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AGGIORNAMENTO AL 12.02.2019 |
ã |
Cos'è la "funzione nomofilattica"?? |
Per "funzione nomofilattica" si intende
comunemente il compito di “garantire
l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione
della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”.
Tale funzione nell'ordinamento italiano è descritta
dall'art.
65 della legge sull'ordinamento giudiziario italiano
(R.D. 30.01.1941 n. 12): «La
corte suprema di cassazione, quale organo supremo
della giustizia, assicura l’esatta osservanza e
l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del
diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti
delle diverse giurisdizioni; regola i conflitti di
competenza e di attribuzioni, ed adempie gli altri
compiti ad essa conferiti dalla legge. ....»
Come chiaramente indicato dal su indicato articolo, la
funzione nomofilattica della Cassazione si articola
in due sottofunzioni ben distinte: da un lato
garantire l'attuazione della legge nel caso
concreto, realizzando la giurisdizione in senso
stretto, dall'altro fornire indirizzi
interpretativi “uniformi” per mantenere, nei
limiti del possibile, l'unità dell'ordinamento
giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione
della giurisprudenza.
Il controllo degli indirizzi interpretativi obbedisce
all'elementare esigenza di garantire la certezza del
diritto; tuttavia, stante la grande complessità
della materia giuridica, la naturale mutazione dei
tempi, delle idee e dei giudici persone fisiche
chiamati a ricoprire incarichi nella magistratura di
legittimità, non è infrequente osservare mutamenti
nella giurisprudenza della Cassazione, che per la
loro rapidità e drasticità, potrebbero far pensare
-volendo utilizzare un'espressione a effetto- che la
nomofilachia non trovi adepti neppure fra le file
dei suoi sacerdoti.
Su queste premesse, è da tempo in corso il dibattito
sulla cosiddetta crisi della funzione nomofilattica,
cui si è recentemente tentato di porre rimedio con
il
D.Lgs. 02.02.2006 n. 40, che ha mirato
sostanzialmente a dare maggiore peso alle pronunce a
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, impedendo
alle sezioni semplici di discostarsi da esse, se non
rimettendo motivatamente la questione problematica a
una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (cfr.
art. 374 c.p.c.).
Con il medesimo provvedimento citato, si è anche dato
ampio spazio al principio di diritto enunciato nella
sentenza di legittimità, attribuendo in tal modo un
ruolo essenziale all'Ufficio del massimario che, in
seno all'organizzazione della Corte di cassazione,
si occupa della redazione delle massime delle
pronunce emanate dalla Corte Suprema di cassazione.
Malgrado tali importanti innovazioni, tuttavia, la
funzione nomofilattica conserva un ruolo autorevole,
ma non acquista alcuno spazio autoritativo.
Il nostro ordinamento resta ispirato a una struttura di
civil law e il valore giuridico delle
sentenze resta quello di risolvere le controversie
fra le parti, i loro eredi e aventi causa e non
quello di fissare nuovi principi di diritto
vincolanti, come avviene grazie al criterio dello
stare decisis negli ordinamenti di common law.
Si consideri tuttavia che la vera forza nomofillattica
non sta tanto e solo nel ruolo istituzionale
dell'autorità giurisdizionale che ha emanato la
sentenza, ma risiede piuttosto nella capacità di
quest'ultima di disegnare un percorso argomentativo
solido e convincente e -quel che più conta- in
aderenza con le esigenze giuridiche del momento
storico.
Svolgono anche un'essenziale funzione nomofilattica le
sezioni riunite della Corte dei conti e il Consiglio
di Stato, in adunanza plenaria e adunanza generale
(commento tratto da https://it.wikipedia.org).
Se le cose stanno in questi termini, allora,
potremmo mettere un punto fermo su una fattispecie
edilizia (abusiva) molto controversa in
giurisprudenza e cioè: |
La realizzazione abusiva di una piscina interrata (e
di locali annessi) in zona vincolata
non sono
suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica
ai sensi dell'art. 167 del D.lgs.
n. 42/2004 in quanto hanno determinato la creazione
di nuova volumetria. |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una piscina interrata e di locali annessi
in zona vincolata - Permesso di costruire e autorizzazione
paesaggistica - Necessità - Art. 167 e 181 D.Lgs. n.
42/2004.
La realizzazione di una piscina
interrata e di locali annessi in zona vincolata necessitano
il previo rilascio del permesso di costruire nonché
dell'autorizzazione paesaggistica e non sono suscettibili di
accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi
dell'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004 in quanto hanno
determinato la creazione di nuova volumetria. In particolare
la realizzazione di una piscina interrata deve qualificarsi
come intervento di nuova costruzione non suscettibile di
accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 167 del
D.Lgs. n. 42/2004).
...
Intervento edilizio - Piscina interrata e pertinenze -
Valutazione unitaria delle opere - Artt. 3, 10, 11, 44,
d.P.R. n. 380/2001.
In materia urbanistica, un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze
(Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini
generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363).
Nella fattispecie, anche per una piscina
interrata e i locali annessi dal momento che modifica in
modo permanente il suolo, è necessario il permesso di
costruire (Cass.
pen. sez. III 27.01.2004, n. 6930) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le opere
che comportano la trasformazione permanente del suolo inedificato
necessitano del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380
del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi
di nuova costruzione".
Tali interventi, come è noto,
sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera
e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano
la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è
annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso
nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e),
la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo
dell'avverbio "comunque").
---------------
E' pacifico che la realizzazione di una piscina crea un
aumento di volumetria. Invero, la realizzazione
di una piscina interrata e di locali annessi in zona
vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di
costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non
sono suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004
in quanto hanno determinato la creazione di nuova
volumetria.
In particolare la realizzazione di una piscina
interrata deve qualificarsi come intervento di nuova
costruzione non suscettibile di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n.
42/2004).
---------------
7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa,
peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le
ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le
identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per
cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione
del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al
comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici
di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma
primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della
Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola
sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda
dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come
oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non
si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta
in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità
degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come
inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della
Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze
processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini
della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia
necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus
anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è
necessaria per le opere interne, che non sono neppure
astrattamente idonee a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di
destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede
ricordare come non è prospettabile una valutazione
atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi
facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di
realizzazione di una determinata complessiva opera,
risultante priva di titolo
(cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza
29.05.2018 n. 3545: "Ne consegue che non
è ammissibile una loro considerazione astratta ed
atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una
valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità"; detto principio è
enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa
Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze:
Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini
generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali
contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo,
consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq
costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del
fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura
di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina
interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del
fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una
valutazione unitaria, è evidente che dette opere
comportassero la trasformazione permanente del suolo
inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380
del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi
di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto,
sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera
e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano
la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è
annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso
nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e),
la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo
dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di
tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un
superamento della "soglia" indicata dall'art. 181,
comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della
qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante
nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di
incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione
degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non
certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita
alla piscina (che, considerate le sue dimensioni,
determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è
assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che
sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la
piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con
superficie tutt'altro che modesta), conducevano
necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di
appello, essendo pacifico che anche la
realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria
(v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep.
22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza
amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n.
1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che
espressamente afferma come la realizzazione
di una piscina interrata e di locali annessi in zona
vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di
costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non
sono suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004
in quanto hanno determinato la creazione di nuova
volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina
interrata deve qualificarsi come intervento di nuova
costruzione non suscettibile di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n.
42/2004) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913). |
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Internauti incalliti okkio:
sul posto di lavoro "si lavora"!! |
PUBBLICO
IMPIEGO: Troppo
su Facebook: licenziato. Condotta grave rubare tempo alle attività di
servizio. Sentenza della Cassazione. La notifica
telematica è valida anche con l’invio in Word.
Licenziato il dipendente che sta sempre su Facebook. Decisiva la cronologia
del pc, l’incolpato non può smentire i 4.500 accessi con password al social
in 18 mesi: «condotta contraria all’etica comune». Anche senza il pdf conta
che lo scopo sia raggiunto.
Tempi duri per i dipendenti che
stanno sempre su Facebook dal pc aziendale. Scatta il licenziamento
disciplinare: rubare tempo alle attività di servizio costituisce una
condotta «grave» perché in contrasto con «l'etica comune» e
finisce per incrinare la fiducia del datore. Ancora. È valida la notifica
telematica anche se alcuni documenti sono inviati in Word: conta il
risultato della conoscenza dell'atto.
È quanto emerge dalla
sentenza 01.02.2019 n. 3133 della Sez. lavoro della Corte di
Cassazione.
Condotte estranee
Bocciato il ricorso della segretaria assunta part-time presso lo studio
medico: gran parte della giornata lavorativa risulta trascorsa su Internet
per motivi privati; lo dimostrano i circa 4.500 accessi soltanto sul social
network blu, sui circa 6 mila totali al web, effettuati nel corso di
diciotto mesi dal computer della sua postazione. E risulta «senza dubbio
grave» la condotta addebitata perché la lavoratrice approfitta della
fiducia del datore che non sottopone il pc della dipendente a rigide
verifiche.
A inchiodarla è la semplice cronologia degli accessi alla rete, dunque non
un particolare dispositivo di controllo installato sul pc, ma semplici dati
che sono registrati da qualsiasi computer: risulta esclusa ogni violazione
dell'articolo 4 dello statuto dei lavoratori perché non si configura una
verifica sulla produttività o l'efficienza ma finiscono nel mirino condotte
estranee alla prestazione.
Credenziali e riferibilità
In effetti la dipendente incolpata non contesta la navigazione in rete
durante l'orario di servizio per motivi estranei all'ambito lavorativo:
d'altronde al social creato da Mark Zuckerberg si accede solo con password e
con l'inserimento delle credenziali la lavoratrice non riesce a smentire che
gli accessi contestati siano riferibili a lei.
Inutile dolersi, poi, per la mancata ammissione della consulenza tecnica
d'ufficio richiesta per ricostruire l'assetto del personal computer:
l'istanza è un mezzo puramente esplorativo, al di là dei dubbi che in
assoluto suscita l'ipotesi di identificare chi ha utilizzato il pc con un
esame tecnico postumo. Non può poi essere esaminata la violazione delle
regole della privacy: è una questione che non risulta sollevata nel corso
dei gradi di merito.
Difformità dirimente
Veniamo alla questione processuale. È esclusa la nullità nonostante la
violazione delle regole del processo telematico che impongono di notificare
atti in formato pdf: risulta dirimente che sia comunque raggiunto lo scopo
legale della notificazione. Né rileva che il documento notificato con
estensione doc o docx potrebbe essere modificato, diversamente dal pdf: in
effetti il ricorso di legittimità deve essere depositato in formato cartaceo
e dunque conta soltanto che non vi siano difformità tra quanto notificato in
via telematica e ciò che risulta agli atti della Suprema corte.
Alla lavoratrice non resta che pagare le spese di giudizio e il contributo
unificato aggiuntivo (articolo ItaliaOggi del
02.02.2019). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sull'impugnazione, per dichiararne l'annullamento, del
verbale conclusivo di una conferenza di servizi decisoria.
Il modulo procedimentale della
conferenza di servizi disciplinato in via generale dall’art.
14 e ss. della legge 07.08.1990 n. 241 ed in special modo
quella cosiddetta decisoria (il cui impianto ricostruttivo è
rinvenibile nelle disposizioni dell’art. 14, comma 2), che
rileva nel presente contenzioso, lungi dal rappresentare un
autonomo procedimento amministrativo, costituisce soltanto
un modulo organizzativo funzionale per l'acquisizione, circa
un provvedimento da adottare, dell'avviso di tutte le
amministrazioni preposte alla cura degli interessi coinvolti
in quest'ultimo e nel procedimento che lo precede, per
un'accelerazione dei tempi procedurali (e dunque per la
speditezza, efficacia ed economicità dell'azione
amministrativa) attraverso un esame contestuale di tutti gli
interessi pubblici comunque coinvolti.
La conferenza non si identifica con un nuovo organo separato
dai singoli partecipanti, non trattandosi di organo
collegiale oppure di ufficio speciale della pubblica
amministrazione. Essa consiste soltanto in un modulo
procedimentale e organizzatorio, ossia in un metodo di
azione amministrativa per la gestione di procedure
complesse. Pertanto, la stessa non altera le regole che
presiedono alla competenza amministrativa e, quindi,
l'avviso espresso in tale sede dai rappresentanti delle
varie amministrazioni partecipanti è dunque pur sempre
imputabile a ciascuna di esse.
---------------
Ne discende, sul piano strettamente processuale, che il
ricorso va notificato a tutte le amministrazioni che,
nell'ambito della Conferenza, hanno espresso pareri o
determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere
di impugnare autonomamente se gli stessi fossero stati
adottati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in
esame.
Trasponendo siffatte considerazioni al caso di specie, il
Collegio osserva che il ricorso andava notificato, oltre che
all'amministrazione procedente della conferenza di servizi,
a tutte le amministrazioni partecipanti o quantomeno a
quelle che avevano espresso un parere dotato di efficienza
causale rispetto alle conclusioni della conferenza.
---------------
... per
l'annullamento, previa sospensione, del verbale conclusivo
della conferenza di servizi decisoria, in forma simultanea
ed in modalità sincrona, del 25.07.2018, comunicato in data
27.07.2018, avente ad oggetto: "Giudizio di compatibilità
ambientale ed Autorizzazione Integrata Ambientale per il
progetto di messa in sicurezza della discarica esistente
sita in località Comunica nel Comune di Motta San Giovanni e
adeguamento per l'esaurimento".
9. Va premesso che il modulo procedimentale della conferenza
di servizi disciplinato in via generale dall’art. 14 e ss.
della legge 07.08.1990 n. 241 ed in special modo quella
cosiddetta decisoria (il cui impianto ricostruttivo è
rinvenibile nelle disposizioni dell’art. 14, comma 2), che
rileva nel presente contenzioso, lungi dal rappresentare un
autonomo procedimento amministrativo, costituisce soltanto
un modulo organizzativo funzionale per l'acquisizione, circa
un provvedimento da adottare, dell'avviso di tutte le
amministrazioni preposte alla cura degli interessi coinvolti
in quest'ultimo e nel procedimento che lo precede, per
un'accelerazione dei tempi procedurali (e dunque per la
speditezza, efficacia ed economicità dell'azione
amministrativa) attraverso un esame contestuale di tutti gli
interessi pubblici comunque coinvolti (ex multis
Consiglio di Stato, Sez. IV, 07.05.2004, n. 2874; Tar Lazio,
Roma, Sez. II-quater, 09.02.2015, n. 2338).
La conferenza non si identifica con un nuovo organo separato
dai singoli partecipanti, non trattandosi di organo
collegiale oppure di ufficio speciale della pubblica
amministrazione. Essa consiste soltanto in un modulo
procedimentale e organizzatorio, ossia in un metodo di
azione amministrativa per la gestione di procedure
complesse. Pertanto, la stessa non altera le regole che
presiedono alla competenza amministrativa e, quindi,
l'avviso espresso in tale sede dai rappresentanti delle
varie amministrazioni partecipanti è dunque pur sempre
imputabile a ciascuna di esse.
“Ne discende, sul piano strettamente processuale, che il
ricorso va notificato a tutte le amministrazioni che,
nell'ambito della Conferenza, hanno espresso pareri o
determinazioni che la parte ricorrente avrebbe avuto l'onere
di impugnare autonomamente se gli stessi fossero stati
adottati al di fuori del peculiare modulo procedimentale in
esame” (Consiglio di Stato, Sez. IV, 14.07.2014, n.
3646; Tar Campania Napoli, Sez. VII, 14.02.2017, n. 895; Tar
Sardegna, Cagliari, Sez. I, 11.07.2014, n. 599).
9.1. Trasponendo siffatte considerazioni al caso di specie,
il Collegio osserva che il ricorso andava notificato, oltre
che alla Regione, amministrazione procedente della
conferenza di servizi, a tutte le amministrazioni
partecipanti o quantomeno a quelle che avevano espresso un
parere dotato di efficienza causale rispetto alle
conclusioni della conferenza (TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 01.02.2019 n. 72 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Art. 10-bis anche in caso di rigetto sanatoria ordinaria e/o
condono edilizio.
L'istituto del preavviso di rigetto, stante la
sua portata generale, trova applicazione anche nei
procedimenti di sanatoria o di condono edilizio, con la
conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento
di diniego dell'istanza di permesso in sanatoria che non sia
stato preceduto dall'invio della comunicazione di cui al
citato art. 10-bis in quanto preclusivo per il soggetto
interessato della piena partecipazione al procedimento e
dunque della possibilità di uno apporto collaborativo,
capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
In questi casi non è applicabile la sanatoria processuale,
sia per la generale natura discrezionale del potere edilizio
in oggetto, sia a fronte dell’impossibilità di escludere a
priori, a fronte degli elementi dedotti da parte istante
anche in sede giudiziale, che il procedimento potesse
concludersi diversamente.
---------------
Considerato in diritto che:
- l’appello è fondato sotto l’assorbente profilo della
dedotta violazione delle garanzie procedimentali;
- va evidenziata l’illegittimità del diniego di sanatoria,
siccome carente sia della formale comunicazione dei motivi
istativi sia di adeguato riscontro alle osservazioni che
l’interessato avrebbe ben potuto presentare;
- occorre premettere, al riguardo, che un’applicazione
corretta dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 esige,
non solo che l’Amministrazione enunci compiutamente nel
preavviso di provvedimento negativo le ragioni che intende
assumere a fondamento del diniego, ma anche che le integri,
nella determinazione conclusiva (ovviamente, se ancora
negativa), con le argomentazioni finalizzate a confutare la
fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato
nell’ambito del contraddittorio predecisorio attivato
dall’adempimento procedurale in questione (Cons. St., sez.
I, 25.03.2015, n. 80 e sez. VI 02.05.2018 n. 2615);
- infatti, solo il modus procedendi appena descritto
permette che la disposizione di riferimento assolva la sua
funzione di consentire un effettivo ed utile confronto
dialettico con l’interessato prima della formalizzazione
dell’atto negativo, evitando che si traduca in un inutile e
sterile adempimento formale (peraltro neppure rispettato nel
caso di specie);
- in linea generale va ribadito che, l'istituto del
preavviso di rigetto, stante la sua portata generale, trova
applicazione anche nei procedimenti di sanatoria o di
condono edilizio, con la conseguenza che deve ritenersi
illegittimo il provvedimento di diniego dell'istanza di
permesso in sanatoria che non sia stato preceduto dall'invio
della comunicazione di cui al citato art. 10-bis in quanto
preclusivo per il soggetto interessato della piena
partecipazione al procedimento e dunque della possibilità di
uno apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa
conclusione della vicenda;
- nel caso di specie, contrariamente a quanto desumibile
dalla sentenza appellata, non è applicabile la sanatoria
processuale, sia per la generale natura discrezionale del
potere edilizio in oggetto (cfr. in termini anche Consiglio
di Stato sez. VI 27.09.2018 n. 5557), sia a fronte
dell’impossibilità di escludere a priori, a fronte degli
elementi dedotti da parte istante anche in sede giudiziale,
che il procedimento potesse concludersi diversamente;
- se appare in generale necessario garantire il preliminare
esame degli elementi istruttori prodotti da parte originaria
istante nell’ambito della naturale sede procedimentale, ciò
occorre a maggior ragione nel caso di specie;
- in proposito, gli elementi da approfondire nella naturale
e prioritaria sede procedimentale, debitamente evidenziati
in sede giudiziale da parte istante, assumono rilievo sotto
due profili;
- per un verso, in relazione alla verifica circa l’effettiva
consistenza dell’abuso in questione, prospettato in termini
di mera chiusura di spazi parcheggio già coperti;
- per un altro verso, in relazione alla verifica circa
l’invocata applicabilità o meno della legislazione regionale
n. 19/2001;
- alla luce delle considerazioni che precedono l’appello
appare fondato sotto il predetto assorbente profilo, con
conseguente riforma della sentenza di prime cure ed
accoglimento del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 18.01.2019 n. 484 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
dite la
vostra ... RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Bottone,
Il regime delle Distanze nelle Città Invisibili di Calvino (novella sulle
acque pubbliche, sulla tutela paesaggistica, sui cacciatori, le prede e i
capanni nei pressi dei fiumi Potomac e Sand Creek in Provincia
di Caserta) (16.01.2019). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
11.02.2019 n. 35, suppl. ord. n. 5, "Istruzioni per l’applicazione
dell’«Aggiornamento delle “Norme tecniche per le costruzioni”» di cui al
decreto ministeriale 17.01.2018"
(C.S.LL.PP.,
circolare 21.01.2019 n. 7). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.0.2019, "Primo
aggiornamento 2019 dell’elenco degli Enti locali idonei all’esercizio delle
funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 05.02.2019 n. 1369). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2019, "Tavolo regionale
per l’edilizia: aggiornamento" (deliberazione
G.R. 04.02.2019 n. 1216). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 7 dell'11.02.2019, "Legge regionale
05.12.2008 n. 31 – art. 24-ter - Approvazione delle «Linee guida per la
gestione delle malghe e l’esercizio dell’attività d’alpeggio»" (deliberazione
G.R. 04.02.2019 n. 1209). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Approvazione
delle controdeduzioni alle osservazioni all’integrazione al piano
territoriale regionale adottata con d.c.r. x/1523 del 23.05.2017 e della
dichiarazione di sintesi finale. Approvazione dell’integrazione del Piano
Territoriale Regionale ai sensi della l.r. 31/2014 [articolo 21, comma 4,
l.r. 11.03.2005 n. 12 (Legge per il governo del territorio)]" (deliberazione
C.R. 19.12.2018 n. 411). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del
giorno concernente l’esclusione delle sanatorie di luoghi di culto nei pgt
dei comuni lombardi" (deliberazione
C.R. 19.12.2018 n. 410). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del
giorno concernente la promozione delle buone prassi adottate dal comune di
Bergamo sugli oneri di urbanizzazione" (deliberazione
C.R. 19.12.2018 n. 409).
---------------
Al riguardo, si leggano anche:
● Comune di Bergamo,
deliberazione C.C. 23.02.2015 n. 21;
● Comune di Bergamo,
deliberazione C.C. 30.11.2015 n. 182;
● Comune di Bergamo,
deliberazione C.C. 25.07.2016 n. 111;
● Comune di Bergamo,
deliberazione C.C. 05.12.2016 n. 171;
● Comune di Bergamo,
deliberazione C.C. 17.12.2018 n. 188. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del
giorno concernente la promozione delle politiche a sostegno degli interventi
di rigenerazione urbana e territoriale" (deliberazione
C.R. 19.12.2018 n. 408). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 6 dell'08.02.2019, "Ordine del
giorno concernente la valorizzazione del patrimonio culturale e
paesaggistico di Regione Lombardia" (deliberazione
C.R. 19.12.2018 n. 407). |
ENTI LOCALI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 6 del 07.02.2019, "Istituzione e
adozione della bandiera, della fascia e del segno distintivo della Regione
Lombardia" (L.R.
04.02.2019 n. 2). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
05.02.2019 n. 30 "Modifiche ed integrazioni all’allegato del decreto
16.05.1987, n. 246 concernente norme di sicurezza antincendi per gli edifici
di civile abitazione" (Ministero dell'Interno,
decreto 25.01.2019). |
ENTI LOCALI: G.U.
02.02.2019 n. 28 "Ulteriore differimento del termine per la deliberazione
del bilancio di previsione 2019/2021 degli enti locali dal 28 febbraio al
31.03.2019" (Ministero dell'Interno,
decreto 25.01.2019). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 5 del 30.01.2019, "Ordine del giorno
concernente le risorse per la rigenerazione urbana e territoriale" (deliberazione
C.R. 18.12.2018 n. 299). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: G.U.
28.01.2019 n. 23 "Disposizioni urgenti in materia di reddito di
cittadinanza e di pensioni" (D.L.
28.01.2019 n. 4). |
APPALTI: G.U.
22.01.2019 n. 18 "Saggio degli interessi da applicare a favore del
creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
comunicato). |
EDILIZIA
PRIVATA - ENTI LOCALI - LAVORI PUBBLICI: G.U. 18.01.2019
n. 15, suppl. ord. n. 3, "Ripubblicazione
del testo della legge 30.12.2018, n. 145, recante: «Bilancio
di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale
per il triennio 2019-2021», corredato delle relative note". |
APPALTI: G.U.
17.01.2019 n. 14 "Attuazione della direttiva (UE) 2014/55 del Parlamento
europeo e del Consiglio del 16.04.2014, relativa alla fatturazione
elettronica negli appalti pubblici" (D.Lgs.
27.12.2018 n. 148). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
16.01.2019 n. 13 "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica
amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di
trasparenza dei partiti e movimenti politici" (Legge
09.01.2019 n. 3). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 2 del 09.01.2019, "Individuazione
degli ambiti territoriali ecosistemici e dei parametri gestionali, ai sensi
dell’art. 3, comma 5, della legge regionale 17.11.2016, n. 28
«Riorganizzazione del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree
regionali protette e delle altre forme di tutela presenti sul territorio»" (deliberazione
G.R. 28.12.2018 n. 1124). |
ENTI LOCALI: G.U.
04.01.2019 n. 3 "Aggiornamento dei limiti massimi del compenso base
spettante ai revisori dei conti in relazione alla classe demografica e alle
spese di funzionamento e di investimento degli enti locali" (Ministero
dell'Interno,
decreto 21.12.2018). |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 1 del 04.01.2019, "Approvazione del
prezzario regionale delle opere pubbliche della Regione Lombardia ai sensi
dell’art. 23 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50" (deliberazione
G.R. 28.12.2018 n. 1129).
---------------
Si leggano anche gli allegati non pubblicati sul BURL:
A)
Volume 1_1 – Opere compiute – civili, urbanizzazione e difesa del suolo
B)
Volume 1_2 – Opere compiute – impianti elettrici e meccanici
C)
Volume 2_1 – Costi unitari e piccola manutenzione – civili e urbanizzazioni
D)
Volume 2_2 – Costi unitari e piccola manutenzione – impianti elettrici e
meccanici
E)
Volume specifiche tecniche |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI: D.
Ponte,
Società in house: affidamento, prevalenza
dell’attività e scioglimento – I diversi modelli di in house nel codice dei
contratti e nel T.U. delle società partecipate
(28.01.2019 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: M.
Grisanti,
L’autorizzazione e il deposito sismici a sanatoria sono sconosciuti al
legislatore statale (nota critica a Cassazione, Sez. III penale, n. 2848
depositata il 22.01.2019)
(26.01.2019 - link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Bottone,
Il regime delle Distanze nelle Città Invisibili di Calvino (novella sulle
acque pubbliche, sulla tutela paesaggistica, sui cacciatori, le prede e i
capanni nei pressi dei fiumi Potomac e Sand Creek in Provincia
di Caserta) (16.01.2019). |
CORTE DEI CONTI |
EDILIZIA PRIVATA - PATRIMONIO:
Oneri di urbanizzazione: i vincoli di destinazione finanziaria in vista del
bilancio di previsione 2019/2021.
I proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste dal
D.P.R. n. 380 del 2001 (oneri di urbanizzazione), a partire dall'01.01.2018,
possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei vincoli stabiliti
per il 2018, e senza vincoli temporali, dall'art. 1, comma 460, L. n. 232
del 2016.
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Il Sindaco del Comune di Ugento (LE) ha formulato una richiesta di parere in
ordine alla modalità di utilizzo della quota parte dell’avanzo destinato ai
sensi del comma 460 dell’art. 1 della legge 232/2016.
In particolare, nella nota sopra richiamata, il Sindaco, premette che con
l’art. 1, comma 460, della legge 232/2016, così come modificato dall’art.
1-bis, comma 1 del Decreto Legge n. 148/2017, è stato previsto che a “decorrere
dal 01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali
alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni
abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche”.
Ciò posto, il Sindaco, evidenzia che tali novità limiterebbero “la
libertà d’azione degli enti che non potranno più decidere di utilizzare gli
oneri per la totalità delle spese di investimento ma solo per quelle
contemplate dal comma 460, fuoriuscendo, quindi dagli interventi
finanziabili gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le
attrezzature informatiche, per i quali dovranno essere individuate nuove
fonti di finanziamento, non facili da reperire”.
Il Sindaco chiede pertanto:
- senza contravvenire i sopra riportati dispositivi normativi,
se sia possibile “utilizzare la quota parte dell’Avanzo destinato
rinveniente dal rendiconto dell’esercizio precedente regolarmente approvato
e generato dai proventi dei titoli abitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, incassati da questo Ente in costanza di vigenza della
normativa precedente al comma 460 della legge 232/2016, per il finanziamento
della spesa per gli automezzi e le autovetture, i mobili e gli arredi, le
attrezzature informatiche, eccetera, i quali non sarebbero più finanziabili
con i predetti proventi in base alla normativa vigente;
- come sia possibile, per gli Enti di medio piccole dimensioni
ed in costanza della vigente normativa, conciliare le ricorrenti spese per
le manutenzioni degli impianti e attrezzatture degli automezzi del sistema
informativo eccetera, con il carattere di eccezionalità delle residuali
fonti di finanziamento di spesa per investimenti attualmente reperibili”.
...
Nel caso di specie il secondo quesito è con tutta evidenza
inammissibile.
Il primo quesito, invece, relativo all’interpretazione della
disciplina relativa al comma 460 della legge 232/2016, appare oggettivamente
ammissibile.
Preliminarmente, il Collegio ribadisce tuttavia, che l’attività consultiva
non può estendersi, sotto il profilo interpretativo, sino a formulare
suggerimenti risolutivi di questioni che involgono singole fattispecie
concrete e specifiche, tanto più se, come nel caso di specie, l’intervento
della Sezione potrebbe comportare un’ingerenza nell’iter del procedimento
spettante esclusivamente alle valutazioni dell’Amministrazione e, inoltre,
la soluzione del quesito potrebbe generare interferenze con altre funzioni
spettanti a questa Corte.
Il Collegio si soffermerà, quindi, più in generale sui principi di diritto
del quadro normativo di riferimento.
Come è noto, il principio dell’”unità”, compreso tra i principi
contabili generali fissati dal decreto legislativo 23.06.2011, n. 118
(allegato 1) e a cui gli enti locali devono conformare la gestione
finanziaria, dopo avere affermato che “è il complesso unitario delle
entrate che finanzia l’amministrazione pubblica e quindi sostiene così la
totalità delle sue spese durante la gestione” -aggiunge che– “le
entrate in conto capitale sono destinate esclusivamente al finanziamento di
spese di investimento”.
Lo stesso principio stabilisce ancora che “i documenti contabili non possono
essere articolati in maniera tale da destinare alcune fonti di entrata a
copertura solo di determinate e specifiche spese, salvo diversa disposizione
normativa di disciplina delle entrate vincolate”.
I principi generali dell’Ordinamento, quindi, affermano inequivocabilmente
il divieto di finanziare spese correnti con entrate in conto capitale.
L’utilizzazione di entrate in conto capitale per finanziamento di spese
correnti, in deroga al principio sopra richiamato, può essere autorizzata
solo da specifiche disposizioni di legge quali sono state quelle che,
nell’ultimo decennio, hanno riguardato proprio i proventi derivanti dai c.d.
“oneri di urbanizzazione”.
Con la deliberazione n. 38/2016/PAR del 09.02.2016, cui si rinvia, la
Sezione di controllo per la Lombardia ha ricostruito l’evoluzione
legislativa relativa all’utilizzazione dell’entrate in oggetto sino al 2016.
Successivamente, con la deliberazione n. 81/2017/PAR, la stessa Sezione ha
ripercorso le disposizioni in vigore per gli anni 2017 e 2018.
L’art. 1, comma 737, della legge 28.12.2015, n. 108 (legge di stabilità per
il 2016) dispone che “per gli anni 2016 e 2017, i proventi delle
concessioni edilizie e delle sanzioni previste dal testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, fatta eccezione
per le sanzioni di cui all'articolo 31, comma 4-bis, del medesimo testo
unico, possono essere utilizzati per una quota pari al 100 per cento per
spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio
comunale, nonché per spese di progettazione delle opere pubbliche”.
L’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016, n. 232 (legge di bilancio per
il 2017, così come modificato dall’art. 1-bis, comma 1, del Decreto Legge n.
148/2017), dispone viceversa che “a decorrere dal
01.01.2018, i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni
previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380, sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali
alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere
di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi
compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di
riuso e di rigenerazione, a interventi di demolizione di costruzioni
abusive, all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a uso
pubblico, a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico, nonché a interventi volti a favorire l'insediamento di
attività di agricoltura nell'ambito urbano e a spese di progettazione per
opere pubbliche.”
Nel 2017, quindi, tali proventi potevano essere destinati totalmente al
finanziamento delle spese correnti elencate dalla legge di stabilità per il
2016, in deroga al principio di generica destinazione a spese di
investimento.
A decorrere dal 01.01.2018, viceversa, le entrate derivanti dal rilascio dei
titoli abilitativi edilizi e dalle relative sanzioni devono essere destinate
esclusivamente agli specifici utilizzi, attinenti prevalentemente a spese in
conto capitale, indicati dal comma 460, così come modificato nel 2017 e
quindi, in particolare:
1. alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria
delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria;
2. al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici
e nelle periferie degradate;
3. a interventi di riuso e di rigenerazione;
4. a interventi di demolizione di costruzioni abusive;
5. all'acquisizione e alla realizzazione di aree verdi destinate a
uso pubblico;
6. a interventi di tutela e riqualificazione dell'ambiente e del
paesaggio, anche ai fini della prevenzione e della mitigazione del rischio
idrogeologico e sismico e della tutela e riqualificazione del patrimonio
rurale pubblico;
7. a interventi volti a favorire l'insediamento di attività di
agricoltura nell'ambito urbano;
8. a spese di progettazione per opere pubbliche.
Come è stato chiarito da Arconet in risposta alla FAQ n. 28 del 19.02.2018,
“l’art. 1, comma 460, della legge 11.12.2016 n.
232, per le entrate derivanti dai titoli abilitativi edilizi e delle
sanzioni previste dal testo unico di cui al decreto del Presidente della
Repubblica 06.06.2001, n. 380, individua un insieme di possibili
destinazioni, la cui scelta è rimessa alla discrezionalità dell’ente. Si
ritiene pertanto che tale elenco, previsto dalla legge, non rappresenti un
vincolo di destinazione specifico ma una generica destinazione ad una
categoria di spese”.
Il Legislatore, quindi, differentemente da quanto avvenuto con riferimento e
limitatamente all’utilizzo nel 2016 e nel 2017, ha ritenuto di privilegiare
nel 2018 un utilizzo prevalente per spese in conto capitale delle entrate da
oneri di urbanizzazione. E nel disciplinare tale principio ha specificato
che tale destinazione debba avvenire “senza vincoli temporali”.
In altri termini, come è già stato affermato da questa Corte, quindi,
per effetto della predetta legge dal 2018 “i proventi da “oneri
di urbanizzazione” cessano di essere entrate con destinazione generica a
spese di investimento per divenire entrate vincolate alle determinate
categorie di spese ivi comprese le spese correnti, limitatamente agli
interventi di manutenzione ordinaria sulle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria” (Corte Conti,
Sezione Controllo Lombardia, deliberazione n. 81/2017/PAR).
Alla luce delle predette considerazioni è possibile affermare, in risposta
al quesito formulato nella presente richiesta di parere, che
i proventi dei titoli abilitativi edilizi e delle sanzioni previste
dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (c.d. “oneri di urbanizzazione”), a partire
dall’01.01.2018, possono essere utilizzati esclusivamente nei limiti dei
vincoli stabiliti per il 2018, e senza vincoli temporali, dall’art. 1, comma
460, della legge 11.12.2016, n. 232
(Corte dei Conti, Sez. controllo Puglia,
parere 12.12.2018 n. 163). |
PATRIMONIO: L'art.
3, comma 4-bis, del d.l. n. 95/2012 dev'essere interpretato nel
senso che i comuni non possano in ogni caso farsi carico dell'intera spesa
per i contratti di locazione per locali da adibire a caserme delle Forze
dell'ordine.
Ciò, anche nel caso in cui la contribuzione avrebbe carattere episodico,
poiché per un periodo di tempo limitato, finalizzato a poter disporre di un
immobile per consentire un intervento di manutenzione straordinaria di uno
stabile ordinariamente adibito a caserma.
---------------
La richiesta di parere, formulata dal Sindaco di Tresigallo (FE),
concerne la possibilità, da parte di un comune, di stipulare, a seguito di
procedura a evidenza pubblica, un contratto di locazione, in veste di
conduttore, con un soggetto locatore privato, al fine di poter disporre di
un immobile da adibire ad alloggio di servizio da concedere in uso gratuito
al Comando dei Carabinieri.
Ciò, per un periodo di tempo limitato, finalizzato a consentire l’esecuzione
di un intervento di manutenzione straordinaria avente a oggetto l’edificio
ove è ubicata la caserma dell’Arma.
Si domanda, in particolare, se il comune possa farsi carico
dell’intera spesa inerente il canone di locazione (con esclusione dei soli
oneri per le utenze), spesa che, tuttavia, sarebbe in parte rimborsata da un
comune limitrofo il quale, anche in vista di una possibile fusione,
condivide con l’ente istante l’interesse al mantenimento di un presidio dei
Carabinieri sul territorio.
Il Comune nel caso di specie ha comunque assicurato la disponibilità di
locali tali da consentire il presidio operativo ai Carabinieri; la
problematica riguarda, pertanto, solo il reperimento di un locale da adibire
ad alloggio di servizio.
...
2.1. Preliminarmente, occorre individuare il quadro normativo rilevante ai
fini del parere.
La legge 28.12.2015, n. 208, recante “Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”,
all’art. 1, comma 500, ha previsto quanto segue: “All’articolo 3 del
decreto-legge 06.07.2012, n. 95, convertito con modificazioni, dalla legge
07.08.2012, n. 135, dopo il comma 4 è inserito il seguente: ‘4-bis. Per le
caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco
ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate’”.
2.2. Questa Sezione, con deliberazione del 12.10.2017, n. 151/2017/PAR, alla
quale si rimanda per un approfondimento della problematica, si è già
pronunciata in merito alla possibilità, da parte dei comuni, di contribuire
al pagamento del canone di locazione delle caserme delle forze dell’ordine
appartenenti al territorio di competenza, ospitate presso proprietà private.
In particolare, in essa è stato affermato che “il legislatore si è
riferito ad un contributo, quindi ad un mero concorso pro quota, non anche
alla possibile assunzione integrale dell’onere in argomento” e che,
poiché, la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza risulta, in forza
di quanto disposto dalla Costituzione, intestata in via esclusiva allo
Stato, la disposizione di cui all’art. 1, comma 500, dev’essere considerata
di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità che deroga al
riparto delle funzioni delineato dalla Carta fondamentale.
In favore della lettura secondo la quale l’onere in argomento non potrebbe
gravare interamente sul comune, oltre alle richiamate considerazioni è utile
ricordare l’etimologia del termine “contribuire”, utilizzato dal
legislatore, che deriva dal latino, con-tribùere, quindi “dare insieme”.
La Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 91,
del 14.12.2017, successiva al richiamato precedente di questa Sezione, ha
invece affermato la possibilità, per i comuni, in riferimento alle caserme
utilizzate dalle forze dell’ordine, di “contribuire al pagamento del
canone di locazione (anche nella sua totalità)”.
Quest’ultima ricostruzione si pone in contrasto con l’interpretazione che
questa Sezione ritiene preferibile, tuttavia occorre rilevare come sia stata
affermata nell’ambito di un obiter dictum.
Pertanto, non sembra ravvisarsi un contrasto tale da rendere necessario
sospendere la pronuncia per rimettere gli atti al Presidente della Corte dei
conti, per consentirgli di decidere se deferire la questione alla Sezione
delle autonomie (ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge
10.10.2012, n. 174, secondo il quale per la risoluzione di questioni di
massima di particolare rilevanza in materia di attività consultiva, la
citata sezione emana delibera di orientamento alla quale le Sezioni
regionali di controllo si conformano), oppure, in alternativa, chiedere
l’adozione, da parte delle Sezioni riunite, di una pronuncia di orientamento
generale (ai sensi dell’art. 17, comma 31, d.l. 01.07.2009, n. 78, qualora
riconosca la sussistenza di un caso di eccezionale rilevanza ai fini del
coordinamento della finanza pubblica).
Non sembra incidere sulla risposta da dare al quesito la circostanza che,
nel caso oggetto della richiesta di parere operata dal Sindaco di Tresigallo,
la contribuzione avrebbe carattere episodico: valgono comunque le
considerazioni espresse in ordine al significato da attribuire al termine “contribuire”,
utilizzato in merito al pagamento del canone; inoltre, la circostanza che,
essendo la sicurezza pubblica materia intestata in via esclusiva allo Stato,
la disposizione di cui al già richiamato art. 1, comma 500, dev’essere
considerata di stretta interpretazione, poiché introduce una possibilità
derogatoria rispetto al riparto di funzioni. Ne consegue che deve ritenersi
esclusa la possibilità per uno o più comuni di intestarsi interamente,
seppur per un periodo di tempo limitato, gli oneri in questione.
Per completezza si evidenzia come la situazione prospettata abbia a oggetto
la contribuzione al pagamento del canone di locazione del solo alloggio di
servizio, avendo il comune già assicurato che metterà a disposizione locali
idonei allo svolgimento delle attività operative.
Non rileva, infine, la disponibilità da parte del comune limitrofo a farsi
carico di parte della spesa per il canone, poiché il legislatore ha riferito
la possibilità di contribuzione proprio ai comuni appartenenti al territorio
di competenza, quindi implicitamente riconoscendo la necessità che parte
dell’onere ricada comunque sul bilancio statale (Corte dei Conti, Sez.
controllo Emilia Romagna,
parere 15.10.2018 n. 118). |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: Pubblicazione
situazione reddituale e patrimoniale di amministratori della Provincia.
Domanda
Siamo un Comune con popolazione inferiore ai 15mila abitanti e il nostro
Sindaco ci ha chiesto di chiarire se, in qualità di componente
dell’Assemblea dei Sindaci, è obbligato a pubblicare i suoi redditi nella
sezione di Amministrazione Trasparente del portale web della Provincia. Cosa
prevede la normativa in merito?
Risposta
La disposizione che regola la pubblicazione dei dati reddituali e
patrimoniali è contenuta nell’articolo 14, comma 1, lettera f), del decreto
legislativo 33/2013 che, in passato, è già stata oggetto di interpretazioni
da parte dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC).
L’ultima formulazione della norma, riveduta con la determinazione n.
241/2017, aveva chiarito che per i comuni con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti, i titolari di incarichi politici, nonché i loro coniugi non
separati e parenti entro il secondo grado non sono tenuti alla pubblicazione
dei dati reddituali e patrimoniali, fermo restando l’obbligo di pubblicare
le altre informazioni previste: l’atto di nomina o di proclamazione; il
curriculum; i compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della
carica; gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi
pubblici; i dati relativi all’assunzione di altre cariche, presso enti
pubblici o privati, ed i relativi compensi; gli altri eventuali incarichi
con oneri a carico della finanza pubblica ed i compensi spettanti.
La disposizione sopra richiamata, rivolta prettamente ai titolari di
incarichi politici di Stato, Regioni ed Enti locali, si prestava a dubbi
interpretativi, soprattutto in relazione all’applicabilità o meno ai
titolari di incarichi politici, non di carattere elettivo.
L’ANAC è intervenuta in materia con la delibera n. 641, del 14.06.2017, di
modifica ed integrazione della delibera n. 241 dell’08.03.2017, precisando
che i destinatari degli obblighi di pubblicazione di cui sopra, sono tutti i
soggetti che partecipano –sia in via elettiva che di nomina– a organi
politici di livello statale, regionale e locale.
In particolare, l’Autorità ha previsto che per i sindaci dei comuni con
popolazione inferiore ai 15mila abitanti, in quanto componenti ex lege
dell’Assemblea dei Sindaci, non sussiste l’obbligo di pubblicazione nella
sezione di Amministrazione Trasparente del sito web della Provincia dei dati
reddituali e patrimoniali, previsti dall’art. 14, comma 1, lettera f) del
decreto legislativo 33/2013.
La risposta al quesito posto, quindi, è che il Sindaco non è obbligato a
pubblicare alcuna informazione sui suoi redditi e sul suo patrimonio, ma
potrebbe essere tenuto a farlo qualora l’amministrazione disponesse di
pubblicare “dati ulteriori” rispetto a quanto richiesto dalla legge,
individuando tali dati nell’ambito del Piano Triennale per la Prevenzione
della Corruzione e per la Trasparenza, in linea con il concetto di
trasparenza come accessibilità totale (FAQ ANAC in materia di trasparenza n.
1.9)
(12.02.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Procedure
per progressioni verticali e pubblicazione in GU.
Domanda
Le procedure per le progressioni verticali vanno pubblicate in Gazzetta
Ufficiale?
Risposta
In riferimento alle procedura di cui all’art. 22, comma 15, del D.Lgs.
75/2017 si ricorda che gli elementi che caratterizzano questa selezione
sono:
a) limite costituito dalla facoltà assunzionale;
b) procedure selettive;
c) possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso
dall’esterno;
d) riserva limitata al 20% dei posti, per ciascuna categoria,
destinati a nuove assunzioni nel piano dei fabbisogni;
e) prove;
f) valutazione positiva per almeno tre anni, attività svolta e
risultati conseguiti.
Se tali requisiti sono soddisfatti si prescinde, a nostro parere, dalla
pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in quanto
trattasi di procedura riservate a personale già reclutato nella P.A.
L’obbligo di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
Italiana dei bandi di concorso nel pubblico impiego, previsto dall’articolo
4 del d.p.r. 487/1994, integra la previsione generale dell’art. 35, terzo
comma, del d.lgs. 165/2001 e s.m.i., recante principi in materia di
procedure di reclutamento nelle pubbliche amministrazioni.
La regola generale, che impone l’obbligo di pubblicazione sulla GURI è
attuativa dell’art. 51, primo comma, e dell’art. 97, comma due e quattro,
della Costituzione, ove vengono garantiti nell’accesso agli uffici pubblici
condizioni di uguaglianza, buon andamento, imparzialità dell’amministrazione
e accesso mediante concorso.
Nella procedura di cui trattasi tali condizioni non devono essere garantite,
ad eccezione della selettività, in quanto la procedura è riservata alle
professionalità interne, già reclutate nella PA.
Per quanto sopra illustrato si ritiene che sia sufficiente la pubblicazione
del bando sul sito dell’ente, nell’area dell’Amministrazione Trasparente,
dedicata al personale (07.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI: Ore
aggiuntive oggetto di valutazione nell’offerta tecnica.
Domanda
È legittimo inserire tra i criteri di valutazione dell’offerta tecnica in un
servizio ad alta intensità di manodopera ore aggiuntive rispetto a quelle
previste nel capitolato speciale da conteggiare proporzionalmente come
criterio quantitativo in base all’offerta presentata dagli operatori?
Risposta
Il quesito in oggetto presenta due questioni di rilievo. La prima attiene
alla corretta interpretazione del co. 14-bis dell’art. 95 del codice, come
introdotto dal correttivo, che testualmente recita “In caso di appalti
aggiudicati con il criterio di cui al comma 3, le stazioni appaltanti non
possono attribuire alcun punteggio per l’offerta di opere aggiuntive
rispetto a quanto previsto nel progetto esecutivo a base d’asta”, e
quindi la sua possibile estensione anche ai servizi, nonché la
circoscrizione del termine aggiuntivi. La norma di fatto vieta
l’introduzione di opere diverse e ulteriori rispetto a quelle previste in
appalto.
Nella relazione illustrativa al correttivo e nello stesso parere del
Consiglio di Stato non si trova traccia di motivazioni utili a comprendere
l’introduzione del comma 14-bis, che si ritiene, tuttavia, sia finalizzata a
realizzare quell’esigenza, già segnalata dalla giurisprudenza (C.d.S. V sez.,
n. 1601/2015), di evitare che il singolo operatore possa alterare i
caratteri essenziali delle prestazioni richieste dalla lex specialis
con proposte che si traducano in una diversa ideazione del contratto in
senso alternativo rispetto a quanto voluto dall’Amministrazione
aggiudicatrice, al fine di garantire condizioni di parità tra gli operatori.
Una prima apertura verso un’applicazione analogica ai servizi è data dai
giudici Veneti, che nella sentenza n. 105 del 01.02.2018, mediante una
riformulazione interpretativa del comma, ritengono che ciò che potrebbe
essere vietato dall’ipotizzata estensione applicativa dell’art. 95, co.
14-bis al settore degli appalti di servizi, sarebbe la possibilità di
valorizzare l’introduzione ad opera dei singoli concorrenti di tipologie di
prestazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle richieste e indicate nel
capitolato speciale.
Si ritiene che, prescindendo da una mera interpretazione letterale dei
termini “opere” e “progetto esecutivo”, il mancato riferimento
espresso ai “lavori”, ma soprattutto la contestualizzazione del comma
e la sua intrinseca finalità, sia tale da comportare il divieto, nel caso di
affidamento di servizi, di attribuire punteggi per servizi aggiuntivi
rispetto a quelli previsti dal capitolato, intesi come servizi diversi e
ulteriori. Mentre si ritengono legittimamente valutabili le prestazioni
migliorative o meramente integrative.
La giurisprudenza ammette ad esempio che il potenziamento di un’ora in più
al giorno dell’orario di apertura su base mensile, stante la marginalità
rispetto al monte ore complessivo (nel caso di specie di 8/10 ore
giornaliere), non alteri il carattere essenziale del servizio, attribuendo
tali incrementi la natura di elementi meramente integrativi non assimilabili
ad “opere aggiuntive”.
Diverso il caso in cui il criterio non sia così marginale, come ipotizzato
nel quesito, e consistente nella valutazione dell’offerta tecnica di ore
aggiuntive rispetto a quelle previste nel capitolato, a cui si attribuisca
uno specifico punteggio proporzionalmente determinato in base alla diversa
offerta presentata dai concorrenti.
In questo caso è difficile sostenere che le prestazioni abbiano carattere
meramente migliorativo/integrativo del servizio, ma soprattutto, come
dettagliatamente indicato dal TAR Perugia nella sentenza n. 581 del
08.11.2018, la stazione appaltante violerebbe le seguenti disposizioni:
• Art. 95, cc. 6 e 10-bis, del codice, per l’appiattimento
dell’offerta tecnica, e indiretta forma di ribasso economico;
• inammissibile aggiramento delle disposizioni che mirano alla
salvaguardia dei lavoratori, in quanto l’offerta finirebbe per incidere in
modo occulto sul costo della manodopera (06.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: Conflitto
d’interessi per presidente commissione di concorso.
Domanda
Il nostro comune ha bandito un concorso per due posti di categoria D, di cui
uno riservato ad un interno, ex art. 24, comma 1, del d.lgs. 150/2009. Tra i
candidati ammessi al concorso c’è un dipendente di categoria C, in possesso
di laurea, in servizio presso il 1° Settore. La Commissione di concorso è
presieduta dal funzionario P.O., responsabile del medesimo settore.
Ci si interroga se il funzionario si trovi in situazione di conflitto
d’interesse, con obbligo di astensione.
Risposta
La questione oggetto del quesito, riguarda una ipotesi di conflitto
d’interessi tra il presidente della Commissione di concorso pubblico e un
candidato, interno, che partecipa alla procedura concorsuale. Non v’è dubbio
che tra i due soggetti, per ragioni di lavoro, siano intercorsi ed
intercorrano tutt’ora dei rapporti professionali, per cui è corretto porsi
l’interrogativo.
Per redimere la vicenda, il primo consiglio da fornire è quello di
verificare le norme, in materia di conflitto d’interessi, rinvenibili negli
atti regolamenti del comune. A tal riguardo può essere utile andare a
rivedere cosa si è previsto:
a) nello Statuto del comune;
b) nel regolamento dei concorsi;
c) nel regolamento di organizzazione degli uffici e servizi (ROUS);
d) nel Codice di comportamento di ente;
e) nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e
Trasparenza.
Per ciò che concerne i riferimenti legislativi nazionali, occorre prendere
in considerazione le disposizioni dell’art. 6-bis, della legge 07.08.1990,
n. 241 e agli articoli 6 e 7, del Codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni, approvato con DPR 62/2013.
Detto delle regole di tipo “generale” che soprassiedono alla non
semplice questione del conflitto d’interessi, anche di natura potenziale,
nel caso specifico è bene tenere in debita considerazione, anche, le
posizioni assunte, nel tempo, dal giudice amministrativo, il quale ha
provveduto ad identificare alcune ipotesi di concreta applicazione, con
riferimento alla composizione delle commissione di concorso, in ambito
universitario (ma il caso è assimilabile), sostenendo che:
– l’appartenenza allo stesso ufficio del candidato e il legame di
subordinazione o di collaborazione tra i componenti della commissione e il
candidato stesso non rientrano nelle ipotesi di astensione di cui all’art.
51 c.p.c. (Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628, Consiglio di
Stato, sez. V, 17.11.2014 n. 5618; sez. VI, 27.11. 2012, n. 4858);
– i rapporti personali di colleganza o di collaborazione tra alcuni
componenti della commissione e determinati candidati non sono sufficienti a
configurare un vizio della composizione della commissione stessa, non
potendo le cause di incompatibilità previste dall’art. 51 (tra le quali non
rientra l’appartenenza allo stesso ufficio e il rapporto di colleganza)
essere oggetto di estensione analogica, in assenza di ulteriori e specifici
indicatori di una situazione di particolare intensità e sistematicità, tale
da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale (Consiglio di
Stato, sez. VI, 23.09.2014 n. 4789);
– «la conoscenza personale e/o l’instaurazione di rapporti
lavorativi ed accademici non sono di per sé motivi di astensione, a meno che
i rapporti personali o professionali non siano di rilievo ed intensità tali
da far sorgere il sospetto che il candidato sia giudicato non in base al
risultato delle prove, bensì in virtù delle conoscenze personali (Cons.
Stato, VI, n. 4015 del 2013, cit.)» (Consiglio di Stato, VI, 26.1.2015,
n. 327 e da ultimo Consiglio di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «perché i rapporti personali assumano rilievo, deve trattarsi
di rapporti diversi e più saldi di quelli che di regola intercorrono tra
maestro ed allievo o tra soggetti che lavorano nello stesso ufficio, essendo
rilevante e decisiva la circostanza che il rapporto tra commissario e
candidato, trascendendo la dinamica istituzionale delle relazioni
docente/allievo, si sia concretato in un autentico sodalizio professionale,
in quanto tale “connotato dai caratteri della stabilità e della reciprocità
d’interessi di carattere economico” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4015 del
2013), in “un rapporto personale di tale intensità da fare sorgere il
sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio
di imparzialità” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015, n. 2119)» (Consiglio
di Stato, sez. III, 28.04.2016, n. 1628);
– «sussiste una causa di incompatibilità –con conseguente
obbligo di astensione– per il componente di una commissione giudicatrice di
concorso universitario ove risulti dimostrato che fra lo stesso e un
candidato esista un rapporto di natura professionale con reciproci interessi
di carattere economico ed una indubbia connotazione fiduciaria» (Cons.
Stato Sez. VI, 31.05.2013, n. 3006, TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173);
– in sede di pubblico concorso l’incompatibilità tra esaminatore e
concorrente si può realmente ravvisare non già in ogni forma di rapporto
professionale o di collaborazione scientifica, ma soltanto in quei casi in
cui tra i due sussista un concreto sodalizio di interessi economici, di
lavoro o professionali talmente intensi da ingenerare il sospetto che la
valutazione del candidato non sia oggettiva e genuina, ma condizionata da
tale cointeressenza (TAR Lazio, Roma, 21.02.2014 n. 2173, TAR Lazio, Roma
Sez. III-bis, 11.07.2013, n. 6945).
Sempre sul medesimo argomento anche l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC)
è stata chiamata ad esprimersi e lo ha fatto con:
a)
delibera n. 209 del 01.03.2017;
b)
delibera n. 384 del 29.03.2017;
c)
delibera n. 1186 del 19.12.2018.
La condivisibile posizione dell’ANAC, relativamente a una fattispecie simile
a quella prospettata nel quesito, prevede che “ai fini della sussistenza
di un conflitto di interessi fra il Segretario generale valutatore e un
candidato, la collaborazione professionale, per assurgere a causa di
incompatibilità, così come disciplinata dall’art. 51 c.p.c., deve
presupporre una comunione di interessi economici o di vita tra gli stessi di
particolare intensità e tale situazione può ritenersi esistente solo se
detta collaborazione presenti i caratteri della sistematicità, stabilità,
continuità tali da dar luogo ad un vero e proprio sodalizio professionale”.
In conclusione, rispondendo al quesito, è possibile sostenere che –in
assenza di specifiche disposizioni normative comunali, previste in atti
regolamentari e statutari o norme del Piano Anticorruzione– non si ravvisa
un conflitto d’interessi e il conseguente obbligo di astensione, tra il
candidato, dipendente interno, e il presidente della commissione di un
concorso pubblico, a meno che, tra i due soggetti, non sia presente una
comunione di interessi economici o di vita di particolare intensità che
possa dar luogo a un sodalizio professionale (05.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO: Possibilità
di affittare una caserma per i vigili del fuoco e limiti di spesa.
Domanda
Sono l’assessore alla protezione civile di un piccolo comune. La caserma dei
Vigili del fuoco presente sul territorio comunale dovrà essere a breve
ristrutturata. Nel frattempo il mio ente sta valutando di prendere in
affitto da terzi un immobile da adibire a sede temporanea. E’ possibile
farlo?
Risposta
Il quesito trova fondamento normativo nell’art. 3 del d.l. 95 del
06/07/2012. In particolare il comma 4-bis stabilisce infatti che: “Per le
caserme delle Forze dell’ordine e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco
ospitate presso proprietà private, i comuni appartenenti al territorio di
competenza delle stesse possono contribuire al pagamento del canone di
locazione come determinato dall’Agenzia delle entrate.”.
La legge tuttavia parla di ‘contribuzione’ da parte del comune e non
di accollo integrale in capo a sé del canone di locazione. Il che lascia
intendere che il concorso all’onere da parte del comune debba essere
parziale e non integrale, senza che venga indicata la quota massima di tale
concorso.
Sulla questione si è pronunciata recentemente la Sezione regionale
Emilia-Romagna della Corte dei conti, a fronte di uno specifico quesito
posto da un comune, con proprio
parere 15.10.2018 n. 118.
La Corte, nel richiamare il proprio precedente pronunciamento di cui alla
deliberazione n. 151/2017/PAR del 12/10/2017 ha affermato che deve ritenersi
esclusa la possibilità per uno o più comuni di farsi carico interamente,
seppur per un periodo limitato di tempo, dei relativi oneri. Ciò anche in
considerazione dell’etimologia del termine ‘contribuire’ che, ricorda
la Corte, “(…) deriva dal latino con-tribùere, quindi ‘dare insieme’”.
Il caso esaminato prevedeva che la locazione avesse carattere episodico. La
Corte ha tuttavia affermato che la durata della locazione, quand’anche
episodica e temporanea, non rileva ai fini del suddetto divieto. Né rileva,
conclude la Corte, il fatto che, nel caso esaminato, un comune limitrofo si
fosse reso disponibile “(…) a farsi carico di parte della spesa per il
canone, poiché il Legislatore ha riferito la possibilità di contribuzione
proprio ai comuni appartenenti al territorio di competenza, quindi
implicitamente riconoscendo la necessità che parte dell’onere ricada
comunque sul bilancio statale”.
La recente deliberazione della Sezione Emilia-Romagna richiama anche un
precedente parere della Sezione Liguria, di cui alla deliberazione n. 91 del
14/12/2017. Quest’ultimo, a fronte di un quesito analogo, pur partendo da
presupposti differenti, perveniva tuttavia alla conclusione opposta,
affermando infatti che il comune può “contribuire al pagamento del canone
di locazione (anche nella sua totalità)” in riferimento alle caserme
utilizzate dalle forze dell’ordine.
La Sezione Liguria sostiene infatti che la ratio dell’art. 3, comma 4-bis
del d.l. 95/2012 è quella di ridurre il peso finanziario che grava sullo
Stato, consentendo ai comuni di contribuire alla relativa spesa per finalità
di sicurezza pubblica. La Sezione Emilia-Romagna, pur pervenendo ad una
risposta diversa afferma come non vi siano le condizioni per rimettere la
questione alla Sezione Autonomie, né alla Sezioni Riunite della Corte
affinché si pronuncino in maniera univoca.
In conclusione, fermo restando il contrasto interpretativo fra le due
sezioni regionali, è opportuno qui ricordare che, in ogni caso, il canone di
locazione dovuto dagli enti locali per immobili ad uso istituzionale di
proprietà di terzi, di nuova stipulazione deve essere ridotto del 15 per
cento rispetto al canone definito dall’Agenzia del Demanio, quale soggetto
chiamato a verificarne la convenienza tecnica ed economica. A stabilirlo è
il comma 6 del medesimo art. 3 del d.l. 95/2012.
Infine si rammenta che per i contratti di locazione aventi ad oggetto
immobili a uso istituzionale, già in essere alla data di entrata in vigore
del decreto legge, i canoni sono ridotti automaticamente sempre del 15%,
fatto salvo il diritto di recesso del locatore (04.02.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Accesso al rendiconto. Anche nei mini-enti niente paletti ai
consiglieri. Il Tuel non pone limiti al diritto di visionare gli atti ed
estrarne copia.
In materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, può essere
respinta, da parte dell'ufficio finanziario dell'ente, la richiesta di
«presa visione della documentazione relativa al bilancio di rendiconto», in
quanto il comune, che non ha approvato il Peg, ha una popolazione «inferiore
ai 5.000 abitanti»?
Il plenum della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, del
16.03.2010, ha osservato che il «diritto di accesso» e il «diritto
di informazione» dei consiglieri comunali nei confronti della p.a.
trovano la loro disciplina nell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000
che riconosce a questi il diritto di ottenere dagli uffici comunali, nonché
dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in
loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato.
Premesso che l'ente dovrebbe comunque disporre di apposito regolamento per
la disciplina di dettaglio per l'esercizio di tale diritto, la maggiore
ampiezza di legittimazione all'accesso rispetto al cittadino (art. 10 del
decreto legislativo n. 267/2000) è riconosciuta in ragione del particolare
munus espletato dal consigliere comunale. Infatti, il consigliere
deve essere posto nelle condizioni di valutare, con piena cognizione di
causa, la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'amministrazione, onde
potere esprimere un giudizio consapevole sulle questioni di competenza della
p.a., opportunamente considerando il ruolo di garanzia democratica e la
funzione pubblicistica da questi esercitata.
Ciò in quanto «un pieno controllo sull'attività dell'ente spetta
certamente a ciascun consigliere comunale, espressione politica della
collettività locale di cui il comune è ente esponenziale» (parere della
Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi del 17/12/2015). A tal
fine, il consigliere comunale non deve motivare la propria richiesta di
informazioni, poiché, diversamente opinando, la p.a. si ergerebbe ad arbitro
delle forme di esercizio delle potestà pubblicistiche dell'organo deputato
all'individuazione ed al perseguimento dei fini collettivi.
Conseguentemente, gli Uffici comunali non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate
da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da
questi espletato.
In merito al caso di specie, l'articolo 169 del decreto legislativo n.
267/2000 relativo al Piano esecutivo di gestione (Peg), al comma 3, prevede
la facoltatività dell'adozione di tale strumento per i comuni con
popolazione inferiore ai 5.000 abitanti. L'art. 227 del medesimo decreto
legislativo disciplina il rendiconto di gestione disponendo, al comma 3, una
deroga per tale tipologia di comuni in ordine alla predisposizione del conto
economico, dello stato patrimoniale e del bilancio consolidato per gli enti
che si avvalgono della facoltà di non tenere la contabilità
economico-patrimoniale prevista dall'art. 232.
Tali disposizioni non sembra che contengano limitazioni all'accesso nei
riguardi dei consiglieri comunali i quali, oltre ad avere diritto di
visionare ed eventualmente di estrarre copia di qualsiasi atto che sia in
possesso del comune, hanno un diritto a visionare proprio gli specifici atti
ai sensi dell'articolo 227 citato - che al comma 2, prevede testualmente che
«la proposta è messa a disposizione dei componenti dell'organo consiliare
prima dell'inizio della sessione consiliare in cui viene esaminato il
rendiconto entro un termine, non inferiore a 20 giorni, stabilito dal
regolamento di contabilità».
Pertanto, alla luce del quadro sopra delineato, non sembra che possa negarsi
l'accesso agli atti richiesti (articolo ItaliaOggi dell'01.02.2019). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Malattia e congedo straordinario per assistenza familiare.
Domanda
La malattia interrompe il congedo straordinario retribuito per assistenza a
familiare portare di handicap grave?
Risposta
La fonte del diritto che disciplina il congedo straordinario retribuito è
l’art. 42, comma 5 e seguenti, del d.lgs. 151/2001. Si tratta di uno
strumento rivolto a tutelare il diritto indisponibile della persona disabile
di ricevere assistenza da parte dei soggetti legittimati indicati dalla
norma.
Appare evidente che il presupposto affinché questo possa accadere, siano le
buone condizioni di salute del soggetto che realizza l’intento
assistenziale. Ma cosa accade se durante il congedo retribuito, il
richiedente si ammala?
Va ricordato che la misura del congedo retribuito è pari a due anni (art.
42, comma 5-bis, d.lgs. 151/2001), fruibili continuativamente ma anche in
modo frazionato (a giorni interi, ma non ad ore).
Sono pertanto molto diverse le situazioni di fronte alle quali ci si può
imbattere.
Può accadere che nei due anni di congedo occorra un episodio morboso di
lunga durata, ma può anche accadere che in un periodo frazionato molto breve
di congedo straordinario, occorra un evento morboso che attraversa gli
stessi periodi di congedo in precedenza programmati.
È indubbio che il giustificativo dell’assenza di un dipendente deve essere
riconducibile ad un solo istituto giuridico: malattia o congedo
straordinario?
Il dipartimento della Funzione Pubblica, organo competente in materia, non
offre soluzioni interpretative che invece l’INPS ha fornito nella circolare
n. 64 del 15.03.2001 come segue: “Il verificarsi, per lo stesso soggetto,
durante il “congedo straordinario”, di altri eventi che di per sé potrebbero
giustificare una astensione dal lavoro, non determina interruzione nel
congedo straordinario. In caso di malattia o maternità è però fatta salva
una diversa esplicita volontà da parte del lavoratore o della lavoratrice
volta ad interrompere la fruizione del congedo straordinario, interruzione
che può comportare o meno, secondo le regole consuete, l’erogazione di
indennità a carico dell’INPS; in tal caso la possibilità di godimento, in
momento successivo, del residuo del congedo straordinario suddetto, è
naturalmente subordinata alla presentazione di nuova domanda. A proposito
della indennizzabilità o meno dell’evento di malattia o di maternità che
consente l’interruzione del congedo straordinario si sottolinea in
particolare che, considerato che la fruizione del congedo straordinario
comporta la sospensione del rapporto di lavoro, l’indennità è riconoscibile
solo se non sono trascorsi più di 60 giorni dall’inizio della sospensione
(in linea di massima coincidente, come è noto, con l’ultima prestazione
lavorativa)”.
Le indicazioni fornite dall’Inps valgono sicuramente per le aziende private,
per le quali l’Inps indennizza il congedo straordinario. Diversa è la
condizione della Pubblica Amministrazione, che si fa carico dell’indennità
di congedo straordinario e che può cautamente assumere gli indirizzi forniti
dall’Inps non trascurando la ratio degli istituti e la valenza sociale degli
interessi tutelati (31.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
In tema di presidenza delle commissioni di gara.
Domanda
Nel nostro comune la presidenza delle commissioni di gara viene assegnata a
ciascun responsabile di servizio che, normalmente, coincide con la figura
del responsabile unico del procedimento. Ora, alla luce della giurisprudenza
e degli obblighi di utilizzazione dell’Albo dei commissari vorremmo
comprendere se tale prassi operativa può ritenersi ancora corretta.
Risposta
La questione della presidenza e della nomina delle commissioni di gara,
effettivamente, riveste nell’odierno grandissima attualità.
Al fine di meglio chiarire la questione è necessario subito evidenziare che
con la comunicazione del 09.01.2019 (da parte del presidente dell’ANAC) si è
evidenziata l’esigenza di differire la vigenza dell’Albo dei commissari (e
le correlate nomine ai sensi degli artt. 77 e 78 del codice dei contratti).
La vigenza dell’albo è stata posposta –con decisione unilaterale– da parte
della stessa Authority al 19.04.2019. Semplificando, la posposizione è
avvenuta in quanto non sono presenti nelle varie sezioni dell’elenco dei
commissari un numero sufficiente (rispetto al fabbisogno delle stazioni
appaltanti) di commissari.
Da notare che la stessa ANAC con la segnalazione al Parlamento ha chiesto di
modificare l’articolo 77, comma 3, per introdurre un sistema misto: nel
senso che in caso di carenza di commissari la stazione appaltante procederà
direttamente con la nomina dei commissari –secondo proprie regole interne–
purché con presidente del collegio esterno.
In attesa di quanto, le stazioni appaltanti possono procedere autonomamente
previa adozione di proprie regole di trasparenza e competenza ai sensi
dell’articolo 216, comma 12, del codice dei contratti (norma transitoria).
Su come si debba, in concreto, procedere in giurisprudenza si sono espressi
molteplici orientamenti. Tanto il Consiglio di Stato, quanto la
giurisprudenza di primo grado, ad esempio, ha (anche) sostenuto che per gli
enti locali si applica ancora l’articolo 107 del decreto legislativo
267/2000 (e quindi con assegnazione della presidenza al responsabile del
servizio).
È chiaro che con un contenzioso smisurato, il RUP deve ben valutare come
comporre la commissione. In relazione alla presidenza, a sommesso avviso,
sarebbe opportuno evitare di assegnare tale ruolo a chi materialmente sia
stato coinvolto nella redazione degli atti di gara. Ad esempio, se nel caso
specifico di cui al quesito vi è coincidenza addirittura con il RUP, secondo
chi scrive, bene sarebbe che questo soggetto si limiti a fare il segretario
della commissione di gara con assegnazione del ruolo di presidente ad altro
responsabile (a rotazione) oppure attingendo (se ad esempio il comune fa
parte di una unione di comuni) da organici dei comuni aderenti (sempre che
si tratti di responsabili di servizio).
Sui componenti, se si tratta di appalto sotto soglia comunitaria, gli stessi
possono essere scelti nell’ambito dell’organico della stazione appaltante
(sempre scegliendo soggetti con competenza che non abbiano avuto ruolo
alcuno nella predisposizione degli atti di gara né debbano essere coinvolti
nell’esecuzione del contratto da assegnare).
In caso di certificata carenza possono essere scelti dall’esterno (ad
esempio nel caso di scelta da albi professionali magari anticipando una
richiesta di terne).
Nel caso di appalto sopra soglia comunitaria è bene che i commissari siano
esterni (adottando le stesse regole appena sintetizzate).
Da notare –a mero titolo informativo– che negli emendamenti al codice
(previsti per la conversione del decreto legge semplificazioni n. 135/2018)
– si prevede una sorta di affrancamento degli enti locali dall’utilizzo
dell’Albo dei commissari con l’applicazione del solo articolo 107 del
decreto legislativo 267/2000. Rimarrebbe aperta la questione dei commissari
che, attualmente, come detto solo nel sottosoglia possono essere scelti tra
i dipendenti interni. Si tratta, evidentemente, di attendere la conversione
del decreto per capire se gli emendamenti verranno approvati (30.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
PATRIMONIO:
Adeguamento del canone di locazione passiva pagati dal Comune.
Domanda
In materia di affitti passivi per immobili adibiti a finalità istituzionali,
pagati dal comune a favore di terzi, è stato reintrodotto il loro
adeguamento all’indice Istat, che era sospeso a tutto il 31 dicembre scorso?
Risposta
Il quesito del lettore fa riferimento alla norma contenuta nella manovra
estiva varata nel 2012 dall’allora ‘governo Monti’ con il decreto legge n.
95 del 06/07/2012, poi convertito in legge n. 135 del 07.08.2012. In
particolare, all’art. essa prevedeva una serie di misure finalizzate
alla razionalizzazione del patrimonio pubblico e alla riduzione dei costi
per locazioni passive a carico delle amministrazioni pubbliche.
Il comma 1 introduceva il divieto di adeguare il canone di locazione
passivo, dovuto dai soggetti inseriti nel conto economico consolidato della
pubblica amministrazione, alla variazione degli indici ISTAT. Tale norma,
prevista in origine per il solo triennio 2012-2014 è stata via via
confermata anche per gli anni successivi dai vari decreti ‘milleproroghe’
o leggi di bilancio.
La recente legge di bilancio 2019 (n. 145 del 30/12/2018, pubblicata sulla
Gazzetta ufficiale n. 302 del 31/12/2018, il cui testo integrale è
reperibile al
seguente link) è intervenuta estendendone l’applicazione anche
all’anno 2019. A prevederlo è infatti il comma 1133, lett. c) dell’articolo
unico che modifica il comma 1 aggiungendo in coda proprio l’anno corrente.
La risposta al quesito è pertanto negativa, ovvero: nulla è cambiato per il
2019 rispetto agli anni precedenti. Anche per il 2019, pertanto, vige il
divieto di adeguare i canoni di locazione passivi pagati dall’ente a terzi
alla variazione dell’indice ISTAT. Ciò va ad evidente beneficio del bilancio
comunale, che si trova pertanto a sostenere una spesa inferiore a quella
eventualmente prevista dal contratto di locazione passiva.
È qui solo il caso di ricordare che lo stesso art. 3 del d.l. n. 95 del
06/07/2012 nei commi successivi prevede l’automatica riduzione dei canoni di
locazione passiva per immobili ad uso istituzionale, nella misura del 15 per
cento rispetto a quelli contrattualmente previsti. Tale riduzione si applica
sia per i contratti già in corso alla data di entrata in vigore del decreto,
sia per quelli sottoscritti successivamente.
La riduzione del canone di locazione si inserisce infatti automaticamente
nei contratti in corso alla data di entrata in vigore del decreto, ai sensi
dell’articolo 1339 del codice civile, anche in deroga alle eventuali
clausole difformi apposte dalle parti. E’ tuttavia fatto salvo il diritto di
recesso del locatore. Per i nuovi contratti di locazione, sempre relativi ad
immobili da adibirsi a finalità istituzionali, la riduzione del 15 per cento
si applica sul canone definito come congruo dall’Agenzia del Demanio.
Tutte queste norme si applicano infatti anche agli enti territoriali, così
come previsto dal successivo comma 7 del medesimo articolo, nel testo oggi
vigente, introdotto dal d.l. n. 66 del 24/04/2014. La norma trova ovvia
applicazione anche per i contratti di locazione in cui l’ente locale sia
soggetto attivo (locatore) nei confronti di altra amministrazione pubblica
(locatario).
Si pensi al caso in cui il comune abbia sottoscritto un contratto di
locazione attiva con il Ministero dell’Interno per un edificio adibito a
locale stazione dei carabinieri. Il Ministero, in quanto soggetto passivo di
un contratto avente ad oggetto un fabbricato adibito ad uso istituzionale
beneficerà della norma di cui sopra, a scapito, questa volta, del comune
locatore.
Pertanto, se, ad esempio, il canone di locazione annuo è di € 12.000,00,
esso verrà automaticamente ridotto del 15%, ovvero di € 1.800,00. Al comune
non verrà riconosciuto neppure l’eventuale adeguamento agli indici ISTAT
qualora previsto nel contratto. Il comune avrà pertanto un’entrata di
bilancio pari all’85% del canone contrattualmente stabilito, ovvero pari ad
€ 10.800,00.
In quest’ultimo caso, pertanto, la norma, nata per contenere i costi delle
locazioni passive a carico delle pubbliche amministrazioni, penalizza l’ente
locale che, in qualità di soggetto attivo del contratto di locazione,
subisce una minore entrata di bilancio (28.01.2019 - tratto da e link
a www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Congedo papà
anno 2019.
Domanda
Il congedo obbligatorio dei papà è fruibile anche dai lavoratori pubblici o
solo dai privati? E cosa cambia nel 2019?
Risposta
Il congedo obbligatorio dei padri lavoratori nasce nella legge Fornero n. 92
del 26.06.2012 e riceve successiva disciplina nelle diverse Leggi di
Bilancio che hanno di volta in volta prorogato la disciplina sperimentale,
ampliando il congedo di anno in anno.
Si tratta di uno strumento di sostegno alla genitorialità che mira a
promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei
figli all’intero della coppia.
Tuttavia, come ha avuto modo di chiarire anche il Dipartimento della
Funzione Pubblica con nota del 20.02.2013, la disciplina che regolamenta
questo istituto non è direttamente applicabile ai rapporti di lavoro dei
dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
Esistono due diversi tipi di congedo dei padri: quello obbligatorio e quello
facoltativo.
La disciplina di dettaglio dell’istituto, contenuta nel decreto del
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 22.12.2012, ha precisato
che, mentre i giorni di congedo obbligatorio sono aggiuntivi rispetto al
congedo di maternità, la fruizione, da parte del padre, del congedo
facoltativo, è invece condizionata alla scelta della madre lavoratrice di
non fruire di altrettanti giorni del proprio congedo di maternità, con
conseguente anticipazione del termine finale del congedo post partum
della madre, di un numero di giorni pari al numero di giorni fruiti dal
padre.
Quindi l’attenzione va rivolta a quei casi in cui un padre lavoratore
dipendente di un’azienda privata, goda del congedo facoltativo, “accorciando”
in questo modo di pari durata, il congedo obbligatorio della mamma
dipendente pubblica.
La disciplina vigente fino al 31.12.2018 è rappresentata in questo modo:
L. n. 92 del 28.06.2012 - Art. 24, comma a)
2013-2014-2015:
1 GIORNO OBBLIGATORIO - 2 GIORNI FACOLTATIVI
L. n. 208 del 28.12.2015 - Art. 1, comma 205
2016:
2 GIORNI OBBLIGATORI - 2 GIORNI FACOLTATIVI
Legge di Bilancio 2017 - Art. 1, comma 354
2017:
2 GIORNI OBBLIGATORI
2018:
4 GIORNI OBBLIGATORI - 1 GIORNO FACOLTATIVO
La legge di Bilancio del 2019, modifica e novella il contenuto del comma
354, art. 1, della Legge di Bilancio 2017, prevedendo per l’anno
2019 quanto segue:
• 5 giorni di congedo obbligatorio per il padre lavoratore
dipendente;
• 1 giorno di congedo facoltativo per il padre lavoratore
dipendente (24.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Gli adempimenti pubblicitari negli appalti.
Domanda
Il nostro ente si confronta, praticamente quotidianamente, con le
implicazioni derivanti dall’enorme mole di adempimenti pubblicitari in tema
di appalti (art. 29 del codice etc.), pertanto ci si è chiesti, in primo
luogo, quale sia il collegamento tra tali adempimenti (trasparenza,
anticorruzione etc.) e gli atti adottati e, soprattutto, le conseguenze in
termini di responsabilità del RUP e dei collaboratori che li omettessero.
Ulteriore questione è se le implicazioni siano le stesse sia nel caso di
affidamento diretto sia nel caso di gare vere e proprie e/o di procedure
articolate (come le procedure ristrette).
Risposta
La questione degli adempimenti pubblicitari sottesi all’attività
contrattuale ed all’attività amministrativa in genere è, effettivamente,
dispendiosa (sotto il profilo delle risorse umane e del tempo a
disposizione).
Risulta, del resto, anche estremamente attuale considerato che da più parti
si anticipa l’esigenza di una ricalibratura e semplificazione anche in tema
di obblighi pubblicitari di trasparenza.
La violazione degli obblighi pubblicitari (rinvenibili ad esempio
nell’articolo 29 del codice, nella decretazione trasparenza e nella legge
anticorruzione) non integra violazioni tali da inficiare i procedimenti di
gara ma, evidentemente, rappresentano delle violazioni che –soprattutto in
fase di controllo interno successivo (in particolare negli enti locali)–
possono determinare anche l’adozione di provvedimenti disciplinari.
Sotto il profilo del procedimento contrattuale, come si rilevava, non si
tratta di adempimenti costitutivi dell’efficacia degli atti adottati e,
pertanto, non determineranno mai invalidità del procedimento di gara.
La questione –pur con riferimento esplicito alla pubblicazione del
provvedimento di nomina della commissione di gara e dei curricula dei
commissari (obblighi di pubblicazione previsti dall’articolo 29 del codice
dei contratti)– è stata di recente affrontata dal Consiglio di Stato, sez.
V, con la sentenza n. 283/2019.
Il giudice di Palazzo Spada, nel caso di specie, a fronte della pretesa
nullità della gara per impossibilità di verificare competenza ed eventuali
incompatibilità dei commissari, ha puntualizzato che gli obblighi della “trasparenza”
sono finalizzati ad assicurare la pubblicità e conoscibilità degli atti ma
non anche a condizionarne gli effetti.
È chiaro che la mancata pubblicazione –si pensi a determine di affidamento
diretto e/o atti di altre procedure– avrà per effetto quello (potenziale) di
dilatare i termini del ricorso (salvo che non se ne dimostri l’intervenuta
conoscenza da parte dell’interessato attraverso es. l’articoli 75/76 del
codice) anche attraverso la pubblicazione all’albo pretorio on line della
stazione appaltante.
Ad esempio, nel caso trattato dal Consiglio di Stato, il giudice rileva che,
in ogni caso, nessun danno era stato provocato al ricorrente in quanto la
determina di nomina della commissione di gara era stata correttamente
pubblicata all’albo pretorio. In ogni caso, in sentenza si è fatta prevalere
la sostanza ovvero la necessità di verificare se effettivamente
sussistessero o meno incompetenze e/o incompatibilità del collegio.
Sotto il profilo della responsabilità è chiaro che tali omissioni
–soprattutto quelle previste in tema di trasparenza– potranno essere
rilevate dal responsabile della trasparenza e, come si diceva, per effetto
del controllo interno.
Tali inadempimenti potrebbero incidere anche sotto il profilo della
performance coinvolgendo, quindi, il dirigente/responsabile del servizio e,
pertanto, condizionare la stessa valutazione del RUP da parte di questi
soggetti (e quindi avere implicazioni sull’indennità di risultato).
Potrebbe avere anche effetti sulla questione degli incentivi a seconda di
come sia stato formulato il regolamento correlato ex art. 113 del codice dei
contratti (23.01.2019 - tratto da e link a www.publika.it). |
APPALTI:
Conflitti d’interesse negli affidamenti di contratti pubblici.
Domanda
Ci sono norme particolari, oltre quelle previste dalle l. 190/2012, da
rispettare in materia di gestione del conflitto d’interessi, nell’ambito
degli appalti pubblici?
Risposta
In materia di conflitti d’interesse e obbligo di astensione,
nell’ordinamento italiano, sono già presenti alcune norme applicabili a
tutte le fattispecie, comprese quelle in cui il conflitto non riguarda
direttamente parenti o affini, ma anche altre situazioni di natura
potenziale.
Più in dettaglio, ci si riferisce:
• all’articolo 6-bis, della legge 07.08.1990, n. 241, aggiunto
dall’art. 1, comma 41, della legge 06.11.2012, n. 190 (cd: legge Severino);
• ad alcuni articoli del Codice di comportamento dei dipendenti
delle pubbliche amministrazioni (in particolare gli artt. 3, 6, 7, 13, 14 e
16), approvato con DPR 16.04.2013, n. 62;
• all’art. 35-bis, comma 1, lettera c), del d.lgs. 30.03.2001, n.
165;
• all’art. 53, comma 14, secondo periodo, del d.lgs. 30.03.2001, n.
165;
• all’articolo 78, del TUEL, approvato con d.lgs. 18.08.2000, n.
267.
In aggiunta alle richiamate disposizioni, il legislatore nazionale, ha
previsto l’articolo 42 del Codice dei contratti pubblici, approvato con
d.lgs. 18.04.2016, n. 50. L’articolo, rubricato Conflitto di interesse, si
compone di cinque commi.
Il comma 1 prevede che le stazioni appaltanti debbono prevedere (nel Piano
Anticorruzione) misure adeguate per:
• contrastare le frodi e la corruzione;
• individuare, prevenire e risolvere in modo efficace ogni ipotesi
di conflitto di interesse nello svolgimento delle procedure di
aggiudicazione degli appalti e delle concessioni.
Tali attività, obbligatorie, devono essere finalizzate ad evitare:
a) qualsiasi distorsione della concorrenza;
b) garantire la parità di trattamento di tutti gli operatori
economici.
Il comma 2, definisce che si ha conflitto d’interesse quando il personale
che interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli
appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il
risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario,
economico o altro interesse personale che può essere percepito come una
minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura
di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di
conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione
previste dall’art. 7 del DPR 62/2013 (Codice di comportamento per i
dipendenti della pubbliche amministrazioni).
Il comma 3 disciplina che il personale che si trovi nella situazione di
conflitto d’interessi, anche potenziale:
a) è tenuto a darne comunicazione alla stazione appaltante;
b) ad astenersi dal partecipare alla procedura di aggiudicazione
degli appalti e delle concessioni.
Fatte salve le ipotesi di responsabilità amministrativa e penale, la mancata
astensione nei casi di cui sopra costituisce, comunque, fonte di
responsabilità disciplinare a carico del dipendente pubblico.
Il successivo comma 4, prevede che le disposizioni dei primi tre commi,
valgono anche per la fase di esecuzione dei contratti pubblici, quindi, a
tutti gli adempimenti post gara.
L’ultimo comma, il quinto, obbliga le stazioni appaltanti a vigilare
–adottando, quindi, idonee e specifiche iniziative– affinché gli adempimenti
di cui ai commi 3 e 4 siano rispettati.
Mettendo assieme tutte le norme che intervengono sulla materia del conflitto
d’interessi, in ambito di affidamenti di contratti pubblici, possiamo
riassumere le seguenti posizioni:
• il dipendente pubblico che interviene nella procedura deve
valutare (con un’attività di autoanalisi) se si trova in una situazione di
conflitto, anche di natura potenziale. La lettura degli articoli 6, 7 e 14
del Codice di comportamento, forniscono un perimetro piuttosto preciso delle
varie situazioni in cui il conflitto è effettivamente cogente;
• qualora si ravvisi una situazione di potenziale conflitto, è
dovere del dipendente segnalarla al suo dirigente o responsabile apicale
(P.O. negli enti senza dirigenti). Per gli apicali la segnalazione va
trasmessa (si consiglia l’uso della casella mail) al Responsabile
Anticorruzione dell’ente;
• colui che riceve la segnalazione di possibile conflitto
d’interessi, deve valutare la situazione e comunicare, all’interessato
(rispondendo alla mail), se scatta o meno l’obbligo di astensione Se la
fattispecie segnalata viene ritenuta pregnate, il dipendente dovrà astenersi
dal prendere decisioni o svolgere attività, rispetto a qualsiasi fase della
procedura di gara e all’esecuzione del contratto;
• nella valutazione da compiere se segnalare o meno il possibile
conflitto d’interessi, si consiglia di applicare sempre “il principio di
prudenza”, dal momento che l’art. 42 del Codice dei contratti pubblici, non
a caso, usa la locuzione “che può essere percepito come una minaccia alla
sua imparzialità e indipendenza”. Nel dubbio, quindi, è meglio segnalare
ed attenersi a quanto disposto da chi è tenuto a valutare e decidere sulla
situazione;
• in conclusione, si ricorda che la violazione dell’art. 6-bis,
della legge 241/1990, comporta l’avvio di un procedimento penale per abuso
d’ufficio, mentre la violazione degli articoli del Codice di comportamento
(DPR 62/2013, più codice di comportamento di ente), fa insorgere l’avvio di
un procedimento disciplinare (22.01.2019 - tratto da e link a
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Pubblicazione di documenti nei siti informatici della p.a. e protezione dei
dati personali.
La pubblicazione di deliberazioni e determinazioni
all’albo pretorio degli enti locali per finalità di pubblicità legale, ai
sensi dell’art. 1, c. 15, L.R. n. 21/2003, così come la pubblicazione di
documenti per finalità di trasparenza, ai sensi del D.Lgs. n. 33/2013 e di
altre disposizioni normative –anche di natura regolamentare– aventi analoga
finalità di trasparenza, devono rispettare il principio di “minimizzazione
dei dati” personali espresso dall’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016,
per cui è consentita la diffusione dei soli dati personali la cui inclusione
in atti e documenti sia realmente necessaria e proporzionata al
raggiungimento delle finalità perseguite.
L’art. 2-ter (Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato
per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso
all’esercizio di pubblici poteri), comma 1, del D.Lgs. n. 196/2003,
introdotto dal D.Lgs. n. 101/2018, in adeguamento al Regolamento (UE) n.
679/2016, stabilisce che “la base giuridica prevista dall’art. 6, paragrafo
3, lett. b), del regolamento è costituita esclusivamente da una norma di
legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”.
Le amministrazioni possono prevedere nel Piano triennale di prevenzione
della corruzione integrato con il programma della trasparenza e l’integrità
(PTPCT) la pubblicazione di dati ulteriori, per i quali non sussiste uno
specifico obbligo di trasparenza. Trattasi, in tal caso, di pubblicazione di
documenti non obbligatoria in forza di una norma di legge o di regolamento
–il PTPCT è infatti atto programmatorio, la cui natura non pare
regolamentare– per cui, ai sensi dell’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, i
dati personali ivi contenuti devono essere resi anonimi oscurando il
nominativo e le altre informazioni che possano consentire l’identificazione
dell’interessato.
Il Comune riferisce di aver previsto nel Piano triennale di prevenzione
della corruzione integrato con il programma per la trasparenza e l’integrità
2018-2020 (di seguito, PTPCT) l’obiettivo strategico [1]
di favorire livelli maggiori di trasparenza, prevedendo la pubblicazione di
dati ulteriori rispetto a quelli previsti come obbligatori dalla normativa
di settore, in particolare la pubblicazione nella sezione dedicata in
Amministrazione trasparente dell’intero testo dei provvedimenti adottati, al
termine del prescritto periodo di pubblicazione all’albo pretorio.
In particolare, nel PTPCT viene indicato l’obiettivo della pubblicazione
integrale dei provvedimenti adottati dagli organi di indirizzo politico
(deliberazioni consiliari e giuntali) e delle deliberazioni dirigenziali e
viene specificato che “la redazione degli atti soggetti a pubblicazione deve
avvenire rispettando la riservatezza e la tutela della privacy, inserendo,
se del caso in allegato riservato i dati in questione”.
L’Ente chiede dunque se sia possibile mantenere la suddetta pubblicazione
integrale dei provvedimenti nella sezione Amministrazione trasparente,
scaduti i termini di pubblicazione all’albo pretorio, “considerato che la
redazione dei provvedimenti di cui si tratta, seppur con una certa abitudine
a non inserire dati personali [2] eccedenti, sensibili
[3] o non pertinenti da
parte dei vari servizi, non può certo garantire l’assoluta certezza
nell’oscuramento di tali dati”.
Un tanto alla luce dell’art. 2-ter (Base giuridica per il trattamento di
dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri), comma 1, del D.Lgs.
n. 196/2003 (introdotto dal D.Lgs. n. 101/2018), secondo il quale “la base
giuridica prevista dall’art. 6, paragrafo 3, lett. b), del regolamento è
costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla
legge, di regolamento”.
La disamina del quesito richiede di prendere in visione la normativa
concernente gli obblighi di pubblicazione nell’albo pretorio (L.R. n.
21/2003) e nella sezione Amministrazione Trasparente degli enti locali (D.Lgs.
n. 33/2013 [4]), nonché la protezione dei dati personali su questi siti
informatici istituzionali, materia oggi disciplinata dal Regolamento (UE) n.
679/2016, a seguito del quale è stato emanato il D.Lgs. 10.08.2018, n.
101, di adeguamento della normativa nazionale [5].
L’art. 1, comma 15, della L.R. n. 21/2003 prevede che “fatte salve le
disposizioni statali in materia di pubblicità legale, le deliberazioni e le
determinazioni degli enti locali sono pubblicate nei propri siti
informatici, ovvero nei siti informatici di altre amministrazioni pubbliche,
ovvero di loro associazioni, con le modalità previste dalla legislazione
vigente. Le deliberazioni e le determinazioni degli enti locali sono
pubblicate, entro sette giorni dalla data di adozione, per quindici giorni
consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”.
Con riferimento all’obbligo di pubblicazione di cui all’art. 1, comma 15
richiamato, si riportano le considerazioni espresse dal Garante per la
protezione dei dati personali in relazione all’art. 124 del TUEL,
disposizione statale di ordine generale sugli obblighi di pubblicazione
nell’Albo pretorio degli enti locali, con finalità di pubblicità legale
[6].
In particolare, il Garante per la protezione dei dati personali ha affermato
che ove la p.a. riscontri l’esistenza di un obbligo normativo che impone la
pubblicazione dell’atto o del documento nel proprio sito web istituzionale è
necessario selezionare i dati personali da inserire in tali atti e
documenti, verificando, caso per caso, se ricorrano i presupposti per
l’oscuramento di determinate informazioni [7].
Ed invero –osserva il Garante– anche in tale ipotesi, i soggetti pubblici
sono tenuti a ridurre al minimo l’utilizzazione di dati personali, ed
evitare il relativo trattamento quando le finalità perseguite nei singoli
casi possono essere realizzate mediante dati anonimi e altre modalità che
permettano di identificare l’interessato solo in caso di necessità (c.d.
“principio di necessità”). Pertanto –prosegue il Garante– anche in
presenza di un obbligo di pubblicità è consentita la diffusione dei soli
dati personali la cui inclusione in atti e documenti sia realmente
necessaria e proporzionata al raggiungimento delle finalità perseguite
dall’atto (c.d. “principio di pertinenza e non eccedenza”)
[8].
Inoltre –osserva ancora il Garante– i soggetti pubblici sono tenuti ad
assicurare il rispetto delle specifiche disposizioni di settore che
individuano circoscritti periodi di tempo per la pubblicazione di atti e
provvedimenti amministrativi contenenti dati personali, rendendoli
accessibili sul proprio sito web solo per l’ambito temporale individuato
dalle disposizioni normative di riferimento, anche per garantire il diritto
all’oblio degli interessati[9].
In particolare –precisa il Garante– l’obbligo di pubblicità di cui
all’art. 124 del TUEL (sul piano dell’ordinamento regionale, art. 1, comma
15, L.R. n. 21/2003, n.d.r.) è previsto per 15 giorni consecutivi, decorsi i
quali la permanenza nel web di dati personali contenuti nelle deliberazioni
degli enti locali diviene illecita[10], salvo che gli stessi atti e
documenti non debbano essere pubblicati in ottemperanza agli obblighi in
materia di trasparenza ai sensi della normativa vigente [11].
In proposito, l’ANAC spiega che quando l’amministrazione pubblica nell’albo
pretorio on line (per finalità di pubblicità legale n.d.r.) documenti,
informazioni e dati per i quali sussistono anche obblighi di trasparenza, è
tenuta anche a pubblicarli all’interno della sezione “Amministrazione
trasparente”, in quanto l’obbligo di affissione degli atti all’albo pretorio
e quello di pubblicazione sui siti istituzionali all’interno della sezione
“Amministrazione trasparente” svolgono funzioni diverse. Va anche
considerato –osserva l’ANAC– che la durata della pubblicazione dei
documenti nell’albo pretorio on line non coincide, poiché inferiore, con la
durata della pubblicazione dei dati sui siti istituzionali entro la sezione
“Amministrazione trasparente”, che l’art. 8, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013 fissa a
cinque anni [12].
La questione che si pone è di capire quali siano gli obblighi di
pubblicazione per finalità di trasparenza ai sensi della normativa vigente,
quali fonti possano prevederli e quali principi si debbano osservare per la
protezione dei dati personali.
L’ANAC ha predisposto un elenco degli obblighi di pubblicazione per
trasparenza previsti dal D.Lgs. n. 33/2013 e da ulteriori disposizioni di
legge previgenti e successive [13]. Per quanto qui di interesse riguardo agli
obblighi di pubblicazione di provvedimenti amministrativi, nell’elenco si
richiamano gli obblighi di pubblicazione di cui all’art. 23 del decreto
trasparenza, come novellato dal D.Lgs. n. 97/2016, aventi ad oggetto gli
elenchi dei provvedimenti degli organi di indirizzo politico e dei dirigenti
amministrativi con particolare riferimento ai provvedimenti finali di
procedimenti di scelta del contraente per l’affidamento di lavori, forniture
e servizi e agli accordi stipulati dall’amministrazione con soggetti privati
o con altre amministrazioni pubbliche [14].
Peraltro –afferma l’ANAC– le amministrazioni possono disporre la
pubblicazione nel proprio sito istituzionale di dati, informazioni e
documenti per i quali non sussiste uno specifico obbligo di trasparenza.
Ciascuna amministrazione individua i c.d. dati ulteriori che devono essere
indicati all’interno del Programma triennale per la trasparenza e
l’integrità (ora nell’apposita sezione del PTPCT) [15].
Nel caso in esame, l’Ente ha appunto indicato nel PTPCT dati ulteriori,
prevedendo per finalità di trasparenza la pubblicazione dell’intero testo
dei provvedimenti adottati nella sezione Amministrazione trasparente, al
termine del prescritto periodo di pubblicazione all’albo pretorio e chiede
se possa mantenere un tanto.
L’Ente riferisce altresì di aver previsto nel PTPCT che la redazione degli
atti soggetti a pubblicazione deve avvenire rispettando la riservatezza e la
tutela della privacy, ma al contempo afferma che la redazione dei
provvedimenti di cui si tratta, seppur con una certa abitudine a non
inserire dati personali eccedenti, sensibili o non pertinenti da parte dei
vari servizi, non può certo garantire l’assoluta certezza dell’oscuramento
di tali dati.
In proposito, posta la natura di atto programmatorio del PTPCT
[16] ove
l’Ente ha indicato i dati ulteriori di che trattasi, si fa osservare che
l’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, dà facoltà alle pubbliche
amministrazioni di disporre la pubblicazione nel proprio sito istituzionale
di dati, informazioni e documenti che non hanno l’obbligo di pubblicare ai
sensi del decreto medesimo o sulla base di specifica previsione di legge o
regolamento, nel rispetto dei limiti indicati dall’art. 5-bis, procedendo
alla indicazione in forma anonima dei dati personali eventualmente presenti.
Precisamente, in forza dell’art. 7-bis, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, la
pubblicazione di dati ulteriori prevista nel PTPCT –e dunque non
obbligatoria in forza di una norma di legge o di regolamento– postula che i
dati personali ivi contenuti devono essere resi anonimi oscurando il
nominativo e le altre informazioni che possano consentire l’identificazione
dell’interessato.
Con specifico riferimento, invece, al trattamento [17] dei dati personali
contenuti in documenti la cui pubblicazione sia prevista da norme di legge o
di regolamento, si riportano le considerazioni espresse dal Presidente
dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali in una nota del
27.11.2018 (doc web 9065601) che, riferite al trattamento dei dati
sensibili, possono fornire elementi utili sia sotto il profilo della fonte
che può disciplinare il trattamento dei dati personali che di quello dei
limiti alla loro diffusione.
Nella nota del 27.11.2018, il Garante osserva che il Regolamento (UE)
n. 679/2016 stabilisce all’art. 9 un generale divieto di trattamento di dati
sensibili e successivamente prevede una deroga per il trattamento di detti
dati necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del
diritto dell’Unione e degli Stati membri e secondo i parametri ivi
previsti [18].
In proposito, il Garante richiama l’art. 2-sexies, D.Lgs. n. 196/2003,
inserito dal D.Lgs. n. 101/2018, in tema di trattamento di categorie
particolari di dati personali per motivi di interesse pubblico rilevante,
ove si specifica che si considera rilevante l’interesse pubblico relativo a
trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse
pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri e che detto trattamento
è ammesso qualora sia previsto dal diritto dell’Unione europea ovvero,
nell’ordinamento interno, “da disposizioni di legge o, nei casi previsti
dalla legge, di regolamento” [19].
Ebbene, per il Garante la locuzione “nei casi previsti dalla legge” deve
essere interpretata come un rinvio a tutti quei casi in cui il soggetto
chiamato a disciplinare dette categorie di dati sia –in base a specifica
disposizione legislativa– titolare di poteri regolamentari.
Ne consegue che solo enti titolari –in base a disposizione di legge– di
potestà regolamentare avente carattere normativo potranno continuare a
individuare, con tale fonte, trattamenti di particolari categorie di dati
personali.
Dalle considerazioni espresse dal Presidente dell’Autorità Garante di
apertura alla potestà regolamentare sul fronte della disciplina del
trattamento delle categorie particolari di dati personali, sembra potersi
trarre, a maggior ragione, la possibile copertura regolamentare comunale
anche per il trattamento (e dunque per la pubblicazione) dei dati personali
(diversi da quelli particolari), di cui all’art. 4 del Regolamento (UE) n.
679/2016 richiamato.
A questo riguardo, si osserva che l’attività di pubblicazione dei dati sui
siti web per finalità di trasparenza, anche se effettuata in presenza di
idoneo presupposto normativo, deve avvenire nel rispetto di tutti i principi
applicabili al trattamento dei dati personali contenuti all’art. 5 del
Regolamento (UE) 2016/679; in particolare, assumono rilievo i principi di
adeguatezza, pertinenza e limitazione a quanto necessario rispetto alle
finalità per le quali i dati personali sono trattati («minimizzazione dei
dati») (par. 1, lett. c) e quelli di esattezza e aggiornamento dei dati, con
il conseguente dovere di adottare tutte le misure ragionevoli per cancellare
o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le
quali sono trattati (par. 1, lett. d).
Sul piano dell’ordinamento interno, l’art. 7-bis, comma 4, D.lgs. n.
33/2013, prevede inoltre che «Nei casi in cui norme di legge o di
regolamento prevedano la pubblicazione di atti o documenti, le pubbliche
amministrazioni provvedono a rendere non intelligibili i dati personali non
pertinenti o, se sensibili o giudiziari, non indispensabili rispetto alle
specifiche finalità di trasparenza della pubblicazione»
[20].
Principi, questi, già richiamati in relazione agli obblighi di pubblicità
legale delle deliberazioni comunali nell’Albo pretorio, di cui all’art. 124
del TUEL [21].
In particolare sotto il profilo della durata, questo comporta che laddove
gli atti, documenti e informazioni pubblicati per finalità di trasparenza ai
sensi della normativa vigente (anche di natura regolamentare comunale, se
così si assume sulla base della nota del Presidente dell’Autorità Garante
del 27.11.2018) contengano dati personali –la cui pubblicazione si
ribadisce avviene nel rispetto dei principi di trattamento suddetti, dettati
da disposizioni di rango comunitario direttamente applicabili n.d.r.–
questi ultimi devono essere oscurati, anche prima del termine di 5 anni
previsto dall’art. 8, c. 3, richiamato, quando sono stati raggiunti gli
scopi per i quali essi sono stati resi pubblici e gli atti stessi hanno
prodotto i loro effetti [22].
Ricostruito il quadro normativo vigente in materia, in relazione allo
specifico quesito posto si ritiene –come sopra anticipato– che la
pubblicazione integrale dei provvedimenti nella sezione “Amministrazione
trasparente” prevista dal Comune nel PTPCT (atto programmatorio, la cui
natura non pare regolamentare), dopo la scadenza dei termini di
pubblicazione all’albo pretorio on line, comporti necessariamente l’anonimizzazione
dei dati personali eventualmente presenti.
---------------
[1] L’Ente richiama nel PTPCT l’art. 1, c. 8, L. n. 190/2012, come
novellato dal D.Lgs. n. 97/2016, ai sensi del quale “L'organo di indirizzo
definisce gli obiettivi strategici in materia di prevenzione della
corruzione e trasparenza, che costituiscono contenuto necessario dei
documenti di programmazione strategico-gestionale e del Piano triennale per
la prevenzione della corruzione […]”.
[2] Ai sensi dell’art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento (UE) 27.04.2016, n.
679 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al
trattamento dei dati personali, applicabile dal 25.05.2018 in tutti gli
stati membri dell’Unione europea, per “dato personale” si intende “qualsiasi
informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile
(“interessato”); si considera identificabile la persona fisica che può
essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare
riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione,
dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più
elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica,
psichica, economica, culturale o sociale”.
[3] Ai sensi dell’art. 9, par. 1, del Regolamento (UE) n. 679/2016, i dati
sensibili, oggi denominati “categorie particolari di dati personali”, sono i
dati che rivelano l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le
convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, i dati
genetici, i dati biometrici, i dati relativi alla salute o alla vita
sessuale o all’orientamento sessuale della persona”.
[4] Ai sensi dell’art. 9, D.Lgs. n. 33/2013, ai fini della piena
accessibilità delle informazioni pubblicate, nella home page dei siti
istituzionali è collocata un’apposita sezione denominata “Amministrazione
trasparente”, al cui interno sono contenuti i dati, le informazioni e i
documenti pubblicati ai sensi della normativa vigente.
[5] Ai sensi dell’art. 22, c. 6, D.Lgs. n. 101/2018, “dalla data di entrata
in vigore del presente decreto, i rinvii alle disposizioni del codice in
materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo n.
196 del 2003, abrogate dal presente decreto, contenuti in norme di legge e
di regolamento, si intendono riferiti alle corrispondenti disposizioni del
Regolamento (UE) 2016/679 e a quelle introdotte o modificate dal presente
decreto, in quanto compatibili”.
[6] L’art. 124, c. 1, del TUEL, come novellato dall’art. 9, c. 5-bis, D.L.
n. 179/2012, prevede che tutte le deliberazioni del comune e della provincia
sono pubblicate mediante pubblicazione all’albo pretorio (oggi, albo
pretorio on line a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 69/2009),
nella sede dell’ente, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche
disposizioni di legge.
La L. n. 69/2009, senza abrogare le precedenti disposizioni in materia di
tenuta dell’albo pretorio, ha stabilito che “a far data dal 1° gennaio 2010,
gli obblighi di pubblicazione di atti e provvedimenti aventi effetto di
pubblicità legale si intendono assolti con la pubblicazione nei propri siti
informatici da parte delle amministrazioni e degli enti pubblici obbligati”;
inoltre “a decorrere dal 01.01.2011 […], le pubblicità effettuate in forma
cartacea non hanno effetto di pubblicità legale” (art. 32, commi 1 e 5).
Il Ministero dell’Interno, Dipartimento per gli Affari interni e
Territoriali, deliberazione 05.03.2014, ha chiarito che l’obbligo di
pubblicità di cui all’art. 124 c.c. riguarda non solo le deliberazioni degli
organi di governo (consiglio e giunta municipale) ma anche le determinazioni
dirigenziali, richiamando in proposito Cons. St. 15/03/2006, n. 1370.
[7] Cfr. Garante per la protezione dei dati personali, provvedimento
15.05.2014, n. 243, recante: “Linee guida in materia di trattamento di dati
personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato
per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da
altri enti obbligati”, parte II, par. 1, in relazione alla pubblicità per
altre finalità della P.A. diverse dalla trasparenza.
Vedi anche Formez PA, Q&A (questions and answers) ove si legge che nell’Albo
pretorio on line occorre pubblicare gli atti nella loro interezza, avendo
però cura di omettere i dati non pertinenti ed eccedenti allo scopo (che nel
caso dell’Albo è la pubblicità legale).
[8] I principi di necessità, pertinenza e non eccedenza sono oggi espressi
dall’art. 5 del Regolamento (UE) n. 679/2016, rubricato “Principi
applicabili al trattamento dei dati personali”, che in particolare al comma
1, lett. c), prevede che i dati personali sono adeguati, pertinenti e
limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono
trattati (“minimizzazione dei dati”).
[9] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 2.b.
Si evidenzia che il diritto all’oblio ha ricevuto espressa disciplina
dall’art. 17 del Regolamento (UE) n. 679/2016, in forza del quale
l’interessato ha diritto di ottenere, senza ingiustificato ritardo, la
cancellazione dei dati che lo riguardano da parte del titolare del
trattamento al ricorrere delle condizioni ivi previste.
[10] Pertanto –una volta trascorso il periodo di pubblicazione previsto
dalle singole discipline di riferimento oppure, in mancanza, decorso il
periodo di tempo individuato dalla stessa amministrazione– se gli enti
locali vogliono continuare a mantenere nel proprio sito web istituzionale
gli atti e i documenti pubblicati, ad esempio nelle sezioni dedicate agli
archivi degli atti e/o della normativa dell’ente, devono apportare gli
opportuni accorgimenti per la tutela dei dati personali. In tali casi,
quindi, è necessario provvedere a oscurare nella documentazione pubblicata i
dati e le informazioni idonei a identificare, anche in maniera indiretta, i
soggetti interessati (cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte
II, par. 3.a).
[11] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 3.a.
[12] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n.
33/2013.
Ai sensi dell’art. 8, c. 3, D.Lgs. n. 33/2013, “I dati, le informazioni e i
documenti oggetto di pubblicazione obbligatoria ai sensi della normativa
vigente sono pubblicati per un periodo di 5 anni, decorrenti dal 1° gennaio
dell’anno successivo a quello da cui decorre l’obbligo di pubblicazione, e
comunque fino a che gli atti pubblicati producono i loro effetti, fatti
salvi i diversi termini previsti dalla normativa in materia di trattamento
dei dati personali e quanto previsto dagli articoli 14, comma 2, e 15, comma
4, decorsi detti termini, i relativi dati e documenti sono accessibili ai
sensi dell’articolo 5”.
[13] L’elenco è allegato alla delibera ANAC 28.12.2016, n. 1310.
[14] In proposito, l’ANAC ha affermato che le amministrazioni possono, sulla
base delle evidenze emerse dalle analisi del rischio di corruzione condotte
e in ragione delle proprie caratteristiche strutturali e funzionali,
pubblicare anche elenchi relativi ad ulteriori provvedimenti finali rispetto
a quelli espressamente individuati dall’art. 23, c. 1, del D.Lgs. n. 33/2013
(FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n. 33/2013, cit.).
[15] ANAC, FAQ in materia di trasparenza sull’applicazione del D.Lgs. n.
33/2013, cit.
[16] Cfr. ANAC, Delibera 02.05.2018, n. 408, secondo cui il PTPCT –che negli
enti locali è approvato dalla Giunta (art. 1, c. 8, L. n. 190/2012)– è un
atto programmatorio, non costituisce un insieme astratto di previsioni e
misure, ma tende alla loro concreta attuazione in modo coordinato rispetto
al contenuto di tutti gli altri strumenti di programmazione presenti
nell’amministrazione.
[17] Ai sensi dell’art. 4, par. 2, del Regolamento (UE) n. 479/2016, si
intende per “trattamento”, “qualsiasi operazione o insieme di operazioni,
compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati
personali o insieme di dati personali, come la raccolta, la registrazione,
l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la
modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante
trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il
raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la
distruzione”.
[18] Gli artt. 9 del Regolamento (UE) e 2-sexies del D.Lgs. n. 196/2003
specificano che il trattamento dei dati personali particolari necessario per
motivi di interesse pubblico rilevante avviene sulla base delle fonti
normative ivi previste –diritto dell’Unione o degli Stati membri nel
contenuto spiegato– che specifichino i tipi di dati che possono essere
trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico
rilevante (art. 2-sexies in commento), che deve essere proporzionato alla
finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei
dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti
fondamentali e gli interessi dell’interessato (art. 9 del Regolamento (UE)
n. 679/2016).
[19] Si rileva che la formulazione utilizzata dal legislatore nel comma 1
dell’art. 2-sexies in argomento è analoga a quella di cui al comma 1
dell’art. 2-ter del medesimo D.Lgs. n. 196/2003.
[20] Cfr. ANAC, Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione
(approvato con delibera 21.11.2018, n. 1074), Parte generale, par. 7. In
generale, in relazione alle cautele da adottare per il rispetto della
normativa in materia di protezione dei dati personali nell’attività di
pubblicazione sui siti istituzionali per finalità di trasparenza e
pubblicità dell’azione amministrativa, l’ANAC rinvia alle indicazioni
fornite dal Garante per la protezione dei dati personali nelle Linee guida
n. 243/2014 citate.
In dette Linee guida, il Garante spiega che è consentita la diffusione dei
soli dati personali la cui inclusione in atti e documenti da pubblicare sia
realmente necessaria e proporzionata alla finalità di trasparenza perseguita
nel caso concreto. Di conseguenza, i dati personali che esulano da tale
finalità non devono essere inseriti negli atti e nei documenti oggetto di
pubblicazione on line. In caso contrario, occorre provvedere, comunque,
all’oscuramento delle informazioni che risultino eccedenti o non pertinenti
(Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte I, par. 1).
[21] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 cit., parte II, par. 3.a.
[22] Cfr. Linee guida del Garante n. 243/2014 citate, parte I, par. 7
(22.01.2019 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
APPALTI:
Risvolti contabili dell’aggiudicazione gare indette entro il 31.12.2018.
Domanda
Nel bilancio 2018/2020 avevamo iscritto un’opera pubblica imputandola
interamente all’esercizio 2018 in assenza di un preciso cronoprogramma di
realizzazione della stessa. Entro il 31/12/2018 l’ufficio tecnico comunale
ha tuttavia solo formalmente indetto la procedura di affidamento.
L’ufficio tecnico vuole ora aggiudicare la procedura, posso imputare
contabilmente l’impegno conseguente sul 2018 e poi reimputarlo quando
provvederò al riaccertamento ordinario dei residui?
Risposta
Alla sola indizione della procedura di affidamento nell’anno 2018 (così come
con l’impegno di una delle spese del quadro dell’opera ad esclusione delle
spese di progettazione) non risulta possibile impegnare tutta la spesa in
assenza di tutti gli elementi costitutivi dell’impegno previsti dal
principio generale di competenza finanziaria n. 16 (allegato 1 al d.lgs.
118/2011), ma solo provvedere alla prenotazione del medesimo impegno
(infatti non si conosce sicuramente né il fornitore né l’importo preciso) e
conseguentemente –come previsto dal punto 5.4 del Principio Contabile
Applicato concernente la contabilità finanziaria (allegato n. 4/2 al d.lgs.
118/2011)– a determinare sull’anno 2018 il relativo FPV atto alla
reimputazione della spesa sull’esercizio 2019.
Passando alla soluzione del caso concreto posto nel quesito, non risulta ora
possibile procedere con l’impegno imputandolo all’esercizio precedente a
quello in corso. Prima di provvedere allo stesso, si rende necessario
procedere ad una variazione di esigibilità della spesa che permetta di avere
la disponibilità sull’anno in corso.
Tale variazione (di competenza della Giunta Comunale ai sensi dell’art. 175,
c. 5-bis, lettera e), previo parere dell’organo di revisione) se non vi sono
residui attivi da reimputare è disposta direttamente senza la necessità di
un atto propedeutico. Diversamente, laddove l’Ente abbia già posto in essere
un accertamento di entrata sull’anno 2018 (relativo a contributi a
rendicontazione e operazioni di indebitamento già autorizzate e perfezionate
da reimputare in considerazione dell’esigibilità), prima di porre in essere
la variazione di esigibilità è necessario procedere con un atto propedeutico
alla stessa: un riaccertamento parziale dei residui.
Tale atto va concretizzato attraverso una determina del responsabile dei
servizi finanziari sulla quale dovrà esprimere il suo parere anche l’organo
di revisione, all’interno della quale verranno accertati i motivi per cui si
rende necessario procedere a tale reimputazione dei residui attivi ed alla
conseguente reiscrizione sull’esercizio successivo della correlata spesa.
Resta infine da capire però se l’Ente ha già approvato il Bilancio di
Previsione 2019/2021 oppure se si trova in esercizio provvisorio. Ciò in
quanto ai sensi dell’art. 163, c. 3, del TUEL: “nel corso dell’esercizio
provvisorio … gli enti possono impegnare solo spese correnti, le eventuali
spese correlate riguardanti le partite di giro, lavori pubblici di somma
urgenza o altri interventi di somma urgenza.“; ovvero gli enti in
esercizio provvisorio non potranno in ogni caso addivenire
all’aggiudicazione definitiva (che determina il passaggio da impegno
provvisorio a definitivo) se non per interventi di somma urgenza (21.01.2019
- tratto da e link a www.publika.it). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEO:
Progressioni
verticali.
Domanda
Quali sono le modalità per realizzare le progressioni di carriera?
Risposta
A legislazione vigente esistono due normative che ammettono le progressioni
di carriera. La prima è l’art. 24 del d.lgs. 150/2009 (Brunetta):
Art. 24. Progressioni di carriera
“1. Ai sensi dell’articolo 52, comma 1-bis, del decreto legislativo n.
165 del 2001, come introdotto dall’articolo 62 del presente decreto, le
amministrazioni pubbliche, a decorrere dal 1° gennaio 2010, coprono i posti
disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con
riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno,
nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni.
2. L’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a
riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai
dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni”.
La seconda è l’art. 22, comma 15, del d.lgs. 75/2017 (Madia):
Art. 22, comma 15
“Per il triennio 2018-2020, le pubbliche amministrazioni, al fine di
valorizzare le professionalità interne, possono attivare, nei limiti delle
vigenti facoltà assunzionali, procedure selettive per la progressione tra le
aree riservate al personale di ruolo, fermo restando il possesso dei titoli
di studio richiesti per l’accesso dall’esterno. Il numero di posti per tali
procedure selettive riservate non può superare il 20 per cento di quelli
previsti nei piani dei fabbisogni come nuove assunzioni consentite per la
relativa area o categoria. In ogni caso, l’attivazione di dette procedure
selettive riservate determina, in relazione al numero di posti individuati,
la corrispondente riduzione della percentuale di riserva di posti destinata
al personale interno, utilizzabile da ogni amministrazione ai fini delle
progressioni tra le aree di cui all’articolo 52del decreto legislativo n.
165 del 2001”.
Nel primo caso la norma fa riferimento ai concorsi pubblici e ammette una
riserva non superiore al 50% a favore del personale interno.
In altre parole, l’ente può bandire un concorso per la copertura di due
posti (ad esempio: Istruttore Direttivo Amministrativo, Cat. D), di cui uno
riservato a personale interno che risulta idoneo nella graduatoria. In
questo caso, quindi, la riserva –per forza– deve essere calcolata sui posti
messi a concorso svolgendo prima le procedure di mobilità di cui all’art.
34-bis e all’art. 30 del d.lgs. 165/2001.
Nel secondo caso il riferimento è al 20% dei posti previsti nei piani
triennali dei fabbisogni 2018/2020, ma non si parla di posti messi a
concorso pubblico.
In questo caso, quindi, la riserva del 20% si può applicare sui posti che
l’ente, in base al Piano Triennale del fabbisogni, può assumere nel
triennio. Quindi, se i posti sono CINQUE, uno può essere coperto con una
procedura selettiva riservata al personale interno.
Ne restano quattro. Se di questi 4 posti, uno viene ricoperto con la
mobilità di cui all’art. 30, comma 2-bis, del d.lgs. 165/2001, ciò non
inficia la regolarità della procedura. Il riferimento è all’art. 30, comma
2-bis, perché quella è la procedura di mobilità che è propedeutica
all’indizione del concorso pubblico. Si ricorda, infine, che la norma “Madia”
è valida solo per il triennio 2018/2020 (17.01.2019 - tratto da e
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Il documento di gara unico europeo DGUE, quando deve essere acquisito.
Domanda
Il documento di gara unico europeo (DGUE) deve essere acquisito per tutti
gli affidamenti, oppure esiste una soglia minima di spesa? Al fine di
attestare il possesso dei requisiti generali di cui all’art. 80 del d.lgs.
50/2016 è sufficiente la presentazione di tale documento?
Risposta
L’art. 85 del d.lgs. 50/2016 disciplina il Documento di gara unico europeo (DGUE)
redatto in conformità al modello di formulario approvato con Regolamento di
esecuzione UE 2016/7 della Commissione del 05.01.2016 e secondo lo schema
allegato al DM del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti del 18.07.2016
o s.m., al fine di uniformare la modulistica per la partecipazione alle
differenti procedure di appalto e nell’ottica di riutilizzo dello stesso,
previa conferma delle informazioni ivi contenute.
La dichiarazione circa il possesso dei requisiti generali ed eventualmente
speciali per l’affidamento di lavori, forniture e servizi, deve essere
sempre acquisita indipendentemente dal valore dell’appalto, eventualmente
nella forma dell’autocertificazione ordinaria ai sensi del D.P.R. 28.12.2000
n. 445, in caso di affidamenti diretti per importo fino a 5.000 euro (paragraofo
4.2.2 delle Linee guida Anac n. 4), ovvero mediante il DGUE per importi
superiori.
Si precisa tuttavia che il DGUE, secondo l’attuale schema ministeriale, non
prevede tutte le dichiarazioni generali di cui al vigente art. 80, del
d.lgs. 50/2016, come risultante dalle modifiche introdotte dapprima dal
correttivo, con le lett. f-bis), e f-ter), del comma 5, e poi dall’art. 5
del decreto-legge n. 135 del 2018.
Il DGUE dovrà quindi essere accompagnato dalle seguenti dichiarazioni
integrative relative all’art. 80, comma 5, lett. c-bis), c-ter), f-bis) e
f-ter) del Codice:
• di non aver tentato di influenzare indebitamente il processo
decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate a
fini di proprio vantaggio oppure di non aver fornito, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione, ovvero di non aver omesso
le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di
selezione (art. 80 comma 5, lett. c-bis);
• di non aver dimostrato significative o persistenti carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che
ne hanno causato la risoluzione per inadempimento ovvero la condanna al
risarcimento del danno o altre sanzioni comparabili (art. 80, comma 5, lett.
c-ter);
• di non presentare nella procedura di gara in corso e negli
affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere (art.
80, comma 5, lett. f-bis);
• di non presentare nella procedura di gara in corso e negli
affidamenti di subappalti documentazione o dichiarazioni non veritiere (art.
80, comma 5, lett. f-bis);
• L’operatore economico si trova in una delle seguenti situazioni?
È iscritto nel casellario informatico tenuto dall’Osservatorio dell’ANAC per
aver presentato false dichiarazioni o falsa documentazione nelle procedure
di gara e negli affidamenti di subappalti [art. 80, comma 5, lettera f-ter)]?
[_] SI [_] NO
Se la documentazione pertinente è disponibile elettronicamente, indicare:
(indirizzo web, autorità o organismo di emanazione, riferimento preciso
della documentazione) (16.01.2019 - tratto da e link a
www.publika.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO - SEGRETARI COMUNALI:
Responsabile Trasparenza e Responsabile Protezione Dati.
Domanda
Nel nostro comune (sopra 15.000 abitanti) è stato nominato Responsabile
della Prevenzione della Corruzione, il segretario comunale, che è anche
Responsabile della Trasparenza.
Dopo il nuovo Regolamento Europeo sulla privacy, abbiamo nominato anche il
Responsabile per la Protezione dei Dati che è un dipendente dell’ente.
Che rapporto ci deve essere tra le due figure? È possibile nominare RPD il
RPCT?
Risposta
Prima di entrare nel merito specifico del quesito è bene fornire qualche
indicazione di contesto.
Quello appena trascorso, si potrebbe definire come l’anno della privacy, dal
momento che hanno trovato attuazione le seguenti disposizioni legislative:
1. Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 27.04.2016 “relativo alla protezione delle persone fisiche con
riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione
di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (Regolamento generale sulla
protezione dei dati)” pienamente operativo dal 25.05.2018;
2. Decreto legislativo 18.05.2018, n. 51, in vigore dal 08.06.2018,
recante Attuazione della direttiva (UE) 2016/680 del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 27.04.2016, relativa alla protezione delle persone
fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle
autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e
perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali, nonché alla libera
circolazione di tali dati e che abroga la decisione quadro 2008/977/GAI del
Consiglio, (trattamento dei dati giudiziari);
3. Decreto legislativo 10.08.2018, n. 101, in vigore dal
19.09.2018, recante “Disposizioni per l’adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati)”.
Per ciò che riguarda il trattamento dei dati personali da parte di soggetti
pubblici, ai fini della trasparenza, così come disciplinata dal d.lgs.
33/2013, è necessario sottolineare che l’art. 2-ter, del d.lgs. 196/2003
–aggiunto dal d.lgs. 101/2018– dispone che la base giuridica per il
trattamento dei dati, effettuato per l’esecuzione di un compito di interesse
pubblico “è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi
previsti dalla legge, di regolamento”.
Il regime normativo del trattamento dei dati delle persone fisiche, da parte
dei soggetti pubblici, pertanto, è rimasto sostanzialmente inalterato,
venendo ribadito il principio che il trattamento dei dati risulta consentito
unicamente se ammesso da una norma di legge o di regolamento, dove previsto
da una legge.
Per i comuni, quindi, resta acclarato che, prima di pubblicare nel proprio
sito web (Albo pretorio on-line e/o Amministrazione trasparente) dati e
documenti contenenti dati personali (sia in forma integrale o in estratto,
compresi gli allegati), occorre verificare che la disciplina in materia di
trasparenza contenuta nel d.lgs. n. 33/2013 o in altre normative, anche di
settore, preveda un espresso obbligo di pubblicazione.
A completamento della presente premessa, è bene ricordare, tuttavia, che
l’attività di pubblicazione dei dati sui siti web per finalità di
trasparenza –anche se effettuata in presenza di idoneo presupposto
normativo– deve sempre avvenire nel rispetto di tutti i principi applicabili
al trattamento dei dati personali [1],
quali quelli di liceità, correttezza e trasparenza; minimizzazione dei dati;
esattezza; limitazione della conservazione; integrità e riservatezza tenendo
anche conto del principio di “responsabilizzazione” del titolare del
trattamento.
In particolare, assumono rilievo i principi di adeguatezza, pertinenza e
limitazione a quanto necessario, rispetto alle finalità per le quali i dati
personali sono trattati («minimizzazione dei dati») e quelli di
esattezza e aggiornamento dei dati, con il conseguente dovere di adottare
tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i
dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati.
Per ciò che attiene ai rapporti tra Responsabile della Trasparenza e
Responsabile della Protezione dei Dati, alcuni spunti di sicuro interesse
sono rinvenibili nella delibera ANAC n. 1074 del 21/11/2018 (pubblicata
sulla GU n. 296 del 21/12/2018), al Paragrafo 7, rubricato “Trasparenza e
nuova disciplina della tutela dei dati personali (Reg. UE 2016/679)”.
In sintesi, nel documento citato che contiene “Approvazione definitiva
dell’Aggiornamento 2018 al Piano Nazionale Anticorruzione”, l’ANAC
sostiene che:
a) se si tratta di due soggetti interni (si ricorda che il RPD
potrebbe anche essere soggetto esterno all’ente), è bene le due figure non
siano coincidenti nella stessa persona (il Segretario comunale, nei comuni),
dal momento che la sovrapposizione dei due ruoli potrebbe determinare una
limitazione allo svolgimento delle due attività, tenuto conto dei numerosi
compiti e responsabilità che le norme attribuiscono al RPCT e al RPD;
b) Eventuali eccezioni possono essere ammesse solo in enti di
piccoli dimensioni (comuni sotto 5.000 abitanti, per esempio) qualora la
carenza di personale renda, da un punto di vista organizzativo, non
possibile tenere distinte le due funzioni. In tali casi, le amministrazioni,
con motivato e specifico provvedimento (del Sindaco), potranno attribuire
allo stesso soggetto il ruolo di RPCT e RPD;
c) Il RPD, per le questioni di carattere generale riguardanti il
trattamento e la protezione dei dati personali, può certamente rappresentare
una figura di riferimento anche per il RPCT, anche se non potrà mai
sostituirsi ad esso nell’esercizio delle sue specifiche prerogate, stabilite
dalle legge 190/2012 e dalle successive disposizioni. Si pensi, al riguardo,
alla stesura della sezione Trasparenza del Piano Anticorruzione o alla
definizione delle istanze di riesame, nell’ambito dell’accesso civico
generalizzato (cd. FOIA), qualora la decisione del servizio detentore
dell’atto o del documento, riguardi profili attinenti alla protezione dei
dati. In tali casi, infatti, per obbligo di legge, il RPCT deve richiedere
un parere al Garante Privacy italiano ed è tenuto ad attenersi a quanto da
esso stabilito, a prescindere da una eventuale e preventiva consultazione
che l’ufficio, in prima istanza, possa aver intrattenuto con il RPD.
---------------
[1] Vedi art. 5, Regolamento UE 2016/679 (15.01.2019 - tratto
da e link a www.publika.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Obbligo di sopralluogo in sede di gara pubblica.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti - Ricorso cumulativo
di ammissione a più lotti – Ammissibilità – Condizione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Sopraluogo –
Obbligo – Limiti.
●
Contratti della Pubblica amministrazione - Requisiti di
partecipazione – Iscrizione camerale – Corrispondenza
contenutistica tra iscrizione e oggetto del contratto -
Limiti.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla
gara - Per corruzione o per riciclaggio – Grave illecito
professionale – Non è tale.
●
E’ ammissibile l'impugnazione dell'unitario provvedimento di
ammissione dei concorrenti ai vari lotti, allorché
l’ammissione degli operatori economici sia contestata con
riferimento ai vari lotti per i medesimi motivi (1).
●
La clausola che preveda a pena di esclusione il sopralluogo
non può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista
dalla legge, salvo che il sopralluogo ha carattere di
adempimento strumentale a garantire anche il puntuale
rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di
gara e che l’obbligo di sopralluogo ha un ruolo sostanziale,
e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di
formulare un'offerta consapevole e più aderente alle
necessità dell'appalto (2).
●
L'art. 83, commi 1, lett. a), e 3, d.lgs. n. 50 del 2016
prevede l'iscrizione camerale quale requisito di idoneità
professionale, anteposto ai più specifici requisiti
attestanti la capacità tecnico-professionale ed
economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, con la
necessaria conseguenza che vi debba essere congruenza
contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze
descrittive della professionalità dell'impresa, come
riportate nell'iscrizione alla Camera di commercio, e
l'oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso
di prestazioni in esso previste; tuttavia, la corrispondenza
contenutistica non deve tradursi in una perfetta ed assoluta
sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di
riferimento, ma la stessa va appurata secondo un criterio di
rispondenza alla finalità di verifica della richiesta
idoneità professionale, e quindi in virtù di una
considerazione non già atomistica e frazionata, bensì
globale e complessiva delle prestazioni dedotte in
contratto.
●
Ai sensi dell'art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
n. 50 del 2016, letto in combinazione con le linee guida
ANAC n. 6, deve escludersi che l’eventuale rinvio a giudizio
dell’amministratore o del direttore tecnico di un operatore
economico per corruzione o per riciclaggio, nonché
l’applicazione di una misura cautelare per i medesimi reati,
costituiscano adeguati mezzi di prova della commissione di
un grave illecito professionale, che comporta l’esclusione
dalla gara; la loro omessa dichiarazione, pertanto, non
configura la causa di esclusione dell’operatore ai sensi
della successiva lett. c-bis) dell’art. 80.
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l'art. 120, comma 11-bis, c.p.a. ha
codificato un orientamento giurisprudenziale consolidato
secondo cui, in caso di procedura di evidenza pubblica
suddivisa in più lotti, l'ammissibilità del ricorso
cumulativo proposto avverso gli atti di gara pubblica resta
subordinata all'articolazione, nel gravame, di censure
idonee ad inficiare segmenti procedurali comuni alle
differenti e successive fasi di scelta delle imprese
affidatarie dei diversi lotti e, quindi, a caducare le
pertinenti aggiudicazioni; il cumulo di azioni è quindi
ammissibile solo a condizione che le domande si basino sugli
stessi presupposti di fatto e di diritto e siano
riconducibili nell'ambito del medesimo rapporto o atto.
(2) Ha chiarito il Tar che l'obbligo di sopralluogo, strumentale a
una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi,
è infatti funzionale alla miglior valutazione degli
interventi da effettuare in modo da formulare, con maggiore
precisione, la migliore offerta tecnica (Cons.
St., sez. V, 19.02.2018, n. 1037).
E’ stato anche sottolineato che l’obbligo per il concorrente
di effettuazione di un sopralluogo è finalizzato proprio ad
una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi:
tale verifica può, dunque, dirsi funzionale anche alla
redazione dell'offerta, onde incombe sull'impresa l’onere di
effettuare tale sopralluogo con la dovuta diligenza, in modo
da poter modulare la propria offerta sulle concrete
caratteristiche dei locali (Cons.
St., sez. VI, 23.06.2016, n. 2800).
Ha infine aggiunto il Tar che in materia di appalto pubblico
di servizi, le uniche fonti della procedura di gara sono
costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal
disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, e i
chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante
non possono né modificarle, né integrarle, né rappresentarne
un'inammissibile interpretazione autentica; nondimeno, alla
luce del principio comunitario di tutela del legittimo
affidamento, non può ritenersi che debbano essere esclusi
quegli offerenti che, nell'individuare gli immobili presso i
quali eseguire i sopralluoghi previsti come obbligatori a
pena di esclusione dal disciplinare di gara si siano
conformati ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante.
---------------
SENTENZA
3. – Con il primo motivo di ricorso ci si duole
che la stazione appaltante abbia ammesso alla gara alcuni
candidati benché essi non avessero eseguito il sopralluogo
sui luoghi presso i quali il servizio sarà prestato, in
contraddizione con la legge speciale di gara.
3.1. – L’art. 3.8 del disciplinare di gara stabilisce che
ciascuna delle imprese concorrenti “dovrà, a pena
esclusione, recarsi presso gli immobili dove dovrà essere
espletato il servizio, al fine di prendere conoscenza delle
condizioni dei locali, degli accessi, degli immobili stessi
e di tutte le circostanze generali e particolari che
potranno influire sull’esecuzione dell’appalto e sulla
formulazione dell’offerta economica”.
Secondo parte ricorrente l’amministrazione avrebbe tenuto
una condotta illegittima laddove non ha escluso dalla gara i
controinteressati, che non hanno adeguatamente documentato
di aver effettuato il sopralluogo di tutte le strutture
presso le quali è previsto l’espletamento del servizio di
lavanolo.
3.2. – Il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. V,
26.07.2018, n. 4597) ha di recente ricordato come l’art. 79,
comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016 prevede che “quando le
offerte possono essere formulate soltanto a seguito di una
visita dei luoghi o dopo consultazione sul posto dei
documenti di gara e relativi allegati, i termini per la
ricezione delle offerte, comunque superiori ai termini
minimi stabiliti negli articoli 60, 61, 62, 64 e 65, sono
stabiliti in modo che gli operatori economici interessati
possano prendere conoscenza di tutte le informazioni
necessarie per presentare le offerte.”, così che la
clausola che preveda a pena di esclusione il sopralluogo non
può di per sé dirsi contraria alla legge o non prevista
dalla legge, salvo che il sopralluogo ha carattere di
adempimento strumentale a garantire anche il puntuale
rispetto delle ulteriori prescrizioni imposte dalla legge di
gara e che l’obbligo di sopralluogo ha un ruolo sostanziale,
e non meramente formale, per consentire ai concorrenti di
formulare un'offerta consapevole e più aderente alle
necessità dell'appalto.
L'obbligo di sopralluogo, strumentale a una completa ed
esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi, è infatti
funzionale alla miglior valutazione degli interventi da
effettuare in modo da formulare, con maggiore precisione, la
migliore offerta tecnica (Cons. Stato, Sez. V, 19.02.2018 n.
1037).
E’ stato anche sottolineato che l’obbligo per il concorrente
di effettuazione di un sopralluogo è finalizzato proprio ad
una completa ed esaustiva conoscenza dello stato dei luoghi:
tale verifica può, dunque, dirsi funzionale anche alla
redazione dell'offerta, onde incombe sull'impresa l’onere di
effettuare tale sopralluogo con la dovuta diligenza, in modo
da poter modulare la propria offerta sulle concrete
caratteristiche dei locali (Cons. Stato, Sez. VI, 23.06.2016
n. 2800).
3.3. – Ne consegue che la previsione, a pena di esclusione,
dell’obbligo di sopralluogo dei locali in cui il servizio
dovrà essere prestato è legittima.
3.4. – Rendendo chiarimenti ad alcuni dubbi prospettati
dagli operatori economici, la Stazione Unica Appaltante ha
poi precisato che “Il sopralluogo deve essere effettuato
almeno presso i P.O. delle Aziende Sanitarie interessate dal
servizio, fermo restando che l’operatore economico, in fase
di esecuzione del servizio, non potrà lamentare la mancata
conoscenza di elementi ambientali e logistici che possono in
qualsiasi modo limitare il servizio offerto”.
Ora, è vero che le uniche fonti della procedura di gara sono
costituite dal bando di gara, dal capitolato e dal
disciplinare, unitamente agli eventuali allegati, e i
chiarimenti auto-interpretativi della stazione appaltante
non possono né modificarle, né integrarle, né rappresentarne
un'inammissibile interpretazione autentica; esse fonti
devono essere interpretate e applicate per quello che
oggettivamente prescrivono, senza che possano acquisire
rilevanza atti interpretativi postumi della stazione
appaltante ad integrare la lex specialis ed essere
vincolanti per la Commissione aggiudicatrice (da ultimo, cfr.
Cons. Stato, Sez. III, 26.08.2016, n. 3708).
Nondimeno, tenuto conto anche della funzione sostanziale e
non meramente formale dell’obbligo di sopralluogo, non può
ritenersi che debbano essere esclusi quegli offerenti che,
conformandosi ai chiarimenti resi dalla stazione appaltante,
abbiano eseguito il sopralluogo dei soli presidi
ospedalieri, per come indicati nell’allegato n. 13 del
capitolato tecnico.
D’altra parte, in materia di gare d'appalto, il principio
comunitario relativo alla tutela del legittimo affidamento
impedisce di sanzionare, con l'esclusione dalla procedura,
il concorrente che abbia tenuto una condotta conforme alle
indicazioni fornite dalla stazione appaltante, ai fini
dell'interpretazione della disciplina di gara (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 20.04.2011, n. 2446 e Cons. Stato, Sez. V,
02.12.2015, n. 5454) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 07.02.2019 n. 25 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
All’Adunanza plenaria l’obbligo di ricorrere al criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa nel caso di
servizi ad alta intensità di manodopera.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Offerta economicamente più vantaggiosa - Servizi ad alta
intensità di manodopera – Obbligo cogente di utilizzare il.
E’ rimessa all’Adunanza plenaria la
quesitone se il rapporto, nell’ambito dell’art. 95, d.lgs.
n. 50 del 2016 tra il comma 3, lett. a (casi di esclusivo
utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, tra i quali, quello dei servizi ad alta
intensità di manodopera) ed il comma 4, lett. b (casi di
possibile utilizzo del criterio del minor prezzo, tra i
quali quello dei servizi e le forniture con caratteristiche
standardizzate o le cui condizioni sono definite dal
mercato), va incondizionatamente declinato nei termini di
specie a genere, con la conseguenza per cui, ove ricorrano
le fattispecie di cui al comma 3, debba ritenersi, comunque,
predicabile un obbligo cogente ed inderogabile di adozione
del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
(1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che il comma 2 dell’art. 95, d.lgs. n.
50 del 2016 riflette la preferenza accordata dal Legislatore
per il criterio selettivo dell’offerta economicamente più
vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto
qualità/prezzo oppure sulla base dell’elemento prezzo o del
costo seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia
quale il costo del ciclo di vita.
Tanto premesso la Sezione si è soffermata sulla latitudine
applicativa del comma 4 dell’art. 95 nella parte in cui
prevede che può essere utilizzato il criterio del minor
prezzo, tra gli altri, per i servizi e le forniture con
caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono
definite dal mercato. Tanto in ragione del fatto che, a
mente della previsione di cui al comma 3° sempre del
divisato art. 95, devono essere sempre aggiudicati
esclusivamente sulla base del criterio dell'offerta
economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del
miglior rapporto qualità/prezzo a) i contratti relativi ai
servizi sociali e di ristorazione ospedaliera, assistenziale
e scolastica, nonché ai servizi ad alta intensità di
manodopera, come definiti all'articolo 50, comma 1, fatti
salvi gli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2,
lettera a).
Da qui il punto di diritto controverso che mira a
sciogliere, sul piano esegetico, il nodo dato dalla
relazione di antinomia che si pone tra i due soprarichiamati
precetti onde chiarire se il rapporto, nell’ambito dell’art.
95, tra il comma 3 (casi di esclusivo utilizzo del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tra i quali vi
è quello dei servizi ad alta intensità di manodopera) ed il
comma 4 (casi di possibile utilizzo del criterio del minor
prezzo, tra i quali vi è quello dei servizi standardizzati),
sia di specie a genere o viceversa.
I diversi approdi giurisprudenziali fanno invero registrare
un significativo contrasto nella definizione della corretta
interazione che deve porsi tra i due precetti, essendo stato
il suddetto rapporto di antinomia vicendevolmente definito
di genere a specie e, dunque, risolto con affermazioni di
principio tra loro inconciliabili.
Un primo orientamento giurisprudenziale muove dal valore
semantico delle proposizioni normative qui in rilievo e da
una lettura sistemica e coordinata dell’art. 95, d.lgs. n.
50 del 2016 con le vincolanti coordinate fissate dal
legislatore delegante (l. n. 11 del 2016) per giungere ad
escludere in subiecta materia il ricorso al criterio
di aggiudicazione del prezzo più basso.
Segnatamente, e prendendo abbrivio da tali premesse, si è
ritenuto che il rapporto tra il comma 3 ed il comma 4
dell’art. 95 debba essere declinato come di specie a genere:
ove ricorrano cioè le fattispecie di cui al comma 3 (tra cui
le prestazioni ad alta intensità di manodopera) si pone,
dunque, un obbligo speciale e cogente di adozione del
criterio dell'’offerta economicamente più vantaggiosa che,
sovrapponendosi e irrigidendo la ordinaria preferenza per
tale criterio prevista in via generale dal codice, non
ammetterebbe giammai deroghe, nemmeno al ricorrere delle
fattispecie di cui al comma 4 ed indipendentemente dallo
sforzo motivazionale compiuto dall'amministrazione (Cons.
St., sez. III, 02.05.2017, n. 2014; id.,
sez. V, 16.08.2018, n. 4945).
Ed, invero, fermo il rapporto regola/eccezione intercorrente
tra i commi 2 e 4, il successivo comma 3 avrebbe introdotto
–come fatto palese dall’utilizzo dell’avverbio
esclusivamente- una previsione ulteriormente derogatoria e
dunque autonoma, a mente della quale dovrebbe ritenersi
esclusa, a priori, la possibilità di affidare i servizi “ad
alta intensità di manodopera” mediante criterio del
prezzo più basso, imponendosi invece come esclusivo il
criterio del miglior rapporto qualità/prezzo.
Di recente si è andato affermando un altro orientamento
giurisprudenziale incentrato su un’esegesi del su indicato
quadro regolatorio alternativa e contrastante con quella
sopra richiamata e che, ribaltando il rapporto genere a
specie, assegna alla previsione di cui all’art. 95, comma 4,
lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui ammette
“per i servizi e le forniture con caratteristiche
standardizzate e le cui condizioni sono definite dal mercato”
l’utilizzo del criterio del prezzo più basso, una valenza
derogatoria rispetto alla stessa previsione speciale di cui
al precedente comma 3, concludendo nel senso dell’idoneità
della detta previsione derogatoria (ex art. 95, comma 4,
lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016) a reggere in via autonoma,
e dunque a regolare, ogni appalto caratterizzato da “prestazioni
standardizzate”, ancorché “ad alta intensità di
manodopera”.
Cons. St., sez, III, 13.03.2018, n. 1609 ha, da
ultimo, affermato, in riferimento ad una fattispecie
sovrapponibile a quella qui in rilievo, peraltro con il
coinvolgimento dei medesimi operatori, che “l'art. 95 sul
“Criterio di aggiudicazione dell'appalto”, al comma 4,
lett. b), espressamente consente, in via di eccezione, che “per
i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate
o le cui condizioni sono definite dal mercato;” possa
farsi l'applicazione del criterio del “minor prezzo”.
Si è in merito ritenuto che “Tale indicazione è
palesemente finalizzata a garantire una significativa
accelerazione della procedura, soprattutto quando le
prestazioni non devono assolutamente differire da un
esecutore ad un altro. Il “minor prezzo” resta dunque
circoscritto alle procedure per l’affidamento di forniture o
di servizi che sono, per loro natura, strettamente vincolate
a precisi ed inderogabili standard tecnici o contrattuali, e
per le quali non vi è alcuna reale necessità di far luogo
all’acquisizione di offerte differenziate. In tali casi può
prescindersi da una peculiare e comparativa valutazione
della qualità dell’esecuzione, in quanto questa viene
fissata inderogabilmente a priori dal committente
nell’allegato tecnico”.
In sintesi il rapporto tra il comma 3 ed il comma 4
dell’articolo 95 viene così diversamente ricostruito “…la
tipologia di cui alla lett. b) del comma 4 dell’art. 95
attiene ad un ipotesi ontologicamente del tutto differente
sia dall’appalto “ad alta intensità di manodopera” di cui
all’art. 95, comma 3, lett. a), che concerne prestazioni
comunque tecnicamente fungibili; e sia da quelli
caratterizzati da “notevole contenuto tecnologico” o di
“carattere innovativo” di cui all’art. 95, comma n. 4, lett.
c), del codice dei contratti, attinenti tipicamente a
prestazioni di contenuto evolutivo”.
Per i contratti con caratteristiche standardizzate non vi
sarebbe, dunque, alcuna ragione né utilità di far luogo ad
un’autonoma valutazione e valorizzazione degli elementi non
meramente economici delle offerte, perché queste, proprio
perché strettamente assoggettati allo standard, devono
assolutamente coincidere tra le varie imprese.
Nell’economia di tale diversa ed alternativa ricostruzione
esegetica il profilo del servizio standardizzato
costituirebbe, dunque, un elemento “particolarmente”
specializzante, di per stesso idoneo a giustificare,
nell’impianto regolatorio dell’articolo 95 del codice dei
contratti, lo scorporo dalla previsione operativa di cui al
comma 3, già di per sé contraddistinta dalla dignità
giuridica di norma speciale, di un nucleo ancor più
ristretto di fattispecie da sottoporre a disciplina
derogatoria.
In altri termini, l’elemento della “standardizzazione”
consentirebbe di isolare, all’interno del più ampio genus
dei servizi caratterizzati dall’alta intensità di
manodopera, un particolare sotto insieme che il legislatore,
in virtù di tali peculiari caratteristiche che
connoterebbero la prestazione come tendenzialmente
infungibile dal punto di vista tecnico/qualititativo,
avrebbe inteso sottoporre a disciplina differenziata siccome
più coerente con le suddette intrinseche caratteristiche (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 05.02.2019 n. 882 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per omessa dichiarazione sanzione Anac
avente ad oggetto l’incapacità a partecipare alle gare.
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Contatti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Omessa dichiarazione sanzione Anac avente ad
oggetto l’incapacità a partecipare alle gare – Incapacità
successiva alla scadenza dei termini per la presentazione
dell’offerta – Va dichiarata.
Ai sensi dell’art. 80, d.lgs. n. 50
del 2016, il concorrente ad una gara pubblica è tenuto, pena
l’esclusione dalla gara, ad informare la stazione appaltante
dell’intervenuta emanazione di una sanzione Anac avente ad
oggetto l’incapacità a partecipare alle gare pubbliche anche
se intervenuta successivamente alla scadenza dei termini per
la presentazione dell’offerta (1).
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(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016
prevede cause di esclusione dalla gara, obbligatorie o
facoltative, fondate sul presupposto che l’operatore
economico non dichiari, o dichiari falsamente, alcune
condizioni o presupposti specificamente indicati ai commi 1,
2, 4 e 5. La previsione della cause di esclusione per
mancata dichiarazione (o falsa dichiarazione) presuppone,
dunque, l’emersione, in capo all’operatore economico, di
determinati obblighi dichiarativi, il cui contenuto si
definisce e si modella alla luce proprio delle citate cause
di esclusione.
Il legislatore pretende, dunque,
dall’operatore economico che partecipa ad un gara pubblica
una serie di informazioni per valutarne l’affidabilità
morale e professionale. Si tratta di un’applicazione dei
principi di buona fede e correttezza che da tempo sono
entrati nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico
(Cass. 18.09.2009, n. 20106) e che fanno dell'obbligo
di buona fede oggettiva un autonomo dovere giuridico,
espressione di un generale principio di solidarietà sociale,
la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (Cass. 15.02.2007, n. 3462).
La giurisprudenza ha, peraltro, chiarito che il principio di
buona fede informa tutte le fasi della procedura di gara al
punto che, in tema di responsabilità precontrattuale della
p.a., l’adunanza
plenaria del Consiglio di Stato (n. 5 del 2018)
ha affermato, superando il contrario prevalente
orientamento, che la responsabilità precontrattuale della
p.a. possa perfezionarsi anche prima dell’aggiudicazione,
perché la p.a. è tenuta al dovere di buona fede in tutte la
fasi della procedura di gara.
La latitudine applicativa del principio di buona fede nelle
gare pubbliche è tale che è pacifica anche la sua rilevanza
bilaterale: opera nei confronti della p.a., così come nei
confronti dei partecipanti alle gare pubbliche.
Del resto, la Relazione ministeriale al codice civile, sul
punto, evidenziava che il principio di correttezza e buona
fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione
dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il
giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando,
quindi, come un criterio di reciprocità. Ne consegue,
dunque, che, così come la stazione appaltante deve
comportarsi secondo buona fede in tutte le fasi della
procedura di gara, così devono fare anche i partecipanti
alle gare pubbliche che devono fornire all’amministrazione
tutte le informazioni necessarie affinché questa possa
scegliere nel modo più consapevole possibile l’impresa più
affidabile.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha omesso
un’informazione avente ad oggetto una misura limitativa
emessa dall’Anac che ha comportato l’interdizione dalla
partecipazione alle gare pubbliche; misura che, dunque, ha
comportato un congelamento, una sospensione, della capacità
di partecipare alle gare indette dalla p.a..
L’art. 80, comma 5, lett. f), dispone, peraltro, che le
stazioni appaltanti escludono un operatore economico che sia
stato soggetto alla sanzione interdittiva di cui
all'articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo
08.06.2001, n. 231 o ad altra sanzione che comporta il
divieto di contrarre con la pubblica amministrazione,
compresi i provvedimenti interdittivi di cui all'articolo 14
del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81.
La sanzione Anac in parola, comportando l’interdizione dalla
partecipazione alle gare pubbliche, comporta, come effetto
automatico, l’incapacità a contrarre con la p.a. nel periodo
temporale di efficacia della sanzione
(TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 04.02.2019 n. 598 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
4. Ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato nei limiti di
seguito specificati e che la ricostruzione offerta
dall’amministrazione resistente e dalla controinteressata
non possa essere condivisa, in quanto è, da un lato,
eccessivamente formalistica e, dall’altro, non in linea con
le ragioni ispiratrici dell’art. 80 d.lgs. 50/2016 e dei
connessi obblighi dichiarativi.
Quest’ultima norma prevede cause di esclusione dalla gara,
obbligatorie o facoltative, fondate sul presupposto che
l’operatore economico non dichiari, o dichiari falsamente,
alcune condizioni o presupposti specificamente indicati ai
commi 1, 2, 4 e 5.
La previsione della cause di esclusione per mancata
dichiarazione (o falsa dichiarazione) presuppone, dunque,
l’emersione, in capo all’operatore economico, di determinati
obblighi dichiarativi, il cui contenuto si definisce e si
modella alla luce proprio delle citate cause di esclusione.
Il legislatore pretende, dunque, dall’operatore economico
che partecipa ad un gara pubblica una serie di informazioni
per valutarne l’affidabilità morale e professionale.
Si tratta di un’applicazione dei principi di buona fede e
correttezza che da tempo sono entrati nel tessuto connettivo
dell'ordinamento giuridico (cfr., Cass., 18/09/2009 n.
20106) e che fanno dell'obbligo di buona fede oggettiva un
autonomo dovere giuridico, espressione di un generale
principio di solidarietà sociale, la cui
costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso,
fra le altre, Cass. 15.02.2007 n. 3462).
La giurisprudenza ha, peraltro, chiarito che il principio di
buona fede informa tutte le fasi della procedura di gara al
punto che, in tema di responsabilità precontrattuale della
p.a., l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza
n. 5/2018) ha affermato, superando il contrario prevalente
orientamento, che la responsabilità precontrattuale della
p.a. possa perfezionarsi anche prima dell’aggiudicazione,
perché la p.a. è tenuta al dovere di buona fede in tutte la
fasi della procedura di gara.
La latitudine applicativa del principio di buona fede nelle
gare pubbliche è tale che è pacifica anche la sua rilevanza
bilaterale: opera nei confronti della p.a., così come nei
confronti dei partecipanti alle gare pubbliche.
Del resto, la Relazione ministeriale al codice civile, sul
punto, evidenziava che il principio di correttezza e buona
fede “richiama nella sfera del creditore la considerazione
dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il
giusto riguardo all'interesse del creditore”, operando,
quindi, come un criterio di reciprocità.
Ne consegue, dunque, che, così come la stazione appaltante
deve comportarsi secondo buona fede in tutte le fasi della
procedura di gara, così devono fare anche i partecipanti
alle gare pubbliche che devono fornire all’amministrazione
tutte le informazioni necessarie affinché questa possa
scegliere nel modo più consapevole possibile l’impresa più
affidabile.
Nel caso di specie, l’aggiudicataria ha omesso
un’informazione avente ad oggetto una misura limitativa
emessa dall’Anac che ha comportato l’interdizione dalla
partecipazione alle gare pubbliche; misura che, dunque, ha
comportato un congelamento, una sospensione, della capacità
di partecipare alle gare indette dalla p.a..
L’art. 80, comma 5, lett. f), dispone, peraltro, che le
stazioni appaltanti escludono un operatore economico che sia
stato soggetto alla sanzione interdittiva di cui
all'articolo 9, comma 2, lettera c), del decreto legislativo
08.06.2001, n. 231 o ad altra sanzione che comporta il
divieto di contrarre con la pubblica amministrazione,
compresi i provvedimenti interdittivi di cui all'articolo 14
del decreto legislativo 09.04.2008, n. 81.
La sanzione Anac in parola, comportando l’interdizione dalla
partecipazione alle gare pubbliche, comporta, come effetto
automatico, l’incapacità a contrarre con la p.a. nel periodo
temporale di efficacia della sanzione.
5. Né è possibile ritenere tale misura applicabile solo se
interviene entro la scadenza del termine di presentazione
delle offerte e reputarla, invece, irrilevante se emessa
successivamente.
Il Consiglio di Stato ha, infatti, chiarito che
l’interdizione dalla partecipazione alle gare pubbliche
rappresenta “una misura restrittiva che riguarda non il micro-mercato della singola gara e del figurato conseguente
contratto, dove l’omissione è avvenuta (e rispetto alla
quale già l’esclusione disposta dalla stazione appaltante ha
raggiunto l’effetto impeditivo), bensì il ben più ampio
mercato generale di tutte le gare per contratti pubblici”.
Tale misura ha un effetto dirompente “sulla capacità
settoriale di agire dell’impresa, perché comunque presunta
sospettabile di inaffidabilità morale in tema di gare
pubbliche”. E’, quindi, una “seria misura di prevenzione
settoriale e generale de futuro, non già – malgrado
l’invalso uso del termine - una vera e propria “sanzione”
che va comminata dall’Anac nel rigoroso rispetto del
principio di proporzionalità, proprio in considerazione
degli effetti restrittivi che produce sulla capacità
dell’impresa".
“Si tratta, dunque, di applicare una misura restrittiva che
riguarda non il micro-mercato della singola gara e del
figurato conseguente contratto, dove l’omissione è avvenuta
(e rispetto alla quale già l’esclusione disposta dalla
stazione appaltante ha raggiunto l’effetto impeditivo),
bensì il ben più ampio mercato generale di tutte le gare per
contratti pubblici, in atto o future e per quel certo
stabilito tempo" (cfr., Cons. Stato, 23.07.2018 n. 4427).
Tale misura restrittiva operando, quindi, per tutte le gare
per contratti pubblici anche in atto, trova immediata
applicazione anche nel caso di specie, senza che abbia
rilevanza la circostanza che siano scaduti i termini per la
presentazione della domanda di partecipazione alla gara.
Qualora si ritenesse, come fa la controinteressata, che
l’obbligo dichiarativo opererebbe solo entro la scadenza dei
termini per la presentazione della domanda, si limiterebbe
ingiustamente l’operatività, comunque, del principio di
buona fede, legittimando condotte anche opportunistiche che,
comunque, potrebbero condurre la stazione appaltante a
scegliere un operatore economico non pienamente affidabile.
Conferma di tale impostazione deriva, oltre che dalla
applicazione rigorosa del principio di buona fede alle gare
pubbliche, anche dall’art. 80, comma 6, secondo cui le
“stazioni appaltanti escludono un operatore economico in
qualunque momento della procedura, qualora risulti che
l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o
omessi prima o nel corso della procedura, in una delle
situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5”. Nel comma 5, lett.
f), come visto, è richiamata, quale causa di esclusione,
“altra sanzione che comporta il divieto di contrarre con la
pubblica amministrazione”.
Ne consegue, dunque, che qualunque operatore economico è
tenuto a informare la stazione appaltante dell’intervenuta
emanazione di una sanzione Anc avente ad oggetto
l’incapacità a partecipare alle gare pubbliche anche se
intervenuta successivamente alla scadenza determini per la
presentazione dell’offerta.
Nel caso di specie, contrariamente a quanto sostiene la
controinteressata, non è emerso che la stazione appaltante
fosse venuta, comunque, a conoscenza dell’esistenza della
sanzione Anac e avesse deciso, comunque, di aggiudicare la
gara alla aggiudicataria.
Ne consegue, dunque, che l’omessa dichiarazione del
consorzio controinteressato avrebbe dovuto comportare
l’esclusione dello stesso dalla gara.
6. A identica soluzione, peraltro, si giunge anche in
considerazione del fatto che la sanzione Anac ha comportato,
sia pur temporaneamente, la perdita dei requisiti di
partecipazione, così violando il principio, secondo cui i
partecipanti alle gare pubbliche devono possedere i
requisiti di partecipazione lungo tutto l’arco della
procedura di gara. In tal senso, sin dall’Adunanza Plenaria
n. 8/2015, è stato ripetutamente affermato che i requisiti
generali e speciali devono essere posseduti dagli offerenti,
senza soluzione di continuità, dal giorno di scadenza del
termine per la presentazione della richiesta di
partecipazione alla gara, per tutta la durata di questa,
fino all’aggiudicazione definitiva, alla stipula del
contratto, nonché durante la sua esecuzione (cfr. anche
Consiglio di Stato, sez. VI, 25/09/2017, n. 4470).
Nel caso di specie, la sanzione Anac ha comportato,
comunque, il venir meno, per un determinato periodo
temporale, dei requisiti di partecipazione in capo
all’aggiudicataria.
Ne consegue, pertanto, che il ricorso va accolto anche sotto
tale profilo. |
EDILIZIA PRIVATA:
Il Collegio condivide l'orientamento della giurisprudenza che
esclude la qualificazione del muro di contenimento in termini di
"costruzione” per la parte che adempie alla sua specifica funzione, e,
quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia
l'altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui
aderisce, impedendone lo smottamento.
La stessa giurisprudenza ha evidenziato, in particolare, che, per contro, la
parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in
quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è
soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive
caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima
disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il
naturale dislivello esistente.
---------------
3. Con riferimento alle contestazioni riferite alla realizzazione del muro
di contenimento indicato al punto A) del provvedimento impugnato, il
Collegio non ignora e, anzi, integralmente condivide l'orientamento della
giurisprudenza che esclude la qualificazione del muro di contenimento in
termini di "costruzione” per la parte che adempie alla sua specifica
funzione, e, quindi, dalle fondamenta al livello del fondo superiore,
qualunque sia l'altezza della parete naturale o della scarpata o del
terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento.
La stessa giurisprudenza ha evidenziato, in particolare, che, per contro, la
parte del muro che si innalza oltre il piano del fondo sovrastante, in
quanto priva della funzione di conservazione dello stato dei luoghi, è
soggetta alla disciplina giuridica propria delle sue oggettive
caratteristiche di costruzione in senso tecnico giuridico, ed alla medesima
disciplina devono ritenersi soggetti, perché costruzioni nel senso sopra
specificato, il terrapieno ed il relativo muro di contenimento elevati ad
opera dell'uomo per creare un dislivello artificiale o per accentuare il
naturale dislivello esistente (cfr., ex multis, Cass. Civ., sez. II,
10.01.2006, n. 145; Cons. St., Sez. IV, 24.04.2009, n. 2579; Cons. St, Sez.
V, 28.06.2000, n. 3637)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 02.02.2019 n. 554 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli atti repressivi degli
illeciti edilizi hanno natura doverosa e rigorosamente vincolata, sicché ai
fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario e, quindi, non devono essere necessariamente preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
5. Neppure sussiste la denunciata
illegittimità del provvedimento per omessa comunicazione di avvio del
procedimento, per l’assorbente rilievo che gli atti repressivi degli
illeciti edilizi hanno natura doverosa e rigorosamente vincolata, sicché ai
fini della loro adozione, non sono richiesti apporti partecipativi del
soggetto destinatario e, quindi, non devono essere necessariamente preceduti
dalla comunicazione di avvio del procedimento (cfr., ex multis, C.d.S.,
sez. VI, 31.05.2013, n. 3010; TAR Campania Napoli, sez. II, 05.12.2013, n.
5570; 07.06.2013, n. 3026; 02.03.2012, n. 1082)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 02.02.2019 n. 554 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Esclusione dell’offerta per violazione dei minimi tabellari.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Offerta anomala – Per violazione dei minimi tabellari –
Contraddittorio – Non occorre.
L’accertamento che l’anomalia
dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai
minimi tabellari ne determina l’esclusione senza necessità
di instaurare il contradditorio (1).
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(1) Ha chiarito il Tar che la disposizione di cui all’art. 96,
comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 richiamata non prevede
l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi
ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come
previsto dall’art. 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96,
comma10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia
dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai
minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione.
Le stazioni appaltanti, ai sensi dell’art. 95, comma 10,
secondo periodo del d.lgs. n. 50 del 2016, prima
dell’aggiudicazione hanno obbligo di controllare che i costi
della manodopera rappresentati nell’offerta vincitrice non
siano inferiori ai minimi salariali retributivi indicati
nelle “tabelle ministeriali". Per tale verifica la
disposizione non richiede alcun contraddittorio né, men che
meno, che venga attivato il procedimento di verifica delle
offerte anormalmente basse.
La norma di rinvio è contenuta nell’art. 97, d.lgs. n. 50
del 2016 che disciplina detto procedimento; il rinvio però è
limitato al disposto di cui al comma 5, lett. d), di tale
articolo e, pertanto, non può essere interpretato nel senso
che occorre attivare comunque il procedimento citato. Detto
rinvio va invece interpretato nel senso che prima
dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare
il rispetto, da parte dell’offerta vincitrice, dei minimi
salariali indicati nelle tabelle ministeriali.
Laddove la verifica dia esito negativo, la disposizione di
cui all’art. 96, comma 10, richiamata non prevede
l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi
ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come
previsto dall’arti. 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96, comma
10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia
dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai
minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 01.02.2019 n. 165 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
2. Il ricorso è infondato, e si prescinde perciò dalla
trattazione dell’eccezione preliminare formulata dalla
controinteressata.
In punto di fatto è incontestato che l’offerta della
ricorrente presentasse valori della manodopera inferiori a
quelli stabiliti dalle “tabelle ministeriali”. La lettura
della nota di ANAS 19.10.2018 prot. 554512 evidenzia
che la sua esclusione è stata disposta sulla base del
combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 97, comma 5,
lett. d), del d.lgs. n. 50/2016, e non si è trattato
dell’esclusione automatica di un’offerta anomala. Il verbale
della Commissione di gara 09.05.2018 evidenzia infatti
che alcuna delle offerte presentate nella procedura è
risultata anomala.
La stazione appaltante ha quindi inteso esercitare un potere
diverso da quello di verifica (ed esclusione) delle offerte
anomale.
Questo potere trova fondamento nel citato articolo 95, comma
10, del d.lgs. n. 50/2016 come modificato dall’art. 60,
comma 1, lett. e), del d.lgs. 19.04.2017, n. 56, cosiddetto
“decreto correttivo”: esso, al secondo periodo,
prevede che “le stazioni appaltanti, relativamente ai
costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono
a verificare il rispetto di quanto previsto all’articolo 97,
comma 5, lett. d)” del medesimo d.lgs. n. 50/2016.
Quest’ultima disposizione fa riferimento al costo del
personale come indicato nelle tabelle ministeriali di cui
all’articolo 23, comma 16, dello stesso decreto; è contenuta
nell’articolo dedicato alla valutazione dell’anomalia delle
offerte e il comma in cui è inserito prevede che l’offerta
debba essere esclusa, alternativamente, se non viene
giustificato il basso livello di prezzi proposti oppure se
la stazione appaltante ha accertato che l’offerta stessa non
rispetta gli elementi indicati alle successive lettere a),
b), c) e appunto d).
La disposizione cui rimanda l’articolo 95, comma 10, secondo
periodo del d.lgs. n. 50/2016 evidenzia quindi che (anche) i
minimi salariali retributivi indicati nelle “tabelle
ministeriali” costituiscono un elemento inderogabile
delle offerte presentate nelle gare per l’aggiudicazione dei
contratti pubblici e, pertanto, in sede di verifica
dell’anomalia non possono essere accettate giustificazioni
fondate su una riduzione del trattamento salariale dei
dipendenti a livelli inferiori a tale parametro.
La disposizione, attraverso il richiamo operato dalla norma
di cui al citato articolo 95, comma 10, secondo periodo del
d.lgs. n. 50/2016 trova operatività anche laddove la
stazione appaltante eserciti il diverso potere previsto da
quest’ultima norma. Detto potere è finalizzato a
controllare, prima dell’aggiudicazione, che l’offerente
vincitore rispetti il medesimo parametro, ovvero che il
costo del personale non sia inferiore ai minimi salariali
retributivi indicati dalle “tabelle ministeriali”.
Il dettato normativo, così ricostruito in base ai rimandi
contenuti nel testo di legge, appare sufficientemente chiaro
e non richiede quindi un ulteriore approfondimento
ermeneutico, in base al criterio secondo cui in claris
non fit interpretatio.
Le stazioni appaltanti, ai sensi dell’articolo 95, comma 10,
secondo periodo del d.lgs. n. 50/2016, prima
dell’aggiudicazione hanno obbligo di controllare che i costi
della manodopera rappresentati nell’offerta vincitrice non
siano inferiori ai minimi salariali retributivi indicati
nelle “tabelle ministeriali". Per tale verifica la
disposizione non richiede alcun contraddittorio né, men che
meno, che venga attivato il procedimento di verifica delle
offerte anormalmente basse. La norma di rinvio è contenuta
nell’articolo 97 del d.lgs. n. 50/2016 che disciplina detto
procedimento; il rinvio però è limitato al disposto di cui
al comma 5, lett. d), di tale articolo e, pertanto, non può
essere interpretato nel senso che occorre attivare comunque
il procedimento citato.
Detto rinvio va invece interpretato nel senso che prima
dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono verificare
il rispetto, da parte dell’offerta vincitrice, dei minimi
salariali indicati nelle tabelle ministeriali. Laddove la
verifica dia esito negativo, la disposizione di cui
all’articolo 96, comma 10, richiamata non prevede
l’istituzione di alcun contraddittorio e deve quindi
ritenersi che l’offerta vada irrimediabilmente esclusa, come
previsto dall’articolo 97, comma 5 (cui rinvia l’art. 96,
comma 10) a norma del quale l’accertamento che l’anomalia
dell’offerta deriva da un costo del personale inferiore ai
minimi tabellari ne determina senz’altro l’esclusione.
La sentenza del Consiglio di Stato, Sezione terza,
29.08.2018 n. 5084 depositata dalla ricorrente a sostegno
delle proprie ragioni non è applicabile al caso di specie.
Essa infatti aveva ad oggetto l’appello avverso la sentenza
del TAR Puglia-Lecce Sezione III, 03.08.2017 n. 1358, la
quale è stata resa nell’ambito di un contenzioso riguardante
una procedura indetta con determinazione dirigenziale della
ASL di Lecce n. 1429 del 03.11.2016.
A questa procedura era quindi applicabile la normativa
sull’affidamento dei contratti pubblici nella versione
antecedente la modifica operata dall’art. 60, comma 1, lett.
e), del d.lgs. n. 56/2017. Nella versione originaria il
comma 10 dell’articolo 95 stabiliva che “nell'offerta
economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali
concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro” senza prevedere
la verifica preventiva, da parte della stazione appaltante,
del rispetto da parte dell’offerta vincitrice dei
trattamenti retributivi stabiliti dalle “tabelle
ministeriali”.
Tanto è sufficiente alla reiezione del ricorso; per scrupolo
di completezza si rileva che, comunque, il divario dalle “tabelle
ministeriali” dei costi della manodopera presente
nell’offerta della ricorrente non appare comunque
giustificabile nemmeno ove venissero presi in considerazione
gli elementi da essa proposti a tal fine.
Il mancato obbligo di corrispondere oneri quali l’indennità
di trasporto, le trasferte, la previdenza complementare e
l’indennità di disagio nonché tredicesima e quattordicesima
mensilità viene solo affermato nella dichiarazione resa dal
suo legale rappresentante in data 28.12.2018; la relazione
in data 24.12.2018 ad opera della DS Co. s.a.s. di Fr. De.
St. & C. non è convincente poiché da un lato, si fonda
genericamente sull’esperienza maturata dall’impresa
ricorrente in lavori simili e il fatto che abbia offerto
ribassi anche superiori a quello odierno in alcuni di essi
non vale a creare un precedente vincolante, come
correttamente replica la difesa della stazione appaltante;
d’altro lato, le condizioni di maggior favore e le
agevolazioni contributive che giustificherebbero il divario
del costo del lavoro contenuto nell’offerta odierna sono
affermate, ma non dimostrate come correttamente replica la
difesa dell’impresa controinteressata.
Per questi motivi, il ricorso deve essere respinto. |
PATRIMONIO:
Acquisizione di diritti in relazione ai beni
infrastrutturali di proprietà pubblica da parte di soggetto
carente della qualifica di operatore di telecomunicazioni.
---------------
●
Giurisdizione – Contratti della Pubblica amministrazione –
Gara – Assegnazione diritto superficie per dislocazione
impianti telefonia mobile – Impugnazione – Operatore
titolare autorizzazione servizio di installazione e
fornitura di una rete pubblica di comunicazione elettronica
– Giurisdizione giudice amministrativo.
●
Telecomunicazione – Servizio di telecomunicazione - Beni
infrastrutturali di proprietà pubblica – per predisposizione
servizio – Acquisizione diritti – Soggetto primo di
qualifica di operatore di telecomunicazioni – Preclusione.
●
Rientra nella giurisdizione del giudice amministrativo la
controversia, instaurata dall’operatore di telefonia mobile,
titolare dell’autorizzazione generale per il servizio di
installazione e fornitura di una rete pubblica di
comunicazione elettronica, il quale censuri l’indizione
della gara e i susseguenti atti della procedura, preordinati
all’assegnazione ad un soggetto terzo del diritto di
superficie, costituito, ai sensi dell’art. 952 c.c.,
sull’area concessagli in locazione dal Comune, per la
dislocazione degli impianti (1).
●
Ai sensi dell’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del
2003, è preclusa, in capo al soggetto carente della
qualifica di operatore di telecomunicazioni, l’acquisizione
di diritti in relazione ai beni infrastrutturali di
proprietà pubblica, necessari per la predisposizione del
servizio (2).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che a tal fine, riveste carattere dirimente
il rilievo secondo cui la posizione soggettiva, sottesa
all’impugnazione, può assumere consistenza esclusivamente
nel contesto dell’azione amministrativa, il cui legittimo
svolgimento configura il presupposto costitutivo per il
conseguimento del bene della vita, sotteso alla domanda di
annullamento; essa, in particolare, è sostenuta da una
posizione di interesse legittimo, che, specie in riferimento
all’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del 2003, si declina in
senso oppositivo, perché intesa a precludere l’assegnazione
a terzi del diritto di superficie e, contestualmente, in
senso pretensivo, perché volta a preservare le prospettive
di futura acquisizione del medesimo diritto, da parte del
ricorrente, nella sua qualità di operatore di
telecomunicazioni.
(2) Ad avviso del Tar detti beni, infatti, secondo il principio
desumibile dall’art. 88, comma 6, d.lgs. n. 259 del 2003,
sono soggetti ad un regime di indisponibilità relativa, che,
consentendo la costituzione e il trasferimento dei diritti
ad essi inerenti, dai Comuni e dalle società da questi
controllate a favore dei soli operatori, impedisce, finché
permane la destinazione loro assegnata, l’alienazione dei
medesimi diritti, benché mediante procedure ad evidenza
pubblica, nei confronti dei terzi, privi della qualifica
richiesta (TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 01.02.2019 n. 49 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Valutazioni del prefetto sottese all’informativa antimafia.
---------------
Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.
In sede di emanazione
dell’informativa antimafia l’equilibrata ponderazione dei
contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di
impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che
presidiano il principio di legalità sostanziale, secondo la
logica della prevenzione, richiedono alla Prefettura
un’attenta valutazione dei diversi elementi, che devono
offrire un quadro chiaro, completo e convincente del
pericolo di infiltrazione mafiosa, e a sua volta impongono
al giudice amministrativo, nel sindacato sulla motivazione,
un altrettanto approfondito esame di tali elementi,
singolarmente e nella loro intima connessione, per
assicurare una tutela giurisdizionale piena ed effettiva
contro ogni eventuale eccesso di potere da parte del
Prefetto nell’esercizio di tale ampio, ma non indeterminato,
potere discrezionale (1).
-----------------
(1) Ha ricordato la Sezione che l’art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159
del 2011 (codice antimafia) riconosce quale elemento
fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali
tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a
condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o
imprese interessate».
Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di
queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono
all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di
pericolo, propria del diritto della prevenzione,
finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la
stessa scelta del legislatore, non necessariamente è
attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché
desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori.
Il pericolo –anche quello di infiltrazione mafiosa– è per
definizione la probabilità di un evento.
Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in
questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente
rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a
scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica,
l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la
probabilità che siffatto “evento” si realizzi.
Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla
legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un
sospetto della Pubblica amministrazione o in una vaga
intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto,
pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un
diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte
sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali,
taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma
4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd.
delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”,
sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento
discrezionale dell’autorità amministrativa, che «può»
–si badi: può– desumere il tentativo di infiltrazione
mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del
2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati
strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente
a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa
possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività
criminose o esserne in qualche modo condizionata».
La formulazione della fattispecie normativa a struttura
aperta, propria dell’informazione interdittiva antimafia,
consente all’autorità amministrativa e, ove insorga
contestazione in sede giurisdizionale, al giudice
amministrativo di apprezzare, in sede di sindacato
sull’eccesso di potere, tutta una serie di elementi
sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta
(art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle
organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella
duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d.
contiguità compiacente, elementi che sfuggirebbero, invece,
ad una rigorosa, tassativa, asfissiante tipizzazione di tipo
casistico, che elenchi un numerus clausus di
situazioni “sintomatiche”.
Una simile tecnica legislativa, ove pure sia auspicabile,
in abstracto, sul piano della certezza del diritto e
della prevedibilità delle condotte anche in materia di
prevenzione antimafia, frustrerebbe nel suo «fattore di
rigidità», per usare un’espressione dottrinaria, la
ratio che ispira il diritto della prevenzione, il quale deve
affidarsi anche, e necessariamente, a “clausole generali”,
come quelle del tentativo di infiltrazione mafiosa, e alla
valutazione di situazioni concrete, non definibili a priori,
spesso ancora ignote alle stesse forze di polizia prima
ancora che alla più avanzata legislazione, attraverso le
quali la mafia opera e si traveste, in forme nuove e
cangianti, per condizionare le scelte imprenditoriali.
Ha aggiunto la Sezione che la legislazione antimafia può e
deve prevenire anche l’insidia della contiguità compiacente
accanto a quella c.d. soggiacente e, con essa, le condotte,
ambigue, di quegli operatori economici che, pur estranei ad
associazioni mafiose, si pongono su una pericolosa linea di
confine tra legalità e illegalità nell’esercizio
dell’attività imprenditoriale, se è vero che simili condotte
non solo sono un pericolo per la sicurezza pubblica e per
l’economia legale, ma anzitutto e soprattutto un attentato
al valore personalistico (art. 2 Cost.) e, cioè, quel «fondamentale
principio che pone al vertice dell’ordinamento la dignità e
il valore della persona» (v., per tutte, Corte cost.,
07.12.2017, n. 258), anche in ambito economico, e rinnegato
in radice dalla mafia, che ne fa invece un valore
negoziabile nel “patto di affari” stipulato con
l’impresa, nel nome di un comune o convergente interesse
economico, a danno dello Stato.
E tuttavia questo patto, come si è accennato, a discapito
del nome è pur sempre una forma di condizionamento, diretto
o indiretto a seconda dei casi, esercitato dalla mafia per
asservire uomini e mezzi ai suoi fini illeciti e, quindi,
una minaccia per la dignità di quegli imprenditori che
questo patto stipulano, nell’illusoria prospettiva di un
affare, anzitutto contro di sé.
Chi contratta e collabora con la mafia infatti, per
convenienza o connivenza, non è mai soggetto, ma solo
oggetto di contrattazione.
Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole
generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e,
particolarmente, nell’istituto dell’informazione antimafia,
esso davvero riposa nella dignità della persona, principio
supremo del nostro ordinamento, il quale –e non a caso–
opera come limite all’attività di impresa, ai sensi
dell’art. 41, comma secondo, Cost., laddove la disposizione
costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata,
libera, «non può svolgersi in contrasto con l’utilità
sociale o –secondo un climax assiologico di tipo ascendente–
in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla
dignità umana».
E non vi è dubbio che qualsiasi forma di contiguità
imprenditoriale alla mafia, sia essa soggiacente o, ancor
peggio, compiacente, sia un attentato alla libertà
dell’impresa, di ogni impresa che voglia regolarmente
operare sul mercato, e alla dignità della persona umana,
asservita per ragioni economiche a fini di associazioni
pericolosamente operanti in radicale antitesi rispetto allo
Stato.
I fenomeni criminali di cui sono espressione le
organizzazioni e le attività mafiose, in effetti, hanno
progressivamente assunto, nel corso dei decenni, carattere
sempre più “asimmetrico”, nel senso che metodi e
obiettivi hanno sempre più accentuato i caratteri della
adattabilità alle circostanze più favorevoli al profitto
ingente e facile, della imprevedibilità di strategie grazie
alla estrema flessibilità nel mutamento di operazioni,
alleanze e strategie e della graduale, ma costante
penetrazione, con una serie di atti apparentemente non
eccezionali o eclatanti, nei più diversi contesti della
economia legale, e con una proiezione ormai anche
internazionale.
Ciò permette alle mafie, rispetto alle tragiche stagioni di
sangue degli attacchi frontali allo Stato, di occupare nella
quotidianità settori che soltanto con la capillare attività
di monitoraggio territoriale riescono ad emergere, grazie
agli strumenti che il codice antimafia offre alla
Prefettura.
Ecco perché una minaccia asimmetrica, quale quella mafiosa,
richiede una “frontiera avanzata” della prevenzione
con strumenti che debbono armonizzarsi, adattarsi,
modificarsi di contesto in contesto (anche in relazione a
storie, tradizioni e metodi di ciascun territorio
contaminato) e di settore in settore economico, per
affermare sempre il “potere della legge” verso il
contropotere perseguito dalle mafie.
Mai detto obiettivo, che risponde a un valore, come detto,
supremo nella scala dei valori costituzionali, potrebbe
essere irrigidito e imbrigliato entro una casistica fissa e
immutabile senza offrire alle associazioni mafiose un comodo
appiglio formale, di cui difficile sarebbe il superamento
senza un continuo intervento legislativo di aggiornamento
che “rincorra” affannosamente, e tardivamente, le
nuove strategie mafiose.
Ha ancora chiarito la Sezione di non ignorare per altro
verso, nell’ottica di questo equilibrato bilanciamento, gli
effetti davvero incisivi, inibitori e finanche paralizzanti
per l’attività di impresa, conseguenti all’adozione
dell’informazione antimafia, da taluno assimilata o
comparata addirittura ad una sorta di “ergastolo
imprenditoriale”.
Voci fortemente critiche si sono levate rispetto alla
presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che
legittimano l’emissione dell’informazione antimafia,
soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea
dei diritti dell’uomo del 23.02.2017, ric. n. 43395/09, nel
caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di
prevenzione personali, e taluni autori, nel preconizzare l’«onda
lunga» di questa pronuncia anche nella contigua materia
della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come
anche l’informazione antimafia “generica”, nelle
ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159
del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi
anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un
deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i
giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del
medesimo d.lgs. n. 159 del 2011.
Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle
condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere
una informazione antimafia “generica”, in tali
ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal
Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento
democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di
polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare
qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali
a basi legali precise e predeterminate.
L’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) del codice antimafia –ma
ragionamento analogo deve svolgersi per la seconda parte
dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si
riferisce a non meglio precisati «concreti elementi»–
non contemplerebbe, secondo tale tesi, alcun parametro
oggettivo, anche il più indeterminato, che possa in qualche
modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del
Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile
adozione della misura.
Ritiene il Collegio che questa tesi non possa essere seguita
e che, ferma restando ovviamente, se del caso, ogni
competenza del giudice europeo per l’applicazione del
diritto convenzionale e, rispettivamente, della Corte
costituzionale per l’applicazione delle disposizioni
costituzionali, non sia prospettabile alcuna violazione
dell’art. 1, Protocollo 1 addizionale, CEDU, con riferimento
al diritto di proprietà, e, per il tramite di tale parametro
interposto, nessuna violazione dell’art. 117 Cost. per la
mancanza di una adeguata base legale atta ad evitare
provvedimenti arbitrari.
Anche gli accertamenti disposti dal Prefetto, nella stessa
provincia in cui ha sede l’impresa o in altra, sono
finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa
desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, del d.lgs. n. 159
del 2011, «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa
tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle
società o imprese interessate» e tali tentativi, per la
loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni
fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo
tassativo.
Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia, sopra ricordata,
la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via
generale, che «mentre la certezza è altamente
auspicabile, può portare come strascico una eccessiva
rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo
con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte
leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in
misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui
interpretazione e applicazione sono questioni di pratica»
(§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che
conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di
tale discrezionalità» (§ 108).
La sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata”
–v. supra § 8.8.– dell’informazione antimafia nel continuo
confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle
Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti,
risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del
resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i
propri fini.
E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente
non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio,
in questa materia, deve arrestarsi.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare
elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di
infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia
efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in
nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità
formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di
contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le
parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella
sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel «tenere
il passo con il mutare delle circostanze» secondo una
nozione di legalità sostanziale.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla
giurisprudenza penale, il sistema delle misure di
prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in
generale compatibile con la normativa convenzionale «poiché
il presupposto per l’applicazione di una misura di
prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la
quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti
illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i
rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di
una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le
regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II,
01.03.2018, dep. 09.07.2018, n. 30974).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha così enucleato le
situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative
o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire
altrettanti “indici” o “spie”
dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse
costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus
clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di
poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa
all’interno dell’impresa via via che essa assume forme
sempre nuove e sempre mutevoli (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 30.01.2019 n. 758 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO
ACUSTICO - Rumori idonei ad arrecare disturbo o a turbare la
quiete pubblica - Schiamazzi e rumori molesti - Emissioni
sonore - Elementi probatori - Art. 659 cod. pen..
Fattispecie: disturbato di notte del riposo delle persone,
cantando a squarciagola e tenendo alto il volume della radio
e dell'autovettura parcheggiata sulla pubblica via.
Ai fini della configurabilità della
contravvenzione di cui all'art. 659 cod. pen., non sono
necessarie né la vastità dell'area interessata dalle
emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di
persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad
arrecare disturbo ad un gruppo indeterminato di persone,
anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio
(Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri; Sez. 1, n. 45616
del 14/10/2013, Virgillito).
Orbene, l'effettiva idoneità delle
emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone costituisce un accertamento di
fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il
quale non è tenuto a basarsi esclusivamente
sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben
potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della
pubblica quiete
(ex multis, Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montoli).
Nella specie, oltre alla persona che aveva
segnalato il disturbo, erano stati gli stessi agenti
intervenuti sul posto ad aver constatato l'idoneità delle
emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone.
...
RISARCIMENTO DEL DANNO - Liquidazione del danno morale in
relazione a lesioni refertate - Correlazione tra la gravità
effettiva del danno e l'ammontare dell'indennizzo.
In tema di liquidazione del danno
morale, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed
equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al
sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione
(tra tante, Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, Fontana).
Nella specie, la Corte di appello ha
ritenuto provato il danno morale in relazione alle lesioni
refertate, rapportando l'importo liquidato all'intensità del
turbamento psichico derivato dalla veemenza e dalla durata
della violenza, cessata solo grazie all'intervento di un
terzo lì presente e di un'altra pattuglia.
In tal modo, la Corte territoriale ha soddisfatto l'esigenza
di ragionevole correlazione tra la gravità effettiva del
danno e l'ammontare dell'indennizzo, correlazione motivata
attraverso i concreti elementi che hanno concorso al
processo di formazione del libero convincimento
(Sez. 5, n. 38948 del 27/10/2006, Avenati) (Corte
di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 29.01.2019 n. 4462 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO
ATMOSFERICO - Emissioni di fumi in atmosfera - Sequestro
dell'impianto - Contravvenzione di cui all'art. 279, c. 1,
d.lgs. n. 152/2006 - Natura di reato permanente - Requisiti
della concretezza ed attualità del pericolo.
In tema di emissioni di fumi in
atmosfera, avendo la contravvenzione prevista dall'art. 279,
comma 1, del d.lgs. 03.04.2006, n. 152 natura di reato
permanente, l'esercizio in assenza della prescritta
autorizzazione di uno stabilimento ne giustifica il
sequestro finalizzato ad impedire la protrazione della
condotta illecita.
Pertanto, appare evidente che, quando la permanenza è in
atto, risultano pacificamente sussistenti i necessari
requisiti della concretezza ed attualità del pericolo
richiesti dalla natura della violazione.
...
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - Emissioni in atmosfera -
Esercizio o istallazione di impianto in assenza di
autorizzazione - Natura di reato permanente - Consumazione e
termine della permanenza - Verifiche della pubblica
amministrazione.
La natura permanente del reato di
esercizio o istallazione di impianto in assenza di
autorizzazione termina col rilascio dell'autorizzazione o,
in alternativa, con la cessazione dell'esercizio
dell'impianto (v.
Sez. 3, n. 8678 del 13/11/2013 (dep. 2014), P.M. in proc.
Vollero), ciò in quanto, trattandosi di
norma finalizzata alla tutela della qualità dell'aria,
l'autorizzazione medesima rappresenta il mezzo attraverso il
quale la pubblica amministrazione procede alla preventiva
verifica della rispondenza dell'impianto alle prescrizioni
della legge (cfr.
Sez. 3, n. 192 del 24/10/2012 (dep. 2013), Rando) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.01.2019 n. 4250 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il termine “comunque non superiore a diciotto mesi”,
entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela, deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”,
decorso il quale non può più essere legittimamente esercitato il potere di
ritiro per vizi di legittimità.
La novella apportata dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124, ha costituito un importante presa di posizione da parte del
legislatore e una significativa “pietra miliare” che si è voluto porre nella
direzione di questo riconoscimento, nell’ambito del diritto amministrativo.
L’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 è stato così modificato “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies,
esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro
un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Si è dunque previsto un termine “comunque non superiore a diciotto mesi”,
entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela.
Esso deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”,
decorso il quale non potrà più essere legittimamente esercitato il potere di
ritiro per vizi di legittimità.
---------------
E’ controversa la legittimità del provvedimento n. 6367 del 10.07.2018,
emanato dal Comune di Praiano, con il quale si è annullato d’ufficio il
permesso di costruire in sanatoria n. 13 del 2011.
Nell’ambito della motivazione del provvedimento gravato, il Comune sostiene
che, a seguito di una denuncia del 15.02.2018 prot. 1777, è stato dato avvio
ad un procedimento volto ad accertare l’effettivo compimento di “lavori
abusivi presso la struttura di cui trattasi”.
All’esito della suddetta attività di ispezione e di accertamento, il Comune
ha dunque emanato il provvedimento gravato nel presente giudizio.
Avverso tale atto è insorta parte ricorrente, adducendo plurimi motivi di
censura e, segnatamente, la violazione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del
1990.
Non si costituiva in giudizio l’ente locale, quantunque regolarmente
intimato.
Il motivo di ricorso sopra evidenziato può essere accolto.
La novella apportata dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124, ha costituito un importante presa di posizione da parte del
legislatore e una significativa “pietra miliare” che si è voluto porre nella
direzione di questo riconoscimento, nell’ambito del diritto amministrativo.
L’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990 è stato così modificato “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies,
esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere
annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro
un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di
vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e
dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo
previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse
all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Si è dunque previsto un termine “comunque non superiore a diciotto mesi”,
entro cui il provvedimento può essere annullato in autotutela.
Esso deve considerarsi come un “astratto e generale termine ne ultra quem”,
decorso il quale non potrà più essere legittimamente esercitato il potere di
ritiro per vizi di legittimità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 27.06.2018,
n. 3940; TAR Lombardia–Brescia, Sez. I, 15.01.2018, n. 32; TAR
Campania–Napoli, Sez. III, 13.04.2018, n. 2468; TAR Sardegna, 09.08.2016, n. 678).
Nel caso di specie, questo termine è ampiamente decorso, né emerge in alcun
modo che il vizio di legittimità che affliggeva l’atto ritirato in
autotutela costituisca la risultante di una falsità dei presupposti,
dolosamente perpetrata dal privato (Consiglio di Stato, sez. V, n. 3940 del
2018).
Anche in considerazione della mancata costituzione in giudizio del Comune e,
soprattutto, stante l’assenza nel provvedimento gravato di qualsivoglia
circostanza che giustifichi il lungo lasso di tempo trascorso tra
l’emanazione del provvedimento di permesso di costruire in sanatoria e
l’adozione del provvedimento di ritiro, il Collegio ha motivo di constatare
l’avvenuta violazione della norma invocata dal ricorrente.
Il motivo di ricorso va dunque accolto, con assorbimento delle altre
censure, e va disposto l’annullamento del provvedimento gravato
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.01.2019 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un costante indirizzo
giurisprudenziale, “l’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di
demolizione, costituiscono atti vincolati
per la cui adozione non è necessario l’invio
della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario
dell’atto”.
Oltretutto la difesa della ricorrente non ha
specificato quali elementi determinanti
avrebbe voluto introdurre nel procedimento,
e quindi nessuna effettiva lesione si è
prodotta nei confronti di quest’ultima.
Di conseguenza si può fare applicazione del
disposto di cui all’art. 21-octies della
legge n. 241 del 1990, secondo il quale un
provvedimento non è annullabile per il
mancato rispetto della normativa sul
procedimento, qualora si tratti di atto
vincolato o comunque l’Amministrazione
dimostri in giudizio che il suo contenuto
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato.
L’ordinanza di ripristino è stata adottata
sul presupposto dell’abusività della posa
della cancellata in ferro battuto e,
trattandosi di atto di carattere del tutto
vincolato, si pone quale conseguenza
immediata e diretta rispetto alla verifica
dell’abusività degli interventi e non
richiede una particolare motivazione né con
riguardo all’interesse pubblico alla stessa
sotteso e all’ipotetico interesse del
privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale
indicazione delle norme violate, allorquando
dalla descrizione delle stesse emerga la
natura e la consistenza dell’abuso.
---------------
Quanto alla tutela dell’affidamento della
ricorrente per il lasso di tempo trascorso
tra la commissione dell’abuso e la sua
repressione, si può rinviare alla più
recente giurisprudenza secondo la quale “il
provvedimento con cui viene ingiunta, sia
pure tardivamente, la demolizione di un
immobile abusivo e giammai assistito da
alcun titolo, per la sua natura vincolata e
rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto,
non richiede motivazione in ordine alle
ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della
legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in
questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino”.
---------------
3. Quanto alle restanti censure di ricorso
con cui si deduce (a) l’omessa comunicazione
dell’avviso di avvio del procedimento, (b)
il difetto di motivazione in ordine agli
abusi commessi e alla pertinente sanzione,
(c) l’omessa tutela dell’affidamento del
privato in ragione del lungo lasso di tempo
dalla commessione dell’abuso, le stesse sono
infondate.
3.1. Secondo un costante indirizzo
giurisprudenziale, da cui non vi è ragione
di discostarsi, “l’esercizio del potere
repressivo degli abusi edilizi costituisce
manifestazione di attività amministrativa
doverosa, con la conseguenza che i relativi
provvedimenti, quali l’ordinanza di
demolizione, costituiscono atti vincolati
per la cui adozione non è necessario l’invio
della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per
momenti partecipativi del destinatario
dell’atto” (TAR Lombardia, Milano, II,
18.09.2018, n. 2098; 06.08.2018, n. 1946;
05.03.2018, n. 616; altresì, Consiglio di
Stato, VI, 29.11.2012, n. 6071; 24.09.2010,
n. 7129).
Oltretutto la difesa della ricorrente non ha
specificato quali elementi determinanti
avrebbe voluto introdurre nel procedimento,
e quindi nessuna effettiva lesione si è
prodotta nei confronti di quest’ultima.
Di conseguenza si può fare applicazione del
disposto di cui all’art. 21-octies della
legge n. 241 del 1990, secondo il quale un
provvedimento non è annullabile per il
mancato rispetto della normativa sul
procedimento, qualora si tratti di atto
vincolato o comunque l’Amministrazione
dimostri in giudizio che il suo contenuto
non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato (Consiglio di Stato, V,
21.06.2013, n. 3402; TAR Lombardia, Milano,
II, 18.09.2018, n. 2098).
3.2. L’ordinanza di ripristino è stata
adottata sul presupposto dell’abusività
della posa della cancellata in ferro battuto
e, trattandosi di atto di carattere del
tutto vincolato, si pone quale conseguenza
immediata e diretta rispetto alla verifica
dell’abusività degli interventi e non
richiede una particolare motivazione né con
riguardo all’interesse pubblico alla stessa
sotteso e all’ipotetico interesse del
privato alla permanenza in loco dell’opera
edilizia, né con riguardo alla puntuale
indicazione delle norme violate, allorquando
dalla descrizione delle stesse emerga la
natura e la consistenza dell’abuso (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 06.08.2018, n. 1946;
02.05.2018, n. 1190).
3.3. Infine, quanto alla tutela
dell’affidamento della ricorrente per il
lasso di tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e la sua repressione, si può
rinviare alla più recente giurisprudenza
secondo la quale “il provvedimento con
cui viene ingiunta, sia pure tardivamente,
la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata
al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino
della legittimità violata) che impongono la
rimozione dell’abuso. Il principio in
questione non ammette deroghe neppure
nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di
demolizione intervenga a distanza di tempo
dalla realizzazione dell’abuso, il titolare
attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi
dell’onere di ripristino” (Consiglio di
Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 9).
3.4. Quindi, per questa parte il ricorso è
infondato.
4. In conclusione, il ricorso deve in parte
essere dichiarato inammissibile e in parte
deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 28.01.2019 n. 186 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Immodificabilità
dell’offerta e interpretazione della volontà
dell’impresa partecipante alla gara da parte
della stazione appaltante.
Il TAR Brescia riafferma
il principio per cui –pur vigendo nella
materia degli appalti pubblici il principio
generale della immodificabilità
dell’offerta, a tutela dell’imparzialità e
della trasparenza dell’agire della stazione
appaltante, nonché della parità di
trattamento tra gli operatori economici– va
comunque data continuità all’orientamento
secondo cui nelle gare pubbliche è
ammissibile un’attività interpretativa della
volontà dell’impresa partecipante alla gara
da parte della stazione appaltante, al fine
di superare eventuali ambiguità nella
formulazione dell’offerta, purché si giunga
ad esiti certi circa la portata dell’impegno
negoziale con essi assunti.
Le offerte, intese come atto negoziale, sono
quindi suscettibili di essere interpretate
in modo tale da ricercare l’effettiva
volontà del dichiarante, senza peraltro
attingere a fonti di conoscenza estranee
all’offerta medesima né a dichiarazioni
integrative o rettificative dell’offerente
(nella fattispecie vi era una discordanza
tra il prezzo indicato in piattaforma
elettronica e quello trascritto in un
modello tale da rivelare un’ambiguità
inspiegabile.
Acclarata l’esibizione di due
importi oggettivamente non collimanti,
l’indagine compiuta dalla stazione
appaltante si è indirizzata nel ricostruire
la volontà dell’offerente escludendo che, in
realtà, l’accertata divergenza fosse
ingiustificata: applicando le due differenti
percentuali di sconto praticate alle due
grandezze riportate negli atti di gara
(importo a base d’asta al netto degli oneri
di sicurezza e importo al lordo dei
medesimi) si perveniva allo stesso identico
valore di offerta)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.01.2019 n. 87 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
La ricorrente si duole dell’illegittimità
degli atti della procedura negoziata per
l’affidamento dei lavori di riqualificazione
dell’impianto sportivo polivalente di Via
portico.
La pretesa risarcitoria è priva di
fondamento.
1. L’applicazione del paragrafo 14 della
lettera di invito, che riconosce la
prevalenza del valore indicato nell'allegato
“Offerta economica”, presuppone una
discordanza tra il prezzo indicato in
piattaforma e quello trascritto nel “modello
E” tale da rivelare un’ambiguità
inspiegabile.
Acclarata l’esibizione di due
importi oggettivamente non collimanti,
l’indagine compiuta dalla stazione
appaltante consente, con ragionevole
sicurezza, di ricostruire la volontà
dell’offerente e di escludere che, in
realtà, l’accertata divergenza sia
ingiustificata. Applicando le due differenti
percentuali di sconto praticate (14,66222% e
17,234%) alle due grandezze riportate negli
atti di gara (importo a base d’asta al netto
degli oneri di sicurezza pari a € 633.598,59
e importo al lordo dei medesimi di €
653.286,35) si perviene allo stesso identico
valore di offerta, ossia 540.698,98 €.
2. Si concorda sul punto con la difesa
dell’amministrazione, nel senso che
l’invocata previsione della lex specialis
(art. 14) produce i suoi effetti ove il
concorrente indichi due valori non
corrispondenti i quali non siano altrimenti
spiegabili, ossia “riconducibili ad unità”
in modo plausibile e credibile;
diversamente, non viene in considerazione
laddove traspaia, in modo non equivoco, che
la volontà del concorrente si è formata
attorno al medesimo valore economico (nella
fattispecie, il prezzo di € 540.698,98).
Il Collegio ritiene che il giudizio
formulato dal Comune non sia semplicemente
assistito da attendibilità e
verosimiglianza, ma raggiunga il grado di
logica certezza. Diversamente opinando,
infatti, ed invertendo i termini della
questione, non sarebbe possibile dare un
significato alla piena e totale
corrispondenza dei due valori, ricavati
attraverso le semplici operazioni
matematiche delle quali si è dato conto (a
meno di ravvisare una singolare, e per
questo del tutto implausibile, coincidenza).
3. Anche recentemente il Consiglio di Stato
(cfr. sez. V – 03/01/2019 n. 72) ha
riaffermato il principio per cui <<– vigendo
nella materia degli appalti pubblici il
principio generale della immodificabilità
dell’offerta, a tutela dell’imparzialità e
della trasparenza dell’agire della stazione
appaltante, nonché della parità di
trattamento tra gli operatori economici–
andrebbe comunque data continuità
all’orientamento consolidato secondo cui
delle gare pubbliche è ammissibile
un’attività interpretativa della volontà
dell’impresa partecipante alla gara da parte
della stazione appaltante, al fine di
superare eventuali ambiguità nella
formulazione dell’offerta, purché si giunga
ad esiti certi circa la portata dell’
impegno negoziale con essi assunti;
evidenziandosi, altresì, che le offerte,
intese come atto negoziale, sono
suscettibili di essere interpretate in modo
tale da ricercare l’effettiva volontà del
dichiarante, senza peraltro attingere a
fonti di conoscenza estranee all’offerta
medesima né a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerente”>> (Consiglio
di Stato, sez. IV – 06/05/2016 n. 1827; sez. V
– 11/01/2018 n. 113).
4. Nel caso di specie, l’amministrazione ha
esaustivamente motivato l’ambivalenza,
valorizzando unicamente le grandezze
numeriche indicate dal concorrente nella
propria offerta.
5. La correttezza della condotta
dell’amministrazione preclude il positivo
apprezzamento della domanda risarcitoria.
Non è infatti integrata una condizione
fondamentale della fattispecie di cui
all’art. 2043 del c.c., ossia la condotta
illecita della stazione appaltante:
l’attività risulta immune da vizi, con
consolidamento dei risultati della procedura
selettiva.
6. Da ultimo, si segnala che il mancato
rispetto dello stand still si correla
all’esecuzione dei lavori fissata già dalla
lettera d’invito nel 18.04.2017 (doc. 1
ricorrente pag. 1). Peraltro, le riflessioni
suesposte rendono superflui i profili
afferenti alla tempestiva proposizione della
domanda di reintegrazione in forma specifica
e ai ritardi dell’amministrazione nel
riscontrare le istanze di ostensione
documentale e di autotutela. |
PATRIMONIO:
Sussiste sempre l’obbligo di ricorrere a procedure
competitive per la concessione di un bene pubblico
suscettibile di produrre utilità economiche.
---------------
●
Giurisdizione - Contratti della P.A. – Concessione –
Concessione d’uso o gestione di un bene pubblico a privati –
Procedimento di scelta del contraente della P.A. –
Controversia – Giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo.
●
Contratti della P.A. – Concessione – Concessione d’uso o
gestione di un bene pubblico a privati – Procedimento di
scelta del contraente – Procedimento ad evidenza pubblica –
Necessità.
●
Sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia di concessione di beni pubblici e
di procedure di scelta del contraente della P.A., quando si
tratti della concessione a un’associazione di tartufai
dell’uso esclusivo o della gestione di un bene pubblico
destinato all'uso collettivo (tartufaia controllata
comunale) (1).
●
Le concessioni di beni pubblici –anche nella
forma di un comodato d’uso di un vasto terreno comunale
adibito a tartufaia controllata- possono essere assentite
solo all’esito di una procedura comparativa caratterizzata
da idonea pubblicità preventiva, ricadendo nel campo di
applicazione dei princìpi di non discriminazione, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità (2).
---------------
(1) Ha chiarito preliminarmente il Tar che, nel caso di specie
avente a oggetto la concessione a un’associazione di
tartufai dell’uso esclusivo o gestione di un bene pubblico
destinato all'uso collettivo (tartufaia controllata
comunale), sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, trattandosi sia della materia di concessione
di beni pubblici, ex art. 133, comma 1, lett. b), c.p.a.,
sia del procedimento di scelta del contraente della Pubblica
amministrazione, ex art. 133, comma 1, lett. d), punto 1),
c.p.a.; viceversa, non sussiste la giurisdizione del giudice
amministrativo sulla domanda di declaratoria d’inefficacia
del contratto di comodato d’uso della tartufaia controllata,
atteso che la normativa di cui agli artt. 121 e 122 c.p.a. è
di stretta interpretazione, attribuendo una limitata
cognizione sul contratto al giudice amministrativo, in via
derogatoria, solo nel caso di annullamento
dell’aggiudicazione definitiva di un appalto pubblico.
Esula, inoltre, dalla sfera di cognizione del giudice
amministrativo, rientrando in quella del giudice ordinario,
la questione della contestata inclusione dei terreni privati
dei ricorrenti nel perimetro della tartufaia, nonché la
questione dei diritti di proprietà sui prodotti della
tartufaia discendenti dagli atti di concessione del
godimento.
(2) Il Tar ha affermato che, per l'affidamento a terzi di beni
pubblici suscettibili di produrre utilità economiche,
occorre una procedura comparativa di evidenza pubblica,
anche perché l'attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a privati (e persino ad enti pubblici) è
subordinata dalla normativa dell’art. 12, l. 07.08.1990, n.
241, alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le
Amministrazioni si debbono attenere, sì da evitare
ingiustificati privilegi o discriminazioni e per garantire
la trasparenza dell'azione amministrativa e la parità di
trattamento (Cons. St., sez. V, 23.03.2015, n. 1552).
Ha aggiunto il Tar che l'obbligo di espletare una procedura
concorsuale sussiste anche nei casi in cui non siano state
formulate preventivamente istanze di terzi per il
conseguimento del bene pubblico, atteso che l'interesse
all’utilità economica del rapporto concessorio potrebbe
manifestarsi solo in seguito all'avvio di una procedura di
evidenza pubblica (TAR
Molise,
sentenza 28.01.2019 n. 38 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
VI - La questione centrale della controversia verte intorno
alla normativa di cui all’art. 4, comma 14, della L.R. n.
24/2005 che, in effetti, prevede il rinnovo pressoché
automatico e senza procedure di evidenza pubblica -su
semplice richiesta degli aventi titolo- delle attestazioni
di riconoscimento della tartufaia controllata o coltivata.
Invero, la L.R. 27.05.2005, n. 24, recante la “Nuova
disciplina della raccolta, della coltivazione e della
commercializzazione dei tartufi”, all’art. 4, prevede quanto
segue: “1. La raccolta dei tartufi, nel rispetto delle
modalità e nei limiti della presente legge, è libera nei
boschi e nei terreni non coltivati e lungo le sponde e gli
argini dei corsi d'acqua classificati pubblici dalla vigente
normativa. 2. Hanno diritto di proprietà sui tartufi
prodotti nelle tartufaie coltivate e controllate tutti
coloro che le conducono… 9. Le Amministrazioni Provinciali
di Campobasso e Isernia rilasciano, su richiesta di coloro
che ne hanno titolo, a seguito parere tecnico della
Commissione provinciale di cui all'art. 10, l'attestazione e
il riconoscimento di tartufaia controllata o coltivata entro
12 mesi dalla data della richiesta. Alla richiesta di
riconoscimento occorre allegare un piano quinquennale di
miglioramento e di utilizzazione a firma di un tecnico
abilitato…”.
Il comma 14 del citato art. 4 precisa, inoltre, che: “14. Le
attestazioni di riconoscimenti già esistenti alla data di
entrata in vigore della presente legge sono rinnovate, su
richiesta da presentarsi nei termini di anni 1 dalla data
della presente legge”.
A ben vedere, l’art. 4, comma 14, della L.R. n. 24/2005
prevede sì il rinnovo automatico -su semplice richiesta
degli aventi titolo- delle attestazioni di riconoscimento
della tartufaia controllata o coltivata, ma ciò non equivale
a dire che la concessione d’uso o di gestione del bene
pubblico possa pacificamente avvenire mediante un
affidamento diretto. Quando, infatti, la norma citata, al
comma nono, fa riferimento a “coloro che ne hanno titolo”
non opera alcuna identificazione tra questi e i possessori o
detentori di fatto della tartufaia, lasciando quindi impregiudicata la questione della legittimità
dell’affidamento a privati dell’uso o della gestione della
tartufaia ricadente sulla proprietà pubblica.
Non sussiste, dunque, nella legge regionale alcun regime
derogatorio o di favore o di proroga dell’uso o della
gestione privata in concessione del bene pubblico, di guisa
che l’affidamento in uso o gestione del bene deve, in
effetti, avvenire con le modalità previste per tale
affidamento dalla vigente normativa.
VII – L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con
sentenza 25.02.2013, n. 5, ebbe a stabilire che
la
procedura competitiva è quella che meglio garantisce, in
caso di assegnazione di concessioni di beni pubblici -in
considerazione della scarsità della risorsa o quando risulti
di fatto contingentata- tutti i contrapposti interessi in
gioco, fra cui la libertà di iniziativa economica e
l'effettiva concorrenza fra gli operatori economici. La
mancanza di una procedura competitiva circa l'assegnazione
di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico,
introduce una barriera di ingresso al mercato, determinando
una lesione alla parità di trattamento, al principio di non
discriminazione e alla trasparenza tra gli operatori
economici, in violazione dei principi euro-unitari di
concorrenza e libertà di stabilimento.
È del tutto inconferente che il rapporto giuridico sia
definito come comodato d’uso o con altro nomen juris,
allorché si tratti della concessione d’uso o di gestione di
un bene pubblico a privati.
L'impostazione sopra descritta sembra evidentemente sposare
la tesi secondo cui la concessione di beni pubblici, in
quanto caratterizzata da un rapporto bilaterale consensuale
avente natura contrattuale, integra una fattispecie
complessa, la cui costruzione riposa sulla constatazione che
all'atto amministrativo di natura concessoria accede una
convenzione (o un contratto) in cui sono contenute le
clausole disciplinanti il rapporto paritario di diritti e
obblighi delle parti.
Alla luce dell’impostazione concettuale che ravvisa nel
rapporto tra concedente pubblico e concessionario privato un
rapporto di natura contrattuale, si ritiene, in definitiva,
che la normativa da applicare in concreto sia rinvenibile
nei citati principi euro-unitari, i quali vanno a incidere,
in via interpretativa, sulle specifiche norme interne. A
seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (TFUE),
l'indifferenza alla qualificazione nominale delle
fattispecie consente di sottoporre ai principi sull'evidenza
pubblica l'affidamento di concessioni su beni pubblici (cfr.
Cons. Stato, V, 31.05.2011, n. 3250; Tar Molise I,
26.09.2016 n. 365).
VIII - La modalità di affidamento prescelta, nel caso di
specie, esula del tutto dalle previsioni di cui agli artt.
5, comma 1, e 21, comma 4, L.R. Molise 27.05.2005, n. 24
(recante la “Nuova disciplina della raccolta, della
coltivazione e della commercializzazione dei tartufi”) che
prevedono la costituzione di un Consorzio volontario e la
stipulazione di un protocollo di intesa con la Provincia.
Il
Consiglio di Stato (Sezione Quinta), con recente decisione
n. 2914 del 14.06.2017, proprio per il caso di una
tartufaia molisana, nel confermare una sentenza di questo Tar, ha stabilito che
sussiste l’obbligo di gara per la
concessione di un bene pubblico suscettibile di produrre
utilità economiche, gravando su tutte le Amministrazioni
pubbliche in generale l’obbligo di ricorrere a procedure
competitive, ogni qualvolta si vada ad assegnare tale bene.
Ciò in quanto l’attribuzione di vantaggi economici di
qualunque genere a privati va subordinata alla
predeterminazione di criteri e modalità cui le
Amministrazioni pubbliche si debbono attenere, per evitare
ingiustificati privilegi o discriminazioni, nonché per
garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e la
parità di trattamento.
IX - Il riconoscimento di tartufaia controllata, ai sensi
del comma 9 dell'art. 4 (recante la “Disciplina della
raccolta e riconoscimento delle tartufaie”) della citata L.R. n. 24/2005, è di competenza della Provincia. Detta
normativa, infatti, stabilisce che: "Le Amministrazioni
Provinciali di Campobasso e Isernia rilasciano, su richiesta
di coloro che ne hanno titolo, a seguito parere tecnico
della Commissione provinciale di cui all'art. 10,
l'attestazione e il riconoscimento di tartufaia controllata
o coltivata entro 12 mesi dalla data della richiesta. Alla
richiesta di riconoscimento occorre allegare un piano
quinquennale di miglioramento e di utilizzazione a firma di
un tecnico abilitato". Il progetto, con allegato piano
quinquennale, va presentato alla Provincia che lo istruisce
e, se del caso, lo autorizza sul presupposto che i
richiedenti ne abbiano titolo, ovvero che abbiano la
disponibilità dei terreni sui quali la tartufaia deve essere
realizzata.
Nel caso di specie, il rinnovo dell’affidamento al Consorzio
controinteressato consente a quest’ultimo di esercitare sui
suoli comunali in concessione, un'attività di lucro,
considerato che il commercio dei tartufi è un settore
usualmente remunerativo, di talché va considerato dirimente
che -salvo specifici casi giustificati da esigenze
superiori nominate dalla legge- non sia legittimo figurare
una dazione economica senza causa e per una siffatta
concessione sia, comunque, necessaria una procedura di
trasparenza ed evidenza pubblica, atta a garantire parità di
trattamento di quanti potenzialmente interessati a ottenere
la medesima concessione di beni e ad evitare parzialità e
preferenze indebite nell’attribuzione.
Per l'affidamento in gestione a terzi di beni pubblici
comunque suscettibili di produrre utilità economiche, come
nel caso di specie, occorre dunque una gara pubblica o
quantomeno una procedura di evidenza pubblica. Su tutte le
Amministrazioni pubbliche, in generale, grava l'obbligo di
ricorrere a procedure competitive ogni qualvolta si vadano
ad assegnare beni pubblici suscettibili di sfruttamento
economico. I terreni comunali, pertanto, non possono essere
oggetto di un contratto di comodato d'uso né essere
suscettibili di sfruttamento economico per la ricerca e la
vendita del tartufo, a beneficio esclusivo di un soggetto
privato, come il Consorzio controinteressato.
X - Gli impugnati provvedimenti contrastano, peraltro –come
correttamente rilevato dai ricorrenti- con l'art. 12 della
legge n. 241/1990, ai sensi del quale "La concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e
l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a
persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla
predeterminazione da parte delle Amministrazioni procedenti,
nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri
e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono
attenersi. L'effettiva osservanza dei criteri e delle
modalità di cui al comma 1 deve risultare dai singoli
provvedimenti relativi agli interventi di cui al medesimo
comma 1".
In definitiva, l'attribuzione di vantaggi
economici di qualunque genere a privati (e persino ad enti
pubblici) va subordinata alla predeterminazione di criteri e
modalità, cui le Amministrazioni si debbono attenere, sì da
evitare ingiustificati privilegi o discriminazioni e per
garantire la trasparenza dell'azione amministrativa e la
parità di trattamento (cfr. Cons. Stato, V, 23.03.2015,
n. 1552).
La giurisprudenza amministrativa, a tal riguardo, richiama e
condivide i principi espressi dalla Corte di Giustizia (non
discriminazione, parità di trattamento, trasparenza),
riconoscendo agli stessi “una portata generale che può
adattarsi a ogni fattispecie che sia estranea all'immediato
ambito applicativo delle direttive sugli appalti” (cfr.:
Cons. Stato, V, 23.03.2015, n. 1552). Sulla scorta di
tanto, si può affermare che le coordinate qui esposte siano
riferibili alle concessioni di beni pubblici di rilevanza
economica, tali cioè da suscitare l'interesse concorrenziale
delle imprese e dei privati, fungendo da parametro di
interpretazione e, al contempo, di limitazione della vigente
normativa in materia di concessione a privati di beni
pubblici.
La giurisprudenza amministrativa si è, dunque, perfettamente
allineata all'impostazione delle regole dettate dal Trattato
(TFUE) e dalla giurisprudenza eurounitaria per le
concessioni di beni pubblici, le quali possono essere
assentite solo in esito a una procedura comparativa
caratterizzata da idonea pubblicità preventiva, ricadendo
nel campo di applicazione dei principi di non
discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo
riconoscimento e proporzionalità. E l'obbligo di espletare
una procedura concorsuale sussiste anche nei casi in cui non
siano state formulate preventivamente istanze per il
conseguimento del bene pubblico, atteso che l'interesse
all’utilità economica del rapporto concessorio potrebbe
manifestarsi solo in seguito all'avvio di una procedura di
evidenza pubblica.
XI – Ne consegue che l'affidamento al Consorzio
controinteressato di una vasta porzione di terreno pubblico
destinato a tartufaia controllata, avvenuta senza la minima
predeterminazione di criteri e modalità cui
l'Amministrazione si sarebbe dovuta attenere e in aperta
violazione dei detti principi, comporta che devono ritenersi
illegittimi e devono, pertanto, essere annullati in parte
qua i seguenti impugnati atti e provvedimenti:
1) la
determinazione dirigenziale n. 727 del 02.03.2018, a firma del
Direttore del Servizio coordinamento e gestione delle
politiche europee per agricoltura, acquacoltura e pesca–attività venatoria, del Dipartimento per il governo del
territorio, la mobilità e le risorse naturali della Regione
Molise, avente ad oggetto “L.R. 27.05.2005, n. 24 –
tartufaia controllata del Consorzio Tuber Macchiagodinese di
Macchiagodena – rinnovo attestazione di riconoscimento”;
2)
la nota del Servizio regionale coordinamento agricoltura prot. 19172 del
07.02.2018;
3) la determinazione dirigenziale
n. 2722 del 18.06.2018, a firma del Direttore del Servizio
coordinamento e gestione delle politiche europee per
l'agricoltura della Regione Molise; tutti, nella parte in
cui confermano o rinnovano l'affidamento della conduzione
della tartufaia in favore del Consorzio controinteressato. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Astensione obbligatoria di componenti di Commissione di
concorso, docente-collega di candidato.
---------------
Concorso – Commissione di concorso – Astensione
obbligatoria – Componente di commissione docente-collega di
candidato - E’ motivo di astensione.
La particolare vicinanza tra un
membro di una Commissione esaminatrice di un pubblico
concorso ed un concorrente, che non sia declinabile in
termini di generico rapporto di ufficio che non determina ex
se una causa di astensione obbligatoria ma che sia
qualificata dalla circostanza che entrambi sono docenti che
operano nel medesimo dipartimento o area di insegnamento
nello stesso istituto scolastico, produce eo ipso
un’evidente ipotesi di astensione obbligatoria a mente
dell’art. 51 c.p.c. (1).
----------------
(1) Rileva, ad avviso del Tar, il richiamo più generale
all'imparzialità amministrativa, intesa come standard e
precetto primario che impone di prevenire situazioni
suscettive di ostacolare la serenità e l'equanimità di
giudizio in una procedura concorsuale pubblica.
La presenza illegittima ai lavori della commissione del
componente versante in situazione di astensione obbligatoria
infirma tutte le operazioni concorsuali svolte e impone
l’annullamento della procedura
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 25.01.2019 n. 999 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
2.1. Ritiene il Collegio fondata la riassunta censura
che va quindi accolta.
In punto di fatto va rilevato che parte ricorrente ha
prodotto (doc. 9) copia dell’organigramma dell’istituto
scolastico “Mo.” di Frosinone, nel quale figurano i
nominativi sia del prof. Fa.Sc., componente della
commissione dell’impugnato concorso, che del controinteressato Fa.Ro., nonché una comunicazione
ricevuta via e-mail il 10.10.2016, nella quale si afferma
candidamente che dal citato organigramma “si evince che il
commissario Sc. e il candidato Ro. nell’anno del
concorso lavoravano nello stesso istituto come colleghi nel
medesimo dipartimento o area”.
Consta inoltre alla produzione di parte ricorrente anche il
verbale della commissione n. 4 del 26.07.2016, dal quale
emerge che il prof. Sc.Fa. era componente della
commissione e presente nella predetta riunione.
2.2. Orbene, la delineata situazione di vicinitas ovvero di
colleganza, a parere della Sezione determina una lampante
causa di astensione del membro commissario, in applicazione
dell’art. 51 c.p.c..
Va segnalato in proposito che l’orientamento della sezione è
nel senso di ritenere applicabile l’art. 51 del codice di
procedura civile alla materia dei pubblici concorsi,
essendosi precisato al riguardo che “Le cause di
incompatibilità e di astensione del giudice, codificate
dall'art. 51 c.p.c., sono estensibili ed applicabili, in
omaggio al principio costituzionale di imparzialità, ad ogni
campo dell'azione amministrativa, e segnatamente, quando
manchi una disciplina specifica propria, alla materia dei
concorsi pubblici e alle relative commissioni, dato che
nella composizione di queste ultime particolarmente rilevano
esigenze di trasparenza, obiettività e terzietà di
giudizio.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III, 14/04/2008, n.
3122, in terminis anche TAR Sardegna, Sez. I, 05/06/2013,
n. 459).
Appare pertanto al Collegio evidente che la particolare
vicinanza tra il commissario Sc. e il concorrente
Ro., non declinabile in termini di generico rapporto di
ufficio, che secondo la giurisprudenza del Consiglio di
Stato non determina ex se una causa di astensione
obbligatoria (Consiglio di Stato Sez. VI, 27/04/2015, n. 2119)
ma qualificata dalla grave circostanza che entrambi i
predetti docenti operavano nel medesimo dipartimento o area
di insegnamento nell’ambito dello stesso istituto scolastico
(Istituto “Mo.” di Frosinone), produce
eo ipso
un’evidente ipotesi di astensione obbligatoria a mente
dell’art. 51 c.p.c. nonché in ossequio al generale principio
di imparzialità, rilevando nella specie il richiamo più
generale all'imparzialità amministrativa, intesa come
standard e come precetto primario che impone di prevenire
situazioni suscettive di ostacolare la serenità e
l'equanimità di giudizio in una procedura concorsuale
pubblica.
La presenza illegittima ai lavori della commissione del
candidato versante in situazione di astensione obbligatoria
infirma tutte le operazioni concorsuali svolte e impone
l’annullamento della procedura impugnata, ossia il concorso
per titoli ed esami finalizzato al reclutamento di personale
docente dell’organico dell’autonomia della scuola indetto
con DM n. 19/2016 limitatamente alla classe concorsuale B–10. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La
predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge
ad elemento essenziale nello svolgimento di un
concorso pubblico.
La mancata predeterminazione dei criteri
nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé
sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per
violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994. Invero, “Nei
concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R.
09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle
Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità
di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei
relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti
alle singole prove”.
---------------
I criteri di
valutazione delle prove concorsuali non devono essere
espressi in termini generici ed astratti, afferenti a
caratteristiche dell’elaborato, ma essere espressi in modo
da consentire all’organo valutatore e successivamente al
giudice, di apprezzare il quantum di ciascuna caratteristica
valutativa nella singola prova e quanto la stessa abbia
pesato nell’attribuzione di un determinato punteggio.
In altri termini occorre che i criteri di valutazione si
traducano anche in criteri di attribuzione del punteggio
ovverosia in criteri motivazionali.
In un caso nel quale i criteri di giudizio erano stati
formulati in maniera generica, con riferimento a
caratteristiche dell’elaborato, la Sezione ha invece
valutato inidonea siffatta opera di generale predisposizione
di parametri guida, avendo la commissione “predisposto una
serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla
traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di
sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica
nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di
valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi
concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e
generali, che non sono accompagnati dalla necessaria
fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con
l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati
piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto
ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e
concorso nella formazione del giudizio finale di ogni
candidato”.
Va al riguardo richiamato anche il recente precedente della
Sezione secondo il quale i “Criteri di valutazione [che] ad
avviso della Sezione devono essere formulati non in termini
generici, generali o astratti riferibili a determinate
qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e
fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto
quelle qualità concorrano a determinare il punteggio
stabilito nel bando per le singole prove.”.
---------------
3. Con il quarto motivo (sub D) i ricorrenti lamentano che i
criteri di valutazione delle prove siano stati elaborati e
predisposti successivamente alle già effettuate prove,
infrangendosi il principio secondo cui i criteri di
valutazione debbono essere allestiti prima dell’espletamento
delle prove stesse.
In punto di fatto osserva il Collegio come debba darsi per
provata ai sensi dell’art, 64 c.p.a., la dedotta
circostanza, non avendo il Ministero contraddetto alcunché
al riguardo, né ottemperato alla istruttoria disposta con
Ordinanza collegiale del 24.08.2018 n. 9035, con la quale si
ordinava alla P.A. di depositare copia dei verbali delle
prove ed in particolare di quelli relativi alla
predisposizione dei criteri di valutazione delle stesse.
La circostanza dedotta risulta quindi non contestata, per
cui va posta a fondamento della decisione, ed inoltre va
ritenuta provata a mente dell’art. 64, co. 4 c.p.a., a mente
del quale il giudice “può trarre argomenti di prova dal
comportamento tenuto dalle parti nel corso del giudizio”,
circostanza, peraltro, della quale il Collegio formulava
espresso avvertimento nell’ordinanza istruttoria richiamata.
3.1. Orbene, in punto di diritto ritiene il Collegio fondata
la censura.
Osserva al riguardo come sia ormai acquisito da tempo il
principio secondo cui la commissione di valutazione degli
elaborati di un concorso ovvero delle qualità di un
candidato debba predeterminare nella prima riunione i
criteri di valutazione ai quali si atterrà nello scrutinio
delle prove e che ciò debba avvenire prima che siano
conosciute le generalità di concorrenti, onde scongiurare il
rischio che la confezione dei criteri predetti avvenga su
misura in modo da poter favorire taluno dei
competitors.
Stabilisce invero l’art 12 del D.P.R n. 487/1994 che “Le
commissioni esaminatrici, alla prima riunione, stabiliscono
i criteri e le modalità di valutazione delle prove
concorsuali, da formalizzare nei relativi verbali, al fine
di assegnare i punteggi attribuiti alle singole prove.”.
Sul punto la Sezione ha di recente ribadito che “3.2.
La
predeterminazione di adeguati criteri valutativi assurge
pertanto ad elemento essenziale nello svolgimento di un
concorso pubblico. La mancata predeterminazione dei criteri
nel corso della prima riunione della Commissione, di per sé
sola, rende illegittimo il procedimento di concorso per
violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 487/1994 (cfr.,
Consiglio di Stato, sez. V, 20.04.2016, n. 1567: “Nei
concorsi a pubblici impieghi, ai sensi dell’art. 12, d.P.R.
09.05.1994, n. 487, rientra nella competenza delle
Commissioni esaminatrici stabilire i criteri e le modalità
di valutazione delle prove concorsuali, da formalizzare nei
relativi verbali al fine di assegnare i punteggi attribuiti
alle singole prove” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis,
03.10.2018 n. 9714).
4. Parimenti fondato e meritevole di accoglimento è il
quinto motivo (sub. E), secondo il quale in forza di una
nota ministeriale “i criteri sono quelli consueti e
correlati alla pertinenza, alla correttezza linguistica,
alla completezza e alla originalità” ma siffatti generali
criteri avrebbero potuto essere integrati dalla Commissione
(oltre che pubblicizzati). Precetto che non è stato seguito,
non avendo la commissione proceduto ad alcuna opera di
integrazione.
4.1. La fondatezza della doglianza riviene dalla recente
giurisprudenza della Sezione, secondo cui i criteri di
valutazione delle prove concorsuali non devono essere
espressi in termini generici ed astratti, afferenti a
caratteristiche dell’elaborato, ma essere espressi in modo
da consentire all’organo valutatore e successivamente al
giudice, di apprezzare il quantum di ciascuna caratteristica
valutativa nella singola prova e quanto la stessa abbia
pesato nell’attribuzione di un determinato punteggio.
In altri termini occorre che i criteri di valutazione si
traducano anche in criteri di attribuzione del punteggio
ovverosia in criteri motivazionali.
In un caso nel quale i criteri di giudizio erano stati
formulati in maniera generica, con riferimento a
caratteristiche dell’elaborato, la Sezione ha invece
valutato inidonea siffatta opera di generale predisposizione
di parametri guida, avendo la commissione “predisposto una
serie di criteri, quali l’aderenza dell’elaborato alla
traccia scelta, la chiarezza espositiva, della capacità di
sintesi e completezza descrittiva, la capacità critica
nell’affrontare le problematiche proposte, la capacità di
valorizzazione funzionalità e applicabilità ai casi
concreti.
Trattasi tuttavia, all’evidenza, di canoni di massima e
generali, che non sono accompagnati dalla necessaria
fissazione dei relativi pesi valutativi, finendo con
l’arrestarsi a caratteristiche e qualità degli elaborati
piuttosto che a criteri motivazionali.
Non è dato in altri termini conoscere ex post quanto
ciascuna delle enucleate caratteristiche abbia pesato e
concorso nella formazione del giudizio finale di ogni
candidato.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 03.10.2018 n. 9714).
Va al riguardo richiamato anche il recente precedente della
Sezione secondo il quale i “Criteri di valutazione [che] ad
avviso della Sezione devono essere formulati non in termini
generici, generali o astratti riferibili a determinate
qualità e caratteristiche degli elaborati, ma dettagliati e
fungere da criteri motivazionali necessari a definire quanto
quelle qualità concorrano a determinare il punteggio
stabilito nel bando per le singole prove.” (TAR Lazio–Roma, Sez. III-bis, 25.07.2018 n. 8426).
In definitiva anche i motivi quarto e quinto
si prospettano fondati e vanno
conseguitemene accolti (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 25.01.2019 n. 999 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: Disciplina
regionale lombarda sulla conferenza di
servizi e profili di legittimità
costituzionale.
La Corte Costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 1, lettera b), della
legge della Regione Lombardia n. 36 del 2017
che modifica l’art. 13 della legge della
Regione Lombardia 01.02.2012, n. 1,
introducendo il comma 1-quater, secondo cui
«Qualora la determinazione da assumere in
conferenza di servizi presupponga o implichi
anche l’adozione di un provvedimento di
competenza di un organo di indirizzo
politico, tale provvedimento è acquisito
prima della convocazione della conferenza di
servizi o successivamente alla
determinazione motivata di conclusione della
stessa conferenza. In caso di acquisizione
successiva del provvedimento di cui al
precedente periodo, l’efficacia della
determinazione di conclusione della
conferenza di servizi è sospesa nelle more
della formalizzazione dello stesso
provvedimento».
Da questa declaratoria di illegittimità
costituzionale deriva quella dell’art. 10,
comma 1, lettera d), numero 9), della legge
reg. Lombardia n. 36 del 2017 che estende il
campo di applicazione dell’impugnato art. 2
al caso di conferenza di servizi nell’ambito
di una procedura di valutazione di impatto
ambientale.
Secondo la Corte, la norma regionale
impugnata non assicura «livelli ulteriori di
tutela», e anzi chiaramente sacrifica le
finalità di semplificazione e velocità alla
cui protezione è orientata la disciplina
statale; essa configura inoltre un modello
di conferenza di servizi del tutto
squilibrato e contraddittorio; squilibrato,
perché assegna una netta prevalenza alla
valutazione degli organi di indirizzo
politico (senza precisare inoltre che cosa
avvenga in caso di coinvolgimento di più
organi politici); contraddittorio, perché,
sebbene la decisione da assumere in
conferenza presupponga o implichi un
provvedimento di questi organi, la loro
valutazione è separata da quella degli altri
soggetti interessati; sicché si deve
parimenti escludere che il modello così
prefigurato costituisca sviluppo coerente e
armonioso del quadro definito dalle norme
statali interposte
(Corte Costituzionale,
sentenza 25.01.2019 n. 9 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.– La questione di legittimità
costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera
b), della legge reg. Lombardia n. 36 del
2017, promossa in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera m), Cost., è fondata.
2.1.– L’art. 2, comma 1, lettera b), –inserendo il comma 1-quater nell’art. 13
della legge reg. Lombardia n. 1 del 2012–
prevede che, qualora la determinazione da
assumere in conferenza di servizi
«presupponga o implichi» l’adozione di un
provvedimento di competenza dell’organo di
indirizzo politico, tale provvedimento è
scorporato dal modulo procedimentale della
conferenza di servizi ed è acquisito prima o
dopo la determinazione motivata di
conclusione della stessa conferenza, con la
conseguenza che in questo secondo caso
(acquisizione successiva) l’efficacia della
determinazione sarà sospesa fino alla
formalizzazione del provvedimento. La norma
è impugnata, tra l’altro, per violazione
della competenza legislativa statale in
materia di determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni (art. 117,
secondo comma, lettera m, Cost.).
Si tratta dunque di accertare, innanzitutto,
se questi profili della disciplina della
conferenza di servizi rientrino nella
indicata competenza statale e, in caso di
esito positivo di questa prima verifica, se
il legislatore lombardo abbia o no previsto
un livello ulteriore di tutela rispetto a
quanto stabilito dalla normativa statale. Al
riguardo rileva quanto disposto dall’art. 29
della legge n. 241 del 1990, il quale, dopo
aver genericamente ricondotto ai «livelli
essenziali delle prestazioni» le
disposizioni della stessa legge concernenti,
tra l’altro, la conferenza di servizi (comma
2-ter), prevede che «[l]e regioni e gli enti
locali, nel disciplinare i procedimenti
amministrativi di loro competenza, non
possono stabilire garanzie inferiori a
quelle assicurate ai privati dalle
disposizioni attinenti ai livelli essenziali
delle prestazioni di cui ai commi 2-bis e
2-ter, ma possono prevedere livelli
ulteriori di tutela» (comma 2-quater).
2.2.– In relazione alla conferenza di
servizi, questa Corte –dopo aver precisato
che essa costituisce «un modulo procedimentale-organizzativo suscettibile di
produrre un’accelerazione dei tempi
procedurali e, nel contempo, un esame
congiunto degli interessi pubblici
coinvolti»– ha affermato che, se «da un
lato, risulta agevole desumere come esista
un’esigenza unitaria che legittima
l’intervento del legislatore statale anche
in ordine alla disciplina di procedimenti
complessi estranei alle sfere di competenza
esclusiva statale affidati alla conferenza
di servizi, in vista dell’obiettivo della
accelerazione e semplificazione dell’azione
amministrativa; dall’altro è ugualmente
agevole escludere che l’intera disciplina
della conferenza di servizi, e dunque anche
la disciplina del superamento del dissenso
all’interno di essa, sia riconducibile ad
una materia di competenza statale esclusiva,
tenuto conto della varietà dei settori
coinvolti, molti dei quali sono
innegabilmente relativi anche a competenze
regionali (es.: governo del territorio,
tutela della salute, valorizzazione dei beni
culturali ed ambientali)» (sentenza n. 179
del 2012).
Nella pronuncia citata, questa Corte ha
escluso che la norma impugnata in quel
giudizio determinasse «uno standard
strutturale o qualitativo di prestazioni
determinate, attinenti a questo o a quel
diritto civile o sociale, in linea con il
secondo comma, lettera m), dell’art. 117
Cost.», e ha precisato come essa assolvesse
piuttosto «al ben diverso fine di regolare
l’attività amministrativa, in settori
vastissimi ed indeterminati, molti dei quali
di competenza regionale, (quali il governo
del territorio, la tutela della salute,
l’ordinamento degli uffici regionali,
l’artigianato, il turismo, il commercio), in
modo da soddisfare l’esigenza, diffusa
nell’intero territorio nazionale, di uno
svolgimento della stessa il più possibile
semplice e celere».
In continuità con tale impostazione, questa
Corte ha ulteriormente affermato che non si
può escludere che «singoli profili della
disciplina della conferenza di servizi siano
riconducibili alla competenza legislativa
statale in materia di determinazione dei
livelli essenziali» (sentenza n. 246 del
2018), coerentemente con quanto disposto dal
citato art. 29, comma 2-quater, della legge
n. 241 del 1990.
Nell’odierno giudizio si tratta dunque di
stabilire se la norma regionale lombarda
interferisca con gli anzidetti «singoli
profili della disciplina della conferenza di
servizi» di competenza del legislatore
statale.
Gli artt. 14-ter e 14-quater della legge n.
241 del 1990, indicati come norme interposte
dal ricorrente, stabiliscono,
rispettivamente, che «[a]ll’esito
dell’ultima riunione, e comunque non oltre
il termine di cui al comma 2,
l’amministrazione procedente adotta la
determinazione motivata di conclusione della
conferenza, con gli effetti di cui
all’articolo 14-quater, sulla base delle
posizioni prevalenti espresse dalle
amministrazioni partecipanti alla conferenza
tramite i rispettivi rappresentanti»,
considerandosi «acquisito l’assenso senza
condizioni delle amministrazioni il cui
rappresentante non abbia partecipato alle
riunioni ovvero, pur partecipandovi, non
abbia espresso ai sensi del comma 3 la
propria posizione, ovvero abbia espresso un
dissenso non motivato o riferito a questioni
che non costituiscono oggetto della
conferenza» (art. 14-ter, comma 7), e che
«[l]a determinazione motivata di conclusione
della conferenza, adottata
dall’amministrazione procedente all’esito
della stessa, sostituisce a ogni effetto
tutti gli atti di assenso, comunque
denominati, di competenza delle
amministrazioni e dei gestori di beni o
servizi pubblici interessati» (art.
14-quater, comma 1).
Inoltre, «[i]n caso di approvazione unanime,
la determinazione di cui al comma 1 è
immediatamente efficace», mentre «[i]n caso
di approvazione sulla base delle posizioni
prevalenti, l’efficacia della determinazione
è sospesa ove siano stati espressi dissensi
qualificati ai sensi dell’articolo
14-quinquies e per il periodo utile
all’esperimento dei rimedi ivi previsti»
(art. 14-quater, comma 3).
Le disposizioni statali citate stabiliscono,
dunque, le modalità di formazione della
determinazione di conclusione della
conferenza, disciplinando, tra l’altro, i
casi in cui deve considerarsi acquisito
l’assenso senza condizioni dei partecipanti,
la portata della determinazione stessa
(sostitutiva di tutti gli atti di assenso
comunque denominati), i suoi effetti
(immediati) e le ipotesi di sospensione
dell’efficacia.
Questo quadro normativo è il frutto di una
lunga e complessa evoluzione legislativa
dell’istituto della conferenza di servizi,
che ha visto oscillare il legislatore tra un
modello a struttura unitaria e uno a
struttura dicotomica del suo atto
conclusivo. Superando le incertezze che
talune formule legislative avevano
ingenerato, il testo oggi vigente è chiaro
nell’opzione a favore di un modello a
struttura unitaria, il quale –nella
prospettiva seguita dal legislatore di
riforma– bilancia l’esigenza di
semplificazione (che trova concreta
realizzazione nel principio dell’assenso
implicito e nella previsione dell’immediata
efficacia della determinazione in caso di
approvazione unanime), quella di
salvaguardia delle competenze delle
amministrazioni e dei gestori di beni o
servizi pubblici interessati (che è
assicurata attraverso la possibilità loro
offerta di partecipare alla conferenza e la
previsione dei rimedi per le amministrazioni
dissenzienti portatrici di interessi
sensibili ex art. 14-quinquies della legge
n. 241 del 1990), l’interesse del privato
proponente o istante, che può essere
invitato alla conferenza (art. 14-ter, comma
6, della legge n. 241 del 1990), e il controinteresse dei privati che si oppongono
alla conclusione positiva del procedimento,
i quali anche possono essere invitati alla
conferenza (art. 14-ter, comma 6, della
legge n. 241 del 1990).
La disciplina statale che emerge
dall’insieme delle disposizioni indicate,
nella parte in cui prevede che la
determinazione conclusiva della conferenza
sostituisca a ogni effetto tutti gli atti di
assenso e che sia immediatamente efficace,
salvi i casi di dissensi qualificati,
definisce «uno standard strutturale [e]
qualitativo di prestazioni determinate […]
in linea con il secondo comma, lettera m),
dell’art. 117 Cost.» (secondo la formula
utilizzata nella citata sentenza n. 179 del
2012). Le norme statali sopra richiamate
infatti, per un verso, definiscono la
“struttura” essenziale della determinazione
conclusiva della conferenza di servizi e per
l’altro verso, imponendo l’esame contestuale
dei diversi punti di vista, investono la
“qualità” delle valutazioni effettuate in
conferenza che si caratterizzano così, in
quel contesto, come equiordinate.
2.3.– La riconducibilità delle norme statali
interposte ai livelli essenziali delle
prestazioni di cui all’art. 117, secondo
comma, lettera m), Cost. non comporta di per
sé l’automatica illegittimità costituzionale
delle norme regionali che differiscano da
esse, tenuto conto della possibilità per le
Regioni di discostarsi dallo standard
statale per prevedere «livelli ulteriori di
tutela» (art. 29, comma 2-quater, legge 241
del 1990). Si tratta, allora, di verificare
se le disposizioni impugnate rechino un
livello di maggiore tutela o costituiscano
almeno uno sviluppo coerente della tutela
offerta da quelle statali.
Nel caso di specie, tuttavia, è agevole
constatare che il legislatore regionale –escludendo dalla conferenza la valutazione
dell’organo politico inscindibilmente legata
alla determinazione da assumere, in quanto quest’ultima “presuppone o implica” la prima– si pone in una logica che, lungi dal
potenziare o sviluppare il disegno di
semplificazione e accelerazione definito dal
legislatore statale, finisce con il
vanificare il senso stesso della conferenza
e l’efficacia della sua determinazione
conclusiva.
In base alla previsione regionale
contestata, infatti, la decisione
dell’organo di indirizzo politico mantiene
la sua autonomia e può arrivare a
stravolgere, dall’esterno, l’esito della
conferenza, giacché le valutazioni espresse
da detto organo (siano esse assunte prima o
dopo lo svolgimento della conferenza)
prevalgono su quelle degli altri
partecipanti. Così disponendo, il
legislatore lombardo assegna alla decisione
dell’organo di indirizzo politico
(estrapolata dalla conferenza di servizi) un
valore diverso e maggiore rispetto a quello
delle valutazioni espresse dalle altre
amministrazioni competenti.
Inoltre, la norma regionale –prevedendo che
l’efficacia della determinazione di
conclusione della conferenza sia sospesa
nelle more della formalizzazione del
provvedimento dell’organo politico–
tradisce anche sotto un diverso profilo la
ratio dell’istituto, eludendo l’esigenza di
speditezza e contestualità cui risponde la
previsione che non solo impone a tutte le
amministrazioni interessate di esprimere il
proprio dissenso in conferenza, ma assegna
alla determinazione ivi assunta efficacia
sostitutiva, a ogni effetto, di tutti gli
atti di assenso, comunque denominati, di
competenza delle amministrazioni coinvolte.
Come questa Corte ha recentemente osservato
–occupandosi della previsione contenuta in
una legge regionale che disciplinava le
forme della partecipazione pubblica per la
realizzazione di opere, progetti o
interventi di particolare rilevanza– la
facoltà per la Regione di sospendere
l’approvazione o l’attuazione di atti di sua
competenza connessi ad un determinato
intervento pubblico concreta il «rischio di
abuso dell’istituto, consentendo, tramite
l’astensione dall’adozione dell’atto di
propria competenza, di bloccare la
realizzazione dell’opera per un tempo
indefinito», e ciò «senza considerare che la
sospensione in sé è incompatibile con la
logica stessa della partecipazione regionale
che, quale che sia l’atto in cui sostanzia,
deve rispettare il canone della leale
collaborazione, che impedisce di opporre
preclusioni pregiudiziali, sia pure
temporanee» (sentenza n. 235 del 2018).
In conclusione, la norma regionale impugnata
non assicura «livelli ulteriori di tutela»,
e anzi chiaramente sacrifica le finalità di
semplificazione e velocità alla cui
protezione è orientata la disciplina
statale. Essa configura inoltre un modello
di conferenza di servizi del tutto
squilibrato e contraddittorio: squilibrato,
perché assegna una netta prevalenza alla
valutazione degli organi di indirizzo
politico (senza precisare inoltre che cosa
avvenga in caso di coinvolgimento di più
organi politici); contraddittorio, perché,
sebbene la decisione da assumere in
conferenza presupponga o implichi un
provvedimento di questi organi, la loro
valutazione è separata da quella degli altri
soggetti interessati. Sicché si deve
parimenti escludere che il modello così
prefigurato costituisca sviluppo coerente e
armonioso del quadro definito dalle norme
statali interposte.
2.4.– Occorre esaminare ancora l’argomento
della difesa regionale secondo cui anche
talune leggi statali prevedono la successiva
«ratifica» da parte dell’organo
rappresentativo di un ente territoriale
degli atti di natura tecnica acquisiti in
sede di conferenza di servizi, e queste
disposizioni non sono state modificate dal
decreto legislativo 30.06.2016, n. 127
(Norme per il riordino della disciplina in
materia di conferenza di servizi, in
attuazione dell’articolo 2 della legge 07.08.2015, n. 124), né dal decreto
legislativo 16.06.2017, n. 104
(Attuazione della direttiva 2014/52/UE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.04.2014, che modifica la direttiva
2011/92/UE, concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati
progetti pubblici e privati, ai sensi degli
articoli 1 e 14 della legge 09.07.2015,
n. 114).
La Regione cita in particolare due
disposizioni: l’art. 8 del d.P.R. 07.09.2010, n. 160 (Regolamento per la
semplificazione ed il riordino della
disciplina sullo sportello unico per le
attività produttive, ai sensi dell’articolo
38, comma 3, del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni,
dalla legge 06.08.2008, n. 133), il
quale, nel caso di progetti presentati allo
sportello unico per le attività produttive
che risultino in contrasto con il piano del
governo del territorio, stabilisce che, «[q]ualora
l’esito della conferenza di servizi comporti
la variazione dello strumento urbanistico,
ove sussista l’assenso della Regione
espresso in quella sede, il verbale è
trasmesso al Sindaco ovvero al Presidente
del Consiglio comunale, ove esistente, che
lo sottopone alla votazione del Consiglio
nella prima seduta utile»; e l’art. 34,
comma 5, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), il
quale dispone che, «[o]ve l’accordo comporti
variazione degli strumenti urbanistici,
l’adesione del sindaco allo stesso deve
essere ratificata dal consiglio comunale
entro trenta giorni a pena di decadenza».
A ben vedere, tuttavia, nessuna delle due
fattispecie risulta pertinente nel caso in
esame.
2.4.1.– Quanto all’art. 8 del d.P.R. n. 160
del 2010, l’analogia rispetto alla questione
in esame risiederebbe nel fatto che anche in
quel caso, qualora l’esito della conferenza
comporti la variazione dello strumento
urbanistico, sarebbe necessaria una fase
ulteriore, affidata all’organo politico,
consistente nella deliberazione di variante
urbanistica da parte del Consiglio comunale.
La diversità della fattispecie rispetto a
quella oggetto delle previsioni regionali
contestate nel presente giudizio è evidente:
la circostanza che l’esito della conferenza
prevista all’art. 8 del d.P.R. 160 del 2010
richieda un successivo procedimento di
variante urbanistica, nel quale interverrà
la relativa determinazione dell’organo
politico, non altera la struttura della
conferenza, alla quale l’organo politico
nondimeno partecipa. Semplicemente la
determinazione finale della conferenza
assume anche la valenza di atto di
iniziativa per l’attivazione del relativo
distinto procedimento di variante.
Per
questa ragione, la giurisprudenza
amministrativa è costante nel ritenere che,
rispetto a tale procedimento, «l’atto
conclusivo del procedimento che si articola
nella Conferenza non ha carattere decisorio
ma costituisce una proposta di variante
dello strumento urbanistico (espressamente
l’art. 5, comma 2, del d.P.R. n. 447/1998;
implicitamente l’art. 8, comma 1, del d.P.R.
n. 160/2010)» (Cons. Stato, sezione quarta,
sentenza 20.10.2016, n. 4380; in senso
conforme, limitatamente alle più recenti,
TAR Lombardia-Milano, sezione seconda,
sentenza 28.03.2017, n. 730; TAR Campania-Napoli, sezione ottava, sentenza 24.03.2016, n. 1579).
Se resta così ferma la
competenza «attribuita all’organo consiliare
del Comune –al quale compete una
valutazione ulteriore, necessaria a
giustificare sul piano urbanistico la
deroga, per il caso singolo, alle regole
poste dallo strumento vigente– […] questo
non esclude la necessità che ancor prima la
conferenza di servizi si esprima in termini
favorevoli alla variazione della disciplina pianificatoria» (Consiglio di Stato, sezione
quarta, sentenza 30.03.2018, n. 2019).
Così considerata, dunque, la deliberazione
del Consiglio comunale non costituisce
affatto una fase ulteriore del medesimo
procedimento ma inerisce, come detto, a un
procedimento distinto, il quale del resto
non elide la necessità della partecipazione
dello stesso organo politico alla previa
conferenza di servizi.
2.4.2.– Ancora meno pertinente è il richiamo
dell’art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 267 del
2000, in tema di accordi di programma.
In questo caso, infatti, non solo la
fattispecie disciplinata nella disposizione
invocata riguarda ancora una volta
l’attivazione di un distinto procedimento
amministrativo diretto alla variazione dello
strumento urbanistico, secondo lo schema
visto appena sopra, ma è, ancor prima, lo
stesso accostamento del modello della
conferenza di servizi a quello dell’accordo
di programma a risultare in radice
improprio, trattandosi di istituti affatto
diversi.
Sicché non è possibile desumere
dalla disciplina dell’uno conseguenze
relativamente all’altro, come ha chiarito la
giurisprudenza amministrativa con
riferimento alla disposizione contenuta
all’art. 27, comma 5, della legge 08.06.1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie
locali) –il cui testo è poi confluito
nell’art. 34 del d.lgs. n. 267 del 2000–
sottolineando che la disposizione «si
riferisce all’accordo di programma […], il
quale consiste nel consenso unanime delle
Amministrazioni statali e locali e degli
altri soggetti pubblici interessati, ma non
può estendersi alla differente ipotesi della
Conferenza dei servizi» (Consiglio di Stato,
sezione quarta, sentenza 28.06.2004, n.
4780).
2.5.– Per le ragioni esposte deve essere
dichiarata l’illegittimità costituzionale
dell’art. 2, comma 1, lettera b), della
legge reg. Lombardia n. 36 del 2017 per
violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera m), Cost., con assorbimento di ogni
altro profilo di censura.
3.– Da questa declaratoria di illegittimità
costituzionale deriva quella dell’art. 10,
comma 1, lettera d), numero 9), della legge
reg. Lombardia n. 36 del 2017, anch’esso
impugnato, che –come già detto– si limita
a estendere il campo di applicazione
dell’impugnato art. 2 al caso di conferenza
di servizi nell’ambito di una procedura di
valutazione di impatto ambientale.
Di conseguenza –e restando anche in questo
caso assorbiti gli altri profili di censura
prospettati, e in particolare quello
sollevato in riferimento all’art. 117,
secondo comma, lettera s), Cost.– deve
essere dichiarata l’illegittimità
costituzionale dell’art. 10, comma 1,
lettera d), numero 9), della legge reg.
Lombardia n. 36 del 2017, per violazione
dell’art. 117, secondo comma, lettera m),
Cost.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale
degli
artt. 2, comma 1, lettera b), e 10,
comma 1, lettera d), numero 9, della legge
della Regione Lombardia 12.12.2017, n.
36 (Disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento regionale ai decreti
legislativi n. 126/2016, n. 127/2016, n.
222/2016 e n. 104/2017, relative alla
disciplina della conferenza dei servizi, ai
regimi amministrativi applicabili a
determinate attività e procedimenti e a
ulteriori misure di razionalizzazione). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Attività di gestione di rifiuti costituiti da materiale
inerte - Trasporto, deposito e abbandono in modo
incontrollato sul terreno di terzi - Disciplina normativa
dei rifiuti ed emergenziale - Criteri di applicazione - Art.
256 d.lgs. n. 152/2006.
In materia di rifiuti, integra il reato
di cui all'art. 6, comma 1, lett. d), della legge n. 210 del
2008, la gestione di rifiuti in assenza di autorizzazione,
nonché il compimento di atti idonei diretti modo non
equivoco quali il trasporto a mezzo autocarro, l'abbandono
in modo incontrollato e il deposito dei suddetti rifiuti sul
terreno di terzi.
...
RIFIUTI - Emergenza rifiuti - Questione di legittimità
costituzionale - Disciplina eccezionale e temporanea -
Principio della riserva di legge - Art. 6, D.L. n. 172/2008
- Giurisprudenza.
In tema di "emergenza" rifiuti, deve
ritenersi manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 6, D.L. 06.11.2008, n.
172 per violazione dell'art. 3 Cost., poiché non lede i
principi di uguaglianza e ragionevolezza la scelta normativa
del legislatore di differenziare, con la previsione di una
disciplina eccezionale e temporanea, l'applicazione della
norma penale, apparendo oggettivamente più grave la
violazione della disciplina normativa dei rifiuti nelle zone
ove vige lo stato di emergenza rispetto alle altre zone del
territorio nazionale dove l'emergenza non sussista o sia
cessata.
Parimenti manifestamente infondato è l'ulteriore profilo di
violazione del principio della riserva di legge, ex. art. 25
Cost., in materia penale poiché la durata ed estensione
dello stato di emergenza costituisce mero fatto presupposto
da cui dipende l'applicazione della legge penale di cui
all'art. 6 del citato decreto e non è elemento costitutivo
del reato.
...
RIFIUTI - Stato di emergenza e adozione di norme derogatorie
nel settore dei rifiuti - Criteri e presupposti.
Lo stato di emergenza costituisce il
necessario presupposto di fatto per l'adozione di norme
derogatorie alle ordinarie disposizioni legislative che
giustificano un trattamento differenziato e non è elemento
normativo della fattispecie che ne delimita l'ambito di
applicazione.
Ed invero, la fattispecie penale è prevista dall'art. 6 del
d.l. n. 172 del 2008, conv. dalla legge n. 210 del 2018 che
punisce, quanto alla condotta tipica, le condotte ivi
descritte che riprendono in larga misura quelle condotte già
ricomprese nell'art. 256 del d.lgs n. 152 de 2006, condotte
che se poste in essere nei territori dove vige la
dichiarazione dello stato di emergenza nel settore dei
rifiuti, sono punite più severamente.
La dichiarazione dello stato di emergenza, a sua volta,
trova i suoi presupposti nella legge n. 252 del 1992 che
attribuisce al DPCM la competenza a determinare la durata
del medesimo e l'ambito spaziale in vige, cosicché l'atto
diviene elemento integrativo della fattispecie penale
costituendone un presupposto di fatto dal quale dipende
l'applicazione dell'art. 6 del d.l. 172 del 2008 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.01.2019 n. 3582
- link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Inammissibilità dell’opposizione di terzo se l’opponente è
divenuto controinteressato solo dopo la sentenza alla quale
si oppone.
---------------
Processo amministrativo – Opposizione di terzo –
Controinteressato sopravvenuto – Posizione di
controinteressato per effetto della sentenza alla quale ci
si oppone – Inammissibilità.
E’ inammissibile l’opposizione di
terzo proposta da una società che non è stata parte del
giudizio culminato con sentenza che ha annullato
l’esclusione dalla gara di altra concorrente con conseguente
acquisizione, per effetto di tale sentenza, della veste di
controinteressati (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l’opposizione di terzo nel processo
amministrativo, disciplinata dagli artt. 108 e 109 c.p.a.,
rappresenta un mezzo straordinario di impugnazione, quando
viene proposta, come nel caso di specie, avverso le sentenze
(del Tar o del Consiglio di Stato) passate in giudicato.
Presupposti di ammissibilità di tale rimedio impugnatorio
sono: 1) che l’opponente non sia stato evocato nel giudizio
opposto; 2) che l’opponente sia titolare di una posizione
autonoma o incompatibile con quella affermata nella sentenza
opposta o sia litisconsorte necessario pretermesso; 3) che
la sentenza opposta pregiudichi i diritti o gli interessi
legittimi dell’opponente.
Premesso che nel giudizio proposto avverso l’esclusione da
una gara non sono configurabili controinteressati, il Tar
ricorda che l’opposizione di terzo può essere proposta dai
controinteressati “sopravvenuti e occulti”, individuandoli
in coloro che abbiano conseguito un titolo abilitativo, un
beneficio o uno status derivante da un provvedimento
ulteriore conseguente alla conclusione di un procedimento
autonomo rispetto a quello presupposto già impugnato, ovvero
in coloro che siano sostanzialmente controinteressati, ma
non siano facilmente individuabili dalla lettura dell’atto
impugnato.
Proprio in tema di appalti è stata riconosciuta la
legittimazione a proporre l’opposizione di terzo, nei
confronti di una sentenza resa tra altri soggetti, ai
controinteressati pretermessi perché sopravvenuti: il
riferimento è ai beneficiari di un atto consequenziale
(l’aggiudicazione), quando una sentenza abbia annullato un
provvedimento presupposto (id est, il bando di gara)
all’esito di un giudizio cui sono rimasti estranei.
Nel caso di specie, però, la situazione è sensibilmente
differente, perché l’opponente non è beneficiario di alcun
atto consequenziale al provvedimento presupposto annullato,
ma, in realtà, vuole contrastare la sentenza del Tar che ha
ammesso la controinteressata alla procedura di gara,
annullando sul punto il provvedimento di esclusione della
stazione appaltante.
L’opponente, quindi, sarebbe divenuta controinteressata, in via sopravvenuta, solo dopo la
sentenza del Tar che, annullando il citato provvedimento di
esclusione di altra concorrente, ha disposto l’ammissione
della stessa alla gara, poi divenuta aggiudicataria in via
provvisoria (TAR
Campania-Napoli, sez. I,
sentenza 24.01.2019 n. 402 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia le conseguenze della mancata
indicazione nell'offerta dei costi della manodopera e degli
oneri di sicurezza.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Costi manodopera e oneri sicurezza – Mancata indicazione –
Conseguenza – Rimessione alla Corte di giustizia Ue.
Alla Corte di giustizia la questione
se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente i princìpi
di legittimo affidamento, di certezza del diritto, di libera
circolazione, di libertà di stabilimento e di libera
prestazione dei servizi) ostino a una disciplina nazionale
(quale quella di cui agli artt. 83, comma 9, 95, comma 10 e
97, comma 5 del ‘Codice dei contratti pubblici’ italiano) in
base alla quale la mancata indicazione da parte di un
concorrente a una pubblica gara di appalto dei costi della
manodopera e degli oneri per la sicurezza dei lavoratori
comporta comunque l’esclusione dalla gara senza che il
concorrente stesso possa essere ammesso in un secondo
momento al beneficio del c.d. ‘soccorso istruttorio’, pur
nell’ipotesi in cui la sussistenza di tale obbligo
dichiarativo derivi da disposizioni sufficientemente chiare
e conoscibili e indipendentemente dal fatto che il bando di
gara non richiami in modo espresso il richiamato obbligo
legale di puntuale indicazione (1).
---------------
(1) Analoghe rimessioni sono state disposte con
ordd. 24.01.2019, n. 2 e
n. 3.
Ha ricordato l’Alto consesso che sul punto si sono
registrati contrasti giurisprudenziali, sia in primo che in
secondo grado.
In appello un primo orientamento interpretativo, sul
presupposto per cui il principio enunciato in quella sede
fosse limitato alle gare bandite nel vigore del precedente
d.lgs. n. 163 del 2006, ha ritenuto che, con l’entrata in
vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, la mancata
indicazione separata dei costi per la sicurezza aziendale
non avrebbe più potuto essere sanata attraverso il soccorso
istruttorio, perché la norma avrebbe determinato, al
contrario, un automatismo espulsivo incondizionato a
prescindere dalla assenza di uno specifico obbligo
dichiarativo nella lex specialis.
Per la V Sezione, l’art. 95, comma 10, del Codice dei
contratti avrebbe dunque chiarito l’obbligo per i
concorrenti di indicare nell’offerta economica i c.d. costi
di sicurezza aziendali ed avrebbe superato le incertezze
interpretative, in ordine all’esistenza e all’ampiezza
dell’obbligo dichiarativo, definite dall’Adunanza plenaria
con le sentenze nn. 3 e 9 del 2015, ritenendo che, con tale
escamotage, si finirebbe per consentire “… in pratica ad
un concorrente (cui è riferita l’omissione) di modificare ex
post il contenuto della propria offerta economica” (sez.
V 07.02.2017, n. 815, e nello stesso senso idem 28.02.2018
n. 1228, 12.03.2018, n. 1228, 25.09.2018, n. 653).
In particolare nella ricordata sentenza n. 815 cit. la
Sezione V aveva rilevato che:
- in quei casi l’obbligo di separata indicazione degli oneri per la
sicurezza aziendale era stato imposto, a pena di esclusione,
ai partecipanti alla procedura di gara dalla lex
specialis della procedura, mediante un’espressa
previsione contenuta nel disciplinare o nella lettera di
invito;
- l’obbligo emergerebbe comunque con adeguata chiarezza dalla
litera legis in quel caso disattesa dalla società
appellata;
- l’appellante avrebbe, poi, ancorato la determinazione del quantum
di tali oneri ad un parametro incerto e fluttuante quale l’“un
per cento del margine dell’offerta”, per cui il livello
delle spese destinate alla tutela della salute e della
sicurezza sul lavoro avrebbero potuto essere compromesse in
caso in cui “...ricadute economiche della commessa
presentino un andamento negativo”;
- l’obbligo di indicazione sarebbe chiaramente sancito dalla legge
e la sua violazione determinerebbe conseguenze escludenti a
prescindere dal dato che l’esclusione non sia stata
testualmente enunciata dagli articoli 83 e 95 del Codice in
quanto precetto posto a “salvaguardia dei diritti dei
lavoratori cui presiedono le previsioni di legge, che
impongono di approntare misure e risorse congrue per
preservare la loro sicurezza e la loro salute”.
Il secondo orientamento interpretativo ha affermato invece
che, anche dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice dei
contratti pubblici e nonostante l’espressa previsione di un
puntuale obbligo dichiarativo ex art. 95, comma 10, la
mancata indicazione separata degli oneri di sicurezza
aziendale non determinerebbe di per sé l’automatismo
espulsivo, almeno nei casi in cui tale obbligo dichiarativo
non sia espressamente richiamato nella lex specialis,
a meno che si contesti al ricorrente di aver presentato
un’offerta economica indeterminata o incongrua, perché
formulata senza considerare i costi derivanti dal doveroso
adempimento degli oneri di sicurezza (come affermato dalla
sezione III del Cons. Stato nella sentenza 27.04.2018, n.
2554).
In quella vicenda, la III Sezione, pur nella consapevolezza
dell’esistenza di orientamenti non univoci, ha riformato la
sentenza in accoglimento dell’appello proposto, evidenziando
che l’obbligo codificato nell’art. 95, comma 10, d.lgs. n.
50 del 2016 non comporta l’automatica esclusione
dell’impresa concorrente che, pur senza evidenziare
separatamente nell’offerta gli oneri per la sicurezza
aziendali, li abbia comunque considerati nel prezzo
complessivo dell’offerta.
In tale direzione sarebbero rilevanti le considerazioni per
cui:
- l’isolato esame dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 non
sarebbe in sé decisivo, nemmeno sulla base dei principi
contenuti nella sentenza n. 9 del 25.02.2014 dell’Adunanza
Plenaria, per affermare il suo carattere imperativo, a pena
di esclusione, e l’effetto ipso iure espulsivo della mancata
formale evidenziazione di tali costi nel contesto
dell’offerta economica;
- l’art. 95, comma 10, deve essere letto insieme con l’art. 97,
comma 5, lett. c), dello stesso Codice, il quale prevede al
contrario –e in coerenza con l’art. 69, par. 2, lett. d),
della Direttiva 2014/24/UE e con tutto l’impianto della
nuova disciplina europea– che la stazione appaltante escluda
il concorrente solo laddove, in sede di chiarimenti
richiesti, detti oneri risultino incongrui;
- tale soluzione non comporterebbe poi alcuna violazione del
disposto dell’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 cit., in quanto
il consentire all’impresa di specificare la consistenza
degli oneri per la sicurezza già inclusi (ma non distinti)
nel prezzo complessivo dell’offerta non si tradurrebbe in
alcuna manipolazione o alterazione in corso di gara
dell’offerta stessa contrastante con le regole di
trasparenza e parità di trattamento tra le concorrenti;
- in base al canone interpretativo di cui al brocardo ubi lex
voluit dixit ubi noluit tacuit, l’aggiunta di un diverso
ed ulteriore adempimento rispetto a quelli tipizzati
finirebbe per far dire alla legge una cosa che legge non
dice e che, si presume, non voleva dire;
- se il primo indirizzo privilegia il principio di par condicio
competitorum, il secondo orientamento sembrerebbe inteso
a salvaguardare i diversi principi di massima partecipazione
alle gare e di tassatività e tipicità delle cause di
esclusione di cui all’art. 83, comma 8 del nuovo. In base a
tale disposizione le cause di esclusione dalla gara, in
quanto limitative della libertà di concorrenza, devono
essere ritenute di stretta interpretazione, senza
possibilità di estensione analogica (cfr. Cons. St., sez. V,
n. 2064 del 2013), per cui in caso di equivocità delle
disposizioni deve essere preferita l’interpretazione che, in
aderenza ai criteri di proporzionalità e ragionevolezza,
eviti eccessivi formalismi e illegittime restrizioni alla
partecipazione;
- l’esclusione non potrebbe farsi derivare automaticamente
dall’applicazione della legge, non prevedendo l’art. 95,
comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 alcuna sanzione espulsiva né
richiedendo tale disposizione alcuna “specifica”
indicazione degli oneri per la sicurezza interna. Secondo
tale orientamento, infatti, ciò non sarebbe casuale in
quanto il legislatore nazionale, nell’attuare la Direttiva
2014/247UE, non si è realmente discostato dall’orientamento
sostanzialistico del diritto dell’Unione, espressamente
posto dall’art. 57 di tale Direttiva), e non ha mai inteso
comprendere l’inadempimento di questo mero obbligo formale –
la mancata indicazione degli oneri per la sicurezza interna
separatamente dalle altre voci dell’offerta – tra le cause
di esclusione;
- la formalistica ipotesi escludente contrasterebbe sia con la
lettera dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, non
comminante espressamente l’effetto espulsivo, sia con la
ratio della norma, la cui finalità è quella di consentire la
verifica della congruità dell’offerta economica anche sotto
il profilo degli oneri aziendali “concernenti
l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro”, ritenuto dal codice di
particolare importanza per la salute dei lavoratori, in sede
verifica dell’anomalia, in coerenza con le previsioni del
legislatore europeo nell’art. 18, par. 2, e nell’art. 69,
par. 2, lett. d), della Direttiva 2014/24/UE e nel
Considerando n. 37 della stessa Direttiva, il quale rimette
agli Stati membri l’adozione di misure non predeterminate al
fine di garantire il rispetto degli obblighi in materia di
lavori;
- la direttiva 2014/24/UE di cui le norme del nuovo Codice
costituiscono attuazione avrebbe “replicato” senza
sostanziali modifiche la previgente direttiva 2004/18/CE, in
virtù della quale la mancanza di indicazioni, da parte degli
offerenti, del rispetto di tali obblighi non determinerebbe
automaticamente l’esclusione dalla procedura di
aggiudicazione;
- la soluzione automaticamente escludente si porrebbe, quindi, in
contrasto con i principi dell’Unione (per tutte Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, sez. VI, 10.11.2016, in
C/162/16), ove l’impresa dimostri, almeno in sede di
giustificazioni, che sostanzialmente la sua offerta
comprenda gli oneri per la sicurezza e che tali oneri siano
congrui.
L’Alto Consesso ha evidenziato come ai fini della decisione
risulti necessario risolvere alcune questioni relative alla
conformità delle disposizioni nazionali dinanzi richiamate
con il diritto dell’Unione europea primario e derivato e che
sia dunque necessario sollevare una questione per rinvio
pregiudiziale ai sensi dell’articolo 267 del Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).
Va in primo luogo precisato che questo Giudice ritiene che
il pertinente quadro giuridico nazionale imponga di aderire
alla tesi secondo cui, nelle circostanze pertinenti ai fini
del decidere, la mancata puntuale indicazione in sede di
offerta dei costi della manodopera comporti necessariamente
l’esclusione dalla gara e che tale lacuna non sia colmabile
attraverso il soccorso istruttorio.
Ritiene anche che, ai sensi del diritto nazionale, siccome
l’obbligo di separata indicazione di tali costi è contenuto
in disposizioni di legge dal carattere sufficientemente
chiaro per gli operatori professionali, la mancata
riproduzione di tale obbligo nel bando e nel capitolato
della gara non potrebbe comunque giovare a tali operatori in
termini di scusabilità dell’errore.
Questo Consiglio di Stato si domanda tuttavia se il quadro
normativo nazionale in tal modo ricostruito risulti in
contrasto con le pertinenti disposizioni e princìpi del
diritto dell’Unione europea, con particolare riguardo ai
princìpi di legittimo affidamento, di certezza del diritto,
di libera circolazione, d libertà di stabilimento e di
libera prestazione dei servizi.
Qui di seguito si indicheranno le ragioni per cui si ritiene
che la pertinente normativa nazionale debba necessariamente
essere interpretata nel senso di comportare l’esclusione del
concorrente che non abbia ottemperato all’obbligo legale di
indicare separatamente i costi della manodopera e della
sicurezza dei lavoratori, senza che possa essere invocato il
beneficio del c.d. ‘soccorso istruttorio’.
Ci si domanderà in seguito se tale interpretazione sia
conforme al diritto dell’Unione europea.
Il primo argomento che conferma la conclusione dinanzi
richiamata sub 3.4 deriva dalla pertinente giurisprudenza
della Corte di Giustizia.
Si osserva al riguardo che l’illegittimità dei provvedimenti
di esclusione di un concorrente per violazione di obblighi
da lui non adeguatamente conoscibili è stata ritenuta dalla
Corte di giustizia in relazione a ipotesi in cui tali
obblighi non emergevano con chiarezza “dai documenti di
gara o dalla normativa nazionale” (in tal senso, la
sentenza 02.06.2016 in causa C-27/15 – Pippo Pizzo – e la
sentenza 10.11.2016 in causa C-140/16 – Edra Costruzioni).
Ma il punto è che attualmente esiste una disposizione del
diritto nazionale che fissa in modo del tutto chiaro tale
obbligo (si tratta del più volte richiamato art. 95, comma
10, del ‘Codice dei contratti pubblici’ del 2006).
Del resto, nessun argomento sembra sostenere la tesi secondo
cui una clausola escludente potrebbe operare solo se
espressamente richiamata dal bando o dal capitolato e non
anche direttamente in base a una legge adeguatamente chiara,
come l’art. 95 comma 10, citato.
Se si aderisse a tale impostazione (non condivisa da questo
Giudice del rinvio) si determinerebbe l’effetto,
evidentemente contrario al generale principio di legalità,
per cui sarebbe la stazione appaltante a scegliere quali
disposizioni imperative di legge rendere in concreto
operanti e quali no, semplicemente richiamandole ovvero non
richiamandole nei bandi e nei capitolati.
Il secondo argomento che conferma la conclusione dinanzi
richiamata è di carattere testuale.
L’art. 83, comma 9 del ‘Codice dei contratti pubblici’
italiano (nella formulazione che qui rileva) stabilisce che
il soccorso istruttorio è espressamente escluso per le
carenze dichiarative relative “all’offerta economica e
all’offerta tecnica”.
A sua volta l’art. 95, comma 10, stabilisce in modo espresso
che i costi della manodopera e quelli per la sicurezza dei
lavoratori costituiscono, appunto, elementi costitutivi
dell’offerta economica.
Lo stesso art. 95, comma 10, stabilisce, poi, che i
concorrenti hanno l’obbligo di “indicare” tali costi
e non soltanto quello –più generico– di “tenerne conto”
ai fini della formulazione dell’offerta.
Ne consegue che, in base ad espresse disposizioni del
diritto nazionale, la mancata indicazione dei costi per la
manodopera e la sicurezza dei lavoratori non sia sanabile
attraverso il meccanismo del c.d. ‘soccorso istruttorio’
in quanto tale ancata indicazione è espressamente compresa
fra i casi in cui il soccorso non è ammesso.
Il terzo argomento che conferma la conclusione dinanzi
richiamata deriva dalla pertinente giurisprudenza nazionale.
In particolare, la
sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014,
nell’interpretare il principio legale della tipicità e
tassatività delle cause di esclusione dalle pubbliche gare
(oggi fissato all’art. 83, comma 8 del ‘Codice’), ha
chiarito che nella materia delle pubbliche gare esiste una
causa di esclusione per ogni norma imperativa che preveda in
modo espresso un obbligo o un divieto (laddove l’obbligo non
venga rispettato o il divieto venga trasgredito).
In questi casi –per come chiarito da tale sentenza– la norma
imperativa di legge sortisce l’effetto di integrare
dall’esterno le previsioni escludenti contenute nel bando e
nel capitolato di gara (c.d. effetto di etero-integrazione).
Ebbene, l’art. 95, comma 10, del ‘Codice’ stabilisce
–con previsione chiara e di carattere imperativo– che i
richiamati oneri debbano essere espressamente indicati in
sede di offerta.
Quindi, combinando il principio giurisprudenziale espresso
dall’Adunanza plenaria con la sentenza n. 9 del 2014 e
l’espresso obbligo legale di indicazione di cui all’art. 95,
comma 10, ne consegue che la mancata ottemperanza a tale
obbligo legale comporti necessariamente l’esclusione dalla
gara.
9.§.4. Il quarto argomento che conferma la conclusione
dinanzi richiamata sub 3.4 deriva anch’esso dalla pertinente
giurisprudenza nazionale.
In particolare, la
sentenza dell’Adunanza plenaria n. 3 del 2015
(che è stata resa in base al quadro normativo anteriore al
nuovo Codice dei contratti pubblici) ha stabilito che “nelle
procedure di affidamento di lavori i partecipanti alla gara
devono indicare nell'offerta economica i costi interni per
la sicurezza del lavoro, pena l'esclusione dell'offerta
dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara”.
La successiva sentenza dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2015
(nel chiarire quanto già affermato dalla precedente sentenza
n. 3 del 2015) ha affermato che “non sono legittimamente
esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel
caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della
presentazione delle offerte si è conclusa prima della
pubblicazione della decisione dell'Adunanza Plenaria n. 3
del 2015”;
Sul punto controverso l’Adunanza plenaria è poi tornata con
la sentenza n. 19 del 2016 (che è stata invece resa sulla
base del quadro normativo successivo all’entrata in vigore
del Codice del 2016).
La sentenza in questione (dopo aver premesso di non
intendere discostarsi da quanto affermato dalla precedente
sentenza n. 9 del 2015, ma di operare un mero chiarimento di
carattere temporale) ha stabilito che, in caso di mancata
indicazione dei richiamati oneri, il soccorso istruttorio è
ammesso, ma solo per le gare indette prima dell’entrata in
vigore del nuovo Codice dei contratti.
La stessa sentenza, al punto 37, ha affermato che in tali
casi il beneficio del soccorso istruttorio si giustifica
(per le sole gare indette prima dell’entrata in vigore del
Codice del 2016) in quanto “nell’ordinamento nazionale
mancava una norma che, in maniera chiara e univoca,
prescrivesse espressamente la doverosità della dichiarazione
relativa agli oneri di sicurezza”.
Per tali ipotesi il beneficio del soccorso istruttorio si
giustificava quindi al fine di assicurare il rispetto dei
princìpi di certezza del diritto, di tutela
dell’affidamento, di trasparenza, proporzionalità e par
condicio.
Tuttavia, una volta introdotta nell’ordinamento nazionale
una disposizione (quale l’art. 95, comma 10, del nuovo
Codice) la quale enuncia in modo espresso l’obbligo di
indicare in modo separato i costi per la sicurezza e quelli
per la sicurezza dei lavoratori, è venuta meno la ragione
(unica) che aveva indotto l’Adunanza plenaria (con la
sentenza n. 19 del 2016) ad ammettere il soccorso
istruttorio in caso di mancata indicazione di tali costi da
parte del concorrente.
Non a caso, la stessa sentenza n. 19 del 2016 precisava che
la questione dovesse considerarsi ormai superata per le
vicende sorte dopo l’entrata in vigore del nuovo Codice, “che
ora risolve la questione prevedendo espressamente, all’art.
95, comma 10, l’obbligo di indicare gli oneri di sicurezza”
(punto 37 della motivazione).
9.§.5. Il quinto argomento che conferma la conclusione sopra
richiamata è di carattere sostanziale.
Va premesso al riguardo che l’obbligo di indicare i costi
della manodopera e quelli per la sicurezza dei lavoratori
risponde all’evidente esigenza di rafforzare gli strumenti
di tutela dei lavoratori, di responsabilizzare gli operatori
economici e di rendere più agevoli ed efficaci gli strumenti
di vigilanza e controllo da parte delle amministrazioni.
Ebbene, in particolare negli appalti ad alta intensità di
manodopera (in cui gli oneri lavorativi sono la parte
prevalente –o pressoché esclusiva– degli oneri di impresa),
il concorrente che formuli un’offerta economica omettendo
del tutto di specificare quali siano gli oneri connessi alle
prestazioni lavorative non commette soltanto una violazione
di carattere formale, ma presenta un’offerta economica di
fatto indeterminata nella sua parte più rilevante, in tal
modo mostrando un contegno certamente incompatibile con
l’onere di diligenza particolarmente qualificata che ci si
può ragionevolmente attendere da un operatore professionale.
9.§.6. Per le ragioni sin qui evidenziate deve concludersi
nel senso che il quadro normativo nazionale deve
necessariamente essere inteso nel senso di comportare
l’esclusione del concorrente il quale non abbia ottemperato
all’obbligo legale di separata indicazione dei costi della
manodopera e della sicurezza dei lavoratori, senza che tale
concorrete possa invocare il beneficio del c.d. soccorso
istruttorio.
Occorre a questo punto domandarsi se il quadro normativo
interno così interpretato e ricostruito risulti compatibile
con il diritto dell’Unione europea (Consiglio
di Stato, A.P.,
ordinanza 24.01.2019 n. 1 -
ordinanza 24.01.2019 n. 2 -
ordinanza 24.01.2019 n. 3 - commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Illegittima l'escussione della cauzione provvisoria prima
dell'aggiudicazione dell'appalto.
Salvo diversa disposizione del bando di
gara, l'escussione della cauzione provvisoria può riguardare
il solo l'affidatario e può intervenire solamente dopo
l'aggiudicazione dell'appalto.
---------------
Il ricorso è fondato e merita accoglimento.
La Mo. s.r.l. unipersonale impugna il provvedimento prot. n.
35802/U del 03.07.2018, con cui A. s.p.a. ha disposto
l'escussione della fideiussione provvisoria rilasciata in
sede di presentazione dell'offerta al bando n. 22/2018, e la
nota prot. 41164/2018U del 02.08.2018, con cui A. s.p.a. ha
ribadito l’escussione della garanzia.
L’escussione è stata disposta perché, dopo l’apertura della
busta contenente la documentazione amministrativa e prima
dell’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica ed
economica (il criterio di selezione prescelto è quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa: paragrafo 9 del
disciplinare di gara), A. s.p.a. ha sottoposto a verifica la
posizione della ricorrente e, avendo constatato la mancanza
dei requisiti di capacità dichiarati in sede di
partecipazione alla gara, con provvedimento prot. n.
33254/2018U del 20/06/18 l’ha esclusa dalla gara.
Con la prima censura la ricorrente prospetta la
violazione e falsa applicazione dell’art. 93, comma 6,
d.lgs. n. 50/2016 e dell’art. 7.3.A del disciplinare di gara
ed eccesso di potere per travisamento dei fatti in quanto
l’art. 93 citato consentirebbe l’escussione della garanzia
provvisoria solo in riferimento alla figura dell’affidatario
e nel solo caso di rifiuto immotivato di addivenire alla
stipula del contratto e non anche per il mancato possesso
dei requisiti.
Il motivo è fondato nei limiti di quanto in prosieguo
specificato.
L’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016, nella versione
applicabile ratione temporis ovvero dopo le modifiche
introdotte dal d.lgs. n. 56/2017 (il bando è stato
pubblicato nella GUCE il 21/03/2018: allegato n. 3 alla
memoria di parte resistente), stabilisce che la garanzia
provvisoria “copre la mancata sottoscrizione del
contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto
riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione
antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e
91 del decreto legislativo 06.09.2011, n. 159”.
Contrariamente a quanto dedotto nella censura, la garanzia
opera anche nel caso di mancanza dei requisiti di ordine
generale e speciale, dichiarati in sede di partecipazione
alla gara, in quanto tale carenza integra, senza dubbio, la
nozione di “fatto riconducibile all’affidatario” che
preclude la sottoscrizione del contratto.
Proprio la disposizione in esame, però, colloca l’escussione
della garanzia provvisoria nella fase successiva
all’aggiudicazione e prima della stipula del contratto.
In quest’ottica l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 deve
essere letto in combinato disposto con gli artt. 36, comma
6, e 85, comma 5, e, soprattutto, 32, comma 7, d.lgs. n.
50/2016 che prevedono come obbligatoria la verifica dei
requisiti del solo aggiudicatario.
Questo è il motivo per cui l’art. 32, comma 7, d.lgs. n.
50/2016 condiziona l’efficacia dell’aggiudicazione, già
intervenuta, al positivo riscontro dei requisiti.
E’, pertanto, in questa fase che, secondo il disposto
dell’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016, opera la garanzia
provvisoria la quale, nella previsione legislativa, sanziona
le ipotesi in cui, anche per la mancanza dei requisiti
dichiarati e negativamente verificati, non sia possibile, “dopo
l’aggiudicazione” (inciso espressamente previsto
dall’art. 93 d.lgs. n. 50/2016 e mancante nel previgente
art. 75 d.lgs. n. 163/2006), pervenire alla sottoscrizione
del contratto.
Ne consegue che l’art. 93, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 non si
applica alle ipotesi, quale quella in esame, in cui non è
ancora intervenuta l’aggiudicazione ovvero in quelle ipotesi
in cui la stazione appaltante procede discrezionalmente, nel
corso della gara, alla verifica dei requisiti di uno o più
concorrenti.
In senso favorevole alla tesi di parte ricorrente deve
essere anche valorizzato il tenore letterale del
disciplinare di gara che, coerentemente a quanto previsto
dall’art. 93 d.lgs. n. 50/2016, stabilisce che “la
cauzione provvisoria copre, e viene escussa per, la mancata
stipula del contratto dopo l’aggiudicazione per fatto del
concorrente ai sensi dell’articolo 93, comma 6, d.lgs. n.
50/2016” (paragrafo 7.2 pag. 17).
Nemmeno la lex specialis, pertanto, nella fattispecie
estende l’ambito applicativo della cauzione provvisoria e,
in tal modo, è idonea a giustificare l’incameramento della
stessa prima dell’aggiudicazione.
Né, in senso contrario, possono essere richiamate:
- la sentenza n. 2181/2018 del Consiglio di Stato, menzionata nel
gravato provvedimento di escussione della garanzia, in
quanto la stessa riguarda un’ipotesi in cui, nei confronti
dell’escluso, era stata formulata proposta di
aggiudicazione;
- la sentenza n. 34/2014 dell’Adunanza Plenaria, citata dalla parte
resistente nella memoria difensiva, in quanto la stessa
concerne una fattispecie in cui l’escussione era stata
prevista dalla lex specialis e, per di più, nella
vigenza dell’art. 48 d.lgs. n. 163/06 che giustificava
l’acquisizione della cauzione provvisoria nei confronti del
mero concorrente almeno per la mancanza dei requisiti di
ordine speciale;
- la sentenza n. 8/2012 dell’Adunanza Plenaria che riguardava un
aggiudicatario e, comunque, un caso in cui l’escussione era
espressamente consentita dalla lex specialis.
La fondatezza della censura esaminata impone l’accoglimento
del ricorso (previa declaratoria di assorbimento del
secondo motivo, implicitamente proposto in via
subordinata) e l’annullamento degli atti impugnati (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 23.01.2019 n. 900 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Individuazione
da parte del PGT delle destinazioni ammesse.
E' illegittimo un PGT
che, una volta attribuita ad un’area
destinazione urbanistica “terziario, ha
indicato l’unica ammessa su una grande parte
dell’area medesima (nella fattispecie:
multisala per proiezioni cinematografiche e
pubblico spettacolo per almeno il 50% della
edificazione ammessa), spingendosi così ad
un livello di dettaglio incompatibile con la
funzione che è chiamato a svolgere e con la
tutela che l’ordinamento riconosce al
diritto di proprietà privata
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 23.01.2019 n. 128 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
La società Au.Gu.It. S.p.A., in
qualità di proprietaria di un compendio
immobiliare sito in Comune di Pandino, già
classificato dal previgente strumento
urbanistico come zona D1 – aree produttive
esistenti e di previsione puntuale
(disciplinata articolo 34 delle NTA), ha
impugnato la deliberazione consiliare di
approvazione del nuovo PGT nella parte in
cui classifica l’area come Comparto
Terziario 1 – C.T.1. Viale Europa Sud (i.e.,
centro polifunzionale terziario comprendente
multisala per proiezioni cinematografiche e
per pubblico spettacolo per almeno il 50%
della edificazione ammessa, e per il
restante 50% al massimo, esercizi pubblici
ed esercizi commerciali di vicinato, uffici,
attività per servizi alla persona, con
divieto di realizzazione di medie e grandi
superfici di vendita o di centri
commerciali).
...
Il Collegio ritiene di non aderire alla
richiesta di parte ricorrente di trattazione
congiunta del presente ricorso con quelli
promossi da terzi nei confronti della
suvvista Variante al PGT.
E’ ben vero che –come prospettato dalla
difesa di Au.Gu.It. S.p.A.- la
nuova disciplina urbanistica dell’area di
sua proprietà non determina l’improcedibilità
per sopravvenuta carenza di interesse del
presente ricorso, posto che l’accoglimento –in ipotesi– dell’impugnativa svolta da
terzi contro la Variante particolare
determinerebbe la riviviscenza della vecchia
disciplina qui avversata (cfr., TAR
Marche, sentenza n. 434/2014; TAR
Sardegna, Sez. II, sentenza n. 340/2011;
C.d.S., Sez. IV, sentenza n. 5801/2005).
Tuttavia, i ricorsi di cui si chiede la
riunione non sono avvinti da un rapporto di
connessione oggettiva, vertendo su strumenti
urbanistici diversi, e soprattutto i giudizi
pendono avanti a Sezioni diverse del
Tribunale e –a quanto consta– si trovano
in fasi processuali diverse, sicché la
riunione ritarderebbe inevitabilmente la
decisione del presente giudizio.
Passando al merito, il ricorso è fondato nei
termini che si vanno a esporre.
In linea generale, la zonizzazione è
finalizzata all’ordinato sviluppo del
territorio tramite un coordinato ed armonico
esercizio dello ius aedificandi che connota
il diritto dominicale. L’interesse pubblico
è perseguito operando la suddivisione del
territorio comunale in zone omogenee,
accomunate dalla destinazione urbanistica,
individuata per macrocategorie
(residenziale, produttivo, direzionale,
commerciale …), e da prescrizioni di massima
da rispettare nell’edificazione (distanze,
altezze, rapporto tra superficie edificata e
volume realizzato …).
La L.R. Lombardia n. 12/2005 stabilisce che
il Piano di Governo del Territorio – PGT,
costituito dal Documento di Piano, dal Piano
dei Servizi e dal Piano delle Regole,
all’interno delle singoli ambiti
territoriali, dopo aver individuato la
relativa destinazione urbanistica, per
quanto qui di interesse, fissi al più le
destinazioni d’uso non ammesse (articoli da
7 a 10 compresi).
Ne consegue che il PGT di Pandino, una volta
attribuita all’area di proprietà della
ricorrente destinazione urbanistica
“terziario”, poteva indicare tra le
destinazioni d’uso che rientrano nella
categoria “commerciale” quelle vietate.
Viceversa, avendo indicato l’unica ammessa
su una grande parte dell’area medesima (multisala
per proiezioni cinematografiche e per
pubblico spettacolo per almeno il 50% della
edificazione ammessa), lo strumento
urbanistico generale si è spinto ad un
livello di dettaglio incompatibile con la
funzione che è chiamato a svolgere e con la
tutela che l’ordinamento riconosce al
diritto di proprietà privata.
In conclusione, i primi due motivi di
impugnazione sono fondati; il ricorso viene
pertanto accolto e per l’effetto è annullato
in parte qua il PGT impugnato. |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di non eseguire la demolizione
qualora possa derivarne pregiudizio per la porzione di
fabbricato non abusiva, secondo la procedura di cd.
"fiscalizzazione" di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del
2001, riguarda le sole ipotesi di parziale difformità (al
netto del limite di tolleranza individuato dall'ultimo comma
dell'articolo citato) fra quanto oggetto del permesso a
costruire e quanto invece realizzato, rimanendo invece
esclusa nel caso in cui le opere eseguite siano del tutto
sprovviste del necessario assenso amministrativo (in specie
era stata ritenuta illegittima la revoca dell'ingiunzione a
demolire un manufatto completamente abusivo e del tutto
nuovo, ancorché innestato su una preesistente struttura di
per sé conforme agli strumenti ed alle prescrizioni
urbanistiche).
---------------
4.2. In relazione al secondo motivo, si osserva che
la possibilità di non eseguire la demolizione qualora possa
derivarne pregiudizio per la porzione di fabbricato non
abusiva, secondo la procedura di cd. "fiscalizzazione"
di cui all'art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, riguarda le
sole ipotesi di parziale difformità (al netto del limite di
tolleranza individuato dall'ultimo comma dell'articolo
citato) fra quanto oggetto del permesso a costruire e quanto
invece realizzato, rimanendo invece esclusa nel caso in cui
le opere eseguite siano del tutto sprovviste del necessario
assenso amministrativo (in specie era stata ritenuta
illegittima la revoca dell'ingiunzione a demolire un
manufatto completamente abusivo e del tutto nuovo, ancorché
innestato su una preesistente struttura di per sé conforme
agli strumenti ed alle prescrizioni urbanistiche) (Sez. 3,
n. 16548 del 16/06/2016, dep. 2017, Porcelli, Rv. 269624).
In specie parte ricorrente si è invero limitata ad allegare
l'impossibilità di demolizione senza danno alla parte
legittima.
In proposito, invece, la stessa ordinanza impugnata (in
risposta ai rilievi dell'interessata in ordine alla
circostanza che le opere contestate non avevano comportato
aumenti di superficie) ha dato invero atto -senza specifica
contestazione al riguardo- che la condotta abusiva ascritta
alla ricorrente, e ritenuta fondata in sentenza, aveva ad
oggetto proprio l'ampliamento della struttura preesistente
(non sussistendo comunque prova dell'irreparabilità del
pregiudizio).
Su questo specifico profilo in diritto, che escludeva ogni
ipotesi di cd. fiscalizzazione anche in relazione alla
circoscritta applicabilità dell'art. 34 cit., nulla è stato
aggiunto (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2019 n. 2855). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzate
di scavi e sbancamenti - Lavori edili oggetto di
comunicazione al Comune - Accertamento sul cantiere in corso
d'opera - Intervento di permanente trasformazione del suolo
- Necessità del permesso di costruire e/o
dell'autorizzazione paesaggistica - Artt. 6, 44, d.P.R. n.
380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
La trasformazione edilizia o urbanistica
del territorio che costituisce "intervento di nuova
costruzione" soggetto a permesso di costruire ai sensi del
combinato disposto degli artt. 10, comma 1, lett. a), e 3,
comma 1, lett. e), d.P.R. 380 del 2001, invero, è soltanto
quella che determina la permanente modifica del suolo (cfr.
le definizioni di cui all'art. 3, comma 1, lett. e.3) e e.7),
del citato testo unico;
v. anche Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 2017, Palma,
che reputa assoggettati a permesso di costruire
interventi sul terreno che determinino una modificazione
permanente dello stato materiale e della conformazione del
suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli
è proprio). Fattispecie: lavori di scavi e sbancamenti
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2019 n. 2849 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Accertamenti e valutazioni di carattere
tecnico-scientifico - Deduzioni logiche e massime di comune
esperienza e semplici congetture - Differenza -
Giurisprudenza.
Qualora non suffragata da valutazioni di
carattere tecnico-scientifico, la ricostruzione del tipo di
intervento di modificazione dell'assetto del territorio
accertato in itinere può ben essere compiuta utilizzando
deduzioni logiche e massime di comune esperienza, ma le
stesse debbono essere esplicitate per poter valutare la
logicità del percorso argomentativo e delle conclusioni.
È, altrimenti, affetta dal vizio di illogicità e di carenza
della motivazione la decisione del giudice di merito che, in
luogo di fondare la sua decisione su massime di esperienza
-che sono caratterizzate da generalizzazioni tratte con
procedimento induttivo dalla esperienza comune,
conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel
contesto spazio-temporale in cui matura la decisione-
utilizzi semplici congetture, cioè ipotesi fondate su mere
possibilità, non verificate in base all' "id quod plerumque
accidie ed insuscettibili, quindi, di verifica empirica
(Sez. 6, n. 36430 del 28/05/2014, Schembri; Sez. 6, n. 1686
del 27/11/2013, dep. 2014, Keller; Sez. 6, n. 6582 del
13/11/2012, dep. 2013, Cerrito)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2019 n. 2849 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deposito "in sanatoria" degli elaborati progettuali e
rilascio in sanatoria dell'autorizzazione dell'Ufficio del
Genio civile - Reati di violazione della normativa
antisismica - Effetti - Giurisprudenza - Artt. 36, 44, 45,
71, 72, 93 e 94 d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, d.P.R. n.
380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
In materia edilizia, è consolidato il
principio secondo cui il deposito "in sanatoria" degli
elaborati progettuali non estingue la contravvenzione
antisismica, che punisce l'omesso deposito preventivo di
detti elaborati in quanto l'effetto estintivo è limitato
dall'art. 45 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 alle sole
contravvenzioni urbanistiche
(Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010, Braccolino e aa.)
e, parimenti, il rilascio in sanatoria
dell'autorizzazione dell'Ufficio del Genio civile non
costituisce causa estintiva dei reati di violazione della
normativa antisismica di cui agli artt. 93, 94 e 95 del
d.P.R. n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 10110 del 21/01/2016, Rv. 266252).
Tale principio è certamente estensibile
anche ai reati previsti dagli artt. 71 ss. d.P.R. 380 del
2001 per la violazione della disciplina delle opere in
conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a
struttura metallica. Diversamente dalla previsione di cui
all'art. 45, comma 3, d.P.R. 380 del 2001, non v'è, di
fatti, alcuna disposizione che preveda l'estinzione di detti
reati nel caso di tardivo adempimento degli obblighi omessi,
o, più in generale, di "sanatoria" amministrativa delle
violazioni e, in forza della citata disposizione, lo stesso
conseguimento del permesso di costruire in sanatoria ai
sensi dell'art. 36 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -nella
specie avvenuto- comporta l'estinzione dei reati
contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti,
ma non di quelli previsti dalla normativa antisismica e
sulle opere di conglomerato cementizio
(Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017, Rizzo; Sez. F, n. 44015
del 04/09/2014, Conforti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.01.2019 n. 2848 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
Al riguardo, si legga anche:
●
M. Grisanti,
L’autorizzazione e il deposito sismici a sanatoria sono
sconosciuti al legislatore statale (nota critica a
Cassazione, Sez. III penale, n. 2848 depositata il 22.01.2019)
(26.01.2019 - link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA: La
destinazione impressa all’area per quanto
stabilito dal P.T.C.P. –ossia l’inserimento
parziale della stessa nella Rete verde di
ricomposizione paesaggistica, con valenza
anche di Rete ecologica, e negli Ambiti
agricoli di interesse strategico (A.A.S.)–
possiede efficacia prescrittiva e prevalente
sullo strumento pianificatorio comunale.
---------------
Secondo la consolidata giurisprudenza, le
scelte riguardanti la classificazione dei
suoli sono sorrette da ampia discrezionalità
e in tale ambito la posizione dei privati
risulta recessiva rispetto alle
determinazioni dell’Amministrazione, in
quanto scelte di merito non sindacabili dal
giudice amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti.
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi.
E ciò in quanto l’urbanistica ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione.
---------------
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi
che la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la
stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano.
A questo proposito, è poi utile aggiungere
che, anche laddove si fosse al cospetto di
aree ampiamente urbanizzate, non per questo
se ne può escludere la rilevanza dal punto
di vista ambientale, poiché tali dati di
fatto si prestano anzi a far emergere un
interesse alla conservazione del suolo
inedificato, per ragioni di compensazione
ambientale.
---------------
Del resto, la destinazione impressa all’area
risulta coerente con quanto stabilito dal
P.T.C.P. –ossia l’inserimento parziale della
stessa nella Rete verde di ricomposizione
paesaggistica, con valenza anche di Rete
ecologica, e negli Ambiti agricoli di
interesse strategico (A.A.S.)–, che possiede
efficacia prescrittiva e prevalente sullo
strumento pianificatorio comunale (da
ultimo, TAR Lombardia, Milano, II,
08.01.2019, n. 37).
In senso contrario, non assume rilievo la
circostanza che la Provincia, in sede di
predisposizione del parere di compatibilità,
abbia suggerito al Comune di valutare la
possibilità di rettifica nei casi in cui
l’individuazione degli Ambiti agricoli di
interesse strategico ricada su aree
residenziali edificate, in quanto si tratta
di un mero suggerimento –peraltro assunto in
fase istruttoria (cfr. all. 12 al ricorso)–
che presuppone comunque la necessità di
correggere errori oggettivi; come risulta
dalla descrizione del contesto, il Comune
non ha ritenuto di accogliere tale
indicazione (che non può essere considerata
alla stregua di una imposizione),
considerando all’opposto la necessità di
tutelare una zona non ancora completamente
antropizzata e dotata di peculiari caratteri
da preservare.
Pertanto, le valutazioni effettuate dal
Comune appaiono pienamente ragionevoli e
assolutamente giustificate e coerenti con i
presupposti di fatto e le risultanze
istruttorie.
Secondo la consolidata giurisprudenza,
difatti, le scelte riguardanti la
classificazione dei suoli sono sorrette da
ampia discrezionalità e in tale ambito la
posizione dei privati risulta recessiva
rispetto alle determinazioni
dell’Amministrazione, in quanto scelte di
merito non sindacabili dal giudice
amministrativo, salvo che non siano
inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti
in ordine alle esigenze che si intendono nel
concreto soddisfare, potendosi derogare a
tale regola solo in presenza di situazioni
di affidamento qualificato del privato a una
specifica destinazione del suolo, nel caso
non sussistenti (Consiglio di Stato, IV,
12.05.2016, n. 1907; TAR Lombardia, Milano,
II, 27.02.2017, n. 451).
La più recente evoluzione giurisprudenziale
ha, oltretutto, evidenziato che all’interno
della pianificazione urbanistica devono
trovare spazio anche esigenze di tutela
ambientale ed ecologica, tra le quali spicca
proprio la necessità di evitare l’ulteriore
edificazione e di mantenere un equilibrato
rapporto tra aree edificate e spazi liberi
(così, Consiglio di Stato, IV, 21.12.2012,
n. 6656).
E ciò in quanto l’urbanistica ed il
correlativo esercizio del potere di
pianificazione non possono essere intesi,
sul piano giuridico, solo come un
coordinamento delle potenzialità
edificatorie connesse al diritto di
proprietà, così offrendone una visione
affatto minimale, ma devono essere
ricostruiti come intervento degli Enti
esponenziali sul proprio territorio, in
funzione dello sviluppo complessivo ed
armonico del medesimo, per cui l’esercizio
dei poteri di pianificazione territoriale
ben può tenere conto delle esigenze legate
alla tutela di interessi costituzionalmente
primari, tra i quali rientrano quelli
contemplati dall’art. 9 della Costituzione (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 10.05.2012, n. 2710;
altresì, 22.02.2017, n. 821; 13.10.2015, n.
4716; TAR Lombardia, Milano, II, 18.06.2018,
n. 1534).
In tale prospettiva, deve pure sottolinearsi
che la destinazione di un’area a verde
agricolo non implica necessariamente che la
stessa soddisfi in modo diretto e immediato
interessi agricoli, ben potendo
giustificarsi con le esigenze dell’ordinato
governo del territorio, quale la necessità
di impedire ulteriori edificazioni, ovvero
di garantire l’equilibrio delle condizioni
di vivibilità, assicurando la quota di
valori naturalistici e ambientali necessaria
a compensare gli effetti dell’espansione
dell’aggregato urbano (cfr., ex multis,
Consiglio di Stato, IV, 12.02.2013, n. 830;
16.11.2011, n. 6049; TAR Lombardia, Milano,
II, 27.02.2017, n. 451; 30.09.2016, n.
1766).
A questo proposito, è poi utile aggiungere
che, anche laddove si fosse al cospetto di
aree ampiamente urbanizzate, non per questo
se ne può escludere la rilevanza dal punto
di vista ambientale, poiché tali dati di
fatto si prestano anzi a far emergere un
interesse alla conservazione del suolo
inedificato, per ragioni di compensazione
ambientale (TAR Lombardia, Milano, II,
05.11.2018, n. 2479; 21.02.2017, n. 434)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 122 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In materia urbanistica, non opera
il principio del divieto di reformatio in
peius, in quanto in tale materia
l’Amministrazione gode di un’ampia
discrezionalità nell’effettuazione delle
proprie scelte, che relega l’interesse dei
privati alla conferma della previgente
disciplina ad interesse di mero fatto, non
tutelabile in sede giurisdizionale.
---------------
In ordine, poi, all’avvenuta limitazione (o
azzeramento) delle capacità edificatorie dei
lotti di proprietà dei ricorrenti –con la
precisazione però che nessuna misura
espulsiva è stata disposta nei riguardi di
quanto già costruito– deve richiamarsi la
costante giurisprudenza secondo la quale, in
materia urbanistica, non opera il principio
del divieto di reformatio in peius,
in quanto in tale materia l’Amministrazione
gode di un’ampia discrezionalità
nell’effettuazione delle proprie scelte, che
relega l’interesse dei privati alla conferma
della previgente disciplina ad interesse di
mero fatto, non tutelabile in sede
giurisdizionale (Consiglio di Stato, IV,
24.03.2017, n. 1326; TAR Lombardia, Milano,
II, 27.02.2018, n. 566; 15.12.2017, n. 2393)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 122 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Le osservazioni presentate in
occasione dell’adozione di un nuovo
strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati
nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza
in capo all’Amministrazione a ciò competente
di un obbligo puntuale di motivazione oltre
a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree.
Pertanto, seppure l’Amministrazione è tenuta
ad esaminare le osservazioni pervenute, non
può però essere obbligata ad una analitica
confutazione di ciascuna di esse, essendo
sufficiente per la loro reiezione il mero
contrasto con i principi ispiratori del
piano.
---------------
Quanto, infine, al mancato accoglimento
delle osservazioni dei ricorrenti, va
ribadito che “le osservazioni presentate
in occasione dell’adozione di un nuovo
strumento di pianificazione del territorio
costituiscono un mero apporto dei privati
nel procedimento di formazione dello
strumento medesimo, con conseguente assenza
in capo all’Amministrazione a ciò competente
di un obbligo puntuale di motivazione oltre
a quella evincibile dai criteri desunti
dalla relazione illustrativa del piano
stesso in ordine alle proprie scelte
discrezionali assunte per la destinazione
delle singole aree; pertanto, seppure
l’Amministrazione è tenuta ad esaminare le
osservazioni pervenute, non può però essere
obbligata ad una analitica confutazione di
ciascuna di esse, essendo sufficiente per la
loro reiezione il mero contrasto con i
principi ispiratori del piano” (TAR
Lombardia, Milano, II, 08.01.2019, n. 38;
06.08.2018, n. 1945; altresì, TAR Toscana,
I, 06.09.2016, n. 1317)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 122 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte di pianificazione territoriale, in
quanto espressione di tale ampia
discrezionalità, sono sindacabili dal
giudice amministrativo entro limiti alquanto
ristretti: a tale riguardo le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale
costituiscono scelte di merito, che non
possono essere sindacate dal giudice
amministrativo salvo che non siano inficiate
da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine
alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, con la conseguenza che non è
configurabile il vizio di eccesso di potere
per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa
agli immobili adiacenti.
---------------
5.2.
Ulteriormente, la diversa collocazione delle
proprietà dei ricorrenti rispetto a quelle
di altri soggetti, seppure poste tra loro in
rapporto di prossimità, giustifica
certamente una differente classificazione
urbanistica delle stesse, anche in
conseguenza della disomogeneità degli
interventi da effettuarsi nei vari comparti
edificatori e in ragione della loro
consistenza.
Pertanto, in assenza di omogeneità delle
zone poste in comparazione, affatto
dimostrata nel presente giudizio, non è
possibile invocare pretese finalizzate ad
ottenere una parità di trattamento, tanto
meno in relazione all’assetto urbanistico
del territorio, dove l’Amministrazione
dispone della più ampia discrezionalità.
Le scelte di pianificazione territoriale, in
quanto espressione di tale ampia
discrezionalità, sono sindacabili dal
giudice amministrativo entro limiti alquanto
ristretti: a tale riguardo le scelte
urbanistiche compiute dalle autorità
preposte alla pianificazione territoriale
costituiscono scelte di merito, che non
possono essere sindacate dal giudice
amministrativo salvo che non siano inficiate
da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste
ovvero da travisamento dei fatti in ordine
alle esigenze che si intendono nel concreto
soddisfare, con la conseguenza che non è
configurabile il vizio di eccesso di potere
per disparità di trattamento basata sulla
comparazione con la destinazione impressa
agli immobili adiacenti (TAR Lombardia,
Milano, II, 27.02.2018, n. 567; 30.03.2017,
n. 761; 09.04.2015, n. 903; si veda pure
Consiglio di Stato, IV, 16.01.2012, n. 119)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 122 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Procedimento
di approvazione del PGT.
La previsione
dell’inefficacia degli atti assunti è
collocata incidentalmente nel testo
dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, il quale prevede
che “entro novanta giorni dalla scadenza del
termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli
atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni”;
Ciò consente di riferire la sanzione
dell’inefficacia all’inosservanza non del
termine di novanta giorni, previsto nella
prima parte della disposizione, ma alla
violazione dell’obbligo, stabilito nella
seconda parte della previsione normativa, di
decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del P.G.T. le conseguenti
modificazioni
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.01.2019 n. 122 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
In realtà, a
prescindere dalla possibilità o meno per una
deliberazione della Giunta regionale di
poter modificare un termine previsto dalla
legge, va richiamato l’univoco orientamento
della Sezione, secondo il quale il termine
per l’approvazione del P.G.T. stabilito
dall’articolo 13, comma 7 (e 7-bis), della
legge regionale n. 12 del 2005 ha carattere
ordinatorio e non perentorio e che,
conseguentemente, il superamento di tale
scadenza non determina il venir meno degli
atti della procedura pianificatoria (TAR
Lombardia, Milano, II, 30.03.2017, n. 761;
26.05.2016, n. 1097; 15.09.2015, n. 1975;
22.07.2015, n. 1764; 24.04.2015, n. 1032;
19.11.2014, n. 2765; 11.01.2013, n. 86;
20.12.2010, n. 7614; 10.12.2010, n. 7508).
La Sezione ha, invero, rilevato che della
disposizione di legge regionale sopra
richiamata deve darsi necessariamente
un’interpretazione costituzionalmente
orientata, volta a garantire l’osservanza
dei principi di ragionevolezza,
proporzionalità e buon andamento della
pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 della
Costituzione), nonché ad assicurare
l’esigenza che la legge regionale si attenga
ai principi fondamentali desumibili dalla
legge statale (articolo 117, terzo comma,
della Costituzione), la quale stabilisce
l’efficacia a tempo indeterminato della
delibera di adozione del piano, fissando
unicamente i termini di efficacia delle
correlate misure di salvaguardia, peraltro
di durata pluriennale (art. 12 del D.P.R. n.
380 del 2001).
Pertanto, tra le possibili interpretazioni,
consentite dal tenore letterale della
previsione normativa, deve privilegiarsi
quella che attribuisce al termine per
l’approvazione finale del piano natura
ordinatoria, ponendo la sanzione
dell’inefficacia in correlazione con la
mancata valutazione delle osservazioni
pervenute.
In particolare, la soluzione interpretativa
cui la Sezione ha aderito, e che va in
questa sede ribadita, ha evidenziato che la
previsione dell’inefficacia degli atti
assunti è collocata incidentalmente nel
testo dell’articolo 13, comma 7, della legge
regionale n. 12 del 2005, il quale prevede
che “entro novanta giorni dalla scadenza
del termine per la presentazione delle
osservazioni, a pena di inefficacia degli
atti assunti, il consiglio comunale decide
sulle stesse, apportando agli atti di PGT le
modificazioni conseguenti all’eventuale
accoglimento delle osservazioni”.
Ciò consente di riferire la sanzione
dell’inefficacia all’inosservanza non del
termine di novanta giorni, previsto nella
prima parte della disposizione, ma alla
violazione dell’obbligo, stabilito nella
seconda parte della previsione normativa, di
decidere sulle osservazioni e di apportare
agli atti del P.G.T. le conseguenti
modificazioni (cfr. Consiglio di Stato, IV,
10.02.2017, n. 572; TAR Lombardia, Milano,
II, 10.12.2018, n. 2761; 30.03.2017, n. 761;
26.05.2016, n. 1097). |
EDILIZIA PRIVATA:
Di nuovo alla Corte costituzionale la questione dell’azione
esperibile dal terzo leso dalla SCIA.
Il Tar per l’Emilia Romagna, dopo aver riqualificato la
domanda di annullamento della SCIA in azione di accertamento
ex art. 31 c.p.a., dichiara rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, in relazione
agli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., sotto il profilo
dell’irragionevole limitazione del diritto alla tutela
giurisdizionale, in quanto i ricorrenti in un giudizio
amministrativo, portatori di un interesse legittimo
pretensivo, paiono subire una discriminatoria compressione
delle facoltà giurisdizionali ordinariamente offerte loro
dal codice del processo amministrativo.
---------------
Atto amministrativo – SCIA – Denuncia del terzo – Termine
– Assenza – Questione non manifestamente infonda di
costituzionalità.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241 del 1990, in
relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione,
nella parte in cui prevede che la segnalazione certificata
di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio
attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente
impugnabili limitando la tutela degli interessati alla mera
sollecitazione dei poteri di verifica spettanti
all'amministrazione e, in caso di inerzia, ad esperire
esclusivamente l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104.
---------------
(1) I. – Con la sentenza non definitiva in rassegna, il Tar per
l’Emilia Romagna ha dichiarato rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del
1990, in tema di SCIA, sotto il profilo della irragionevole
limitazione del diritto alla tutela giurisdizionale del
terzo controinteressato, in quanto il ricorrente in un
giudizio amministrativo, portatore di un interesse legittimo
pretensivo, sembra subire una compressione discriminatoria
delle facoltà giurisdizionali ordinariamente offerte in suo
favore dal codice del processo amministrativo.
II. – Il Collegio, riqualificando la domanda di annullamento della
SCIA proposta da parte ricorrente in azione di accertamento
ex art. 31 c.p.a. e dichiarando rilevante e non
manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter della l. n. 241 del
1990, in relazione agli artt. 3, 24, 103 e 113 della
Costituzione, ha, tra l’altro, osservato che:
a) le SCIA edilizie:
a1) sono equiparate dalla legge
ad atti di iniziativa privata e non ad atti costitutivi, in
quanto confluenti nel silenzio serbato su di essi
dall’amministrazione, di corrispondenti provvedimenti
autorizzatori impliciti;
a2) non sono pertanto provvedimenti di cui è possibile
ottenere l’annullamento;
a3) la domanda di annullamento eventualmente proposta è da
considerarsi inammissibile in quanto si tratta di atto
oggettivamente e soggettivamente privato e la sua non
impugnabilità diretta è stata espressamente prevista dal
legislatore che, con l’art. 19, comma 6-ter, della l. n. 241
del 1990, ha stabilito che la SCIA e, in generale, le
dichiarazioni di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti;
b) la domanda di annullamento delle SCIA edilizie
deve, quindi, essere riqualificata in domanda di
accertamento e può essere accertata la fondatezza della
pretesa dei ricorrenti, seppur entro i limiti previsti
dall’art. 31, comma 3, c.p.a., in relazione all’inerzia
dell’amministrazione che non si è attivata al fine di
verificare la conformità dello stato di fatto dichiarato
rispetto a quello originariamente esistente e, quindi, per
attivare i poteri ad essa riconosciuti dalla legge;
c) nel caso di specie, vi è stata violazione
dell’art. 80 del RUE vigente all’epoca della presentazione
della SCIA, in quanto il recupero a fini abitativi del
sottotetto esistente risulta avvenuto tramite illegittima
modificazione in aumento sia dell’altezza di gronda che
dell’altezza di colmo;
d) accertata l’illegittimità dell’inerzia del
Comune, occorre determinare il contenuto concreto
dell’obbligo posto a carico dell’amministrazione a seguito
dell’effetto conformativo derivante dalla sentenza e, in
particolare, se l’accertamento giudiziale compiuto:
d1) costringa l’amministrazione resistente a rimuovere gli
eventuali effetti dannosi dell’attività edilizia
illegittimamente intrapresa oppure;
d2) le imponga l’obbligo di adottare i provvedimenti
previsti dall’art. 19, comma 3, l. n. 241 del 1990 solo in
presenza delle condizioni previste dall’art. 21-nonies della
legge sul procedimento amministrativo;
e) il dato normativo depone nel secondo senso:
e1) il collegio non può accertare anche la fondatezza della
pretesa fatta valere in giudizio dai ricorrenti, nel senso
di conformare la successiva attività dell’amministrazione ad
un obbligo ineludibile di rimozione degli eventuali effetti
dannosi derivati dall’attività edilizia intrapresa, poiché
risulta, ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.p.a. che
residuano ulteriori margini di discrezionalità esercitabili
dal Comune;
e2) decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di
cui al comma 3, primo periodo, come individuato dal comma
6-bis dell’art. 19 della l. n. 241 del 1990,
l’amministrazione deve adottare i provvedimenti volti alla
rimozione degli effetti dannosi soltanto in presenza delle
condizioni previste dall’art. 21-nonies della medesima legge
per procedere all’annullamento di ufficio;
e3) il diverso orientamento che ritiene attivabile il potere
inibitorio anziché quello di autotutela non ha un fondamento
normativo testuale e deve ricorrere ad alcune forzature
interpretative per delineare il complessivo regime
impugnatorio di cui dispone il terzo che solleciti il potere
inibitorio dell’amministrazione, una volta decorso il
termine entro il quale l’amministrazione stessa avrebbe
potuto intervenire senza essere costretta ad operare con i
limiti dell’autotutela;
f) di condividere le perplessità sollevate dal
Tar per la Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667
(in Urbanistica e appalti, 2017, 528, con note di DAPAS,
VIOLA, e in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 328, nonché
oggetto della
News Us, in data 16.05.2017, alla quale si rinvia
per ulteriori approfondimenti) che ha rimesso alla Corte
costituzionale il vaglio di legittimità dell’art. 19, comma
6-ter della l. n. 241 del 1990, per assenza di previsione
espressa di un termine entro il quale sollecitare il potere
inibitorio dell’amministrazione, in quanto:
f1) nessuna delle soluzioni proposte sul termine per
sollecitare il potere dell’amministrazione appare fondata su
di un adeguato riferimento normativo;
f2) la tesi secondo cui il termine concesso al
controinteressato è lo stesso che la norma assegna
all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio
ufficioso è inidonea in quanto il dies a quo di tale
termine coincide con il ricevimento della segnalazione da
parte dell’amministrazione, fase cui il terzo è del tutto
estraneo;
f3) la tesi che sostiene che la facoltà del
controinteressato di proporre l’istanza inibitoria è
soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni,
riprendendo il termine processuale di impugnazione, non è
condivisibile in quanto vi è diversità ontologica tra la
disciplina processuale e l’attività procedimentale;
f4) la tesi che richiama il termine annuale di cui all’art.
31, secondo comma, c.p.a. non è condivisibile in quanto,
anche in questo caso, si confonde un termine processuale con
un termine amministrativo;
g) con riferimento alla sollecitazione del potere
di verifica, non è condivisibile la tesi secondo cui si
tratterebbe dell’impulso dell’avvio di un procedimento
analogo a quello inibitorio di cui all’art. 19, comma 3, l.
n. 241 del 1990 in quanto:
g1) l’amministrazione beneficerebbe inammissibilmente di una
sorta di rimessione in termini rispetto al procedimento
attivato sulla base della segnalazione certificata, il cui
limite temporale entro il quale intervenire con il potere
repressivo è stato definitivamente superato;
g2) viene introdotto in via pretoria un correttivo normativo
per permettere al terzo controinteressato di sostituirsi
all’amministrazione, tramite l’utilizzo in via mediata di un
potere di azione non consentito al privato dall’ordinamento
in luogo dell’ordinario regime di impugnazione di un
provvedimento lesivo;
h) il dato normativo induce a ritenere che:
h1) la segnalazione certificata non è un provvedimento
amministrativo a formazione tacita e non dà luogo ad un
titolo costitutivo, ma costituisce un atto privato volto a
comunicare l’intenzione di intraprendere un’attività
direttamente ammessa dalla legge;
h2) si tratta di attività libera, sulla quale
l’amministrazione, in virtù dell’interesse tutelato,
conserva un potere di controllo più penetrante di quello
ordinariamente esercitato sulle libertà garantite ai
privati;
h3) con riferimento alla tutela dei terzi, l’assenza di un
provvedimento amministrativo, con il residuare di un mero
potere di controllo ex post da parte dell’ente pubblico,
condiziona espressamente la possibilità per i privati di
paralizzare l’attività di altri privati radicando una
controversia concernente l’esercizio o il mancato esercizio
del potere amministrativo, in aggiunta o in luogo degli
ordinari rimedi esperibili dinanzi al giudice ordinario a
tutela della proprietà o del possesso;
h4) secondo la ratio legis, le iniziative spettanti
ai terzi si riflettono sui poteri esercitabili
dall’amministrazione, nel senso che se entro trenta giorni
dal deposito della SCIA edilizia l’amministrazione non si è
attivata, i terzi hanno azione, entro i termini di
prescrizione ordinaria, per l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di verificare e manifestare tramite
provvedimento espresso la sussistenza o meno delle
condizioni previste dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del
1990, una volta che il giudice amministrativo abbia
accertato l’astratta fondatezza delle censure tecniche
avanzate dagli interessati. Ne deriverà l’adozione di un
provvedimento che neghi motivatamente la possibilità di
intervento in autotutela oppure l’adozione di un
provvedimento che ordini la rimozione degli effetti dannosi
dell’attività edilizia intrapresa o diversa sanzione
prevista dalle norme di settore;
i) il comma 6-ter dell’art. 19 della l. n. 241
del 1990 introduce per legge un’ipotesi di inerzia
sanzionabile della pubblica amministrazione, infatti:
i1) in base all’art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a., ai sensi
dei quali, negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha
interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere;
i2) con la citata disposizione il legislatore ha previsto un
caso di obbligatorietà della risposta pubblica rispetto alla
sollecitazione dei poteri di autotutela da parte del
privato;
j) l’obbligo di provvedere, una volta accertato,
determina un caso di obbligatorietà della risposta pubblica
rispetto alla sollecitazione dei poteri di autotutela da
parte del privato:
j1) pertanto, se è decorso, come nel caso di specie, alla
data della sollecitazione del potere di verifica da parte
del terzo, il termine entro il quale l’amministrazione
avrebbe potuto vietare la prosecuzione dell’attività
edilizia intrapresa e ordinare la rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa, l’accertamento dell’obbligo di
provvedere non può che costituire il presupposto per
l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di cui
all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990;
j2) il giudice non può quindi conformare l’amministrazione a
una specifica condotta né condannarla all’emissione di un
determinato provvedimento, dovendosi limitare ad accertare
la sussistenza dell’inerzia e la necessità di un riesame;
j3) l’azione proposta dai terzi non cambia natura qualunque
sia il termine entro il quale viene proposta, salvi gli
effetti della prescrizione, ma cambiano i poteri
successivamente esercitabili dall’amministrazione e i limiti
di esercizio del potere di accertamento giurisdizionale;
j4) una conferma della correttezza della ricostruzione è
data dalla circostanza che il legislatore abbia
espressamente riconosciuto ai terzi interessati
esclusivamente la possibilità di esperire l’azione di
accertamento con preclusione non solo dell’accesso
all’azione di annullamento, ma anche della possibilità di
proporre l’azione di condanna al rilascio di un
provvedimento ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. c),
c.p.a.;
j5) il nuovo sistema di tutela del terzo leso da una SCIA
edilizia illegittima è stato consapevolmente costruito nei
termini di una ridotta forza processuale del
controinteressato e non può essere interpretato in modo
diverso;
k) la soluzione ermeneutica descritta:
k1) ha il pregio di depotenziare i dubbi di
incostituzionalità con riferimento alla mancata previsione
di un termine decadenziale per l’esercizio del potere
sollecitatorio da parte del terzo, in quanto l’istanza
diretta ad attivare le verifiche non effettuate può avvenire
in ogni tempo dal deposito dalla SCIA, ma l’intervento
repressivo dell’amministrazione, ad eccezione degli abusi
edilizi più gravi sanzionati in via autonoma dall’art. 31
del d.p.r. n. 380 del 2001, e non legittimati dalla SCIA
deve sottostare a rigorosi limiti temporali e motivazionali
ai sensi dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; si
evita quindi che il privato che avvia un’attività edilizia
sottoposta a mera segnalazione certificata resti soggetto
per un tempo indeterminato e a priori indefinibile ad un
intervento repressivo dell’amministrazione;
k2) espone la disciplina dell’art. 19 della l. n. 241 del
1990 a un dubbio di costituzionalità nella misura in cui la
stessa risulta non idonea a tutelare in modo efficace la
sfera giuridica del terzo;
k3) comporta che il terzo ha l’onere, prima di agire in
giudizio, di presentare apposita istanza sollecitatoria alla
pubblica amministrazione, così subendo una procrastinazione
del momento dell’accesso alla tutela giurisdizionale e,
quindi, un’incisiva limitazione dell’effettività della
tutela giurisdizionale in violazione dei principi di cui
agli artt. 24, 103 e 113 Cost.;
k4) determina che l’istanza del privato è diretta ad
attivare, qualora siano già decorsi trenta giorni dall’invio
della segnalazione, non il potere inibitorio di natura
vincolata ma il potere di autotutela cui fa riferimento
l’art. 19, comma 4, della l. n. 41 del 1990, di carattere
ampiamente discrezionale in quanto postula la ponderazione
comparativa degli interessi in conflitto con precipuo
riferimento al riscontro di un interesse pubblico concreto e
attuale che non coincide con il ripristino della legalità
violata;
k5) comporta che il giudice amministrativo non può che
limitarsi a una mera declaratoria dell’obbligo di provvedere
senza poter predeterminare il contenuto del provvedimento da
adottare, con conseguente compressione dell’interesse del
terzo a ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento
di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario
puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione
aleatoria dell’esercizio del potere discrezionale;
l) ne consegue che non è manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma
6-ter, della l. n. 241 del 1990, per violazione degli artt.
3, 24, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui
consente ai terzi lesi dalla SCIA edilizia illegittima di
esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1
e 2, c.p.a., solo dopo aver sollecitato l’esercizio delle
verifiche spettanti all’amministrazione, in quanto:
l1) per una tutela piena ed effettiva della loro posizione
giuridica i terzi interessati dovrebbero avere la
possibilità di attivare gli ordinari rimedi giurisdizionali
azionabili avverso le iniziative illecite altrui, qualunque
sia la modalità di acquisizione del titolo legittimante,
senza essere costretti a dover richiedere, prima di agire,
l’intermediazione dell’autorità pubblica e senza essere
soggetti, dopo aver agito in giudizio, per il mero decorso
del tempo concesso all’amministrazione per attivare il
potere inibitorio, ai limiti di tutela giurisdizionale
derivanti dall’intermediazione aleatoria dell’esercizio del
potere discrezionale;
l2) il legislatore del 2011 ha consapevolmente precluso al
terzo interessato l’unica possibilità di intervenire,
tramite declaratoria giudiziale di illegittimità, sulla
conclusione negativa del procedimento di controllo dei
presupposti avviato dall’amministrazione a seguito della
segnalazione certificata;
l3) tale possibilità era stata enucleata dall’Adunanza
plenaria del Consiglio di Stato al fine di non esporre il
sistema a profili di incostituzionalità, mediante
l’assimilazione ad un provvedimento negativo per
silentium della condotta di inerzia mantenuta
dall’amministrazione allo spirare del termine previsto dalla
legge per l’esercizio del potere inibitorio;
l4) la modifica legislativa ha, da un lato, impedito al
terzo la possibilità di esperire un’azione di natura
impugnatoria o di condanna, dall’altro, mediante il richiamo
espresso di tutti e tre tali commi, ha limitato la
possibilità del giudice di accertare la fondatezza della
pretesa ai soli casi di attività vincolata;
l5) quando il termine per l’esercizio del potere inibitorio
è decorso, l’obbligo accertabile in capo all’amministrazione
è solo quello previsto dal comma 4 dell’art. 19 della l. n.
241 del 1990, con la conseguenza che il giudice adito non
può predeterminare il contenuto del successivo provvedimento
dell’amministrazione, con indubbia e inevitabile lesione del
diritto del terzo a una piena ed effettiva tutela
giurisdizionale;
l6) il legislatore ha congegnato un sistema tale da
comprimere in giudizio l’esplicazione di tutte le facoltà
giurisdizionali normalmente connesse alla posizione
soggettiva di interesse legittimo pretensivo del soggetto
leso da un comportamento illegittimo dell’amministrazione,
escludendo la possibilità, tramite il rinvio ad un
successivo esercizio del potere discrezionale, che la
violazione di tale interesse legittimo ottenga un’efficace e
satisfattiva riparazione già dinanzi al giudice adito.
III. – Per completezza si segnala:
m) Tar per la Toscana, sez. III, 11.05.2017, n.
667 (cit.), secondo cui:
m1) “è rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma
6-ter, l. n. 241/1990, nella parte in cui non prevede un
termine per la sollecitazione da parte del terzo delle
verifiche sulla SCIA, per contrasto con gli artt. 3, 11, 97,
117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo
addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del
Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost.”;
m2) l’art. 19, comma 6-ter, della legge n. 241 del 1990,
secondo cui la tutela del terzo a fronte della SCIA è
realizzabile esclusivamente attraverso lo strumento del
ricorso per silenzio-rifiuto di cui all’art. 31 c.p.a.
avverso l’eventuale inerzia serbata dall’Amministrazione, è
sospettato di incostituzionalità nella parte in cui,
rispetto alla mancata risposta dell’amministrazione alla
sollecitazione del potere di controllo, omette di fissare un
termine perentorio entro il quale il terzo possa avanzare
l’istanza di sollecitazione; in assenza di tale termine la
norma pare ammettere una sollecitazione del potere di
verifica della SCIA da parte del terzo sine die;
m3) la mancata fissazione di un termine per la
sollecitazione da parte del terzo delle verifiche
amministrative viola la necessaria tutela dell’affidamento
del segnalato, tutela che viene inquadrata quale principio
cardine dell’attività amministrativa in tutti i settori
dell’intervento pubblico;
m4) la norma contrasta con i principi di ragionevolezza e
buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost., in quanto il
disegnato modello procedimentale impone all’amministrazione,
quale che sia il momento in cui sopravviene l’istanza del
controinteressato, di rivedere la posizione assunta in
precedenza (in sede di verifica ufficiosa) circa la
legittimità dell’iniziativa segnalata; in proposito si
richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui la
fissazione di precisi limiti temporali entro cui devono
essere adottati i provvedimenti definitivi costituisce «applicazione
generale…, sia pure non esaustiva, del principio
costituzionale di buon andamento dell'amministrazione negli
obiettivi di tempestività, pubblicità, partecipazione
dell'azione amministrativa, quali valori essenziali in un
ordinamento democratico» (cfr. ad es. Corte cost.
23.07.1997, n. 262, in Urbanistica e appalti 1998, 27 con
nota di MEZZABARBA; 16.04.2013, n. 70, in Giurisprudenza
Costituzionale 2013, 2, 1057 con nota di RESCIGNO);
m5) la norma viola il principio di ragionevolezza della
scelta legislativa di non prevedere alcun limite temporale
alla possibilità che il terzo solleciti il potere inibitorio
dell’amministrazione, in quanto si omette di disciplinare un
elemento indispensabile alla tenuta complessiva del
meccanismo semplificatorio introdotto dal legislatore e da
quest’ultimo ascritto ai livelli essenziali delle
prestazioni garantite su scala nazionale;
n) sulla decorrenza del termine per impugnare il
silenzio dell’Amministrazione, cfr., tra le altre, Cons.
Stato, sez. VI, 03.11.2016, n. 4610 (in Foro it., 2017, III,
143, con nota di MIRRA, in Giur. it., 2017, 737, con nota di
NICODEMO, in Foro amm., 2016, 2661, e in Riv. giur.
edilizia, 2016, I, 733), secondo cui “In relazione al
tempo, non è perfettamente adattabile lo schema dell'azione
avverso il silenzio-inadempimento a quella proposta dal
terzo nell'ambito della SCIA. L'art. 31 cod. proc. amm.
prevede, infatti, che l'azione si propone entro il termine
di un anno dalla conclusione del procedimento. Ma in questo
caso il ricorrente, essendo titolare dell'interesse
legittimo pretensivo all'adozione di un provvedimento
favorevole che ha attivato con la sua istanza, è a
conoscenza del momento in cui il procedimento si deve
concludere e, conseguentemente, di quando inizia a decorrere
il termine di un anno. Nel caso della SCIA, invece, il terzo
è titolare di un interesse legittimo pretensivo all'adozione
di atti sfavorevoli per il destinatario dell'azione
amministrativa. Non è, pertanto, a conoscenza «diretta»
dell'andamento procedimentale della vicenda. Ne consegue che
il termine decorre da quando il terzo ha avuto piena
conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio
nella sua sfera giuridica”;
o) sulla individuazione degli elementi
costitutivi della segnalazione del terzo avverso la SCIA,
cfr. Cons. Stato, sez. IV, 14.02.2017, n. 625, secondo cui “la
segnalazione ex art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990 n. 241
deve contenere elementi minimali di identificazione e
qualificazione dell'attività della quale si chiede la
verifica, in assenza dei quali l'Amministrazione non
soltanto non è obbligata ma non dispone neppure degli
elementi conoscitivi essenziali per svolgere le proprie
verifiche e emanare un provvedimento”;
p) sulla natura degli strumenti di
semplificazione, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.04.2017, n.
1967, secondo cui “la giurisprudenza del Consiglio di
Stato, anche in epoca anteriore alla modifica legislativa di
cui all'art. 19, comma 6-ter della legge n. 241/1990, ha
ritenuto inammissibile una domanda di annullamento di una
DIA, atto che ha natura oggettivamente e soggettivamente
privata (cfr. Cons. St., sez. IV, 13.05.2010, n. 2919;
12.03.2009, n. 1474; 19.09.2008, n. 4513); … è evidente la
naturale portata retroattiva della norma sancita dal più
volte menzionato art. 19, comma 6-ter”;
q) sulla natura dei termini del procedimento
amministrativo si vedano:
q1)
Cons. Stato, Ad. plen., 04.05.2018, n. 5 (in Foro
it., 2018, III, 453, con nota di MIRRA, in Giur. it., 2018,
1983, con nota di COMPORTI, e in Vita not., 2018, 706,
nonché oggetto della
News US, in data 09.05.2018, alla quale si rinvia
per ulteriori approfondimenti), secondo cui, tra l’altro:
l’art. 2-bis, comma 1, della legge n. 241 del 1990,
superando per tabulas il diverso orientamento in
passato espresso dalla sentenza dell’Adunanza plenaria
15.09.2005, n. 7 (in Foro it., 2006, III, 1, n. SIGISMONDI,
in Foro amm.-Cons. Stato, 2005, 2519, in Urbanistica e
appalti, 2006, 61, con nota di CLARICH, FONDERICO, in Riv.
corte conti, 2005, fasc. 5, 183, in Giur. it., 2006, 1060,
in Riv. corte conti, 2005, fasc. 6, 321, in Riv. amm., 2005,
1014, in Danno e resp., 2006, 903, con nota di COVUCCI, in
Giust. civ., 2006, I, 1319, con nota di MICARI, in Rass.
dir. farmaceutico, 2006, 287, in Riv. giur. edilizia, 2005,
I, 1524, e in Rass. avv. Stato, 2005, fasc. 4, 193, con nota
di BALDANZA), ha introdotto la risarcibilità (anche) del
c.d. danno da mero ritardo che è fattispecie di danno da
comportamento, non da provvedimento; la violazione del
termine di conclusione sul procedimento di per sé non
determina, infatti, l’invalidità del provvedimento adottato
in ritardo (tranne i casi eccezionali e tipici di termini “perentori”),
ma rappresenta un comportamento scorretto
dell’amministrazione, comportamento che genera incertezza e,
dunque, interferisce illecitamente sulla libertà negoziale
del privato, ledendo il diritto soggettivo di
autodeterminazione negoziale, eventualmente arrecandogli
ingiusti danni patrimoniali, fermo restando l’onere del
privato di fornire la prova, oltre che del ritardo e
dell’elemento soggettivo, del rapporto di causalità
esistente tra la violazione del termine del procedimento e
il compimento di scelte negoziali pregiudizievoli che non
avrebbe altrimenti posto in essere; “nell’ambito del
procedimento di evidenza pubblica, i doveri di correttezza e
buona fede sussistono, anche prima e a prescindere
dell’aggiudicazione, nell’ambito in tutte le fasi della
procedura ad evidenza pubblica, con conseguente possibilità
di configurare una responsabilità precontrattuale da
comportamento scorretto nonostante la legittimità dei
singoli provvedimenti che scandiscono il procedimento”;
q2) circa la inidoneità della violazione dei termini del
procedimento, salvo i casi eccezionali e tipici di termini
perentori previsti dalla legge, a determinare ex se
la illegittimità del provvedimento si veda Cons. Stato, Ad.
plen., 25.02.2014, n. 10 (in Foro it., 2014, III, 213, in
Giurisdiz. amm., 2013, ant., 640, in Giur. it., 2014, 1179,
con nota di GNES, in Urbanistica e appalti, 2014, 830, con
nota di FOÀ, in Dir. E pratica amm., 2014, fasc. 6, 65, con
nota di D'INCECCO BAYARD DE VOLO, in Nuovo notiziario giur.,
2015, 153) e Cons. Stato, sez. IV, 16.11.2011, n. 6051 (in
Foro it., 2012, III, 636);
q3) a tal proposito in materia di violazione del termine per
la stipula del contratto Cons. Stato sez. V, 31.08.2016, n.
3742, ha affermato che “Il termine di sessanta giorni dal
momento in cui diviene definitiva l'aggiudicazione
dell'appalto, fissato dall'art. 11 comma 9, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 per la stipula del contratto, non ha
natura perentoria, né alla sua inosservanza può farsi
risalire ex se un'ipotesi di responsabilità precontrattuale
ex lege della Pubblica amministrazione, se non in costanza
di tutti gli elementi necessari per la sua configurabilità;
infatti le conseguenze che derivano in via diretta
dall'inutile decorso di detto termine, sono, da un lato, la
facoltà dell'aggiudicatario, mediante atto notificato alla
stazione appaltante, di sciogliersi da ogni vincolo o
recedere dal contratto; dall'altro, il diritto al rimborso
delle spese contrattuali documentate, senza alcun indennizzo”
(cfr. di recente nello stesso senso Cons. Stato, sez. III,
26.03.2018 n. 1882; Tar per il Lazio–Roma, sez. III,
16.12.2016, n. 12544);
r) sulla impossibilità di ammettere impugnativa
diretta della SCIA e della DIA e di configurare un
provvedimento silenzioso della pubblica amministrazione, per
un’ampia ricostruzione si vedano:
r1) Cons. Stato, sez. IV, 05.07.2017, n. 3281 (in Foro amm.,
2017, 1539), secondo cui, tra l’altro: “In materia di dia
(dichiarazione d'inizio attività) e di SCIA (segnalazione
certificata d'inizio attività) non è configurabile né la
formazione di un provvedimento silenzioso ad opera
dell'amministrazione né, conseguentemente, l'impugnativa
diretta di atti schiettamente privatistici”; “sottoposti
a denuncia di inizio di attività sono gli interventi di
ristrutturazione edilizia, ossia quelli rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente; tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti;
tali interventi comprendono altresì le addizioni funzionali
di nuovi elementi agli organismi edilizi esistenti, che non
configurino nuovi organismi edilizi, ivi comprese le
pertinenze; non sono invece computate, ai fini
dell'applicazione degli indici di fabbricabilità fondiaria e
territoriale, le addizioni con le quali si realizzino i
servizi igienici, i volumi tecnici e le autorimesse legate
da vincolo pertinenziale ad unità immobiliari esistenti
all'interno dei perimetri dei centri abitati, nonché il
rialzamento del sottotetto, al fine di renderlo abitabile”;
r2) Cons. Stato, sez. IV, 09.05.2017, n. 2120, secondo cui,
tra l’altro “in funzione della disciplina di cui all’art.
19 della legge n. 241/1990 applicabile ratione temporis deve
rammentarsi che il comma 3, nel testo vigente al momento
dell’emanazione della determinazione dirigenziale, stabiliva
(non a caso richiamando le pertinenti disposizioni del t.u.
n. 445 del 2000 fra cui in particolare l’art. 75), che
l’amministrazione “…, può sempre e in ogni tempo adottare i
provvedimenti di cui al primo periodo…”, ossia i “motivati
provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di
rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa” in
caso di dichiarazioni sostitutive di certificazione e
dell'atto di notorietà false o mendaci;
s) sulla SCIA e DIA come aspetti centrali della
semplificazione burocratica da considerarsi un LEA, si veda
Corte cost., 09.05.2014, n. 121 (in Foro it., 2014, I, 2703,
in Giur. costit., 2014, 2118, e in Riv. giur. edilizia,
2014, I, 733), secondo cui:
s1) “è infondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 49, comma 4-ter, d.l. 31.05.2010 n.
78, conv., con modif., dall'art. 1, 1º comma, l. 30.07.2010
n. 122, nella parte in cui qualifica la disciplina sulla
«segnalazione certificata di inizio attività» (SCIA), come
attinente alla tutela della concorrenza, ai sensi dell'art.
117, 2º comma, lett. e), cost., ne ribadisce la
qualificazione come livello essenziale delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, ai sensi dell'art.
117, 2º comma, lett. m), cost., e dispone che la disciplina
sulla SCIA sostituisca direttamente, dalla data di entrata
in vigore della legge di conversione del d.l. 31.05.2010 n.
78, quella della «dichiarazione di inizio attività» (dia),
recata da ogni normativa statale e regionale, in riferimento
all'art. 8, 1º comma, n. 5, e all'art. 9 dello statuto
speciale per il Trentino-Alto Adige, nonché all'art. 2
d.lgs. 16.03.1992 n. 266”;
s2) la sostituzione della DIA con la SCIA disposta dal
legislatore statale non arreca un vulnus alle competenze
dalla provincia autonoma di Bolzano;
s3) l’affidamento in via esclusiva alla competenza
legislativa statale della determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni è previsto in relazione ai
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale e si collega al fondamentale
principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. In questo
quadro, si deve ricordare che l’attribuzione allo Stato
della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata
disposizione costituzionale si riferisce alla determinazione
degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che,
concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali,
devono essere garantiti, con carattere di generalità, a
tutti gli aventi diritto;
s4) il titolo di legittimazione dell’intervento statale è
invocabile in relazione a specifiche prestazioni delle quali
la normativa statale definisca il livello essenziale di
erogazione e con esso è stato attribuito al legislatore
statale un fondamentale strumento per garantire il
mantenimento di un’adeguata uniformità di trattamento sul
piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema
caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale
decisamente accresciuto. Si tratta non tanto di una materia
in senso stretto, quanto di una competenza del legislatore
statale idonea ad investire tutte le materie, in relazione
alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme
necessarie per assicurare in modo generalizzato sull’intero
territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite,
come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la
legislazione regionale possa limitarle o condizionarle;
s5) la disciplina della SCIA ben si presta ad essere
ricondotta al parametro di cui all’art. 117, 2° comma, lett.
m), Cost. “Tale parametro permette una restrizione
dell’autonomia legislativa delle regioni, giustificata dallo
scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei
diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione”;
t) per una recente ricostruzione e casistica
dell’autotutela ai sensi dell’art. 21-nonies l. n. 241 del
1990 e fattispecie speciali si vedano:
t1) Cons. Stato, sez. IV, 18.07.2018, n. 4374 (in Foro it.,
2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “in
ossequio al principio generale di ordinaria irretroattività
della legge, il termine di diciotto mesi per l'esercizio del
potere di annullamento d'ufficio, introdotto, nell'art.
21-nonies l. 241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, non
si applica ai provvedimenti di annullamento d'ufficio
adottati prima dell'entrata in vigore di tale legge
(28.08.2015)”; “la falsa rappresentazione dei fatti
da parte del privato (configurabile anche in presenza del
solo silenzio su circostanze rilevanti) comporta
l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per
l'annullamento d'ufficio introdotto, nell'art. 21-nonies l.
241/1990, dall'art. 6 l. 07.08.2015 n. 124, e perciò senza
neppure richiedere alcun accertamento processuale penale”;
“il termine «ragionevole» per l'esercizio del potere di
annullamento d'ufficio decorre soltanto dal momento in cui
l'amministrazione sia venuta concretamente a conoscenza dei
profili di illegittimità dell'atto”; “nel caso di
illegittimità del provvedimento determinata dalla non
veritiera prospettazione da parte del privato di circostanze
di fatto o di diritto, la motivazione dell'annullamento
d'ufficio è soddisfatta dal documentato richiamo alla non
veritiera prospettazione di parte”;
t2) Cons. Stato, sez. V, 27.06.2018, n. 3940 (in Foro it.,
2018, III, 492, con nota di SPUNTARELLI), secondo cui: “le
modifiche inserite nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art.
6 l. 07.08.2015 n. 124, e che hanno comportato
l'introduzione di un termine per l'annullamento d'ufficio,
vanno interpretate considerando che un'aspettativa
meritevole di tutela rispetto all'esercizio del potere di
annullamento d'ufficio non è configurabile quando
l'amministrazione sia stata indotta in errore da un
comportamento doloso del privato”; “le modifiche
introdotte nell'art. 21-nonies l. 241/1990 dall'art. 6 l.
07.08.2015 n. 124 vanno interpretate nel senso che la falsa
rappresentazione dei fatti da parte del privato comporta
l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per
l'annullamento d'ufficio introdotto, senza la necessità di
alcun accertamento processuale penale”; “la falsa
rappresentazione dei fatti da parte del privato, che
comporta l'inapplicabilità del termine di diciotto mesi per
l'annullamento d'ufficio, si configura quando l'erroneità
dei presupposti del provvedimento non sia imputabile
(neppure a titolo di colpa concorrente) all'amministrazione,
ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla
colpa grave) del privato (la sentenza precisa che in tal
caso, non essendo applicabile un termine perentorio,
l'amministrazione dovrà esclusivamente applicare un canone
di ragionevolezza)”;
t3)
Cons. Stato, Ad. plen., 17.10.2017, n. 8 (in Foro
it., 2018, III, 6, in Foro amm., 2017, 1980, in Giornale
dir. amm., 2018, 67 (m), con nota di TRIMARCHI, e in
Urbanistica e appalti, 2018, 45, con nota di MANFREDI,
nonché oggetto della
News Us in data 23.10.2017, alla quale si rinvia
per ulteriori approfondimenti), secondo cui: “nella
vigenza dell'art. 21-nonies l. 241/1990, nel testo
introdotto dalla l. 15/2005, l'annullamento d'ufficio di un
titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una distanza
temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve
essere motivato in relazione alla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale all'adozione dell'atto
di ritiro, anche tenuto conto degli interessi dei privati
destinatari del provvedimento sfavorevole”; “ai fini
dell'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio in
sanatoria, intervenuto ad una distanza temporale
considerevole dal provvedimento annullato, il mero decorso
del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione
dell'annullamento d'ufficio e, in ogni caso, il termine
«ragionevole» per la sua adozione decorre soltanto dal
momento della scoperta, da parte dell'amministrazione, dei
fatti e delle circostanze posti a fondamento dell'atto di
ritiro; l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulta attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza
degli interessi pubblici tutelati; la non veritiera
prospettazione da parte del privato delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell'atto illegittimo
a lui favorevole non consente di configurare in capo a lui
una posizione di affidamento legittimo, con la conseguenza
per cui l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
può dirsi soddisfatto attraverso il documentato richiamo
alla non veritiera prospettazione di parte”; “nella
vigenza dell'art. 27-nonies l. 241 del 1990 -per come
introdotto dalla l. n. 15 del 2005- l'annullamento d'ufficio
di un titolo edilizio in sanatoria, intervenuto ad una
distanza temporale considerevole dal provvedimento
annullato, deve essere motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale
all'adozione dell'atto di ritiro anche tenuto conto degli
interessi dei privati destinatari del provvedimento
sfavorevole; in tali ipotesi, tuttavia, deve ritenersi:
i) che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consumi il
potere di adozione dell'annullamento d'ufficio e che, in
ogni caso, il termine «ragionevole» per la sua adozione
decorra soltanto dal momento della scoperta, da parte
dell'amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a
fondamento dell'atto di ritiro;
ii) che l'onere motivazionale gravante sull'amministrazione
risulterà attenuato in ragione della rilevanza e
autoevidenza degli interessi pubblici tutelati (al punto
che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere
soddisfatto attraverso il
richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio
alle disposizioni di tutela che risultano in concreto
violate, che normalmente possano integrare, ove necessario,
le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso
dell'esercizio del ius poenitendi);
iii) che la non veritiera prospettazione da parte del privato delle
circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento
dell'atto illegittimo a lui favorevole non consente di
configurare in capo a lui una posizione di affidamento
legittimo, con la conseguenza per cui l'onere motivazionale
gravante sull'amministrazione potrà dirsi soddisfatto
attraverso il documentato richiamo alla non veritiera
prospettazione di parte”;
u) per la natura giuridica e gli strumenti di
tutela dei terzi in caso di DIA anteriormente all’intervento
del legislatore del 2011 si veda Cons. Stato, Ad. plen.,
29.07.2011, n. 15 (in Foro it., 2011, III, 501, con nota di
TRAVI, in Urbanistica e appalti, 2011, 1185, con nota di
LAMBERTI, in Guida al dir., 2011, fasc. 37, 93 (m), con nota
di TOSCHEI, in Riv. giur. edilizia, 2011, I, 513, con nota
di SANDULLI, in Giurisdiz. amm., 2011, I, 1063, con nota di
ANCORA, in Foro amm.-Cons. Stato, 2011, 2309, in Giur. it.,
2012, 934 (m), con nota di BOSCOLO, in Giur. it., 2012, 433
(m), con nota di MERUSI, in Dir. proc. amm., 2012, 171, con
nota di FERRARA, BERTONAZZI, in Giornale dir. amm., 2012,
153 (m), con nota di GIARDINO, e in Giust. civ., 2012, I,
1357, con nota di COLALEO) secondo cui: “la denuncia di
inizio attività (analogamente alla dichiarazione di inizio
attività e alla segnalazione certificata di inizio attività)
costituisce un atto privato; il silenzio mantenuto
dall'amministrazione che avrebbe dovuto inibire l'attività
del privato si configura come un provvedimento tacito, nei
cui confronti il terzo può proporre azione di annullamento
nell'ordinario termine decadenziale e contestualmente azione
di adempimento per imporre l'adozione del provvedimento
inibitorio”; “ove la denuncia di inizio attività (o,
analogamente, la dichiarazione di inizio attività o la
segnalazione certificata di inizio attività) produca effetti
legittimanti prima della scadenza del termine per
l'esercizio del potere inibitorio, il terzo che si ritenga
leso può proporre avanti al giudice amministrativo un'azione
di accertamento, al fine di ottenere misure cautelari; una
volta decorso il termine per l'esercizio del potere
inibitorio, tale azione si converte automaticamente in
domanda di annullamento del provvedimento tacito negativo” (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza non definitiva 22.01.2019 n. 12 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale l’azione esperibile dal terzo leso
dalla Scia.
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Scia – Verifica – Richieste dal terzo – Art. 19, comma
6-ter, l. n. 241 del 1990 – Terzi lesi da Scia – Azioni
esperibili – Azione ex art. 31, commi 1, 2 e 3 c.p.a. –
Violazione artt. 3, 24, 103 e 113 Cost. - Rilevanza e non
manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, per
violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost., nella parte
in cui consente ai terzi lesi da una SCIA edilizia
illegittima di esperire “esclusivamente” l'azione di cui
all'art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a, e, ciò, soltanto dopo
aver sollecitato l'esercizio delle verifiche spettanti
all'amministrazione (1).
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(1)
Ha chiarito il Tar di condividere le perplessità espresse
dal
Tar Toscana, nell’ordinanza n. 667 del 2017, con
cui è stato rimesso alla Corte costituzionale il vaglio di
legittimità dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990,
per assenza di previsione espressa di un termine entro il
quale il terzo deve sollecitare il potere inibitorio
dell’amministrazione.
Ha aggiunto che però il problema non riguarda soltanto il
termine per sollecitare il potere dell'amministrazione, come
condivisibilmente rilevato dall'ordinanza appena citata, ma
anche il tipo di procedimento attivato dal terzo (ovvero le
cd. verifiche). Quanto al termine, non vi è nessuna
soluzione, tra quelle proposte dalla giurisprudenza che si è
occupata della questione, fondata su di un adeguato
riferimento normativo.
In particolare, sono da ritenersi non idonee a risolvere la
problematica de qua: la tesi secondo cui il termine concesso
al controinteressato per presentare l’istanza sollecitatoria
sarebbe lo stesso che la norma assegna all’amministrazione
per l’esercizio del potere inibitorio ufficioso, in quanto
il dies a quo di tale termine coincide con il “ricevimento
della segnalazione” da parte dell’amministrazione, fase
cui è del tutto estraneo il terzo; la tesi che sostiene che
la facoltà del controinteressato di proporre l’istanza
inibitoria ex art. 19 comma 6-ter sarebbe soggetta al
termine decadenziale di sessanta giorni (prendendo in
prestito il termine processuale di impugnazione), in quanto
vi è diversità ontologica tra la disciplina invocata
(termine per le proposizione di atto “processuale”) e
l’ambito di attività in esame (ricerca di termine per
attivazione del privato in sede “amministrativa”); la
tesi che richiama il termine annuale di cui all’art. 31,
comma 2, c.p.a., in quanto anche in questo caso si confonde
un termine processuale (quello dell’art. 31 c.p.a.) con un
termine amministrativo (quello per la sollecitazione delle
verifiche da parte della p.a.).
Quanto alla sollecitazione del potere di verifica, risulta
erronea, ad avviso del Tar, la tesi secondo cui si
tratterebbe dell'impulso all’avvio di un procedimento
analogo a quello inibitorio di cui all’art. 19, comma 3, l.
n. 241 del 1990, per due ordini di motivi.
Invero, da un lato, l'amministrazione beneficerebbe
inammissibilmente di una sorta di rimessione nei termini
rispetto al procedimento attivato sulla base della
segnalazione certificata, il cui limite temporale entro il
quale intervenire con il potere repressivo (trenta giorni) è
stato nel frattempo definitivamente superato.
Dall'altro, viene introdotto in via pretoria, seppure per
apprezzabili motivi, un correttivo normativo per permettere
al terzo controinteressato di sostituirsi
all'amministrazione, tramite l’utilizzo in via mediata di un
potere di azione non consentito al privato dall'ordinamento,
in luogo dell'ordinario regime di impugnazione di un
provvedimento lesivo.
La lettura del dato normativo testuale –e della ratio
legis ad esso sottesa– induce invece ad arrivare ad
altra ricostruzione del nuovo sistema di tutela del terzo
attualmente vigente in materia di SCIA edilizia.
Innanzitutto, è pacifico ormai, a seguito dell’intervento
esplicito del legislatore -che ha aderito alla tesi già in
precedenza sposata sul punto dall’Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato-, che la segnalazione certificata non è
un provvedimento amministrativo a formazione tacita e non dà
luogo in ogni caso ad un titolo costitutivo, ma costituisce
un atto privato volto a comunicare l’intenzione di
intraprendere un’attività direttamente ammessa dalla legge.
Si tratta sostanzialmente di attività libera, sulla quale
però l’amministrazione, in virtù dell’interesse tutelato,
conserva un potere di controllo più penetrante di quello
ordinariamente esercitato sulle libertà garantite ai
privati.
Risulta connaturata a tale nuova prospettazione giuridica
una correlativa rimodulazione della tutela dei terzi dinanzi
al Giudice amministrativo; l’assenza di un provvedimento
amministrativo, con il residuare di un mero potere di
controllo ex post da parte dell’ente pubblico,
condiziona espressamente la possibilità per i privati di
paralizzare l’attività di altri privati radicando una
controversia concernente l'esercizio o il mancato esercizio
del potere amministrativo, in aggiunta o in luogo degli
ordinari rimedi esperibili dinanzi al Giudice ordinario a
tutela della proprietà e del possesso.
Secondo la ratio legis, dunque, le iniziative
spettanti ai terzi interessati si riflettono interamente nei
poteri esercitabili dall’amministrazione: se entro trenta
giorni dal deposito della SCIA edilizia l’amministrazione
non si è attivata, i terzi hanno azione, entro i termini di
prescrizione ordinaria, per l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di verificare e manifestare (tramite
provvedimento espresso) la sussistenza o meno delle
condizioni previste dall’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990,
una volta che il Giudice amministrativo abbia accertato
l’astratta fondatezza delle censure tecniche avanzate dagli
interessati.
Ne deriverà, a seconda delle conclusioni raggiunte ad esito
della nuova verifica operata dall’amministrazione,
l’adozione di un provvedimento che neghi motivatamente la
possibilità di intervento in autotutela, oppure, al
contrario, l’adozione di un provvedimento che ordini la
rimozione degli effetti dannosi dell’attività edilizia
intrapresa o diversa sanzione prevista dalle norme di
settore.
Sotto altro profilo, il Tar osserva che la disposizione di
cui al comma 6-ter dell’art. 19, l. n. 241 del 1990
introduce per legge un’ipotesi di inerzia sanzionabile della
p.a., ai sensi dell'art. 31, commi 1, 2 e 3, c.p.a.; si
rientra cioè in uno degli "altri casi previsti dalla
legge”, in cui “chi vi ha interesse può chiedere
l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di
provvedere” (art. 31, comma 1, sopra citato).
E’ stato cioè previsto un caso di obbligatorietà della
risposta pubblica rispetto alla sollecitazione dei poteri di
autotutela da parte del privato.
L’obbligo di provvedere, peraltro, una volta accertato, non
può che portare ad un esercizio del potere conforme alle
norme che regolano tale esercizio.
Se, pertanto, come nel caso di specie, sia decorso, alla
data della sollecitazione del potere di verifica da parte
del terzo, il termine entro il quale l’amministrazione
avrebbe potuto vietare la prosecuzione dell’attività
edilizia intrapresa e ordinare la rimozione degli eventuali
effetti dannosi di essa, l’accertamento dell’obbligo di
provvedere non può che costituire il presupposto per
l’esercizio del potere di annullamento di ufficio di cui
all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990.
Correlativamente, il Giudice non può conformare
l’amministrazione ad una specifica condotta, né tanto meno
condannarla all’emissione di un determinato provvedimento,
dovendosi limitare ad accertare la sussistenza dell’inerzia
e la necessità di un riesame, alla luce di un vaglio
necessario e preliminare sulla fondatezza delle doglianze
esposte dall’interessato, e in applicazione, per espresso
rinvio legislativo, e seppure con i temperamenti del caso,
dei primi tre commi dell’art. 31 c.p.a..
In altri termini, l’azione proposta dai terzi non cambia
natura (azione di accertamento dell’obbligo di provvedere),
qualunque sia il termine entro il quale viene proposta, e
salvi gli effetti della prescrizione, ma a modificarsi sono
i poteri successivamente esercitabili dall’amministrazione,
e, prima ancora, i limiti di esercizio del potere di
accertamento giurisdizionale.
D’altra parte, significativa conferma della correttezza
della ricostruzione appena operata, è data proprio dalla
circostanza che il legislatore abbia espressamente
riconosciuto ai terzi interessati “esclusivamente” la
possibilità di esperire l’azione di accertamento, con
preclusione, dunque, non solo dell’accesso all’azione di
annullamento, ma anche della possibilità di proporre
l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento, ex
art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a..
Invero, se il procedimento attivato dal terzo leso da una
SCIA illegittima fosse sempre e solo quello inibitorio e non
quello di autotutela, sarebbe del tutto incomprensibile
l’eliminazione dallo strumentario processuale a disposizione
del ricorrente dell’unica azione che, una volta che non
residuino margini di discrezionalità in favore
dell’amministrazione procedente (come normalmente accade a
seguito di riconoscimento giudiziale della doverosità
dell’intervento repressivo), gli permetterebbe una tutela
piena ed immediata.
Sotto altro, concorrente profilo, non è seriamente
ipotizzabile uno scenario di tutela tanto asimmetrico da
configurare da un lato l’eliminazione di ogni
discrezionalità nella successiva esplicazione dei propri
poteri da parte dell’amministrazione (intendendo il richiamo
al comma 3 dell’art. 31 c.p.a. come limitato al potere
giudiziale di accertamento della fondatezza della pretesa,
sempre e comunque), e dall’altro l’impossibilità per il
ricorrente di ottenere anche una sentenza di condanna al
rilascio del provvedimento richiesto.
E’ evidente, invece, che il richiamo esplicito al terzo
comma dell’art. 31 c.p.a. costringe il Giudice ad
interrogarsi, prima di procedere all’accertamento o meno
della fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, su quali
sia la natura (discrezionale o vincolata) del potere ancora
esercitabile dall’amministrazione.
In definitiva, il nuovo sistema di tutela del terzo leso da
una SCIA edilizia illegittima è stato consapevolmente
costruito nei termini di una ridotta forza processuale del
controinteressato, e non può essere interpretato in modo
diverso, e costituzionalmente orientato, se non tramite
l'inammissibile costruzione pretoria di un regime
impugnatorio sprovvisto di base normativa.
Questa soluzione, peraltro:
- da un lato ha il pregio di depotenziare i dubbi di
incostituzionalità sollevati dal Tar Toscana con riferimento
alla mancata previsione di un termine decadenziale per
l’esercizio del potere sollecitatorio da parte del terzo
–contemporaneamente evitando all’interprete la necessità di
“forzare” altri dati normativi, previsti per differenti
fattispecie, al fine di individuare il suddetto termine-, in
quanto la sollecitazione “privata” delle verifiche
non effettuate può avvenire in ogni tempo dal deposito della
SCIA, ma l’intervento repressivo dell’amministrazione, ad
eccezione degli abusi edilizi più gravi, sanzionati in via
autonoma dall’art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001 (secondo
quanto condivisibilmente affermato dall’Adunanza plenaria n.
9 del Consiglio di Stato), e non legittimati dalla SCIA -la
cui portata effettuale deve intendersi limitata ai soli
interventi segnalati (cfr. al riguardo, da ultimo, Tar
Napoli, sent. n. 914 del 2018)-, deve sottostare a rigorosi
limiti temporali e motivazionali, ex art. 21-nonies l. n.
241 del 1990; non si corre il rischio, così, di lasciare che
il privato che avvia un’attività edilizia sottoposta a mera
segnalazione certificata resti soggetto per un tempo
indeterminato e a priori indefinibile ad un intervento
repressivo dell’amministrazione;
- dall’altro, espone la nuova disciplina prevista dall’art.
19 della L. n. 241 del 1990 ad un dubbio di
costituzionalità, nella misura in cui la stessa risulta non
idonea a tutelare in modo efficace la sfera giuridica del
terzo.
Sotto questo profilo, infatti, il Tar osserva che il terzo
ha innanzitutto l'onere, prima di agire in giudizio, di
presentare apposita istanza sollecitatoria alla P.A., così
subendo una procrastinazione del momento dell’accesso alla
tutela giurisdizionale, e, quindi, un’incisiva limitazione
dell’effettività della tutela giurisdizionale in spregio ai
principi di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost.
Inoltre, e soprattutto, l'istanza è diretta ad attivare
–qualora, come normalmente accade, siano già decorsi trenta
giorni dall’invio della segnalazione, di cui ovviamente il
terzo non ha diretta conoscenza- non il potere inibitorio di
natura vincolata (che si estingue decorso il termine
perentorio di legge), ma il c.d. potere di autotutela cui fa
riferimento l’art. 19, comma 4, l. n. 241 del 1990. Tale
potere, tuttavia, è ampiamente discrezionale in quanto
postula la ponderazione comparativa, da parte
dell’amministrazione, degli interessi in conflitto, con
precipuo riferimento al riscontro di un interesse pubblico
concreto e attuale che non coincide con il mero ripristino
della legalità violata.
Con il corollario, come detto, che nel giudizio conseguente
al silenzio o al rifiuto di intervento dell’amministrazione,
il giudice amministrativo non può che limitarsi ad una mera
declaratoria dell'obbligo di provvedere, senza poter
predeterminare il contenuto del provvedimento da adottare.
Evidente risulta, allora, la compressione dell’interesse del
terzo ad ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento
di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario
puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione
aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale.
In definitiva, se la lesione dell’interesse pretensivo del
terzo è ascrivibile alla mancata adozione di un
provvedimento inibitorio doveroso, è incongruo che la tutela
debba riguardare l'esercizio del diverso e più condizionato
potere discrezionale di autotutela. Ne consegue che non è
manifestamente infondata la questione di illegittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del
1990, per violazione degli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost,,
nella parte in cui consente ai terzi lesi da una SCIA
edilizia illegittima di esperire “esclusivamente”
l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 c.p.a, e, ciò,
soltanto dopo aver sollecitato l'esercizio delle verifiche
spettanti all'amministrazione.
Per una tutela piena ed effettiva della loro posizione
giuridica, infatti, i terzi interessati dovrebbero avere la
possibilità di azionare gli ordinari rimedi giurisdizionali
azionabili avverso le iniziative edilizie illecite altrui,
qualunque sia la modalità di acquisizione del titolo
legittimante, senza essere costretti a dovere richiedere,
prima di agire, l’intermediazione dell’autorità pubblica, e
senza essere soggetti, dopo avere agito in giudizio -per il
mero decorso del tempo concesso all’amministrazione per
attivare il potere inibitorio- ai forti limiti di tutela
giurisdizionale derivanti dall’intermediazione aleatoria
dell’esercizio del potere discrezionale di autotutela.
Al contrario, come visto, è evidente che il legislatore del
2011, introducendo il comma 6-ter in coda all'art. 19, ha
consapevolmente precluso al terzo interessato l'unica
possibilità di intervenire, tramite declaratoria giudiziale
di illegittimità, sulla conclusione negativa del
procedimento di controllo dei presupposti avviato
dall'amministrazione a seguito della segnalazione
certificata.
Tale possibilità di tutela era stata enucleata dall'Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato n. 15 del 2011, proprio al
fine di non esporre il sistema ai profili di
incostituzionalità in sede odierna dedotti, mediante
l'assimilazione ad un provvedimento negativo per
silentium della condotta di inerzia mantenuta
dall'amministrazione allo spirare del termine previsto dalla
legge per l'esercizio del potere inibitorio.
Ma la modifica legislativa, come visto, ha da un lato
impedito al terzo la possibilità di esperire un'azione di
natura impugnatoria o di condanna (gli interessati possono
agire soltanto ex art. 31, comma 1, 2 e 3, c.p.a.),
dall'altro, mediante il richiamo espresso di tutti e tre
tali commi, ha limitato la possibilità del Giudice di
accertare la fondatezza della pretesa ai soli casi di
attività vincolata.
Tuttavia, quando il termine per l'esercizio del potere
inibitorio è nel frattempo decorso -come avvenuto nel caso
oggetto della presente controversia-, l'obbligo accertabile
in capo all'amministrazione è soltanto quello previsto dal
comma 4 dell'art. 19 della legge sul procedimento
amministrativo, secondo cui “l'amministrazione competente
adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma
3 in presenza delle condizioni previste dall'art. 21-nonies”.
Conseguentemente, il Giudice adito non può predeterminare il
contenuto del successivo provvedimento dell'amministrazione,
con indubbia e inevitabile lesione del diritto del terzo ad
una piena ed effettiva tutela giurisdizionale.
In altri termini, il legislatore ha congegnato un sistema
tale da comprimere in giudizio l'esplicazione di tutte le
facoltà giurisdizionali normalmente connesse alla posizione
soggettiva di interesse legittimo pretensivo del soggetto
leso da un comportamento illegittimo dell'amministrazione,
escludendo la possibilità, tramite il rinvio ad un
successivo esercizio del potere sempre e comunque
discrezionale, che la violazione di tale interesse legittimo
ottenga un'efficace e satisfattiva riparazione già dinanzi
al Giudice adito (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza non definitiva
22.01.2019 n. 12 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Fase
istruttoria nel procedimento di approvazione
di un piano attuativo.
L’art. 14 della legge
regionale n. 12 del 2005, all’interno del
procedimento che sfocia poi
nell’approvazione del Piano attuativo,
distingue un autonomo sub-procedimento
istruttorio, il cui esito positivo
condiziona l’avvio delle successive fasi, di
adozione e di approvazione del piano.
Nella fase istruttoria della proposta di
Piano attuativo l’Amministrazione deve,
quindi, procedere a colmare le eventuali
carenze documentali o progettuali, avviando
una interlocuzione procedimentale con i
soggetti privati interessati e, quindi,
perseguendo l’obiettivo di rendere possibile
l’attuazione della specifica previsione
urbanistica in maniera conforme a quanto
previsto dallo strumento pianificatorio
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2019 n. 88 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
4. Con la prima doglianza si assume
l’illegittimità del diniego comunale, in
quanto prima della sua adozione non sarebbe
stato affatto instaurato un contraddittorio
procedimentale al fine di acquisire gli
elementi asseritamente carenti e di
integrare in tal modo l’istruttoria, nel
rispetto del disposto di cui all’art. 14
della legge regionale n. 12 del 2005, dei
principi di buona amministrazione e di buona
fede nello svolgimento delle trattative
contrattuali; inoltre, si assume anche il
notevole ritardo nell’adozione del
provvedimento finale rispetto al termine
legale massimo individuato in novanta
giorni.
4.1. La doglianza è fondata.
L’art. 14, comma 1, della legge regionale n.
12 del 2005 stabilisce che “i piani
attuativi e loro varianti, conformi alle
previsioni degli atti di PGT, sono adottati
dalla giunta comunale; nel caso si tratti di
piani di iniziativa privata, l’adozione
interviene entro novanta giorni dalla
presentazione al comune del piano attuativo
o della variante. Il predetto termine di
novanta giorni può essere interrotto una
sola volta qualora gli uffici comunali
deputati all’istruttoria richiedano, con
provvedimento espresso da assumere nel
termine di trenta giorni dalla data di
presentazione del piano attuativo, le
integrazioni documentali, ovvero le
modifiche progettuali ritenute necessarie
per l’adeguamento dello stesso alle
prescrizioni normative vigenti; in questo
caso, il termine di novanta giorni di cui al
presente comma decorre nuovamente e per
intero dalla data di presentazione della
documentazione integrativa, ovvero delle
modifiche progettuali richieste; della
conclusione della fase istruttoria,
indipendentemente dall'esito della medesima,
è data comunicazione da parte dei competenti
uffici comunali al soggetto proponente. La
conclusione in senso negativo della fase
istruttoria pone termine al procedimento di
adozione dei piani attuativi e loro varianti”.
Dal tenore complessivo della predetta
disposizione emerge che
l’Amministrazione in fase di istruttoria
della proposta di Piano attuativo debba
procedere a colmare le eventuali carenze
documentali o progettuali, avviando una
interlocuzione procedimentale con i soggetti
privati interessati e, quindi, perseguendo
l’obiettivo di rendere possibile
l’attuazione della specifica previsione
urbanistica in maniera conforme a quanto
previsto dallo strumento pianificatorio
(il comma 1 individua una fase sub
procedimentale autonoma di natura
istruttoria secondo Consiglio di Stato, IV,
30.05.2013, n. 2968).
In tal senso si può richiamare anche la
giurisprudenza costituzionale che ha
ritenuto quali principi fondamentali della
materia “governo del territorio”, e
quindi inderogabili da parte delle leggi
regionali, i contenuti di cui all’art. 24
della legge n. 47 del 1985 –riguardanti, tra
l’altro, le norme regionali disciplinanti
l’approvazione degli strumenti attuativi di
strumenti urbanistici generali–, secondo cui
non è possibile depotenziare le forme di
pubblicità e di partecipazione dei soggetti
pubblici e privati alla predisposizione
degli strumenti attuativi degli atti di
pianificazione urbanistica generale (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 272 del
14.11.2013).
Anche questa Sezione ha
ritenuto che il citato art. 14 della legge
regionale n. 12 del 2005, all’interno del
procedimento che sfocia poi
nell’approvazione del Piano attuativo,
distingua un autonomo sub-procedimento
istruttorio, il cui esito positivo
condiziona l’avvio delle successive fasi, di
adozione e di approvazione del piano
(cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 18.07.2017,
n. 1645; 04.10.2016, n. 1804; 10.12.2012, n.
2969).
Nella fattispecie oggetto di scrutinio,
l’Amministrazione, nello svolgimento di
un’attività connotata da un indubbio tasso
di discrezionalità, non ha segnalato in sede
procedimentale e prima della predisposizione
dell’atto finale negativo alle parti private
proponenti né le rilevate carenze
istruttorie, né le difformità della proposta
rispetto alle prescrizioni contenute nella
Scheda d’ambito, contravvenendo in maniera
evidente alla normativa ed ai principi in
precedenza richiamati e frustrando il
diritto di partecipazione delle società
istanti al procedimento istruttorio; in tal
modo si è impedito alle stesse di poter
esporre i propri rilievi o anche persino di
emendare i vizi rilevati in sede di esame
dagli Uffici (cfr. TAR Lombardia, Milano, II,
13.12.2016, n. 2353).
Ciò appare tanto più rilevante, oltre che in
ragione degli evidenziati pregressi contatti
intervenuti tra le parti private e
l’Amministrazione allo scopo di predisporre
la proposta (cfr. punto 5 del ricorso, come
chiarito anche in sede di formulazione della
richiesta istruttoria: cfr. memoria
depositata in giudizio dalla difesa delle
ricorrenti il 25.07.2018, pagg. 9-11),
soprattutto avuto riguardo alla non
ostatività assoluta dei rilievi che hanno
indotto l’Amministrazione a respingere la
citata proposta.
4.2. In ragione delle suesposte
considerazioni, la doglianza deve essere
accolta.
5. La fondatezza della predetta censura,
avente carattere assorbente, determina
l’accoglimento del ricorso e l’annullamento
del provvedimento del Dirigente dell’Area
Governo del Territorio, Settore Edilizia
Privata e Urbanistica del Comune di Desio,
prot. 40900/2017 del 16.10.2017, recante il
diniego del progetto di Piano attuativo
relativo all’Ambito ARU_P02, da cui discende
l’obbligo per il Comune di riattivare il
procedimento istruttorio per la verifica
della accoglibilità della proposta formulata
dalle società ricorrenti. |
EDILIZIA PRIVATA:
Usufruttuario e legittimazione al rilascio del permesso di
costruire - Natura del rapporto "qualificato" che intercorre
tra usufruttuario e l'immobile - Giurisprudenza.
La particolare natura del rapporto
"qualificato" che intercorre tra usufruttuario e l'immobile
induce la stessa giurisprudenza amministrativa a riconoscere
all'usufruttuario la legittimazione al rilascio del permesso
di costruire dal momento che l'art. 11 del d.p.r. n.
380/2001 individua tra i soggetti legittimati oltre al
proprietario anche coloro che "abbiano titolo per
richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli aventi
titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che, quale
titolare di un diritto reale di godimento, gode di una
relazione qualificata con il bene medesimo
(TAR Campania Napoli Sez. VIII, sentenza 07.03.2011, n.
1318) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Responsabile dell'abuso edilizio -
Proprietario non committente - Natura indiziaria della
compartecipazione.
In tema di reati edilizi,
l'individuazione del proprietario non committente quale
soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta
da elementi oggettivi di natura indiziaria della
compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del
manufatto, desumibili, ad esempio, dall'interesse specifico
ad edificare la nuova costruzione (nella specie proprio in
quanto usufruttuario), i rapporti di parentela o affinità
tra terzo e proprietario e la successiva domanda di
sanatoria delle opere realizzate, come in effetti risulta
nella vicenda processuale qui esaminata
(Cass. Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014 - dep. 15/12/2014,
Langella e altro; Sez. 3, n. 33487 del 05/07/2006 - dep.
05/10/2006, Laforè) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Premesso che affinché sia
necessaria l'autorizzazione paesaggistica è sufficiente un vulnus
anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è
necessaria per le opere interne, che non sono neppure
astrattamente idonee a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di
destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede
ricordare come non è prospettabile una valutazione
atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi
facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di
realizzazione di una determinata complessiva opera,
risultante priva di titolo.
Invero, è stato affermato: "Ne consegue che non
è ammissibile una loro considerazione astratta ed
atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una
valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità"; detto principio è
enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa
Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze".
---------------
7. Il secondo motivo di ricorso si appalesa,
peraltro, manifestamente infondato.
Ed infatti, i giudici di appello indicano compiutamente le
ragioni per le quali hanno ritenuto di dover disattendere le
identiche tesi difensive, replicate in sede di ricorso per
cassazione. Ed invero, quanto alla mancata derubricazione
del delitto paesaggistico nella contravvenzione di cui al
comma primo dell'art. 181, d.lgs. n. 42 del 2004, i giudici
di appello escludono l'applicabilità dell'art. 181, comma
primo, e, segnatamente, l'operatività della sentenza della
Corte costituzionale n. 56/2016, osservando come la sola
sussistenza della piscina abusivamente edificata trasmoda
dai limiti di applicabilità previsti dalla norma come
oggetto di declaratoria di incostituzionalità.
Tanto premesso, è ben vero che nella sentenza d'appello non
si rinvengono argomenti a confutazione della tesi, sostenuta
in sede di appello, volti a sostenere la qualificabilità
degli interventi come di ristrutturazione edilizia o come
inoffensivi, ma è altrettanto vero che il silenzio della
Corte territoriale sul punto, tenuto conto delle emergenze
processuali, risulta del tutto privo di effetti ai fini
della denuncia dell'omessa motivazione sul punto.
Ed invero -premesso che affinché sia
necessaria l'autorizzazione è sufficiente un vulnus
anche minimo del paesaggio, mentre al contrario essa non è
necessaria per le opere interne, che non sono neppure
astrattamente idonee a pregiudicare il bene
paesaggistico-ambientale, né per le modifiche di
destinazione del bene- si deve anzitutto in questa sede
ricordare come non è prospettabile una valutazione
atomistica degli interventi edilizi, allorché gli stessi
facciano parte di un disegno sostanzialmente unitario di
realizzazione di una determinata complessiva opera,
risultante priva di titolo
(cfr., per tutte, di recente Tar Campania, sentenza
29.05.2018 n. 3545: "Ne consegue che non
è ammissibile una loro considerazione astratta ed
atomistica, ma deve necessariamente predicarsene una
valutazione unitaria sintetica e complessiva, in quanto
divenute parti di un più ampio quadro di illecito
sostanzialmente unitario dal quale attingono il medesimo
regime giuridico di illegittimità"; detto principio è
enunciato, proprio in materia di pertinenze, anche da questa
Suprema Corte di Cassazione, secondo cui un intervento
edilizio deve essere considerato nel suo complesso e le
opere realizzate non possono essere valutate autonomamente e
separatamente come pertinenze:
Cass. pen., sez. III, 01/10/2013 n. 45598 e, in termini
generali, sez. III, 16/03/2010 n. 20363)".
8. Nella specie, è evidente che gli interventi edilizi quali
contestati, privi di qualsiasi titolo abilitativo,
consistevano nella costruzione di una struttura di 100 mq
costituita da pilastri in ferro sul lato nord ovest del
fondo, di una struttura a p.t. di 200 mq., di una struttura
di 60 mq. sul lato sud ovest del fondo, di una piscina
interrata oltre che nella realizzazione della recinzione del
fondo in conglomerato cementizio.
Orbene, ribadendo l'avviso sulla necessità di una
valutazione unitaria, è evidente che dette opere
comportassero la trasformazione permanente del suolo
inedificato, trasformazione che necessitava del permesso di costruire ex art. 10 del D.P.R. n. 380
del 2001, titolo abilitativo necessario per tutti gli "interventi
di nuova costruzione". Tali interventi, come è noto,
sono definiti dal precedente art. 3, primo comma, lettera
e), con riferimento a quegli interventi che, non rientranti
nelle categorie definite alle lettere precedenti, comportano
la "trasformazione edilizia e urbanistica del territorio".
Quest'ultima è quindi arrecata da ogni intervento che non è
annoverato alle lettere da a) a d), anche se non compreso
nell'elencazione di cui ai singoli punti della lettera e),
la quale non può ritenersi esaustiva (come denota l'utilizzo
dell'avverbio "comunque").
E' quindi evidente che, considerata la rilevanza unitaria di
tutti gli interventi, indubbiamente si assiste ad un
superamento della "soglia" indicata dall'art. 181,
comma 1-bis, d.lgs. n. 42 del 2004 (750 mc.) ai fini della
qualificazione dell'intervento edilizio come rientrante
nella previsione sopravvissuta alla dichiarazione di
incostituzionalità e, nel contempo, ad una qualificazione
degli interventi edilizi come di nuova costruzione, non
certo di ristrutturazione edilizia.
Sul punto, l'affermazione dei giudici di appello riferita
alla piscina (che, considerate le sue dimensioni,
determinava lo "sforamento" della predetta soglia) è
assolutamente logica e giuridicamente corretta, atteso che
sia la pavimentazione laterale dell'area circostante la
piscina, sia la costruzione della piscina stessa (con
superficie tutt'altro che modesta), conducevano
necessariamente all'approdo cui sono pervenuti i giudici di
appello, essendo pacifico che anche la
realizzazione di una piscina crea un aumento di volumetria
(v., in termini: Sez. 3, n. 12104 del 24/09/1999 - dep.
22/10/1999, Iorio, Rv. 215521; nella giurisprudenza
amministrativa, TAR Campania Napoli Sez. VII, 19.02.2018, n.
1087; TAR Campania Napoli Sez. VII, 05.01.2018, n. 97, che
espressamente afferma come la realizzazione
di una piscina interrata e di locali annessi in zona
vincolata necessitano il previo rilascio del permesso di
costruire nonché dell'autorizzazione paesaggistica e non
sono suscettibili di accertamento di compatibilità
paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004
in quanto hanno determinato la creazione di nuova
volumetria. In particolare la realizzazione di una piscina
interrata deve qualificarsi come intervento di nuova
costruzione non suscettibile di accertamento di
compatibilità paesaggistica ex art. 167 del D.lgs. n.
42/2004) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' pacifico nella
giurisprudenza di questa Corte che il reato edilizio di cui
all'art. 20 l. 28.02.1985, n. 47 può essere addebitato solo
a chi effettua le opere o a chi le commissiona, con
esclusione dell'addebito al nudo proprietario perché non
averne impedito il mutamento, non avendone l'obbligo ai
sensi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen.: tale obbligo,
diversamente, può ben far capo all'usufruttuario.
Del resto, ciò si giustifica in
considerazione della particolare natura del rapporto "qualificato"
che intercorre tra questi e l'immobile che, per tale
ragione, induce la stessa giurisprudenza amministrativa a
riconoscere all'usufruttuario la legittimazione al rilascio
del permesso di costruire dal momento che l'art. 11 del
d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati
oltre al proprietario anche coloro che "abbiano titolo
per richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli
aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che,
quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una
relazione qualificata con il bene medesimo.
A ciò peraltro va aggiunto che in tema di
reati edilizi, l'individuazione del proprietario non
committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla
realizzazione del manufatto, desumibili, ad esempio,
dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione
(nella specie proprio in quanto usufruttuario), i rapporti
di parentela o affinità tra terzo e proprietario e la
successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate, come
in effetti risulta nella vicenda processuale qui esaminata.
---------------
10. Può quindi procedersi
nell'esame del terzo motivo, con cui si contesta il
coinvolgimento dell'imputato rispetto ai fatti ascrittigli,
attesa la mancanza di prove in tal senso.
Sul punto, la Corte di appello ha ritenuto l'imputato
colpevole per il fatto di essere l'usufruttuario
dell'immobile su cui insistevano le opere abusive, e
pertanto di avere un interesse alle relative edificazioni, a
prescindere da eventuali ricorrenti responsabilità del
figlio An..
Trattasi di motivazione del tutto immune dai denunciati
vizi, atteso che è pacifico nella
giurisprudenza di questa Corte che il reato edilizio di cui
all'art. 20 l. 28.02.1985, n. 47 può essere addebitato solo
a chi effettua le opere o a chi le commissiona, con
esclusione dell'addebito al nudo proprietario perché non
averne impedito il mutamento, non avendone l'obbligo ai
sensi dell'art. 40, secondo comma, cod. pen.: tale obbligo,
diversamente, può ben far capo all'usufruttuario
(Sez. 3, n. 8858 del 20/06/1996 - dep. 02/10/1996, Carli e
altro, Rv. 206413).
Del resto, ciò si giustifica in
considerazione della particolare natura del rapporto "qualificato"
che intercorre tra questi e l'immobile che, per tale
ragione, induce la stessa giurisprudenza amministrativa a
riconoscere all'usufruttuario la legittimazione al rilascio
del permesso di costruire dal momento che l'art. 11 del
d.p.r. n. 380/2001 individua tra i soggetti legittimati
oltre al proprietario anche coloro che "abbiano titolo
per richiederlo", sicché non vi è dubbio che tra gli
aventi titolo rientri anche l'usufruttuario del bene, che,
quale titolare di un diritto reale di godimento, gode di una
relazione qualificata con il bene medesimo
(v., in termini, TAR Campania Napoli Sez. VIII, sentenza
07.03.2011, n. 1318).
A ciò peraltro va aggiunto che in tema di
reati edilizi, l'individuazione del proprietario non
committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura
indiziaria della compartecipazione, anche morale, alla
realizzazione del manufatto, desumibili, ad esempio,
dall'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione
(nella specie proprio in quanto usufruttuario), i rapporti
di parentela o affinità tra terzo e proprietario e la
successiva domanda di sanatoria delle opere realizzate, come
in effetti risulta nella vicenda processuale qui esaminata
(tra le tante: Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014 - dep.
15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 33487
del 05/07/2006 - dep. 05/10/2006, Laforè, Rv. 235124).
Trattasi di principio che, seppure riferito al soggetto che
riveste la qualità di proprietario non committente, si
presta ad essere applicato anche alla figura
dell'usufruttuario non committente.
Ne discende, pertanto, che l'eccezione difensiva, secondo
cui, in difetto di ulteriori elementi oltre alla qualità di
usufruttuario, non sarebbe stato possibile pervenire a
giudizio di condanna, tenuto conto che l'opera la parte
destinata ad uso abitativo era in uso esclusivo al figlio
dell'imputato, Al., è evidentemente funzionale a richiedere
a questa Corte di operare una valutazione di merito, ossia
quella di verificare se gli elementi emersi in sede
istruttoria fossero o meno idonei a sorreggere un giudizio
di responsabilità nei confronti dell'imputato medesimo,
operazione, questa, non consentita in sede di legittimità in
quanto esula dall'ambito cognitivo di questa Corte, chiamata
a valutare le la motivazione della Corte territoriali sia
congrua e logica dal punto di vista argornentativo,
valutazione cui può darsi positivo riscontro (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.01.2019 n. 1913). |
EDILIZIA PRIVATA:
In relazione all’eventuale presentazione
dell’istanza di rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001 che renderebbe
inefficace l’ordinanza di demolizione gravata, deve
rilevarsi che:
- la validità ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non
risultano pregiudicate dalla successiva presentazione di
un’istanza ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel
sistema non è rinvenibile una previsione dalla quale possa
desumersi un tale effetto, sicché, se, da un lato, la
presentazione dell’istanza ex art. 36 cit. determina
inevitabilmente un arresto dell’efficacia dell’ordine di
demolizione, all’evidente fine di evitare, in caso di
accoglimento dell’istanza, la demolizione di un’opera che,
pur realizzata in assenza o difformità dal permesso di
costruire, è conforme alla strumentazione urbanistica
vigente, dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia
dell’atto sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che
l’atto sia posto in uno stato di temporanea quiescenza;
- all’esito del procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento
dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di
effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con conseguente venir
meno dell’originario carattere abusivo dell’opera
realizzata;
- di contro, in caso di rigetto dell’istanza, l’ordine di
demolizione riacquista la sua efficacia, con la sola
precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso.
---------------
In relazione all’eventuale presentazione dell’istanza di
rilascio del permesso di costruire in sanatoria ex art. 36
del D.P.R. n. 380/2001 che renderebbe inefficace l’ordinanza
di demolizione gravata, rileva il Collegio, che la “validità
ovvero l’efficacia dell’ordine di demolizione non risultano
pregiudicate dalla successiva presentazione di un’istanza ex
art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, posto che nel sistema non è
rinvenibile una previsione dalla quale possa desumersi un
tale effetto, sicché, se, da un lato, la presentazione
dell’istanza ex art. 36 cit. determina inevitabilmente un
arresto dell’efficacia dell’ordine di demolizione,
all’evidente fine di evitare, in caso di accoglimento
dell’istanza, la demolizione di un’opera che, pur realizzata
in assenza o difformità dal permesso di costruire, è
conforme alla strumentazione urbanistica vigente,
dall’altro, occorre ritenere che l’efficacia dell’atto
sanzionatorio sia soltanto sospesa, cioè che l’atto sia
posto in uno stato di temporanea quiescenza.
All’esito del
procedimento di sanatoria, in caso di accoglimento
dell’istanza, l’ordine di demolizione rimarrà privo di
effetti in ragione dell’accertata conformità dell’intervento
alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dello stesso sia al momento
della presentazione della domanda, con conseguente venir
meno dell’originario carattere abusivo dell’opera
realizzata.
Di contro, in caso di rigetto dell’istanza,
l’ordine di demolizione riacquista la sua efficacia, con la
sola precisazione che il termine concesso per l’esecuzione
spontanea della demolizione deve decorrere dal momento in
cui il diniego di sanatoria perviene a conoscenza
dell’interessato, che non può rimanere pregiudicato
dall’avere esercitato una facoltà di legge, quale quella di
chiedere l’accertamento di conformità urbanistica, e deve
pertanto poter fruire dell’intero termine a lui assegnato
per adeguarsi all’ordine, evitando così le conseguenze
negative connesse alla mancata esecuzione dello stesso”
(cfr. in questo senso, TAR, Campania Napoli, sez. II,
14.09.2009, n. 4961 e C.d.S., sez. IV, 19.02.2008, n. 849) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 16.01.2019 n. 234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Se è vero che l'art. 3, d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che le
informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda (profilo
soggettivo), senza necessità, in deroga alla disciplina generale
sull'accesso ai documenti amministrativi, di dimostrare un suo particolare e
qualificato interesse, è del pari vero (profilo oggettivo) che l’istanza
non deve essere del tutto generica, tale da aggravare oltremodo –a causa
della mole di informazioni avanzate- il lavoro degli organi amministrativi.
Sul punto la giurisprudenza ha precisato che: “sebbene l'accesso
all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la
necessità di dimostrare uno specifico interesse –che è da considerare in re ipsa per ciascun essere umano o ente che lo rappresenti o ne sia emanazione,
ai sensi dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005– la richiesta non solo
non deve essere formulata in termini eccessivamente generici, per quanto
deve essere specificamente individuata con riferimento alle matrici
ambientali ovvero ai fattori …quali le sostanze, l'energia, il rumore, le
radiazioni od i rifiuti…; e
ancora che “l’istanza non può essere proposta a fini genericamente
ispettivi; essa può consistere “anche in una generica richiesta di
informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, a
condizione che questo sia specificato, diversamente la richiesta si
risolverebbe in “un mero sindacato ispettivo sull’attività del Comune”.
Al fine di evitare forme di controllo sistematico e generalizzato
sull’attività amministrativa, la latitudine del riferimento alle misure
amministrative è stata dunque temperata dalla necessità che, per integrare
propriamente un’informazione ambientale, l’attività amministrativa incida
concretamente, in positivo (tutelandoli) o in negativo (compromettendoli)
sugli elementi o sui fattori ambientali come individuati ai nn. 1 e 2
dell’art. 2 d.lgs. n. 195/2005.
---------------
... per l'annullamento del silenzio-diniego formatosi in data 15.07.2018
sull’istanza di accesso ambientale ex art. 3 D.vo 195/2005, inviata alla ASL
Frosinone in data 15.06.2018;
...
Considerato che la ricorrente rappresenta:
- di essere un’associazione di promozione sociale iscritta nel registro
regionale delle associazioni;
- che l'art. 3 D.lvo 195/2005 stabilisce che la P.A. è tenuta a rendere
disponibile a chiunque ne faccia richiesta anche senza che venga dichiarato
interesse le informazioni ambientali detenute;
- di avere, in ogni caso, un interesse qualificato avendo quale oggetto
statutario la tutela dell'ambiente e della sua salubrità;
- che le informazioni richieste dall'istante ricadono nella fattispecie
prevista dall'art. 2, lett. a), n. 1 e n. 6, del D.lvo 195/2005, riguardando i
dati ambientali e lo stato della salute e della sicurezza umana nel Comune
di Anagni e precisamente in prossimità dell'inceneritore della Ma. Ty. s.p.a.;
Ritenuto, che il ricorso è infondato in quanto:
- se è vero che l'art. 3, d.lgs. n. 195 del 2005 stabilisce che le
informazioni ambientali spettano a chiunque le richieda (profilo
soggettivo), senza necessità, in deroga alla disciplina generale
sull'accesso ai documenti amministrativi, di dimostrare un suo particolare e
qualificato interesse, è del pari vero (profilo oggettivo) che l’istanza
non deve essere del tutto generica, tale da aggravare oltremodo –a causa
della mole di informazioni avanzate- il lavoro degli organi amministrativi;
- sul punto la giurisprudenza ha precisato che: “sebbene l'accesso
all'informazione ambientale possa essere esercitato da chiunque, senza la
necessità di dimostrare uno specifico interesse –che è da considerare in re ipsa per ciascun essere umano o ente che lo rappresenti o ne sia emanazione,
ai sensi dell'art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 195/2005– la richiesta non
solo non deve essere formulata in termini eccessivamente generici, per
quanto deve essere specificamente individuata con riferimento alle matrici
ambientali ovvero ai fattori …quali le sostanze, l'energia, il rumore, le
radiazioni od i rifiuti… (Cons. St., sez. V, 18.10.2011, n. 5571); e
ancora che “l’istanza non può essere proposta a fini genericamente
ispettivi; essa può consistere “anche in una generica richiesta di
informazioni sulle condizioni di un determinato contesto ambientale, a
condizione che questo sia specificato, diversamente la richiesta si
risolverebbe in “un mero sindacato ispettivo sull’attività del Comune” (Cons.
Stato, 16.02.2007, nn. 668, 669, 670);
- al fine di evitare forme di controllo sistematico e generalizzato
sull’attività amministrativa, la latitudine del riferimento alle misure
amministrative è stata dunque temperata dalla necessità che, per integrare
propriamente un’informazione ambientale, l’attività amministrativa incida
concretamente, in positivo (tutelandoli) o in negativo (compromettendoli)
sugli elementi o sui fattori ambientali come individuati ai nn. 1 e 2
dell’art. 2 d.lgs. n. 195/2005;
- nel caso di specie, l’istanza di accesso proposto dalla ricorrente si
presenta affatto generica, sia con riguardo al riferimento ai ”dati
epidemiologici e sanitari” perché non sono specificati quali dati si
intenda ottenere, sia con riferimento alla “incidenza di malattie” perché non sono
indicate le malattie oggetto di indagine, sia ancora con riguardo ai
“cittadini che abitano nel raggio di due km dall'impianto inceneritore della
società Ma. Ty. s.p.a.”;
Ritenuto, in conclusione, che il ricorso deve essere respinto
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 16.01.2019 n. 12 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Danno da ritardo nei procedimenti avviati d’ufficio.
---------------
Risarcimento danni – Danno da ritardo – Procedimento
avviato d’ufficio – Configurabilità.
Il danno da ritardo, di cui all’art.
2-bis, l. 07.08.1990, n. 241, può configurarsi anche nei
casi in cui il procedimento debba essere avviato di ufficio
(1).
---------------
(1)
Ha ricordato la Sezione che l’Adunanza
plenaria 4 maggio 2018, n. 5 riconosce il danno
da ritardo “a prescindere dalla spettanza del bene della
vita sotteso alla posizione di interesse legittimo su cui
incide il provvedimento adottato in violazione del termine
di conclusione del procedimento”, ricollegandolo alla
“lesione del diritto soggettivo di autodeterminazione
negoziale” e subordinandolo, comunque, a rigorosi oneri di
allegazione e prova dell’elemento soggettivo e del nesso di
causalità.
Tale ricostruzione presuppone di regola, come è evidente, la
natura imprenditoriale del soggetto che assume essere stato
leso dal ritardo dell’amministrazione nell’emanazione del
provvedimento (ancorché legittimamente di segno negativo),
dovendosi invece ritenere che, negli altri casi, sia
indispensabile la prova della spettanza del bene della vita
cui si ricollega la posizione di interesse legittimo (Cons.
St., sez. IV, 06.11.2018, n. 6266; id.,
sez. VI, 02.05.2018, n. 2624, id.,
sez. IV, 17.01.2018, n. 240; id.
23.06.2017, n. 3068; id.
02.11.2016, n. 4580; id.
06.04.2016, n. 1371).
Perché, dunque, possa parlarsi di una condotta della
Pubblica amministrazione causativa di danno da ritardo,
oltre alla concorrenza degli altri elementi costitutivi
della responsabilità ex art. 2043 c.c., occorre che esista,
innanzi tutto, un obbligo dell’amministrazione di provvedere
entro un termine definito dalla legge a fronte di una
fondata posizione di interesse legittimo ad ottenere il
provvedimento tardivamente emanato.
E tale obbligo di provvedere sussiste, ai sensi del comma 1
dell’art. 2, l. 07.08.1990, n. 241 laddove vi sia un obbligo
di procedere entro un termine definito (“ove il
provvedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza,
ovvero debba essere iniziato d’ufficio...”).
Al contempo, deve ritenersi che –sussistendo i suddetti
presupposti– il danno da ritardo, di cui all’art. 2-bis l.
n. 241 del 1990, può configurarsi anche nei casi in cui il
procedimento debba essere avviato di ufficio (e, dunque, vi
sia l’obbligo di concluderlo).
Ciò si desume, oltre che da ragionevoli argomentazioni di
ordine generale, dalla evidente differenza letterale tra i
primi due commi dell’art. 2-bis, dove solo il secondo di
essi (comma 1-bis), si riferisce espressamente al
procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione
normativa di un termine per l’avvio e per la conclusione del
procedimento (supplendo in questo secondo caso, in difetto
di previsione, il termine generale di cui all’art. 2, comma
2, l. n. 241 del 1990), sia l’esistenza di una posizione di
interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura
provvedimentale dell’atto medesimo.
Con riferimento ai procedimenti avviati d’ufficio, ha
chiarito la Sezione che la possibilità di configurare il
danno da ritardo si desume, oltre che da ragionevoli
argomentazioni di ordine generale, dalla evidente differenza
letterale tra i primi due commi dell’art. 2-bis, dove solo
il secondo di essi (comma 1-bis), si riferisce espressamente
al procedimento ad istanza di parte.
Ma, in questo caso, occorre sia la chiara previsione
normativa di un termine per l’avvio e per la conclusione del
procedimento (supplendo in questo secondo caso, in difetto
di previsione, il termine generale di cui all’art. 2, comma
2, l. n. 241 del 1990), sia l’esistenza di una posizione di
interesse legittimo che, come tale, presuppone la natura
provvedimentale dell’atto medesimo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 15.01.2019 n. 358 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Ancora alla CGUE alcuni quesiti interpretativi in tema di
società in house.
Il Consiglio di Stato ha nuovamente posto alla Corte di
giustizia UE due quesiti interpretativi in tema di
affidamento in house, chiedendo in particolare se il diritto
europeo osti a una disciplina nazionale che colloca gli
affidamenti in house su un piano subordinato ed
eccezionale rispetto agli affidamenti tramite gara di
appalto e impedisce, in talune circostanze, ad una pubblica
amministrazione di acquisire una quota di partecipazione in
un organismo pluripartecipato da altre amministrazioni.
Segnatamente:
---------------
●
Contratti pubblici – Affidamento in house – Presupposti –
Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE
●
Contratti pubblici – Affidamento in house – Controllo
analogo congiunto – Limiti – Rinvio pregiudiziale alla Corte
di giustizia UE
●
Devono essere posti alla Corte di giustizia UE i seguenti
quesiti interpretativi:
1) se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il
principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche
e il principio di sostanziale equivalenza fra le diverse
modalità di affidamento e di gestione dei servizi di
interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una
normativa nazionale (come quella dell’articolo 192, comma 2,
del ‘Codice dei contratti pubblici, decreto legislativo n.
50 del 2016) che colloca gli affidamenti in house su un
piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti
tramite gara di appalto:
i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di
dimostrato fallimento del mercato rilevante, nonché
ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda
operare un affidamento in regìme di delegazione
interorganica di fornire una specifica motivazione circa i
benefìci per la collettività connessi a tale forma di
affidamento;
2) se il diritto dell’Unione europea (e in
particolare l’articolo 12, paragrafo 3 della Direttiva
2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di
controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a
una disciplina nazionale (come quella dell’articolo 4, comma
1, del Testo Unico delle società partecipate –decreto
legislativo n. 175 del 2016-) che impedisce a
un’amministrazione pubblica di acquisire in un organismo
pluripartecipato da altre amministrazioni una quota di
partecipazione (comunque inidonea a garantire controllo o
potere di veto) laddove tale amministrazione intende
comunque acquisire in futuro una posizione di controllo
congiunto e quindi la possibilità di procedere ad
affidamenti diretti in favore dell’Organismo
pluripartecipato
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 14.01.2019 n. 296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Ancora alla Corte di giustizia l’affidamento in house
ex art. 192, comma 2, del Codice dei contratti.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione - In house – Art.
192, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio di
affidamento subordinato rispetto agli affidamenti tramite
gara di appalto – Rimessione Corte di Giustizia Ue.
●
Enti pubblici – Partecipazione azionaria in società -
Organismo pluriparecipato da altre amministrazioni –
Acquisizione di quota di partecipazione – Divieto –
Condizioni ex art. 4, comma 1, t.u. n. 175 del 2016 –
Rimessione Corte di Giustizia Ue.
●
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la questione
se il diritto dell’Unione europea (e segnatamente il
principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche
e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse
modalità di affidamento e di gestione dei servizi di
interesse delle amministrazioni pubbliche) osti a una
normativa nazionale (come quella dell’art. 192, comma 2, del
‘Codice dei contratti pubblici, approvato con d.lgs. n. 50
del 2016) il quale colloca gli affidamenti in house su un
piano subordinato ed eccezionale rispetto agli affidamenti
tramite gara di appalto:
i) consentendo tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato
fallimento del mercato rilevante, nonché
ii) imponendo comunque all’amministrazione che intenda operare un
affidamento in regìme di delegazione interorganica di
fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la
collettività connessi a tale forma di affidamento (1).
●
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia Ue la
questione se il diritto dell’Unione europea (e in
particolare l’art. 12, paragrafo 3 della Direttiva
2014/24/UE in tema di affidamenti in house in regìme di
controllo analogo congiunto fra più amministrazioni) osti a
una disciplina nazionale (come quella dell’art. 4, comma 1,
del Testo Unico delle società partecipate, approvato con
d.lgs. n. 175 del 2016) che impedisce a un’amministrazione
pubblica di acquisire in un organismo pluriparecipato da
altre amministrazioni una quota di partecipazione (comunque
inidonea a garantire controllo o potere di veto) laddove
tale amministrazione intende comunque acquisire in futuro
una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità
di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’Organismo
pluripartecipate (2).
---------------
Analoghe
rimessioni sono state disposte dalla sez. V con
ordd. 07.01.2019, n. 138 e
14.01.2019, n. 296.
(1) La Sezione dubita che le disposizioni del diritto interno, nel
subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate
e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di
affidamento, siano autenticamente compatibili con le
pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e
derivato dell’Unione europea.
In particolare, l’art. 192, comma 2, del Codice degli
appalti pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016) impone che
l’affidamento in house di servizi disponibili sul
mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è
richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi
servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con
appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale
fra amministrazioni):
a) la prima condizione consiste nell’obbligo di motivare le
condizioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al
mercato. Tale condizione muove dal ritenuto carattere
secondario e residuale dell’affidamento in house, che
appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso
di, sostanzialmente, dimostrato ‘fallimento del mercato’
rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli
obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di
economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale
impiego delle risorse pubbliche” (risultando altrimenti
tendenzialmente precluso), cui la società in house invece
supplirebbe;
b) la seconda condizione consiste nell’obbligo di indicare, a
quegli tessi propositi, gli specifici benefìci per la
collettività connessi all’opzione per l’affidamento in
house (dimostrazione che non sarà invece necessario
fornire in caso di altre forme di affidamento –con
particolare riguardo all’affidamento tramite gare di
appalto-).
Anche qui la previsione dell’ordinamento italiano di forme
di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti
in house muove da un orientamento di sfavore verso gli
affidamenti diretti in regime di delegazione interorganica e
li relega ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto
alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra
imprese.
Il restrittivo orientamento evidenziato dalla normativa
italiana del 2016 si colloca in continuità con orientamenti
analoghi manifestati dall’ordinamento almeno dal 2008 (sin
dall’art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008).
Giova ricordare che con sentenza 17.11.2010, n. 325 la Corte
costituzionale ha riconosciuto alla legge di poter prevedere
“limitazioni dell'affidamento diretto più estese di
quelle comunitarie” (per restringere ulteriormente le
eccezioni alla regola della gara ad evidenza pubblica, per
le quali il diritto dell’UE avrebbe solo previsto un minimo
inderogabile).
La stessa giurisprudenza costituzionale ha ribadito con
ulteriori pronunce che l’affidamento in regIme di
delegazione interorganica costituisce “un’eccezione
rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi
mediante gara ad evidenza pubblica” (Corte cost.
20.03.2013, n. 46).
Si tratta a questo punto di stabilire se questo restrittivo
orientamento ultradecennale dell’ordinamento italiano in
tema di affidamenti in house risulti conforme con i princìpi
e disposizioni del diritto dell’Unione europea (con
particolare riguardo al principio della libera
organizzazione delle amministrazioni pubbliche sancita
dall’art. 2 della Direttiva 2014/23/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 26.02.2014, sull’aggiudicazione
dei contratti di concessione).
Ha osservato al riguardo la Sezione che, in tema di
acquisizione dei servizi di interesse degli organismi
pubblici, si fronteggiano due princìpi generali la cui
contestuale applicazione può comportare antinomie:
a) da un lato, il principio della libertà e autodeterminazione, per
i soggetti pubblici, di organizzare come meglio stimano le
prestazioni dei servizi di rispettivo interesse, senza che
vincoli di particolare modalità gestionale derivanti
dall’ordinamento dell’UE o da quello nazionale (ad es.:
regime di affidamento con gara) rispetto a un'altra (ad es.:
regime di internalizzazione ed autoproduzione);
b) (dall’altro) il principio della piena apertura concorrenziale
dei mercati degli appalti pubblici e delle concessioni.
Si osserva che il principio sub b) sembra presentare una
valenza sussidiaria rispetto al principio sub a) (ossia,
rispetto al principio della libertà nella scelta del modello
gestionale).
Infatti, la prima scelta che viene demandata alle
amministrazioni è di optare fra il regime di autoproduzione
e quello di esternalizzazione (modelli che appaiono
collocati dall’ordinamento dell’UE su un piano di
equiordinazione) e, solo se si sia optato per il secondo di
tali modelli, incomberà sull’amministrazione l’obbligo di
operare nel pieno rispetto dell’ulteriore principio della
massima concorrenzialità fra gli operatori di mercato.
Se questi sono gli esatti termini entro della questione, e
se si considera che l’in house providing è per sua
natura una delle forme caratteristiche di internalizzazione
e autoproduzione, risulta che lo stesso in house
providingrappresenta non un’eccezione residuale, ma una
normale opzione di base, al pari dell’affidamento a terzi
tramite mercato, cioè tramite gara: paradigma, quest’ultimo,
che non gode di alcuna pregiudiziale preferenza.
Insomma, da parte dell’ordinamento dell’UE gli affidamenti
in house (sostanziale forma di autoproduzione) non sembrano
posti in una posizione subordinata rispetto agli affidamenti
con gara; al contrario, sembrano rappresentare una sorte di
prius logico rispetto a qualunque scelta
dell’amministrazione pubblica in tema di autoproduzione o
esternalizzazione dei servizi di proprio interesse.
In altri termini, sembra che per l’ordinamento UE da parte
di una pubblica amministrazione si possa procedere all’esternalizzazione
dell’approvvigionamento di beni, servizi o forniture solo
una volta che le vie interne, dell’autoproduzione ovvero
dell’internalizzazione, non si dimostrano precorribili o
utilmente percorribili. Il che sembra corrispondere ad
elementari esigenze di economia, per cui ci si rivolge
all’esterno solo quando non si è ben in grado di provvedere
da soli: nessuno, ragionevolmente, si rivolge ad altri
quando è in grado di provvedere, e meglio, da solo.
La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE ha
chiarito a propria volta che l’ordinamento comunitario non
pone limiti alla libertà, per le amministrazioni, di optare
per un modello gestionale di autoproduzione, piuttosto che
su un modello di esternalizzazione.
In particolare, con la sentenza della Grande Sezione del
09.06.2009, in causa C-480/06, Commissione CE c. Governo
della Germania federale, la Corte di giustizia ha chiarito
che “un’autorità pubblica può adempiere ai compiti di
interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri
strumenti senza essere obbligata a far ricorso ad entità
esterne non appartenenti ai propri servizi e [può] farlo
altresì in collaborazione con altre autorità pubbliche”
(nell’occasione, la Corte di giustizia ha richiamato i
princìpi già espressi con la sentenza della Terza Sezione
del 13.11.2008 in causa C-324/07, Coditel Brabant).
Si pone a questo punto la questione della conformità fra da
un lato i richiamati princìpi e disposizioni del diritto
dell’Unione europea (i quali sembrano comportare una piena
equiordinazione fra le diverse modalità di assegnazione dei
servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche, se non
addirittura la prevalenza logica del sistema di
autoproduzione rispetto ai modelli di esternalizzazione) e,
dall’altro, le previsioni del diritto nazionale italiano (in
particolare, il comma 2 dell’art. 192 del Codice degli
appalti pubblici del 2016) i quali pongono invece gli
affidamenti in house in una posizione subordinata e
subvalente e –come detto- li ammettono soltanto in caso di
dimostrato ‘fallimento del mercato’ di riferimento e
a condizione che l’amministrazione dimostri in modo puntuale
gli specifici benefìci per la collettività connessi a tale
forma di gestione.
Come dire, pretermettendo la ragionevolezza del loro
comportamento economico, si presume senz’altro che le
amministrazioni pubbliche non siano in grado di provvedere
autonomamente solo perché non agiscono nel mercato; e per
superare questa presunzione occorre dimostrare che il
mercato, che ha comunque la priorità perché è mercato e non
perché qui assicura condizioni migliori dell’autoproduzione,
non è in concreto capace di corrispondere appieno
all’esigenza di approvvigionamento.
Le restrittive condizioni poste dal diritto italiano
potrebbero giustificarsi in relazione ai princìpi e alle
disposizioni del diritto dell’UE solo a condizione che lo
stesso diritto dell’Unione riconosca a propria volta
priorità sistematica al principio di messa in concorrenza
rispetto a quello della libera organizzazione. Ma così, ad
avviso della Sezione, non pare essere.
Occorre inoltre chiarire se (ferma restando la sostanziale
equivalenza, per il diritto dell’UE, fra le diverse forme di
approvvigionamento di interesse delle amministrazioni) i
singoli ordinamenti nazionali possano legittimamente porre
una di tali forme di affidamento e gestione su un piano che
si presume subordinato, assegnando comunque la priorità e la
prevalenza al principio di apertura concorrenziale rispetto
a quello della libera organizzazione delle amministrazioni
pubbliche.
(2) Ha affermato la Sezione che il particolarissimo schema della
partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in
house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come
organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni
pubbliche non sembra in contrasto con il diritto
comunitario.
Tale schema, tuttavia, sembra sollevare seri dubbi di
contrasto con le previsioni del diritto interno, di cui
occorre quindi verificare la compatibilità con il diritto
dell’UE.
In particolare, l’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle
società partecipate stabilisce che “le amministrazioni
pubbliche non possono, direttamente o indirettamente,
costituire società aventi per oggetto attività di produzione
di beni e servizi non direttamente necessarie per il
perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né
acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in
tali società”.
La disposizione appare in linea l’indirizzo dell’ordinamento
italiano inteso a ridurre dal punto di vista quantitativo e
ad ottimizzare dal punto di vista qualitativo le
partecipazioni delle amministrazioni pubbliche in società di
capitali.
La possibilità che un’amministrazione ‘non affidante’
decida in un secondo momento di acquisire il controllo
analogo (congiunto) e di procedere all’affidamento diretto
del servizio in favore della società che si configura come
organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni
pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre
amministrazioni pubbliche appare esclusa dal diritto
nazionale in quanto se -per un verso- la gestione dei
servizi di igiene urbana rientra di certo fra le finalità
istituzionali degli enti locali ‘non affidanti’ -per
altro verso- la semplice possibilità che l’acquisto del
controllo analogo congiunto e l’affidamento diretto possano
intervenire in futuro sembra non corrispondere al criterio
della “stretta necessarietà” –evidentemente da
considerare come attuale e non come meramente ipotetica e
futura- che appare imposto dal richiamato art. 4, comma 1.
Occorre a questo punto interrogarsi circa la conformità fra
il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della
Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo
congiunto nel caso di società non partecipata unicamente
dalle amministrazioni controllanti e il diritto interno (in
particolare, l’art. 4, comma 1, cit., interpretato nei detti
sensi) che appare non consentire alle amministrazioni di
detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo
a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni
intendano acquisire in futuro una posizione di controllo
congiunto e quindi la possibilità di procedere ad
affidamenti diretti in favore dell’organismo
pluripartecipato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
ordinanza 14.01.2019 n. 293 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - COMPETENZE GESTIONALI:
Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale:
a) “l'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base degli
ordinari canoni ermeneutici -criterio della specialità e
criterio cronologico- prevale sul disposto dell'art. 107,
comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000”;
b) sicché “sebbene l'art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000
attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al
sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, proprio in virtù del carattere di specialità
riconosciuto all'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, da cui la
stessa è disciplinata”.
---------------
V. Il ricorso è fondato.
V.1. Occorre, all’uopo, previamente qualificare il
provvedimento impugnato quale ordinanza ambientale, adottata
nell’esercizio dei poteri ordinari dell’Amministrazione,
sgombrando il campo da ogni apparente commistione, atteso
l’improprio e residuale richiamo normativo, con l’esercizio
di un potere extra ordinem, esercitabile in condizioni di
urgenza e contingibilità, laddove non siano utilmente
utilizzabili, al fine di un sollecito soddisfacimento
dell’interesse pubblico, gli istituti giuridici tipizzati
nell’ordinamento.
V.1.1. Ciò posto, se è vero che in seno al provvedimento
gravato l’art. 14 del Codice della Strada è stato richiamato
al fine di individuare il soggetto obbligato a provvedere
alla pulizia della strada, quale organo concessionario della
relativa gestione e della manutenzione, mentre il
riferimento all’art. 192 del T.U. 152/2006 è volto a
individuare le procedure da seguire per provvedere alla
esecuzione degli interventi, risulta fondata, con valore
assorbente, l’ultima censura di ricorso con la quale viene
dedotto il profilo dell’incompetenza dell’organo procedente.
V.1.2. Si duole, in particolare, parte ricorrente, della
violazione dell’art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152 del
d.lgs. n. 152/2006, sostenendo che, in forza di tale
disposizione, l’ordinanza ambientale di rimozione dei
rifiuti sarebbe di competenza esclusiva del Sindaco, essendo
quest’ultima non solo norma di carattere speciale ma anche
successivamente emanata rispetto a quella di cui all’art 107
del TUEL che, invece, affida ai dirigenti i compiti di
gestione delle attribuzioni amministrative dell’ente locale.
Nel caso di specie, il provvedimento sarebbe stato
illegittimamente adottato dal Responsabile del Settore e non
dall’organo sindacale.
V.1.3. Orbene, il Collegio non ravvisa validi motivi per
discostarsi dal consolidato orientamento giurisprudenziale,
secondo il quale:
a) “l'art. 192 del D.Lgs. n. 152 del 2006, sulla base degli
ordinari canoni ermeneutici -criterio della specialità e
criterio cronologico- prevale sul disposto dell'art. 107,
comma 5, del D.Lgs. n. 267 del 2000” (TAR Campania,
Napoli, sez. V, 15.11.2018, n. 6617);
b) sicché “sebbene l'art. 107, d.lgs. n. 267 del 2000
attribuisca l'attività di gestione ai dirigenti, compete al
sindaco l'emanazione dell'ordinanza di rimozione, recupero e
smaltimento dei rifiuti e di ripristino dello stato dei
luoghi, proprio in virtù del carattere di specialità
riconosciuto all'art. 192, d.lgs. n. 152 del 2006, da cui la
stessa è disciplinata” (TAR Toscana, Firenze, sez. II,
20.04.2018, n. 566).
VI. Sulla base delle sovra esposte considerazioni il ricorso
è meritevole di accoglimento, risultando fondato il dedotto
vizio di incompetenza (TAR Campania-Napoli, Sez. V,
sentenza 14.01.2019 n. 188 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Sull'incarico ad avvocato esterno all'ente per consulenza.
Come già affermato in giurisprudenza nel vigore del D.Lgs.
n. 163/2006, “resta inteso che l’attività di selezione del
difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo
all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di
stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali
dell’azione amministrativa in materia di imparzialità,
trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la
decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta
in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare”.
In ossequio al richiamato principio, la giurisprudenza
riteneva che “sussiste la giurisdizione del g.a. in caso di
affidamento di incarico professionale di consulenza esterna,
perché esso non è esercizio di un'attività di mero diritto
privato della p.a., bensì di un'attività amministrativa che,
come avvenuto nel caso di specie, deve essere adeguatamente
pubblicizzata e "procedimentalizzata", pervenendosi
all'individuazione del soggetto prescelto mediante procedura
comparativa, nella quale i soggetti potenzialmente
interessati ad assumere l'incarico si trovano in una
posizione di interesse legittimo, non trattandosi pertanto
di questione attinente al pubblico impiego, che sarebbe
invece attribuita alla giurisdizione del g.o.”.
Il principio trova conferma nel testo del vigente Codice dei
Contratti.
Sebbene, infatti, l’art. 17, comma 1, lett. d), del D.Lgs.
n. 50/2016, preveda che “le disposizioni del presente codice
non si applicano agli appalti e alle concessioni di
servizi:..d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi
legali:…” deve ritenersi che detta esclusione non determini
l’inapplicabilità dell’art. 4 della medesima fonte normativa
laddove è previsto che “l'affidamento dei contratti pubblici
aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti
attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di
applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica”.
Circa tale specifico profilo deve rilevarsi che a seguito
dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, la
giurisprudenza di primo grado, in occasione
dell’impugnazione di un affidamento in convenzione per anni
due dell’incarico di rappresentanza e difesa del Comune
dinanzi alle giurisdizioni amministrative, precisava che “a
differenza del precedente codice dei contratti (d.lgs. n.
163/2006), l’art. 17 del vigente codice approvato con d.lgs.
n. 50/2016 esclude espressamente dall’applicazione delle
regole del medesimo l’affidamento dei servizi legali.
Tuttavia a mente dell’art. 4 del medesimo decreto
legislativo restano applicabili a tale tipologia di
affidamento i <<principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica>>”, riconoscendo la propria
giurisdizione.
---------------
... per l'annullamento,
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
1) della nota prot. n. 652 del 28/03/2018 notificata in pari
data a mezzo pec all'indirizzo del ricorrente , con cui è
stata comunicata la inidoneità della candidatura presenza in
relazione all'Avviso pubblico di procedura comparativa per
il conferimento di un incarico di consulenza legale ed
assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile
generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo
– Beni del Patrimonio indisponibile e Appalti-Accreditamenti
di servizi sociali;
2) della determinazione n. 30 del 05/03/2018 conosciuta dal
ricorrente in data 19/04/2018, di conferimento dell'incarico
per la durata annuale di rappresentanza legale in arbitrato
e/o in procedimento di conciliazione e/o in procedimento
giudiziario dinnanzi a organi giurisdizionali o Autorità
Pubbliche o Enti preposti, nonché di consulenza legale da
fornire in previsione o preparazione di uno dei predetti
procedimenti o qualora si prospetti la concreta possibilità
di loro instaurazione;
3) dell'avviso pubblico ad oggetto SELEZIONE PER
L'AFFIDAMENTO DI INCARICO DI CONSULENZA LEGALE ED ASSISTENZA
AD AVVOCATO ESTERNO IN MATERIA DI DIRITTO CIVILE GENERALE –
LOCAZIONI E CONCESSIONI, DIRITTO AMMINISTRATIVO – BENI DEL
PATRIMONIO INDISPONIBILE E APPALTI –ACCREDITAMENTI DI
SERVIZI SOCIALI;
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
-
del Verbale del Consiglio di Amministrazione del 28/02/2018
depositato in giudizio il 18/05/2018 dal quale si
“evidenziano le motivazioni di affidamento all'avv.to
-OMISSIS- dell'incarico di consulenza legale …”;
...
Con Avviso pubblicato sul sito istituzionale in data 21.02.2018, -OMISSIS-(di seguito Azienda) indiceva una
“procedura comparativa per il conferimento di un incarico di
consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in
materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni
e Diritto Amministrativo –Beni del patrimonio indisponibile
e Appalti- Accreditamenti dei servizi sociali”.
L’Avviso specificava l’oggetto dell’incarico in “prestazioni
di consulenza specialistica su casi di Locazioni e
Concessioni di beni immobili indisponibili adibiti
all’erogazione di servizi sociali in regime di appalto e/o
accreditamento per la difesa degli interessi dell’Ente”
inquadrandole nella tipologia della “prestazione d’opera
professionale”.
All’esito delle valutazioni del caso, l’Azienda, con
determinazione n. 30 del 05.03.2018, conferiva l’incarico
all’Avv. -OMISSIS-, odierna controinteressata e, con nota
del 28 marzo successivo, comunicava al ricorrente che la sua
candidatura non era stata considerata “la più idonea a
soddisfare le esigenze aziendali”.
Con successiva nota del 19.04.2018 l’Azienda, in esito
ad istanza di accesso presentata dal ricorrente,
rappresentava al medesimo che a conclusione della procedura
di selezione “non si [era] proceduto alla formazione di
alcuna graduatoria ma semplicemente all’affidamento
dell’incarico al professionista che, sulla base dei
curriculum, è risultato idoneo alle esigenze di questa
Azienda”.
Il ricorrente impugnava gli esiti della selezione e l’Avviso
pubblico chiedendo la declaratoria di inefficacia del
contratto stipulato con il vincitore e del diritto al
conferimento dell’incarico e, in subordine, la rinnovazione
dell’intera procedura, nonché, il risarcimento dei danni
patiti.
...
L’eccezione è infondata.
Come già affermato in giurisprudenza nel vigore del D.Lgs.
n. 163/2006, “resta inteso che l’attività di selezione del
difensore dell’ente pubblico, pur non soggiacendo
all’obbligo di espletamento di una procedura comparativa di
stampo concorsuale, è soggetta ai principi generali
dell’azione amministrativa in materia di imparzialità,
trasparenza e adeguata motivazione onde rendere possibile la
decifrazione della congruità della scelta fiduciaria posta
in atto rispetto al bisogno di difesa da appagare” (Cons. St.,
Sez. V, 11.05.2012, n. 2730).
In ossequio al richiamato principio, la giurisprudenza
riteneva che “sussiste la giurisdizione del g.a. in caso di
affidamento di incarico professionale di consulenza esterna,
perché esso non è esercizio di un'attività di mero diritto
privato della p.a., bensì di un'attività amministrativa che,
come avvenuto nel caso di specie, deve essere adeguatamente
pubblicizzata e "procedimentalizzata", pervenendosi
all'individuazione del soggetto prescelto mediante procedura
comparativa, nella quale i soggetti potenzialmente
interessati ad assumere l'incarico si trovano in una
posizione di interesse legittimo, non trattandosi pertanto
di questione attinente al pubblico impiego, che sarebbe
invece attribuita alla giurisdizione del g.o. (TAR
Sicilia, Palermo, Sez. III, 31.08.2010 n. 9255, TAR
Veneto, Sez. II, 10.07.2009 n. 2187)” (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 31.07.2014, n. 2176).
Il principio trova conferma nel testo del vigente Codice dei
Contratti.
Sebbene, infatti, l’art. 17, comma 1, lett. d), del D.Lgs.
n. 50/2016, preveda che “le disposizioni del presente codice
non si applicano agli appalti e alle concessioni di
servizi:..d) concernenti uno qualsiasi dei seguenti servizi
legali:…” deve ritenersi che detta esclusione non determini
l’inapplicabilità dell’art. 4 della medesima fonte normativa
laddove è previsto che “l'affidamento dei contratti pubblici
aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti
attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall'ambito di
applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel
rispetto dei principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica”.
Circa tale specifico profilo deve rilevarsi che a seguito
dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016, la
giurisprudenza di primo grado, in occasione
dell’impugnazione di un affidamento in convenzione per anni
due dell’incarico di rappresentanza e difesa del Comune
dinanzi alle giurisdizioni amministrative, precisava che “a
differenza del precedente codice dei contratti (d.lgs. n.
163/2006), l’art. 17 del vigente codice approvato con d.lgs.
n. 50/2016 esclude espressamente dall’applicazione delle
regole del medesimo l’affidamento dei servizi legali.
Tuttavia a mente dell’art. 4 del medesimo decreto
legislativo restano applicabili a tale tipologia di
affidamento i <<principi di economicità, efficacia,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità, pubblicità, tutela dell'ambiente ed
efficienza energetica>>”, riconoscendo la propria
giurisdizione (TAR Campania, Napoli, 24.04.2018, n.
4935).
La riconduzione della presente controversia alla
giurisdizione amministrativa, nei suesposti termini, non
determina, per ciò solo, l’applicabilità del rito speciale
in materia di appalti.
La giurisprudenza, infatti, con orientamento dal quale non
si ha motivo di discostarsi, ha avuto modo di affermare che
in presenza di “un cd. contratto escluso (ex art. 49-ter del
D.lgs. 177/2005 e ex art. 17 del d.lgs. 50/2016), non si
applica il rito accelerato di cui all'art. 120, comma 2-bis,
del codice del processo amministrativo (trattandosi, ad
avviso del Collegio, di rito non coessenziale all'evidenza
pubblica)” (TAR Lazio, Roma, Sez. III, 24.07.2018, n.
8350).
Premesso quanto sopra, deve rielevarsi che l’intervenuta
composizione bonaria della controversia in vista della quale
veniva indetta la procedura selettiva in questione determina
l’improcedibilità per sopravvenuto difetto di interesse
delle domande di cui ai punti 5, 6 e 7 dell’epigrafe del
ricorso (tese a conseguire la “declaratoria di inefficacia
dell’eventuale contratto stipulato”, la “declaratoria del
diritto del ricorrente al conferimento dell’incarico” e la
“declaratoria del diritto del ricorrente alla rinnovazione
della valutazione della selezione” (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 14.01.2019 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI -
INCARICHI PROFESSIONALI:
Il
riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone
"una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata
dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non
identificabile nella perdita della semplice possibilità di
conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale
di un esito favorevole, anche solo probabile, se non
addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova
certa di una probabilità di successo almeno pari al
cinquanta per cento o quella che l'interessato si sarebbe
effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava.
Invero, in materia di responsabilità civile
dell'amministrazione occorre distinguere fra probabilità di
riuscita, che va considerata quale chance risarcibile e mera
possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi
chance irrisarcibile; il risarcimento del danno da perdita
di chance richiede dunque l'accertamento di indefettibili
presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo
viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui
l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la
perdita di una mera ed ipotetica eventualità di
conseguimento del bene della vita.
---------------
... per l'annullamento,
per quanto riguarda il ricorso introduttivo:
1) della nota prot. n. 652 del 28/03/2018 notificata in pari
data a mezzo pec all'indirizzo del ricorrente , con cui è
stata comunicata la inidoneità della candidatura presenza in
relazione all'Avviso pubblico di procedura comparativa per
il conferimento di un incarico di consulenza legale ed
assistenza ad avvocato esterno in materia di Diritto Civile
generale – Locazioni e Concessioni e Diritto Amministrativo
– Beni del Patrimonio indisponibile e Appalti-Accreditamenti
di servizi sociali;
2) della determinazione n. 30 del 05/03/2018 conosciuta dal
ricorrente in data 19/04/2018, di conferimento dell'incarico
per la durata annuale di rappresentanza legale in arbitrato
e/o in procedimento di conciliazione e/o in procedimento
giudiziario dinnanzi a organi giurisdizionali o Autorità
Pubbliche o Enti preposti, nonché di consulenza legale da
fornire in previsione o preparazione di uno dei predetti
procedimenti o qualora si prospetti la concreta possibilità
di loro instaurazione;
3) dell'avviso pubblico ad oggetto SELEZIONE PER
L'AFFIDAMENTO DI INCARICO DI CONSULENZA LEGALE ED ASSISTENZA
AD AVVOCATO ESTERNO IN MATERIA DI DIRITTO CIVILE GENERALE –
LOCAZIONI E CONCESSIONI, DIRITTO AMMINISTRATIVO – BENI DEL
PATRIMONIO INDISPONIBILE E APPALTI –ACCREDITAMENTI DI
SERVIZI SOCIALI;
per quanto riguarda i motivi aggiunti:
-
del Verbale del Consiglio di Amministrazione del 28/02/2018
depositato in giudizio il 18/05/2018 dal quale si
“evidenziano le motivazioni di affidamento all'avv.to
-OMISSIS- dell'incarico di consulenza legale …”;
...
Con Avviso pubblicato sul sito istituzionale in data 21.02.2018, -OMISSIS-(di seguito Azienda) indiceva una
“procedura comparativa per il conferimento di un incarico di
consulenza legale ed assistenza ad avvocato esterno in
materia di Diritto Civile generale – Locazioni e Concessioni
e Diritto Amministrativo –Beni del patrimonio indisponibile
e Appalti- Accreditamenti dei servizi sociali”.
L’Avviso specificava l’oggetto dell’incarico in “prestazioni
di consulenza specialistica su casi di Locazioni e
Concessioni di beni immobili indisponibili adibiti
all’erogazione di servizi sociali in regime di appalto e/o
accreditamento per la difesa degli interessi dell’Ente”
inquadrandole nella tipologia della “prestazione d’opera
professionale”.
All’esito delle valutazioni del caso, l’Azienda, con
determinazione n. 30 del 05.03.2018, conferiva l’incarico
all’Avv. -OMISSIS-, odierna controinteressata e, con nota
del 28 marzo successivo, comunicava al ricorrente che la sua
candidatura non era stata considerata “la più idonea a
soddisfare le esigenze aziendali”.
Con successiva nota del 19.04.2018 l’Azienda, in esito
ad istanza di accesso presentata dal ricorrente,
rappresentava al medesimo che a conclusione della procedura
di selezione “non si [era] proceduto alla formazione di
alcuna graduatoria ma semplicemente all’affidamento
dell’incarico al professionista che, sulla base dei
curriculum, è risultato idoneo alle esigenze di questa
Azienda”.
Il ricorrente impugnava gli esiti della selezione e l’Avviso
pubblico chiedendo la declaratoria di inefficacia del
contratto stipulato con il vincitore e del diritto al
conferimento dell’incarico e, in subordine, la rinnovazione
dell’intera procedura, nonché, il risarcimento dei danni
patiti.
...
Permane pertanto un interesse allo scrutino delle domande
proposte da parte ricorrente (con il ricorso introduttivo e
con i motivi aggiunti) ai soli fini risarcitori.
Le doglianze oggetto di motivi aggiunti sono fondate.
L’Avviso prevedeva che l’istanza di partecipazione fosse
“fatta pervenire tassativamente entro le ore 12 del 02.03.2018”.
Il ricorrente presentava la propria candidatura con posta
certificata in data 01.03.2018, ore 10:32 mentre la controinteressata presentava la propria candidatura con atto
pervenuto il 02.03.2018.
Ciò nonostante il Consiglio di Amministrazione dell’Azienda,
nella seduta del 28.02.2018 (precedentemente, quindi,
tanto allo scadere del termine di presentazione delle
candidature, quanto alla stessa presentazione delle domande
da parte degli odierni ricorrente e controinteressata),
definiva la procedura selettiva.
Come documentato nel relativo verbale “il Direttore presenta
le candidature pervenute a seguito di procedura comparativa
per il conferimento di consulenza legale ….. Il Consiglio
rileva l’attinenza dell’esperienza dell’Avv. -OMISSIS- in
ordine a contenziosi trattati per altri enti su concessioni
di immobili”.
La controinteressata, in ordine la presente profilo, si
limita ad affermare che “a seguito della notificazione dei
motivi aggiunti, sono state acquisite le informazioni
necessarie presso l’Azienda per comprendere effettivamente
l’incongruenza delle date e mi è stato riferito che si è
trattato di un mero errore materiale nella trascrizione dei
verbali” (pag. 4 della memoria depositata il 16.06.2018).
Tale giustificazione, riferibile all’Azienda che, benché
ritualmente intimata, non si è costituita, è contraddetta
dalle produzioni della medesima.
Che non si tratti di un mero errore materiale
nell’indicazione della data trova smentita non solo nella
relazione spontaneamente versata in atti dall’Azienda il 18.05.2018 (ove si dà tatto che “le motivazioni di
affidamento all’avv. -OMISSIS- …” erano contenute nel verbale
di seduta del 28 febbraio, ma emerge, altresì, dalla
pubblicazione dei verbali delle sedute del Consiglio di
Amministrazione pubblicate sul web ...
dalle quali si evince che la seduta in questione si teneva
in data 28.02.2018 (dato confermato dalle date di
tutte le delibere in quella sede adottate: n. 11 recante
“Indirizzo favorevole all’avvio di nuova convenzione ex art.
45 legge n. 203/82 relativa a terreni siti in Gualtieri”; n.
12 avente ad oggetto “Contratto di locazione di n. 3 unità
immobiliari urbana ad uso abitativo di natura transitoria ai
sensi dell’art. 5 L. 431/1998 e ss.mm.ii. di proprietà
dell’Azienda “Progetto Persona” in favore della Cooperativa
sociale e di solidarietà -OMISSIS- di Reggio Emilia” e n. 13
avente ad oggetto “Presa d’atto dimissioni volontarie per
collocamento a riposo con diritto a pensione diretta
ordinaria di anzianità dipendente -OMISSIS- Direttore
Generale dell’ASP Progetto Persona in servizio presso la
sede amministrativa di -OMISSIS-”).
Ne deriva che l’esito in questa sede contestato veniva
anticipato ad un momento precedente a quello in cui era
previsto si svolgessero le operazioni valutative: attività
che non può che seguire la ricezione delle domande di
partecipazione.
Nonostante la palese illegittimità dell’operato
dell’Amministrazione non può, tuttavia, trovare accoglimento
la domanda risarcitoria non avendo il ricorrente comprovato
la sussistenza di un danno.
Il ricorrente, infatti, afferma la spettanza dell’incarico
sostenendo la superiorità del proprio profilo curriculare
rispetto a quello della controinteressata ma supporta detto
assunto allegando valutazioni soggettive prive di alcun
principio di prova e senza considerare che alla selezione
partecipavano altri 6 candidati i cui profili non sono
oggetto di rilievo.
Per le medesime considerazioni, inoltre, non trova
possibilità di accoglimento la domanda di risarcimento del
danno da perdita di chance.
Come, infatti, la giurisprudenza ha già precisato “il
riconoscimento del danno da perdita di chance presuppone
"una rilevante probabilità del risultato utile" frustrata
dall'agire illegittimo dell'amministrazione, non
identificabile nella perdita della semplice possibilità di
conseguire il risultato sperato, bensì nella perdita attuale
di un esito favorevole, anche solo probabile, se non
addirittura -secondo più restrittivi indirizzi- la prova
certa di una probabilità di successo almeno pari al
cinquanta per cento o quella che l'interessato si sarebbe
effettivamente aggiudicato il bene della vita cui aspirava.
Invero, in materia di responsabilità civile
dell'amministrazione occorre distinguere fra probabilità di
riuscita, che va considerata quale chance risarcibile e mera
possibilità di conseguire l'utilità sperata, da ritenersi
chance irrisarcibile; il risarcimento del danno da perdita
di chance richiede dunque l'accertamento di indefettibili
presupposti di certezza dello stesso danno, dovendo
viceversa escludersi tale risarcimento nel caso in cui
l'atto, ancorché illegittimo, abbia determinato solo la
perdita di una mera ed ipotetica eventualità di
conseguimento del bene della vita (ex multis, Cons. Stato,
V, 07.06.2017, n. 2740)” (Cons. Stato, Sez. V, 11.07.2018, n. 4225): “indefettibili presupposti di certezza dello
stesso danno” che, come anticipato, non sono comprovati dal
ricorrente.
Deve ritenersi, infine, inesistente un “danno morale
conseguente alla lesione dell’immagine professionale”,
allegato genericamente dal ricorrente senza esposizioni di
elementi di sorta a sostegno dell’esistenza e consistenza
dello stesso.
Per quanto precede il ricorso deve essere dichiarato
improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse e deve
essere respinta la domanda risarcitoria.
Stante il descritto esito ed in ragione dell’imputabilità
all’Azienda dell’illegittimo sviluppo procedimentale della
selezione oggetto del giudizio accertato in ossequio al
principio della soccombenza virtuale, le spese di giudizio
vengono compensate relativamente alla controinteressata,
nonché, in parte compensate e in parte poste a carico
dell’Amministrazione nella misura liquidata in dispositivo (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 14.01.2019 n. 3 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso civico in materia di appalti
pubblici.
Non può affermarsi che
il c.d. accesso civico non possa applicarsi
ai procedimenti di appalto delle pubbliche
amministrazioni di cui al vigente d.lgs.
50/2016.
In particolare, non ne suffraga la tesi il
riferimento al comma 3 dell’art. 5-bis del
d.lgs n. 33/2013, secondo cui l’accesso
civico è escluso «nei casi di segreto di
Stato e negli altri casi di divieti di
accesso o divulgazione previsti dalla legge,
ivi compresi i casi in cui l'accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità
o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo
24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Invero, tali condizioni, modalità o limiti
devono in generale essere correlati sia al
principio generale di trasparenza, quale
affermato all’art. 1 dello stesso d.lgs.
50/2016, sia al fatto che essi sono
coordinati, nell’ambito della stessa
previsione a divieti d’accesso, e non a
restrizioni di minor rilievo.
Ora, la disciplina dell’accesso agli atti in
materia di appalti si rinviene nell’art. 53
del codice dei contratti pubblici, il quale
però al primo comma richiama espressamente
la legge n. 241/1990, salvo introdurre nei
commi successivi una serie di prescrizioni
riguardanti invero essenzialmente il
differimento dell’accesso in corso di gara,
senza quindi che possa sostenersi che si
configuri una speciale disciplina, realmente
derogatoria di quella di ordine generale
della legge 241/1990 e tale da escludere
definitivamente l’accesso civico: questo
potrà essere in subiecta materia
temporalmente vietato, negli stessi limiti
in cui ciò avviene per i partecipanti alla
gara, e dunque fino a che questa non sarà
terminata, ma non escluso definitivamente,
se non per quanto stabilito da altre
disposizioni, e così, prima di tutte, dalla
chiara previsione dell’art. 5, comma 2, del
d.lgs. 33/2013
(TAR Lombardia-Milano, Sez. VI, sentenza VI,
sentenza 11.01.2019 n. 45 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
2.1 Il Collegio reputa necessario valutare
preventivamente la domanda di accesso civico
presentata dall’esponente e respinta dal
provvedimento impugnato.
Ca. sostiene a proprio favore
l’applicazione dell’art. 5, commi 2 e 3, del D.Lgs. 33/2013, come modificato nel 2016,
relativo al c.d. accesso civico
generalizzato.
In base a tali norme, è consentito a
“chiunque” –senza la prova di una
particolare legittimazione e senza onere di
motivare la relativa istanza– l’accesso a
dati e documenti della pubblica
amministrazione, anche ulteriori rispetto a
quelli per i quali sussiste un obbligo
giuridico di pubblicazione.
L’art. 5-bis, comma 2, lettera c), del D.Lgs.
33/2013 esclude l’accesso civico
generalizzato per evitare un “pregiudizio
concreto” agli interessi economici e
commerciali di una persona fisica o
giuridica ed a tale norma si è richiamata
l’amministrazione nel caso di specie (cfr.
ancora il doc. 1 della resistente).
Il Collegio però ritiene tale richiamo
apodittico e comunque non sufficiente a
fondare il rigetto da parte della Provincia
di Lecco.
In risposta alle difese delle parti
intimate, non può certamente affermarsi che
il c.d. accesso civico non possa applicarsi
ai procedimenti di appalto delle pubbliche
amministrazioni di cui al vigente D.Lgs.
50/2016.
In particolare, non ne suffraga la tesi il
riferimento al comma 3 dell’art. 5-bis
citato, secondo cui l’accesso civico è
escluso «nei casi di segreto di Stato e
negli altri casi di divieti di accesso o
divulgazione previsti dalla legge, ivi
compresi i casi in cui l'accesso è
subordinato dalla disciplina vigente al
rispetto di specifiche condizioni, modalità
o limiti, inclusi quelli di cui all'articolo
24, comma 1, della legge n. 241 del 1990».
Invero, per quanto d’interesse, tali
“condizioni, modalità o limiti”, devono in
generale essere correlati sia al principio
generale di trasparenza, quale affermato
all’art. 1 dello stesso d.lgs. 50/2016, sia
al fatto che essi sono coordinati,
nell’ambito della stessa previsione a
“divieti d’accesso”, e non a restrizioni di
minor rilievo: la disciplina di cui al
citato D.Lgs. 33/2013 costituisce insomma la
regola generale e le eccezioni alla medesima
devono essere interpretate restrittivamente,
per evitare la sostanziale vanificazione
dell’intendimento del legislatore di
garantire l’accesso civico.
Ora, la disciplina dell’accesso agli atti in
materia di appalti si rinviene nell’art. 53
del codice dei contratti pubblici, il quale
però al primo comma richiama espressamente
la legge n. 241/1990, salvo introdurre nei
commi successivi una serie di prescrizioni
riguardanti invero essenzialmente il
differimento dell’accesso in corso di gara,
senza quindi che possa sostenersi che si
configuri una speciale disciplina, realmente
derogatoria di quella di ordine generale
della legge 241/1990 e tale da escludere
definitivamente l’accesso civico: questo
potrà essere in subiecta materia temporalmente vietato, negli stessi limiti
in cui ciò avviene per i partecipanti alla
gara, e dunque fino a che questa non sarà
terminata, ma non escluso definitivamente,
se non per quanto stabilito da altre
disposizioni, e così, prima di tutte, dalla
chiara previsione dell’art. 5, comma 2, del D.Lgs. 33/2013.
Non appare dunque legittimo il diniego
provinciale, fondato sul mero richiamo al
già citato comma 2 dell’art. 5-bis,
considerato altresì che l’amministrazione
non ha preventivamente interpellato le due
imprese interessate alla domanda di accesso
civico, né ha valutato l’istanza proposta in
via subordinata dalla parte istante, tesa ad
ottenere anche soltanto un accesso parziale,
vale a dire limitato alle sole parti delle
offerte non concretamente coperte da segreto
(cfr. ancora il doc. 2 della ricorrente).
In altri termini, come già accennato, la
motivazione del diniego si risolve in un
mero richiamo alla norma preclusiva
dell’ostensione, senza un preciso
riferimento alle circostanze fattuali e
giuridiche impeditive dell’accesso civico.
2.2 Fermo restando quanto sopra esposto
relativo all’applicazione del D.Lgs.
33/2013, il ricorso in epigrafe presenta
profili di fondatezza pure in ordine alla
lamentata violazione della legge 241/1990.
Infatti, la motivazione del diniego appare
anche sotto tale profilo laconica e
frettolosa, posto che la Provincia, fra
l’altro senza neppure interpellare i
controinteressati come invece previsto dal
DPR 184/2006, si limita ad affermare che
Ca. “non ha presentato la propria
offerta, pur essendo stata invitata…” (cfr.
il doc. 2 della resistente, pag. 2), per
trarre poi la conclusione che l’istanza di
accesso non soddisfa i requisiti previsti
dalla normativa applicabile.
Si tratta di una motivazione evidentemente
insufficiente, in quanto la mancata
partecipazione ad una procedura non implica
di per sé l’esclusione da ogni pretesa di
accesso ai documenti (cfr. TAR Veneto, sez.
I, 10.1.2017, n. 16).
Il presente gravame merita pertanto
accoglimento, con assorbimento di ogni altra
censura e con annullamento del provvedimento
ivi impugnato, mentre non è allo stato
possibile ordinare l’esibizione dei
documenti richiesti, spettando viceversa
all’Autorità che detiene la documentazione
stabilire motivatamente se –e in che misura– vi ostino concretamente i vincoli posti
dalla disciplina applicabile.
Per effetto del citato accoglimento, la
Provincia di Lecco è onerata di una nuova
valutazione dell’accesso, anche di quello
civico, con interpello delle imprese
interessate e con eventuale successiva
valutazione di un rilascio anche parziale,
per le parti dei documenti non coperti da
esigenze di riservatezza ai sensi del comma
2 dell’art. 5-bis sopra citato oppure
dell’art. 24 della legge 241/1990. |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI:
Transenne pedonali: sì alla pubblicità. Secondo
il Consiglio di Stato, gli “spot” non distraggono gli
automobilisti.
Il Consiglio di Stato dice sì alle transenne pedonali con
pubblicità. Parliamo di barriere di sicurezza fisse per
incanalare pedoni presso l’attraversamento obbligato,
realizzate di solito in tubolare di acciaio: i giudici
dicono che questi manufatti sono leciti anche se al loro
interno ci sono pubblicità. Questi “spot”, in genere
cartelli rettangolari con la base più lunga, non distraggono
gli automobilisti, almeno stando al Consiglio di Stato.
Per il Consiglio di Stato, è tutto in regola: la sicurezza
stradale non viene pregiudicata. Non è vero che, per
dimensioni, forma, colori, disegno e ubicazione, quelle
pubblicità possono ingenerare confusione con la segnaletica
stradale.
Non è vero che possono renderne difficile la comprensione o
ridurne la visibilità o l'efficacia. E non è vero che
possono arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o
distrarne l'attenzione. E comunque, “l’amministrazione
sarebbe stata tenuta a motivare puntualmente in ordine alla
sussistenza concreta del pericolo per la sicurezza della
circolazione determinato dalle installazioni pubblicitarie
in questione”. Ma il Comune è stato troppo generico
(commento tratto da www.msn.com).
---------------
Il ricorso è fondato, nei termini che seguono.
L’impugnato provvedimento di diniego è motivato per
relationem mercé il richiamo al parere sfavorevole del
24/12/2016 espresso dalla Polizia municipale e la ulteriore
nota della stessa del 16/5/2017, di conferma del parere
contrario.
Il suddetto parere della Polizia municipale a sua volta è
succintamente motivato, “ai soli fini della sicurezza
stradale prevista dall’art. 23, c. 1, d.lgs. 285/1992”
(Nuovo codice della strada) “IN QUANTO GLI IMPIANTI
RISULTANO POSIZIONATI IN CORRISPONDENZA DI INTERSEZIONE
STRADALE” (maiuscolo nell’originale).
Il parere prosegue esprimendo l’avviso che l’autorizzazione
rilasciata alla società il 27/08/1971 debba essere revocata
in quanto non più conforme al Codice della strada, al
Regolamento di esecuzione e al Regolamento comunale e la
società debba essere chiamata a rimuovere gli impianti entro
30 giorni.
Il riferimento, graficamente evidenziato nel suddetto
parere, alla collocazione delle transenne in corrispondenza
di intersezione stradale, non ha fondamento poiché, come ben
argomentato dalla società ricorrente, in termini peraltro
già colti dalla giurisprudenza amministrativa e sopra
riassuntivamente esposti, non sussiste, ai sensi dell’art.
51, comma 8, del d.P.R. 16.12.1992, n. 495 (“Regolamento
di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada”)
-e, deve soggiungersi, dell’art. 14 del Piano generale degli
impianti pubblicitari del Comune di Pescia- un generale
divieto di collocazione di pubblicità sulle transenne
parapedonali nei centri abitati, in corrispondenza di
intersezioni stradali.
Né giova a fondare il parere contrario il sintetico richiamo
in esso contenuto all’art. 23, comma 1, del Nuovo codice
della strada, atteso che tale fonte reca un generale (e
generico) divieto a collocare sulle strade insegne
pubblicitarie “che per dimensioni, forma, colori, disegno
e ubicazione possono ingenerare confusione con la
segnaletica stradale, ovvero possono renderne difficile la
comprensione o ridurne la visibilità o l'efficacia, ovvero
arrecare disturbo visivo agli utenti della strada o
distrarne l'attenzione con conseguente pericolo per la
sicurezza della circolazione”.
Infatti, alla luce dell’affidamento maturato dalla società
ricorrente fin dal 1971 -e del fatto che le norme invocate
dall’Amministrazione a sostegno del parere contrario sono a
loro volta risalenti: il Nuovo codice della strada e il
Regolamento di attuazione al 1992, il Piano comunale al
2004, modificato nel 2012- l’Amministrazione sarebbe stata
tenuta a motivare puntualmente in ordine alla sussistenza
concreta del pericolo per la sicurezza della circolazione
determinato dalle installazioni pubblicitarie in questione.
A ciò può aggiungersi che il Comune non ha richiamato l’art.
77, comma 6, del Regolamento di attuazione (ricordato invece
dal Ministero), che vieta l’interferenza della pubblicità
con i segnali stradali, sulla cui base avrebbe potuto
eventualmente fondarsi una –comunque necessariamente
puntuale e specifica- motivazione del diniego.
Quanto infine alla condanna alle spese, richiesta dalla
ricorrente, essa è inammissibile, essendo il ricorso
straordinario un rimedio finalizzato esclusivamente a
pronunce costitutive di annullamento e non a pronunce di
condanna (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 10.01.2019 n. 144 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Individuazione
dei soggetti obbligati alla realizzazione
delle opere di urbanizzazione previste da
una convenzione di lottizzazione.
----------------
Il Collegio ritiene che:
a) gli accordi di lottizzazione
convenzionata rivestono una finalità
pubblica, in quanto strumento regolativo
dell’ordinato assetto urbanistico del
territorio in funzione dell’interesse della
collettività;
b) non può pertanto essere attribuita alla
convenzione di lottizzazione il solo
obiettivo di regolamentazione meramente
privatistica di interessi riservata
esclusivamente alle parti della convenzione,
rilevando in senso contrario il preminente
interesse al governo del territorio che
tramite essa viene perseguito;
c) da ciò ne consegue che i soggetti
residenti nelle aree del territorio comunale
coinvolte dagli accordi convenzionali, pur
essendo terzi rispetto alla convenzione,
possono vantare una qualificata pretesa
soggettiva, individuabile più propriamente
nella situazione giuridica dell’interesse
legittimo, all’osservanza da parte
dell’autorità comunale degli obblighi di
realizzazione e di gestione delle opere
pubbliche previste dalla convenzione di
lottizzazione;
d) pertanto, in linea di principio anche il
singolo proprietario è ben legittimato a
veder garantita l’attuazione delle
previsioni delle convenzioni concluse in
materia di lottizzazione, ai sensi dell’art.
28 della legge 17.08.1942, n. 1150;
e) peraltro, con specifico riferimento al
caso di specie, risulta che i ricorrenti,
nel chiedere un adempimento al Comune, hanno
fatto prevalentemente riferimento ad un
obbligo direttamente discendente dalla
legge, ossia di cui all’art. 28 citato.
----------------
Il Consiglio di Stato, in ordine alla
questione dell’individuazione dei soggetti
obbligati alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione previste da una convenzione
di lottizzazione, sulla base della
giurisprudenza sviluppatasi in materia,
osserva che:
a) al fine di individuare quali sono i legittimati passivi in caso
di inadempimento è necessario, in via
preliminare, definire la natura giuridica
delle obbligazioni derivanti dalla
convenzione stipulata con l'ente locale;
b) le convenzioni urbanistiche hanno lo scopo di garantire che
all'edificazione del territorio corrisponda
non solo l'approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona
che, nell'insieme, garantiscano la normale
qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall'autorità preposta alla
gestione del territorio;
c) è in quest’ottica che devono essere letti ed interpretati gli
obblighi dedotti nelle convenzioni
urbanistiche e, per tale motivo, la Corte di
cassazione ha sempre affermato che
l'obbligazione assunta di provvedere alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione
da colui che stipula una convenzione
edilizia è di natura propter rem;
d) la natura reale dell'obbligazione comporta dunque che
all’adempimento della stessa saranno tenuti
non solo i soggetti che stipulano la
convenzione, ma anche quelli che richiedono
la concessione, quelli che realizzano
l'edificazione e i loro aventi causa;
e) in senso conforme è la giurisprudenza amministrativa, secondo la
quale l'assunzione, all'atto della
stipulazione di una convenzione di
lottizzazione, dell'impegno -per sé, per i
propri eredi e per gli altri aventi causa-
di realizzare una serie di opere di
urbanizzazione del territorio e di
costituire su una parte di quelle aree una
servitù di uso pubblico, dà luogo ad una
obbligazione propter rem, che grava quindi
sia sul proprietario del terreno che abbia
stipulato la convenzione di lottizzazione,
sia su coloro che abbiano richiesto il
rilascio della concessione edilizia
nell'ambito della lottizzazione, sia infine
sui successivi proprietari della medesima
res, per cui l'avente causa del lottizzante
assume tutti gli oneri a carico di quest'ultimo
in sede di convenzione di lottizzazione,
compresi quelli di urbanizzazione ancora
dovuti, risultando inopponibile
all’Amministrazione qualsiasi previsione
contrattuale dal contenuto opposto e
qualsiasi vicenda di natura civilistica
riguardanti i beni in questione;
f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà passiva
dell'obbligazione, proprio della natura
propter rem, non trasforma ex se gli aventi
causa dei lottizzanti in “parti” a pieno
titolo del rapporto convenzionale, ma li
rende semplicemente corresponsabili
nell'esecuzione degli impegni presi.
----------------
In ragione di quanto considerato, il
Collegio ritiene che legittimati passivi
dell'obbligazione di realizzazione delle
opere di urbanizzazione debbono ritenersi
non solo i lottizzanti che hanno concluso la
convenzione, ma anche coloro che risultano
attuali proprietari delle aree incluse nel
comparto lottizzato e che utilizzano le
stesse, quali aventi causa degli originali
lottizzanti o successivi aventi causa, e
comunque in ogni caso di acquisto a titolo
originario o a titolo derivativo.
---------------
MASSIMA
...
per la riforma, quanto al ricorso n. 5339
del 2017, al ricorso n. 5446 del 2017 e al
ricorso n. 6160 del 2017,
della
sentenza
10.01.2017 n. 13 del Tribunale amministrativo
regionale per la Sardegna (Sez. II);
...
7. Attesa l’infondatezza del ricorso nel
merito, il Collegio ritiene di non dovere
esaminare le eccezioni preliminari sollevate
dal Comune appellato, relative
all’inammissibilità degli appelli, dovuta
asseritamente alla incompleta notifica e
alla non omogeneità tra essi, e
all’inammissibilità dell’intervento del
condominio “Il Castello di Gallura”.
7.1. Ancora in via preliminare, in ordine
alla questione attinente alla legittimazione
attiva dei ricorrenti, contrariamente a
quanto ravvisato dal primo giudice, il
Collegio ritiene che:
a) gli accordi di lottizzazione
convenzionata rivestono una finalità
pubblica, in quanto strumento regolativo
dell’ordinato assetto urbanistico del
territorio in funzione dell’interesse della
collettività;
b) non può pertanto essere attribuita alla
convenzione di lottizzazione il solo
obiettivo di regolamentazione meramente
privatistica di interessi riservata
esclusivamente alle parti della convenzione,
rilevando in senso contrario il preminente
interesse al governo del territorio che
tramite essa viene perseguito;
c) da ciò ne consegue che i soggetti
residenti nelle aree del territorio comunale
coinvolte dagli accordi convenzionali, pur
essendo terzi rispetto alla convenzione,
possono vantare una qualificata pretesa
soggettiva, individuabile più propriamente
nella situazione giuridica dell’interesse
legittimo, all’osservanza da parte
dell’autorità comunale degli obblighi di
realizzazione e di gestione delle opere
pubbliche previste dalla convenzione di
lottizzazione;
d) pertanto, in linea di principio anche il
singolo proprietario è ben legittimato a
veder garantita l’attuazione delle
previsioni delle convenzioni concluse in
materia di lottizzazione, ai sensi dell’art.
28 della legge 17.08.1942, n. 1150;
e) peraltro, con specifico riferimento al
caso di specie, risulta che i ricorrenti,
nel chiedere un adempimento al Comune, hanno
fatto prevalentemente riferimento ad un
obbligo direttamente discendente dalla
legge, ossia di cui all’art. 28 citato.
7.2. In conclusione, diversamente da quanto
affermato dal primo giudice, deve essere
riconosciuta la legittimazione attiva dei
ricorrenti nel presente giudizio.
...
8.1. Ciò premesso in punto di fatto, in
ordine alla dedotta questione della
illegittimità dell’art. 10 della convenzione
di lottizzazione, occorre rilevare che:
a) ai sensi dell’art. 10 della convenzione di lottizzazione del 14.09.1974, "l’amministrazione comunale
stabilisce che le strade e le opere di
urbanizzazione primaria in genere, previste
dalla lottizzazione, restino in tutto di
proprietà privata o condominiale e,
pertanto, il Comune non ne assume la
proprietà né l'onere di manutenzione";
b) l'art. 28, comma 5, della legge 17.08.1942, n. 1150, nel
testo introdotto dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765, espressamente dispone
che: “L'autorizzazione comunale è
subordinata alla stipula di una convenzione,
da trascriversi a cura del proprietario, che
preveda:
1) la cessione gratuita entro
termini prestabiliti delle aree necessarie
per le opere di urbanizzazione primaria,
precisate dall'art. 4 della legge 29.09.1964, n. 847, nonché la cessione
gratuita delle aree necessarie per le opere
di urbanizzazione secondaria nei limiti di
cui al successivo n. 2;
2) l'assunzione, a
carico del proprietario, degli oneri
relativi alle opere di urbanizzazione
primaria e di una quota parte delle opere di
urbanizzazione secondaria relative alla
lottizzazione o di quelle opere che siano
necessarie per allacciare la zona ai
pubblici servizi; la quota è determinata in
proporzione all'entità e alle
caratteristiche degli insediamenti delle
lottizzazioni;
3) i termini non superiori ai
dieci anni entro i quali deve essere
ultimata l'esecuzione delle opere di cui al
precedente paragrafo;
4) congrue garanzie
finanziarie per l'adempimento degli obblighi
derivanti dalla convenzione”.
8.1.1. Ebbene, l’asserito contrasto
dell’art. 10 della convenzione con i punti
1) e 2) del comma 5 dell’art. 28 citato,
diversamente da quanto sostenuto dagli
appellanti, piuttosto che determinare la
nullità della clausola convenzionale,
avrebbe potuto al più portare ad un giudizio
di annullamento della stessa (da esaminare
comunque sulla base del principio per cui
l’Amministrazione può gestire gli interessi
pubblici anche sulla base di una propria
autonomia).
Ciò nonostante, la mancata impugnazione nel
termine decadenziale dalla deliberazione
consiliare che approvava la convenzione,
rende la questione non più attuale e,
pertanto, la clausola da considerare ormai
del tutto valida ed efficace.
Del resto, l’ipotizzata illegittimità di
tale clausola di per sé condurrebbe ad una
valutazione sulla illegittimità di tutti i
titoli edilizi, emanati in attuazione della
ravvisata illegittima previsione.
8.2. In ordine alla questione principale
dell’individuazione dei soggetti obbligati
alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione previste da una convenzione
di lottizzazione, il Collegio, sulla base
della giurisprudenza sviluppatasi in
materia, osserva che:
a) al fine di individuare quali sono i
legittimati passivi in caso di inadempimento
è necessario, in via preliminare, definire
la natura giuridica delle obbligazioni
derivanti dalla convenzione stipulata con
l'ente locale;
b) al riguardo, le convenzioni urbanistiche
hanno lo scopo di garantire che
all'edificazione del territorio corrisponda
non solo l'approvvigionamento delle
dotazioni minime di infrastrutture
pubbliche, ma anche il suo equilibrato
inserimento in rapporto al contesto di zona
che, nell'insieme, garantiscano la normale
qualità del vivere in un aggregato urbano
discrezionalmente, e razionalmente,
individuato dall'autorità preposta alla
gestione del territorio (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 06.11.2009, n. 6947);
c) è in quest’ottica che devono essere letti
ed interpretati gli obblighi dedotti nelle
convenzioni urbanistiche e, per tale motivo,
la Corte di cassazione ha sempre affermato
che l'obbligazione assunta di provvedere
alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione da colui che stipula una
convenzione edilizia è di natura propter rem
(cfr. Cass. civ., Sez. I, 20.12.1994,
n. 10947; nonché Cass. civ., Sez. II, 26.11.1988, n. 6382);
d) la natura reale dell'obbligazione
comporta dunque che all’adempimento della
stessa saranno tenuti non solo i soggetti
che stipulano la convenzione, ma anche
quelli che richiedono la concessione, quelli
che realizzano l'edificazione ed i loro
aventi causa (cfr. Cass. civ., 15.05.2007, n. 11196; Cass. civ., Sez. II, 27.08.2002, n. 12571);
e) in senso conforme è la giurisprudenza
amministrativa, secondo la quale
l'assunzione, all'atto della stipulazione di
una convenzione di lottizzazione,
dell'impegno -per sé, per i propri eredi e
per gli altri aventi causa- di realizzare
una serie di opere di urbanizzazione del
territorio e di costituire su una parte di
quelle aree una servitù di uso pubblico, dà
luogo ad una obbligazione propter rem, che
grava quindi sia sul proprietario del
terreno che abbia stipulato la convenzione
di lottizzazione, sia su coloro che abbiano
richiesto il rilascio della concessione
edilizia nell'ambito della lottizzazione,
sia infine sui successivi proprietari della
medesima res (Tar Trento, sez. I, 06.11.2014, n. 394; in senso conforme, Tar Campania, Napoli, sez. II,
09.01.2017, n. 187; Tar Campania, Napoli, Sez.
VIII, 16.04.2014, n. 2170; Tar
Lombardia, Brescia, 01.06.2007, n. 467; Tar Sicilia, Catania, sez. I, 29.10.2004, n. 3011), per cui l'avente causa del
lottizzante assume tutti gli oneri a carico
di quest'ultimo in sede di convenzione di
lottizzazione, compresi quelli di
urbanizzazione ancora dovuti (Tar
Abruzzo, L'Aquila, Sez. I, 12.09.2013, n. 747), risultando inopponibile
all’Amministrazione qualsiasi previsione
contrattuale dal contenuto opposto e
qualsiasi vicenda di natura civilistica
riguardanti i beni in questione;
f) invero, il meccanismo dell'ambulatorietà
passiva dell'obbligazione, proprio della
natura propter rem, non trasforma ex se gli
aventi causa dei lottizzanti in “parti” a
pieno titolo del rapporto convenzionale, ma
li rende semplicemente corresponsabili
nell'esecuzione degli impegni presi (Tar,
Brescia, sez. I, 23.06.2017, n. 843).
8.3. In ragione di quanto considerato, il
Collegio, non ritenendo di doversi
discostare da questi principi, ritiene che
legittimati passivi dell'obbligazione di
realizzazione delle opere di urbanizzazione
debbono ritenersi non solo i lottizzanti che
hanno concluso la convenzione, ma anche
coloro che risultano attuali proprietari
delle aree incluse nel comparto lottizzato e
che utilizzano le stesse, quali aventi causa
degli originali lottizzanti o successivi
aventi causa, e comunque in ogni caso di
acquisto a titolo originario o a titolo
derivativo.
Alcuna pretesa gli stessi potranno pertanto
avanzare nei confronti della amministrazione
comunale appellata
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.01.2019 n. 199 - link
a www-giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opera
precaria stagionale - Mancata rimozione alla scadenza
dell'opera - Effetti - Assenza di titolo abilitativo -
Configurabilità delle violazioni alla disciplina
antisismica, paesaggistica e occupazione di suolo pubblico -
Nozione di precarietà di un'opera - Artt. 6, 44, 93, 94 e 95
d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. 42/2004 - Artt. 633 e
639-bis cod. pen. - Giurisprudenza.
Determina la configurabilità del reato
di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 06.06.2001, n.
380 la mancata rimozione, alla scadenza del termine previsto
nell'autorizzazione, di un manufatto di cui era stata
consentita l'installazione per soddisfare esigenze
stagionali, e cioè il mantenimento dell'opera una volta
cessate le esigenze contingenti e temporanee che era
destinata a soddisfare essendo venuta meno la ragione della
sua realizzazione in assenza di titolo abilitativo.
Inoltre, al fine di ritenere sottratta al preventivo
rilascio del permesso di costruire la realizzazione di un
manufatto, l'asserita precarietà dello stesso non può essere
desunta dalla sua natura stagionale, dalle sue
caratteristiche costruttive o dalla mancanza di stabile
ancoraggio al suolo, ma deve ricollegarsi -a mente di quanto
previsto dall'art. 6, comma 2, lett. b), d.P.R. n. 380 del
2001, come emendato dall'art. 5, comma 1, d.l. 25.03.2010,
n. 40 (convertito, con modificazioni, nella L. n. 73 del
2010)- alla circostanza che l'opera sia intrinsecamente
destinata a soddisfare obiettive esigenze contingenti e
temporanee, e ad essere immediatamente rimossa al venir meno
di tale funzione, non risultando al riguardo sufficienti la
sua astratta rinnovibilità o il mancato ancoraggio al suolo
(Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni; Sez. 3, n. 966
del 26/11/2014, Manfredini; Sez. 3, n. 21988 del 28/04/2016,
Brioschi).
Nella specie, con la mancata rimozione
della struttura metallica precaria realizzata nello spazio
antistante un ristorante, si sono anche configurati i reati
ex art. 181 d.lgs. 42/2004 (per aver realizzato detta
struttura in assenza di autorizzazione paesaggistica), 633 e
639-bis cod. pen. (per aver indebitamente occupato il suolo
pubblico, omettendo di rimuovere la medesima struttura alla
scadenza della concessione) e artt. 93, 94 e 95 d.P.R. n.
380/2001 (violazioni alla disciplina antisismica).
...
Reato di occupazione di suolo pubblico per scadenza del
termine previsto nella concessione - Configurabilità -
Nozione di invasione e della condotta arbitraria.
Si configura il reato di cui agli artt.
633 e 639-bis cod. pen., anche quando, l'occupazione della
porzione di suolo pubblico, sulla quale era stata
autorizzazione l'installazione della struttura, sia divenuta
arbitraria per la scadenza del termine previsto nella
concessione (che caratterizza di temporaneità l'opera),
posto che da tale momento l'occupazione dell'area, mediante
il mantenimento dell'opera non rimossa alla scadenza, è
divenuta del tutto priva di titolo autorizzatorio, dunque
arbitraria, cosicché da tale momento è senz'altro
configurabile il reato di cui all'art. 633 cod. pen..
Inoltre, il requisito della violenza della condotta non è,
richiesto al fine della configurabilità del reato di
invasione di terreni o edifici, in quanto la nozione di
invasione non richiede di per sé modalità esecutive
violente, che possono anche mancare, ma si riferisce al
comportamento arbitrario, tipico di chi si introduce, o
(come nel caso in esame) trattiene, nell'altrui proprietà
contra ius, in quanto privo del diritto di accedervi o
rimanervi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.01.2019 n. 400 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Presenza
di un delegato di un concorrente alla seduta
di gara in cui si sono deliberate le
ammissioni.
E' da escludersi che
l’eventuale presenza di un delegato di un
concorrente alla seduta di gara in cui si
sono deliberate le ammissioni possa fare
decorrere il termine decadenziale per
proporre il ricorso ex art. 120, comma
2-bis, cod. proc. amm., poiché a questo fine
deve farsi riferimento esclusivo alla data
di pubblicazione sul profilo del committente
dei provvedimenti relativi a questa fase ai
sensi dell’art. 29 del codice dei contratti
pubblici.
Le ragioni di questo orientamento
restrittivo vanno ricercate nel carattere
speciale, derogatorio, e pertanto di stretta
interpretazione del “rito superspeciale”
sulle ammissioni ed esclusioni, in relazione
al quale sono tassativamente richieste le
formalità pubblicitarie poc’anzi richiamate
e in difetto delle quali l’impresa sarebbe
costretta a produrre un ricorso al buio
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.01.2019 n. 173 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
7. Si ritiene che meriti favorevole
apprezzamento la censura concernente la
violazione dell’art. 120, comma 2-bis, cod. proc. amm., in combinato disposto con l’art.
29, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016 (sia
pure nella versione precedente le modifiche
apportate col d.lgs. n. 56 del 2017, non
applicabili alla gara in oggetto, indetta
nel febbraio 2017).
In proposito, s’intende dare continuità alla
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
con la quale -da ultimo con la sentenza di
questa sez. V, 21.11.2018, n. 6574,
nonché con la sentenza, richiamata nella
memoria dell’appellante, sez. V, 07.11.2018, n. 6292- si è escluso che l’eventuale
presenza di un delegato di un concorrente
alla seduta di gara in cui si sono
deliberate le ammissioni possa fare
decorrere il termine decadenziale per
proporre il ricorso ex art. 120, comma 2-bis,
cod. proc. amm., poiché a questo fine deve
farsi riferimento esclusivo alla data di
pubblicazione sul profilo del committente
dei provvedimenti relativi a questa fase ai
sensi dell’art. 29 del codice dei contratti
pubblici (Cons. Stato, III, 08.02.2018,
n. 1765; V, 29.10.2018, n. 6139, 08.06.2018, n. 3481) e si è precisato che
“le ragioni di questo orientamento
restrittivo vanno ricercate nel carattere
speciale, derogatorio, e pertanto di stretta
interpretazione del “rito superspeciale”
sulle ammissioni ed esclusioni, in relazione
al quale sono tassativamente richieste le
formalità pubblicitarie poc’anzi richiamate
e in difetto delle quali «l’impresa sarebbe
costretta a produrre un ricorso al buio”
(così Cons. Stato, III, 26.01.2018, n.
565)”
7.1. Se di regola la partecipazione agli
atti della procedura di gara da parte di un
delegato dell’operatore economico in essa
concorrente è irrilevante ai fini della
decorrenza del termine per il ricorso ai
sensi dell’art. 120 comma 2-bis cod. proc.
amm., è altresì dirimente che nel caso di
specie non sia stato adottato alcun formale
provvedimento di ammissione alla gara,
previa verifica della sussistenza dei
requisiti speciali di partecipazione.
Infatti, il verbale della prima seduta di
gara del 23.05.2017, posto a fondamento
della decisione di primo grado, contiene
soltanto la menzione dell’attività di
riscontro della regolarità formale della
“documentazione amministrativa” e della
presenza della “campionatura” richiesta per
la fornitura delle attrezzature; nella
seconda seduta di gara, in data 12.06.2017 (verbale n. 2), la commissione ha
proceduto all’esame delle offerte tecniche
dei concorrenti.
Pertanto, non solo non vi è stata alcuna
pubblicazione sul profilo del committente,
ai sensi dell’art. 29, comma 1, del codice
dei contratti pubblici, richiamato dall’art.
120, comma 2-bis, cod. proc. amm., ma nemmeno
vi è stata un’attività di verifica dei
requisiti sfociata in un formale
provvedimento di ammissione, della cui
conoscenza di fatto si debba qui dare conto.
7.2. La motivazione della sentenza appellata
va pertanto corretta nella parte in cui ha
affermato l’applicabilità al caso di specie
del rito c.d. “superspeciale” e la
conseguente inammissibilità del secondo
motivo di ricorso, per mancata tempestiva
impugnazione. |
EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria
giurisprudenziale e doppia conformità.
Secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza, “è legittimo
il doveroso diniego della concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo
abilitante, qualora le stesse non risultino
conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione
quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria”.
Infatti, “solo il
legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche
per il legislatore regionale) può prevedere i casi
in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una
rilevanza estintiva del reato già commesso)
e risulta del tutto ragionevole il divieto
legale di rilasciare una concessione (o il
permesso) in sanatoria, anche quando dopo la
commissione dell’abuso vi sia una modifica
favorevole dello strumento urbanistico”.
---------------
La c.d. “doppia
conformità” costituisce un requisito dal
quale non può prescindersi ai fini del
rilascio della sanatoria di opere edilizie,
mentre la c.d. “sanatoria giurisprudenziale”
–consistente nel rilascio del titolo
edilizio sulla base della sola conformità
dell’opera abusiva rispetto alla
pianificazione urbanistica vigente–
finirebbe per dare luogo a un atto atipico
con effetti provvedimentali che si colloca
al di fuori di qualsiasi previsione
normativa e che pertanto non può ritenersi
ammesso nel nostro ordinamento,
contrassegnato dal principio di legalità
dell’azione amministrativa e dal carattere
tipico dei poteri esercitati
dall’Amministrazione, alla stregua del
principio di nominatività, poteri che non
possono essere surrogati dal giudice, pena
la violazione del principio di separazione
dei poteri e l’invasione di sfere di
attribuzioni riservate all’Amministrazione.
---------------
Del resto, secondo quanto rilevato dalla
giurisprudenza, la ragionevolezza della
regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n.
380 del 2001 discende dall’esigenza, presa
in considerazione dal legislatore, di
evitare che il potere di pianificazione
possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò
che risulta illecito (e punibile) e,
inoltre, di dissuadere dall’intenzione di
commettere abusi, poiché chi costruisce sine
titulo è consapevole di essere tenuto alla
demolizione, anche in presenza di una
sopraggiunta modificazione favorevole dello
strumento urbanistico.
In sostanza, come affermato anche dal
Consiglio di Stato, “secondo l’ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale
del Consiglio Stato, l’istituto della c.d.
‘sanatoria giurisprudenziale’ deve
considerarsi normativamente superato, nonché
recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al
perseguimento dell’abusiva trasformazione
del territorio, nel senso che il permesso in
sanatoria è ottenibile soltanto in presenza
dei presupposti espressamente delineati
dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a
condizione che l’intervento risulti conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della realizzazione
del manufatto, sia della presentazione della
domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria
giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un
atto atipico con effetti provvedimentali
praeter legem, i quali si collocherebbero al
di fuori d’ogni previsione normativa.
Tale istituto non trova, pertanto,
fondamento alcuno nell’ordinamento positivo,
contrassegnato invece dai principi di
legalità dell’azione amministrativa e di
tipicità e nominatività dei poteri
esercitati dalla pubblica amministrazione,
con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa,
non possono essere creati in via
giurisprudenziale, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e
l’invasione di sfere proprie di attribuzioni
riservate alla pubblica amministrazione”.
---------------
4. Come spiegato in precedenza, con il primo
motivo il ricorrente invoca l’applicazione
dell’istituto della c.d. sanatoria
giurisprudenziale ed ossia la possibilità
che l’opera abusivamente realizzata sia
sanata sulla base del solo riscontro della
conformità agli strumenti urbanistici
vigenti.
Invero, secondo il consolidato
orientamento della giurisprudenza, al quale
la Sezione pienamente aderisce, “è legittimo
il doveroso diniego della concessione in
sanatoria di opere eseguite senza titolo
abilitante, qualora le stesse non risultino
conformi tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della loro realizzazione
quanto a quella vigente al momento della
domanda di sanatoria” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.05.2018, n. 1298, che richiama Consiglio
di Stato, sez. V, 17.03.2014, n. 1324; Id.,
sez. V, 11.06.2013, n. 3235; Id., sez.
V, 17.09.2012, n. 4914; Id., sez. V,
25.02.2009, n. 1126; Id., sez. IV, 26.04.2006, n. 2306).
Infatti, “solo il
legislatore statale (con preclusione non
solo per il potere giurisdizionale, ma anche
per il legislatore regionale: Corte Cost.,
29.05.2013, n. 101) può prevedere i casi
in cui può essere rilasciato un titolo
edilizio in sanatoria (avente anche una
rilevanza estintiva del reato già commesso)
e risulta del tutto ragionevole il divieto
legale di rilasciare una concessione (o il
permesso) in sanatoria, anche quando dopo la
commissione dell’abuso vi sia una modifica
favorevole dello strumento urbanistico”
(così Consiglio di Stato, Sez. V, 27.05.2014, n. 2755).
4.1. La c.d. “doppia conformità”
costituisce, perciò, un requisito dal quale
non può prescindersi ai fini del rilascio
della sanatoria di opere edilizie, mentre la
c.d. “sanatoria giurisprudenziale” –consistente nel rilascio del titolo edilizio
sulla base della sola conformità dell’opera
abusiva rispetto alla pianificazione
urbanistica vigente– finirebbe per dare
luogo a “un atto atipico con effetti provvedimentali che si colloca al di fuori
di qualsiasi previsione normativa e che
pertanto non può ritenersi ammesso nel
nostro ordinamento, contrassegnato dal
principio di legalità dell’azione
amministrativa e dal carattere tipico dei
poteri esercitati dall’Amministrazione, alla
stregua del principio di nominatività,
poteri che non possono essere surrogati dal
giudice, pena la violazione del principio di
separazione dei poteri e l’invasione di
sfere di attribuzioni riservate
all’Amministrazione” (TAR per la
Lombardia – sede di Milano, sez. II, 17.05.2018, n. 1298; Consiglio di Stato,
sez. VI, 18.07.2016, n. 3194).
Del
resto, secondo quanto rilevato dalla
giurisprudenza, la ragionevolezza della
regola posta dall’articolo 36 del d.P.R. n.
380 del 2001 discende dall’esigenza, presa
in considerazione dal legislatore, di
evitare che il potere di pianificazione
possa essere strumentalizzato al fine di
rendere lecito ex post (e non punibile) ciò
che risulta illecito (e punibile) e,
inoltre, di dissuadere dall’intenzione di
commettere abusi, poiché chi costruisce sine
titulo è consapevole di essere tenuto alla
demolizione, anche in presenza di una
sopraggiunta modificazione favorevole dello
strumento urbanistico (Consiglio di Stato,
Sez. V, 17.03.2014, n. 1324, e Id., n.
2755 del 2014, cit.).
4.2. In sostanza, come affermato anche dal
Consiglio di Stato, “secondo l’ormai
consolidato orientamento giurisprudenziale
del Consiglio Stato (cfr., ex multis, Cons.
Stato, Sez. VI, 24.04.2018, n. 2496, e
20.02.2018, n. 1087, con ulteriori
richiami, comprensivi di arresti della Corte
costituzionale), pienamente condiviso da
questo Collegio, l’istituto della c.d.
‘sanatoria giurisprudenziale’ deve
considerarsi normativamente superato, nonché
recessivo rispetto al chiaro disposto
normativo vigente e ai principi connessi al
perseguimento dell’abusiva trasformazione
del territorio, nel senso che il permesso in
sanatoria è ottenibile soltanto in presenza
dei presupposti espressamente delineati
dall’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, ossia a
condizione che l’intervento risulti conforme
alla disciplina urbanistica ed edilizia
vigente al momento sia della realizzazione
del manufatto, sia della presentazione della
domanda, mentre con la invocata ‘sanatoria
giurisprudenziale’ verrebbe in rilievo un
atto atipico con effetti provvedimentali
praeter legem, i quali si collocherebbero al
di fuori d’ogni previsione normativa. Tale
istituto non trova, pertanto, fondamento
alcuno nell’ordinamento positivo,
contrassegnato invece dai principi di
legalità dell’azione amministrativa e di
tipicità e nominatività dei poteri
esercitati dalla pubblica amministrazione,
con la conseguenza che detti poteri, in
assenza di espressa previsione legislativa,
non possono essere creati in via
giurisprudenziale, pena la violazione del
principio di separazione dei poteri e
l’invasione di sfere proprie di attribuzioni
riservate alla pubblica amministrazione”
(Consiglio di Stato, sez. VI, 11.09.2018, n. 5319).
Tali rilievi precludono la
possibilità di fondare l’applicazione
dell’istituto su esigenze di ragionevolezza
o proporzionalità, come invocato dalle parti intervenienti, atteso che simili principi
non possono vertere quel canone di legalità
i cui sentieri, per evocare una nota
immagine dottrinale, non tollerano simili
interruzioni.
4.3. In definitiva, il primo motivo di
ricorso deve ritenersi infondato per le
ragioni sin qui spiegate
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.01.2019 n. 31 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di
fornire adeguata dimostrazione del proprio
assunto, avendo la condivisibile
giurisprudenza chiarito che le prove sulla
data di realizzazione delle opere (abusive) debbono
risultare obiettivamente inconfutabili sulla
base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione del manufatto.
---------------
Si deve
ammettere un temperamento nel caso in cui,
da un lato, il privato porti a sostegno
della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e,
dall'altro, il Comune
fornisca elementi incerti in ordine alla
presumibile data della realizzazione del
manufatto privo di titolo edilizio, stante
comunque il dovere dell'autorità che adotta
l'ingiunzione di demolizione di verificare
in maniera adeguata la sussistenza dei
presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio.
---------------
5. Con il secondo motivo di ricorso
il signor De Sa. deduce l’erroneità della
decisione comunale in relazione
all’eccessiva rigidità del Comune in ordine
alla prova dell’epoca di realizzazione del
manufatto.
5.1. Il motivo è privo di fondamento per le
ragioni di seguito spiegate.
5.2. In primo luogo, deve notarsi come
l’originaria richiesta del ricorrente
riguarda la sanatoria delle opere, di
recupero a fini abitativi di sottotetto, già
eseguite (demolizione e costruzione tavolati
interni, realizzazione di tre abbaini; n. 5
lucernai e sopralzo del tetto mantenendo la
stessa linea di falda) e l’autorizzazione a
eseguirne altre a completamento.
Successivamente il ricorrente modifica la
domanda evidenziando che le unità
immobiliari originarie (e, di seguito,
incorporate) sono già adibite ad abitazione,
per cui l’intervento di recupero del
sottotetto deve suddividersi in due parti:
per una parte è da considerarsi
ristrutturazione edilizia; per un’altra
parte è soggetto alla sanzione ex articolo
33 del D.P.R. 380 del 2001.
Ora, è corretto
quanto esposto dal Comune resistente che
nota come, in tal modo, il ricorrente
modifichi sostanzialmente l’oggetto della
domanda e, inoltre, risulti non in grado di
dimostrare il momento di realizzazione delle
opere. Infatti, la stessa relazione versata
nel procedimento osserva che: “dalla
documentazione catastale è possibile
evincere che almeno dal 1940 l’unità [è]
destinata ad abitazione”, e, per quanto
riguarda le parti originariamente comuni e
poi inglobate evidenzia che, “sebbene sia
stata acquisita documentazione (delibera
dell’assemblea condominiale) relativa ad un
intervento sul tetto del fabbricato
condominiale realizzato in epoca successiva
al 1997, non si riesce a datate con certezza
l’epoca dell’intervento di sopralzo”.
5.3. Ricostruita la situazione sostanziale,
pare evidente l’aderenza del provvedimento
impugnato alla domanda e alla documentazione
amministrativa in atti. Il ricorrente
presenta, infatti, una richiesta che postula
un intervento unitario di recupero del
sottotetto, rispetto al quale si dice non in
grado di provare l’epoca di realizzazione
dell’intervento e, di conseguenza, la
conformità alla normativa edilizia ratione
temporis vigente.
5.4. Venendo al tema dell’onere della prova
sull’epoca di realizzazione dell’intervento
si rileva, come secondo un’opinione
giurisprudenziale, “incombe sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l’onere di
fornire adeguata dimostrazione del proprio
assunto, avendo la condivisibile
giurisprudenza chiarito che le prove sulla
data di realizzazione delle opere debbono
risultare obiettivamente inconfutabili sulla
base di atti e documenti che, da soli o
unitamente ad altri elementi probatori,
offrono la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione del manufatto” (così, da
ultimo, TAR per la Campania – sede di
Napoli, sez. III, 30.05.2018, n. 3549; cfr., inoltre, TAR per la Campania – sede
di Napoli, sez. IV, 19.10.2016, n.
4774; TAR per il Lazio, sede di Latina,
sez. I, 15.06.2016, n. 391; TAR per
la Campania, sede di Napoli, sez. II, 27.11.2014, n. 6118; Consiglio di Stato,
sez. IV, 06.08.2014 n. 4208; Consiglio di
Stato, sez. IV, 07.07.2014, n. 3414).
Ora, declinando tale insegnamento
giurisprudenziale al caso di specie, non
risulta assolto l’onere probatorio gravante
sul ricorrente in considerazione
dell’assenza di certe evidenze in ordine
all’epoca di realizzazione dell’intervento
in esame.
5.5. Non diversa conclusione pare potersi
raggiungere aderendo al diverso orientamento
giurisprudenziale secondo cui “si deve
ammettere un temperamento nel caso in cui,
da un lato, il privato porti a sostegno
della propria tesi sulla realizzazione
dell'intervento prima del 1967 elementi non implausibili e,
dall'altro, il Comune
fornisca elementi incerti in ordine alla
presumibile data della realizzazione del
manufatto privo di titolo edilizio, stante
comunque il dovere dell'autorità che adotta
l'ingiunzione di demolizione di verificare
in maniera adeguata la sussistenza dei
presupposti dell’esercizio del potere sanzionatorio” (Consiglio di Stato, sez. VI,
18.07.2016, n. 3177).
Come di recente
chiarito dal Consiglio di Stato, sezione VI,
19.10.2018, n. 5988, al fine di
dimostrare la conformità dell’immobile alla
regolazione urbanistica possono essere
utilizzati vari elementi, come ad esempio le
dichiarazioni sostitutive, i rilievi aerofotogrammetrici, i contratti stipulati;
o ancora si può provare che l’ultimazione
dei lavori sia avvenuta entro una certa data
o che si tratti di un’opera per la quale non
è richiesto il titolo in ragione del tempo
di esecuzione, o, in ultimo, che
l’esecuzione avviene in epoca antecedente
l’apposizione di un vincolo paesaggistico.
Tuttavia, le condivisibili generali
affermazioni di principio non incidono sul
caso di specie per la dirimente
considerazione che chiude la difesa comunale
sul punto e che il Collegio ritiene di poter
mutuare: “la prova può essere raggiunta con
ogni mezzo, ma allo stato degli atti, ciò
non è avvenuto”. E, infatti, non vi sono
evidenze sulla data di edificazione
dell’intervento, né sono allegati elementi
che consentano di ritenere errato il
giudizio comunale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.01.2019 n. 31 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione "volumi tecnici" - Realizzazione in difetto di
permesso di costruire - Pertinenza urbanistica e limiti
della responsabilità penale - Artt. 3, 6, 44, d.P.R. n.
380/2001.
Sono "volumi tecnici" quelli
strettamente necessari a contenere e consentire la
sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
(serbatoi idrici, extra-corsa degli ascensori, vani di
espansione dell'impianto termico, canne fumarie e di
ventilazione, vano scala al di sopra della linea di gronda),
che non possono trovare allocazione, per esigenze tecniche
di funzionalità degli impianti, entro il corpo dell'edificio
realizzabile nei limiti imposti dalle norme urbanistiche
(Sez. 3, n. 22255 del 28/04/2016, Casu).
Sicché, in tema di reati edilizi, non
integra la contravvenzione di cui all'art. 44 d.P.R. n. 380
del 2001 la realizzazione, in difetto di permesso di
costruire, dei cd. "volumi tecnici", cioè di quei volumi
strettamente necessari a contenere e consentire la
sistemazione di impianti tecnici, aventi un rapporto di
strumentalità necessaria con l'utilizzo della costruzione
alla quale si connettono, alla duplice condizione negativa
che tali impianti non possano trovare ubicazione, per
evidenti ragioni di funzionalità, entro il corpo
dell'edificio asservito e che non vi sia sproporzione, in
termini di ingombro, tra tali volumi e le esigenze
effettivamente sussistenti
(Sez. 3, n. 14281 del 04/02/2016, Mocetti) (Corte
di Cassazione, Sez. III, penale,
sentenza 07.01.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nozione di manufatto precario - Obiettive esigenze
contingenti e temporanee - Fattispecie: struttura di
copertura di una preesistente piscina.
In materia edilizia, al fine di ritenere
sottratta al preventivo rilascio del permesso di costruire
la realizzazione di un manufatto, l'asserita precarietà
dello stesso non può essere desunta dal suo carattere
stagionale, ma deve ricollegarsi -a mente di quanto previsto
dall'art. 6, comma secondo, lett. b), d.P.R. n. 380 del
2001, come emendato dall'art. 5, comma primo, D.L.
25.03.2010, n. 40 (convertito, con modificazioni, nella L.
n. 73 del 2010)- alla circostanza che l'opera sia
intrinsecamente destinata a soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee, e ad essere immediatamente rimossa
al venir meno di tale funzione
(Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e a. Sez. 3, n.
34763 del 21/06/2011, Bianchi).
Fattispecie: struttura di copertura di una
preesistente piscina,in concreto utilizzata, stagionalmente,
tutti gli anni (Corte
di Cassazione, Sez. III, penale,
sentenza 07.01.2019 n. 342 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI:
Alla CGUE alcuni quesiti interpretativi in tema di società
in house.
Il Consiglio di Stato ha posto alla Corte di giustizia UE
due quesiti interpretativi in tema di affidamento in house,
chiedendo in particolare se il diritto europeo osti a una
disciplina nazionale che colloca gli affidamenti in house
su un piano subordinato ed eccezionale rispetto agli
affidamenti tramite gara di appalto e impedisce, in talune
circostanze, ad una pubblica amministrazione di acquisire
una quota di partecipazione in un organismo pluripartecipato
da altre amministrazioni (Consiglio di Stato, Sez. V,
ordinanza 07.01.2019 n. 138 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, spetta al privato l'onere della prova quando
chiede la sanatoria/condono edilizio.
Costituisce preciso onere del privato,
che ha commesso l’abuso edilizio, provare, in sede di
istanza di sanatoria così come in sede di impugnazione
giurisdizionale, che all’epoca della costruzione il
fabbricato non ricadeva entro la fascia di inedificabilità.
---------------
7. Con il quarto motivo l’appellante denunzia la
mancanza della necessaria istruttoria processuale e la
violazione dell’art. 64 c.p.a. in ordine ai principi di
valutazione della prova.
Contesta l’appellante che il fabbricato sia effettivamente
collocato nella fascia di rispetto dei 150 mt dalla battigia
e comunque ritiene che al momento dell’apposizione del
vincolo urbanistico l’edificio fosse pienamente oltre il
limite dei 150 mt previsto dall’art. 15 della l.r. 78/1976,
considerando una costante seppur lieve erosione delle coste
di 30-40 cm all’anno.
Ciò risulterebbe avvalorato dalla perizia di parte
depositata in giudizio, nella quale la distanza
dell’edificio rispetto alla linea di battigia era indicata
in mt 151,1.
7.1. Il mezzo è infondato.
Il Collegio ritiene che vadano confermate le valutazioni del
primo Giudice, che si è fondato sulla relazione del settore
urbanistica del Comune prot. 619 del 20.10.1995, dalla quale
si evince che la distanza in contestazione è stata stabilita
sulla base di plurime misurazioni cartografiche dalle quali
è risultata la collocazione del manufatto nella fascia di
rispetto.
Dal momento che l’accertamento di cui sopra risulta
confermato a seguito dell’istruttoria disposta dal primo
Giudice, non si vede, quindi, in base a quali sicuri
elementi si dovrebbe dare maggiore credito alla perizia di
parte piuttosto che alle documentate valutazioni
dell’Amministrazione che ha fatto anche riferimento alla
cartografia allegata al PRG, dalla quale risulta
ulteriormente che l’immobile si colloca nella fascia di
rispetto.
Come questo Consesso ha già statuito in relazione ad analoga
vicenda relativa ad abuso edilizio nell’area Triscina di
Castelvetrano:
1) costituisce preciso onere del privato che ha commesso l’abuso
edilizio provare, in sede di istanza di sanatoria, così come
in sede di impugnazione giurisdizionale, che all’epoca della
costruzione il fabbricato non ricadeva entro la fascia di
inedificabilità (Cons. St., IV, 02.02.2011, n. 752; V,
06.02.1999, n. 124; 24.10.1996, n. 1275);
2) in relazione all’area de quo gli unici dati certi sono:
a) l’assenza di prova documentale (cartografia,
foto aerea) dalla quale desumere l’esatta distanza del
manufatto abusivo rispetto alla linea della battigia al
tempo dell’edificazione;
b) la variabilità della profondità del litorale
sabbioso antistante l’immobile de quo, nell’arco
temporale compreso tra il 1900 e il 1999, o meglio,
l’alternanza dell’arretramento e dell’avanzamento della
linea della battigia, tale non consentire, neppure in
termini di verosimiglianza e, quindi, contrariamente a
quanto ipotizzato dal tecnico di parte ricorrente,
l’asserzione del posizionamento del manufatto oltre i 150
metri dalla battigia al tempo della sua costruzione (CGARS
n. 447/2018) (CGARS,
sentenza 07.01.2019 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - URBANISTICA: Effetti
della violazione del dovere di buona fede da
parte della PA.
Non può annullarsi un
provvedimento amministrativo (nella
fattispecie uno strumento urbanistico) per
la violazione del dovere di buona fede e
correttezza atteso che, se è vero che tali
canoni operano anche in relazione
all’attività autoritativa della pubblica
amministrazione, la loro violazione può far
nascere una responsabilità da comportamento
scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali, cioè sulla libertà di compiere le
proprie scelte negoziali senza subire
ingerenze illegittime frutto dell’altrui
scorrettezza.
Infatti, le regole pubblicistiche e
privatistiche, pur operando in maniera
contemporanea e sinergica hanno diverso
oggetto e diverse conseguenze in caso di
rispettiva violazione: le regole di diritto
pubblico hanno ad oggetto il provvedimento
(l’esercizio diretto e immediato del potere)
e la loro violazione determina, di regola,
l’invalidità del provvedimento adottato; al
contrario, le regole di diritto privato
hanno ad oggetto il comportamento (collegato
in via indiretta e mediata all’esercizio del
potere) complessivamente tenuto dalla P.A..
La loro violazione non dà vita a invalidità
provvedimentale, ma a responsabilità; non
diversamente da quanto accade nei rapporti
tra privati, anche per la P.A. le regole di
correttezza e buona fede non sono regole di
validità (del provvedimento), ma regole di
responsabilità (per il comportamento
complessivamente tenuto)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.01.2019 n. 7 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
4.7. Non può, inoltre, annullarsi la
variante impugnata per la ritenuta
violazione del dovere di buona fede e
correttezza atteso che, se è vero che tali
canoni operano anche in relazione
all’attività autoritativa della pubblica
amministrazione, la loro violazione può far
nascere una responsabilità da comportamento
scorretto, che incide non sull’interesse
legittimo, ma sul diritto soggettivo di
autodeterminarsi liberamente nei rapporti
negoziali, cioè sulla libertà di compiere le
proprie scelte negoziali senza subire
ingerenze illegittime frutto dell’altrui
scorrettezza (cfr., fra le altre, Consiglio
di Stato, sez. VI, 06.02.2013, n. 633;
Consiglio di Stato, sez. IV, 06.03.2015,
n. 1142; Consiglio di Stato, ad. plen., 05.09.2005, n. 6; Cass. civ., sez. un.
12.05.2008, n. 11656; Cass. civ., sez.
I, 12.05.2015, n. 9636; Cass. civ., sez.
I, 03.07.2014, n. 15250, e da, ultimo,
Consiglio di Stato, ad. plen., 04.05.2018, n. 5).
Infatti, le regole pubblicistiche e
privatistiche, pur operando in maniera
contemporanea e sinergica hanno diverso
oggetto e diverse conseguenze in caso di
rispettiva violazione: “le regole di diritto
pubblico hanno ad oggetto il provvedimento
(l’esercizio diretto ed immediato del
potere) e la loro violazione determina, di
regola, l’invalidità del provvedimento
adottato. Al contrario, la regole di diritto
privato hanno ad oggetto il comportamento
(collegato in via indiretta e mediata
all’esercizio del potere) complessivamente
tenuto dalla stazione appaltante nel corso
della gara. La loro violazione non dà vita
ad invalidità provvedimentale, ma a
responsabilità. Non diversamente da quanto
accade nei rapporti tra privati, anche per
la P.A. le regole di correttezza e buona
fede non sono regole di validità (del
provvedimento), ma regole di responsabilità
(per il comportamento complessivamente
tenuto)” (così, Consiglio di Stato, ad. plen.,
04.05.2018, n. 5).
Pertanto, non può
decretarsi, in ogni caso, l’invalidità del
provvedimento per lesione di una regola di
matrice civilistica come quella invocata
dalla parte ricorrente. E ciò basta per
escludere la necessità di ogni ulteriore
indagine sul punto attesa la non inidoneità
di tale asserita violazione a condurre
all’annullamento del provvedimento
impugnato. |
EDILIZIA PRIVATA: BENI
CULTURALI ED AMBIENTALI - Presunzione di proprietà pubblica
- Rivendicazione da parte del privato della legittima
proprietà - Ipotesi tassative e particolari.
Sui beni culturali vige una presunzione
di proprietà pubblica con la conseguenza che essi, sulla
base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa,
appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge
n. 364 del 1909; regio decreto n. 363 del 1913; legge n.
1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice
civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente
invariata anche a seguito della introduzione del decreto
legislativo n. 42 del 2004.
Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle
quali il privato che intenda rivendicare la legittima
proprietà di reperti archeologici o comunque di beni
qualificabili come culturali deve fornire la relativa,
rigorosa prova, dimostrando, alternativamente che: 1)
reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro
ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo
Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore
all'entrata in vigore della legge n. 364 del 1909.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Patrimonio indisponibile
dello Stato dei beni culturali - Presunzione di proprietà
statale - Finalità recuperatoria della confisca stabilita
dall'art. 174, c. 3, dlgs n. 42/2004.
La legislazione di tutela dei beni
culturali, in particolare dei beni archeologici (ma il
principio vale anche per gli atri beni di interesse
storico-artistico), è informata al presupposto fondamentale,
in considerazione dell'importanza che essi rivestono (anche
alla luce della tutela costituzionale del patrimonio
storico-artistico garantita dall'art. 9 Cost.),
dell'appartenenza di detti beni allo Stato, per cui l'art.
826, comma 2, cod. civ. assegna al patrimonio indisponibile
dello Stato "le cose d'interesse storico, archeologico,
paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in
qualunque modo ritrovate": disciplina confermata dalla
legge. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia
l'art 932, comma 2, cod. civ..
Da ciò deriva la finalità prioritariamente recuperatoria
della confisca stabilita dall'art. 174, comma 3, del dlgs n.
42 del 2004; essendo questa volta a ripristinare
materialmente la situazione di dominio che, ex lege, lo
Stato vanta sui beni in questione, situazione di dominio
evidentemente violata attraverso la illecita esportazione
del bene in discorso al di fuori dei confini dello Stato e,
pertanto, al di fuori dei margini di esercitabilità
materiale del dominio de quo loquitur (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: BENI
CULTURALI ED AMBIENTALI - Confisca obbligatoria e Corte di
Strasburgo - Lottizzazione abusiva e bene culturale -
Interessi tutelati - Differenza - Finalità recuperatoria -
Dominio dello Stato sul bene culturale.
In tema di confisca obbligatoria, mentre
nell'ipotesi della lottizzazione abusiva l'interesse
pubblico alla tutela ed alla conservazione dell'assetto
ordinato del territorio potrebbe, in ipotesi, essere
assicurato anche, ad esempio, attraverso misure meno gravose
della confisca, quali la semplice rimozione delle
manifestazioni esteriori dell'avvenuta trasformazione del
territorio, salva rimanendo la titolarità dell'area di
sedime delle stesse, una volta operata la loro bonifica
dalle superfetazioni abusive, in capo al soggetto che ne
aveva la disponibilità, nella ipotesi di cui all'art. 174
del dlgs n. 42 del 2004 lo scopo del ripristino della
condizione di dominio dello Stato sul bene culturale non è
suscettibile di una graduazione, in quanto lo stesso o si
realizza con la effettiva ablazione del bene ed la sua
assunzione nell'ambito dei beni di cui lo Stato, nelle sue
diverse articolazioni, ha la piena e materiale disponibilità
ovvero non si determina in alcun modo.
Sicché, nel caso della confisca avente finalità
recuperatoria, non ha senso parlare di gradualità della
misura.
...
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Confisca ex art. 174, c. 3,
dlgs n. 42/2004 - Effetti e finalità - Soggetto inciso dal
provvedimento e commissione del reato.
La confisca prevista dall'art. 174,
comma 3, del dlgs n. 42 del 2004, pur essendo una misura
avente contenuto tale da pregiudicare la posizione di chi la
subisce in quanto, oltre ad essere connessa sotto il profilo
causale alla avvenuta commissione di un reato, va ad
incidere in senso deteriore su di un diritto vantato dal
soggetto inciso dal provvedimento in questione -e questa è
la ragione per la quale essa è legittimata solo in presenza
di una relazione di non estraneità, da intendersi tuttavia
nei ristretti termini fra il soggetto inciso e la
commissione del reato- presenta della caratteristiche che la
distinguono chiaramente rispetto alle altre ipotesi di
confisca stabilite dagli artt. 240 e 240-bis cod. pen.,
essendo la finalità di detta misura essenzialmente destinata
non a prevenire, stante la intrinseca pericolosità del bene
oggetto di confisca quale strumento per l'aggravamento delle
conseguenze del reato commesso o per la commissione di altri
reati, il pericolo di ulteriori danni a carico della
comunità, essendo, invece, finalizzata a ripristinare la
originaria situazione di dominio pubblico sul bene culturale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.01.2019 n. 22 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Per stabilire quali siano gli elaborati necessari
per la formazione di un Piano Attuativo occorre far
riferimento, al comb. disp. dell'articolo 28 della legge
05.08.1978, n. 457 e dell’art. 13 L. 1150/1942.
In particolare, l’art. 28 della legge 05.08.978, n. 457,
prevede: “Per quanto non stabilito dal presente titolo si
applicano ai piani di recupero le disposizioni previste per
i piani particolareggiati dalla vigente legislazione
regionale e, in mancanza, da quella statale.”.
L’art. 13 L. 1150/1942 definisce espressamente il contenuto
dei piani particolareggiati, prevedendo, al comma 2,: “[2]
Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere
corredato dalla relazione illustrativa e dal piano
finanziario di cui al successivo art. 30.”.
Pertanto, gli elaborati da allegare ai Piani di Recupero
sono la relazione illustrativa e il piano
finanziario.
Ai sensi dell’art. 30 L. 17/08/1942, n. 1150 il piano
finanziario è costituito da “una relazione di previsione di
massima delle spese occorrenti per l'acquisizione delle aree
e per le sistemazioni generali necessarie per l'attuazione
del piano.”.
---------------
5. Con il sesto motivo è dedotta la violazione
dell’art. 19 L.R. 11/2004. I ricorrenti affermano che il
Piano approvato sarebbe illegittimo, poiché ad esso non sono
stati allegati: la relazione sulla verifica di compatibilità
geomorfologica e idrogeologica dell’intervento, il
capitolato, il preventivo sommario di spese, il piano
finanziario.
Il motivo è infondato.
Si osserva, in proposito, che l’art. 19, c. 4, L.R. 11/2004
non prevede che il Piano attuativo sia costituito da tutti
gli elaborati indicati nell’elenco in esso contenuto, ma
espressamente afferma che il Piano è formato da quegli
elaborati che, “in funzione degli specifici contenuti”
del Piano stesso, risultino “necessari”.
Lo stesso art. 19 L. r. 11/2004 stabilisce che il Piano
attuativo ha “i contenuti e l’efficacia: a) del piano
particolareggiato e dei piani di lottizzazione, di cui agli
articoli 13 e 28 della legge 17.08.1942, n. 1150 "Legge
urbanistica" e successive modificazioni”.
Pertanto, per stabilire quali siano gli elaborati necessari
per la formazione del Piano in esame, occorre far
riferimento, al comb. disp. dell'articolo 28 della legge
05.08.1978, n. 457 e dell’art. 13 L. 1150/1942.
In particolare, l’art. 28 della legge 05.08.978, n. 457,
prevede: “Per quanto non stabilito dal presente titolo si
applicano ai piani di recupero le disposizioni previste per
i piani particolareggiati dalla vigente legislazione
regionale e, in mancanza, da quella statale.”.
L’art. 13 L. 1150/1942 definisce espressamente il contenuto
dei piani particolareggiati, prevedendo, al comma 2,: “[2]
Ciascun piano particolareggiato di esecuzione deve essere
corredato dalla relazione illustrativa e dal piano
finanziario di cui al successivo art. 30.”.
Pertanto, gli elaborati da allegare ai Piani di Recupero
sono la relazione illustrativa e il piano finanziario.
Ai sensi dell’art. 30 L. 17/08/1942, n. 1150 il piano
finanziario è costituito da “una relazione di previsione
di massima delle spese occorrenti per l'acquisizione delle
aree e per le sistemazioni generali necessarie per
l'attuazione del piano.”.
Nel caso di specie, il Piano di recupero era formato da
entrambi i documenti. Infatti, oltre alla relazione
illustrativa, che risulta allegata, è stato redatto il
computo metrico estimativo delle spese necessarie per la
sistemazione dell’area. L’assenza di un documento
previsionale relativo alle spese per l’acquisizione delle
aree, invece, non è idoneo ad inficiare la completezza
dell’istruttoria, poiché nella delibera di approvazione del
Piano di recupero è espressamente previsto, alla lettera b),
che l’onere finanziario di indennizzo dell’area oggetto
d’esproprio sarà a carico dei proprietari proponenti (v.
doc. 1 e ss.)
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 02.01.2019 n. 10 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio consolidato che l’inclusione delle
strade nell’elenco delle vie pubbliche, o gravate da uso
pubblico, determina un’inversione dell’onere della prova
circa la natura privata delle stesse, che grava sul soggetto
che abbia interesse ad affermarlo.
---------------
La presenza di taluni altri indici consente alla
giurisprudenza civile di ritebere provata la natura pubblica
della strada.
Invero, "Ciò che, invece, risulta essenziale per sapere se
una strada è pubblica o privata ed effettivamente determina
la natura pubblica di una strada (escludendo, quindi, che
possa considerarsi privata) è la ricorrenza di una serie di
requisiti come, ad esempio, i seguenti:
• l’uso pubblico (cioè l’uso della strada da parte di un numero
indeterminato di persone);
• l’ubicazione della strada all’interno del perimetro dei centri
abitati;
• il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione
nell’ambito edilizio ed urbanistico (che, ad esempio, abbia
effettuato attività di manutenzione della strada);
• l’inclusione nelle mappe catastali;
• la classificazione della strada come comunale da parte del
consiglio comunale;
• l’inclusione di essa nella toponomastica cittadina con
l’attribuzione della numerazione civica;
• la mancanza di elementi probatori validi per sostenere la opposta
tesi della natura privata della strada”).
Nel caso di specie, la strada è soggetta alla manutenzione
da parte dell’Amministrazione ed è inserita nella
toponomastica cittadina con attribuzione del numero civico.
---------------
6. Con il settimo
motivo i ricorrenti lamentano che il piano di recupero,
in parte qua, sarebbe affetto dal vizio di eccesso di
potere e difetto di istruttoria. L’Amministrazione, infatti,
avrebbe approvato il Piano basandosi sul falso presupposto
che via Maroncelli sia asservita all’uso pubblico, mentre si
tratterebbe di una strada privata, costruita dai ricorrenti.
La censura è generica e, comunque, smentita dagli atti.
È generica poiché dall’istruttoria procedimentale risulta
che l’Amministrazione ha agito sul presupposto che la strada
fosse sì privata, ma soggetta all’uso pubblico. Pertanto,
per affermare che le deliberazioni impugnate sono state
adottate su un presupposto errato, i ricorrenti non
avrebbero dovuto semplicemente ribadire –senza peraltro
addurre alcun supporto probatorio– che la strada è privata,
ma anche contestare che fosse asservita all’uso pubblico. I
ricorrenti hanno effettuato tale contestazione solo
genericamente nella memoria depositata in vista dell’udienza
di merito, quindi tardivamente.
Si può, comunque, ritenere provato quantomeno che la strada
fosse asservita all’uso pubblico sulla scorta della
documentazione agli atti.
Agli atti risulta, infatti, che via Maroncelli è stata
denominata con provvedimento di Giunta Municipale del
02.10.1979, n, 301 ed inserita nell’elenco delle strade
comunali.
Costituisce principio consolidato che l’inclusione delle
strade nell’elenco delle vie pubbliche, o gravate da uso
pubblico, determina un’inversione dell’onere della prova
circa la natura privata delle stesse, che grava sul soggetto
che abbia interesse ad affermarlo (TAR Salerno, (Campania),
sez. II, 25/01/2018).
Inoltre i proprietari delle aree su cui fu edificata, hanno
assunto lo specifico impegno di costituire sulla strada una
servitù di pubblico transito con l’art. 2 della convenzione
di lottizzazione dell’area (cfr. doc. 11 della produzione
del Comune).
Risulta, altresì non contestata specificamente la presenza
di taluni degli altri indici in forza dei quali la
giurisprudenza civile ritiene provata la natura pubblica
della strada (cfr. Cass., sent. n. 23705 del 09.11.2009 “Ciò
che, invece, risulta essenziale per sapere se una strada è
pubblica o privata ed effettivamente determina la natura
pubblica di una strada (escludendo, quindi, che possa
considerarsi privata) è la ricorrenza di una serie di
requisiti come, ad esempio, i seguenti:
• l’uso pubblico (cioè l’uso della strada da parte di un numero
indeterminato di persone);
• l’ubicazione della strada all’interno del perimetro dei centri
abitati;
• il comportamento tenuto dalla Pubblica Amministrazione
nell’ambito edilizio ed urbanistico (che, ad esempio, abbia
effettuato attività di manutenzione della strada);
• l’inclusione nelle mappe catastali;
• la classificazione della strada come comunale da parte del
consiglio comunale;
• l’inclusione di essa nella toponomastica cittadina con
l’attribuzione della numerazione civica;
• la mancanza di elementi probatori validi per sostenere la opposta
tesi della natura privata della strada”).
In particolare, la strada è soggetta alla manutenzione da
parte dell’Amministrazione ed è inserita nella toponomastica
cittadina con attribuzione del numero civico.
Di contro, i ricorrenti, nulla hanno addotto a sostegno
della natura privata della strada, non fornendo neppure un
principio di prova dell’unico fatto dedotto, ovvero che essa
sarebbe di uso esclusivo dei proprietari, il che, invero,
oltre a contrastare con gli impegni assunti in sede di
lottizzazione, sarebbe stato agevole provare (mediante, ad
esempio, documentazione fotografica che rappresenti segnali
di interdizione all’accesso, barre delimitatrici, o semplici
cartelli che indichino la natura privata della strada)
(TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 02.01.2019 n. 10 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Attività di gestione di rifiuti da demolizione
utilizzati per riempimento di cava - Responsabilità del
proprietario del terreno e dell'esecutore dei lavori - Artt.
183 e 256 d.l.vo n. 152/2006.
In materia di rifiuti, si configura il
reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs.
152/2006, anche per i soggetti che rivestono la qualità di
legale rappresentante della società esecutrice dei lavori,
in concorso con il proprietario dei terreni in qualità di
soggetto interessato al risultato finale. Nella specie, il
proprietario del terreno e committente dei lavori in
concorso con l'appaltatore dei lavori avevano effettuato
attività di raccolta di rifiuti speciali non pericolosi
provenienti da demolizioni edilizia ed avevano utilizzato
gli stessi unitamente alla terra per effettuare il
riempimento di cava.
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Sottoprodotto - Requisiti
- Disciplina eccezionale e derogatoria - Onere della prova -
Art. 184-bis D.L.vo n. 152/2006.
In tema di gestione dei rifiuti, la
prova dell'esistenza dei requisiti del sotto-prodotto grava
sull'imputato, perché la disciplina sulle terre e rocce da
scavo ha natura eccezionale e derogatoria rispetto a quella
ordinaria (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.12.2018 n. 58302 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
di una tettoia - Disciplina antisismica - Applicazione a
tutte le costruzioni realizzate in zona sismica - Pericolo
per la pubblica incolumità - Fattispecie: leggi della
regione Sicilia in deroga alla legislazione nazionale - Artt.
83 e 93, 95 d.P.R. n. 380/2001
In tema di prevenzione del rischio
sismico, il reato previsto dall'art. 95 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita
in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in
grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza
che le Regioni possano adottare in via amministrativa
deroghe per particolari categorie di interventi
(Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano).
Pertanto, le disposizioni previste dagli
artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte
le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza
possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si
rende necessario il controllo preventivo da parte della P.A.,
a prescindere dai materiali utilizzati e dalle relative
strutture, nonché dalla natura precaria o permanente
dell'intervento (Sez.
3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti; Sez. 3, n.
48950 del 04/11/2015, Baio; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011,
dep. 2012, D'Onofrio).
Nella specie, le disposizioni delle leggi
della regione Sicilia in deroga alla legislazione nazionale,
la chiusura di terrazze e la copertura di spazi interni con
strutture precarie non sono soggette a concessione o
autorizzazione, si applicano limitatamente alla materia
dell'urbanistica e non possono quindi essere estese alla
diversa disciplina edilizia antisismica e a quella per le
costruzioni in conglomerato cementizio armato, attenendo
tali materie alla sicurezza statica degli edifici, come tale
rientrante nella competenza esclusiva dello Stato ex art.
117, comma secondo, Cost.; ne consegue che tali opere
continuano ad essere soggette ai controlli preventivi
previsti dalla legislazione nazionale
(Sez. 3, n. 38405 del 09/07/2008, Di Benedetto e a.).
...
Normativa antisismica - Omesso preavviso d'inizio attività è
reato istantaneo - Termine di prescrizione delle
contravvenzioni - Decorrenza - Giurisprudenza.
In materia di normativa antisismica, la
fattispecie contravvenzionale di omesso preavviso d'inizio
attività è reato istantaneo, che si consuma nel luogo e nel
momento in cui il soggetto inizia l'attività di edificazione
in carenza dei previi adempimenti previsti dall'art. 93
d.P.R. n. 380 del 2001
(Sez. 3, n. 20728 del 29/03/2018, Staiano; Cass. Sez. U, n.
18 del 14/07/1999, Lauriola e aa.), sicché
il termine di prescrizione delle contravvenzioni di omessa
denuncia di inizio lavori in zona sismica, e di esecuzione
dei medesimi in assenza di autorizzazione, decorre dalla
data di inizio dei lavori
(Sez. 3, n. 23656 del 26/05/2011, Armatori, Rv. 250487) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.12.2018 n. 58316 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati concernenti le costruzioni nelle zone sismiche e
citazione dirigente ufficio tecnico regionale - Valutazione
circa la rilevanza della deposizione - L'omissione non
genera nullità - artt. 44, 83, 95 e 98 d.p.r. 380/2001.
L'obbligo previsto dall'art. 98, comma
2, d.P.R. 380 del 2001, di citare per il dibattimento il
dirigente del competente ufficio tecnico regionale, ai fini
della sua escussione nei procedimenti relativi ai reati
concernenti le costruzioni nelle zone sismiche, deve
ritenersi subordinato alla valutazione circa la rilevanza
della sua deposizione in ordine all'accertamento delle
contravvenzioni o all'esercizio del potere-dovere di
adottare le particolari statuizioni previste dal terzo comma
della disposizione nel caso di violazioni di carattere
sostanziale.
In ogni caso, la sua omissione non genera nullità e non
integra, per ciò solo, gli estremi della mancata assunzione
di una prova decisiva deducibile con il ricorso per
cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. d), cod.
proc. pen..
...
Reati riguardanti la prevenzione del rischio sismico -
Comuni o aree sottoposte alla legislazione antisismica -
Fonti secondarie di diritto oggettivo - Principio "iura
novit curia" - Applicabilità della disciplina -
Controllo preventivo da parte della P.A. - Giurisprudenza.
In tema di reati riguardanti la
prevenzione del rischio sismico, l'individuazione dei comuni
e delle aree sottoposte alla legislazione antisismica non è
tema di prova, in quanto gli ambiti territoriali in
questione sono definiti da norme poste da fonti secondarie
di diritto oggettivo, che è dovere del giudice conoscere in
applicazione del principio "iura novit curia"
(Sez. 3, n. 5455 del 28/11/2013, dep. 2014, Nincheri e a.;
Sez. 3, n. 33767 del 10/05/2007, Puleo e a.).
Inoltre, le disposizioni previste dagli
artt. 83 e 95 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 si applicano a tutte
le costruzioni realizzate in zona sismica, la cui sicurezza
possa interessare la pubblica incolumità e per le quali si
rende pertanto necessario il controllo preventivo da parte
della P.A., a prescindere dai materiali utilizzati e dalle
relative strutture, nonché dalla natura precaria o
permanente dell'intervento
(Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016, dep. 2017, Aliberti; Sez.
3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio; Sez. 3, n. 6591 del
24/11/2011, dep. 2012, D'Onofrio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.12.2018 n. 58313 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI
- Motori di veicoli fuori uso - Rifiuti pericolosi -
Rimozione dell'olio (motore e circuito idraulico) -
Operazioni di recupero e messa in sicurezza - Piccola
tolleranza o tracce e cospicui spandimenti di olio -
Differenza - Fattispecie - Artt. 183, 184-ter, 258 D.L.vo n.
152/2006.
In materia di rifiuti, a norma dell'art.
184-ter d.lgs. 152/2006 e del d.lgs. 24.06.2003, n. 209
(recante, Attuazione della direttiva 2000/53/CE relativa ai
veicoli fuori uso) -v., in particolare, l'Allegato 1, punto
5.1., lett. e- le operazioni per la messa in sicurezza dei
veicoli fuori uso, necessarie per determinare il loro
recupero con conseguente cessazione della qualifica di
rifiuto, prevedono la rimozione dell'olio (motore e del
circuito idraulico) e, se pure può accettarsi una piccola
tolleranza, vale a dire che ne rimangano tracce, certo non
può ritenersi recuperato e messo in sicurezza un motore
usato da cui fuoriescano cospicui spandimenti di olio, come
avvenuto nel caso di specie che perdura la sua - oggettiva -
natura di rifiuto pericoloso (cfr. All. D al d.lgs. 152 del
2006, sub codice CER 16 01 04).
...
RIFIUTI - Trasporto di rifiuti pericolosi eseguito senza
formulario o con formulario recante dati incompleti o
inesatti - Penale rilevanza delle condotte - Art. 483 cod.
pen. delitto di falsità ideologica commessa dal privato in
atto pubblico.
In tema di trasporto di rifiuti
pericolosi eseguito senza formulario ovvero con formulario
recante dati incompleti o inesatti, la disposizione prevista
dall'art. 4, comma secondo, d.lgs. 07.07.2011, n. 121, che
ha differito la parziale depenalizzazione conseguente al
d.lgs. 03.12.2010, n. 205 alla decorrenza degli obblighi di
operatività del sistema di controllo della tracciabilità dei
rifiuti denominato SISTRI (da ultimo prorogata al
31.12.2018, con art. 1, comma 1134, L. 27.12.2017, n. 205,
legge di bilancio), ha con efficacia innovativa reintrodotto
la penale rilevanza di quelle condotte, applicandosi
tuttavia -esclusa la sua natura meramente interpretativa-
soltanto ai fatti commessi successivamente alla sua entrata
in vigore (16.08.2011), quali sono quelli di specie
(Sez. F, n. 36275 del 25/08/2016, Gorzanelli e a.).
Nella fase transitoria è stato dunque
mantenuto l'obbligo di predisporre il formulario di
identificazione dei rifiuti durante il loro trasporto di cui
all'art. 193 d.lgs. 152 del 2006, indicandovi dati esatti e
completi, con conseguente rilevanza penale della condotta
omissiva, nel caso di trasporto di rifiuti pericolosi, a
norma dell'art. 258, comma 4, dello stesso provvedimento
nella versione vigente prima della modifica operata con
d.lgs. 205 del 2010.
...
RIFIUTI - Operatore nel settore - Obbligo di acquisire
informazioni circa la specifica normativa applicabile -
Invocazione della buona fede - Onere della prova.
In tema di rifiuti, chi opera nel
settore è gravato dell'obbligo di acquisire informazioni
circa la specifica normativa applicabile, sicché, qualora
deduca la propria buona fede, non può limitarsi ad affermare
di ignorare le previsioni di detta normativa, ma deve
dimostrare di aver compiuto tutto quanto poteva per
osservare la disposizione violata (Sez. 3, n. 18928 del
15/03/2017, Valenti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.12.2018 n. 58312 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA: Opere
di urbanizzazione a scomputo.
All'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria di importo inferiore alla
soglia comunitaria (euro 5.548.000), attuata dal titolare dell'abilitazione
a costruire, non si applica il codice dei contratti pubblici.
Il Consiglio di Stato, Comm. speciale, con il parere
24.12.2018 n. 2942 (Autorità nazionale anticorruzione: Linee
guida n. 4 - Procedure per l'affidamento dei contratti pubblici di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e
formazione e gestione degli elenchi di operatori economici - Opere di
urbanizzazione a scomputo) ha spiegato come applicare la deroga prevista
dall’articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001.
Nel riprendere le conclusioni del parere
12.02.2018 n. 361 i giudici sottolineano che le opere di
urbanizzazione devono essere realizzate nell'ambito degli strumenti
attuativi, degli atti equivalenti, degli interventi in attuazione dello
strumento urbanistico generale, e devono essere funzionali all'intervento di
trasformazione urbanistica del territorio.
Sono funzionali le opere di urbanizzazione primaria, come fogne, strade, e
tutti gli ulteriori interventi indicati dall'articolo 16, comma 7, del Dpr
380/2001, la cui realizzazione è indirizzata al servizio della lottizzazione
ovvero della realizzazione dell'opera edilizia, oggetto del titolo
abilitativo a costruire.
Per applicare l'articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001 occorre prima
procedere al calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione da
realizzarsi: il risultato è dato dalla somma di tutte le opere di
urbanizzazione che il privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non.
Ma solo per le opere funzionali il privato potrà avvalersi della deroga
prevista dall'articolo 16, comma 2-bis, del Dpr 380/2001 se il valore
complessivo delle opere di urbanizzazione non raggiunge la soglia
comunitaria, calcolata in base all'articolo 35, comma 9, del Dlgs 50/2016.
Invece, qualora sia sforato questo limite scatta per il privato l'obbligo di
applicare il Dlgs 50/2016 sia per le opere funzionali, sia per quelle non
funzionali.
Le opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare del permesso
di costruire quale scomputo degli oneri di urbanizzazione vanno considerate
come un'unica opera pubblica da realizzarsi contestualmente, seppure
costituita da diverse tipologie di opere che possono essere considerate come
singoli lotti in relazione alla loro singola natura.
Occorre sommare il valore di ciascuna di esse per valutare se questo
complessivo appalto superi o meno la soglia comunitaria.
Si applica, inoltre, l'articolo 35, comma 11, del Dlgs 50/2016. Pertanto,
quando un'opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti
separati, seppure il valore complessivo stimato della totalità dei lotti sia
superiore alla soglia comunitaria, i lotti Notizie quotidiani frazionati
possono essere aggiudicati senza applicare le procedure previste dal Dlgs
50/2016.
Purché i singoli lotti siano ciascuno inferiore a un milione al netto di
Iva, e il valore cumulato dei lotti aggiudicati non superi il 20% della
somma dei lotti in cui l'opera prevista è stata frazionata. In tale ultimo
caso «opera prevista», secondo i giudici, è la risultante delle opere
di urbanizzazione addossate al titolare del permesso che vanno considerate,
per il calcolo delle soglie, come un'unica «opera prevista» oggetto
di un unico appalto (articolo Il Sole 24 Ore del 09.01.2019).
---------------
PARERE
Premessa
Con il quesito in oggetto il Presidente dell’Autorità nazionale
anticorruzione – Anac, con nota prot. n. 16675 del 09.11.2018, ha chiesto di
acquisire il parere del Consiglio di Stato con specifico riguardo alla
tematica delle opere di urbanizzazione a scomputo, e cioè alle opere
eseguite dal titolare del permesso di costruire scomputando i relativi oneri
dai contributi dovuti ai Comuni per le opere di urbanizzazione.
In particolare, l’Anac si riferisce al punto 2.2 del paragrafo 2 (Il valore
stimato dell’appalto) delle proprie Linee guida n. 4 dell’01.03.2018,
recanti “Procedure
per l'affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di
rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli
elenchi di operatori economici”,
che riproducono in parte qua il parere n. 361 del 12.02.2018 reso dal
Consiglio di Stato.
Nel punto 2.2 delle suindicate Linee guida si legge testualmente che “Per
le opere di urbanizzazione a scomputo totale o parziale del contributo
previsto per il rilascio del permesso di costruire, nel calcolo del valore
stimato devono essere cumulativamente considerati tutti i lavori di
urbanizzazione primaria e secondaria anche se appartenenti a diversi lotti,
connessi ai lavori oggetto di permesso di costruire. Nel caso di esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma
7 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, di importo
inferiore alla soglia comunitaria, detto valore deve essere calcolato -
tenendo conto dell'intervenuta abrogazione del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 - secondo i parametri stabiliti dall'articolo 5,
paragrafo 8, della direttiva 2014/241 UE e dall'articolo 35 del Codice dei
contratti pubblici. Al ricorrere della suindicata ipotesi, per effetto della
previsione derogatoria contenuta nell'articolo 16, comma 2-bis, del decreto
del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001: 1) nel caso di affidamento
a terzi dell'appalto da parte del titolare del permesso di costruire non
trovano applicazione le disposizioni del decreto legislativo n. 163 del 2006
ed ora del Codice dei contratti pubblici; 2) di conseguenza, il valore delle
opere di urbanizzazione primaria di cui all'articolo 16, comma 7, del
decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001, di importo
inferiore alla soglia comunitaria, ai fini della individuazione del valore
stimato dell'appalto, non si somma al valore delle altre opere di
urbanizzazione eventualmente da realizzarsi".
Si legge nel documento che contiene il quesito formulato dall’Anac che
l’esigenza di sottoporre al Consiglio di Stato la richiesta di intervento
interpretativo del soprariportato punto 2.2 consegue al ricevimento da parte
della stessa Anac di una informativa proveniente dalla Struttura di missione
per le procedure di infrazione del Dipartimento per le politiche europee
presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri in ordine alla segnalazione
della Commissione Europea in merito ad un possibile contrasto tra quanto
contenuto nel citato punto 2.2 e l'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva
2014/24/UE, paventando il rischio dell'apertura di una procedura di
infrazione.
In particolare, si puntualizza nella richiesta di parere, il sottopunto n. 2
della elencazione inserita nel secondo periodo del punto 2.2 (che reca le
seguenti espressioni “di
conseguenza, il valore delle opere di urbanizzazione primaria di cui
all'articolo 16, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica n. 380
del 2001, di importo inferiore alla soglia comunitaria, ai fini della
individuazione del valore stimato dell'appalto, non si somma al valore delle
altre opere di urbanizzazione eventualmente da realizzarsi")
potrebbe rappresentare una previsione interpretativa che si pone in
contrasto con quanto disposto dall'articolo 5, paragrafo 8, della direttiva
2014/24/UE, nella parte in cui sembra prevedere che, in caso di esecuzione
diretta delle opere di urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ammessa
dall'articolo 16, comma 2-bis, del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 per importi di rilievo infracomunitario, il valore di
tali opere, appaltabile in deroga alle procedure di evidenza pubblica
regolate dal Codice dei contratti pubblici, possa essere determinato senza
tenere conto del valore complessivo delle opere di urbanizzazione (ossia
escludendo anche le restanti opere di urbanizzazione secondaria, e primaria
non funzionali).
Per superare i dubbi sollevati dalla Commissione Europea l’Anac suggerisce
un’interpretazione comunitariamente orientata del sottopunto 2 inserito nel
punto 2.2 delle Linee guida n. 4, nel senso che lo scorporo -dal valore
complessivo dell'opera- degli interventi di cui all'articolo 16, comma
2-bis, del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001 sia consentito solo a
condizione che il valore complessivo dell'opera stessa non raggiunga
l'entità della soglia comunitaria. Unicamente in siffatta ipotesi, il valore
di tali opere potrebbe essere scorporato dalle restanti opere di
urbanizzazione e, per l'effetto, affidato dal titolare del permesso di
costruire senza l'adozione delle procedure di evidenza pubblica previste dal
Codice dei contratti pubblici.
Viceversa, laddove l'importo complessivo delle opere si situasse al di sopra
dell'importo considerato dalle direttive comunitarie, allora anche la
porzione di opere di urbanizzazione primaria di tipo funzionale, ancorché in
sé di valore inferiore alla predetta soglia, dovrebbe essere ricompresa
nell'ambito degli affidamenti che la stazione appaltante è tenuta a gestire
nel (dovuto) rispetto del Codice dei contratti pubblici e ciò perché
attratta verso la soglia comunitaria in ragione del valore totale delle
opere di urbanizzazione da realizzare.
L’Autorità ha quindi chiesto al Consiglio di Stato di esprimere il proprio
avviso circa la condivisibilità o meno della suesposta interpretazione e,
nel caso in cui dovesse ritenersi non corretta, di specificare quale possa
essere la interpretazione più idonea a scongiurare che l’Italia possa
incorrere in una procedura di infrazione comunitaria.
L’Anac ha altresì chiesto che venga espresso un parere in ordine
all'incidenza, rispetto alla questione emarginata, della disposizione recata
dall'articolo 35, comma 11, del Codice dei contratti allo scopo di valutare
l'opportunità di inserire uno specifico richiamo all'interno del punto 2.2
delle Linee guida n. 4.
Tale norma sembra ammettere, in coerenza con quanto stabilito dall'articolo
5, paragrafo 10 della direttiva 2014/24/UE, che uno o più lotti possano
essere scorporati dai restanti lotti di cui si compone l'opera, a
condizione, per i lavori, che il singolo lotto valga meno di 1 milione di
euro e che la sommatoria dei lotti scorporati (e aggiudicati) meno del 20%
del valore complessivo dell'opera.
Il tutto potrebbe avvenire, per espressa previsione sia della direttiva che
della norma nazionale, in deroga al principio sancito dall'articolo 5,
paragrafo 8, della direttiva, riprodotto all'articolo 35, comma 9, del
Codice.
Nella fattispecie, dunque, applicando l'articolo 35, comma 11, del Codice e
sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il lotto
relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo in
via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, del Presidente della
Repubblica n. 380 del 2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse
di rilevanza comunitaria.
L’Autorità chiede, quindi, conferma circa la corretta interpretazione della
disposizione summenzionata, anche in relazione all'interferenza con
l'articolo 35, comma 9, del Codice, allo scopo di valutare l'opportunità di
inserire uno specifico richiamo all'interno del punto 2.2 delle Linee guida
n. 4.
Considerato:
A) Con riferimento al primo quesito ed in via preliminare, la
Commissione rileva che è già presente nella corpo della motivazione del
parere n. 361, reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato il
12.02.2018, l’evidente illustrazione degli elementi di interpretazione
(corretta) di quanto è stato poi riprodotto dall’Autorità nazionale
anticorruzione al sottopunto 2.2 del punto 2 delle Linee guida n. 4
dell’01.03.2018, con la conseguenza che, al fine di superare il dubbio
sottoposto all’esame di questa Commissione speciale, sembra sufficiente
riportarsi a detta illustrazione, non palesandosi l’assoluta necessità di
prospettare una “interpretazione
comunitariamente orientata”
di quanto scritto al sottopunto 2.2 delle Linee guida, come invece è stato
suggerito dall’Anac nella richiesta di parere pervenuta il 09.11.2018, prot.
n. 16675.
Ed invero:
- come si è segnalato nel citato parere n. 361 del 2018, l'articolo
16, comma 2-bis, d.P.R. 06.06.2001, n. 380 -a mente del quale "Nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati
nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico
generale, l'esecuzione diretta delle opere di urbanizzazione primaria di cui
al comma 7 (del medesimo art. 16, n.d.rr.), di importo inferiore alla soglia
di cui all'articolo 28, comma 1, lettera c), del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163, funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica
del territorio, è a carico del titolare del permesso di costruire e non
trova applicazione il decreto legislativo 12.04.2006, n. 163"-
contiene una evidente (ed eccezionale) deroga normativa all'applicazione
delle disposizioni codicistiche in materia di affidamento di commesse
pubbliche laddove l'esecuzione di opere di urbanizzazione primaria (purché
realizzate "Nell'ambito
degli strumenti attuativi e degli atti equivalenti comunque denominati
nonché degli interventi in diretta attuazione dello strumento urbanistico
generale, (...) funzionali all'intervento di trasformazione urbanistica del
territorio, (...)")
sia attuata direttamente dal titolare dell'abilitazione a costruire e
l'importo delle stesse sia inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria;
- giova precisare che per “opere
funzionali”
si intendono le opere di urbanizzazione primaria (ad es., fogne, strade e
tutte gli ulteriori interventi elencati, in via esemplificativa,
dall’articolo 16, comma 7, d.P.R. 06.06.2001, n. 380) la cui realizzazione è
diretta in via esclusiva al servizio della lottizzazione ovvero della
realizzazione dell’opera edilizia di cui al titolo abilitativo a costruire (quest’ultimo
nelle varie articolazioni previste dalle leggi, anche non nazionali) e,
comunque, solo quelle assegnate alla realizzazione a carico del destinatario
del titolo abilitativo a costruire e da quest’ultimo specificate;
- fermo quanto sopra si presenta necessario ribadire, ancora una
volta, che il calcolo complessivo delle opere di urbanizzazione, intesa
nella sua interezza, è dato dalla somma di tutte le opere di urbanizzazione
che il privato deve realizzare a scomputo, funzionali e non. Tale
operazione, avente dunque ad oggetto la definizione dell’importo complessivo
al quale ammonta la realizzazione delle opere di urbanizzazione, deve essere
effettuata prima di ogni ulteriore valutazione circa la possibilità di
applicazione della deroga di cui all'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380
del 2001, giacché l’operatività di quest’ultima resta direttamente
condizionata dall’esito dell’accertamento in ordine al calcolo complessivo
delle opere di urbanizzazione da realizzarsi;
- se il valore complessivo di tali opere –qualunque esse siano– non
raggiunge la soglia comunitaria, calcolata ai sensi dell’articolo 35, comma
9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, solo allora il privato potrà avvalersi della
deroga di cui all’articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del 2001 ed
esclusivamente per quelle funzionali;
- al contrario, qualora il valore complessivo di tali opere superi
la soglia comunitaria, il privato sarà tenuto al rispetto delle regole di
cui al Codice di contratti pubblici sia per le opere funzionali che per
quelle non funzionali;
- in termini ancora più semplici si deve ribadire l’iter logico già
seguito nel parere n. 361 del 2018 di questo Consiglio, vale a dire che
l’insieme delle opere di urbanizzazione il cui onere è accollato al titolare
del permesso di costruire come scomputo degli oneri di urbanizzazione, deve
essere considerato nel suo insieme come se fosse un'unica opera pubblica da
realizzarsi contestualmente, sia pure costituita da diverse tipologie (opere
di urbanizzazione primaria, primaria funzionali, secondaria) le quali,
ciascuna per sé, possono essere considerate come singoli lotti in relazione
alla loro singola natura (fogne, strade, illuminazione etc.). Ne consegue
che, per valutare se questo complessivo appalto virtualmente unitario,
composto da più opere disomogenee, superi o meno la soglia comunitaria, in
applicazione dell’art. 35, comma 9, del Codice occorre sommare il valore di
ciascuna di esse. Ciò refluisce, per altro, sulla soluzione al secondo
quesito posto dall’Anac di cui più avanti.
- tale essendo l’iter argomentativo del sottopunto 2.2 inserito nel
punto 2 delle Linee guida n. 4 del 2018, per come redatto dall’Anac in
seguito al parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 361
del 2018, spetterà alla predetta Autorità, sfuggendo tale compito ai poteri
di questa Commissione speciale, valutare se si renda indispensabile o meno
esternare tali motivazioni in seno alle Linee guida già approvate e quale
sia la procedura corretta per effettuare tale integrazione.
B) Con un secondo quesito, del tutto nuovo rispetto alla richiesta
che (a suo tempo) è stata all’origine del parere del Consiglio di Stato n.
361 del 2018, l’Anac ha chiesto conferma se l’articolo 35, comma 11, del
Codice dei contratti pubblici ammetta, in coerenza con quanto stabilito
dall'articolo 5, paragrafo 10 della direttiva 2014/24/UE, che uno o più
lotti possano essere scorporati dai restanti lotti di cui si compone
l'opera, a condizione, per i lavori, che il singolo lotto valga meno di 1
milione di euro e che la sommatoria dei lotti scorporati (e aggiudicati)
meno del 20% del valore complessivo dell'opera.
Questa Commissione speciale ritiene che tale lettura della norma non si
ponga in contrasto con il tenore letterale dell'articolo 5, paragrafo 10
della direttiva 2014/24/UE ed anzi costituisca uno strumento di “tolleranza”
applicabile ogni qualvolta occorra sommare il valore di un affidamento
suddiviso in più lotti.
Per semplificare, anche in questo caso il ragionamento e renderlo più
comprensibile, si deve richiamare l’osservazione sopra espressa secondo cui
il coacervo delle opere di urbanizzazione a scomputo addossate al titolare
del permesso di costruire deve essere considerato, agli effetti del calcolo
delle soglie, come una unica “opera
prevista”
oggetto di un unico appalto. Si è già precisato che se la sommatoria di tale
coacervo supera la soglia europea tutte le opere dovranno essere
assoggettate al codice.
Si rende tuttavia applicabile in questo caso anche l’art. 35, comma 11, del
Codice, il quale, in diretta, letterale e pedissequa applicazione dell’art.
5, par. 10 della direttiva 2014/24/UE, stabilisce che, in via di eccezione,
quando un’opera prevista può dar luogo ad appalti aggiudicati per lotti
separati, e quand’anche il valore complessivo stimato della totalità dei
lotti di cui essa si compone sia superiore alla soglia, ciò non ostante ai
lotti frazionati in questione non si applica la direttiva, e dunque possono
essere aggiudicati senza le procedure in essa previste come obbligatorie.
Ciò può avvenire però a due condizioni:
1. Che, i lotti in cui è stata frazionata l’”opera
prevista”
siano ciascuno inferiore a € 1.000.000,00,
2. Che la somma di tali lotti non superi il 20 per cento della somma di
tutti i lotti in cui l’opera prevista è stata frazionata. In questo caso per
“opera
prevista”
si deve intendere, appunto, il coacervo delle opere di urbanizzazione
addossate al titolare del permesso.
In questo senso, potendosi su tale aspetto concordare con quanto suggerito
dall’Anac nel quesito qui in esame, applicando l'articolo 35, comma 11, del
Codice e sussistendo le relative condizioni, sarebbe possibile scorporare il
lotto relativo alle opere di urbanizzazione primaria funzionali, affidandolo
in via diretta ai sensi dell'articolo 16, comma 2-bis, d.P.R. n. 380 del
2001, anche se il valore complessivo dell'opera fosse di rilevanza
comunitaria, a condizione che esso fosse di valore inferiore a €
1.000.000,00, e non superasse il venti per cento di tutte le opere a
scomputo addossate al titolare. |
EDILIZIA PRIVATA: Reati
edilizi - Modifica della destinazione d'uso giuridicamente
rilevante - Interventi edilizi sugli edifici - Rilascio del
permesso di costruire preventivo - Necessità - Manutenzione
straordinaria e risanamento conservativo - Originaria
destinazione d'uso - Artt. 3, 10, 23-ter, 44, d.P.R. n.
380/2001.
In presenza di modifica della
destinazione d'uso giuridicamente rilevante, le opere che
rendono necessario il previo rilascio del permesso di
costruire e che, in mancanza, integrano gli estremi del
reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 380 del
2001 (o lett. c, quando il fatto avvenga in zone vincolate)
non sono quelle che, di per sé considerate,
giustificherebbero la necessità di ottenere quel titolo
abilitativo, essendo invece sufficienti opere anche modeste,
riconducibili a ciascuno degli "interventi edilizi" sugli
edifici considerati nell'art. 3, comma 1, lett. da a) a d),
d.P.R. 380 del 2001.
Le definizioni di detti interventi edilizi, di fatti, hanno
un tratto comune chiaro ed imprescindibile: qualsiasi
intervento su edifici preesistenti, per poter essere
realizzato con s.c.i.a. (o con c.i.l.a.), piuttosto che con
permesso di costruire, non deve portare ad una modifica
della destinazione d'uso del fabbricato.
La conclusione si trae dalle definizioni della manutenzione
straordinaria (che postula che «si mantenga l'originaria
destinazione d'uso»: art. 3, comma 1, lett. b, d.P.R. 380
del 2001), del restauro o risanamento conservativo (le cui
modifiche all'organismo edilizio debbono consentire
«destinazioni d'uso...compatibili»: art. 3, comma 1, lett.
c, d.P.R. 380 del 2001), e pure della ristrutturazione
edilizia.
...
Mutamento di destinazione d'uso - Categorie d'interventi
funzionalmente autonome e centri storici - Opere interne,
ristrutturazione edilizia ordinaria e straordinaria,
restauro e di risanamento conservativo - Titoli abilitativi
- Permesso di costruire, s.c.i.a., c.i.l.a., nulla osta -
Modifica della destinazione d'uso senza opere - Assoluta
modestia di opere conservative - Giurisprudenza.
Alla stregua della vigente disciplina
urbanistica, le opere interne e gli interventi di
ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo
necessitano di concessione edilizia (permesso di costruire),
ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d'uso
tra categorie d'interventi funzionalmente autonome dal punto
di vista urbanistico e, qualora debbano essere realizzati
nei centri storici, anche nel caso in cui comportino
mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria
omogenea.
Gli stessi, qualora debbano essere realizzati fuori dei
centri storici e comportino mutamento della destinazione
d'uso all'interno di una categoria omogenea, richiedono,
invece, soltanto la semplice denuncia di attività
(Sez. 3, n. 35177 del 12/07/2001, Cinquegrani, ove il
riferimento alla d.i.a., a seguito delle modifiche
successivamente intervenute a proposito del titolo edilizio
abilitativo semplificato, va ora inteso, a seconda dei casi,
con riguardo alla s.c.i.a. o alla c.i.l.a.).
Nella giuirsprudenza, tale orientamento è
stato riaffermato, tanto da divenire ius receptum, e in
talune di esse il principio è stato esteso anche al caso di
modifica della destinazione d'uso senza opere
(Sez. 3, n. 13122 del 12/02/2003, Guaetta e a.; Sez. 3, n.
9894 del 20/01/2009, Tarallo; Sez. 3, n. 5712 del
13/12/2013, dep. 2014, Tortora; Sez. 3, n. 39897 del
24/06/2014, Filippi; Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016,
Stellato; Sez. 3, n. 6873 del 08/09/2016, dep. 2017, Buti e
a.).
Inoltre, per gli interventi di manutenzione
ordinaria, laddove il requisito del mantenimento della
destinazione d'uso non viene espressamente contemplato -deve
ritenersi- sul rilievo che l'assoluta modestia di opere
conservative, che rientrano addirittura nell'attività
edilizia libera (v. art. 6, comma 1, lett. a, d.P.R. 380 del
2001), necessariamente, ed implicitamente, postula il
mantenimento della medesima destinazione d'uso
dell'edificio.
---
Cambio destinazione d'uso di immobili esistenti tra
categorie funzionalmente diverse - Centri storici -
Funzionalità delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria - Precisi scopi di interesse pubblico del bene -
Disciplina normativa sugli standard - Misura del contributo
di urbanizzazione e organizzazione dei servizi.
Il cambiamento di destinazione d'uso di
immobili esistenti, tra categorie funzionalmente diverse (e,
nell'ambito dei centri storici, anche nell'ambito della
stessa categoria), può compromettere le scelte di
pianificazione dell'amministrazione, anche con riguardo alla
funzionalità delle opere di urbanizzazione primaria e
secondaria apprestate per le diverse zone del territorio
comunale, oltre a rilevare sulla misura del contributo di
urbanizzazione, di regola previsto in termini differenti a
seconda delle diverse destinazioni urbanistiche.
Proprio per questo, la destinazione d'uso è un elemento che
qualifica la connotazione del bene immobile e risponde a
precisi scopi di interesse pubblico, di pianificazione o di
attuazione della pianificazione.
Essa individua il bene sotto l'aspetto funzionale,
specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti
urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità proprio a seconda della diversa destinazione di
zona.
L'organizzazione del territorio comunale e la gestione dello
stesso vengono realizzate attraverso il coordinamento delle
varie destinazioni d'uso in tutte le loro possibili
relazioni e le modifiche non consentite di queste incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando
appunto il complessivo assetto territoriale
(Cass., Sez. 3^: 07.03.2008, Desumine e 12.07.2002,
Cinquegrani; così., in motivazione, Sez. 3, n. 9894 del
20/01/2009, Tarallo).
...
Mutamenti di destinazione d'uso anche se non accompagnati da
opere edilizie - Leggi regionali e strumenti urbanistici
comunali - Applicazione e limiti.
In materia urbanistica, con l'art.
23-ter d.P.R. 380/2001 -introdotto dall'art. 17, lett. n),
d.l. 12.09.2014, n. 133, conv., con modiff., in L.
11.11.2014, n. 164- si attribuisce giuridica rilevanza,
salve le diverse opzioni eventualmente assunte dalla
legislazione regionale, ai mutamenti di destinazione d'uso,
anche se non accompagnati da opere edilizie, che siano
idonei a determinare la riconduzione dell'immobile (o della
singola unità immobiliare) ad una diversa categoria
funzionale tra quelle indicate nel primo comma della
disposizione.
Al di là delle questioni interpretative che possono
insorgere rispetto al contenuto di tale comma
(cfr., di recente, Sez. 3, n. 6060 del 13/01/2017, Caturano),
balza subito agli occhi come la disposizione, non
solo non consideri il caso particolare dei centri storici,
ma espressamente statuisca che, «salva diversa previsione da
parte delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici
comunali, il mutamento della destinazione d'uso all'interno
della stessa categoria funzionale è sempre consentito» (art.
23-ter, comma 3, d.P.R. 380 del 2001).
Sicché, la disposizione va, tuttavia, senz'altro coordinata
con il principio ricavato dalla giurisprudenza dal disposto
di cui all'art. 10, comma 1, lett. c), del testo unico,
posto che, nel far salve eventuali diverse previsioni
contenute in disposizioni di legge regionali e addirittura
in atti amministrativi di carattere generale come gli
strumenti urbanistici, la regola ivi sancita, a fortiori,
cede il passo a previsioni derogatorie contenute nella
stessa legge statale qual è quella in parola (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.12.2018 n. 57989 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo abilitativo illegittimo - Principio di tassatività
della norma incriminatrice - Limite della responsabilità
penale - Procedimento per rilascio del permesso di costruire
- Giurisprudenza - Provvedimenti cautelari reali - Artt. 6,
20, 44, d.P.R. n. 380/2001.
Ai fini dell'integrazione dei reati di
cui all'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001,
fatta salva la necessità di ravvisare in capo all'agente il
necessario elemento soggettivo quantomeno colposo, la
contravvenzione di esecuzione di lavori sine titulo sussiste
anche quando il titolo, pur apparentemente formato, sia
(oltre che inefficace, inesistente o illecito) illegittimo
per contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia
sostanziale di fonte normativa o risultante dalla
pianificazione.
In tali casi, la "macroscopica illegittimità" del permesso
di costruire non è condizione essenziale per la oggettiva
configurabilità del reato, ma l'accertata esistenza di
profili assolutamente eclatanti di illegalità costituisce un
significativo indice di riscontro dell'elemento soggettivo
anche riguardo all'apprezzamento della colpa.
Pertanto, nel procedimento di riesame di provvedimenti
cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione
sommaria in ordine al "fumus" del reato ipotizzato
relativamente a tutti gli elementi della fattispecie
contestata, sicché può rilevarsi anche il difetto
dell'elemento soggettivo del reato, qualora esso emerga "ictu
oculi".
...
Titolo giuridicamente inesistente o illecito - Abuso
ricadente in zona vincolata - Provvedimento illegittimo per
vizio macroscopico - Collusione tra amministratore e
soggetti interessati - Prova non necessaria.
Sono punibili ai sensi dell'ipotesi di
cui all'art. 44, comma 1, lett. b, TUE) -ovvero ai sensi
della lettera c della fattispecie incriminatrice, qualora
l'abuso ricada in zona vincolata- le condotte di
edificazione in presenza di titolo giuridicamente
inesistente o illecito.
Sicché, di fronte all'ipotesi del provvedimento illegittimo
per vizio macroscopico o a quella, più tranquillizzante, del
provvedimento illecito, non sarebbe neppure necessario
accertare la sussistenza di un reato lato sensu collusivo
tra privato che richiede il permesso e funzionario pubblico
che lo rilascia, potendo l'illiceità desumersi dal grave
contrasto tra l'atto adottato e la sua disciplina di
riferimento: in materia edilizia deve ritenersi inesistente
la concessione edilizia non riferibile oggettivamente alla
sfera del lecito giuridico, in quanto frutto dell'attività
criminosa del soggetto pubblico che la rilascia o del
soggetto privato che la ottiene, e per la sua
disapplicazione non è necessaria la prova della collusione
tra amministratore e soggetti interessati o l'accertamento
dell'avvenuto inizio dell'azione penale a carico degli
amministratori, sempre che risulti evidente un contrasto con
norme imperative talmente grave da determinare non la mera
illegittimità dell'atto, ma la illiceità del medesimo e la
sua nullità (Sez.
3, n. 38735 del 11/07/2003, Schrotter e aa.).
...
DIRITTO
PROCESSUALE PENALE - Permesso di costruire illegittimo -
Sindacato del giudice penale sul provvedimento
amministrativo presupposto o elemento costitutivo di un
reato - Poteri del giudice penale.
Nell'ipotesi in cui si edifichi con
permesso di costruire illegittimo, non si discute più di
disapplicazione di un atto amministrativo illegittimo e dei
relativi poteri del giudice penale, ma di potere accertativo
di detto magistrato dinanzi ad un atto amministrativo che
costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato.
In tale ipotesi l'esame deve riguardare non l'esistenza
ontologica dello stesso, ma l'integrazione o meno della
fattispecie penale "in vista dell'interesse sostanziale che
tale fattispecie assume a tutela (nella specie l'interesse
sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli
elementi di natura extrapenale... convergono organicamente,
assumendo un significato descrittivo"(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Disciplina urbanistico-sostanziale - Trasformazione del
territorio - Permesso di costruire - Conformità degli
interventi edilizi - Sanzioni e ratio - Giurisprudenza.
In materia urbanistica, anche gli
interventi eseguiti con s.c.i.a.., quelli assoggettati a
c.i.l.a. e quelli riconducibili alle attività di edilizia
libera postulano la conformità delle opere alla
pianificazione urbanistica ed alla disciplina normativa (v.
artt. 22, comma 1, e 23, comma 1, 6-bis, comma 1, 6, comma
1, d.P.R. 380/2001).
La conformità degli interventi di trasformazione del
territorio alla disciplina urbanistico-sostanziale, dunque,
è il leitmotiv che permea -e caratterizza- la legislazione
urbanistica, sicché da essa non può prescindere il giudice
penale nel doveroso compito di interpretare ed applicare le
fattispecie incriminatrici.
Deve ritenersi, pertanto, che è sul presupposto della
conformità del titolo edilizio al modello legale di
riferimento che si giustifica la previsione incriminatrice
di costruzione sine titulo (od in totale diforrmità)
contenuta nell'art. 44, comma 1, lett. b) e c), d.P.R.
380/2001 (richiamate dal comma 2-bis della disposizione
quanto agli interventi realizzati in assenza di s.c.i.a..
alternativa al permesso).
Sarebbe, di fatti, manifestamene irragionevole -e
contrastante con la complessiva ratio del sistema-
sanzionare chi, pur non avendo richiesto il necessario
permesso di costruire, edifichi in conformità alla
disciplina urbanistico-edilizia sostanziale e considerare
invece penalmente irrilevante la condotta di chi, pur munito
di titolo illegittimamente rilasciato, quella disciplina
violi con condotta dolosa o gravemente colposa, realizzando
interventi non consentiti dalle previsioni normative o
contenute negli strumenti urbanistici.
Se la prima conseguenza può essere evitata dal soggetto
agente che, pur avendo modificato il territorio sottraendosi
al controllo dell'amministrazione, sani la violazione
formale ottenendo, con il pagamento della prevista
oblazione, l'accertamento di conformità secondo il modello
legale contenuto nell'art. 36 d.P.R. 380/2001, che comporta
l'estinzione del reato a norma del successivo art. 45, comma
3, la seconda -paradossale- conseguenza può essere
scongiurata dall'interpretazione che impedisce di attribuire
rilevanza ad un provvedimento adottato in spregio alla legge
( Sez. 3, n. 49687 del 07/06/2018, Bruno e a.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori edilizi eseguiti in assenza di permesso o di titoli
equipollenti - Controllo riservato alla P.A. - Condotte
criminose fraudolente o collusive - Segnalazione certificata
e perfezionamento tacito del necessario titolo giuridico -
Falso ideologico di cui all'art. 20, comma 13, d.P.R.
380/2001 - Autoresponsabilità del privato - Violazione -
Effetti.
Il reato di lavori eseguiti in assenza
di permesso (o di equipollente s.c.i.a.: art. 44, comma
2-bis, d.P.R. 380/2001) tutela non già la funzione di
controllo riservata alla pubblica amministrazione, ma
l'esigenza di impedire trasformazioni del territorio in
contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia.
Detto in altre parole, si punisce chi costruisce senza aver
previamente ottenuto il permesso (o aver formalizzato
l'equipollente s.c.i.a..) perché in questo modo non è stato
consentito all'autorità pubblica preposta di effettuare i
necessari controlli finalizzati ad evitare che le attività
di trasformazione effettuate dai privati possano porsi in
contrasto con l'ordinato sviluppo del territorio, quale
definito dalle norme di legge e pianificato
dall'amministrazione nel rispetto delle stesse.
Se, tuttavia, quel controllo è stato sin dall'inizio
impedito con condotte criminose fraudolente (si pensi alla
c.d. truffa edilizia) o collusive, oppure è stato soltanto
apparentemente esercitato da un soggetto non funzionalmente
competente o con un atto assunto in palese violazione della
disciplina urbanistico-edilizia, l'interpretazione
teleologica porta a ritenere che esso sia in radice mancato
e che il provvedimento rilasciato (o la segnalazione
certificata presentata) sia un titolo meramente apparente ed
ictu oculi improduttivo d'effetti.
In questa ottica è stata rafforzata, con la previsione del
nuovo delitto di falso ideologico di cui all'art. 20, comma
13, d.P.R. 380/2001, l'autoresponsabilità del privato,
sanzionandosi la falsa attestazione, da parte di un soggetto
professionalmente abilitato, di conformità del progetto (tra
l'altro) «agli strumenti urbanistici approvati ed adottati,
ai regolamenti edilizi, e alle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e,
in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza,
antincendio, igienico-sanitarie» (art. 20, comma 1, TUE).
Tenendo anche conto del fatto che il delitto è punito
soltanto a titolo di dolo e che l'interpretazione della
disciplina urbanistica non è sempre agevole, ciò tuttavia
non basta ad inficiare la più generale conclusione secondo
cui il perfezionamento tacito del necessario titolo
giuridico non garantisce che sia stata ragionevolmente
accertata la conformità dell'opera alla normativa
urbanistico-edilizia sostanziale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2018 n. 56678 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA
- INQUINAMENTO IDRICO - Esercente di un'attività autorizzata
- Unico scarico illecito - Rischio di un'offesa all'ambiente
- Natura di reato di pericolo - Reato di cui all'art. 137,
c. 3, d.lgs. n. 152/2006 - Configurabilità - Giurisprudenza.
La natura di reato di pericolo della
contravvenzione di cui all'art. 137 d.lgs. 152/2006, volta a
prevenire il rischio di un'offesa all'ambiente da parte
dell'esercente un'attività autorizzata, prescinde dalla
valutazione del giudice sulla gravità, entità e ripetitività
della condotta al fine di valutarne l'offensività in
concreto, essendo anche un solo scarico, pur se episodico,
idoneo a ledere il bene giuridico protetto.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Metodiche di prelievo e
campionamento del refluo - Modalità diverse di campionamento
- Criterio legale di valutazione della prova - All. 5, Parte
II, d.L.vo n. 152/2006.
Le indicazioni sulle metodiche di
prelievo e campionamento del refluo, contenute nell'Allegato
5, alla Parte II, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, nello
specificare che la metodica normale è quella del
campionamento medio non stabiliscono un criterio legale di
valutazione della prova, in quanto è consentito all'organo
di controllo procedere con modalità diverse di
campionamento, anche istantaneo, qualora ciò sia
giustificato da particolari esigenze, costituite dal tipo di
scarico o dal tipo di accertamento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.12.2018 n. 56670 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo (materiale tufaceo e
terreno vegetale) - Attività organizzate per traffico
illecito e gestione illecita di rifiuti - Differenze -
Attività organizzate per traffico illecito - Configurabilità
del reato - Compimento di più operazioni e l'allestimento di
mezzi e attività continuative organizzate - Nozione di
condotta abusiva - Soglia minima di rilevanza penale della
condotta - Ulteriori requisiti e azioni propedeutiche -
Definizione di "finalità di ingiusto profitto" - Artt. 186,
256 e 260 d.lgs. n. 152/2006 - Art. 452-quaterdecies c.p. -
Giurisprudenza.
In tema di rifiuti per l'integrazione
del reato di cui all'art. 260 d.lgs. n. 152/2006 devono
individuarsi, il compimento di più operazioni e
l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate,
che le stesse siano con l'attività organizzate per il
traffico illecito di rifiuti strettamente correlate, posto
che il legislatore utilizza la congiunzione "e".
E' richiesto anche il requisito dell'abusività della
condotta. Tale requisito può sussistere a fronte di una
struttura organizzativa di tipo imprenditoriale, idonea ed
adeguata a realizzare l'obiettivo criminoso preso di mira,
anche quando la struttura non sia destinata, in via
esclusiva, alla commissione di attività illecite, cosicché
il reato può configurarsi anche quando l'attività criminosa
sia marginale o secondaria rispetto all'attività principale
lecitamente svolta.
In questi casi si parla di reato abituale, in quanto
integrato necessariamente dalla realizzazione di più
comportamenti della stessa specie. L'apprezzamento circa la
soglia minima di rilevanza penale della condotta deve essere
effettuato non soltanto attraverso il riferimento al mero
dato numerico, ma, ovviamente, anche considerando gli
ulteriori rimandi, contenuti nella norma, a «più operazioni»
ed all'allestimento di mezzi e attività continuative
organizzate» finalizzate alla abusiva gestione di ingenti
quantità di rifiuti.
Ulteriori requisiti sono l'attività di cessione, ricezione,
trasporto, esportazione, importazione, o comunque gestione
abusiva di rifiuti che già risultano sanzionate penalmente e
vengono agevolate dalle azioni propedeutiche, nonché
l'ingente quantitativo di rifiuti, che non può essere
individuato a priori, attraverso riferimenti esclusivi a
dati specifici, quali, ad esempio, quello ponderale,
dovendosi al contrario basare su un giudizio complessivo che
tenga conto delle peculiari finalità perseguite dalla norma,
della natura del reato e della pericolosità per la salute e
l'ambiente e nell'ambito del quale l'elemento quantitativo
rappresenta solo uno dei parametri di riferimento.
Infine, la verifica deve essere effettuata considerando il
quantitativo complessivo di rifiuti trattati attraverso la
pluralità delle operazioni svolte, anche quando queste
ultime, singolarmente considerate, possono essere
qualificate di modesta entità.
Quanto alla finalità di ingiusto profitto, pure richiesta
dalla norma in esame per la configurabilità del delitto, si
è precisato che esso non deve necessariamente consistere in
un ricavo patrimoniale, potendosi ritenere integrato anche
dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi
di altra natura, senza che sia necessario, ai fini della
configurazione del reato, l'effettivo conseguimento di tale
vantaggio (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56101 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Interventi di ristrutturazione edilizia su edifici crollati
o demoliti - Ripristino o ricostruzione di edifici o parti
di essi - Accertamenti sulla preesistente consistenza -
Volumetria delle opere - BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Zona
paesaggisticamente vincolata - Obbligo di rispetto della
precedente sagoma - Disciplina applicabile - Artt. 142, 145,
d.lgs. n. 42/2004.
Gli interventi di ristrutturazione
edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di
edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti,
debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se
non è possibile accertare la preesistente volumetria delle
opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente
sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della
SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona
paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente
volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma
dell'edificio (Sez.
3, n. 40342 del 3/6/2014, Quarta).
Pertanto, detti interventi impongono, quale
imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la
preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è
crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con
il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati
certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica,
cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente
individuabile la consistenza del manufatto preesistente
(cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri; Sez.
3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto; V. anche Sez. 3, n.
48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa).
...
Ristrutturazione di edifici demoliti o crollati -
Identificabilità della preesistente consistenza con assoluta
certezza - Nozione di "consistenza" - Verifica e limiti -
Giurisprudenza.
In materia urbanistica, quando, la
ristrutturazione riguarda edifici demoliti o crollati, la
ristrutturazione presuppone che gli stessi siano
strutturalmente identificabili con assoluta certezza. Nei
casi in cui, la realizzazione del nuovo manufatto, non sia
un completamento o una ristrutturazione identificabili con
assoluta certezza implica, conseguentemente, il rispetto
delle distanze con gli edifici confinanti prevista per le
nuove costruzioni.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del
legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza
anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del
requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad
apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o
calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece,
basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili (Sez.
3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo e altri).
Più recentemente
(Sez. 3, n. 39340 del 09/07/2018, Morciano),
si è stabilito, con riferimento alla pretesa
ristrutturazione di un immobile crollato, definito nel
giudizio di merito come "un mero ammasso di pietre a secco
con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e
di piccola parte di un terzo muro", che non è possibile
l'accertamento della preesistente consistenza sulla base di
studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi
analoga tipologia, restando una simile verifica confinata
nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo
alcuna oggettiva evidenza (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto -
Illeciti - Efficacia temporale e della decadenza del
permesso di costruire - Situazione fattuale e normativa è
mutata - Rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da
eseguire - Necessità - Art. 15 del d.P.R. 380/2001.
L'art. 15 del d.P.R. 380/2001, tratta
dell'efficacia temporale e della decadenza del permesso di
costruire. La ragione di una tale scelta legislativa è
evidente ed è quella di dare certezza temporale all'attività
edificatoria, allo scopo di evitare che una edificazione,
autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la
situazione fattuale e normativa è mutata
(Cass., Sez. 3, n. 12316 del 21/02/2007, Minciarelli).
Pertanto, i lavori eseguiti con permesso di
costruire decaduto sono dunque illeciti, perché realizzati
senza valido titolo, come si desume dal comma terzo
dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che la
realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel
termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo
permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le
stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante SCIA e
che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del
contributo di costruzione
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conferenza di servizi - Valore sostitutivo - Presupposti
stabiliti dalla legge per il valido e lecito rilascio del
provvedimento - Necessità - Art. 36 e 44 d.P.R. 380/2001 -
Art. 14, c. 3-bis, L. n. 241/1990 e ss.mm..
Sebbene la legge attribuisca al
provvedimento finale adottato all'esito della conferenza di
servizi valore sostitutivo, a tutti gli effetti, di ogni
autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso
comunque denominato di competenza delle amministrazioni
partecipanti, debbono necessariamente sussistere gli
astratti presupposti, stabiliti dalla legge, per il valido e
lecito rilascio del provvedimento sostituito ed a tali
specifiche disposizioni sono correlate anche la produzione
degli effetti del provvedimento e le conseguenze in caso di
mancanza o inefficacia dello stesso.
Escludendo, ad esempio, effetti sananti al parere favorevole
espresso dal soprintendente nell'ambito del separato
procedimento per il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria ai sensi dell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 in sede
di conferenza di servizi, ex art. 14, comma 3-bis, legge n.
241 del 1990 (Sez.
3, n. 24410 del 09/02/2016, Pezzuto e altro)
e riconoscendo integrato il reato previsto dall'art.
44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per la realizzazione di
impianti fotovoltaici, non preceduta dal rilascio
dell'autorizzazione unica rilasciata all'esito di conferenza
di servizi (Sez.
3, n. 38733 del 20/03/2012, Ferrero e altro e succ. conf.),
pervenendo a conclusioni analoghe con riferimento
alle opere realizzate sul demanio marittimo
(Sez. 3, n. 21413 del 03/03/2010, Parisi e altri)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56096 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Assimilazione acque reflue
industriali alle acque reflue domestiche - Esistenza delle
specifiche condizioni - Necessità - Scarico in assenza di
autorizzazione o scaduta e non rinnovata - Artt. 74, 101,
137 del d.lgs. n. 152/2006.
In tema di inquinamento idrico
l'assimilazione, ai fini della disciplina degli scarichi e
delle autorizzazioni, di determinate acque reflue
industriali alle acque reflue domestiche è subordinata alla
dimostrazione della esistenza delle specifiche condizioni
individuate dalle leggi che la prevedono, restando
applicabili, in difetto, le regole ordinarie
(Sez. 3, n. 38946 del 28/06/2017, De Giusti) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.12.2018 n. 56094 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Interventi
eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire -
Concetto di difformità parziale - Applicazione e limiti
della disciplina T.U.E. - Artt. 34, 44 d.P.R. n. 380/2001.
In tema di opere eseguite in parziale
difformità del permesso a costruire, si deve ritenere che il
concetto di difformità parziale si riferisce ad ipotesi gli
aumenti di cubatura o di superficie di scarsa consistenza,
nonché le variazioni relative a parti accessorie che non
abbiano specifica rilevanza.
Pertanto, ai fini dell'applicazione di cui all'art. 34,
comma 2-ter, del d.P.R. n. 380 del 2001 "Interventi eseguiti
in parziale difformità dal permesso di costruire", non si ha
parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di
violazioni di altezze, distacchi, cubature o superficie
coperta che non eccedono, per singola unità immobiliare il 5
per cento delle misure progettuali (a seguito del D.L.
29.05.2018, n. 55, convertito con modificazioni, dalla L.
24.07.2018, n. 89, ha disposto (con l'art. 1-sexies, comma
2) che "Ai fini dell'applicazione del comma 1, la
percentuale di cui al comma 2-ter dell'articolo 34 del
citato decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del
2001 è elevata al 5 per cento") (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.12.2018 n. 55483 - link a www.ambientediritto.it).
---------------
ATTENZIONE:
la tolleranza del 5% di cui sopra (anziché del 2%) vale
esclusivamente per i comuni terremotati di cui al "D.L.
29.05.2018, n. 55, coordinato con la legge di conversione
24.07.2018, n. 89, recante: «Ulteriori misure
urgenti a favore delle popolazioni dei territori della
Regione Abruzzo, Lazio, Marche ed Umbria, interessati dagli
eventi sismici verificatisi a far data dal 24.08.2016»". |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Materiali provenienti da demolizione - Regime
giuridico applicabile - Deposito temporaneo o sottoprodotto
- Requisiti - Inosservanza anche di una sola delle
condizioni - Illecita gestione dei rifiuti o in abbandono di
rifiuti - Grava sul produttore dei rifiuti l'onere della
prova - Artt. 183 e 256, D. L.vo n. 152/2006 -
Giurisprudenza.
Ai fini della configurabilità del reato
previsto dall'art. 256, commi 1 e 3, del d.lgs. 03.04.2006,
n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono
essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto
oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che
l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei
presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un
regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al
"deposito temporaneo" o al "sottoprodotto"
(Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015, dep. 08/07/2015, Favazzo).
Va, infatti, ricordato che, in tema di
rifiuti, al fine di qualificare il deposito come temporaneo,
il produttore può alternativamente e facoltativamente
scegliere di adeguarsi al criterio quantitativo o a quello
temporale, ovvero può conservare i rifiuti per tre mesi in
qualsiasi quantità, oppure conservarli per un anno purché
essi non raggiungano, anche con riferimento ai rifiuti
pericolosi, i limiti volumetrici previsti dall'art. 183,
lett. bb), d.lgs. n. 152 del 2006
(cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 38046 del 27/06/2013,
Speranza); sicché l'inosservanza anche di
una sola delle condizioni imposte per il deposito temporaneo
trasforma l'attività oggetto del deposito in illecita
gestione dei rifiuti o in abbandono di rifiuti.
A tal proposito, si è, inoltre, chiarito che l'onere della
prova relativa alla sussistenza delle condizioni di liceità
del deposito cosiddetto controllato o temporaneo, fissate
dall'art. 183 d.lgs. n. 152 del 2006, grava sul produttore
dei rifiuti, in considerazione della natura eccezionale e
derogatoria di tale deposito rispetto alla disciplina
ordinaria (Sez. 3,
n. 35494 del 10/05/2016, dep. 26/08/2016, Di Stefano) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2018 n. 54702 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività di edilizia libera - Elementi di arredo delle aree
pertinenti degli edifici - C.d. "glossario" delle opere
libere contenuto nel d.m. 02/03/2018 - Artt. 3, 6, 10, 44
d.P.R. n. 380/2001 - Art. 181, d.lgs. n. 42/2004.
L'art. 6, comma 1, lett. e-quinquies),
d.P.R. 380 del 2001, contempla tra le attività di edilizia
libera non assoggettate ad alcun titolo abilitativo, «gli
elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici»
che dev'essere coordinato con il principio contenuto nel
precedente art. 3, comma 1, lett. e.1), sicché esso non si
riferisce a strutture che ampliano il preesistente edificio,
ma, come la descrizione della fattispecie peraltro precisa,
a manufatti separati, realizzati a servizio dello stesso
nelle aree pertinenziali.
E proprio a questi si riferisce il c.d. "glossario" delle
opere libere contenuto nel d.m. 02.03.2018 richiamato in
ricorso, che riconduce a tale categoria il gazebo ed il
pergolato, purché il manufatto sia «di limitate dimensioni e
non stabilmente infisso al suolo» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Ampliamento di un fabbricato preesistente -
Nozione di pertinenza - Giurisprudenza.
In materia di reati edilizi,
l'ampliamento di un fabbricato preesistente non può
considerarsi pertinenza, ma parte integrante dell'edificio e
privo di autonomia rispetto ad esso, perché, una volta
realizzato, ne completa la struttura per meglio soddisfare i
bisogni cui è destinato.
La pertinenza, richiede che si tratti di un manufatto
distinto e separato da quello principale a cui è asservito,
essendovi in caso contrario ampliamento dell'edificio che,
laddove avvenga «all'esterno della sagoma esistente» è da
considerarsi intervento di nuova costruzione ai sensi
dell'art. 3, comma 1, lett. e.1), d.P.R. 380 del 2001,
assoggettato a permesso di costruire ai sensi del successivo
art. 10, comma 1, lett. a).
Sicché, è necessario il permesso di costruire (o la
previgente concessione edilizia) nel caso, ad es., di
trasformazione di balconi in verande
(Sez. 3, n. 1483 del 03/12/2013, dep. 2014, Summa),
di tettoie realizzate sul lastrico solare
(Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo),
di porticato addossato ad un fabbricato
(Sez. 3, n. 33657 del 12/07/2006, Rossi).
In tali casi, oltre alla modifica della
sagoma, che è costituita dalla conformazione
planovolumetrica della costruzione e dal suo perimetro,
inteso sia in senso verticale che orizzontale
(Sez. 3, n. 45588 del 28/10/2004, D'Aurelio),
si determina quantomeno l'aumento della superficie
coperta, né la necessità del permesso di costruire può farsi
dipendere dalla natura dei materiali utilizzati o dalla più
o meno facile amovibilità della struttura
(Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, dep. 2015, Manfredini; Sez.
3, n. 37572 del 14/05/2013, Doppiù e a.; Sez. 3, n. 22054
del 25/02/2009, Frank) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Reato di cui all'artt. 146,
181 d.lgs. n. 42/2004 - Configurabilità - Assenza di
preventiva autorizzazione - D.P.R. 13.02.2017, n. 31 -
Procedura autorizzatoria semplificata.
In tema di tutela dei beni culturali e
ambientali, per l'integrazione del reato di cui all'art. 181
d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di reato di pericolo, non
si richiede ai fini della sua configurabilità un effettivo
pregiudizio per l'ambiente, essendo sufficiente
l'esecuzione, in assenza di preventiva autorizzazione, di
interventi che siano astrattamente idonei ad arrecare
nocumento al bene giuridico tutelato
(Sez. 3, n. 11048 del 18/02/2015, Murgia; Sez. 3, n. 6299
del 15/01/2013, Simeon e a.), tali
certamente essendo gli interventi che incidano sull'aspetto
esteriore degli edifici
(Sez. 3, del 21/06/2011, Fanciulli).
Nella specie, che la realizzazione di
tettoie su beni paesaggisticamente vincolati in assenza di
autorizzazione integri la contravvenzione di cui all'art.
181, comma 1, d.lgs. 42 del 2004 è stato anche di recente
affermato (Sez. 3,
n. 2288 del 28/11/2017, dep. 2018, Esposito e a.)
e la conclusione trova conferma nel recente d.P.R.
13.02.2017, n. 31 ("Regolamento recante individuazione degli
interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o
sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata"), che
ribadisce come anche detti manufatti siano assoggettati al
rilascio dell'autorizzazione di cui all'art. 146 dello
stesso Codice, sia pur prevedendo una procedura semplificata
laddove gli stessi abbiano contenute dimensioni.
L'Allegato B al suddetto decreto -che individua gli
interventi soggetti ad autorizzazione paesaggistica da
rilasciarsi con procedura semplificata- contempla infatti,
al punto B.17, la «realizzazione di tettoie, porticati,
chioschi da giardino di natura permanente e manufatti
consimili aperti su più lati, aventi una superficie non
superiore a 30 mq» (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.12.2018 n. 54692 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Terre e rocce da scavo - Definizione di "gestione"
e "trattamento" - Raccolta, trasporto, recupero e
smaltimento - Sottoprodotto - Test di cessione -
Provvedimento di autorizzazione - Necessità - Art. 260
d.lgs. n. 152/2006 oggi trasfuso nell'art. 452-quaterdecies
cod. pen. - Artt. 183, 184-bis, 208 d.lgs. 152/2006.
In materia di rifiuti, la definizione di
"gestione", ai fini dell'applicazione delle disposizioni di
cui alla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006, è contenuta
nell'art. 183, lett. n), dello stesso decreto, e abbraccia
la raccolta, il trasporto, il recupero e lo smaltimento dei
rifiuti, compresi il controllo di tali operazioni e gli
interventi successivi alla chiusura dei siti di smaltimento.
La medesima disposizione definisce quindi le attività di
"recupero" e "smaltimento", statuendo che rientra nella
prima «qualsiasi operazione il cui principale risultato sia
di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile,
sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti
utilizzati per assolvere una particolare funzione o di
prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno
dell'impianto e o nell'economia in generale» (art. 183,
lett. t, d.lgs. 152/2006); alla seconda categoria è invece
riconducibile «qualsiasi operazione diversa dal recupero
anche quando l'operazione ha come conseguenza secondaria il
recupero di sostanze o di energia» (art. 183, lett. z,
d.lgs. 152/2006).
Le citate norme definitorie rimandano inoltre agli Allegati
al decreto per un'elencazione non esaustiva delle operazioni
di recupero (Allegato C) e di smaltimento (Allegato B). Nel
primo dei menzionati allegati, sub R5 si menziona il
«recupero di altre sostanze inorganiche» e nel secondo, sub
D1, il «deposito sul o nel suolo». Ancora, la disposizione
più volte citata definisce come "trattamento" le «operazioni
di recupero o smaltimento, inclusa la preparazione prima del
recupero o dello smaltimento» (art. 183, lett s, d.lgs.
152/2006).
Sicché, nella specie, costituisce attività di gestione di
rifiuti, soggetta al previo rilascio del provvedimento di
autorizzazione ai sensi degli artt. 208 ss. d.lgs. 152/2006
il deposito di numerose tonnellate di rifiuti, lo
smaltimento di enormi quantità di rocce e terre da scavo, il
recupero delle sostanze inorganiche per il riempimento del
sito di cava, così sostituendo altri materiali che avrebbero
potuto assolvere alla medesima funzione.
...
RIFIUTI - Illecita gestione dei rifiuti - Ingiusto profitto
- Organizzazione professionale (mezzi e capitali) -
Pluralità delle azioni - Natura di reato abituale -
Integrazione dell'art. 452-quaterdecies cod. pen..
L'integrazione della fattispecie di cui
all'art. 260, comma 1, d.lgs. 152/2006, già previsto
dall'art. 53-bis, d.lgs. n. 22 del 1997, come introdotto
dalla legge 23.03.2001, n. 103 ed ora riprodotto nell'art.
452-quaterdecies cod. pen. sanziona comportamenti non
occasionali di soggetti che, al fine di conseguire un
ingiusto profitto, fanno della illecita gestione dei rifiuti
la loro redditizia, anche se non esclusiva attività, per cui
per perfezionare il reato è necessaria una, seppure
rudimentale, organizzazione professionale (mezzi e capitali)
che sia in grado di gestire ingenti quantitativi di rifiuti
in modo continuativo, ossia con pluralità di operazioni
condotte in continuità temporale, operazioni che vanno
valutate in modo globale: alla pluralità delle azioni, che è
elemento costitutivo del fatto, corrisponde una unica
violazione di legge, e perciò il reato è abituale dal
momento che per il suo perfezionamento è necessaria le
realizzazione di più comportamenti della stessa specie (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 29.11.2018 n. 53648 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Rifiuti liquidi (prelevati) da fosse settiche,
pozzi neri, vasche imhoff, bagni mobili ecc. - Pulizia
manutentiva - Inapplicabilità del c. 5 dell'art. 230 TUA -
Differenza di codice CER - Artt. 74, 185, 188-ter, 193, 230,
256 D.L.vo n. 152/2006.
Tutti i rifiuti liquidi (prelevati) da
fosse settiche e/o pozzi neri o comunque serbatoi non
connessi mediante apposite condotte alla rete fognaria (o
meglio, che non integrano una rete fognaria) non rientrano
nella "speciale disciplina introdotta nel 2010 legge n. 205,
per una fattispecie singola e ben individuata.
Ed infatti, a conferma dell'inapplicabilità del comma 5
dell'articolo 230 TUA, è sufficiente considerare che i
rifiuti originati dalla "pulizia manutentiva di reti
fognarie" hanno un proprio codice CER (20.03.06) distinto
rispetto a quello attribuito ai rifiuti da pozzi neri
(fanghi da fosse settiche, con CER 20.03.04).
Ne consegue che, alla luce delle modalità di formazione dei
rifiuti accumulati nei pozzi neri e nelle fosse settiche,
nonché delle modalità operative di manutenzione di detti
impianti, i rifiuti raccolti nelle vasche suddette non
risultano qualificabili come rifiuti da manutenzione ex artt.
183, lett. f) e 266, comma 4, del TUA, poiché non vengono
fisicamente prodotti dalle attività manutentive svolte dalle
imprese.
Né possono essere, considerati ex art. 230, comma 5, del
TUA, come rifiuti originati dalla pulizia manutentiva di
reti fognarie pubbliche o private. Inoltre, produttore del
rifiuto liquido rimane colui il quale ha prodotto il rifiuto
liquido (l'insieme dei condomini; il titolare del ristorante
ecc. per rimanere ai soggetti indicati —giustamente— come
produttori nei FIRR), e l'autospurghista è il
raccoglitore/trasportatore del rifiuto liquido.
...
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Gestori delle reti fognarie -
Attività manutentiva - Esonero da adempimenti burocratici -
Obbligo di tracciare la movimentazione del rifiuto -
Discrimen tra scarico e rifiuto liquido - RIFIUTI -
Abbandono incontrollato di liquami trasportati su autospurgo.
L'articolo 230, comma 5, d.lgs. n. 152
del 2006, come novellato ex lege n. 205 del 2010, ha
stabilito, al fine di risolvere dubbi interpretativi
precedenti e soprattutto esentare i gestori delle reti
fognarie da adempimenti burocratici, che "i rifiuti
provenienti dalle attività di pulizia manutentiva delle reti
fognarie di qualsiasi tipologia ... si considerano prodotti
dal soggetto che svolge l'attività manutentiva".
Dunque, la novella legislativa ha confermato il discrimen
tra scarico e rifiuto liquido e di conseguenza resta valido
l'indirizzo che configura il reato di cui all'art. 256 comma
secondo del d.lgs. n. 152 del 2006 in caso di abbandono
incontrollato di liquami trasportati su autospurgo "in
quanto i liquami sono da considerarsi rifiuti allo stato
liquido stoccati in attesa di un successivo smaltimento"
(Sez. 3, n. 22036 del 9 13/04/2010, Chianura, cit.; Sez. 3,
n. 34608 del 25/05/2011, Cannizzo).
Sicché, il discrimen tra scarichi e
rifiuti liquidi interessa anche le operazioni di trasporto,
pertanto, anche i reflui trasportati dall'autospurgo devono
sottostare, ai regime dei rifiuti, dovendosi considerare,
per le ragioni in precedenza precisate, rifiuti allo stato
liquido i liquami trasportati su autospurgo.
Ne consegue che, a seguito dell'equiparazione inerente
soltanto i reflui e fanghi prelevati dalle fogne, si può
costituire presso il manutentore -ritenuto produttore- un
deposito temporaneo, quale definito dall'articolo 183, lett.
bb), d.lgs. n. 152 del 2006 come "raggruppamento dei rifiuti
effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli
stessi sono prodotti", onde il manutentore è esonerato
dell'obbligo di munirsi di autorizzazione per lo stoccaggio
provvisorio.
Resta comunque a carico del manutentore l'obbligo di
tracciare la movimentazione del rifiuto dal punto di
prelevamento alla sua sede e l'obbligo che deriva
dall'articolo 110, comma 3, dal momento che, altrimenti, la
autospurghista potrebbe raccogliere liquami e fanghi di reti
fognarie in ogni parte d'Italia e recapitarli in un solo
impianto, condotta vietata anche dall'articolo 182, comma 3,
decreto legislativo n. 152 del 2006.
...
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Attività di stoccaggio in
assenza di autorizzazione - Deposito preliminare o nella
messa in riserva di rifiuti - Abbandono incontrollato.
In tema di gestione dei rifiuti, integra
il reato di illecita gestione ex art. 256, comma primo,
lett. a), del d.Lgs. 152 del 2006 l'attività di stoccaggio,
se effettuata in assenza di autorizzazione, posto che la
stessa consiste nel deposito preliminare o nella messa in
riserva di rifiuti, e, quindi, conformemente anche a quanto
dispone la disciplina comunitaria, deve essere considerata
un'operazione di smaltimento o di recupero
(Cass. Sez. 3, n. 48491 del 13/11/2013, De Sarlo).
...
RIFIUTI - Scarichi diretti di reflui liquidi e liquami
trasportati su autospurgo - Disciplina applicabile.
Dal combinato disposto dell'art. 74,
comma 1, lett. ff) - art. 185, comma 2, T.U.A. sono
sottratti alla disciplina dei rifiuti, di cui alla parte
quarta del T.U.A., soltanto gli scarichi diretti di reflui
liquidi, intendendosi per scarico diretto quello che
mediante "condotta" immette lo scarico liquido dal luogo di
produzione nel corpo ricettore senza soluzione di
continuità.
Pertanto, integra il reato previsto dall'art. 256, comma
secondo, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, l'abbandono
incontrollato (nel caso in esame, stoccaggio) di liquami
trasportati su autospurgo, in quanto sono da considerarsi
rifiuti allo stato liquido i reflui stoccati in attesa di un
successivo smaltimento, fuori del caso delle acque di
scarico, ossia quelle oggetto di diretta immissione nel
suolo, nel sottosuolo o nella rete fognaria mediante una
condotta o un sistema stabile di collettamento
(Sez. 3, n. 22036 del 13/04/2010, Chianura) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.11.2018 n. 52133 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Il reato in caso di false attestazioni del
privato nelle autocertificazioni dirette alla P.A..
La dichiarazione del privato, fatta sul modulo prestampato
dall'Ente, è equiparata all'atto pubblico.
Un commerciante ha impugnato per cassazione la sentenza del
02.10.2017 della Corte di appello di Bari (che aveva
confermato quella di primo grado) che l'aveva riconosciuto
colpevole del delitto di cui agli artt. 76 D.P.R. n. 445 del
2000 e 483 Cod. pen., per avere attestato falsamente, nella
dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà allegata
all'istanza di rilascio della licenza per l'esercizio di una
sala giochi, di non avere riportato condanne ostative ai
sensi dell'art. 11 T.U.L.P.S., e per l'effetto l'aveva
condannato alla pena di giustizia.
Deduceva il ricorrente, con apposito motivo, la sussistenza
di un vizio di violazione di legge sostanziale e
processuale, in relazione alla valutazione compiuta dai
giudici di merito dei risultati delle prove assunte nel
dibattimento con riferimento alla qualificazione giuridica
del fatto nei termini del delitto di falsità ideologica
commessa dal privato in atto pubblico, sia con riferimento
al fatto che la certificazione di buona condotta è stata
espunta dal catalogo dei requisiti per il rilascio delle
autorizzazioni amministrative, sia in ordine alla mancata
considerazione dell'incidenza dell'errore determinato da
colpa sul versante dell'attribuzione psichica del fatto
all'autore.
Il ricorso veniva ritenuto manifestamente infondato con
sentenza 15.11.2018 n. 51711
della V Sez. penale della Corte di Cassazione.
I giudici di legittimità sottolineavano che nella sentenza
impugnata era ben evidenziato che la falsità della
dichiarazione sostitutiva presentata dall’imputato trovava
riscontro nelle dichiarazioni rese dal dirigente
dell'ufficio comunale preposto al rilascio delle licenze
commerciali -il quale aveva riferito che, alla data di
presentazione dell'autocertificazione, l'imputato era
gravato da un precedente penale ostativo al rilascio della
licenza per l'esercizio di una sala giochi e che la
riabilitazione, evocata con le note di chiarimento
depositate nell'ambito del procedimento amministrativo di
revoca della licenza, gli era stata concessa dal Tribunale
di Bologna soltanto successivamente alla dichiarazione
attestativa di possesso dei requisiti richiesti dall'art. 11
TULPS-, sicché da parte del giudice censurato si è
ineccepibilmente concluso che, alla data di effettuazione
della dichiarazione (il 01.10.2010), l’imputato versava in
una posizione di irregolarità rispetto ai requisiti
richiesti dalla norma evocata: donde l'irrilevanza della
deduzione difensiva riguardante l'estromissione della
certificazione di buona condotta dal catalogo dei requisiti
necessari per ottenere il rilascio di una autorizzazione
amministrativa.
Fatta questa premessa, la Corte ha dichiarato anche la
manifesta infondatezza del rilievo prospettato dal
ricorrente in riferimento all'insussistenza del delitto di
cui agli artt. 76 D.P.R. 445 del 2000 e 483 Cod. pen. per
non essere il modulo prestampato fornito dall'ufficio
comunale all'imputato un atto pubblico ma una scrittura
privata.
Sul punto sovviene l'elaborazione giurisprudenziale, cui si
deve l'incontrastata enunciazione direttiva secondo cui
integra il reato di falso ideologico commesso dal privato in
atto pubblico la condotta di colui che, in sede di
dichiarazione sostitutiva di atto notorio, attesti
falsamente di non avere subìto condanne penali, considerato
che, in tal caso, la dichiarazione del privato viene
equiparata ad un atto pubblico destinato a provare la verità
dello specifico contenuto della dichiarazione, ivi compresa
l'inesistenza di condanne in capo al dichiarante, con la
conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono in
pericolo il valore probatorio dell'atto, escludendo perciò
stesso l'innocuità del falso
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
Il ricorso è manifestamente infondato.
1. Quanto al primo motivo, va rilevato che il ricorrente
propone censure non consentite al
cospetto del giudice di legittimità, posto che sia il
Tribunale, nel respingere la richiesta di
assunzione della testimonianza di La.En. ai sensi
dell'art. 507 cod. proc. pen, che la Corte
di appello, nell'avallare la statuizione adottata dal primo
giudice, hanno corredato i rispettivi
provvedimenti di una motivazione tutt'altro che illogica
quanto alla non decisività del detto
incombente rispetto ad un tema -quello dell'incidenza della
conoscenza del contenuto del
modulo prestampato fornito all'imputato dalla impiegata
dell'ufficio competente del Comune di
Polignano a Mare in relazione alla coscienza e volontà del
soggetto di attestare un dato non
corrispondente al vero- neppure delineato con la dovuta
precisione.
In tal senso occorre
riconoscere che i giudici di merito si sono conformati alla
linea ermeneutica di questa Corte
regolatrice, a mente della quale, perché un vizio inerente
ad una attività processuale discrezionale -quale è quella
consistente nella acquisizione probatoria ex officio nel
giudizio di
primo grado di mezzi di prova assolutamente necessari ai
fini del decidere- possa dare luogo
al sindacato di legittimità, occorre che esso si sia
tradotto in una mutilazione o incoerenza del
ragionamento seguito dal giudice per giungere alla sua
conclusione, che nel caso di specie non
è dato ravvisare (Sez. 6, n. 1400 del 22/10/2014 - dep.
14/01/2015, PR, Rv. 261799; Sez. 1,
n. 9151 del 28/06/1999, Capitani, Rv. 213923).
2. Prive di pregio sono parimenti tutte le censure
promiscuamente articolate con il secondo motivo di ricorso.
2.1. Nella sentenza impugnata è evidenziato che la falsità
della dichiarazione sostitutiva
presentata dal Pone trovava riscontro nelle dichiarazioni
rese dalla dirigente dell'ufficio comunale
preposto al rilascio delle licenze commerciali -la quale
aveva riferito che, alla data di
presentazione dell'autocertificazione, l'imputato era
gravato da un precedente penale ostativo al
rilascio della licenza per l'esercizio di una sala giochi e
che la riabilitazione, evocata con le note
di chiarimento depositate nell'ambito del procedimento
amministrativo di revoca della licenza,
gli era stata concessa dal Tribunale di Bologna soltanto
successivamente alla dichiarazione
attestativa di possesso dei requisiti richiesti dall'art. 11
TULPS-, sicché da parte del giudice
censurato si è ineccepibilmente concluso che, alla data di
effettuazione della dichiarazione (il 01.10.2010), l'odierno ricorrente versava in una posizione
di irregolarità rispetto ai requisiti
richiesti dalla norma evocata: donde l'irrilevanza della
deduzione difensiva riguardante
l'estromissione della certificazione di buona condotta dal
catalogo dei requisiti necessari per
ottenere il rilascio di una autorizzazione amministrativa.
2.2. Fatta questa premessa, va dichiarata la manifesta
infondatezza del rilievo
prospettato dal ricorrente in riferimento all'insussistenza
del delitto di cui agli artt. 76 d.P.R.
445/2000 e 483 cod. pen. per non essere il modulo
prestampato fornito dall'ufficio comunale
all'imputato un atto pubblico ma una scrittura privata.
Sul
punto sovviene l'elaborazione
giurisprudenziale di questa Corte, cui si deve
l'incontrastata enunciazione direttiva secondo
cui: <<Integra il reato di falso ideologico commesso dal
privato in atto pubblico (art. 483 cod.
pen.), la condotta di colui che, in sede di dichiarazione
sostitutiva di atto notorio, attesti
falsamente di non avere subìto condanne penali, considerato
che, in tal caso, la dichiarazione
del privato viene equiparata ad un atto pubblico destinato a
provare la verità dello specifico
contenuto della dichiarazione, ivi compresa l'inesistenza di
condanne in capo al dichiarante, con
la conseguenza che le false attestazioni al riguardo mettono
in pericolo il valore probatorio
dell'atto, escludendo perciò stesso l'innocuità del falso>> (Sez.
5, n. 25469 del 16/04/2009,
Spagnolli, Rv. 243897; nello stesso senso Sez. 5, n. 48681
del 06/06/2014, Sola, Rv. 261278).
2.3. Ugualmente del tutto infondata è la censura che si
dirige sull'elemento soggettivo del reato, del quale il ricorrente deduce la mancanza per
essere egli incorso in errore sul fatto a
causa del contenuto non chiaro del modulo prestampato
fornitogli dall'ufficio che non recava
l'ostensione per esteso della categoria dei reati ostativi
ai sensi dell'art. 11 T.U.L.P.S.
La
motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale non si
presta a rilievi di sorta, atteso che secondo
l'interpretazione consolidata di questa Corte di
legittimità, in tema di falsità ideologica
in atto pubblico, ai fini della sussistenza dell'elemento
soggettivo è sufficiente il dolo generico,
ossia la volontarietà e la consapevolezza della falsa
attestazione (Sez. 5, n. 35548 del
21/05/2013, Ferraiuolo e altro, Rv. 257040).
Poiché nel caso
al vaglio le norme giuridiche
richiamate nel modulo sottoscritto dal ricorrente lo
obbligavano a dichiarare il vero, ricollegando
specifici effetti alla sua dichiarazione riguardante
l'assenza di precedenti penali ostativi ai sensi
dell'art. 11 evocato, è di tutta evidenza che egli, prima di
rendere la detta attestazione, avrebbe
dovuto verificare se le condanne riportate -delle quali
egli era del tutto consapevole avendo
presentato istanza di riabilitazione al Tribunale di Bologna- fossero o meno tra quelle elencate
nella disposizione di cui agli artt. 11 e 92 TULPS ( ). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sopraelevazione di edificio priva di permesso di
costruire: é opera precaria?
La Corte analizza il concetto di precarietà e affronta il
tema della sanatoria rifiutata per silentium.
La Corte d'Appello di Catania, con sentenza del gennaio 2018
confermava la decisione con la quale il Tribunale di quella
città aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato
per avere realizzato, in assenza del permesso di costruire e
degli altri necessari titoli abilitativi, in zona sismica,
opere edilizie consistenti nella sopraelevazione di un
preesistente manufatto avente copertura ad una falda in
legno e tegole, con piano di calpestio in lame inserite
nelle pareti perimetrali e legno per una superficie di 35 mq
ed un’altezza al colmo di m. 3, completa di impianto idrico
ed elettrico ed a cui si accede tramite scala interna ad una
rampa in ferro, nonché una tettoia di metri quadri 8 con
struttura in legno coperta da tegole.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione
l’imputato, sostenendo che le opere realizzate non sarebbero
suscettibili di permesso di costruire, trattandosi,
inequivocabilmente, di opere amovibili e, quindi, sottratte
alla disciplina di cui all'articolo 10 del D.P.R. n. 380 del
2001.
Aggiungeva, poi, che per le opere in questione sarebbe stata
presentata richiesta di sanatoria ed il relativo
procedimento non sarebbe ancora esaurito, rilevando che il
silenzio rifiuto cui faceva riferimento la Corte
territoriale non si potrebbe configurare nella fattispecie,
trattandosi di opere non rientranti nelle categorie previste
dagli artt. 6 e 10 del citato T.U. n. 380/2001.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
sentenza 15.11.2018 n. 51599,
ha dichiarato inammissibile l’impugnativa perché basata su
motivi manifestamente infondati.
I giudici, dopo aver preliminarmente rilevato che le opere
realizzate devono essere apprezzate nella loro interezza,
trattandosi di intervento organicamente finalizzato alla
sopraelevazione ed all'ampliamento di un preesistente
edificio, hanno ribadito il principio secondo il quale
l'attività edilizia deve essere considerata unitariamente
nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e
considerare separatamente i suoi singoli componenti.
Il Collegio, infatti, ha ricordato che l'art. 10, lett. a),
del D.P.R. 380 individua, tra gli interventi edilizi
soggetti a permesso di costruire, quelli di nuova
costruzione, la cui descrizione viene fornita dall'articolo
3 dello stesso T.U. nella lettera e), ove si specifica che
si intendono come tali tutti gli interventi di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non
rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti
(che riguardano gli interventi di manutenzione ordinaria e
straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo e
di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da
considerarsi come interventi di nuova costruzione tutta una
serie di opere singolarmente indicate in un elenco la cui
natura è meramente esemplificativa e ricavata utilizzando le
qualificazioni operate dalla giurisprudenza, come emerge
dalla semplice lettura della relazione illustrativa al TU.
Il ricorrente riteneva, tuttavia, sottratte al regime del
permesso di costruire le opere realizzate, assumendo che le
stesse sarebbero "amovibili". L’opera precaria, per
la sua stessa natura e destinazione, non comporta effetti
permanenti e definitivi sull'originario assetto del
territorio tali da richiedere il preventivo rilascio di un
titolo abilitativo e la giurisprudenza ha costantemente
affermato che l'intervento precario deve necessariamente
possedere alcune specifiche caratteristiche: la sua
precarietà non può essere desunta dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera
dall'utilizzatore; sono irrilevanti le caratteristiche
costruttive i materiali impiegati e l'agevole amovibilità;
deve avere una intrinseca destinazione materiale ad un uso
realmente precario per fini specifici, contingenti e
limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione dell'uso.
Ciò posto, i Giudici di legittimità hanno rilevato che
l’evidente natura non precaria dell'intervento e la
necessità, per la sua realizzazione, del permesso di
costruire, risultavano adeguatamente apprezzati dai giudici
del merito in considerazione delle caratteristiche e della
destinazione delle opere, realizzate in sopraelevazione di
un preesistente edificio, dotate di stabili impianti
elettrico ed idrico con creazione di nuovi volumi con vani
destinati ad uso abitativo ed adibiti a stanza da letto e
bagno.
Per ciò che concerne, infine, la procedura di sanatoria, del
tutto correttamente l’affermazione, del tutto apodittica, è
stata ritenuta priva di fondamento, come emergeva
chiaramente dalla semplice lettura della descrizione degli
interventi eseguiti contenuta nel capo di imputazione ed, in
ogni caso, l’eventuale amovibilità non assumerebbe comunque
rilievo, essendo invece significativa la eventuale
precarietà dell'intervento, comunque non sussistente nella
fattispecie in esame.
L’art. 36 del T.U. n. 380 dispone, all'ultimo comma, che
sulla richiesta di sanatoria il dirigente o il responsabile
del competente ufficio comunale deve pronunciarsi entro
sessanta giorni dalla presentazione della domanda, poiché,
decorso tale termine, la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato
orientamento, una ipotesi di silenzio-rifiuto, al quale
vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito
di diniego.
I giudici di legittimità hanno osservato che la mancata
sospensione del procedimento da parte del giudice, inoltre,
in assenza di una espressa previsione normativa e non
configurandosi pregiudizi al diritto di difesa
dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la
sopravvenienza della causa estintiva nei successivi gradi di
giudizio, non determina alcuna nullità ed, inoltre, spiega i
suoi effetti esclusivamente con riferimento agli interventi
edilizi indicati nell'art. 36 del D.P.R. 380 e non anche ai
reati esclusi dagli effetti estintivi determinati dal
rilascio della concessione in sanatoria, quali quelli
concernenti le violazioni della disciplina antisismica e
sulle opere in conglomerato cementizio
(commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorso è inammissibile, perché basato su motivi
manifestamente infondati.
2. Va preliminarmente rilevato che le opere realizzate
devono essere apprezzate nella loro interezza, trattandosi
di intervento organicamente finalizzato alla sopraelevazione
ed
all'ampliamento di un preesistente edificio.
La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente
affermato, infatti, che l'attività
edilizia deve essere considerata unitariamente nel suo
complesso, senza che sia consentito
scindere e considerare separatamente i suoi singoli
componenti (Sez. 3, n. 30147 del
19/04/2017, Tomasulo, Rv. 270256; Sez. 3, n. 16622 del
08/04/2015, Pmt in proc. Casciato, Rv.
263473; Sez. 3, n. 1 5442 del 26/11/2014 (dep. 2015),
Prevosto e altri, Rv. 263339; Sez. 3, n.
5618 del 17/11/2011 (dep. 2012), Forte, Rv. 252125; Sez. 3 n.
34585 del 22/04/2010, Tulipani,
non massimata; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella, Rv.
247175; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci, Rv. 223365).
3. Ciò posto, occorre ricordare che l'art. 10, lett. a), del d.P.R. 380/2001 individua, tra gli
interventi edilizi soggetti a permesso di costruire, quelli
di nuova costruzione, la cui
descrizione viene fornita dall'articolo 3 dello stesso T.U.
nella lettera e), ove si specifica che
si intendono come tali tutti gli interventi di
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
non rientranti nelle categorie definite alle lettere
precedenti (che riguardano, lo si ricorda, gli
interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di
restauro e di risanamento
conservativo e di ristrutturazione edilizia).
La stessa disposizione specifica, poi, che sono comunque da
considerarsi come
interventi di nuova costruzione tutta una serie di opere
singolarmente indicate in un elenco la
cui natura è meramente esemplificativa e ricavata
utilizzando le qualificazioni operate dalla
giurisprudenza, come emerge dalla semplice lettura della
della relazione illustrativa al TU.
Ai suddetti interventi vanno poi aggiunti quelli
eventualmente individuati con legge dalle
regioni ai sensi del comma terzo del menzionato articolo 3 e
che, pertanto, in relazione
all'incidenza sul territorio e sul carico urbanistico, sono
sottoposti al preventivo rilascio del
permesso di costruire.
4. La ricorrente ritiene tuttavia sottratte al regime del
permesso di costruire le opere
realizzate, assumendo che le stesse sarebbero "amovibili".
L'affermazione, del tutto apodittica, è priva di fondamento,
come emerge chiaramente
dalla semplice lettura della descrizione degli interventi
eseguiti contenuta nel capo di
imputazione ed, in ogni caso, la eventuale amovibilità non
assumerebbe comunque rilievo,
essendo invece significativa la eventuale precarietà
dell'intervento, comunque non
sussistente nella fattispecie in esame.
Gli interventi edilizi precari, categoria già individuata
dalla giurisprudenza e dalla
dottrina con inequivocabile indicazione delle specifiche
caratteristiche, sono ora
espressamente menzionati dall'art. 6 del d.P.R. 380/2001 che,
nell'attuale formulazione, li
descrive al comma 1, lett. e-bis), come opere dirette a
soddisfare obiettive esigenze
contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse
al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non
superiore a novanta giorni, previa comunicazione di avvio
lavori all'amministrazione comunale.
In precedenza, il testo unico dell'edilizia conteneva
riferimenti indiretti, che riguardavano
gli interventi di cui all'articolo 3, comma primo, lettera e.5
e quelli per le attività di ricerca
descritti nell'articolo 6.
L'opera precaria, per la sua stessa natura e destinazione,
non comporta effetti
permanenti e definitivi sull'originario assetto del
territorio tali da richiedere il preventivo
rilascio di un titolo abilitativo e la giurisprudenza di
questa Corte ha costantemente
affermato che l'intervento precario deve necessariamente
possedere alcune specifiche
caratteristiche: la sua precarietà non può essere desunta
dalla temporaneità della
destinazione soggettivamente data all'opera
dall'utilizzatore; sono irrilevanti le
caratteristiche costruttive i materiali impiegati e
l'agevole amovibilità; deve avere una
intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente
precario per fini specifici, contingenti
e limitati nel tempo; deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione
dell'uso (cfr. ex. pl . Sez. 3, n. 36107 del 30/06/2016, Arrigoni e altro, Rv. 267759; Sez. 3, n. 6125
del 21/01/2016, Arcese, non massimata; Sez. 3, n. 16316 del
15/01/2015, Curti, non
massimata; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014 (dep. 2015),
Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n.
25965 del 22/06/2009, Bisulca, non nnassimata).
Ciò posto, deve rilevarsi che la evidente natura non
precaria dell'intervento e la
necessità, per la sua realizzazione, del permesso di
costruire, risultano adeguatamente
apprezzati dai giudici del merito in considerazione delle
caratteristiche e la destinazione
delle opere, realizzate in sopraelevazione di un
preesistente edificio, dotate di stabili impianti
elettrico ed idrico con creazione di nuovi volumi con vani
destinati ad uso abitativo ed adibiti
a stanza da letto e bagno.
5. Per quanto attiene, poi, alla tettoia, la quale, come si
è già detto, costituisce solo una
parte del complessivo intervento, è appena il caso di
osservare che la stessa compone
comunque, nella fattispecie, una parte dell'edificio su cui
è realizzata e rientrerebbe, in ogni
caso, nel novero delle nuove costruzioni di cui al d.P.R.
380/2001.
Integra infatti il reato previsto
dall'art. 44, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 la
realizzazione, senza il preventivo
rilascio del permesso di costruire, sul lastrico solare di
un edificio di un manufatto con
struttura in legno con funzioni di tettoia fissato al suolo
con piastre di ferro bullonate e
appoggiato sul muro parapetto, intonacato e rifinito con
cordolo in lastre di marmo e
copertura con travi e doghe di legno, trattandosi di
un'opera nuova avente una propria
individualità fisica e strutturale, e non di un mero
ampliamento di una struttura preesistente
(Sez. 3, n. 29252 del 05/05/2017, Luongo, Rv. 270435. V. anche
Sez. 3, n. 42330 del 26/06/2013,
Salanitro e altro, Rv. 257290 ed altre prec. conf.).
6. Per ciò che concerne, infine, la procedura di sanatoria,
del tutto correttamente la Corte del merito ha posto in
evidenza che, avuto riguardo alla data di presentazione
della
stessa, doveva ritenersi verificato il silenzio-rifiuto.
Invero, come già ricordato (Sez. U, n. 15427 del 31/03/2016,
Cavallo, Rv. 267042), l'art.
45 d.P.R. n. 380/2001 stabilisce, al comma 1, che l'azione
penale relativa alle violazioni edilizie
rimane sospesa finché non siano stati esauriti i
procedimenti amministrativi di sanatoria di
cui all'art. 36.
Tale articolo dispone, all'ultimo comma, che sulla richiesta
di sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale deve
pronunciarsi entro sessanta giorni dalla
presentazione della domanda, poiché, decorso tale termine,
la domanda si intende rifiutata.
Tale ultima evenienza configura, secondo un consolidato
orientamento, una ipotesi di
silenzio-rifiuto (Sez. 3, n. 17954 del 26/02/2008, Termini, Rv. 240234; Sez. 3, n. 33292 del
28/04/2005, Pescara, Rv. 232181; Sez. 3, n. 16706 del
18/02/2004, Brilla, Rv. 227960; Sez. 3,
n. 10640 del 30/01/2003, Petrillo, Rv. 224353), al quale
vengono collegati gli effetti di un
provvedimento esplicito di diniego.
La mancata sospensione del procedimento da parte del
giudice, inoltre, in assenza di
una espressa previsione normativa e non configurandosi
pregiudizi al diritto di difesa
dell'imputato, potendo questi far valere l'esistenza o la
sopravvenienza della causa estintiva
nei successivi gradi di giudizio, non determina alcuna
nullità (Sez. 3, n. 33292 del
28/04/2005, Pescara, Rv. 232181, non massimata sul punto)
ed, inoltre, spiega i suoi effetti
esclusivamente con riferimento agli interventi edilizi
indicati nell'art. 36 del d.P.R. 380/2001 e
non anche ai reati esclusi dagli effetti estintivi
determinati dal rilascio della concessione in
sanatoria, quali quelli concernenti le violazioni della
disciplina antisismica e sulle opere in
conglomerato cementizio (cfr. Sez. 3, n. 38953 del 04/07/2017,
Rizzo, Rv. 270792).
Si tratta di un principio pienamente condiviso dal Collegio
che va pertanto ribadito in questa occasione assicurandone
la continuità. |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI:
Partecipazione alle gare: l'errore nelle
dichiarazioni che fa scattare il reato di falso.
Ai fini della sussistenza dell'elemento psicologico é
sufficiente il dolo generico.
Un cittadino lombardo veniva ritenuto penalmente
responsabile del delitto di falso ideologico per aver
dichiarato, in una dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà diretta ad una Pubblica amministrazione in sede di
partecipazione ad una gara, l’assenza di condanne penali. La
sentenza di condanna era stata confermata anche in appello
nel 2017.
Con ricorso per cassazione il condannato denunciava il vizio
di violazione di legge in relazione all'art. 483 del Codice
penale avendo errato la Corte territoriale nel non
riconoscere che il comportamento da lui tenuto, integrativo
sotto il profilo materiale del delitto contestatogli, era
stato, invero, connotato da buona fede, essendo stato il
dichiarante tratto in inganno dall'assenza di annotazioni
pregiudizievoli contenute nel certificato del casellario
rilasciato ad uso del privato.
Con
sentenza 25.10.2018 n. 48898
la Corte di Cassazione (V Sez. penale) respingeva il
ricorso.
I giudici di Piazza Cavour, infatti, hanno richiamato
l'interpretazione consolidata resa dalla giurisprudenza di
legittimità, in tema di falsità ideologica in atto pubblico,
ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo,
ribadendo che ai fini della configurabilità dello stesso è
sufficiente il dolo generico, ossia la volontarietà e la
consapevolezza della falsa attestazione.
Poiché il contenuto della dichiarazione richiesta ai
partecipanti alla gara di appalto era analiticamente
scandito, quanto alla descrizione dei reati per i quali
l'interessato non doveva essere stato condannato, neppure
con sentenza pronunciata si sensi dell'art. 444 Cod. pen. e
recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il
ricorrente a dichiarare il vero: ciò a maggior ragione
perché questi era dotato di sufficienti strumenti culturali
per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima di rendere
l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto
verificare se le condanne riportate -delle quali egli era
del tutto consapevole avendo presentato istanza di
riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella
clausola del bando (commento tratto da
www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
Il ricorso è infondato.
1. Non coglie nel segno la censura che si dirige
sull'elemento soggettivo del
reato, del quale il ricorrente deduce la mancanza per essere
egli incorso in errore
sul fatto a causa dell'assenza di annotazioni
pregiudizievoli sul certificato del
casellario giudiziale rilasciato ad uso dei privati.
La
motivazione resa sul punto
dalla Corte territoriale non si presta, infatti, a rilievi
di sorta, atteso che, secondo
l'interpretazione consolidata resa dalla giurisprudenza di
legittimità, in tema di falsità ideologica in atto pubblico, ai fini della
sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo
generico, ossia la volontarietà e la consapevolezza
della falsa attestazione (Sez. 5, n. 35548 del 21/05/2013,
Ferraiuolo e altro, Rv.
257040).
Poiché nel caso al vaglio il contenuto della
dichiarazione richiesta ai
partecipanti alla gara di appalto era analiticamente
scandito, quanto alla
descrizione dei reati per i quali l'interessato non doveva
essere stato
condannato, neppure con sentenza pronunciata ai sensi
dell'art. 444 cod. pen. e
recante il beneficio della non menzione, tanto obbligava il
ricorrente a dichiarare
il vero: ciò a maggior ragione perché questi era dotato di
sufficienti strumenti
culturali per comprenderne il tenore e, in ogni caso, prima
di rendere
l'attestazione di cui alla contestazione, avrebbe dovuto
verificare se le condanne
riportate -delle quali egli era del tutto consapevole
avendo presentato istanza di
riabilitazione- fossero o meno tra quelle elencate nella
clausola del bando.
2. Del pari destituita di fondamento è la doglianza con la
quale si
stigmatizza l'assenza di motivazione in punto di richiesta
di applicazione
dell'istituto di cui all'art. 131-bis cod. pen..
Giova
ribadire che questa Corte si è
già condivisibilmente espressa nel senso di ritenere che
l'assenza dei presupposti
per l'applicabilità della causa di non punibilità per la
particolare tenuità del fatto
può essere rilevata anche con motivazione implicita (Sez. 5,
n. 24780 del
08/03/2017, Tempera, Rv. 270033; Sez. 3, n. 48317 del
11/10/2016, Scopazzo,
Rv. 268499).
Deve, infatti, ravvisarsi, nel passaggio della
motivazione della
sentenza in cui la Corte di appello ha ritenuto che il
ricorrente avesse addirittura
approfittato della circostanza che le risultanze del
certificato del casellario
giudiziale tacessero delle condanne subite per i delitti di
bancarotta fraudolenta
continuata e per il delitto di corruzione in concorso per
atto contrario ai doveri
dell'ufficio -confidando nel fatto che, a causa di ciò, gli
eventuali controlli attivati
dalla stazione appaltante a seguito della dichiarazioni resa
non avrebbero sortito
alcun effetto-, un'implicita esclusione della particolare
tenuità del fatto in
ragione delle peculiari modalità della condotta,
caratterizzata dalla fraudolenza
del silenzio serbato.
3. Il rilievo che deduce la preterizione della disamina del
motivo di appello
riguardante la concessione delle circostanze attenuanti
generiche in regime di
prevalenza non tiene conto dell'insegnamento costantemente
impartito da
questa cattedra nomofilattíca secondo cui la nozione di
mancanza di
motivazione, di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), cod.
proc. pen., si riferisce
all'assenza dei necessari passaggi e delle argomentazioni
indispensabili al fine di
rendere l'intero iter logico seguito comprensibile,
verificabile da parte del giudice
sovraordinato e completo in ordine alle risposte da dare
alle istanze rilevanti e
pertinenti avanzate dall'interessato, con la conseguenza
che, ove la sentenza dia, comunque, contezza adeguata del
percorso logico seguito dal giudice e
possa desumersi dal documento che le questioni devolute
siano state in concreto
esaminate, la censura articolata sul punto si sottrae ad
ogni conseguenza
sanzionatoria (Sez. 4, n. 6499 del 21/04/1994, Massetti, Rv.
198050).
Dalla regula iuris enunciata deriva, quindi, la legittimità della
statuizione negatoria
adottata sul punto, dovendosi la stessa ritenere
efficacemente sorretta dalle
argomentazioni complessivamente sviluppate in ordine alle
modalità decettive
della condotta, ritenute, con valutazione insindacabile in
questa sede, quali
elementi fattuali preponderanti ai fini dell'esclusione di
un più mite trattamento
sanzìonatorio (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli,
Rv. 271269; Sez. 2,
n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163). |
inizio
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