esito ad istanza di accesso presentata dal ricorrente, rappresentava al medesimo che a conclusione della procedura di selezione “non si [era] proceduto alla formazione di alcuna graduatoria ma semplicemente all’affidamento dell’incarico al professionista che, sulla base dei curriculum, è risultato idoneo alle esigenze di questa Azienda”.
Il ricorrente impugnava gli esiti della selezione e l’Avviso pubblico chiedendo la declaratoria di inefficacia del contratto stipulato con il vincitore e del diritto al conferimento dell’incarico e, in subordine, la rinnovazione dell’intera procedura, nonché, il risarcimento dei danni patiti.
...
L’eccezione è infondata.
Come già affermato in giurisprudenza nel vigore del D.Lgs. n. 163/2006, “resta inteso che l’attività di selezione del difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare” (Cons. St., Sez. V, 11.05.2012, n. 2730).
In ossequio al richiamato principio, la giurisprudenza riteneva che “sussiste la giurisdizione del g.a. in caso di affidamento di incarico professionale di consulenza esterna, perché esso non è esercizio di un'attività di mero diritto privato della p.a., bensì di un'attività amministrativa che, come avvenuto nel caso di specie, deve essere adeguatamente pubblicizzata e "procedimentalizzata", pervenendosi all'individuazione del soggetto prescelto mediante procedura comparativa, nella quale i soggetti potenzialmente interessati ad assumere l'incarico si trovano in una posizione di interesse legittimo, non trattandosi pertanto di questione attinente al pubblico impiego, che sarebbe invece attribuita alla giurisdizione del g.o. (TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 31.08.2010 n. 9255, TAR Veneto, Sez. II, 10.07.2009 n. 2187)” (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 31.07.2014, n. 2176).
Il principio trova conferma nel testo del vigente Codice dei Contratti.
Sebbene, infatti, l’art. 17, comma 1, lett. d), del D.Lgs. n. 50/2016, preveda che “le disposizioni del presente codice non si applicano agli appalti e alle concessioni di servizi:..d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi legali:…” deve ritenersi che detta esclusione non determini l’inapplicabilità dell’art. 4 della medesima fonte normativa laddove è previsto che “l'affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica”.
Circa tale specifico profilo deve rilevarsi che a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, la giurisprudenza di primo grado, in occasione dell’impugnazione di un affidamento in convenzione per anni due dell’incarico di rappresentanza e difesa del Comune dinanzi alle giurisdizioni amministrative, precisava che “a differenza del precedente codice dei contratti (d.lgs. n. 163/2006), l’art. 17 del vigente codice approvato con d.lgs. n. 50/2016 esclude espressamente dall’applicazione delle regole del medesimo l’affidamento dei servizi legali. Tuttavia a mente dell’art. 4 del medesimo decreto legislativo restano applicabili a tale tipologia di affidamento i <<principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed efficienza energetica>>”, riconoscendo la propria giurisdizione (TAR Campania, Napoli, 24.04.2018, n. 4935).
La riconduzione della presente controversia alla giurisdizione amministrativa, nei suesposti termini, non determina, per ciò solo, l’applicabilità del rito speciale in materia di appalti.
La giurisprudenza, infatti, con orientamento dal quale non si ha motivo di discostarsi, ha avuto modo di affermare che in presenza di “un cd. contratto escluso (ex art. 49-ter del D.lgs. 177/2005 e ex art. 17 del d.lgs. 50/2016), non si applica il rito accelerato di cui all'art. 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo (trattandosi, ad avviso del Collegio, di rito non coessenziale all'evidenza pubblica)” (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 24.07.2018, n. 8350).
Premesso quanto sopra, deve rielevarsi che l’intervenuta composizione bonaria della controversia in vista della quale veniva indetta la procedura selettiva in questione determina l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse delle domande di cui ai punti 5, 6 e 7 dell’epigrafe del ricorso (tese a conseguire la “declaratoria di inefficacia dell’eventuale contratto stipulato”, la “declaratoria del diritto del ricorrente al conferimento dell’incarico” e la “declaratoria del diritto del ricorrente alla rinnovazione della valutazione della selezione” (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 14.01.2019 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: Il riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone "una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento o quella che l'interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava.
Invero, in materia di responsabilità civile dell'amministrazione occorre distinguere fra probabilità di riuscita, che va considerata quale chance risarcibile e mera possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi chance irrisarcibile; il risarcimento del danno da perdita di chance richiede dunque l'accertamento di indefettibili presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera ed ipotetica eventualità di conseguimento del bene della vita.
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... per l'annullamento, per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
   1) della nota prot. n. 652 del 28/03/2018 notificata in pari data a mezzo pec all'indirizzo del ricorrente , con cui è stata comunicata la inidoneità della candidatura presenza in relazione all'Avviso pubblico di procedura comparativa per il conferimento di un incarico di consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo – Beni del Patrimonio indisponibile e Appalti-Accreditamenti di servizi sociali;
   2) della determinazione n. 30 del 05/03/2018 conosciuta dal ricorrente in data 19/04/2018, di conferimento dell'incarico per la durata annuale di rappresentanza legale in arbitrato e/o in procedimento di conciliazione e/o in procedimento giudiziario dinnanzi a organi giurisdizionali o Autorità Pubbliche o Enti preposti, nonché di consulenza legale da fornire in previsione o preparazione di uno dei predetti procedimenti o qualora si prospetti la concreta possibilità di loro instaurazione;
   3) dell'avviso pubblico ad oggetto SELEZIONE PER L'AFFIDAMENTO DI INCARICO DI CONSULENZA LEGALE ED ASSISTENZA AD AVVOCATO ESTERNO IN MATERIA DI DIRITTO CIVILE GENERALE – LOCAZIONI E CONCESSIONI, DIRITTO AMMINISTRATIVO – BENI DEL PATRIMONIO INDISPONIBILE E APPALTI –ACCREDITAMENTI DI SERVIZI SOCIALI;
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
   - del Verbale del Consiglio di Amministrazione del 28/02/2018 depositato in giudizio il 18/05/2018 dal quale si “evidenziano le motivazioni di affidamento all'avv.to -OMISSIS- dell'incarico di consulenza legale …”;
...
Con Avviso pubblicato sul sito istituzionale in data 21.02.2018, -OMISSIS-(di seguito Azienda) indiceva una “procedura comparativa per il conferimento di un incarico di consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo –Beni del patrimonio indisponibile e Appalti- Accreditamenti dei servizi sociali”.
L’Avviso specificava l’oggetto dell’incarico in “prestazioni di consulenza specialistica su casi di Locazioni e Concessioni di beni immobili indisponibili adibiti all’erogazione di servizi sociali in regime di appalto e/o accreditamento per la difesa degli interessi dell’Ente” inquadrandole nella tipologia della “prestazione d’opera professionale”.
All’esito delle valutazioni del caso, l’Azienda, con determinazione n. 30 del 05.03.2018, conferiva l’incarico all’Avv. -OMISSIS-, odierna controinteressata e, con nota del 28 marzo successivo, comunicava al ricorrente che la sua candidatura non era stata considerata “la più idonea a soddisfare le esigenze aziendali”.
Con successiva nota del 19.04.2018 l’Azienda, in esito ad istanza di accesso presentata dal ricorrente, rappresentava al medesimo che a conclusione della procedura di selezione “non si [era] proceduto alla formazione di alcuna graduatoria ma semplicemente all’affidamento dell’incarico al professionista che, sulla base dei curriculum, è risultato idoneo alle esigenze di questa Azienda”.
Il ricorrente impugnava gli esiti della selezione e l’Avviso pubblico chiedendo la declaratoria di inefficacia del contratto stipulato con il vincitore e del diritto al conferimento dell’incarico e, in subordine, la rinnovazione dell’intera procedura, nonché, il risarcimento dei danni patiti.
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Permane pertanto un interesse allo scrutino delle domande proposte da parte ricorrente (con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti) ai soli fini risarcitori.
Le doglianze oggetto di motivi aggiunti sono fondate.
L’Avviso prevedeva che l’istanza di partecipazione fosse “fatta pervenire tassativamente entro le ore 12 del 02.03.2018”.
Il ricorrente presentava la propria candidatura con posta certificata in data 01.03.2018, ore 10:32 mentre la controinteressata presentava la propria candidatura con atto pervenuto il 02.03.2018.
Ciò nonostante il Consiglio di Amministrazione dell’Azienda, nella seduta del 28.02.2018 (precedentemente, quindi, tanto allo scadere del termine di presentazione delle candidature, quanto alla stessa presentazione delle domande da parte degli odierni ricorrente e controinteressata), definiva la procedura selettiva.
Come documentato nel relativo verbale “il Direttore presenta le candidature pervenute a seguito di procedura comparativa per il conferimento di consulenza legale ….. Il Consiglio rileva l’attinenza dell’esperienza dell’Avv. -OMISSIS- in ordine a contenziosi trattati per altri enti su concessioni di immobili”.
La controinteressata, in ordine la presente profilo, si limita ad affermare che “a seguito della notificazione dei motivi aggiunti, sono state acquisite le informazioni necessarie presso l’Azienda per comprendere effettivamente l’incongruenza delle date e mi è stato riferito che si è trattato di un mero errore materiale nella trascrizione dei verbali” (pag. 4 della memoria depositata il 16.06.2018).
Tale giustificazione, riferibile all’Azienda che, benché ritualmente intimata, non si è costituita, è contraddetta dalle produzioni della medesima.
Che non si tratti di un mero errore materiale nell’indicazione della data trova smentita non solo nella relazione spontaneamente versata in atti dall’Azienda il 18.05.2018 (ove si dà tatto che “le motivazioni di affidamento all’avv. -OMISSIS- …” erano contenute nel verbale di seduta del 28 febbraio, ma emerge, altresì, dalla pubblicazione dei verbali delle sedute del Consiglio di Amministrazione pubblicate sul web ... dalle quali si evince che la seduta in questione si teneva in data 28.02.2018 (dato confermato dalle date di tutte le delibere in quella sede adottate: n. 11 recante “Indirizzo favorevole all’avvio di nuova convenzione ex art. 45 legge n. 203/82 relativa a terreni siti in Gualtieri”; n. 12 avente ad oggetto “Contratto di locazione di n. 3 unità immobiliari urbana ad uso abitativo di natura transitoria ai sensi dell’art. 5 L. 431/1998 e ss.mm.ii. di proprietà dell’Azienda “Progetto Persona” in favore della Cooperativa sociale e di solidarietà -OMISSIS- di Reggio Emilia” e n. 13 avente ad oggetto “Presa d’atto dimissioni volontarie per collocamento a riposo con diritto a pensione diretta ordinaria di anzianità dipendente -OMISSIS- Direttore Generale dell’ASP Progetto Persona in servizio presso la sede amministrativa di -OMISSIS-”).
Ne deriva che l’esito in questa sede contestato veniva anticipato ad un momento precedente a quello in cui era previsto si svolgessero le operazioni valutative: attività che non può che seguire la ricezione delle domande di partecipazione.
Nonostante la palese illegittimità dell’operato dell’Amministrazione non può, tuttavia, trovare accoglimento la domanda risarcitoria non avendo il ricorrente comprovato la sussistenza di un danno.
Il ricorrente, infatti, afferma la spettanza dell’incarico sostenendo la superiorità del proprio profilo curriculare rispetto a quello della controinteressata ma supporta detto assunto allegando valutazioni soggettive prive di alcun principio di prova e senza considerare che alla selezione partecipavano altri 6 candidati i cui profili non sono oggetto di rilievo.
Per le medesime considerazioni, inoltre, non trova possibilità di accoglimento la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance.
Come, infatti, la giurisprudenza ha già precisato “il riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone "una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non identificabile nella perdita della semplice possibilità di conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale di un esito favorevole, anche solo probabile, se non addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova certa di una probabilità di successo almeno pari al cinquanta per cento o quella che l'interessato si sarebbe effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava. Invero, in materia di responsabilità civile dell'amministrazione occorre distinguere fra probabilità di riuscita, che va considerata quale chance risarcibile e mera possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi chance irrisarcibile; il risarcimento del danno da perdita di chance richiede dunque l'accertamento di indefettibili presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la perdita di una mera ed ipotetica eventualità di conseguimento del bene della vita (ex multis, Cons. Stato, V, 07.06.2017, n. 2740)” (Cons. Stato, Sez. V, 11.07.2018, n. 4225): “indefettibili presupposti di certezza dello stesso danno” che, come anticipato, non sono comprovati dal ricorrente.
Deve ritenersi, infine, inesistente un “danno morale conseguente alla lesione dell’immagine professionale”, allegato genericamente dal ricorrente senza esposizioni di elementi di sorta a sostegno dell’esistenza e consistenza dello stesso.
Per quanto precede il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse e deve essere respinta la domanda risarcitoria.
Stante il descritto esito ed in ragione dell’imputabilità all’Azienda dell’illegittimo sviluppo procedimentale della selezione oggetto del giudizio accertato in ossequio al principio della soccombenza virtuale, le spese di giudizio vengono compensate relativamente alla controinteressata, nonché, in parte compensate e in parte poste a carico dell’Amministrazione nella misura liquidata in dispositivo (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 14.01.2019 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico in materia di appalti pubblici.
Non può affermarsi che il c.d. accesso civico non possa applicarsi ai procedimenti di appalto delle pubbliche amministrazioni di cui al vigente d.lgs. 50/2016.
In particolare, non ne suffraga la tesi il riferimento al comma 3 dell’art. 5-bis del d.lgs n. 33/2013, secondo cui l’accesso civico è escluso «nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Invero, tali condizioni, modalità o limiti devono in generale essere correlati sia al principio generale di trasparenza, quale affermato all’art. 1 dello stesso d.lgs. 50/2016, sia al fatto che essi sono coordinati, nell’ambito della stessa previsione a divieti d’accesso, e non a restrizioni di minor rilievo.
Ora, la disciplina dell’accesso agli atti in materia di appalti si rinviene nell’art. 53 del codice dei contratti pubblici, il quale però al primo comma richiama espressamente la legge n. 241/1990, salvo introdurre nei commi successivi una serie di prescrizioni riguardanti invero essenzialmente il differimento dell’accesso in corso di gara, senza quindi che possa sostenersi che si configuri una speciale disciplina, realmente derogatoria di quella di ordine generale della legge 241/1990 e tale da escludere definitivamente l’accesso civico: questo potrà essere in subiecta materia temporalmente vietato, negli stessi limiti in cui ciò avviene per i partecipanti alla gara, e dunque fino a che questa non sarà terminata, ma non escluso definitivamente, se non per quanto stabilito da altre disposizioni, e così, prima di tutte, dalla chiara previsione dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013
(TAR Lombardia-Milano, Sez. VI, sentenza VI, sentenza 11.01.2019 n. 45 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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2.1 Il Collegio reputa necessario valutare preventivamente la domanda di accesso civico presentata dall’esponente e respinta dal provvedimento impugnato.
Ca. sostiene a proprio favore l’applicazione dell’art. 5, commi 2 e 3, del D.Lgs. 33/2013, come modificato nel 2016, relativo al c.d. accesso civico generalizzato.
In base a tali norme, è consentito a “chiunque” –senza la prova di una particolare legittimazione e senza onere di motivare la relativa istanza– l’accesso a dati e documenti della pubblica amministrazione, anche ulteriori rispetto a quelli per i quali sussiste un obbligo giuridico di pubblicazione.
L’art. 5-bis, comma 2, lettera c), del D.Lgs. 33/2013 esclude l’accesso civico generalizzato per evitare un “pregiudizio concreto” agli interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica ed a tale norma si è richiamata l’amministrazione nel caso di specie (cfr. ancora il doc. 1 della resistente).
Il Collegio però ritiene tale richiamo apodittico e comunque non sufficiente a fondare il rigetto da parte della Provincia di Lecco.
In risposta alle difese delle parti intimate, non può certamente affermarsi che il c.d. accesso civico non possa applicarsi ai procedimenti di appalto delle pubbliche amministrazioni di cui al vigente D.Lgs. 50/2016.
In particolare, non ne suffraga la tesi il riferimento al comma 3 dell’art. 5-bis citato, secondo cui l’accesso civico è escluso «nei casi di segreto di Stato e negli altri casi di divieti di accesso o divulgazione previsti dalla legge, ivi compresi i casi in cui l'accesso è subordinato dalla disciplina vigente al rispetto di specifiche condizioni, modalità o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo 24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Invero, per quanto d’interesse, tali “condizioni, modalità o limiti”, devono in generale essere correlati sia al principio generale di trasparenza, quale affermato all’art. 1 dello stesso d.lgs. 50/2016, sia al fatto che essi sono coordinati, nell’ambito della stessa previsione a “divieti d’accesso”, e non a restrizioni di minor rilievo: la disciplina di cui al citato D.Lgs. 33/2013 costituisce insomma la regola generale e le eccezioni alla medesima devono essere interpretate restrittivamente, per evitare la sostanziale vanificazione dell’intendimento del legislatore di garantire l’accesso civico.
Ora, la disciplina dell’accesso agli atti in materia di appalti si rinviene nell’art. 53 del codice dei contratti pubblici, il quale però al primo comma richiama espressamente la legge n. 241/1990, salvo introdurre nei commi successivi una serie di prescrizioni riguardanti invero essenzialmente il differimento dell’accesso in corso di gara, senza quindi che possa sostenersi che si configuri una speciale disciplina, realmente derogatoria di quella di ordine generale della legge 241/1990 e tale da escludere definitivamente l’accesso civico: questo potrà essere in subiecta materia temporalmente vietato, negli stessi limiti in cui ciò avviene per i partecipanti alla gara, e dunque fino a che questa non sarà terminata, ma non escluso definitivamente, se non per quanto stabilito da altre disposizioni, e così, prima di tutte, dalla chiara previsione dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013.
Non appare dunque legittimo il diniego provinciale, fondato sul mero richiamo al già citato comma 2 dell’art. 5-bis, considerato altresì che l’amministrazione non ha preventivamente interpellato le due imprese interessate alla domanda di accesso civico, né ha valutato l’istanza proposta in via subordinata dalla parte istante, tesa ad ottenere anche soltanto un accesso parziale, vale a dire limitato alle sole parti delle offerte non concretamente coperte da segreto (cfr. ancora il doc. 2 della ricorrente).
In altri termini, come già accennato, la motivazione del diniego si risolve in un mero richiamo alla norma preclusiva dell’ostensione, senza un preciso riferimento alle circostanze fattuali e giuridiche impeditive dell’accesso civico.
2.2 Fermo restando quanto sopra esposto relativo all’applicazione del D.Lgs. 33/2013, il ricorso in epigrafe presenta profili di fondatezza pure in ordine alla lamentata violazione della legge 241/1990.
Infatti, la motivazione del diniego appare anche sotto tale profilo laconica e frettolosa, posto che la Provincia, fra l’altro senza neppure interpellare i controinteressati come invece previsto dal DPR 184/2006, si limita ad affermare che Ca. “non ha presentato la propria offerta, pur essendo stata invitata…” (cfr. il doc. 2 della resistente, pag. 2), per trarre poi la conclusione che l’istanza di accesso non soddisfa i requisiti previsti dalla normativa applicabile.
Si tratta di una motivazione evidentemente insufficiente, in quanto la mancata partecipazione ad una procedura non implica di per sé l’esclusione da ogni pretesa di accesso ai documenti (cfr. TAR Veneto, sez. I, 10.1.2017, n. 16).
Il presente gravame merita pertanto accoglimento, con assorbimento di ogni altra censura e con annullamento del provvedimento ivi impugnato, mentre non è allo stato possibile ordinare l’esibizione dei documenti richiesti, spettando viceversa all’Autorità che detiene la documentazione stabilire motivatamente se –e in che misura– vi ostino concretamente i vincoli posti dalla disciplina applicabile.
Per effetto del citato accoglimento, la Provincia di Lecco è onerata di una nuova valutazione dell’accesso, anche di quello civico, con interpello delle imprese interessate e con eventuale successiva valutazione di un rilascio anche parziale, per le parti dei documenti non coperti da esigenze di riservatezza ai sensi del comma 2 dell’art. 5-bis sopra citato oppure dell’art. 24 della legge 241/1990.

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI: Transenne pedonali: sì alla pubblicità. Secondo il Consiglio di Stato, gli “spot” non distraggono gli automobilisti.
Il Consiglio di Stato dice sì alle transenne pedonali con pubblicità. Parliamo di barriere di sicurezza fisse per incanalare pedoni presso l’attraversamento obbligato, realizzate di solito in tubolare di acciaio: i giudici dicono che questi manufatti sono leciti anche se al loro interno ci sono pubblicità. Questi “spot”, in genere cartelli rettangolari con la base più lunga, non distraggono gli automobilisti, almeno stando al Consiglio di Stato.
Per il Consiglio di Stato, è tutto in regola: la sicurezza stradale non viene pregiudicata. Non è vero che, per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione, quelle pubblicità possono ingenerare confusione con la segnaletica stradale.
Non è vero che possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia. E non è vero che possono arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l'attenzione. E comunque, “l’amministrazione sarebbe stata tenuta a motivare puntualmente in ordine alla sussistenza concreta del pericolo per la sicurezza della circolazione determinato dalle installazioni pubblicitarie in questione”. Ma il Comune è stato troppo generico
(commento tratto da www.msn.com).
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Il ricorso è fondato, nei termini che seguono.
L’impugnato provvedimento di diniego è motivato per relationem mercé il richiamo al parere sfavorevole del 24/12/2016 espresso dalla Polizia municipale e la ulteriore nota della stessa del 16/5/2017, di conferma del parere contrario.
Il suddetto parere della Polizia municipale a sua volta è succintamente motivato, “ai soli fini della sicurezza stradale prevista dall’art. 23, c. 1, d.lgs. 285/1992” (Nuovo codice della strada) “IN QUANTO GLI IMPIANTI RISULTANO POSIZIONATI IN CORRISPONDENZA DI INTERSEZIONE STRADALE” (maiuscolo nell’originale).
Il parere prosegue esprimendo l’avviso che l’autorizzazione rilasciata alla società il 27/08/1971 debba essere revocata in quanto non più conforme al Codice della strada, al Regolamento di esecuzione e al Regolamento comunale e la società debba essere chiamata a rimuovere gli impianti entro 30 giorni.
Il riferimento, graficamente evidenziato nel suddetto parere, alla collocazione delle transenne in corrispondenza di intersezione stradale, non ha fondamento poiché, come ben argomentato dalla società ricorrente, in termini peraltro già colti dalla giurisprudenza amministrativa e sopra riassuntivamente esposti, non sussiste, ai sensi dell’art. 51, comma 8, del d.P.R. 16.12.1992, n. 495 (“Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada”) -e, deve soggiungersi, dell’art. 14 del Piano generale degli impianti pubblicitari del Comune di Pescia- un generale divieto di collocazione di pubblicità sulle transenne parapedonali nei centri abitati, in corrispondenza di intersezioni stradali.
Né giova a fondare il parere contrario il sintetico richiamo in esso contenuto all’art. 23, comma 1, del Nuovo codice della strada, atteso che tale fonte reca un generale (e generico) divieto a collocare sulle strade insegne pubblicitarie “che per dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione possono ingenerare confusione con la segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia, ovvero arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per la sicurezza della circolazione”.
Infatti, alla luce dell’affidamento maturato dalla società ricorrente fin dal 1971 -e del fatto che le norme invocate dall’Amministrazione a sostegno del parere contrario sono a loro volta risalenti: il Nuovo codice della strada e il Regolamento di attuazione al 1992, il Piano comunale al 2004, modificato nel 2012- l’Amministrazione sarebbe stata tenuta a motivare puntualmente in ordine alla sussistenza concreta del pericolo per la sicurezza della circolazione determinato dalle installazioni pubblicitarie in questione.
A ciò può aggiungersi che il Comune non ha richiamato l’art. 77, comma 6, del Regolamento di attuazione (ricordato invece dal Ministero), che vieta l’interferenza della pubblicità con i segnali stradali, sulla cui base avrebbe potuto eventualmente fondarsi una –comunque necessariamente puntuale e specifica- motivazione del diniego.
Quanto infine alla condanna alle spese, richiesta dalla ricorrente, essa è inammissibile, essendo il ricorso straordinario un rimedio finalizzato esclusivamente a pronunce costitutive di annullamento e non a pronunce di condanna (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 10.01.2019 n. 144 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione.
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Il Collegio ritiene che:
   a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
   b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione, rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del territorio che tramite essa viene perseguito;
   c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione;
   d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150;
   e) peraltro, con specifico riferimento al caso di specie, risulta che i ricorrenti, nel chiedere un adempimento al Comune, hanno fatto prevalentemente riferimento ad un obbligo direttamente discendente dalla legge, ossia di cui all’art. 28 citato.
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Il Consiglio di Stato, in ordine alla questione dell’individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione, sulla base della giurisprudenza sviluppatasi in materia, osserva che:
   a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l'ente locale;
   b) le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall'autorità preposta alla gestione del territorio;
   c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem;
   d) la natura reale dell'obbligazione comporta dunque che all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione e i loro aventi causa;
   e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l'assunzione, all'atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res, per cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti, risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
   f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni presi.
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In ragione di quanto considerato, il Collegio ritiene che legittimati passivi dell'obbligazione di realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la convenzione, ma anche coloro che risultano attuali proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo.
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MASSIMA
... per la riforma, quanto al ricorso n. 5339 del 2017, al ricorso n. 5446 del 2017 e al ricorso n. 6160 del 2017, della sentenza 10.01.2017 n. 13 del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna (Sez. II);
...
7. Attesa l’infondatezza del ricorso nel merito, il Collegio ritiene di non dovere esaminare le eccezioni preliminari sollevate dal Comune appellato, relative all’inammissibilità degli appelli, dovuta asseritamente alla incompleta notifica e alla non omogeneità tra essi, e all’inammissibilità dell’intervento del condominio “Il Castello di Gallura”.
7.1. Ancora in via preliminare, in ordine alla questione attinente alla legittimazione attiva dei ricorrenti, contrariamente a quanto ravvisato dal primo giudice, il Collegio ritiene che:
   a) gli accordi di lottizzazione convenzionata rivestono una finalità pubblica, in quanto strumento regolativo dell’ordinato assetto urbanistico del territorio in funzione dell’interesse della collettività;
   b) non può pertanto essere attribuita alla convenzione di lottizzazione il solo obiettivo di regolamentazione meramente privatistica di interessi riservata esclusivamente alle parti della convenzione, rilevando in senso contrario il preminente interesse al governo del territorio che tramite essa viene perseguito;
   c) da ciò ne consegue che i soggetti residenti nelle aree del territorio comunale coinvolte dagli accordi convenzionali, pur essendo terzi rispetto alla convenzione, possono vantare una qualificata pretesa soggettiva, individuabile più propriamente nella situazione giuridica dell’interesse legittimo, all’osservanza da parte dell’autorità comunale degli obblighi di realizzazione e di gestione delle opere pubbliche previste dalla convenzione di lottizzazione;
   d) pertanto, in linea di principio anche il singolo proprietario è ben legittimato a veder garantita l’attuazione delle previsioni delle convenzioni concluse in materia di lottizzazione, ai sensi dell’art. 28 della legge 17.08.1942, n. 1150;
   e) peraltro, con specifico riferimento al caso di specie, risulta che i ricorrenti, nel chiedere un adempimento al Comune, hanno fatto prevalentemente riferimento ad un obbligo direttamente discendente dalla legge, ossia di cui all’art. 28 citato.
7.2. In conclusione, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, deve essere riconosciuta la legittimazione attiva dei ricorrenti nel presente giudizio.
...
8.1. Ciò premesso in punto di fatto, in ordine alla dedotta questione della illegittimità dell’art. 10 della convenzione di lottizzazione, occorre rilevare che:
   a) ai sensi dell’art. 10 della convenzione di lottizzazione del 14.09.1974, "l’amministrazione comunale stabilisce che le strade e le opere di urbanizzazione primaria in genere, previste dalla lottizzazione, restino in tutto di proprietà privata o condominiale e, pertanto, il Comune non ne assume la proprietà né l'onere di manutenzione";
   b) l'art. 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, nel testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone che: “L'autorizzazione comunale è subordinata alla stipula di una convenzione, da trascriversi a cura del proprietario, che preveda:
   1) la cessione gratuita entro termini prestabiliti delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primaria, precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione secondaria nei limiti di cui al successivo n. 2;
   2) l'assunzione, a carico del proprietario, degli oneri relativi alle opere di urbanizzazione primaria e di una quota parte delle opere di urbanizzazione secondaria relative alla lottizzazione o di quelle opere che siano necessarie per allacciare la zona ai pubblici servizi; la quota è determinata in proporzione all'entità e alle caratteristiche degli insediamenti delle lottizzazioni;
   3) i termini non superiori ai dieci anni entro i quali deve essere ultimata l'esecuzione delle opere di cui al precedente paragrafo;
   4) congrue garanzie finanziarie per l'adempimento degli obblighi derivanti dalla convenzione
”.
8.1.1. Ebbene, l’asserito contrasto dell’art. 10 della convenzione con i punti 1) e 2) del comma 5 dell’art. 28 citato, diversamente da quanto sostenuto dagli appellanti, piuttosto che determinare la nullità della clausola convenzionale, avrebbe potuto al più portare ad un giudizio di annullamento della stessa (da esaminare comunque sulla base del principio per cui l’Amministrazione può gestire gli interessi pubblici anche sulla base di una propria autonomia).
Ciò nonostante, la mancata impugnazione nel termine decadenziale dalla deliberazione consiliare che approvava la convenzione, rende la questione non più attuale e, pertanto, la clausola da considerare ormai del tutto valida ed efficace.
Del resto, l’ipotizzata illegittimità di tale clausola di per sé condurrebbe ad una valutazione sulla illegittimità di tutti i titoli edilizi, emanati in attuazione della ravvisata illegittima previsione.
8.2. In ordine alla questione principale dell’individuazione dei soggetti obbligati alla realizzazione delle opere di urbanizzazione previste da una convenzione di lottizzazione, il Collegio, sulla base della giurisprudenza sviluppatasi in materia, osserva che:
   a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso di inadempimento è necessario, in via preliminare, definire la natura giuridica delle obbligazioni derivanti dalla convenzione stipulata con l'ente locale;
   b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che all'edificazione del territorio corrisponda non solo l'approvvigionamento delle dotazioni minime di infrastrutture pubbliche, ma anche il suo equilibrato inserimento in rapporto al contesto di zona che, nell'insieme, garantiscano la normale qualità del vivere in un aggregato urbano discrezionalmente, e razionalmente, individuato dall'autorità preposta alla gestione del territorio (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.11.2009, n. 6947);
   c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli obblighi dedotti nelle convenzioni urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di cassazione ha sempre affermato che l'obbligazione assunta di provvedere alla realizzazione delle opere di urbanizzazione da colui che stipula una convenzione edilizia è di natura propter rem (cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994, n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382);
   d) la natura reale dell'obbligazione comporta dunque che all’adempimento della stessa saranno tenuti non solo i soggetti che stipulano la convenzione, ma anche quelli che richiedono la concessione, quelli che realizzano l'edificazione ed i loro aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571);
   e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale l'assunzione, all'atto della stipulazione di una convenzione di lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i propri eredi e per gli altri aventi causa- di realizzare una serie di opere di urbanizzazione del territorio e di costituire su una parte di quelle aree una servitù di uso pubblico, dà luogo ad una obbligazione propter rem, che grava quindi sia sul proprietario del terreno che abbia stipulato la convenzione di lottizzazione, sia su coloro che abbiano richiesto il rilascio della concessione edilizia nell'ambito della lottizzazione, sia infine sui successivi proprietari della medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme, Tar Campania, Napoli, sez. II, 09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l'avente causa del lottizzante assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo in sede di convenzione di lottizzazione, compresi quelli di urbanizzazione ancora dovuti (Tar Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747), risultando inopponibile all’Amministrazione qualsiasi previsione contrattuale dal contenuto opposto e qualsiasi vicenda di natura civilistica riguardanti i beni in questione;
   f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva dell'obbligazione, proprio della natura propter rem, non trasforma ex se gli aventi causa dei lottizzanti in “parti” a pieno titolo del rapporto convenzionale, ma li rende semplicemente corresponsabili nell'esecuzione degli impegni presi (Tar, Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843).
8.3. In ragione di quanto considerato, il Collegio, non ritenendo di doversi discostare da questi principi, ritiene che legittimati passivi dell'obbligazione di realizzazione delle opere di urbanizzazione debbono ritenersi non solo i lottizzanti che hanno concluso la convenzione, ma anche coloro che risultano attuali proprietari delle aree incluse nel comparto lottizzato e che utilizzano le stesse, quali aventi causa degli originali lottizzanti o successivi aventi causa, e comunque in ogni caso di acquisto a titolo originario o a titolo derivativo.
Alcuna pretesa gli stessi potranno pertanto avanzare nei confronti della amministrazione comunale appellata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.01.2019 n. 199 - link a www-giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Opera precaria stagionale - Mancata rimozione alla scadenza dell'opera - Effetti - Assenza di titolo abilitativo - Configurabilità delle violazioni alla disciplina antisismica, paesaggistica e occupazione di suolo pubblico - Nozione di precarietà di un'opera - Artt. 6, 44, 93, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. 42/2004 - Artt. 633 e 639-bis cod. pen. - Giurisprudenza.
Determina la configurabilità del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n. 380 la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto nell'autorizzazione, di un manufatto di cui era stata consentita l'installazione per soddisfare esigenze stagionali, e cioè il mantenimento dell'opera una volta cessate le esigenze contingenti e temporanee che era destinata a soddisfare essendo venuta meno la ragione della sua realizzazione in assenza di titolo abilitativo.
Inoltre, al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto, l'asserita precarietà dello stesso non può essere desunta dalla sua natura stagionale, dalle sue caratteristiche costruttive o dalla mancanza di stabile ancoraggio al suolo, ma deve ricollegarsi -a mente di quanto previsto dall'art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, come emendato dall'art. 5, comma 1, d.l. 25.03.2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 73 del 2010)- alla circostanza che l'opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione, non risultando al riguardo sufficienti la sua astratta rinnovibilità o il mancato ancoraggio al suolo
(Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini; Sez. 3, n. 21988 del 28/04/2016, Brioschi).
Nella specie, con la mancata rimozione della struttura metallica precaria realizzata nello spazio antistante un ristorante, si sono anche configurati i reati ex art. 181 d.lgs. 42/2004 (per aver realizzato detta struttura in assenza di autorizzazione paesaggistica), 633 e 639-bis cod. pen. (per aver indebitamente occupato il suolo pubblico, omettendo di rimuovere la medesima struttura alla scadenza della concessione) e artt. 93, 94 e 95 d.P.R. n. 380/2001 (violazioni alla disciplina antisismica).

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Reato di occupazione di suolo pubblico per scadenza del termine previsto nella concessione - Configurabilità - Nozione di invasione e della condotta arbitraria.
Si configura il reato di cui agli artt. 633 e 639-bis cod. pen., anche quando, l'occupazione della porzione di suolo pubblico, sulla quale era stata autorizzazione l'installazione della struttura, sia divenuta arbitraria per la scadenza del termine previsto nella concessione (che caratterizza di temporaneità l'opera), posto che da tale momento l'occupazione dell'area, mediante il mantenimento dell'opera non rimossa alla scadenza, è divenuta del tutto priva di titolo autorizzatorio, dunque arbitraria, cosicché da tale momento è senz'altro configurabile il reato di cui all'art. 633 cod. pen..
Inoltre, il requisito della violenza della condotta non è, richiesto al fine della configurabilità del reato di invasione di terreni o edifici, in quanto la nozione di invasione non richiede di per sé modalità esecutive violente, che possono anche mancare, ma si riferisce al comportamento arbitrario, tipico di chi si introduce, o (come nel caso in esame) trattiene, nell'altrui proprietà contra ius, in quanto privo del diritto di accedervi o rimanervi
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.01.2019 n. 400 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Presenza di un delegato di un concorrente alla seduta di gara in cui si sono deliberate le ammissioni.
E' da escludersi che l’eventuale presenza di un delegato di un concorrente alla seduta di gara in cui si sono deliberate le ammissioni possa fare decorrere il termine decadenziale per proporre il ricorso ex art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., poiché a questo fine deve farsi riferimento esclusivo alla data di pubblicazione sul profilo del committente dei provvedimenti relativi a questa fase ai sensi dell’art. 29 del codice dei contratti pubblici.
Le ragioni di questo orientamento restrittivo vanno ricercate nel carattere speciale, derogatorio, e pertanto di stretta interpretazione del “rito superspeciale” sulle ammissioni ed esclusioni, in relazione al quale sono tassativamente richieste le formalità pubblicitarie poc’anzi richiamate e in difetto delle quali l’impresa sarebbe costretta a produrre un ricorso al buio
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.01.2019 n. 173 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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7. Si ritiene che meriti favorevole apprezzamento la censura concernente la violazione dell’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., in combinato disposto con l’art. 29, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 (sia pure nella versione precedente le modifiche apportate col d.lgs. n. 56 del 2017, non applicabili alla gara in oggetto, indetta nel febbraio 2017).
In proposito, s’intende dare continuità alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato con la quale -da ultimo con la sentenza di questa sez. V, 21.11.2018, n. 6574, nonché con la sentenza, richiamata nella memoria dell’appellante, sez. V, 07.11.2018, n. 6292- si è escluso che l’eventuale presenza di un delegato di un concorrente alla seduta di gara in cui si sono deliberate le ammissioni possa fare decorrere il termine decadenziale per proporre il ricorso ex art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., poiché a questo fine deve farsi riferimento esclusivo alla data di pubblicazione sul profilo del committente dei provvedimenti relativi a questa fase ai sensi dell’art. 29 del codice dei contratti pubblici (Cons. Stato, III, 08.02.2018, n. 1765; V, 29.10.2018, n. 6139, 08.06.2018, n. 3481) e si è precisato che “le ragioni di questo orientamento restrittivo vanno ricercate nel carattere speciale, derogatorio, e pertanto di stretta interpretazione del “rito superspeciale” sulle ammissioni ed esclusioni, in relazione al quale sono tassativamente richieste le formalità pubblicitarie poc’anzi richiamate e in difetto delle quali «l’impresa sarebbe costretta a produrre un ricorso al buio” (così Cons. Stato, III, 26.01.2018, n. 565)”
7.1. Se di regola la partecipazione agli atti della procedura di gara da parte di un delegato dell’operatore economico in essa concorrente è irrilevante ai fini della decorrenza del termine per il ricorso ai sensi dell’art. 120 comma 2-bis cod. proc. amm., è altresì dirimente che nel caso di specie non sia stato adottato alcun formale provvedimento di ammissione alla gara, previa verifica della sussistenza dei requisiti speciali di partecipazione.
Infatti, il verbale della prima seduta di gara del 23.05.2017, posto a fondamento della decisione di primo grado, contiene soltanto la menzione dell’attività di riscontro della regolarità formale della “documentazione amministrativa” e della presenza della “campionatura” richiesta per la fornitura delle attrezzature; nella seconda seduta di gara, in data 12.06.2017 (verbale n. 2), la commissione ha proceduto all’esame delle offerte tecniche dei concorrenti.
Pertanto, non solo non vi è stata alcuna pubblicazione sul profilo del committente, ai sensi dell’art. 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici, richiamato dall’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., ma nemmeno vi è stata un’attività di verifica dei requisiti sfociata in un formale provvedimento di ammissione, della cui conoscenza di fatto si debba qui dare conto.
7.2. La motivazione della sentenza appellata va pertanto corretta nella parte in cui ha affermato l’applicabilità al caso di specie del rito c.d. “superspeciale” e la conseguente inammissibilità del secondo motivo di ricorso, per mancata tempestiva impugnazione.

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria giurisprudenziale e doppia conformità.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria”.
Infatti, “solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico”.

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La c.d. “doppia conformità” costituisce un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione.
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Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico.
In sostanza, come affermato anche dal Consiglio di Stato, “secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio Stato, l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione”.

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4. Come spiegato in precedenza, con il primo motivo il ricorrente invoca l’applicazione dell’istituto della c.d. sanatoria giurisprudenziale ed ossia la possibilità che l’opera abusivamente realizzata sia sanata sulla base del solo riscontro della conformità agli strumenti urbanistici vigenti.
Invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, al quale la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo il doveroso diniego della concessione in sanatoria di opere eseguite senza titolo abilitante, qualora le stesse non risultino conformi tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della loro realizzazione quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.05.2018, n. 1298, che richiama Consiglio di Stato, sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Id., sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Id., sez. V, 17.09.2012, n. 4914; Id., sez. V, 25.02.2009, n. 1126; Id., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, “solo il legislatore statale (con preclusione non solo per il potere giurisdizionale, ma anche per il legislatore regionale: Corte Cost., 29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi in cui può essere rilasciato un titolo edilizio in sanatoria (avente anche una rilevanza estintiva del reato già commesso) e risulta del tutto ragionevole il divieto legale di rilasciare una concessione (o il permesso) in sanatoria, anche quando dopo la commissione dell’abuso vi sia una modifica favorevole dello strumento urbanistico” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
4.1. La c.d. “doppia conformità” costituisce, perciò, un requisito dal quale non può prescindersi ai fini del rilascio della sanatoria di opere edilizie, mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio sulla base della sola conformità dell’opera abusiva rispetto alla pianificazione urbanistica vigente– finirebbe per dare luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori di qualsiasi previsione normativa e che pertanto non può ritenersi ammesso nel nostro ordinamento, contrassegnato dal principio di legalità dell’azione amministrativa e dal carattere tipico dei poteri esercitati dall’Amministrazione, alla stregua del principio di nominatività, poteri che non possono essere surrogati dal giudice, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere di attribuzioni riservate all’Amministrazione” (TAR per la Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.05.2018, n. 1298; Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del resto, secondo quanto rilevato dalla giurisprudenza, la ragionevolezza della regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n. 380 del 2001 discende dall’esigenza, presa in considerazione dal legislatore, di evitare che il potere di pianificazione possa essere strumentalizzato al fine di rendere lecito ex post (e non punibile) ciò che risulta illecito (e punibile) e, inoltre, di dissuadere dall’intenzione di commettere abusi, poiché chi costruisce sine titulo è consapevole di essere tenuto alla demolizione, anche in presenza di una sopraggiunta modificazione favorevole dello strumento urbanistico (Consiglio di Stato, Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n. 2755 del 2014, cit.).
4.2. In sostanza, come affermato anche dal Consiglio di Stato, “secondo l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e 20.02.2018, n. 1087, con ulteriori richiami, comprensivi di arresti della Corte costituzionale), pienamente condiviso da questo Collegio, l’istituto della c.d. ‘sanatoria giurisprudenziale’ deve considerarsi normativamente superato, nonché recessivo rispetto al chiaro disposto normativo vigente e ai principi connessi al perseguimento dell’abusiva trasformazione del territorio, nel senso che il permesso in sanatoria è ottenibile soltanto in presenza dei presupposti espressamente delineati dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a condizione che l’intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento sia della realizzazione del manufatto, sia della presentazione della domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, i quali si collocherebbero al di fuori d’ogni previsione normativa. Tale istituto non trova, pertanto, fondamento alcuno nell’ordinamento positivo, contrassegnato invece dai principi di legalità dell’azione amministrativa e di tipicità e nominatività dei poteri esercitati dalla pubblica amministrazione, con la conseguenza che detti poteri, in assenza di espressa previsione legislativa, non possono essere creati in via giurisprudenziale, pena la violazione del principio di separazione dei poteri e l’invasione di sfere proprie di attribuzioni riservate alla pubblica amministrazione” (Consiglio di Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319).
Tali rilievi precludono la possibilità di fondare l’applicazione dell’istituto su esigenze di ragionevolezza o proporzionalità, come invocato dalle parti intervenienti, atteso che simili principi non possono vertere quel canone di legalità i cui sentieri, per evocare una nota immagine dottrinale, non tollerano simili interruzioni.
4.3. In definitiva, il primo motivo di ricorso deve ritenersi infondato per le ragioni sin qui spiegate (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.01.2019 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATAIncombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere (abusive) debbono risultare obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto.
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Si deve ammettere un temperamento nel caso in cui, da un lato, il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, stante comunque il dovere dell'autorità che adotta l'ingiunzione di demolizione di verificare in maniera adeguata la sussistenza dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio.
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5. Con il secondo motivo di ricorso il signor De Sa. deduce l’erroneità della decisione comunale in relazione all’eccessiva rigidità del Comune in ordine alla prova dell’epoca di realizzazione del manufatto.
5.1. Il motivo è privo di fondamento per le ragioni di seguito spiegate.
5.2. In primo luogo, deve notarsi come l’originaria richiesta del ricorrente riguarda la sanatoria delle opere, di recupero a fini abitativi di sottotetto, già eseguite (demolizione e costruzione tavolati interni, realizzazione di tre abbaini; n. 5 lucernai e sopralzo del tetto mantenendo la stessa linea di falda) e l’autorizzazione a eseguirne altre a completamento.
Successivamente il ricorrente modifica la domanda evidenziando che le unità immobiliari originarie (e, di seguito, incorporate) sono già adibite ad abitazione, per cui l’intervento di recupero del sottotetto deve suddividersi in due parti: per una parte è da considerarsi ristrutturazione edilizia; per un’altra parte è soggetto alla sanzione ex articolo 33 del D.P.R. 380 del 2001.
Ora, è corretto quanto esposto dal Comune resistente che nota come, in tal modo, il ricorrente modifichi sostanzialmente l’oggetto della domanda e, inoltre, risulti non in grado di dimostrare il momento di realizzazione delle opere. Infatti, la stessa relazione versata nel procedimento osserva che: “dalla documentazione catastale è possibile evincere che almeno dal 1940 l’unità [è] destinata ad abitazione”, e, per quanto riguarda le parti originariamente comuni e poi inglobate evidenzia che, “sebbene sia stata acquisita documentazione (delibera dell’assemblea condominiale) relativa ad un intervento sul tetto del fabbricato condominiale realizzato in epoca successiva al 1997, non si riesce a datate con certezza l’epoca dell’intervento di sopralzo”.
5.3. Ricostruita la situazione sostanziale, pare evidente l’aderenza del provvedimento impugnato alla domanda e alla documentazione amministrativa in atti. Il ricorrente presenta, infatti, una richiesta che postula un intervento unitario di recupero del sottotetto, rispetto al quale si dice non in grado di provare l’epoca di realizzazione dell’intervento e, di conseguenza, la conformità alla normativa edilizia ratione temporis vigente.
5.4. Venendo al tema dell’onere della prova sull’epoca di realizzazione dell’intervento si rileva, come secondo un’opinione giurisprudenziale, “incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono risultare obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto” (così, da ultimo, TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. III, 30.05.2018, n. 3549; cfr., inoltre, TAR per la Campania – sede di Napoli, sez. IV, 19.10.2016, n. 4774; TAR per il Lazio, sede di Latina, sez. I, 15.06.2016, n. 391; TAR per la Campania, sede di Napoli, sez. II, 27.11.2014, n. 6118; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.08.2014 n. 4208; Consiglio di Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3414).
Ora, declinando tale insegnamento giurisprudenziale al caso di specie, non risulta assolto l’onere probatorio gravante sul ricorrente in considerazione dell’assenza di certe evidenze in ordine all’epoca di realizzazione dell’intervento in esame.
5.5. Non diversa conclusione pare potersi raggiungere aderendo al diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui “si deve ammettere un temperamento nel caso in cui, da un lato, il privato porti a sostegno della propria tesi sulla realizzazione dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e, dall'altro, il Comune fornisca elementi incerti in ordine alla presumibile data della realizzazione del manufatto privo di titolo edilizio, stante comunque il dovere dell'autorità che adotta l'ingiunzione di demolizione di verificare in maniera adeguata la sussistenza dei presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio” (Consiglio di Stato, sez. VI, 18.07.2016, n. 3177).
Come di recente chiarito dal Consiglio di Stato, sezione VI, 19.10.2018, n. 5988, al fine di dimostrare la conformità dell’immobile alla regolazione urbanistica possono essere utilizzati vari elementi, come ad esempio le dichiarazioni sostitutive, i rilievi aerofotogrammetrici, i contratti stipulati; o ancora si può provare che l’ultimazione dei lavori sia avvenuta entro una certa data o che si tratti di un’opera per la quale non è richiesto il titolo in ragione del tempo di esecuzione, o, in ultimo, che l’esecuzione avviene in epoca antecedente l’apposizione di un vincolo paesaggistico.
Tuttavia, le condivisibili generali affermazioni di principio non incidono sul caso di specie per la dirimente considerazione che chiude la difesa comunale sul punto e che il Collegio ritiene di poter mutuare: “la prova può essere raggiunta con ogni mezzo, ma allo stato degli atti, ciò non è avvenuto”. E, infatti, non vi sono evidenze sulla data di edificazione dell’intervento, né sono allegati elementi che consentano di ritenere errato il giudizio comunale (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.01.2019 n. 31 - link a www.giustizia-amministrativa.it
).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione "volumi tecnici" - Realizzazione in difetto di permesso di costruire - Pertinenza urbanistica e limiti della responsabilità penale - Artt. 3, 6, 44, d.P.R. n. 380/2001.
Sono "volumi tecnici" quelli strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione (serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda), che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche (Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu).
Sicché, in tema di reati edilizi, non integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380 del 2001 la realizzazione, in difetto di permesso di costruire, dei cd. "volumi tecnici", cioè di quei volumi strettamente necessari a contenere e consentire la sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa che tali impianti non possano trovare ubicazione, per evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze effettivamente sussistenti (Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Mocetti)
(Corte di Cassazione, Sez. III, penale, sentenza 07.01.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di manufatto precario - Obiettive esigenze contingenti e temporanee - Fattispecie: struttura di copertura di una preesistente piscina.
In materia edilizia, al fine di ritenere sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un manufatto, l'asserita precarietà dello stesso non può essere desunta dal suo carattere stagionale, ma deve ricollegarsi -a mente di quanto previsto dall'art. 6, comma secondo, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, come emendato dall'art. 5, comma primo, D.L. 25.03.2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 73 del 2010)- alla circostanza che l'opera sia intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno di tale funzione (Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e a. Sez. 3, n. 34763 del 21/06/2011, Bianchi).
Fattispecie: struttura di copertura di una preesistente piscina,in concreto utilizzata, stagionalmente, tutti gli anni
(Corte di Cassazione, Sez. III, penale, sentenza 07.01.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZI: Alla CGUE alcuni quesiti interpretativi in tema di società in house.
Il Consiglio di Stato ha posto alla Corte di giustizia UE due quesiti interpretativi in tema di affidamento in house, chiedendo in particolare se il diritto europeo osti a una disciplina nazionale che colloca gli affidamenti in house su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di appalto e impedisce, in talune circostanze, ad una pubblica amministrazione di acquisire una quota di partecipazione in un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni (Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza 07.01.2019 n. 138 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, spetta al privato l'onere della prova quando chiede la sanatoria/condono edilizio.
Costituisce preciso onere del privato, che ha commesso l’abuso edilizio, provare, in sede di istanza di sanatoria così come in sede di impugnazione giurisdizionale, che all’epoca della costruzione il fabbricato non ricadeva entro la fascia di inedificabilità.
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7. Con il quarto motivo l’appellante denunzia la mancanza della necessaria istruttoria processuale e la violazione dell’art. 64 c.p.a. in ordine ai principi di valutazione della prova.
Contesta l’appellante che il fabbricato sia effettivamente collocato nella fascia di rispetto dei 150 mt dalla battigia e comunque ritiene che al momento dell’apposizione del vincolo urbanistico l’edificio fosse pienamente oltre il limite dei 150 mt previsto dall’art. 15 della l.r. 78/1976, considerando una costante seppur lieve erosione delle coste di 30-40 cm all’anno.
Ciò risulterebbe avvalorato dalla perizia di parte depositata in giudizio, nella quale la distanza dell’edificio rispetto alla linea di battigia era indicata in mt 151,1.
7.1. Il mezzo è infondato.
Il Collegio ritiene che vadano confermate le valutazioni del primo Giudice, che si è fondato sulla relazione del settore urbanistica del Comune prot. 619 del 20.10.1995, dalla quale si evince che la distanza in contestazione è stata stabilita sulla base di plurime misurazioni cartografiche dalle quali è risultata la collocazione del manufatto nella fascia di rispetto.
Dal momento che l’accertamento di cui sopra risulta confermato a seguito dell’istruttoria disposta dal primo Giudice, non si vede, quindi, in base a quali sicuri elementi si dovrebbe dare maggiore credito alla perizia di parte piuttosto che alle documentate valutazioni dell’Amministrazione che ha fatto anche riferimento alla cartografia allegata al PRG, dalla quale risulta ulteriormente che l’immobile si colloca nella fascia di rispetto.
Come questo Consesso ha già statuito in relazione ad analoga vicenda relativa ad abuso edilizio nell’area Triscina di Castelvetrano:
   1) costituisce preciso onere del privato che ha commesso l’abuso edilizio provare, in sede di istanza di sanatoria, così come in sede di impugnazione giurisdizionale, che all’epoca della costruzione il fabbricato non ricadeva entro la fascia di inedificabilità (Cons. St., IV, 02.02.2011, n. 752; V, 06.02.1999, n. 124; 24.10.1996, n. 1275);
   2) in relazione all’area de quo gli unici dati certi sono:
      a) l’assenza di prova documentale (cartografia, foto aerea) dalla quale desumere l’esatta distanza del manufatto abusivo rispetto alla linea della battigia al tempo dell’edificazione;
      b) la variabilità della profondità del litorale sabbioso antistante l’immobile de quo, nell’arco temporale compreso tra il 1900 e il 1999, o meglio, l’alternanza dell’arretramento e dell’avanzamento della linea della battigia, tale non consentire, neppure in termini di verosimiglianza e, quindi, contrariamente a quanto ipotizzato dal tecnico di parte ricorrente, l’asserzione del posizionamento del manufatto oltre i 150 metri dalla battigia al tempo della sua costruzione (CGARS n. 447/2018) (CGARS, sentenza 07.01.2019 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Effetti della violazione del dovere di buona fede da parte della PA.
Non può annullarsi un provvedimento amministrativo (nella fattispecie uno strumento urbanistico) per la violazione del dovere di buona fede e correttezza atteso che, se è vero che tali canoni operano anche in relazione all’attività autoritativa della pubblica amministrazione, la loro violazione può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza.
Infatti, le regole pubblicistiche e privatistiche, pur operando in maniera contemporanea e sinergica hanno diverso oggetto e diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione: le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto e immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato; al contrario, le regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla P.A..
La loro violazione non dà vita a invalidità provvedimentale, ma a responsabilità; non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.01.2019 n. 7 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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4.7. Non può, inoltre, annullarsi la variante impugnata per la ritenuta violazione del dovere di buona fede e correttezza atteso che, se è vero che tali canoni operano anche in relazione all’attività autoritativa della pubblica amministrazione, la loro violazione può far nascere una responsabilità da comportamento scorretto, che incide non sull’interesse legittimo, ma sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali, cioè sulla libertà di compiere le proprie scelte negoziali senza subire ingerenze illegittime frutto dell’altrui scorrettezza (cfr., fra le altre, Consiglio di Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633; Consiglio di Stato, sez. IV, 06.03.2015, n. 1142; Consiglio di Stato, ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., sez. un. 12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., sez. I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez. I, 03.07.2014, n. 15250, e da, ultimo, Consiglio di Stato, ad. plen., 04.05.2018, n. 5).
Infatti, le regole pubblicistiche e privatistiche, pur operando in maniera contemporanea e sinergica hanno diverso oggetto e diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione: “le regole di diritto pubblico hanno ad oggetto il provvedimento (l’esercizio diretto ed immediato del potere) e la loro violazione determina, di regola, l’invalidità del provvedimento adottato. Al contrario, la regole di diritto privato hanno ad oggetto il comportamento (collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere) complessivamente tenuto dalla stazione appaltante nel corso della gara. La loro violazione non dà vita ad invalidità provvedimentale, ma a responsabilità. Non diversamente da quanto accade nei rapporti tra privati, anche per la P.A. le regole di correttezza e buona fede non sono regole di validità (del provvedimento), ma regole di responsabilità (per il comportamento complessivamente tenuto)” (così, Consiglio di Stato, ad. plen., 04.05.2018, n. 5).
Pertanto, non può decretarsi, in ogni caso, l’invalidità del provvedimento per lesione di una regola di matrice civilistica come quella invocata dalla parte ricorrente. E ciò basta per escludere la necessità di ogni ulteriore indagine sul punto attesa la non inidoneità di tale asserita violazione a condurre all’annullamento del provvedimento impugnato.

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Presunzione di proprietà pubblica - Rivendicazione da parte del privato della legittima proprietà - Ipotesi tassative e particolari.
Sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica con la conseguenza che essi, sulla base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa, appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909; regio decreto n. 363 del 1913; legge n. 1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente invariata anche a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004.
Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici o comunque di beni qualificabili come culturali deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando, alternativamente che: 1) reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Patrimonio indisponibile dello Stato dei beni culturali - Presunzione di proprietà statale - Finalità recuperatoria della confisca stabilita dall'art. 174, c. 3, dlgs n. 42/2004.
La legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni archeologici (ma il principio vale anche per gli atri beni di interesse storico-artistico), è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell'importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico-artistico garantita dall'art. 9 Cost.), dell'appartenenza di detti beni allo Stato, per cui l'art. 826, comma 2, cod. civ. assegna al patrimonio indisponibile dello Stato "le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate": disciplina confermata dalla legge. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia l'art 932, comma 2, cod. civ..
Da ciò deriva la finalità prioritariamente recuperatoria della confisca stabilita dall'art. 174, comma 3, del dlgs n. 42 del 2004; essendo questa volta a ripristinare materialmente la situazione di dominio che, ex lege, lo Stato vanta sui beni in questione, situazione di dominio evidentemente violata attraverso la illecita esportazione del bene in discorso al di fuori dei confini dello Stato e, pertanto, al di fuori dei margini di esercitabilità materiale del dominio de quo loquitur
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Confisca obbligatoria e Corte di Strasburgo - Lottizzazione abusiva e bene culturale - Interessi tutelati - Differenza - Finalità recuperatoria - Dominio dello Stato sul bene culturale.
In tema di confisca obbligatoria, mentre nell'ipotesi della lottizzazione abusiva l'interesse pubblico alla tutela ed alla conservazione dell'assetto ordinato del territorio potrebbe, in ipotesi, essere assicurato anche, ad esempio, attraverso misure meno gravose della confisca, quali la semplice rimozione delle manifestazioni esteriori dell'avvenuta trasformazione del territorio, salva rimanendo la titolarità dell'area di sedime delle stesse, una volta operata la loro bonifica dalle superfetazioni abusive, in capo al soggetto che ne aveva la disponibilità, nella ipotesi di cui all'art. 174 del dlgs n. 42 del 2004 lo scopo del ripristino della condizione di dominio dello Stato sul bene culturale non è suscettibile di una graduazione, in quanto lo stesso o si realizza con la effettiva ablazione del bene ed la sua assunzione nell'ambito dei beni di cui lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, ha la piena e materiale disponibilità ovvero non si determina in alcun modo.
Sicché, nel caso della confisca avente finalità recuperatoria, non ha senso parlare di gradualità della misura.

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BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Confisca ex art. 174, c. 3, dlgs n. 42/2004 - Effetti e finalità - Soggetto inciso dal provvedimento e commissione del reato.
La confisca prevista dall'art. 174, comma 3, del dlgs n. 42 del 2004, pur essendo una misura avente contenuto tale da pregiudicare la posizione di chi la subisce in quanto, oltre ad essere connessa sotto il profilo causale alla avvenuta commissione di un reato, va ad incidere in senso deteriore su di un diritto vantato dal soggetto inciso dal provvedimento in questione -e questa è la ragione per la quale essa è legittimata solo in presenza di una relazione di non estraneità, da intendersi tuttavia nei ristretti termini fra il soggetto inciso e la commissione del reato- presenta della caratteristiche che la distinguono chiaramente rispetto alle altre ipotesi di confisca stabilite dagli artt. 240 e 240-bis cod. pen., essendo la finalità di detta misura essenzialmente destinata non a prevenire, stante la intrinseca pericolosità del bene oggetto di confisca quale strumento per l'aggravamento delle conseguenze del reato commesso o per la commissione di altri reati, il pericolo di ulteriori danni a carico della comunità, essendo, invece, finalizzata a ripristinare la originaria situazione di dominio pubblico sul bene culturale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Per stabilire quali siano gli elaborati necessari per la formazione di un Piano Attuativo occorre far riferimento, al comb. disp. dell'articolo 28 della legge 05.08.1978, n. 457 e dell’art. 13 L. 1150/1942.
In particolare, l’art. 28 della legge 05.08.978, n. 457, prevede: “Per quanto non stabilito dal presente titolo si applicano ai piani di recupero le disposizioni previste per i piani particolareggiati dalla vigente legislazione regionale e, in mancanza, da quella statale.”.
L’art. 13 L. 1150/1942 definisce espressamente il contenuto dei piani particolareggiati, prevedendo, al comma 2,: “[2] Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere corredato dalla relazione illustrativa e dal piano finanziario di cui al successivo art. 30.”.
Pertanto, gli elaborati da allegare ai Piani di Recupero sono la relazione illustrativa e il piano finanziario.
Ai sensi dell’art. 30 L. 17/08/1942, n. 1150 il piano finanziario è costituito da “una relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per l'acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali necessarie per l'attuazione del piano.”.
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5. Con il sesto motivo è dedotta la violazione dell’art. 19 L.R. 11/2004. I ricorrenti affermano che il Piano approvato sarebbe illegittimo, poiché ad esso non sono stati allegati: la relazione sulla verifica di compatibilità geomorfologica e idrogeologica dell’intervento, il capitolato, il preventivo sommario di spese, il piano finanziario.
Il motivo è infondato.
Si osserva, in proposito, che l’art. 19, c. 4, L.R. 11/2004 non prevede che il Piano attuativo sia costituito da tutti gli elaborati indicati nell’elenco in esso contenuto, ma espressamente afferma che il Piano è formato da quegli elaborati che, “in funzione degli specifici contenuti” del Piano stesso, risultino “necessari”.
Lo stesso art. 19 L. r. 11/2004 stabilisce che il Piano attuativo ha “i contenuti e l’efficacia: a) del piano particolareggiato e dei piani di lottizzazione, di cui agli articoli 13 e 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 "Legge urbanistica" e successive modificazioni”.
Pertanto, per stabilire quali siano gli elaborati necessari per la formazione del Piano in esame, occorre far riferimento, al comb. disp. dell'articolo 28 della legge 05.08.1978, n. 457 e dell’art. 13 L. 1150/1942.
In particolare, l’art. 28 della legge 05.08.978, n. 457, prevede: “Per quanto non stabilito dal presente titolo si applicano ai piani di recupero le disposizioni previste per i piani particolareggiati dalla vigente legislazione regionale e, in mancanza, da quella statale.”.
L’art. 13 L. 1150/1942 definisce espressamente il contenuto dei piani particolareggiati, prevedendo, al comma 2,: “[2] Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere corredato dalla relazione illustrativa e dal piano finanziario di cui al successivo art. 30.”.
Pertanto, gli elaborati da allegare ai Piani di Recupero sono la relazione illustrativa e il piano finanziario.
Ai sensi dell’art. 30 L. 17/08/1942, n. 1150 il piano finanziario è costituito da “una relazione di previsione di massima delle spese occorrenti per l'acquisizione delle aree e per le sistemazioni generali necessarie per l'attuazione del piano.”.
Nel caso di specie, il Piano di recupero era formato da entrambi i documenti. Infatti, oltre alla relazione illustrativa, che risulta allegata, è stato redatto il computo metrico estimativo delle spese necessarie per la sistemazione dell’area. L’assenza di un documento previsionale relativo alle spese per l’acquisizione delle aree, invece, non è idoneo ad inficiare la completezza dell’istruttoria, poiché nella delibera di approvazione del Piano di recupero è espressamente previsto, alla lettera b), che l’onere finanziario di indennizzo dell’area oggetto d’esproprio sarà a carico dei proprietari proponenti (v. doc. 1 e ss.)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio consolidato che l’inclusione delle strade nell’elenco delle vie pubbliche, o gravate da uso pubblico, determina un’inversione dell’onere della prova circa la natura privata delle stesse, che grava sul soggetto che abbia interesse ad affermarlo.
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La presenza di taluni altri indici consente alla giurisprudenza civile di ritebere provata la natura pubblica della strada.
Invero, "Ciò che, invece, risulta essenziale per sapere se una strada è pubblica o privata ed effettivamente determina la natura pubblica di una strada (escludendo, quindi, che possa considerarsi privata) è la ricorrenza di una serie di requisiti come, ad esempio, i seguenti:
   • l’uso pubblico (cioè l’uso della strada da parte di un numero indeterminato di persone);
   • l’ubicazione della strada all’interno del perimetro dei centri abitati;
   • il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nell’ambito edilizio ed urbanistico (che, ad esempio, abbia effettuato attività di manutenzione della strada);
   • l’inclusione nelle mappe catastali;
   • la classificazione della strada come comunale da parte del consiglio comunale;
   • l’inclusione di essa nella toponomastica cittadina con l’attribuzione della numerazione civica;
   • la mancanza di elementi probatori validi per sostenere la opposta tesi della natura privata della strada”).
Nel caso di specie, la strada è soggetta alla manutenzione da parte dell’Amministrazione ed è inserita nella toponomastica cittadina con attribuzione del numero civico.
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6. Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano che il piano di recupero, in parte qua, sarebbe affetto dal vizio di eccesso di potere e difetto di istruttoria. L’Amministrazione, infatti, avrebbe approvato il Piano basandosi sul falso presupposto che via Maroncelli sia asservita all’uso pubblico, mentre si tratterebbe di una strada privata, costruita dai ricorrenti.
La censura è generica e, comunque, smentita dagli atti.
È generica poiché dall’istruttoria procedimentale risulta che l’Amministrazione ha agito sul presupposto che la strada fosse sì privata, ma soggetta all’uso pubblico. Pertanto, per affermare che le deliberazioni impugnate sono state adottate su un presupposto errato, i ricorrenti non avrebbero dovuto semplicemente ribadire –senza peraltro addurre alcun supporto probatorio– che la strada è privata, ma anche contestare che fosse asservita all’uso pubblico. I ricorrenti hanno effettuato tale contestazione solo genericamente nella memoria depositata in vista dell’udienza di merito, quindi tardivamente.
Si può, comunque, ritenere provato quantomeno che la strada fosse asservita all’uso pubblico sulla scorta della documentazione agli atti.
Agli atti risulta, infatti, che via Maroncelli è stata denominata con provvedimento di Giunta Municipale del 02.10.1979, n, 301 ed inserita nell’elenco delle strade comunali.
Costituisce principio consolidato che l’inclusione delle strade nell’elenco delle vie pubbliche, o gravate da uso pubblico, determina un’inversione dell’onere della prova circa la natura privata delle stesse, che grava sul soggetto che abbia interesse ad affermarlo (TAR Salerno, (Campania), sez. II, 25/01/2018).
Inoltre i proprietari delle aree su cui fu edificata, hanno assunto lo specifico impegno di costituire sulla strada una servitù di pubblico transito con l’art. 2 della convenzione di lottizzazione dell’area (cfr. doc. 11 della produzione del Comune).
Risulta, altresì non contestata specificamente la presenza di taluni degli altri indici in forza dei quali la giurisprudenza civile ritiene provata la natura pubblica della strada (cfr. Cass., sent. n. 23705 del 09.11.2009 “Ciò che, invece, risulta essenziale per sapere se una strada è pubblica o privata ed effettivamente determina la natura pubblica di una strada (escludendo, quindi, che possa considerarsi privata) è la ricorrenza di una serie di requisiti come, ad esempio, i seguenti:
   • l’uso pubblico (cioè l’uso della strada da parte di un numero indeterminato di persone);
   • l’ubicazione della strada all’interno del perimetro dei centri abitati;
   • il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione nell’ambito edilizio ed urbanistico (che, ad esempio, abbia effettuato attività di manutenzione della strada);
   • l’inclusione nelle mappe catastali;
   • la classificazione della strada come comunale da parte del consiglio comunale;
   • l’inclusione di essa nella toponomastica cittadina con l’attribuzione della numerazione civica;
   • la mancanza di elementi probatori validi per sostenere la opposta tesi della natura privata della strada
”).
In particolare, la strada è soggetta alla manutenzione da parte dell’Amministrazione ed è inserita nella toponomastica cittadina con attribuzione del numero civico.
Di contro, i ricorrenti, nulla hanno addotto a sostegno della natura privata della strada, non fornendo neppure un principio di prova dell’unico fatto dedotto, ovvero che essa sarebbe di uso esclusivo dei proprietari, il che, invero, oltre a contrastare con gli impegni assunti in sede di lottizzazione, sarebbe stato agevole provare (mediante, ad esempio, documentazione fotografica che rappresenti segnali di interdizione all’accesso, barre delimitatrici, o semplici cartelli che indichino la natura privata della strada)
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 02.01.2019 n. 10 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti da demolizione utilizzati per riempimento di cava - Responsabilità del proprietario del terreno e dell'esecutore dei lavori - Artt. 183 e 256 d.l.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, si configura il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 152/2006, anche per i soggetti che rivestono la qualità di legale rappresentante della società esecutrice dei lavori, in concorso con il proprietario dei terreni in qualità di soggetto interessato al risultato finale. Nella specie, il proprietario del terreno e committente dei lavori in concorso con l'appaltatore dei lavori avevano effettuato attività di raccolta di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da demolizioni edilizia ed avevano utilizzato gli stessi unitamente alla terra per effettuare il riempimento di cava.
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Sottoprodotto - Requisiti - Disciplina eccezionale e derogatoria - Onere della prova - Art. 184-bis D.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, la prova dell'esistenza dei requisiti del sotto-prodotto grava sull'imputato, perché la disciplina sulle terre e rocce da scavo ha natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella ordinaria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58302 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una tettoia - Disciplina antisismica - Applicazione a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica - Pericolo per la pubblica incolumità - Fattispecie: leggi della regione Sicilia in deroga alla legislazione nazionale - Artt. 83 e 93, 95 d.P.R. n. 380/2001
In tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi (Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano).
Pertanto, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio).
Nella specie, le disposizioni delle leggi della regione Sicilia in deroga alla legislazione nazionale, la chiusura di terrazze e la copertura di spazi interni con strutture precarie non sono soggette a concessione o autorizzazione, si applicano limitatamente alla materia dell'urbanistica e non possono quindi essere estese alla diversa disciplina edilizia antisismica e a quella per le costruzioni in conglomerato cementizio armato, attenendo tali materie alla sicurezza statica degli edifici, come tale rientrante nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma secondo, Cost.; ne consegue che tali opere continuano ad essere soggette ai controlli preventivi previsti dalla legislazione nazionale (Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e a.).

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Normativa antisismica - Omesso preavviso d'inizio attività è reato istantaneo - Termine di prescrizione delle contravvenzioni - Decorrenza - Giurisprudenza.
In materia di normativa antisismica, la fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93 d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Cass. Sez. U, n. 18 del 14/07/1999, Lauriola e aa.), sicché il termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa denuncia di inizio lavori in zona sismica, e di esecuzione dei medesimi in assenza di autorizzazione, decorre dalla data di inizio dei lavori (Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori, Rv. 250487) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58316 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati concernenti le costruzioni nelle zone sismiche e citazione dirigente ufficio tecnico regionale - Valutazione circa la rilevanza della deposizione - L'omissione non genera nullità - artt. 44, 83, 95 e 98 d.p.r. 380/2001.
L'obbligo previsto dall'art. 98, comma 2, d.P.R. 380 del 2001, di citare per il dibattimento il dirigente del competente ufficio tecnico regionale, ai fini della sua escussione nei procedimenti relativi ai reati concernenti le costruzioni nelle zone sismiche, deve ritenersi subordinato alla valutazione circa la rilevanza della sua deposizione in ordine all'accertamento delle contravvenzioni o all'esercizio del potere-dovere di adottare le particolari statuizioni previste dal terzo comma della disposizione nel caso di violazioni di carattere sostanziale.
In ogni caso, la sua omissione non genera nullità e non integra, per ciò solo, gli estremi della mancata assunzione di una prova decisiva deducibile con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen..

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Reati riguardanti la prevenzione del rischio sismico - Comuni o aree sottoposte alla legislazione antisismica - Fonti secondarie di diritto oggettivo - Principio "iura novit curia" - Applicabilità della disciplina - Controllo preventivo da parte della P.A. - Giurisprudenza.
In tema di reati riguardanti la prevenzione del rischio sismico, l'individuazione dei comuni e delle aree sottoposte alla legislazione antisismica non è tema di prova, in quanto gli ambiti territoriali in questione sono definiti da norme poste da fonti secondarie di diritto oggettivo, che è dovere del giudice conoscere in applicazione del principio "iura novit curia" (Sez. 3, n. 5455 del 28/11/2013, dep. 2014, Nincheri e a.; Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo e a.).
Inoltre, le disposizioni previste dagli artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti; Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58313 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Motori di veicoli fuori uso - Rifiuti pericolosi - Rimozione dell'olio (motore e circuito idraulico) - Operazioni di recupero e messa in sicurezza - Piccola tolleranza o tracce e cospicui spandimenti di olio - Differenza - Fattispecie - Artt. 183, 184-ter, 258 D.L.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, a norma dell'art. 184-ter d.lgs. 152/2006 e del d.lgs. 24.06.2003, n. 209 (recante, Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai veicoli fuori uso) -v., in particolare, l'Allegato 1, punto 5.1., lett. e- le operazioni per la messa in sicurezza dei veicoli fuori uso, necessarie per determinare il loro recupero con conseguente cessazione della qualifica di rifiuto, prevedono la rimozione dell'olio (motore e del circuito idraulico) e, se pure può accettarsi una piccola tolleranza, vale a dire che ne rimangano tracce, certo non può ritenersi recuperato e messo in sicurezza un motore usato da cui fuoriescano cospicui spandimenti di olio, come avvenuto nel caso di specie che perdura la sua - oggettiva - natura di rifiuto pericoloso (cfr. All. D al d.lgs. 152 del 2006, sub codice CER 16 01 04).
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RIFIUTI - Trasporto di rifiuti pericolosi eseguito senza formulario o con formulario recante dati incompleti o inesatti - Penale rilevanza delle condotte - Art. 483 cod. pen. delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.
In tema di trasporto di rifiuti pericolosi eseguito senza formulario ovvero con formulario recante dati incompleti o inesatti, la disposizione prevista dall'art. 4, comma secondo, d.lgs. 07.07.2011, n. 121, che ha differito la parziale depenalizzazione conseguente al d.lgs. 03.12.2010, n. 205 alla decorrenza degli obblighi di operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti denominato SISTRI (da ultimo prorogata al 31.12.2018, con art. 1, comma 1134, L. 27.12.2017, n. 205, legge di bilancio), ha con efficacia innovativa reintrodotto la penale rilevanza di quelle condotte, applicandosi tuttavia -esclusa la sua natura meramente interpretativa- soltanto ai fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore (16.08.2011), quali sono quelli di specie (Sez. F, n. 36275 del 25/08/2016, Gorzanelli e a.).
Nella fase transitoria è stato dunque mantenuto l'obbligo di predisporre il formulario di identificazione dei rifiuti durante il loro trasporto di cui all'art. 193 d.lgs. 152 del 2006, indicandovi dati esatti e completi, con conseguente rilevanza penale della condotta omissiva, nel caso di trasporto di rifiuti pericolosi, a norma dell'art. 258, comma 4, dello stesso provvedimento nella versione vigente prima della modifica operata con d.lgs. 205 del 2010.

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RIFIUTI - Operatore nel settore - Obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile - Invocazione della buona fede - Onere della prova.
In tema di rifiuti, chi opera nel settore è gravato dell'obbligo di acquisire informazioni circa la specifica normativa applicabile, sicché, qualora deduca la propria buona fede, non può limitarsi ad affermare di ignorare le previsioni di detta normativa, ma deve dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la disposizione violata (Sez. 3, n. 18928 del 15/03/2017, Valenti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.12.2018 n. 58312 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAOpere di urbanizzazione a scomputo.
All'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla soglia comunitaria (euro 5.548.000), attuata dal titolare dell'abilitazione a costruire, non si applica il codice dei contratti pubblici.

Il Consiglio di Stato, Comm. speciale, con il parere 24.12.2018 n. 2942 (Autorità nazionale anticorruzione: Linee guida n. 4 - Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici - Opere di urbanizzazione a scomputo) ha spiegato come applicare la deroga prevista dall’articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001.
Nel riprendere le conclusioni del parere 12.02.2018 n. 361 i giudici sottolineano che le opere di urbanizzazione devono essere realizzate nell'ambito degli strumenti attuativi, degli atti equivalenti, degli interventi in attuazione dello strumento urbanistico generale, e devono essere funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio.
Sono funzionali le opere di urbanizzazione primaria, come fogne, strade, e tutti gli ulteriori interventi indicati dall'articolo 16, comma 7, del Dpr 380/2001, la cui realizzazione è indirizzata al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell'opera edilizia, oggetto del titolo abilitativo a costruire.
Per applicare l'articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001 occorre prima procedere al calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi: il risultato è dato dalla somma di tutte le opere di urbanizzazione che il privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non. Ma solo per le opere funzionali il privato potrà avvalersi della deroga prevista dall'articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001 se il valore complessivo delle opere di urbanizzazione non raggiunge la soglia comunitaria, calcolata in base all'articolo 35, comma 9, del Dlgs 50/2016. Invece, qualora sia sforato questo limite scatta per il privato l'obbligo di applicare il Dlgs 50/2016 sia per le opere funzionali, sia per quelle non funzionali.
Le opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare del permesso di costruire quale scomputo degli oneri di urbanizzazione vanno considerate come un'unica opera pubblica da realizzarsi contestualmente, seppure costituita da diverse tipologie di opere che possono essere considerate come singoli lotti in relazione alla loro singola natura.
Occorre sommare il valore di ciascuna di esse per valutare se questo complessivo appalto superi o meno la soglia comunitaria.
Si applica, inoltre, l'articolo 35, comma 11, del Dlgs 50/2016. Pertanto, quando un'opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti separati, seppure il valore complessivo stimato della totalità dei lotti sia superiore alla soglia comunitaria, i lotti Notizie quotidiani frazionati possono essere aggiudicati senza applicare le procedure previste dal Dlgs 50/2016.
Purché i singoli lotti siano ciascuno inferiore a un milione al netto di Iva, e il valore cumulato dei lotti aggiudicati non superi il 20% della somma dei lotti in cui l'opera prevista è stata frazionata. In tale ultimo caso «opera prevista», secondo i giudici, è la risultante delle opere di urbanizzazione addossate al titolare del permesso che vanno considerate, per il calcolo delle soglie, come un'unica «opera prevista» oggetto di un unico appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2019).
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PARERE
Premessa
Con il quesito in oggetto il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione – Anac, con nota prot. n. 16675 del 09.11.2018, ha chiesto di acquisire il parere del Consiglio di Stato con specifico riguardo alla tematica delle opere di urbanizzazione a scomputo, e cioè alle opere eseguite dal titolare del permesso di costruire scomputando i relativi oneri dai contributi dovuti ai Comuni per le opere di urbanizzazione.
In particolare, l’Anac si riferisce al punto 2.2 del paragrafo 2 (Il valore stimato dell’appalto) delle proprie Linee guida n. 4 dell’01.03.2018, recanti “
Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”, che riproducono in parte qua il parere n. 361 del 12.02.2018 reso dal Consiglio di Stato.
Nel punto 2.2 delle suindicate Linee guida si legge testualmente che “
Per le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel calcolo del valore stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i lavori di urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a diversi lotti, connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire. Nel caso di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, di importo inferiore alla soglia comunitaria, detto valore deve essere calcolato - tenendo conto dell'intervenuta abrogazione del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 - secondo i parametri stabiliti dall'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva 2014/241 UE e dall'articolo 35 del Codice dei contratti pubblici. Al ricorrere della suindicata ipotesi, per effetto della previsione derogatoria contenuta nell'articolo 16, comma 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001: 1) nel caso di affidamento a terzi dell'appalto da parte del titolare del permesso di costruire non trovano applicazione le disposizioni del decreto legislativo n. 163 del 2006 ed ora del Codice dei contratti pubblici; 2) di conseguenza, il valore delle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, di importo inferiore alla soglia comunitaria, ai fini della individuazione del valore stimato dell'appalto, non si somma al valore delle altre opere di urbanizzazione eventualmente da realizzarsi".
Si legge nel documento che contiene il quesito formulato dall’Anac che l’esigenza di sottoporre al Consiglio di Stato la richiesta di intervento interpretativo del soprariportato punto 2.2 consegue al ricevimento da parte della stessa Anac di una informativa proveniente dalla Struttura di missione per le procedure di infrazione del Dipartimento per le politiche europee presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in ordine alla segnalazione della Commissione Europea in merito ad un possibile contrasto tra quanto contenuto nel citato punto 2.2 e l'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva 2014/24/UE, paventando il rischio dell'apertura di una procedura di infrazione.
In particolare, si puntualizza nella richiesta di parere, il sottopunto n. 2 della elencazione inserita nel secondo periodo del punto 2.2 (che reca le seguenti espressioni “
di conseguenza, il valore delle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, di importo inferiore alla soglia comunitaria, ai fini della individuazione del valore stimato dell'appalto, non si somma al valore delle altre opere di urbanizzazione eventualmente da realizzarsi") potrebbe rappresentare una previsione interpretativa che si pone in contrasto con quanto disposto dall'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva 2014/24/UE, nella parte in cui sembra prevedere che, in caso di esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ammessa dall'articolo 16, comma 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 per importi di rilievo infracomunitario, il valore di tali opere, appaltabile in deroga alle procedure di evidenza pubblica regolate dal Codice dei contratti pubblici, possa essere determinato senza tenere conto del valore complessivo delle opere di urbanizzazione (ossia escludendo anche le restanti opere di urbanizzazione secondaria, e primaria non funzionali).
Per superare i dubbi sollevati dalla Commissione Europea l’Anac suggerisce un’interpretazione comunitariamente orientata del sottopunto 2 inserito nel punto 2.2 delle Linee guida n. 4, nel senso che lo scorporo -dal valore complessivo dell'opera- degli interventi di cui all'articolo 16, comma 2-bis, del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 sia consentito solo a condizione che il valore complessivo dell'opera stessa non raggiunga l'entità della soglia comunitaria. Unicamente in siffatta ipotesi, il valore di tali opere potrebbe essere scorporato dalle restanti opere di urbanizzazione e, per l'effetto, affidato dal titolare del permesso di costruire senza l'adozione delle procedure di evidenza pubblica previste dal Codice dei contratti pubblici.
Viceversa, laddove l'importo complessivo delle opere si situasse al di sopra dell'importo considerato dalle direttive comunitarie, allora anche la porzione di opere di urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ancorché in sé di valore inferiore alla predetta soglia, dovrebbe essere ricompresa nell'ambito degli affidamenti che la stazione appaltante è tenuta a gestire nel (dovuto) rispetto del Codice dei contratti pubblici e ciò perché attratta verso la soglia comunitaria in ragione del valore totale delle opere di urbanizzazione da realizzare.
L’Autorità ha quindi chiesto al Consiglio di Stato di esprimere il proprio avviso circa la condivisibilità o meno della suesposta interpretazione e, nel caso in cui dovesse ritenersi non corretta, di specificare quale possa essere la interpretazione più idonea a scongiurare che l’Italia possa incorrere in una procedura di infrazione comunitaria.
L’Anac ha altresì chiesto che venga espresso un parere in ordine all'incidenza, rispetto alla questione emarginata, della disposizione recata dall'articolo 35, comma 11, del Codice dei contratti allo scopo di valutare l'opportunità di inserire uno specifico richiamo all'interno del punto 2.2 delle Linee guida n. 4.
Tale norma sembra ammettere, in coerenza con quanto stabilito dall'articolo 5, paragrafo 10 della direttiva 2014/24/UE, che uno o più lotti possano essere scorporati dai restanti lotti di cui si compone l'opera, a condizione, per i lavori, che il singolo lotto valga meno di 1 milione di euro e che la sommatoria dei lotti scorporati (e aggiudicati) meno del 20% del valore complessivo dell'opera.
Il tutto potrebbe avvenire, per espressa previsione sia della direttiva che della norma nazionale, in deroga al principio sancito dall'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva, riprodotto all'articolo 35, comma 9, del Codice.
Nella fattispecie, dunque, applicando l'articolo 35, comma 11, del Codice e sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il lotto relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo in via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse di rilevanza comunitaria.
L’Autorità chiede, quindi, conferma circa la corretta interpretazione della disposizione summenzionata, anche in relazione all'interferenza con l'articolo 35, comma 9, del Codice, allo scopo di valutare l'opportunità di inserire uno specifico richiamo all'interno del punto 2.2 delle Linee guida n. 4.
Considerato:
A) Con riferimento al primo quesito ed in via preliminare, la Commissione rileva che è già presente nella corpo della motivazione del parere n. 361, reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato il 12.02.2018, l’evidente illustrazione degli elementi di interpretazione (corretta) di quanto è stato poi riprodotto dall’Autorità nazionale anticorruzione al sottopunto 2.2 del punto 2 delle Linee guida n. 4 dell’01.03.2018, con la conseguenza che, al fine di superare il dubbio sottoposto all’esame di questa Commissione speciale, sembra sufficiente riportarsi a detta illustrazione, non palesandosi l’assoluta necessità di prospettare una “
interpretazione comunitariamente orientata” di quanto scritto al sottopunto 2.2 delle Linee guida, come invece è stato suggerito dall’Anac nella richiesta di parere pervenuta il 09.11.2018, prot. n. 16675.
Ed invero:
   - come si è segnalato nel citato parere n. 361 del 2018, l'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a mente del quale "
Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui al comma 7 (del medesimo art. 16, n.d.rr.), di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163"- contiene una evidente (ed eccezionale) deroga normativa all'applicazione delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse pubbliche laddove l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria (purché realizzate "Nell'ambito degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico generale, (...) funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del territorio, (...)") sia attuata direttamente dal titolare dell'abilitazione a costruire e l'importo delle stesse sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria;
   - giova precisare che per “
opere funzionali” si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es., fogne, strade e tutte gli ulteriori interventi elencati, in via esemplificativa, dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire (quest’ultimo nelle varie articolazioni previste dalle leggi, anche non nazionali) e, comunque, solo quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario del titolo abilitativo a costruire e da quest’ultimo specificate;
   - fermo quanto sopra si presenta necessario ribadire, ancora una volta, che il calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione, intesa nella sua interezza, è dato dalla somma di tutte le opere di urbanizzazione che il privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non. Tale operazione, avente dunque ad oggetto la definizione dell’importo complessivo al quale ammonta la realizzazione delle opere di urbanizzazione, deve essere effettuata prima di ogni ulteriore valutazione circa la possibilità di applicazione della deroga di cui all'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, giacché l’operatività di quest’ultima resta direttamente condizionata dall’esito dell’accertamento in ordine al calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione da realizzarsi;
   - se il valore complessivo di tali opere –qualunque esse siano– non raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, solo allora il privato potrà avvalersi della deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001 ed esclusivamente per quelle funzionali;
   - al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere superi la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per quelle non funzionali;
   - in termini ancora più semplici si deve ribadire l’iter logico già seguito nel parere n. 361 del 2018 di questo Consiglio, vale a dire che l’insieme delle opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare del permesso di costruire come scomputo degli oneri di urbanizzazione, deve essere considerato nel suo insieme come se fosse un'unica opera pubblica da realizzarsi contestualmente, sia pure costituita da diverse tipologie (opere di urbanizzazione primaria, primaria funzionali, secondaria) le quali, ciascuna per sé, possono essere considerate come singoli lotti in relazione alla loro singola natura (fogne, strade, illuminazione etc.). Ne consegue che, per valutare se questo complessivo appalto virtualmente unitario, composto da più opere disomogenee, superi o meno la soglia comunitaria, in applicazione dell’art. 35, comma 9, del Codice occorre sommare il valore di ciascuna di esse. Ciò refluisce, per altro, sulla soluzione al secondo quesito posto dall’Anac di cui più avanti.
   - tale essendo l’iter argomentativo del sottopunto 2.2 inserito nel punto 2 delle Linee guida n. 4 del 2018, per come redatto dall’Anac in seguito al parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 361 del 2018, spetterà alla predetta Autorità, sfuggendo tale compito ai poteri di questa Commissione speciale, valutare se si renda indispensabile o meno esternare tali motivazioni in seno alle Linee guida già approvate e quale sia la procedura corretta per effettuare tale integrazione.
B) Con un secondo quesito, del tutto nuovo rispetto alla richiesta che (a suo tempo) è stata all’origine del parere del Consiglio di Stato n. 361 del 2018, l’Anac ha chiesto conferma se l’articolo 35, comma 11, del Codice dei contratti pubblici ammetta, in coerenza con quanto stabilito dall'articolo 5, paragrafo 10 della direttiva 2014/24/UE, che uno o più lotti possano essere scorporati dai restanti lotti di cui si compone l'opera, a condizione, per i lavori, che il singolo lotto valga meno di 1 milione di euro e che la sommatoria dei lotti scorporati (e aggiudicati) meno del 20% del valore complessivo dell'opera.
Questa Commissione speciale ritiene che tale lettura della norma non si ponga in contrasto con il tenore letterale dell'articolo 5, paragrafo 10 della direttiva 2014/24/UE ed anzi costituisca uno strumento di “
tolleranza” applicabile ogni qualvolta occorra sommare il valore di un affidamento suddiviso in più lotti.
Per semplificare, anche in questo caso il ragionamento e renderlo più comprensibile, si deve richiamare l’osservazione sopra espressa secondo cui il coacervo delle opere di urbanizzazione a scomputo addossate al titolare del permesso di costruire deve essere considerato, agli effetti del calcolo delle soglie, come una unica “
opera prevista” oggetto di un unico appalto. Si è già precisato che se la sommatoria di tale coacervo supera la soglia europea tutte le opere dovranno essere assoggettate al codice.
Si rende tuttavia applicabile in questo caso anche l’art. 35, comma 11, del Codice, il quale, in diretta, letterale e pedissequa applicazione dell’art. 5, par. 10 della direttiva 2014/24/UE, stabilisce che, in via di eccezione, quando un’opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti separati, e quand’anche il valore complessivo stimato della totalità dei lotti di cui essa si compone sia superiore alla soglia, ciò non ostante ai lotti frazionati in questione non si applica la direttiva, e dunque possono essere aggiudicati senza le procedure in essa previste come obbligatorie. Ciò può avvenire però a due condizioni:
1. Che, i lotti in cui è stata frazionata l’”
opera prevista” siano ciascuno inferiore a € 1.000.000,00,
2. Che la somma di tali lotti non superi il 20 per cento della somma di tutti i lotti in cui l’opera prevista è stata frazionata. In questo caso per “
opera prevista” si deve intendere, appunto, il coacervo delle opere di urbanizzazione addossate al titolare del permesso.
In questo senso, potendosi su tale aspetto concordare con quanto suggerito dall’Anac nel quesito qui in esame, applicando l'articolo 35, comma 11, del Codice e sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il lotto relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo in via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse di rilevanza comunitaria, a condizione che esso fosse di valore inferiore a € 1.000.000,00, e non superasse il venti per cento di tutte le opere a scomputo addossate al titolare.

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Modifica della destinazione d'uso giuridicamente rilevante - Interventi edilizi sugli edifici - Rilascio del permesso di costruire preventivo - Necessità - Manutenzione straordinaria e risanamento conservativo - Originaria destinazione d'uso - Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.P.R. n. 380/2001.
In presenza di modifica della destinazione d'uso giuridicamente rilevante, le opere che rendono necessario il previo rilascio del permesso di costruire e che, in mancanza, integrano gli estremi del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del 2001 (o lett. c, quando il fatto avvenga in zone vincolate) non sono quelle che, di per sé considerate, giustificherebbero la necessità di ottenere quel titolo abilitativo, essendo invece sufficienti opere anche modeste, riconducibili a ciascuno degli "interventi edilizi" sugli edifici considerati nell'art. 3, comma 1, lett. da a) a d), d.P.R. 380 del 2001.
Le definizioni di detti interventi edilizi, di fatti, hanno un tratto comune chiaro ed imprescindibile: qualsiasi intervento su edifici preesistenti, per poter essere realizzato con s.c.i.a. (o con c.i.l.a.), piuttosto che con permesso di costruire, non deve portare ad una modifica della destinazione d'uso del fabbricato.
La conclusione si trae dalle definizioni della manutenzione straordinaria (che postula che «si mantenga l'originaria destinazione d'uso»: art. 3, comma 1, lett. b, d.P.R. 380 del 2001), del restauro o risanamento conservativo (le cui modifiche all'organismo edilizio debbono consentire «destinazioni d'uso...compatibili»: art. 3, comma 1, lett. c, d.P.R. 380 del 2001), e pure della ristrutturazione edilizia.

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Mutamento di destinazione d'uso - Categorie d'interventi funzionalmente autonome e centri storici - Opere interne, ristrutturazione edilizia ordinaria e straordinaria, restauro e di risanamento conservativo - Titoli abilitativi - Permesso di costruire, s.c.i.a., c.i.l.a., nulla osta - Modifica della destinazione d'uso senza opere - Assoluta modestia di opere conservative - Giurisprudenza.
Alla stregua della vigente disciplina urbanistica, le opere interne e gli interventi di ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo necessitano di concessione edilizia (permesso di costruire), ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso tra categorie d'interventi funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea.
Gli stessi, qualora debbano essere realizzati fuori dei centri storici e comportino mutamento della destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea, richiedono, invece, soltanto la semplice denuncia di attività
(Sez. 3, n. 35177 del 12/07/2001, Cinquegrani, ove il riferimento alla d.i.a., a seguito delle modifiche successivamente intervenute a proposito del titolo edilizio abilitativo semplificato, va ora inteso, a seconda dei casi, con riguardo alla s.c.i.a. o alla c.i.l.a.).
Nella giuirsprudenza, tale orientamento è stato riaffermato, tanto da divenire ius receptum, e in talune di esse il principio è stato esteso anche al caso di modifica della destinazione d'uso senza opere (Sez. 3, n. 13122 del 12/02/2003, Guaetta e a.; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013, dep. 2014, Tortora; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, Stellato; Sez. 3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e a.).
Inoltre, per gli interventi di manutenzione ordinaria, laddove il requisito del mantenimento della destinazione d'uso non viene espressamente contemplato -deve ritenersi- sul rilievo che l'assoluta modestia di opere conservative, che rientrano addirittura nell'attività edilizia libera (v. art. 6, comma 1, lett. a, d.P.R. 380 del 2001), necessariamente, ed implicitamente, postula il mantenimento della medesima destinazione d'uso dell'edificio.

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Cambio destinazione d'uso di immobili esistenti tra categorie funzionalmente diverse - Centri storici - Funzionalità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria - Precisi scopi di interesse pubblico del bene - Disciplina normativa sugli standard - Misura del contributo di urbanizzazione e organizzazione dei servizi.
Il cambiamento di destinazione d'uso di immobili esistenti, tra categorie funzionalmente diverse (e, nell'ambito dei centri storici, anche nell'ambito della stessa categoria), può compromettere le scelte di pianificazione dell'amministrazione, anche con riguardo alla funzionalità delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria apprestate per le diverse zone del territorio comunale, oltre a rilevare sulla misura del contributo di urbanizzazione, di regola previsto in termini differenti a seconda delle diverse destinazioni urbanistiche.
Proprio per questo, la destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto il complessivo assetto territoriale
(Cass., Sez. 3^: 07.03.2008, Desumine e 12.07.2002, Cinquegrani; così., in motivazione, Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, Tarallo).
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Mutamenti di destinazione d'uso anche se non accompagnati da opere edilizie - Leggi regionali e strumenti urbanistici comunali - Applicazione e limiti.
In materia urbanistica, con l'art. 23-ter d.P.R. 380/2001 -introdotto dall'art. 17, lett. n), d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modiff., in L. 11.11.2014, n. 164- si attribuisce giuridica rilevanza, salve le diverse opzioni eventualmente assunte dalla legislazione regionale, ai mutamenti di destinazione d'uso, anche se non accompagnati da opere edilizie, che siano idonei a determinare la riconduzione dell'immobile (o della singola unità immobiliare) ad una diversa categoria funzionale tra quelle indicate nel primo comma della disposizione.
Al di là delle questioni interpretative che possono insorgere rispetto al contenuto di tale comma
(cfr., di recente, Sez. 3, n. 6060 del 13/01/2017, Caturano), balza subito agli occhi come la disposizione, non solo non consideri il caso particolare dei centri storici, ma espressamente statuisca che, «salva diversa previsione da parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito» (art. 23-ter, comma 3, d.P.R. 380 del 2001).
Sicché, la disposizione va, tuttavia, senz'altro coordinata con il principio ricavato dalla giurisprudenza dal disposto di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del testo unico, posto che, nel far salve eventuali diverse previsioni contenute in disposizioni di legge regionali e addirittura in atti amministrativi di carattere generale come gli strumenti urbanistici, la regola ivi sancita, a fortiori, cede il passo a previsioni derogatorie contenute nella stessa legge statale qual è quella in parola
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.12.2018 n. 57989 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo abilitativo illegittimo - Principio di tassatività della norma incriminatrice - Limite della responsabilità penale - Procedimento per rilascio del permesso di costruire - Giurisprudenza - Provvedimenti cautelari reali - Artt. 6, 20, 44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini dell'integrazione dei reati di cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001, fatta salva la necessità di ravvisare in capo all'agente il necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia (oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia sostanziale di fonte normativa o risultante dalla pianificazione.
In tali casi, la "macroscopica illegittimità" del permesso di costruire non è condizione essenziale per la oggettiva configurabilità del reato, ma l'accertata esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo anche riguardo all'apprezzamento della colpa.
Pertanto, nel procedimento di riesame di provvedimenti cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, sicché può rilevarsi anche il difetto dell'elemento soggettivo del reato, qualora esso emerga "ictu oculi"
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Titolo giuridicamente inesistente o illecito - Abuso ricadente in zona vincolata - Provvedimento illegittimo per vizio macroscopico - Collusione tra amministratore e soggetti interessati - Prova non necessaria.
Sono punibili ai sensi dell'ipotesi di cui all'art. 44, comma 1, lett. b, TUE) -ovvero ai sensi della lettera c della fattispecie incriminatrice, qualora l'abuso ricada in zona vincolata- le condotte di edificazione in presenza di titolo giuridicamente inesistente o illecito.
Sicché, di fronte all'ipotesi del provvedimento illegittimo per vizio macroscopico o a quella, più tranquillizzante, del provvedimento illecito, non sarebbe neppure necessario accertare la sussistenza di un reato lato sensu collusivo tra privato che richiede il permesso e funzionario pubblico che lo rilascia, potendo l'illiceità desumersi dal grave contrasto tra l'atto adottato e la sua disciplina di riferimento: in materia edilizia deve ritenersi inesistente la concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell'attività criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del soggetto privato che la ottiene, e per la sua disapplicazione non è necessaria la prova della collusione tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con norme imperative talmente grave da determinare non la mera illegittimità dell'atto, ma la illiceità del medesimo e la sua nullità
(Sez. 3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa.)
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DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Permesso di costruire illegittimo - Sindacato del giudice penale sul provvedimento amministrativo presupposto o elemento costitutivo di un reato - Poteri del giudice penale.
Nell'ipotesi in cui si edifichi con permesso di costruire illegittimo, non si discute più di disapplicazione di un atto amministrativo illegittimo e dei relativi poteri del giudice penale, ma di potere accertativo di detto magistrato dinanzi ad un atto amministrativo che costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato.
In tale ipotesi l'esame deve riguardare non l'esistenza ontologica dello stesso, ma l'integrazione o meno della fattispecie penale "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie l'interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extrapenale... convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo"
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina urbanistico-sostanziale - Trasformazione del territorio - Permesso di costruire - Conformità degli interventi edilizi - Sanzioni e ratio - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, anche gli interventi eseguiti con s.c.i.a.., quelli assoggettati a c.i.l.a. e quelli riconducibili alle attività di edilizia libera postulano la conformità delle opere alla pianificazione urbanistica ed alla disciplina normativa (v. artt. 22, comma 1, e 23, comma 1, 6-bis, comma 1, 6, comma 1, d.P.R. 380/2001).
La conformità degli interventi di trasformazione del territorio alla disciplina urbanistico-sostanziale, dunque, è il leitmotiv che permea -e caratterizza- la legislazione urbanistica, sicché da essa non può prescindere il giudice penale nel doveroso compito di interpretare ed applicare le fattispecie incriminatrici.
Deve ritenersi, pertanto, che è sul presupposto della conformità del titolo edilizio al modello legale di riferimento che si giustifica la previsione incriminatrice di costruzione sine titulo (od in totale diforrmità) contenuta nell'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001 (richiamate dal comma 2-bis della disposizione quanto agli interventi realizzati in assenza di s.c.i.a.. alternativa al permesso).
Sarebbe, di fatti, manifestamene irragionevole -e contrastante con la complessiva ratio del sistema- sanzionare chi, pur non avendo richiesto il necessario permesso di costruire, edifichi in conformità alla disciplina urbanistico-edilizia sostanziale e considerare invece penalmente irrilevante la condotta di chi, pur munito di titolo illegittimamente rilasciato, quella disciplina violi con condotta dolosa o gravemente colposa, realizzando interventi non consentiti dalle previsioni normative o contenute negli strumenti urbanistici.
Se la prima conseguenza può essere evitata dal soggetto agente che, pur avendo modificato il territorio sottraendosi al controllo dell'amministrazione, sani la violazione formale ottenendo, con il pagamento della prevista oblazione, l'accertamento di conformità secondo il modello legale contenuto nell'art. 36 d.P.R. 380/2001, che comporta l'estinzione del reato a norma del successivo art. 45, comma 3, la seconda -paradossale- conseguenza può essere scongiurata dall'interpretazione che impedisce di attribuire rilevanza ad un provvedimento adottato in spregio alla legge
( Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori edilizi eseguiti in assenza di permesso o di titoli equipollenti - Controllo riservato alla P.A. - Condotte criminose fraudolente o collusive - Segnalazione certificata e perfezionamento tacito del necessario titolo giuridico - Falso ideologico di cui all'art. 20, comma 13, d.P.R. 380/2001 - Autoresponsabilità del privato - Violazione - Effetti.
Il reato di lavori eseguiti in assenza di permesso (o di equipollente s.c.i.a.: art. 44, comma 2-bis, d.P.R. 380/2001) tutela non già la funzione di controllo riservata alla pubblica amministrazione, ma l'esigenza di impedire trasformazioni del territorio in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.
Detto in altre parole, si punisce chi costruisce senza aver previamente ottenuto il permesso (o aver formalizzato l'equipollente s.c.i.a..) perché in questo modo non è stato consentito all'autorità pubblica preposta di effettuare i necessari controlli finalizzati ad evitare che le attività di trasformazione effettuate dai privati possano porsi in contrasto con l'ordinato sviluppo del territorio, quale definito dalle norme di legge e pianificato dall'amministrazione nel rispetto delle stesse.
Se, tuttavia, quel controllo è stato sin dall'inizio impedito con condotte criminose fraudolente (si pensi alla c.d. truffa edilizia) o collusive, oppure è stato soltanto apparentemente esercitato da un soggetto non funzionalmente competente o con un atto assunto in palese violazione della disciplina urbanistico-edilizia, l'interpretazione teleologica porta a ritenere che esso sia in radice mancato e che il provvedimento rilasciato (o la segnalazione certificata presentata) sia un titolo meramente apparente ed ictu oculi improduttivo d'effetti.
In questa ottica è stata rafforzata, con la previsione del nuovo delitto di falso ideologico di cui all'art. 20, comma 13, d.P.R. 380/2001, l'autoresponsabilità del privato, sanzionandosi la falsa attestazione, da parte di un soggetto professionalmente abilitato, di conformità del progetto (tra l'altro) «agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie» (art. 20, comma 1, TUE).
Tenendo anche conto del fatto che il delitto è punito soltanto a titolo di dolo e che l'interpretazione della disciplina urbanistica non è sempre agevole, ciò tuttavia non basta ad inficiare la più generale conclusione secondo cui il perfezionamento tacito del necessario titolo giuridico non garantisce che sia stata ragionevolmente accertata la conformità dell'opera alla normativa urbanistico-edilizia sostanziale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Esercente di un'attività autorizzata - Unico scarico illecito - Rischio di un'offesa all'ambiente - Natura di reato di pericolo - Reato di cui all'art. 137, c. 3, d.lgs. n. 152/2006 - Configurabilità - Giurisprudenza.
La natura di reato di pericolo della contravvenzione di cui all'art. 137 d.lgs. 152/2006, volta a prevenire il rischio di un'offesa all'ambiente da parte dell'esercente un'attività autorizzata, prescinde dalla valutazione del giudice sulla gravità, entità e ripetitività della condotta al fine di valutarne l'offensività in concreto, essendo anche un solo scarico, pur se episodico, idoneo a ledere il bene giuridico protetto.
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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Metodiche di prelievo e campionamento del refluo - Modalità diverse di campionamento - Criterio legale di valutazione della prova - All. 5, Parte II, d.L.vo n. 152/2006.
Le indicazioni sulle metodiche di prelievo e campionamento del refluo, contenute nell'Allegato 5, alla Parte II, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, nello specificare che la metodica normale è quella del campionamento medio non stabiliscono un criterio legale di valutazione della prova, in quanto è consentito all'organo di controllo procedere con modalità diverse di campionamento, anche istantaneo, qualora ciò sia giustificato da particolari esigenze, costituite dal tipo di scarico o dal tipo di accertamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.12.2018 n. 56670 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo (materiale tufaceo e terreno vegetale) - Attività organizzate per traffico illecito e gestione illecita di rifiuti - Differenze - Attività organizzate per traffico illecito - Configurabilità del reato - Compimento di più operazioni e l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate - Nozione di condotta abusiva - Soglia minima di rilevanza penale della condotta - Ulteriori requisiti e azioni propedeutiche - Definizione di "finalità di ingiusto profitto" - Artt. 186, 256 e 260 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 452-quaterdecies c.p. - Giurisprudenza.
In tema di rifiuti per l'integrazione del reato di cui all'art. 260 d.lgs. n. 152/2006 devono individuarsi, il compimento di più operazioni e l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, che le stesse siano con l'attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti strettamente correlate, posto che il legislatore utilizza la congiunzione "e".
E' richiesto anche il requisito dell'abusività della condotta. Tale requisito può sussistere a fronte di una struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira, anche quando la struttura non sia destinata, in via esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché il reato può configurarsi anche quando l'attività criminosa sia marginale o secondaria rispetto all'attività principale lecitamente svolta.
In questi casi si parla di reato abituale, in quanto integrato necessariamente dalla realizzazione di più comportamenti della stessa specie. L'apprezzamento circa la soglia minima di rilevanza penale della condotta deve essere effettuato non soltanto attraverso il riferimento al mero dato numerico, ma, ovviamente, anche considerando gli ulteriori rimandi, contenuti nella norma, a «più operazioni» ed all'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate» finalizzate alla abusiva gestione di ingenti quantità di rifiuti.
Ulteriori requisiti sono l'attività di cessione, ricezione, trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione abusiva di rifiuti che già risultano sanzionate penalmente e vengono agevolate dalle azioni propedeutiche, nonché l'ingente quantitativo di rifiuti, che non può essere individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale, dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma, della natura del reato e della pericolosità per la salute e l'ambiente e nell'ambito del quale l'elemento quantitativo rappresenta solo uno dei parametri di riferimento.
Infine, la verifica deve essere effettuata considerando il quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste ultime, singolarmente considerate, possono essere qualificate di modesta entità.
Quanto alla finalità di ingiusto profitto, pure richiesta dalla norma in esame per la configurabilità del delitto, si è precisato che esso non deve necessariamente consistere in un ricavo patrimoniale, potendosi ritenere integrato anche dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura, senza che sia necessario, ai fini della configurazione del reato, l'effettivo conseguimento di tale vantaggio
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56101 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi di ristrutturazione edilizia su edifici crollati o demoliti - Ripristino o ricostruzione di edifici o parti di essi - Accertamenti sulla preesistente consistenza - Volumetria delle opere - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Zona paesaggisticamente vincolata - Obbligo di rispetto della precedente sagoma - Disciplina applicabile - Artt. 142, 145, d.lgs. n. 42/2004.
Gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio
(Sez. 3, n. 40342 del 3/6/2014, Quarta).
Pertanto, detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri; Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto; V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa).

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Ristrutturazione di edifici demoliti o crollati - Identificabilità della preesistente consistenza con assoluta certezza - Nozione di "consistenza" - Verifica e limiti - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, quando, la ristrutturazione riguarda edifici demoliti o crollati, la ristrutturazione presuppone che gli stessi siano strutturalmente identificabili con assoluta certezza. Nei casi in cui, la realizzazione del nuovo manufatto, non sia un completamento o una ristrutturazione identificabili con assoluta certezza implica, conseguentemente, il rispetto delle distanze con gli edifici confinanti prevista per le nuove costruzioni.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili
(Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo e altri).
Più recentemente (Sez. 3, n. 39340 del 09/07/2018, Morciano), si è stabilito, con riferimento alla pretesa ristrutturazione di un immobile crollato, definito nel giudizio di merito come "un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro", che non è possibile l'accertamento della preesistente consistenza sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto - Illeciti - Efficacia temporale e della decadenza del permesso di costruire - Situazione fattuale e normativa è mutata - Rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire - Necessità - Art. 15 del d.P.R. 380/2001.
L'art. 15 del d.P.R. 380/2001, tratta dell'efficacia temporale e della decadenza del permesso di costruire. La ragione di una tale scelta legislativa è evidente ed è quella di dare certezza temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la situazione fattuale e normativa è mutata (Cass., Sez. 3, n. 12316 del 21/02/2007, Minciarelli).
Pertanto, i lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono dunque illeciti, perché realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma terzo dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante SCIA e che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del contributo di costruzione
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conferenza di servizi - Valore sostitutivo - Presupposti stabiliti dalla legge per il valido e lecito rilascio del provvedimento - Necessità - Art. 36 e 44 d.P.R. 380/2001 - Art. 14, c. 3-bis, L. n. 241/1990 e ss.mm..
Sebbene la legge attribuisca al provvedimento finale adottato all'esito della conferenza di servizi valore sostitutivo, a tutti gli effetti, di ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato di competenza delle amministrazioni partecipanti, debbono necessariamente sussistere gli astratti presupposti, stabiliti dalla legge, per il valido e lecito rilascio del provvedimento sostituito ed a tali specifiche disposizioni sono correlate anche la produzione degli effetti del provvedimento e le conseguenze in caso di mancanza o inefficacia dello stesso.
Escludendo, ad esempio, effetti sananti al parere favorevole espresso dal soprintendente nell'ambito del separato procedimento per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 in sede di conferenza di servizi, ex art. 14, comma 3-bis, legge n. 241 del 1990
(Sez. 3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto e altro) e riconoscendo integrato il reato previsto dall'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per la realizzazione di impianti fotovoltaici, non preceduta dal rilascio dell'autorizzazione unica rilasciata all'esito di conferenza di servizi (Sez. 3, n. 38733 del 20/03/2012, Ferrero e altro e succ. conf.), pervenendo a conclusioni analoghe con riferimento alle opere realizzate sul demanio marittimo (Sez. 3, n. 21413 del 03/03/2010, Parisi e altri)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Assimilazione acque reflue industriali alle acque reflue domestiche - Esistenza delle specifiche condizioni - Necessità - Scarico in assenza di autorizzazione o scaduta e non rinnovata - Artt. 74, 101, 137 del d.lgs. n. 152/2006.
In tema di inquinamento idrico l'assimilazione, ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, di determinate acque reflue industriali alle acque reflue domestiche è subordinata alla dimostrazione della esistenza delle specifiche condizioni individuate dalle leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le regole ordinarie (Sez. 3, n. 38946 del 28/06/2017, De Giusti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.12.2018 n. 56094 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire - Concetto di difformità parziale - Applicazione e limiti della disciplina T.U.E. - Artt. 34, 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di opere eseguite in parziale difformità del permesso a costruire, si deve ritenere che il concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi gli aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza, nonché le variazioni relative a parti accessorie che non abbiano specifica rilevanza.
Pertanto, ai fini dell'applicazione di cui all'art. 34, comma 2-ter, del d.P.R. n. 380 del 2001 "Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire", non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezze, distacchi, cubature o superficie coperta che non eccedono, per singola unità immobiliare il 5 per cento delle misure progettuali (a seguito del D.L. 29.05.2018, n. 55, convertito con modificazioni, dalla L. 24.07.2018, n. 89, ha disposto (con l'art. 1-sexies, comma 2) che "Ai fini dell'applicazione del comma 1, la percentuale di cui al comma 2-ter dell'articolo 34 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 è elevata al 5 per cento")
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.12.2018 n. 55483 - link a www.ambientediritto.it).
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ATTENZIONE: la tolleranza del 5% di cui sopra (anziché del 2%) vale esclusivamente per i comuni terremotati di cui al "D.L. 29.05.2018, n. 55, coordinato con la legge di conversione 24.07.2018, n. 89, recante: «Ulteriori misure urgenti a favore delle popolazioni dei territori della Regione Abruzzo, Lazio, Marche ed Umbria, interessati dagli eventi sismici verificatisi a far data dal 24.08.2016»".

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Regime giuridico applicabile - Deposito temporaneo o sottoprodotto - Requisiti - Inosservanza anche di una sola delle condizioni - Illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti - Grava sul produttore dei rifiuti l'onere della prova - Artt. 183 e 256, D. L.vo n. 152/2006 - Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1 e 3, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, dep. 08/07/2015, Favazzo).
Va, infatti, ricordato che, in tema di rifiuti, al fine di qualificare il deposito come temporaneo, il produttore può alternativamente e facoltativamente scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello temporale, ovvero può conservare i rifiuti per tre mesi in qualsiasi quantità, oppure conservarli per un anno purché essi non raggiungano, anche con riferimento ai rifiuti pericolosi, i limiti volumetrici previsti dall'art. 183, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006 (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 38046 del 27/06/2013, Speranza); sicché l'inosservanza anche di una sola delle condizioni imposte per il deposito temporaneo trasforma l'attività oggetto del deposito in illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti.
A tal proposito, si è, inoltre, chiarito che l'onere della prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate dall'art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina ordinaria
(Sez. 3, n. 35494 del 10/05/2016, dep. 26/08/2016, Di Stefano)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2018 n. 54702 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività di edilizia libera - Elementi di arredo delle aree pertinenti degli edifici - C.d. "glossario" delle opere libere contenuto nel d.m. 02/03/2018 - Artt. 3, 6, 10, 44 d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
L'art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), d.P.R. 380 del 2001, contempla tra le attività di edilizia libera non assoggettate ad alcun titolo abilitativo, «gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici» che dev'essere coordinato con il principio contenuto nel precedente art. 3, comma 1, lett. e.1), sicché esso non si riferisce a strutture che ampliano il preesistente edificio, ma, come la descrizione della fattispecie peraltro precisa, a manufatti separati, realizzati a servizio dello stesso nelle aree pertinenziali.
E proprio a questi si riferisce il c.d. "glossario" delle opere libere contenuto nel d.m. 02.03.2018 richiamato in ricorso, che riconduce a tale categoria il gazebo ed il pergolato, purché il manufatto sia «di limitate dimensioni e non stabilmente infisso al suolo»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato preesistente - Nozione di pertinenza - Giurisprudenza.
In materia di reati edilizi, l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i bisogni cui è destinato.
La pertinenza, richiede che si tratti di un manufatto distinto e separato da quello principale a cui è asservito, essendovi in caso contrario ampliamento dell'edificio che, laddove avvenga «all'esterno della sagoma esistente» è da considerarsi intervento di nuova costruzione ai sensi dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), d.P.R. 380 del 2001, assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo art. 10, comma 1, lett. a).
Sicché, è necessario il permesso di costruire (o la previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di trasformazione di balconi in verande
(Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa), di tettoie realizzate sul lastrico solare (Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo), di porticato addossato ad un fabbricato (Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi).
In tali casi, oltre alla modifica della sagoma, che è costituita dalla conformazione planovolumetrica della costruzione e dal suo perimetro, inteso sia in senso verticale che orizzontale (Sez. 3, n. 45588 del 28/10/2004, D'Aurelio), si determina quantomeno l'aumento della superficie coperta, né la necessità del permesso di costruire può farsi dipendere dalla natura dei materiali utilizzati o dalla più o meno facile amovibilità della struttura (Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, dep. 2015, Manfredini; Sez. 3, n. 37572 del 14/05/2013, Doppiù e a.; Sez. 3, n. 22054 del 25/02/2009, Frank)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Reato di cui all'artt. 146, 181 d.lgs. n. 42/2004 - Configurabilità - Assenza di preventiva autorizzazione - D.P.R. 13.02.2017, n. 31 - Procedura autorizzatoria semplificata.
In tema di tutela dei beni culturali e ambientali, per l'integrazione del reato di cui all'art. 181 d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di reato di pericolo, non si richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare nocumento al bene giuridico tutelato (Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299 del 15/01/2013, Simeon e a.), tali certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto esteriore degli edifici (Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli).
Nella specie, che la realizzazione di tettoie su beni paesaggisticamente vincolati in assenza di autorizzazione integri la contravvenzione di cui all'art. 181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004 è stato anche di recente affermato (Sez. 3, n. 2288 del 28/11/2017, dep. 2018, Esposito e a.) e la conclusione trova conferma nel recente d.P.R. 13.02.2017, n. 31 ("Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata"), che ribadisce come anche detti manufatti siano assoggettati al rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 146 dello stesso Codice, sia pur prevedendo una procedura semplificata laddove gli stessi abbiano contenute dimensioni.
L'Allegato B al suddetto decreto -che individua gli interventi soggetti ad autorizzazione paesaggistica da rilasciarsi con procedura semplificata- contempla infatti, al punto B.17, la «realizzazione di tettoie, porticati, chioschi da giardino di natura permanente e manufatti consimili aperti su più lati, aventi una superficie non superiore a 30 mq»
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Definizione di "gestione" e "trattamento" - Raccolta, trasporto, recupero e smaltimento - Sottoprodotto - Test di cessione - Provvedimento di autorizzazione - Necessità - Art. 260 d.lgs. n. 152/2006 oggi trasfuso nell'art. 452-quaterdecies cod. pen. - Artt. 183, 184-bis, 208 d.lgs. 152/2006.
In materia di rifiuti, la definizione di "gestione", ai fini dell'applicazione delle disposizioni di cui alla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006, è contenuta nell'art. 183, lett. n), dello stesso decreto, e abbraccia la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento.
La medesima disposizione definisce quindi le attività di "recupero" e "smaltimento", statuendo che rientra nella prima «qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno dell'impianto e o nell'economia in generale» (art. 183, lett. t, d.lgs. 152/2006); alla seconda categoria è invece riconducibile «qualsiasi operazione diversa dal recupero anche quando l'operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia» (art. 183, lett. z, d.lgs. 152/2006).
Le citate norme definitorie rimandano inoltre agli Allegati al decreto per un'elencazione non esaustiva delle operazioni di recupero (Allegato C) e di smaltimento (Allegato B). Nel primo dei menzionati allegati, sub R5 si menziona il «recupero di altre sostanze inorganiche» e nel secondo, sub D1, il «deposito sul o nel suolo». Ancora, la disposizione più volte citata definisce come "trattamento" le «operazioni di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del recupero o dello smaltimento» (art. 183, lett s, d.lgs. 152/2006).
Sicché, nella specie, costituisce attività di gestione di rifiuti, soggetta al previo rilascio del provvedimento di autorizzazione ai sensi degli artt. 208 ss. d.lgs. 152/2006 il deposito di numerose tonnellate di rifiuti, lo smaltimento di enormi quantità di rocce e terre da scavo, il recupero delle sostanze inorganiche per il riempimento del sito di cava, così sostituendo altri materiali che avrebbero potuto assolvere alla medesima funzione.

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RIFIUTI - Illecita gestione dei rifiuti - Ingiusto profitto - Organizzazione professionale (mezzi e capitali) - Pluralità delle azioni - Natura di reato abituale - Integrazione dell'art. 452-quaterdecies cod. pen..
L'integrazione della fattispecie di cui all'art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006, già previsto dall'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto dalla legge 23.03.2001, n. 103 ed ora riprodotto nell'art. 452-quaterdecies cod. pen. sanziona comportamenti non occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, per cui per perfezionare il reato è necessaria una, seppure rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali) che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni condotte in continuità temporale, operazioni che vanno valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal momento che per il suo perfezionamento è necessaria le realizzazione di più comportamenti della stessa specie (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 29.11.2018 n. 53648 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Rifiuti liquidi (prelevati) da fosse settiche, pozzi neri, vasche imhoff, bagni mobili ecc. - Pulizia manutentiva - Inapplicabilità del c. 5 dell'art. 230 TUA - Differenza di codice CER - Artt. 74, 185, 188-ter, 193, 230, 256 D.L.vo n. 152/2006.
Tutti i rifiuti liquidi (prelevati) da fosse settiche e/o pozzi neri o comunque serbatoi non connessi mediante apposite condotte alla rete fognaria (o meglio, che non integrano una rete fognaria) non rientrano nella "speciale disciplina introdotta nel 2010 legge n. 205, per una fattispecie singola e ben individuata.
Ed infatti, a conferma dell'inapplicabilità del comma 5 dell'articolo 230 TUA, è sufficiente considerare che i rifiuti originati dalla "pulizia manutentiva di reti fognarie" hanno un proprio codice CER (20.03.06) distinto rispetto a quello attribuito ai rifiuti da pozzi neri (fanghi da fosse settiche, con CER 20.03.04).
Ne consegue che, alla luce delle modalità di formazione dei rifiuti accumulati nei pozzi neri e nelle fosse settiche, nonché delle modalità operative di manutenzione di detti impianti, i rifiuti raccolti nelle vasche suddette non risultano qualificabili come rifiuti da manutenzione ex artt. 183, lett. f) e 266, comma 4, del TUA, poiché non vengono fisicamente prodotti dalle attività manutentive svolte dalle imprese.
Né possono essere, considerati ex art. 230, comma 5, del TUA, come rifiuti originati dalla pulizia manutentiva di reti fognarie pubbliche o private. Inoltre, produttore del rifiuto liquido rimane colui il quale ha prodotto il rifiuto liquido (l'insieme dei condomini; il titolare del ristorante ecc. per rimanere ai soggetti indicati —giustamente— come produttori nei FIRR), e l'autospurghista è il raccoglitore/trasportatore del rifiuto liquido.

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ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Gestori delle reti fognarie - Attività manutentiva - Esonero da adempimenti burocratici - Obbligo di tracciare la movimentazione del rifiuto - Discrimen tra scarico e rifiuto liquido - RIFIUTI - Abbandono incontrollato di liquami trasportati su autospurgo.
L'articolo 230, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006, come novellato ex lege n. 205 del 2010, ha stabilito, al fine di risolvere dubbi interpretativi precedenti e soprattutto esentare i gestori delle reti fognarie da adempimenti burocratici, che "i rifiuti provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle reti fognarie di qualsiasi tipologia ... si considerano prodotti dal soggetto che svolge l'attività manutentiva".
Dunque, la novella legislativa ha confermato il discrimen tra scarico e rifiuto liquido e di conseguenza resta valido l'indirizzo che configura il reato di cui all'art. 256 comma secondo del d.lgs. n. 152 del 2006 in caso di abbandono incontrollato di liquami trasportati su autospurgo "in quanto i liquami sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido stoccati in attesa di un successivo smaltimento"
(Sez. 3, n. 22036 del 9 13/04/2010, Chianura, cit.; Sez. 3, n. 34608 del 25/05/2011, Cannizzo).
Sicché, il discrimen tra scarichi e rifiuti liquidi interessa anche le operazioni di trasporto, pertanto, anche i reflui trasportati dall'autospurgo devono sottostare, ai regime dei rifiuti, dovendosi considerare, per le ragioni in precedenza precisate, rifiuti allo stato liquido i liquami trasportati su autospurgo.
Ne consegue che, a seguito dell'equiparazione inerente soltanto i reflui e fanghi prelevati dalle fogne, si può costituire presso il manutentore -ritenuto produttore- un deposito temporaneo, quale definito dall'articolo 183, lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006 come "raggruppamento dei rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti", onde il manutentore è esonerato dell'obbligo di munirsi di autorizzazione per lo stoccaggio provvisorio.
Resta comunque a carico del manutentore l'obbligo di tracciare la movimentazione del rifiuto dal punto di prelevamento alla sua sede e l'obbligo che deriva dall'articolo 110, comma 3, dal momento che, altrimenti, la autospurghista potrebbe raccogliere liquami e fanghi di reti fognarie in ogni parte d'Italia e recapitarli in un solo impianto, condotta vietata anche dall'articolo 182, comma 3, decreto legislativo n. 152 del 2006.

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RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Attività di stoccaggio in assenza di autorizzazione - Deposito preliminare o nella messa in riserva di rifiuti - Abbandono incontrollato.
In tema di gestione dei rifiuti, integra il reato di illecita gestione ex art. 256, comma primo, lett. a), del d.Lgs. 152 del 2006 l'attività di stoccaggio, se effettuata in assenza di autorizzazione, posto che la stessa consiste nel deposito preliminare o nella messa in riserva di rifiuti, e, quindi, conformemente anche a quanto dispone la disciplina comunitaria, deve essere considerata un'operazione di smaltimento o di recupero (Cass. Sez. 3, n. 48491 del 13/11/2013, De Sarlo).
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RIFIUTI - Scarichi diretti di reflui liquidi e liquami trasportati su autospurgo - Disciplina applicabile.
Dal combinato disposto dell'art. 74, comma 1, lett. ff) - art. 185, comma 2, T.U.A. sono sottratti alla disciplina dei rifiuti, di cui alla parte quarta del T.U.A., soltanto gli scarichi diretti di reflui liquidi, intendendosi per scarico diretto quello che mediante "condotta" immette lo scarico liquido dal luogo di produzione nel corpo ricettore senza soluzione di continuità.
Pertanto, integra il reato previsto dall'art. 256, comma secondo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, l'abbandono incontrollato (nel caso in esame, stoccaggio) di liquami trasportati su autospurgo, in quanto sono da considerarsi rifiuti allo stato liquido i reflui stoccati in attesa di un successivo smaltimento, fuori del caso delle acque di scarico, ossia quelle oggetto di diretta immissione nel suolo, nel sottosuolo o nella rete fognaria mediante una condotta o un sistema stabile di collettamento
(Sez. 3, n. 22036 del 13/04/2010, Chianura)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.11.2018 n. 52133 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il reato in caso di false attestazioni del privato nelle autocertificazioni dirette alla P.A..
La dichiarazione del privato, fatta sul modulo prestampato dall'Ente, è equiparata all'atto pubblico.

Un commerciante ha impugnato per cassazione la sentenza del 02.10.2017 della Corte di appello di Bari (che aveva confermato quella di primo grado) che l'aveva riconosciuto colpevole del delitto di cui agli artt. 76 D.P.R. n. 445 del 2000 e 483 Cod. pen., per avere attestato falsamente, nella dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà allegata all'istanza di rilascio della licenza per l'esercizio di una sala giochi, di non avere riportato condanne ostative ai sensi dell'art. 11 T.U.L.P.S., e per l'effetto l'aveva condannato alla pena di giustizia.
Deduceva il ricorrente, con apposito motivo, la sussistenza di un vizio di violazione di legge sostanziale e processuale, in relazione alla valutazione compiuta dai giudici di merito dei risultati delle prove assunte nel dibattimento con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto nei termini del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, sia con riferimento al fatto che la certificazione di buona condotta è stata espunta dal catalogo dei requisiti per il rilascio delle autorizzazioni amministrative, sia in ordine alla mancata considerazione dell'incidenza dell'errore determinato da colpa sul versante dell'attribuzione psichica del fatto all'autore.
Il ricorso veniva ritenuto manifestamente infondato con sentenza 15.11.2018 n. 51711 della V Sez. penale della Corte di Cassazione.
I giudici di legittimità sottolineavano che nella sentenza impugnata era ben evidenziato che la falsità della dichiarazione sostitutiva presentata dall’imputato trovava riscontro nelle dichiarazioni rese dal dirigente dell'ufficio comunale preposto al rilascio delle licenze commerciali -il quale aveva riferito che, alla data di presentazione dell'autocertificazione, l'imputato era gravato da un precedente penale ostativo al rilascio della licenza per l'esercizio di una sala giochi e che la riabilitazione, evocata con le note di chiarimento depositate nell'ambito del procedimento amministrativo di revoca della licenza, gli era stata concessa dal Tribunale di Bologna soltanto successivamente alla dichiarazione attestativa di possesso dei requisiti richiesti dall'art. 11 TULPS-, sicché da parte del giudice censurato si è ineccepibilmente concluso che, alla data di effettuazione della dichiarazione (il 01.10.2010), l’imputato versava in una posizione di irregolarità rispetto ai requisiti richiesti dalla norma evocata: donde l'irrilevanza della deduzione difensiva riguardante l'estromissione della certificazione di buona condotta dal catalogo dei requisiti necessari per ottenere il rilascio di una autorizzazione amministrativa.
Fatta questa premessa, la Corte ha dichiarato anche la manifesta infondatezza del rilievo prospettato dal ricorrente in riferimento all'insussistenza del delitto di cui agli artt. 76 D.P.R. 445 del 2000 e 483 Cod. pen. per non essere il modulo prestampato fornito dall'ufficio comunale all'imputato un atto pubblico ma una scrittura privata.
Sul punto sovviene l'elaborazione giurisprudenziale, cui si deve l'incontrastata enunciazione direttiva secondo cui integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta di colui che, in sede di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attesti falsamente di non avere subìto condanne penali, considerato che, in tal caso, la dichiarazione del privato viene equiparata ad un atto pubblico destinato a provare la verità dello specifico contenuto della dichiarazione, ivi compresa l'inesistenza di condanne in capo al dichiarante, con la conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono in pericolo il valore probatorio dell'atto, escludendo perciò stesso l'innocuità del falso (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Quanto al primo motivo, va rilevato che il ricorrente propone censure non consentite al cospetto del giudice di legittimità, posto che sia il Tribunale, nel respingere la richiesta di assunzione della testimonianza di La.En. ai sensi dell'art. 507 cod. proc. pen, che la Corte di appello, nell'avallare la statuizione adottata dal primo giudice, hanno corredato i rispettivi provvedimenti di una motivazione tutt'altro che illogica quanto alla non decisività del detto incombente rispetto ad un tema -quello dell'incidenza della conoscenza del contenuto del modulo prestampato fornito all'imputato dalla impiegata dell'ufficio competente del Comune di Polignano a Mare in relazione alla coscienza e volontà del soggetto di attestare un dato non corrispondente al vero- neppure delineato con la dovuta precisione.
In tal senso occorre riconoscere che i giudici di merito si sono conformati alla linea ermeneutica di questa Corte regolatrice, a mente della quale, perché un vizio inerente ad una attività processuale discrezionale -quale è quella consistente nella acquisizione probatoria ex officio nel giudizio di primo grado di mezzi di prova assolutamente necessari ai fini del decidere- possa dare luogo al sindacato di legittimità, occorre che esso si sia tradotto in una mutilazione o incoerenza del ragionamento seguito dal giudice per giungere alla sua conclusione, che nel caso di specie non è dato ravvisare (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014 - dep. 14/01/2015, PR, Rv. 261799; Sez. 1, n. 9151 del 28/06/1999, Capitani, Rv. 213923).
2. Prive di pregio sono parimenti tutte le censure promiscuamente articolate con il secondo motivo di ricorso.
2.1. Nella sentenza impugnata è evidenziato che la falsità della dichiarazione sostitutiva presentata dal Pone trovava riscontro nelle dichiarazioni rese dalla dirigente dell'ufficio comunale preposto al rilascio delle licenze commerciali -la quale aveva riferito che, alla data di presentazione dell'autocertificazione, l'imputato era gravato da un precedente penale ostativo al rilascio della licenza per l'esercizio di una sala giochi e che la riabilitazione, evocata con le note di chiarimento depositate nell'ambito del procedimento amministrativo di revoca della licenza, gli era stata concessa dal Tribunale di Bologna soltanto successivamente alla dichiarazione attestativa di possesso dei requisiti richiesti dall'art. 11 TULPS-, sicché da parte del giudice censurato si è ineccepibilmente concluso che, alla data di effettuazione della dichiarazione (il 01.10.2010), l'odierno ricorrente versava in una posizione di irregolarità rispetto ai requisiti richiesti dalla norma evocata: donde l'irrilevanza della deduzione difensiva riguardante l'estromissione della certificazione di buona condotta dal catalogo dei requisiti necessari per ottenere il rilascio di una autorizzazione amministrativa.
2.2. Fatta questa premessa, va dichiarata la manifesta infondatezza del rilievo prospettato dal ricorrente in riferimento all'insussistenza del delitto di cui agli artt. 76 d.P.R. 445/2000 e 483 cod. pen. per non essere il modulo prestampato fornito dall'ufficio comunale all'imputato un atto pubblico ma una scrittura privata.
Sul punto sovviene l'elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, cui si deve l'incontrastata enunciazione direttiva secondo cui: <<
Integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.), la condotta di colui che, in sede di dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attesti falsamente di non avere subìto condanne penali, considerato che, in tal caso, la dichiarazione del privato viene equiparata ad un atto pubblico destinato a provare la verità dello specifico contenuto della dichiarazione, ivi compresa l'inesistenza di condanne in capo al dichiarante, con la conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono in pericolo il valore probatorio dell'atto, escludendo perciò stesso l'innocuità del falso>> (Sez. 5, n. 25469 del 16/04/2009, Spagnolli, Rv. 243897; nello stesso senso Sez. 5, n. 48681 del 06/06/2014, Sola, Rv. 261278).
2.3. Ugualmente del tutto infondata è la censura che si dirige sull'elemento soggettivo del reato, del quale il ricorrente deduce la mancanza per essere egli incorso in errore sul fatto a causa del contenuto non chiaro del modulo prestampato fornitogli dall'ufficio che non recava l'ostensione per esteso della categoria dei reati ostativi ai sensi dell'art. 11 T.U.L.P.S.
La motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale non si presta a rilievi di sorta, atteso che secondo l'interpretazione consolidata di questa Corte di legittimità,
in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione (Sez. 5, n. 35548 del 21/05/2013, Ferraiuolo e altro, Rv. 257040).
Poiché nel caso al vaglio le norme giuridiche richiamate nel modulo sottoscritto dal ricorrente lo obbligavano a dichiarare il vero, ricollegando specifici effetti alla sua dichiarazione riguardante l'assenza di precedenti penali ostativi ai sensi dell'art. 11 evocato, è di tutta evidenza che egli, prima di rendere la detta attestazione, avrebbe dovuto verificare se le condanne riportate -delle quali egli era del tutto consapevole avendo presentato istanza di riabilitazione al Tribunale di Bologna- fossero o meno tra quelle elencate nella disposizione di cui agli artt. 11 e 92 TULPS (   ).

EDILIZIA PRIVATA: Sopraelevazione di edificio priva di permesso di costruire: é opera precaria?
La Corte analizza il concetto di precarietà e affronta il tema della sanatoria rifiutata per silentium.

La Corte d'Appello di Catania, con sentenza del gennaio 2018 confermava la decisione con la quale il Tribunale di quella città aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato per avere realizzato, in assenza del permesso di costruire e degli altri necessari titoli abilitativi, in zona sismica, opere edilizie consistenti nella sopraelevazione di un preesistente manufatto avente copertura ad una falda in legno e tegole, con piano di calpestio in lame inserite nelle pareti perimetrali e legno per una superficie di 35 mq ed un’altezza al colmo di m. 3, completa di impianto idrico ed elettrico ed a cui si accede tramite scala interna ad una rampa in ferro, nonché una tettoia di metri quadri 8 con struttura in legno coperta da tegole.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, sostenendo che le opere realizzate non sarebbero suscettibili di permesso di costruire, trattandosi, inequivocabilmente, di opere amovibili e, quindi, sottratte alla disciplina di cui all'articolo 10 del D.P.R. n. 380 del 2001.
Aggiungeva, poi, che per le opere in questione sarebbe stata presentata richiesta di sanatoria ed il relativo procedimento non sarebbe ancora esaurito, rilevando che il silenzio rifiuto cui faceva riferimento la Corte territoriale non si potrebbe configurare nella fattispecie, trattandosi di opere non rientranti nelle categorie previste dagli artt. 6 e 10 del citato T.U. n. 380/2001.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 15.11.2018 n. 51599, ha dichiarato inammissibile l’impugnativa perché basata su motivi manifestamente infondati.
I giudici, dopo aver preliminarmente rilevato che le opere realizzate devono essere apprezzate nella loro interezza, trattandosi di intervento organicamente finalizzato alla sopraelevazione ed all'ampliamento di un preesistente edificio, hanno ribadito il principio secondo il quale l'attività edilizia deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti.
Il Collegio, infatti, ha ricordato che l'art. 10, lett. a), del D.P.R. 380 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall'articolo 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della relazione illustrativa al TU.
Il ricorrente riteneva, tuttavia, sottratte al regime del permesso di costruire le opere realizzate, assumendo che le stesse sarebbero "amovibili". L’opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo e la giurisprudenza ha costantemente affermato che l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso.
Ciò posto, i Giudici di legittimità hanno rilevato che l’evidente natura non precaria dell'intervento e la necessità, per la sua realizzazione, del permesso di costruire, risultavano adeguatamente apprezzati dai giudici del merito in considerazione delle caratteristiche e della destinazione delle opere, realizzate in sopraelevazione di un preesistente edificio, dotate di stabili impianti elettrico ed idrico con creazione di nuovi volumi con vani destinati ad uso abitativo ed adibiti a stanza da letto e bagno.
Per ciò che concerne, infine, la procedura di sanatoria, del tutto correttamente l’affermazione, del tutto apodittica, è stata ritenuta priva di fondamento, come emergeva chiaramente dalla semplice lettura della descrizione degli interventi eseguiti contenuta nel capo di imputazione ed, in ogni caso, l’eventuale amovibilità non assumerebbe comunque rilievo, essendo invece significativa la eventuale precarietà dell'intervento, comunque non sussistente nella fattispecie in esame.
L’art. 36 del T.U. n. 380 dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto, al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
I giudici di legittimità hanno osservato che la mancata sospensione del procedimento da parte del giudice, inoltre, in assenza di una espressa previsione normativa e non configurandosi pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di giudizio, non determina alcuna nullità ed, inoltre, spiega i suoi effetti esclusivamente con riferimento agli interventi edilizi indicati nell'art. 36 del D.P.R. 380 e non anche ai reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione in sanatoria, quali quelli concernenti le violazioni della disciplina antisismica e sulle opere in conglomerato cementizio (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso è inammissibile, perché basato su motivi manifestamente infondati.
2. Va preliminarmente rilevato che
le opere realizzate devono essere apprezzate nella loro interezza, trattandosi di intervento organicamente finalizzato alla sopraelevazione ed all'ampliamento di un preesistente edificio.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato, infatti, che
l'attività edilizia deve essere considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo, Rv. 270256; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc. Casciato, Rv. 263473; Sez. 3, n. 1 5442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri, Rv. 263339; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010, Tulipani, non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv. 247175; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365).
3. Ciò posto, occorre ricordare che l'art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individua, tra gli interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova costruzione, la cui descrizione viene fornita dall'articolo 3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che si intendono come tali tutti gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della della relazione illustrativa al TU.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli eventualmente individuati con legge dalle regioni ai sensi del comma terzo del menzionato articolo 3 e che, pertanto, in relazione all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire.
4. La ricorrente ritiene tuttavia sottratte al regime del permesso di costruire le opere realizzate, assumendo che le stesse sarebbero "amovibili".
L'affermazione, del tutto apodittica, è priva di fondamento, come emerge chiaramente dalla semplice lettura della descrizione degli interventi eseguiti contenuta nel capo di imputazione ed, in ogni caso, la eventuale amovibilità non assumerebbe comunque rilievo, essendo invece significativa la eventuale precarietà dell'intervento, comunque non sussistente nella fattispecie in esame.
Gli interventi edilizi precari, categoria già individuata dalla giurisprudenza e dalla dottrina con inequivocabile indicazione delle specifiche caratteristiche, sono ora espressamente menzionati dall'art. 6 del d.P.R. 380/2001 che, nell'attuale formulazione, li descrive al comma 1, lett. e-bis), come opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio lavori all'amministrazione comunale.
In precedenza, il testo unico dell'edilizia conteneva riferimenti indiretti, che riguardavano gli interventi di cui all'articolo 3, comma primo, lettera e.5 e quelli per le attività di ricerca descritti nell'articolo 6.
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti permanenti e definitivi sull'originario assetto del territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un titolo abilitativo e la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato che l'intervento precario deve necessariamente possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità; deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso (cfr. ex. pl . Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125 del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del 15/01/2015, Curti, non massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015), Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 25965 del 22/06/2009, Bisulca, non nnassimata).
Ciò posto, deve rilevarsi che la evidente natura non precaria dell'intervento e la necessità, per la sua realizzazione, del permesso di costruire, risultano adeguatamente apprezzati dai giudici del merito in considerazione delle caratteristiche e la destinazione delle opere, realizzate in sopraelevazione di un preesistente edificio, dotate di stabili impianti elettrico ed idrico con creazione di nuovi volumi con vani destinati ad uso abitativo ed adibiti a stanza da letto e bagno.
5. Per quanto attiene, poi, alla tettoia, la quale, come si è già detto, costituisce solo una parte del complessivo intervento, è appena il caso di osservare che la stessa compone comunque, nella fattispecie, una parte dell'edificio su cui è realizzata e rientrerebbe, in ogni caso, nel novero delle nuove costruzioni di cui al d.P.R. 380/2001.
Integra infatti il reato previsto dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 la realizzazione, senza il preventivo rilascio del permesso di costruire, sul lastrico solare di un edificio di un manufatto con struttura in legno con funzioni di tettoia fissato al suolo con piastre di ferro bullonate e appoggiato sul muro parapetto, intonacato e rifinito con cordolo in lastre di marmo e copertura con travi e doghe di legno, trattandosi di un'opera nuova avente una propria individualità fisica e strutturale, e non di un mero ampliamento di una struttura preesistente (Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo, Rv. 270435. V. anche Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013, Salanitro e altro, Rv. 257290 ed altre prec. conf.).
6. Per ciò che concerne, infine, la procedura di sanatoria, del tutto correttamente la Corte del merito ha posto in evidenza che, avuto riguardo alla data di presentazione della stessa, doveva ritenersi verificato il silenzio-rifiuto.
Invero, come già ricordato (Sez. U, n. 15427 del 31/03/2016, Cavallo, Rv. 267042),
l'art. 45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al comma 1, che l'azione penale relativa alle violazioni edilizie rimane sospesa finché non siano stati esauriti i procedimenti amministrativi di sanatoria di cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto
(Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240234; Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez. 3, n. 16706 del 18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3, n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353), al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
La mancata sospensione del procedimento da parte del giudice, inoltre, in assenza di una espressa previsione normativa e non configurandosi pregiudizi al diritto di difesa dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di giudizio, non determina alcuna nullità (Sez. 3, n. 33292 del 28/04/2005, Pescara, Rv. 232181, non massimata sul punto) ed, inoltre, spiega i suoi effetti esclusivamente con riferimento agli interventi edilizi indicati nell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 e non anche ai reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal rilascio della concessione in sanatoria, quali quelli concernenti le violazioni della disciplina antisismica e sulle opere in conglomerato cementizio (cfr. Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo, Rv. 270792).
Si tratta di un principio pienamente condiviso dal Collegio che va pertanto ribadito in questa occasione assicurandone la continuità.

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Partecipazione alle gare: l'errore nelle dichiarazioni che fa scattare il reato di falso.
Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico é sufficiente il dolo generico.

Un cittadino lombardo veniva ritenuto penalmente responsabile del delitto di falso ideologico per aver dichiarato, in una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà diretta ad una Pubblica amministrazione in sede di partecipazione ad una gara, l’assenza di condanne penali. La sentenza di condanna era stata confermata anche in appello nel 2017.
Con ricorso per cassazione il condannato denunciava il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 483 del Codice penale avendo errato la Corte territoriale nel non riconoscere che il comportamento da lui tenuto, integrativo sotto il profilo materiale del delitto contestatogli, era stato, invero, connotato da buona fede, essendo stato il dichiarante tratto in inganno dall'assenza di annotazioni pregiudizievoli contenute nel certificato del casellario rilasciato ad uso del privato.
Con sentenza 25.10.2018 n. 48898 la Corte di Cassazione (V Sez. penale) respingeva il ricorso.
I giudici di Piazza Cavour, infatti, hanno richiamato l'interpretazione consolidata resa dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo, ribadendo che ai fini della configurabilità dello stesso è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione.
Poiché il contenuto della dichiarazione richiesta ai partecipanti alla gara di appalto era analiticamente scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali l'interessato non doveva essere stato condannato, neppure con sentenza pronunciata si sensi dell'art. 444 Cod. pen. e recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto verificare se le condanne riportate -delle quali egli era del tutto consapevole avendo presentato istanza di riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella clausola del bando (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
1. Non coglie nel segno la censura che si dirige sull'elemento soggettivo del reato, del quale il ricorrente deduce la mancanza per essere egli incorso in errore sul fatto a causa dell'assenza di annotazioni pregiudizievoli sul certificato del casellario giudiziale rilasciato ad uso dei privati.
La motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale non si presta, infatti, a rilievi di sorta, atteso che, secondo l'interpretazione consolidata resa dalla giurisprudenza di legittimità,
in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa attestazione (Sez. 5, n. 35548 del 21/05/2013, Ferraiuolo e altro, Rv.
257040).
Poiché nel caso al vaglio il contenuto della dichiarazione richiesta ai partecipanti alla gara di appalto era analiticamente scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali l'interessato non doveva essere stato condannato, neppure con sentenza pronunciata ai sensi dell'art. 444 cod. pen. e recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto verificare se le condanne riportate -delle quali egli era del tutto consapevole avendo presentato istanza di riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella clausola del bando.
2. Del pari destituita di fondamento è la doglianza con la quale si stigmatizza l'assenza di motivazione in punto di richiesta di applicazione dell'istituto di cui all'art. 131-bis cod. pen..
Giova ribadire che questa Corte si è già condivisibilmente espressa nel senso di ritenere che l'assenza dei presupposti per l'applicabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto può essere rilevata anche con motivazione implicita (Sez. 5, n. 24780 del 08/03/2017, Tempera, Rv. 270033; Sez. 3, n. 48317 del 11/10/2016, Scopazzo, Rv. 268499).
Deve, infatti, ravvisarsi, nel passaggio della motivazione della sentenza in cui la Corte di appello ha ritenuto che il ricorrente avesse addirittura approfittato della circostanza che le risultanze del certificato del casellario giudiziale tacessero delle condanne subite per i delitti di bancarotta fraudolenta continuata e per il delitto di corruzione in concorso per atto contrario ai doveri dell'ufficio -confidando nel fatto che, a causa di ciò, gli eventuali controlli attivati dalla stazione appaltante a seguito della dichiarazioni resa non avrebbero sortito alcun effetto-, un'implicita esclusione della particolare tenuità del fatto in ragione delle peculiari modalità della condotta, caratterizzata dalla fraudolenza del silenzio serbato.
3. Il rilievo che deduce la preterizione della disamina del motivo di appello riguardante la concessione delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza non tiene conto dell'insegnamento costantemente impartito da questa cattedra nomofilattíca secondo cui la nozione di mancanza di motivazione, di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., si riferisce all'assenza dei necessari passaggi e delle argomentazioni indispensabili al fine di rendere l'intero iter logico seguito comprensibile, verificabile da parte del giudice sovraordinato e completo in ordine alle risposte da dare alle istanze rilevanti e pertinenti avanzate dall'interessato, con la conseguenza che, ove la sentenza dia, comunque, contezza adeguata del percorso logico seguito dal giudice e possa desumersi dal documento che le questioni devolute siano state in concreto esaminate, la censura articolata sul punto si sottrae ad ogni conseguenza sanzionatoria (Sez. 4, n. 6499 del 21/04/1994, Massetti, Rv. 198050).
Dalla regula iuris enunciata deriva, quindi, la legittimità della statuizione negatoria adottata sul punto, dovendosi la stessa ritenere efficacemente sorretta dalle argomentazioni complessivamente sviluppate in ordine alle modalità decettive della condotta, ritenute, con valutazione insindacabile in questa sede, quali elementi fattuali preponderanti ai fini dell'esclusione di un più mite trattamento sanzìonatorio (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).

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